Corrispondenza (più che succinta)

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GEORGES BATAILLE Corrispondenza (più che succinta)

Circolo del Libro Vizioso 2021

Né intima né, spessissimo, “intellettuale”, la corrispondenza di Bataille è immediata. Obbediente alle necessità che la vita ed il lavoro pongono al suo autore: obbediente alle necessità davanti a cui lo pone l'azione. L'immediatezza della corrispondenza di Bataille risponde al sentimento d'urgenza che l'anima (ogni lettera ne porta, in tutti i sensi del termine, qualcosa d'irremissibile). Vi si legge subito quel che pure è e di cui l'opera, in complesso, testimonia ben poco: un propagatore d'idee e d'idee immediate. Immediate nel senso che l'idea non vi si distingue mai dall'azione. Solo di questo si tratta nella corrispondenza: che ad ogni idea risponda un'azione in virtù della quale l'idea sarà ciò che deve essere: il mezzo per propagare un'agitazione (fosse pure di tipo meditativo o mistico). A Bataille piacerà ripetere sul finire della sua vita di essere un

enragé. C'è della rabbia in effetti nella volontà che s'adopera affinché il pensiero sia immediatamente efficace. Queste lettere concedono uno spazio considerevole al lavoro e al denaro. Non mancheranno di stupire (Bataille è anche il teorico senza pari del consumo improduttivo). Non stupiranno però evitando il richiamo dell'idealismo. Tutte le lettere in cui Bataille parla di denaro parlano per lui della necessità in cui s'è trovato per tutta la vita e a cui nessuna delle varie attività professionali (bibliotecario, soprattutto) è riuscita a sottrarlo. Una certa sociologia degli intellettuali sottostima in genere -senza dubbio per paura della trivialità- la necessità cui tanto spesso sono ridotti gli scrittori e la parte considerevole che i loro lavori debbono alla preoccupazione di farvi fronte. Occorreva, nel caso di Bataille, che tale trivialità apparisse, e che apparisse senza sotterfugi. Le richieste di denaro di cui sono colme tante lettere della seconda parte della sua vita lo testimoniano pesantemente: obbedendo così al desiderio nutrito per tutta la vita da Bataille che le cose -comprese quelle più degne- potessero essere considerate bassamente.

GEORGES BATAILLE Corrispondenza (più che succinta)

Circolo del Libro Vizioso 2021

Quella che segue è una scelta di lettere ricavata dal volume: Georges Bataille, Choix de Lettres 1917-1962, Gallimard 1997, curato da Michel Surya. Edizione particolare per le cure di Maurizio Bianchetti

A Marie-Louise Bataille [Madrid, febbraio-giugno 1922] Cara Maria-Louise ⁽¹⁾, adesso è assolutamente certo che mi trovo a Madrid e non, come potresti pensare, nell'entusiasmo o nella desolazione, ma in quello stato incerto caratterizzato dal fatto di non comportare né entusiasmo né desolazione. D'altra parte, di tutta evidenza, è una condizione molto sgradevole. Deriva dal fatto che in nessun momento del giorno riesco a provare il minimo piacere quando vedo il volto di qualcuno. Non c'è modo di piangere poiché questa assenza soltanto alla lunga stanca. Non si piange mai in mancanza di risa eppure si soffre...

La mia missione scientifica è ben avviata poiché, meraviglia, vengo scoprendo una scienza nuova e vera, il che è degno di gioia, degno di rallegramenti. La maggior parte delle persone sogna in maniera sprovvista di carattere scientifico, di metodo. La qual cosa è, a dirla schietta, una calamità generale. Ci sono metodi per aspirare il fumo del tabacco, e dell'oppio, per apprezzare il sapore dei [parola illeggibile] e delle strane miscele di caffè e non ce ne sarebbero per lasciarsi impregnare profondamente da un sogno? Non ce ne sarebbero per immaginare dei baci ardenti e dei crepuscoli profumati osservando figure non più espressive di un boccale di birra o una normale cravatta? Perciò pazientemente m'invento un metodo che mi faccia sognare nelle circostanze più umili. Se avverti il bisogno di una trascrizione materiale di questi stati d'animo, un giorno ti darò soddisfazione. Ti abbraccio. Georges Bataille

1. Cugina di Bataille.

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A Colette R. [Estate-Autunno 1922] Eccomi un po' rincuorato e, non più del tutto abbandonato, in via di ripresa. Non so bene perché, spero che questo duri. Per niente al mondo desidero lasciarmi andare a sentimenti insopportabili. Ma non posso scrivere questa lettera per farvi cosa gradita, non posso allontanare, per il momento, un bisogno molto egoista. Credetemi: se un mese fa voi non foste stata ciò che proprio per me avete voluto essere, vale a dire un'amica buona ed affettuosa, senza dubbio avrei pensato di uccidermi ed è possibilissimo che l'avrei fatto. Che un po' voi ridiate (per scetticismo), che protestiate (accusandomi di stupidità e puerilità), questo per un momento può passarvi per il capo. Ma

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se vi fermaste a riflettere sul carattere puramente eventuale delle ragioni che fanno vivere e anche sulla superstizione timida e puerile che è l'unico ostacolo per smettere, allora già la pensereste diversamente. Posso così dirvi, come ad un'amica, che è troppo crudelmente che sono stato trattato dalla sorte da due mesi in qua. Quanto sono esausto! Vi assicuro, molto semplicemente, che ho bisogno della vostra amicizia. Ve ne supplico. Da voi non ricevo lettere e attendendo invano, divento inquieto ed abbattuto: la vita si è del tutto ritirata fuori di me. Non posso più sopportare l'angoscia che mi abita. Quanto mi sento umiliato scrivendovi così, come un diseredato! Va a sapere se non rischio di strapparla, come prima ne ho strappata un'altra senza alcun motivo. Ma Dio mi preservi stavolta da questo gesto maldestro, poiché non riesco proprio ad immaginare amarezza più grande. Rimpiango l'altra lettera che avevo quasi completato otto giorni fa e che era allegra. Questa di certo mi pone ancor più fuori di me stesso. Quanto mi umiliate! Credetemi quando dico che soffro per tutto quel che in me c'è di egoista e brutale. Disgraziatamente, il dolore non è solo odioso per chi lo avverte ma pure

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per chi lo osservi. E quanto è duro l'essere costretto a inviarvi questa lettera folle e sgradevole perché se la distruggessi, il che è ancora possibile, soffrirei ancora come in precedenza e questo non ho neppure il diritto di accettarlo. Perdonatemi allora se mi precipito in posta per evitarlo ad ogni costo. Ma scrivetemi immediatamente. Ve ne supplico. Non parlate della mia stupidità. Scrivetemi come se non avessi mai scritto tutto questo. Non umiliatemi ancora di più. Sono straziato. Georges Bataille

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A Colette R. [Estate-Autunno 1922] Vi invito a leggere (o rileggere) Paludi di André Gide non appena potrete trovare il libro. Per prima cosa, è un'opera che deve essere bella per voi quanto lo è per me. Ma se le attribuisco un'importanza decisiva è a causa di un dettaglio molto curioso. Ricorderete che vi avevo dato da leggere, due anni fa, una ventina di brutte poesie. In genere, queste carte, quando le ritrovo, m'irritano parecchio (o almeno, la maggior parte d'esse). Ma ciò che m'irritava forse ancora di più era un'altra poesia scritta poco tempo dopo, in un momento in cui ero molto triste e folle (indovinate perché senza nessun aiuto da parte mia). Non riuscivo più a capire quella poesia. Non ritrovavo più l'impressione che avevo desiderato esprimervi. E

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poiché l'espressione era violenta mi trovavo quasi a disagio a causa della sproporzione tra quell'espressione parecchio distorta ed il vuoto. L'unico ricordo che ne avevo era d'aver scritto con più sincerità ed emozione di qualunque altra cosa, sia perché sentivo quel che scrivevo sia per l'amore che mi ispirava e che era davvero il più puro che abbia conosciuto. Era straziante, credetemi, sentire soltanto il ridicolo di quei versi che tuttavia bisognava che conservassi più preziosamente degli altri. Ma ora li ho bruciati perché ho letto Paludi e ho potuto capirli di nuovo. È soprattutto alle pagine tra 118 e 123 (se non erro) dell'edizione della Nouvelle revue française che ho potuto cogliere l'emozione violentissima che ho provato scrivendola. Il ridicolo causato dalle mie esclamazioni barocche mi pareva adesso comprensibile, perché lo stile era assai brutale e l'espressione così oscura che sarebbe stato necessario trovarsi prima in quello stato emotivo per capire di quale angoscia si trattasse. Se doveste trovar subito un esemplare di Paludi sarebbe superfluo esprimere ciò di cui si tratta ma poiché questa lettera potrebbe risultare troppo oscura dirò che André Gide vi ha

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descritto la tristezza provocata dall'inconsistenza della vita di molte persone. Come vedete attribuisco molta importanza a cose da niente. Non sarà però cosa da poco se voi avvertirete la bellezza del libro di André Gide e se per caso ricordate quale profondo desiderio ho provato tempo fa, allora anche voi lo conoscerete come successe a me. Scusate questa lettera la cui bizzarreria stupisce pure me. Potreste vedervi soprattutto la mia amicizia verso di voi? Georges Bataille

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A Colette R. [Autunno 1922] Nella mia ultima lettera era tanto evidente il disordine mentale? Non me ne ricordo a sufficienza. Tuttavia mi colpisce che ne siate rimasta inquietata. In verità, ne sono stato soprattutto ferito. Adesso sono portato ad attribuirvi gratuitamente una certa perspicuità. Che d'altra parte senza dubbio non possedete ancora. Scusatemi se da me traspare così tanta amarezza. E dico scusatemi -di certo non è che un preambolo!perché poi che bisogno di scuse ho al momento? La mia frase somiglia a quella di un signore a cui qualcuno stringesse la gola con i pollici e che dicesse: “Oh, scusate se urlo così forte”. Non è un poco ridicolo, un poco affettato? Ve ne prego, rispondetemi subito, qualsiasi cosa. Forse siete stanca, malata. Perché importunarvi?

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Beninteso, nella frase di prima, non intendevo che siate voi a premermi i pollici sulla gola. Ah, no di certo! Del resto mi viene in mente che questa lettera può solo farvi pena. Il che non m'aggrada. Vorrei soprattutto che non foste troppo sgradevolmente colpita dall'arroganza che non posso evitare – o dal fatto che soffro. Sì, scrivetemi, poiché pur se in questi momenti in cui la sofferenza è eccessiva si pensa che possa terminare su di un ponte, in genere si prende una dilazione, dal momento che per agire così c'è sempre tempo. E poi, se vi scrivo, è perché la dilazione c'è già stata. E notate l'importanza della transazione: si sa che il rinvio corrisponde, in linea generale, alla vita salva: e allora? Più semplicemente, scrivervi è già agire da vero vivente. È una contraddizione che implica almeno, per qualche tempo, il non-valore dei miei progetti. No, mi piacerebbe che non aveste a soffrire per questa lettera. Quindi preciserò qualcosa. Se da subito avete avuto una comprensione della mia miseria che sia davvero grande, davvero elevata, se non avete obbedito per nulla alla bassa idea che spinge ad attribuire sia a debolezza, sia a disordine dell'immaginazione, ecc. il crollo di cui parlo, bisogna che me lo diciate, mi farebbe piacere. Ma se, al contrario, vi è venuta

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quell'idea meschina di spiegazione, anche per un solo momento, se ad esempio avete esclamato: ma insomma, è ridicolo, o non ci si capisce niente, oppure il ragazzo va fuori di testa – capite, insomma, quel che intendo- sarei contento se me lo confessaste umilmente e, inoltre, potreste chiedermi di perdonarvi? E poi posso dirvi, già che ci sono, qualcosa al cui riguardo ferirmi è cosa proprio crudele. Mi arrabbio quando si attribuiscono (o immagino che si attribuiscano) le mie esuberanze o la mia stravaganza alla follia. E comprenderete agevolmente che su questo punto sono ombroso. Innanzitutto vi vedo una sorta di mancanza di rispetto verso le uniche cose cui si rivolge da parte mia il solo rispetto che professo. Voglio dire la passione febbrile, l'inquietudine spirituale e il desiderio. Così, veder in qualche grado spiegare queste virtù mediante una spiacevole degradazione mi urta un poco come se ad un cattolico si parlasse rozzamente del santissimo Sacramento. D'altra parte, ho esperienza personale della vera follia e dovete ammettere che è penosa poiché, in successione, ho visto mio padre e mia madre diventare pazzi. E, mio dio, con ciò vi offro una grande tentazione per comprendermi, ahimè, in maniera quanto mai offensiva. Ma solo una tentazione,

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credo, perché è la morfina che gli hanno dato ad aver distrutto la ragione di mio padre e per favore dispensatemi dal riportare le circostanze in cui mia madre fu malata, a motivo del loro carattere tragico. Aggiungerò soltanto che talvolta avvengono concatenazioni di sciagure così penose che metà delle persone potrebbe soccombervi. Comunque stiano le cose, riconoscerete che è legittimo che mi rattristi miseramente quando si prova a sospettarmi di non avere una mente molto posata. Perché, davvero, si può sapere come comportarsi sul proprio conto, conoscere la totale inanità dei sospetti; tuttavia, certi ricordi possono renderli ancora più offensivi. Capite che il caso è particolare: così un tempo ho amato la figlia del medico che curava mia madre ⁽¹⁾ -bene, per questo motivo, egli ha fatto tutto il possibile per impedire un matrimonio e c'è riuscito benissimo. Immaginate solo con che spavento ho potuto considerare la mia vita in tale circostanza. È vero che da allora si è reso conto di aver avuto torto. Ma tuttavia io ho passato brutti momenti. Quel giorno, comunque, la ragazza che amavo, almeno, su di me non ebbe alcun dubbio -comunque la vediamo. A tal proposito, volete, se dobbiamo

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veramente essere amici, non parlare più di me a R. se non superficialmente? Da parte nostra, così ci comportiamo al vostro riguardo. Riuscirete a capire questa lettera? Non lo so. Forse dovrei esprimermi più chiaramente, dirvi senz'ambagi che non ho mai provato sofferenza più completa di quella presente. Il fatto è che la sofferenza di una vita troppo parsimoniosa è ben grande quando si sia già provata un'esorbitante prodigalità. Perchè essere povero non è niente, mentre perdere tutto genera pietà. E quanto al coraggio, ah, diffidate da quella sofferta resistenza che alla fine sfocia sempre in una triste resa. Per ultimo, se volete comprendere il male di cui soffro o meglio come soffro è presto detto: ho scritto questa lettera ma avverto il senso abominevole della sua inutilità e, ripetendomi amaramente che non c'è nulla da fare e che non si sia [?] da sé solo (il che forse è più nauseante dell'inferno) passerò a strapparla? Georges Bataille

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1. Marie Delteil, figlia del dottor Delteil.

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A Michel Leiris [1924] Caro amico, continuate ad annoiarvi? Io sono troppo solo per prendere sul serio le storie di tedio per quel che mi riguarda. Le influenze che si subiscono a Parigi per amicizia o per altre ragioni sono cose da imbecilli. Se mi esprimo dicendo qualcosa di differente da quanto ho da dire, credete a me: vale a dire che tali storie rimangono ingarbugliate. Non penso neppure che le semplificazioni estreme cui pervengo significhino alcunché, ma non faccio fatica a sapere come venire a capo di tutte le prospettive cui si finisce per credere a Parigi. Beninteso, non si tratta ancora di procedure confessabili ma se a forza d'ipocrisia si rischia soltanto

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la convinzione, in caso di sconfitta, d'essere giunto al colmo del ridicolo, preferisco giocare perdendo, ci sono abituato. Evidentemente, nulla di più conseguente che, per esempio, scrivere questa pagina. Con viva amicizia, Georges Bataille

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A Michel Leiris [1925] Caro amico, come mi capita abitualmente dopo avervi incontrato, sono rimasto sul serio avvilito ieri sera, ma stavolta con una cattiva coscienza, vale a dire perché mi trovavo in uno stato d'animo deplorevole tanto da disprezzare me stesso. Mi rendevo chiaramente conto che ero solo un eclettico e un opportunista e sul momento mi pareva che niente potesse essere più spregevole. Non esito oggi, al contrario, a protestare che il mio errore consiste nella tendenza a ritrovarmi nel torto e in particolare con voi, senza dubbio perché non ho sufficiente coraggio ed anche per affetto verso di voi. Vedo anche, per l'appunto, nelle mie possibilità

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d'eclettismo e d'opportunismo, che dopo tutto per me sono solo armi al servizio d'una intransigenza senza riserve, il principale motivo per sperare che gli sforzi attuali vadano a buon fine. Rimane da stabilire fin dove sia possibile arrivare su questa strada. Ieri ho riconosciuto ch'era possibile che mi fossi spinto troppo lontano. Tuttavia non si tratta che di una delusione molto relativa ed il solo torto che mi riconosca, in questa circostanza, è d'aver cominciato per questo verso, ma così è capitato. Avrei preferito evidentemente rinviarlo a dopo ma, ad un dato momento, mi sarebbe parso di indietreggiare se avessi vuto la pazienza di aspettare e non ho esitato davanti a quel che vi sarebbe certamente sembrato impossibile o pericoloso. Quanto ai principi da adottare una volta per tutte per questo genere di possibilità, a mio avviso è necessario fissarli il più rapidamente possibile: suppongo che siate un poco inquieto a tal riguardo ma vi chiedo caldamente di pazientare fino a che possa esporvi chiaramente il mio modo di vedere ⁽¹⁾. Se le mie lettere, o ciò che scrivo, valgono all'atto pratico più di quel che dico, non credo in fin dei conti che sia tanto perché la scrittura non liberi abbastanza

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la contraddizione, ma perché il mio disgusto naturale per tutto quanto è preciso e persuasivo ha la meglio quando stiamo insieme ed allora penso senza convinzione e senza saper bene cosa voglio dire. Con amicizia, Georges Bataille

1. Possibile allusione al progetto, coltivato per qualche tempo da G. Bataille, M. Leiris e Georges Lavaud, tramite il quale i due si erano incontrati, di costituire un movimento denominato Sì “che implicava una perpetua acquiescenza a tutte le cose” superiore dunque a dada, il cui No, secondo Bataille, non era “abbastanza idiota”. Progetto che non ebbe seguito.

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A Raymond Queneau [Boulogne-sur-Seine] 10 aprile 1932 Caro Queneau, è tardi per scriverti. Sto qui come un imbecille in attesa che i soldi piovano e loro non piovono. Sono ancora costretto ad aspettare ⁽¹⁾. Rinuncio del tutto a qualsiasi viaggio per svariati motivi. D'altra parte qui il tempo è orribile, freddo come l'anno scorso con molta più neve. Oggi un po' meno brutto, ma ancora freddo. Passo il tempo come nel vuoto, come se mancasse qualcosa. A presto, a Parigi, e i miei saluti a Janine e a te.

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Georges Bataille

1. Bataille per tutta la vita ebbe problemi finanziari. Tuttavia sembra che non giunsero mai al punto di gravità toccato nel 1932 quando comportarono, il 12 luglio, un sequestro conservativo degli oggetti del suo appartamento di avenue de la Reine, 24, a Boulognesur-Seine per affitto non pagato.

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A Michel Leiris [Ottobre 1932] Mio caro Michel, se non ti ho scritto, non è dovuto a negligenza ma al fatto che ho già scritto una lettera e mi ha infastidito. Se deve esserci qualcosa di apprezzabile per te, è il fatto di non aver più nulla in comune con le passate preoccupazioni, se ti si scrive, è impossibile allontanarsi di molto dalle preoccupazioni che ti si attribuivano e che sono, dopo tutto, l'unica cosa che di te si sappia, a parte il fatto che asfissiavano pure te. Mi hai scritto (ma la lettera risale al primo maggio) che continua a farti schifo che le persone non siano altro che ciò che sono ⁽¹⁾: non provo meno disgusto di te. È tutto ciò che posso dire. Ma forse quel che c'è di più

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ripugnante è che i rapporti che si hanno con le persone avvengono sempre conformemente a convenzioni tali da escludere tutto quel che potrebbe essere altro. Fatico a supporre che i rapporti epistolari facciano eccezione. Capisco male anche la tua ironia verso i progetti “grandiosi” (un altro passo della tua lettera che hai scordato da cinque mesi) ⁽²⁾. Ritengo che in questa società europea così perfettamente istupidita, si sia altrettanto obbligati a formare un progetto per uscirne e non solo in modo episodico. Se il mio progetto è idiota, vano, o anche grandioso, tanto peggio, ma per conto mio non accetterò mai d'essere incorporato in una confraternita senile di chiacchieroni e storditi. Lo dico il più schiettamente possibile e per nulla aggressivamente perchè non penso che tu ne abbia più voglia di me. Meglio crepare che diventare una delle loro illustrazioni, anche di second'ordine (ma non è un motivo per comportarsi da idiota pretenzioso col pretesto che dicono serva del prestigio). Tutte queste domande, d'altronde, devono sembrarti ben distanti, dal momento che in effetti vengon poste soltanto qui. Vale a dire nel luogo da cui in definitiva

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dipendiamo ma dove tu hai avuto la fortuna di non trovarti da un bel po' di tempo. Con tanto affetto. Georges

1. Leiris aveva scritto: “Sai con quanta acrimonia posso rimproverare i miei migliori amici di non essere altro che ciò che sono. Non che pensi, in fondo, che sarebbero meglio essendo altro, ma per semplice voglia di cambiamento. Tu, più di altri, l'hai sperimentato” (1 maggio 1932). 2. Ancora Leiris: “E che abbiamo come grandissimi progetti? Non molto, penso; tutto il mio plauso per il coraggio e la totale ammirazione verso uomini tanto poco provati” (stessa lettera).

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A Pierre Kaan [14 febbraio 1934] Caro Pierre ⁽¹⁾, dato che i dolori al piede ricominciano non appena cammino un po', domani non potrò recarmi al Cercle. Sarò molto felice di vederti. Potresti telefonarmi? Potresti anche chiedere a Kelemen e a Dautry ⁽²⁾ di telefonarmi? Non penso di rimanere a lungo in casa, ma quando uscirò sarà quasi solo per andare in Biblioteca e tornare. Mi dà parecchio fastidio nelle circostanze attuali l'essere diventato quasi impotente ⁽³⁾. È evidente che tutte queste storie esigono che si prenda immediatamente partito e il relativo isolamento in cui mi trovo non mi facilita le cose.

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Non sono stato colto alla sprovvista, ma speravo che le cose andassero meno speditamente. Se si abbandonano le posizioni tradizionali, ci si trova in presenza di difficoltà e complicazioni d'ogni sorta: finora non vedevo nessuno svantaggio nel ritardare l'elaborazione di un vero programma che avrebbe dovuto essere perfezionato con degli scambi di pareri; ora, questi scambi di vista richiedono parecchio tempo dal momento che si entra in tanti in un mondo nuovo solo con lentezza. Ma oggi bisogna scegliere. Sul carattere arcaico ed insostenibile delle posizioni tradizionali non ho nemmeno un'ombra di dubbio. Volerle difendere mi pare assurdo quanto voler difendere una fortezza del tipo Vauban. Ma quando le persone sono malgrado tutto mosse da reazioni difensive, è possibile passare ad altre posizioni? E, soprattutto, sono poi possibili oggi altre posizioni? La prima difficoltà mi sembra trascurabile: credo che nelle attuali circostanze i risultati rischino d'essere più diffusi e meno intensi. Ma sono meno sicuro che esista fin d'adesso una nuova possibile posizione.

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Non ho dubbi quanto al piano su cui dovremmo porci: esso non può essere che quello del fascismo stesso, vale a dire il piano mitologico. Si tratta dunque di porre dei valori che partecipino di un nichilismo vivente, a misura degli imperativi fascisti. Questi valori non sono stati ancora posti ed è possibile porli, ma forse è ancora impossibile sapere come andrebbe fatto. Porre insieme a questi valori la loro portata eversiva, vale a dire dar loro un significato aperto, equivale allo stesso tempo al privarli di ogni possibilità di circolazione là dove il fascismo si sia installato. Porli dissimulando ed anche negando la loro portata -come succede spontaneamente nella maggioranza dei casi, in maniera conforme alla struttura psicologica (è raro che le cose sovversive si diano come tali, per esempio il cristianesimo primitivo) -tale soluzione è ancora fuori posto nel mondo attuale. Non rimane che seguire le forti tendenze che spingono a procedere apertamente, ma con la coscienza che si perde in possibilità di penetrazione e sviluppo quel che si guadagna in intensità. Cordialmente, Georges Bataille

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1. Pierre Kaan, collaboratore di Critique Sociale e partecipante al Cercle communiste démocratique animato da Boris Souvarine. 2. Imre Kelemen, di origine ungherese, e Jean Dautry, altri membri del Cercle. 3. “Da tutte le parti, in un mondo che cesserà presto d'essere respirabile, si stringe di più la presa fascista” annota Bataille il 13 febbraio 1934.

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A Michel Leiris [Parigi, aprile 1935] CHE FARE DI FRONTE AL FASCISMO DATA L'INSUFFICIENZA DEL COMUNISMO? Ci proponiamo di riunirci per considerare insieme i problemi posti a coloro che adesso, radicalmente opposti all'aggressione fascista, ostili senza riserve al dominio borghese, non possono più fare affidamento sul comunismo. Vi invitiamo a partecipare alla riunione che avrà luogo lunedì 15 aprile, alle ore 9 di sera al Café du Bel-Air (Métro: Bienvenue). Georges Bataille, Jean Dautry, Pierre Kaan

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[Seguono sul volantino queste righe di mano di Bataille] Caro Michel, t'invio questo foglio anche se già lo conosci. Vorrei che non ci fossero malintesi: in questa storia è tutto molto semplice, necessario anche, nel senso che quanto viene pubblicamente esposto è più conseguente di quanto viene detto nelle conversazioni. Confesso che spesso resto un poco stupito da quel che mi dici su tali argomenti. Non vedo perché noi potremmo considerare le cose diversamente da tutti gli altri. Tutto è semplice, molto semplice. Se le riunioni sono potute sembrare inutili, è perché nessuno aveva niente da dire e non perché erano delle riunioni. Quanto a ciò che è possibile o impossibile, al giorno d'oggi è come sempre: basta volere, ma è vero che si vuole solo quando si è costretti. Quanto ai problemi di persone, ci tengo a voltar loro le spalle di proposito. Per carattere, non rischio di essere “utilizzato” da qualcun altro. Sono le persone che sanno chiaramente ciò che vogliono ad utilizzare gli altri e non il contrario. D'altra parte, non si tratta di

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simili questioni al momento, ma soltanto se sia possibile aiutare le persone a prendere coscienza di quanto le fronteggia e ad impedir loro, se è possibile, di scegliere la parte delle marmotte. Con amicizia, Georges Ho consegnato a Queneau un testo uguale ma per semplice scrupolo di coscienza, senza pensare seriamente che possa venire e senza augurarmelo.

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A Pierre Kaan [Fine settembre-inizio ottobre 1935] Caro Pierre Kaan, la tua lettera prova fino a qual punto siamo vicini. Non penso di essermi spiegato abbastanza chiaramente sullo scopo di questi schizzi preliminari. Per me si trattava di tirar fuori un testo in grado di mettere d'accordo un certo numero di persone, dare indicazioni sufficienti ma ancora vaghe quanto al possibile rinnovamento delle forme politiche, riservando in tutti i casi ogni possibilità di sviluppo al riguardo. Credo di essere riuscito nei tre punti. Per contro, non c'è nulla che possa permettere di resistere ad un' interrogazione un poco seria e, di conseguenza, mi pare urgentissimo stendere un testo

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che risponda il più completamente possibile all'inquietudine da te manifestata. Avrebbe giovato di più cominciare da qui e questa era la mia idea iniziale. Ma la cosa presentava due inconvenienti. Il primo è che dovevo, in quel caso, ritardare questo tentativo, non essendo pronto. Difatti, essendomi impegnato prima di aver finito di redigere il testo in questione, sono stato obbligato a improvvisare le righe che ti mettono a disagio. Il secondo inconveniente è che il testo che preparo avrà un carattere personale, sarà firmato solo da me e sarà costoso da stampare... Se vuoi, sono stato spinto quasi fatalmente a far precedere un attacco relativamente pesante, più sicuro ma più lento, da un attacco rapido, che d'altronde presenta dei pericoli. Inutile dirti che non vedo l'ora di riuscire a mettere in piedi qualcosa di molto serio. Ora vorrei terminare quel che ho iniziato e conto di farlo entro una quindicina di giorni. Subito dopo vorrei far dattilografare il testo, darne copia a cinque o sei persone, soprattutto della Sinistra rivoluzionaria, che adesso comprende gente come Collinet, Lefeuvre, ecc. e dar luogo ad una riunione con molto contraddittorio (sarebbe invitato anche Rosen, ecc.).

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A questo penso adesso. Per riuscirci, conto di lasciare Parigi (è difficile scrivere qualcosa di serio nelle condizioni in cui vivo a Parigi). A grandi linee, dovrei andare in Spagna, ma è probabile che il viaggio in Spagna incontri parecchi ostacoli. D'altra parte, è evidente che un testo come quello cui penso sarebbe molto più valido se fosse un risultato di una collaborazione. Se potessi trascorrere qualche giorno con te a Bar-sur-Aube, la cosa si farebbe parecchio interessante. Mi è difficile proporti d'andare ad alloggiare in albergo per due ragioni, la prima è che l'albergo è caro, la seconda, lo confesso, è che, avendo tanto bisogno di riposo fisico, nervoso soprattutto, un soggiorno in un albergo del tipo di quelli presenti a Bar-sur-Aube un poco mi spaventa. Suppongo che sarebbe possibile accordarmi con Marie per consegnarle l'equivalente delle spese sostenute a causa mia. Ma rimane da sapere se il sovrappiù di lavoro che così provocherei non comporti inconvenienti gravi per Marie. Scusami per questa proposta indiscreta ma so che mi risponderai in tutta semplicità (sono in permesso a partire dal I novembre, ma la data precisa non è importante). Non sono peraltro sicuro, dopotutto, di

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non essere praticamente obbligato ad andare in Spagna. Solo che è poco probabile. Sottolineo soltanto un punto della tua lettera (i tre seguenti che riguardano l'espressione dittatura del popolo, la politica riguardo al Front populaire e il tema del nazional-comunismo dipendono da precisazioni ulteriori di cui già conosci la natura). Ho dato un'espressione molto poco intellegibile a quel che penso della lotta di classe poiché non potevo, senza rischiare di cadere in oscurità, esprimermi chiaramente su quel punto. Ho cercato, in un testo meticoloso e preciso, delle formule che rispettino il mio pensiero nella sua integrità. Si tratta di un procedimento cui sono stato costretto. Tuttavia, essendomi già espresso su tal punto (più di due anni fa nella Nozione di dèpense) sarebbe impossibile considerare un tal procedere come un tranello. Non ho detto che la lotta di classe era il fattore storico essenziale. Non ho detto che essa fondava i valori morali ma dei valori morali essenziali. Il riconoscimento della lotta di classe come fattore storico significa per me che, essendo il mondo diviso tra chi considera la lotta di classe come un fattore

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della costruzione sociale rivoluzionaria e di progresso storico e chi vi vede solo un male da combattere, noi non possiamo che schierarci, senz'ombra di esitazione, dalla parte dei primi. Quanto ai valori morali ch'essa mette in gioco, essi sono quelli che ho descritto nella seconda parte della Nozione di dèpense. Nulla di ciò significa che si debba considerare la lotta di classe come una risorsa dinamica sufficiente, nel nostro caso, per decidere della situazione. Si tratta di passare a forme nuove che non la neghino e che beneficino della sua forza latente. Ma che allo stesso tempo ne contrastino la ristrettezza di spirito. Come vedi, non è tutto chiaro, e non si capiva facilmente. Sospetto perfino che tu sia spinto a protestare contro l'oscurità di queste frasi. Forse capirai solo se ti riporterai non al senso formale delle parole ma agli “stati d'animo” che sono possibili e che possono diventare il principio di una posizione rivoluzionaria attuale. Posso contare su una tua risposta veloce? Scusami... Cari saluti a te e Marie. Georges Bataille

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A Alexandre Kojève 76 bis rue de Rennes [ottobre-inizio novembre 1935] Caro amico, Corbin mi ha detto che il vostro corso ⁽¹⁾ sarebbe ripreso verso il 20 novembre e certamente ci rivedremo per quella data. Vi invio un testo ⁽²⁾ per certi aspetti, “hegelianamente”, in rapporto con quanto dicevo qualche mese fa. Mi piacerebbe sapere ciò che pensate di un simile tentativo (che avrà evidentemente un senso solo nella misura in cui delle parole saranno tradotte in atti nelle strade). Quel che mi interessa in particolare, nel rivolgermi a voi, è il fatto che molti tra noi alla fine sono dei marxisti che aspirano a risalire alle “fonti spirituali di Marx”. C'è qualcosa che ci pone come

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diretti interessati al vostro tentativo di interpretazione di Hegel. Sarei desideroso d'incontrarvi a tal riguardo poiché non mi pare impossibile prendere in considerazione qualcosa che potrebbe interessarvi. Organizziamo un'unione di lotta, innanzitutto, ma tutto quanto concerne la dottrina, anche sotto l'aspetto filosofico, per noi ha un'importanza essenziale. Con grande simpatia, Georges Bataille

1. Si intende le lezioni tenute all'École des hautes études dal 1933 al 1939, di cui Queneau, presente ai corsi, pubblicherà note e appunti in Alexandre Kojève, Introduction à al lecture de Hegel, Gallimard 1947. 2. Probabilmente il manifesto inaugurale di Contreattaque.

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A Alexandre Kojève 76 bis rue de Rennes [maggio-giugno 1936] Caro amico, il mio lungo ritardo non significa affatto una dimenticanza, ma la preoccupazione di proporvi un incontro e le difficoltà in cui mi metteva un sovraccarico di occupazioni. Adesso ne vedo la fine. Posso proporvi di venire a cena da me venerdì alle otto (nel modo più informale possibile)? Ci sarà pure Roger Caillois che gradirei farvi conoscere. Riparleremo della vostra simpatia per la testa umana ma fin d'ora credo che siete troppo hegeliano perché non si possa trovare un modo per intenderci. Può darsi, dopo tutto, che la testa mozzata ⁽¹⁾ sia stata

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troppo immediata. Si tratta in ogni caso di un mito e non penso che un mito possa impoverire l'esistenza. Penso al contrario che un'esistenza senza mito sia di una povertà insostenibile. Con amicizia e, spero, a presto. Georges Bataille

1. Verosimilmente si allude alla figura “acefalica” pensata da Bataille e Masson per la rivista Acéphale, il cui primo numero uscirà il 24 giugno 1936, il quinto ed ultimo nel 1939.

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A Alexandre Kojève Parigi, 6 dicembre 1937 Caro Kojenikov, vi scrivo quanto segue ⁽¹⁾ perché mi sembra il solo modo di continuare la conversazione svoltasi tra noi in varie forme. Devo dire innanzitutto che le obiezioni che mi rivolgete mi aiutano ad esprimermi con maggior precisione. Ammetto (come supposizione verosimile) che fin d'ora la storia è compiuta (fin quasi allo scioglimento finale). Le cose io me le rappresento in maniera differente (non attribuisco grande importanza alla differenza tra fascismo e comunismo; d'altra parte, non mi sembra per nulla impossibile che, in un tempo molto lontano, tutto ricominci).

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Ad ogni modo, la mia esperienza, vissuta con molta preoccupazione, mi ha portato a pensare che non avevo più niente “da fare”. (Non ero disposto ad accettarlo e, come avete notato, mi sono rassegnato soltanto dopo essermi sforzato). Se l'azione (il “fare”) è -come dice Hegel- la negatività, si pone il problema di sapere se la negatività di chi non ha “più niente da fare” scompaia o sussista allo stato di “negatività senza impiego”: personalmente, posso decidere solo in un senso, essendo io stesso proprio quella “negatività senza impiego” (non potrei definirmi in maniera più precisa). Ammetto che Hegel abbia previsto tale possibilità: quantomeno non l'ha posta come esito del processo che descrive. Immagino che la mia vita -o il suo fallimento, meglio ancora, la ferita aperta che è la mia vita- da sola costituisca la confutazione del sistema chiuso di Hegel. La domanda che ponete al mio riguardo consiste nel sapere se io sia trascurabile o no. Me la sono fatta spesso, ossessionato dalla risposta negativa. Inoltre, dal momento che la rappresentazione che mi faccio di me stesso varia, e che mi capita di dimenticare, paragonando la mia vita con quella degli uomini più notevoli, che potrebbe essere mediocre, mi sono

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spesso detto che al culmine dell'esistenza non si troverebbe che qualcosa di trascurabile: nessuno, in effetti, potrebbe “riconoscere” un culmine che sarebbe la notte. Alcuni fatti -come una sperimentata eccezionale difficoltà a farmi “riconoscere” (sul semplice piano in cui gli altri vengono “riconosciuti”)- mi hanno spinto a porre, seriamente ma gaiamente, l'ipotesi di una insignificanza senza appello. Ciò non mi disturba e non vi annetto nessuna occasione di orgoglio. Ma non avrei più nulla di umano se accettassi prima d'aver tentato di non soccombere (accettando, avrei troppe possibilità di diventare, oltre che comicamente trascurabile, acido e vendicativo: bisognerebbe allora che la mia negatività si riconoscesse). Queste parole vi spingerebbero a pensare che si annuncia una disgrazia, ed è tutto: trovandomi alla vostra presenza, per me non ho altra giustificazione che quella di un animale sofferente con un piede nella trappola. Veramente non si tratta più di disgrazia o di vita, ma solo di quel che diviene la “negatività senza impiego”, se è vero che divenga qualcosa. Io sono quella innanzitutto nelle forme generate negli altri prima

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ancora che in me. Più spesso, la negatività impotente si fa opera d'arte: questa metamorfosi, le cui conseguenze sono reali di solito risponde inadeguatamente alla situazione lasciata dal compimento della storia (o dal pensiero del suo compimento). Un'opera d'arte risponde eludendo o, nella misura in cui la sua risposta si prolunga, essa non risponde ad alcuna particolare situazione, essa risponde ancora peggio a quella della fine, quando eludere non è più possibile (quando arriva l'ora della verità). Per quanto mi concerne, la negatività che m'appartiene non ha rinunciato ad impiegarsi che a partire dal momento in cui non aveva più un impiego: quella di un uomo che non ha più nulla da fare e non quella di un uomo che preferisca parlare. Ma il,fatto -che non pare contestabile- che una negatività distogliendosi dall'azione s'esprima come opera d'arte è pur sempre carico di senso quanto alle possibilità per me rimanenti. Indica che la negatività può essere oggettivata. La cosa non è d'altronde sola proprietà dell'arte: meglio di una tragedia, o di un dipinto, la religione fa della negatività l'oggetto d'una contemplazione. Ma né nell'opera d'arte, né negli elementi emozionali della religione, la negatività è

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“riconosciuta in quanto tale”, nel momento in cui entra nel gioco dell'esistenza come uno stimolo di grandi reazioni vitali. Al contrario, essa è introdotta in un processo di assimilazione (qui l'interpretazione dei fatti data da un sociologo come Mauss ha per me grande importanza). C'è dunque una differenza fondamentale tra l'oggettivazione della negatività, come è stata conosciuta in passato, e quella resa possibile alla fine. In effetti, l'uomo della “negatività senza impiego”, non trovando nell'opera d'arte una risposta alla domanda che lui stesso è, non può non diventare l'uomo della “negatività riconosciuta”. Egli ha compreso che il suo bisogno d'agire non aveva più un impiego. Ma non potendo tale bisogno essere indefinitamente ingannato dalle lusinghe dell'arte, un giorno o l'altro è riconosciuto per quel che è: come negatività vuota di contenuto. Si presenta ancora la tentazione di respingere questa negatività come peccato -soluzione tanto comoda da non attendere, per adottarla, la crisi finale. Ma poiché tale soluzione non è inedita, gli effetti sono scontati in anticipo: l'uomo della “negatività senza impiego” non può più disporne: nella misura in cui egli è la conseguenza di ciò che l'ha preceduto, il senso del peccato in lui non ha più forza. Egli è davanti alla

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propria negatività come davanti ad un muro. Qualunque sia il disagio provato, sa che nulla ormai potrebbe essere aggirato, poiché la negatività non ha più sbocchi. Ma l'orrore da lui provato osservando in sé stesso la negatività è comunque suscettibile di risolversi in soddisfazione solo nel caso dell'opera d'arte (senza parlare della religione). Poiché ha riconosciuto la negatività proprio nel bisogno d'agire e questo riconoscimento rimanda ad una concezione che ne fa la condizione di ogni esistenza umana. Lungi dal fermarsi in questa disamina, egli trova una soddisfazione completa nel fatto di divenire uomo della “negatività riconosciuta” e non ha sosta nel tentativo intrapreso per riconoscerla fino in fondo. È così che il sapere, nella misura in cui ha la negatività umana come oggetto -in particolare il sacro nefasto [gauche]- diviene termine medio di quanto non è altro che processo di presa di coscienza. Così egli mette in gioco le rappresentazioni di maggior peso emotivo, come la distruzione fisica o l'oscenità erotica, oggetto del riso, dell'eccitazione fisica, della paura e delle lacrime; ma nel momento stesso in cui quelle rappresentazioni l'intossicano, egli le spoglia della ganga

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che le aveva sottratte alla contemplazione e le pone oggettivamente nello scatenamento del tempo contro ciò che si pretende immutabile. Comprende allora che è una sorte felice e non un caso sfortunato ad averlo fatto entrare in un mondo dove non aveva più niente da fare e quel che è divenuto suo malgrado si propone adesso al riconoscimento degli altri, poiché può essere l'uomo della “negatività riconosciuta” solo nella misura in cui si fa riconoscere come tale. Ritrova così, di nuovo, qualcosa “da fare” in un mondo in cui dal punto di vista dell'azione non si fa più niente. E ciò che ha “da fare” è dare alla parte d'esistenza liberata dal fare la sua soddisfazione: si tratta proprio dell'utilizzazione del tempo libero. Egli non cozza comunque contro una resistenza minore di quella toccata agli uomini d'azione che l'hanno preceduto. Non che tale resistenza possa manifestarsi subito apertamente, ma se egli non fa di un crimine una virtù, fa generalmente del crimine la virtù (anche se oggettivizza il crimine e lo rende così né più né meno distruttore di quanto fosse in precedenza). La prima fase della resistenza deve essere è vero pura elusione, poiché nessuno può sapere quel che desidera con il suo opporsi agli altri come un

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veggente in un mondo di ciechi. Egli incontra intorno a sé uomini che si sottraggono e preferiscono fuggire per schierarsi nei ranghi dei ciechi. Ed è solo quando sarà compiuto da un numero di uomini abbastanza grande che il riconoscimento potrà divenire oggetto di una resistenza positiva, perché i ciechi non potranno notare che qualcosa deve essere escluso prima che la quantità messa in gioco gliene faccia avvertire la presenza. Quel che allora avverrà non conta d'altra parte per l'uomo della “negatività riconosciuta” nel momento in cui riconosca in sé la negatività (perlomeno quanto alla forma precisa che le cose assumeranno). Perché quel che gli importa è proprio il fatto che è condannato a vincere o ad imporsi. Sa che la sua distruzione è certa se non ha la meglio nelle due fasi possibili della lotta; nella fase della resistenza elusiva innanzitutto, egli rischia nell'isolamento di essere votato ad una disintegrazione morale contro cui è fin da subito privo di scampo (può essere uno di quelli per cui perdere la faccia ai propri occhi non sembra preferibile alla morte). È solo nella seconda fase che può trattarsi di distruzione fisica, ma nei due casi, in quanto un individuo diventa l'uomo della “negatività riconosciuta”,

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egli scompare se non ha la meglio sugli altri, scompare se la forza messa in gioco non è superiore, innanzitutto, alla forza d'elusione e in seguito alla forza d'opposizione. Ho parlato qui dell'uomo della “negatività riconosciuta” come se non si trattasse che di me. Ci tengo ad aggiungere in effetti che a rigore non mi sento isolato che nella misura in cui ho preso completamente coscienza di quanto mi succede. Ma se voglio portare a termine il racconto della civetta, devo anche dire che l'uomo della “negatività senza impiego” è gia rappresentato da numerose miserie e che già il riconoscimento della negatività come condizione d'esistenza è stato, allo stato incoordinato, spinta molto lontano. Per quel che in proprio m'appartiene, non ho fatto che descrivere la mia esistenza dopo che è pervenuta ad una posizione definita. Quando parlo di riconoscimento de “l'uomo della negatività riconosciuta”, parlo dello stato d'esigenza in cui mi trovo: la descrizione arriva dopo. Mi pare che Minerva possa intendere la civetta fino a quel punto. L'estrapolazione non ha luogo che a partire da quel punto preciso e consiste nel rappresentare tutto come dato, tutto quel che segue si svolge come il giungere

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alla posizione d'equilibrio di un gioco di forze definite. Hegel stesso si è concesso un'estrapolazione dello stesso ordine: in più l'elusione da parte sua della negatività ulteriore possibile mi pare accettabile con maggior difficoltà della descrizione che io do di forme d'esistenza che si sono già prodotte -in me stesso in maniera molto precisa e indipendente da una descrizione onestamente posteriore e molto genericamente vaga. Aggiungo un'ultima considerazione: affinché la fenomenologia abbia un senso bisognava anche che Hegel fosse riconosciuto come suo autore (il che avviene forse seriamente con voi) ed è evidente che Hegel, per il fatto che non assumeva fino in fondo il ruolo d'uomo della “negatività riconosciuta”, non rischiava nulla: egli apparteneva perciò ancora, in certa misura, al Tierreich. [Qui il testo termina. Sul verso di ques'ultimo foglio:] Cominciare con la civetta di Minerva citare i nomi poi sviluppare l'idea che la storia sia finita.

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1. Lettera scritta dopo la conferenza di Kojève su “Les Concezioni hegeliane” tenuta il 4 dicembre 1936 nel quadro del Collège de sociologie.

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A Michel Leiris 5 luglio 1939 Caro Michel, ho già risposto alla tua lettera nel corso della mia esposizione di ieri, ma facendolo ho ritenuto di dover spostare la discussione: le ragioni per comportarmi così emergono dall'esposizione stessa. Ci tengo adesso a rispondere direttamente ai problemi che sollevi. Quando ho utilizzato per la prima volta l'espressione di sociologia sacra (esattamente quando il Collège de sociologie è stato fondato) non pensavo che la disciplina definita da queste parole si situasse proprio nel solco della tradizione sociologica della scuola francese. Nella mia mente, l'esperienza che ognuno poteva avere del sacro manteneva un'importanza

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essenziale. Il tema stesso dell'esposizione da te tenuta l'anno passato mostra bene che questo modo di vedere era ammissibile tanto per Caillois che per te. Ma se è vero che ci era possibile far entrare la nostra esperienza personale nelle ricerche che abbiamo portato avanti, occorre trarne le conseguenze. L'esperienza del sacro è di natura tale da non lasciare nulla d'indifferente: chi incontra il sacro non ha modo di restargli estraneo più di quanto un cristiano potrebbe rimanere estraneo a Dio. A mio parere, fin da subito, questa sociologia sacra, a cui un Collège poteva dar forma e struttura, si poneva dunque proprio nel solco della teologia cristiana (è ciò che ieri ho risposto alla giusta interpretazione data da Landsberg ⁽¹⁾ della mia posizione). Si trattava di rappresentare la società e la sua effervescenza con quella coscienza dei destini in essa impegnati che è propria del teologo quando si mette a considerare Dio e la Chiesa. Così si potrebbe a rigore trovare la via in grado di condurre al potere spirituale, in ogni caso a partire da lì è inevitabile la direzione verso l'attività. Mi sembra, d'altra parte, che una tradizione al seguito della teologia cristiana già esista, che essa sia rappresentata essenzialmente da Hegel e da Nietzsche.

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A dire il vero, non è sicuro che Durkheim non abbia teso allo stesso scopo, ma era bloccato proprio da quelle regole del metodo sociologico che escludono l'esperienza vissuta alla base dell'analisi. In ogni caso gli è stato impossibile introdurre una vera profondità nelle considerazioni generali da lui tenute sulla società vivente. Allontanarci da Durkheim -e da Mauss- almeno quando esaminiamo l'esistenza attuale, è certamente una necessità inevitabile. Nel suo insieme, il compito da affrontare a partire dalla tradizione che ho appena definito è forse difficile e rimangono da determinare i metodi che meglio convengono. Bisognava iniziare con una definizione di questi metodi? Certo potrei descrivere le vie seguite, ma non posso rimpiangere di averle seguite prima di averle analizzate nelle loro giravolte. Forse il caso fa sì che a suo tempo tu abbia sollevato il problema del metodo, proprio quando ci siamo spinti troppo lontano e nel momento in cui ci apprestavamo ad uno sforzo eccezionale per determinare i fondamenti e le direzioni della nostra attività *. Non credo che tu possa volermene per la tristezza mara che ho provato lunedì, né per quello che mi ha spinto a dire. Certamente ci sono altrettanti o più

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errori assurdi in quel che si dice coi nervi scoperti di quante omissioni vi siano in ciò che si dice in un momento di calma paralizzante.

* Mi pare che questa posizione di principio risponda in linea generale all'insieme della tua lettera. Non mi pare necessario aggiungere più di poche frasi all'obiezione che ci rivolgi di voler spiegare tutto con il sacro: personalmente non credo alla possibilità di alcuna spiegazione d'una realtà complessa con l'aiuto di un principio semplice. Mi sembra che questo atteggiamento implichi di per sé una nozione di fenomeno totale. Può darsi che abbiamo dato l'impressione di un'insistenza spinta in un solo senso. Ma perché pensare che non si vede che ciò di cui si parla? In più sono convinto che Caillois ha la mia stessa posizione e, se proprio occorre precisarlo, devo ricordare che ho parlato occasionalmente, al Collège de sociologie di fenomeno totale, che ne ho parlato proprio come di una nozione essenziale. Comunque vadano le cose in queste materie inestricabili, sai bene quel che per me significhi l'amicizia che ci lega,

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Georges

1. Paul-Louis Landsberg, filosofo, partecipante alle riunioni del Collège, al tempo fresco autore di un Essai sur l'expérience de la mort.

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A Patrick Waldberg [Autunno 1939] Caro Waldberg ⁽¹⁾, spero tanto che questo scritto vi giunga presto. Sarei felice naturalmente che andaste alla Samaritaine. Quel che mi accade mi sembra imporre tutt'assieme, rapidamente, l'estrema durezza, l'estremo rigore di cui abbiamo fin qui parlato. Vi prego, rifletteteci, ripensate anche a tutto quel che di ripiego c'è nella riflessione. Lo scacco in certe condizioni diverrebbe infetto, una vera feccia. Credo che stiamo andando incontro ad una sorta d'esistenza monastica, e senza imbrogli. Anzi, consideratelo bene, con qualcosa di molto più arduo da superare che in un

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monastero. Non sarà più tempo allora di parlare di volontà di ferro per semplice sentito dire. Allo stesso tempo, vi propongo per l'intera organizzazione di considerare le soluzioni più radicali, in tutti i sensi. Le mezze misure e le finzioni diventano impossibili, soffocanti. Bisogna che avanziamo a viso aperto, nudo o mascherato, e senza più gli ondeggiamenti dell'incertezza. In particolare, credo sia tempo di cominciare a spingersi tutti [in margine: tutti! tutti quelli che possono] fino al termine all'esperienza magica, cosa che è richiesta dall'esperienza erotica di un essere umano che non affonda. Tutte le prevenzioni che potreste nutrire non resistono all'esperienza stessa. Al punto in cui ci troviamo, è fuori questione che non facciamo tutto quanto è possibile per bruciare come un falò. Cominceremo con l'ebbrezza all'appuntamento di venerdì. Non penso che abbiate in mente di rientrare a Saint-Germain [-en-Laye] il giorno stesso. Con affetto. Georges Bataille

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1. Waldberg (1913-1985) era americano di nascita, ma fin da piccolo visse in Francia dove frequentò Souvarine, Bataille e i surrealisti sui quali scrisse e organizzò mostre anche dopo la rottura con Breton.

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A André Masson Vichy, 3 febbraio 1942 Mio caro André, che dire dopo un separazione tanto completa -o quasi! Sono felice che tu abbia laggiù trovato una vita non deludente. Non posso non augurarti che ogni cosa si aggiusti in modo che tu continui ad essere te stesso. L'Europa evidentemente è più vicina al Tibet che al Connecticut. Qui la vita è senza dubbio più strana di quanto sembri da fuori: si è ripiombati al fondo dei tempi. Mai il mondo reale mi è parso più simile al sogno: l'aria che si respira è aria di sogno, aria d'angoscia. E cosa curiosa, lascerei andare tutti i cieli chiari per la bruma in cui qui ogni cosa è sepolta. Ho sempre faticato a capire quei vecchi principi in base a cui si considera la storia (quella che si fa beffe delle

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nostre voglie). La storia non può fare a meno di divorare vite: le offro da mangiare volentieri la mia. Nella vita immaginaria di un futuro in cui non potesse più essere mangiato niente, in cui tutto fosse libero, non ho dubbi che manchi l'essenziale: una tensione tanto vera che si diviene come un granchio rimpiattato nella sabbia. Non puoi immaginare fino a che punto la politica mi dia fastidio: quanto il pensiero dei conti spicci al momento di addormentarmi: tante cifre, altrettanti errori. La vita mi appare molto, troppo vicina alla morte perchè ci si attardi ad imporle una volontà d'ignorante. Ho visto troppe cose e ne ho patite troppo per occuparmi di quel che non sconvolge completamente i dati ordinari. Non riconosco ormai -e non sono più- che una forza illimitata di negazione che divinizza tutto ciò che non ho svuotato di senso. E divinizzato, questo vuol dire anche per me “vuoto di senso”. Difficile concepire fino a che punto mi senta divenuto silenzioso, al punto d'immaginarmi che ogni parola s'infrangerebbe nel toccarmi (o si decomporrebbe, o diverrebbe tanto comica che la frase terminerebbe in uno scoppio di risa). Per tutto il resto: avanzo di traverso, più

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allegramente che mai e se sorvolo, conservo un angolino di silenzio. Assurdo messaggio senza dubbio: ma molto meno di qualsiasi altra cosa io possa dire. D'altronde non sono mutato per niente (salvo che la cosa somiglia sempre più a una bara, il che ristabilisce ogni giorno un poco i graziosi errori di prospettive e, comunque, è meno stupido). Trasmetti i miei saluti a André Breton e digli -se lo ritieni- che da lui non mi sento meno lontano -né meno vicino- di quanto si sentisse San Giovanni della Croce da Santa Teresa (non c'è nessun insulto nascosto). Tutta la mia lealtà e amicizia, durevoli quanto una vita intera, che dopo tutto se ne infischia dell'Atlantico. Georges

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A Jean Lescure [giugno-luglio 1943] Caro amico ⁽¹⁾, scusatemi per non aver risposto alla lettera -o meglio per avervi fin troppo risposto... La proposta svizzera mi va per diversi motivi (particolamente il più basso). Ho perciò pensato di terminare in pochi giorni un libro abbozzato. Il titolo è (per il momento almeno ma ha qualcosa di definitivo) Il Divenire Oreste o l'esercizio di meditazione ⁽²⁾. Si tratta di una protesta veemente contro l'equivoco della poesia [al margine: non contro la poesia] (la poesia si contenta di evocare Oreste, bisogna esserlo, e per questo ritornare all'attenzione calma -al posto dell'impazienza media del poeta- immergersi con lentezza e sicurezza nel possibile dell'uomo, divenire così l'uomo che pone

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in questione la natura, considerare la pura messa in questione di tutto come un compimento dell'uomo). Come vedete, questo non lascerà la vostra lettera senza risposta ma per adesso posso soltanto lavorare al libro. La cosa più imbarazzante in effetti è arrivare alla fine per il 20 luglio. Occorrerebbe in ogni caso che mi precisaste un poco le cose: la cosa più semplice forse sarebbe che spedissi direttamente a Vichy, solo che non so se i testi possono passare il confine (credo sia possibile solo per le lettere tra familiari). In linea di massima senza intoppi. Ma una lettera voluminosa rischia d'essere aperta, e seguirne un ritardo. Se poteste dirmi la cosa migliore da fare, ve ne sarei riconoscente. Ciò di cui ho bisogno in tutti i casi è di sapere al più presto la data di completamento del manoscritto per essere a posto. Vi ringrazio in ogni modo per aver persato a me. Cordiali saluti. Georges Bataille P.S. Ancora una cosa: potrebbe bastare un libro di 100.000 battute o per essere più precisi: importante

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quanto il manoscritto dell' Amitié ⁽³⁾ che avete mandato in Belgio?

1. Jean Lescure (1912-2005) scrittore, sceneggiatore ed editore. 2. Il progetto di questo libro non ebbe seguito, mentre, nel 1947, apparirà Méthode de méditation, preceduto nel 1946 da Haine de la poésie, la cui ultima parte è “Essere Oreste”. 3. Il testo L'Amitié apparve nel 1940 sulla rivista “Mesures”.

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A Raymond Queneau [Vézelay, luglio 1943] Caro Raymond, Lescure mi propone (come già saprai) di inviare un libro in Svizzera. Manderei volentieri un libricino (da 90 a 100.000 batture). Sarebbe stampato in 1500 o 2000 esemplari, mi scrive Lescure. Vale a dire che posso chiedere al massino 1500 se è necessario. Ecco come la vedrei io. Si tratta di un saggio intitolato Divenire Oreste o l'Esercizio della meditazione. Lo terminerei rapidamente, tanto rapidamente da doverlo riprendere più tardi completamente: senza alcun dubbio il libro risulterebbe allora molto più lungo e potrebbe essere ripubblicato dalla N.R.F. Scusami se ti

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chiedo ancora di occuparti di questa storia: sono tentato dall'oro svizzero! E se fosse possibile... Niente a che vedere in questo libro con Les Mouches. Per me si tratta di affermare: la poesia evoca Oreste (penso a quello del Pour qui sont ces...), bisogna diventare quel che la poesia può soltanto evocare, bisogna essere Oreste (occorre che l'essere calmo e dotato di tutte le facoltà dell'uomo conosca anche lo stato di Oreste, vale a dire la completa messa in questione di ciò che è). Allo stesso tempo è una diatriba contro i poeti (almeno contro l'equivoco che hanno introdotto) ed un manuale di meditazione. Cordiali saluti. Georges Bataille

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A Tristan Tzara [settembre 1944] Carissimo, domando scusa se vi lascio questo manoscritto ⁽¹⁾. Ma non ho il tempo per rivedere le copie dattilografate! Urge rendere noto il testo, se dovrà esserlo, poiché il centenario ricorre il 15 ottobre. Grazie molte e cordialmente, Georges Bataille [Segue l'articolo, 12 pagine manoscritte, lasciato da G. Bataille] IL CENTENARIO DI NIETZSCHE di Georges Bataille

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Il filosofo Friedrich Nietzsche è nato nella Germania centrale, in Sassonia, nell'ottobre del 1846: cento anni fa. Ci sono due ragioni per ricordarne oggi il centenario. Da una parte, Nietzsche è tra le menti che più onorarono -il che assume nelle attuali circostanze un senso particolare- la natura umana, dall'altra, questo tedesco, senza dubbio tra i maggiori, si esprime sul suo tempo con la stessa antipatia mostrata oggi dai francesi o dai loro alleati: egli rimane contro la Germania il testimone più incisivo. Quel che pone in rilievo la figura di Nietzsche fra i filosofi moderni è il carattere drammatico della sua vita oltre che il legame stretto tra vita e dottrina. I filosofi tedeschi che hanno elevato la filosofia al suo più altro grado di sviluppo, Kant, Hegel, erano dei professori, funzionari che conducevano una vita borghese, regolare e senza storia. La loro filosofia è impegnata in grandi e piatte speculazioni. La filosofia di Nietzsche, al contrario, è una filosofia della vita. Una filosofia bruciante, appassionata, convulsiva, una filosofia della tragedia. Ancor giovane Nietzche fu colpito da una grave malattia nervosa.Visse semi-cieco, aggredito senza posa da dolori intollerabili. Visse solo, abbandonato dagli

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amici, incompreso, esiliato da una città all'altra in cerca del clima favorevole al suo stato di salute. All'età di quarantaquattro anni quella tensione spirituale cui dobbiamo le opere più alte lo spezzò: perse improvvisamente la ragione. Morì solo dodici anni più tardi, nel 1900. Durante quel periodo di follia, divenne celebre. Il mondo lo riconobbe allora come uno degli uomini più grandi che siano vissuti, ma lui non sapeva più chi fosse. Il primo problema della vita e del pensiero di Nietzsche è quello della sofferenza. La sua è l'opera di un uomo oppresso dal destino, privato di speranza da una lucidità acuta. Per lui non c'erano Dio, né sopravvivenza, né merito morale in grado di compensare o giustificare quel che sopportava. Ma non soltanto sopportò senza lamentarsi una sofferenza estrema: questa divenne un mezzo per affermare e benedire la vita come a nessuno era stato consentito prima di lui. I libri di questo grande malato esprimono la giocosità, la danza e la vita degli dei unitamente al sentimento profondo dell'essenza tragica dell'uomo. Nulla è più seducente, più solare, più chiaro del pensiero di Nietzsche. Esso si esprime in periodi brevi e precisi, talora in passaggi lirici, in ditirambi ispirati. Lo

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stile, liberato dalla pesantezza tedesca grazie ad una voluta influenza francese, è forse il più perfetto nella storia della lingua tedesca. Libri come La gaia scienza, Zarathustra, Al di là di bene e male, Ecce homo, gettano sulla fine del XIX secolo una fiammata di luce ineguagliata. Una dottrina della vita pericolosa, dura e fiera, si opponeva allora clamorosamente all'insegnamento di una morale ad un tempo utilitaristica e conservatrice. Si sprigiona pure tanta forza e seduzione da questa filosofia eccezionale che si tentò, da ogni parte, di stravolgerne il senso per fini politici. Gli anarchici e i fascisti lo hanno citato a sostegno delle proprie teorie. Agli inizi della guerra civile, a Barcellona, allora capitale dell'anarchismo militante, le edizioni popolari di Nietzsche si vendevano nei chioschi vicino a quelle di Lenin o Marx. Ma in definitiva, è il nazional-socialismo che ha tentato di accaparrarselo metodicamente (tra poco vedremo in che maniera). Benchè Nietzsche raramente avesse perso l'occasione per denunciare la stupidità dell'orgoglio tedesco, egli era pur tuttavia divenuto una delle glorie riconosciute della Germania. Questo facilitava le cose.

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L'evento rappresentato oggi dal centenario di Nietzsche -ossia l'agonia nell'esecrazione del mondo intero del nazional-socialismo- incita a [parola illeggibile] i rapporti della filosofia razzista con le idee del solitario di Sils-Maria. [A partire da qui il testo è stato ripreso da Bataille in appendice a Sur Nietzsche.] Nietzsche contestò il sistema tarlato della morale idealista. Criticò la bontà e la pietà, smascherò l'ipocrisia e l'assenza di virilità dissimulata sotto la veste di smaccato umanitarismo. Come Proudhon e Marx, affermò l'elemento positivo della guerra. Molto lontano dai partiti politici del tempo, giunse ad enunciare i principi d'una aristocrazia dei “signori del mondo”. Lodò la bellezza e la forza corporea, mostrando una spiccata preferenza per la vita arrischiata e turbolenta. Tali giudizi di valore netti, opposti all'idealismo liberale, spinsero i fascisti a richiamarsi a lui, certi antifascisti a vedere in lui il precursore di Hitler. Nietzsche ebbe il presentimento di un tempo vicino in cui i limiti convenzionali opposti alla violenza sarebbero stati superati, in cui le forze reali si sarebbero affrontate in conflitti di ampiezza smisurata,

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in cui ogni valore esistente sarebbe stato materialmente e brutalmente contestato. Immaginando la fatalità di un periodo di guerra la cui durata avrebbe oltrepassato i limiti, non ritenne che bisognasse evitarli ad ogni costo né che la prova eccedesse le forze umane. Anzi, quelle catastrofi gli parvero preferibili alla stagnazione, alla menzogna della vita borghese, della beatitudine del gregge dei professori di morale. Stabiliva in principio questo: se c'è per gli uomini un vero valore e se le clausole della morale accettata, dell'idealismo tradizionale, si oppongono all'emersione di quel valore, la vita travolgerà la morale comune. Allo stesso modo, i marxisti sostengono che i pregiudizi morali che s'oppongono alla violenza di una rivoluzione cedono davanti al valore eminente dell'emancipazione del proletariato. Differente da quello marxista, il valore che Nietzsche afferma conserva comunque un carattere universale. L'emancipazione da lui voluta non era quella di una classe in rapporto ad altre, ma quella della vita umana, sotto specie dei suoi migliori rappresentanti, in rapporto alle servitù morali del passato. Nietzsche sogna un uomo deciso a non evitare il suo destino tragico ma ad amarlo e abbracciarlo, un uomo che non

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menta più a sé stesso, superando la servitù sociale. Questo tipo umano sarebbe differente dall'uomo attuale che s'immedesima di solito in una funzione, vale a dire una parte soltanto del possibile umano: sarebbe in una parola l'uomo intero sciolto dalle servitù che ci limitano. Di quest'uomo libero e sovrano, cui dava il nome di superuomo, Nietzsche non ha voluto dare definizioni precise. Pensava a ragione che non si può definire ciò che è libero. Niente di più vano che fissare, limitare ciò che ancora non è: bisogna volerlo e volere l'avvenire è riconoscere all'avvenire innanzitutto il diritto di non essere limitato dal passato, d'essere il superamento dell'esistenza conosciuta. Attraverso il principio di un primato dell'avvenire sul passato, su cui insiste continuamente, Nietzsche è la persona più estranea a tutto quel che con il nome di morte esecra la vita e con il nome di reazione il sogno. Con le idee di un reazionario fascista o simile, c'è più che una differenza: un'incompatibilità fondamentale. Rifiutandosi di limitare quell'avvenire cui assegnava ogni diritto, Nietzsche evocava tuttavia suggestioni vaghe e contraddittorie che danno luogo a confusioni abusive: è vano attribuirgli un qualche intento misurabile in termini politico-elettorali, argomentando che discorre

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di “signori del mondo”. Da parte sua si tratta di un'evocazione quanto mai arrischiata. Quell'uomo sovrano, di cui descriveva l'irruzione clamorosa, lo immaginò contraddittoriamente, ora ricco e ora più povero di un operaio, ora potente e ora braccato. Esigeva da lui la virtù che tutto sopporta e gli riconosceva il diritto di trasgredire le norme. Non limitava nulla, attento a descrivere con ampia libertà un campo di possibilità. Mi sembra però che se occorre definire il nietzscheanesimo, poco conta attardarsi su quella parte del pensiero che concede alla vita dei diritti contro l'idealismo. Il rifiuto della morale classica è comune al marxismo, al nietzscheanesimo, al nazionalsocialismo. Essenziale è soltanto il valore in nome del quale la vita afferma i suoi diritti maggiori. Stabilito questo principio di giudizio, i valori nietzscheani confrontati coi valori razzisti si situano, nell'insieme, dal lato opposto. Il gesto iniziale di Nietzsche origina da un'ammirazione per i Greci, gli uomini intellettualmente meglio evoluti di ogni tempo. Nella mente di Nietzsche ogni cosa si subordina alla cultura, mentre per il III Reich la cultura controllata ha per fine la forza militare.

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Uno dei tratti più significativi dell'opera di Nietzsche è l'esaltazione dei valori dionisiaci, cioè dell'ebbrezza e dell'entusiasmo infiniti. Non è un caso se Rosenberg, al contrario, nel suo Mito del XX secolo denuncia il culto di Dioniso come non ariano. A dispetto di tendenze presto represse, il razzismo ammette solo valori soldateschi. La gioventù ha bisogno di stadi e non di boschi sacri, afferma Hitler. Ho già accennato all'opposizione del passato verso l'avvenire. Nietzsche si designa stranamente come il figlio dell'avvenire. Lui stesso legava tale definizione alla propria esistenza di senza-patria. In effetti, in noi la patria è la parte di passato ed è su essa, soltanto strettamente su di essa, che l'hitlerismo edifica il suo sistema di valori. Niente di più estraneo a Niezsche che rimarca apertamente tutta la volgarità dei tedeschi. Due precursori ufficiali del nazional-socialismo, prima di Chamberlain, furono i contemporanei di Nietzsche, Wagner e Paul de Lagarde. Nietzsche è apprezzato e chiamato in causa dalla propaganda, ma il III Reich non ne fece una delle sue guide, almeno non a livello di questi ultimi. Nietzsche fu amico di Richard Wagner ma se ne allontanò disgustato dal suo sciovinismo

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gallofobo e antisemita. Quanto al pangermanista Paul de lagarde, un testo spazza ogni dubbio a suo riguardo: “Se sapeste, scrive Nietzsche a Theodor Fritsch, quanto ho riso la scorsa primavera leggendo le opere di quell'ostinato sentimentale e vanitoso che si chiama Paul de Lagarde”. Siamo oggi tutti edificati sul senso che per il regime hitleriano ha la stupidità antisemita. Non c'è nulla di più essenziale all'hitlerismo dell'odio verso gli Ebrei. A cui si oppone questa regola di condotta di Nietzsche: “Non frequentate nessuno che sia coinvolto in questa sfacciata mistificazione delle razze”. Non c'è niente che Nietzsche abbia affermato in maniera più decisa del suo odio per gli antisemiti. È necessario insistere su quest'ultimo punto, poiché Nietzsche va lavato dalla macchia nazista. Perciò bisogna chiaramente denunciare certe commedie odiose e al tempo stesso burlesche. Una delle quali è opera della stessa sorella di Nietzsche, sopravvissutagli fino ad anni recenti (morì nel 1935). La signora Elisabeth Foerster, nata Nietzsche, non aveva dimenticato il 2 novembre 1933 i contrasti sorti tra lei e il fratello a causa del suo matrimonio nel 1885 con l'antisemita Bernard Foerster (una lettera in cui

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Nietzsche le ricorda la propria “repulsione” -”la più decisa possibile” per il partito del marito -designato espressamente- è stata pubblicata per le sue cure). Proprio il 2 novembre 1933 Elisabeth Judas-Nietzsche ricevette a Weimar, nella casa in cui Nietzsche morì, il Führer del III Reich, Adolf Hitler. In quella solenne circostanza, la donna attestò l'antisemitismo della famiglia dando lettura di un testo di Bernard Foerster! “Prima di lasciare Weimar per recarsi a Essen, riporta Le Temps del 4 novembre 1933, il cancelliere Hitler ha reso visita alla signora Elisabeth Foerster-Nietzsche, sorella del celebre filosofo. L'anziana signora gli ha fatto omaggio di un bastone animato appartenuto al fratello. Lo ha guidato nella visita all'Archivio Nietzsche. Hitler ha ascoltato la lettura di una memoria indirizzata nel 1879 a Bismarck dal Dottor Foerster, agitatore antisemita che protestava contro “l'invasione dello spirito ebraico in Germania”. Tenendo in mano il bastone di Nietzsche, Hitler è passato tra la folla acclamante...” Nietzsche indirizzava nel 1887 una lettera sprezzante all'antisemita T. Fritsch concludendo con queste parole: “Ma, insomma, cosa credete che io provi quando il nome di Zarathustra esce dalla bocca degli antisemiti!”

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[La versione ripresa da Bataille in Sur Nietzsche termina qui.] Nel momento in cui gli eserciti alleati fanno giustizia dell'hitlerismo, è opportuno che in occasione del centenario della sua nascita sia resa giustizia a Nietzsche accaparrato burlescamente dall'hitlerismo. In lui celebriamo uno dei primi a denunciare la “mendace ammirazione di sé praticata dai popoli”. La speranza sollevata da Nietzsche ci indica le cime della solitudine, dall'aria limpida e fortificante, non la tragica vanità di una folla tedesca. “Preferisco far tabula rasa, scrisse sul finire della vita letteraria; una mia ambizione è passare per lo spregiatore par excellence dei Tedeschi. Ho già espresso a vent'anni la diffidenza ispiratami dal loro carattere. Per me i Tedeschi sono qualcosa d'impossibile, quando cerco d'immaginare un tipo d'uomo che ripugni a tutti i miei istinti, finisco sempre per rappresentarmi un Tedesco”.

1. Testo con numerose correzioni, consacrato a Nietzsche per il centenario della nascita, consegnato a

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Tzara in vista di una possibile pubblicazione su rivista, ma mai apparso. Rimasto in parte inedito nelle pagine iniziali, venne ripreso parzialmente da Bataille, col titolo “Nietzsche e il nazional-socialismo”, in annesso a Sur Nietzsche. Fu invece su Combat del 20 ottobre 1944 che comparve un suo articolo commemorativo sul centenario nietzscheano.

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A Brice Parain Vézelay, 29 giugno 1945 Caro amico ⁽¹⁾, aspetto quindi il seguito del vostro testo (temo, è vero, senza rendermene esattamente conto, che l'insieme sia un po' lungo). Malgrado tutto riconoscete la parte essenziale del silenzio nell'arte. Tutte le mie idee sono basate sull'analisi economica e l'impossibilità, in cui il linguaggio non letterario si trova, di esprimere un valore che non abbia utilità: le operazioni del sacrificio, il linguaggio sacro della poesia sono a tal fine necessari. Penso come voi che il linguaggio sia trascendente ma che la sua trascendenza sia quella dell'oggetto (dell'oggetto costruito). Il sacro (oggetto distrutto o distruzione dell'oggetto) è al contrario immanente. A mio parere...Comincia a partire da qui una dialettica

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che vi parrà singolare, in cui Dio (semplice operazione di linguaggio) riduce il mondo sacro alle norme della trascendenza (Dio come una cosa, la cui esistenza potrebbe essere dimostrata -partendo da quella che attribuiamo al tavolo). Da qui l'imbroglio della morale, parte posizione di un valore incondizionale, parte subordinazione di questo valore all'utilità (il “doveressere” e tutto quel che dal linguaggio procede). La distruzione nell'arte è ben distante dal compiere il movimento che è l'essenza. Ma l'arte distoglie il linguaggio dai suoi fini immediati, consistenti nell'enunciare l'azione. Il linguaggio letterario è paragonabile agli oggetti di lusso, sottratti al circuito della produzione in vista di un consumo improduttivo. A partire da quel momento, i garanti [répondants] economici di quel movimento non si oppongono più come l'individuo alla comunità (il contadino o il trafficante di mercato nero allo Stato), ma come l'immanenza dell'essere nell'essere a una direzione trascendente. Ciò che definisco la direzione esige (non per sé ma per coloro che essa dirige) un massimo di lavoro per un minimo di consumo. Mentre un qualsiasi essere diretto o una massa di individui diretti (nella misura in cui non assumono in prima persona il

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movimento della direzione) tendono al minimo di lavoro per un massimo di consumo. A rigore, un'assenza totale di direzione equivarrebbe alla follia. Ma la letteratura, ne è poi così lontana? Comunque sia, soltanto la letteratura esprime quel movimento di festa (sottraendo [al] l'essere per un certo tempo l'imperativo della cura dell'avvenire. Nella pratica della politica, gli esseri diretti forniscono il complemento dell'opposizione alla direzione, ma in nome di una nuova sorte di direzione e di dirigenti. Solo alla “fine della storia”, in una società senza classi, si troverebbe l'opposizione allo stato puro, al posto di una rappresentazione terminale costituita spesso dai marxisti. E immagino che verso la “fine della storia”, dal lato della letteratura, potrebbe prodursi un movimento di presa di coscienza e l'abbozzo d'una organizzazione (cessando d'essere un non-senso politico il partito preso “lavoro minimo per un massimo di consumo”). Tutto questo in un riassunto un poco folle e vago ma che, ritengo, non dovrebbe apparirvi strano. Non credo a divergenze profonde tra me e voi. Verrò a Parigi fra tre settimane, penso. Cordialmente, Georges Bataille

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1. B. Parain (1897-1971), filosofo del linguaggio, traduttore dal russo, segretario e collaboratore dell'editore Gallimard.

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A Roger Caillois Vézelay (Yonne), 7 febbraio 1946 Caro amico, che ne è del mio articolo sull'economia ⁽¹⁾ ? Potrei avere le bozze? Lo confesso, avrei preferito che venisse pubblicato prima d'aprile. Non mi pare d'altra parte che la “France Libre” sia ancora uscita in Francia. Potreste brevemente tenermi al corrente? Il vostro testo sulla Letteratura e la morale ⁽²⁾ sarà quanto prima inviato in tipografia. Mi trovo in accordo con esso più per una reazione naturale che per consonanza teorica. E ciò che soprattutto mi inquieta è il non avere della morale cui fa riferimento che un'idea vaga e parecchio criticabile. Quel che colpisce molti vostri lettori è, in genere, l'impossibilità in cui sono lasciati di conoscere per quale fine e con quale

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autorità voi parliate. La parte debole dell'articolo è d'altra parte quella relativa alla teoria, laddove soprattutto, bizzarramente, vi ponete la domanda sorprendente: “a che serve la morale?”. Per me che senza dubbio non ho avuto preoccupazione più grande del contestare il diritto di chiedersi senza fine “a che serve...?”, che lego in tutti i casi ogni considerazione morale alla posizione di un valore tale da non poter, al suo riguardo, chiedere a cosa serva, la cosa è disarmante. Come fate a non accorgervi del disagio causato nell'esigere un rigore di cui, nei vostri scritti, si fatica a rilevare il concatenamento? Sempre di più, mi domando se il vero rigore non esiga innanzitutto che se ne sia carenti -a condizione d'averne coscienzapoiché, credo, possiamo essere rigorosi su certi punti soltanto a condizione di mancare di rigore su altri. Saperlo non mi pare per niente prendere partito contro il rigore. Per questo la vostra impostazione mi piace. Sarò a Parigi intorno al 15 e forse, stavolta, non mi capiterà la sfortuna di mancare d'incontrarvi. Cordiali saluti, Georges Bataille

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Tanti cari saluti al vostro caro fratello.

1. G.Bataille, L'Économie à la mesure de l'univers. 2. Il testo di Caillois era previsto per il fascicolo di Actualitè, “Letteratura e politica”.

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A Michel Fardoulis-Lagrange [23 marzo 1946] Mio caro Michel ⁽¹⁾, ho rimandato la risposta fino ad oggi e lo faccio alla vigilia della partenza: sarò a Parigi dopodomani, vale a dire in contemporanea o quasi a questa lettera. Avete ragione nel prendervela con il mio comportamento ⁽²⁾ e tutto quanto posso dirvi è che non sono mai riuscito a immaginare un'attività a me conveniente: un'attività per me non è altro che un compromesso. Ma dal momento che è escluso non farne e che non c'è tra gli esseri comunicazione possibile senza attività, non vedo alcun modo per non accettare le regole elementari, che sono quelle senza le quali essa sarebbe impossibile. In tal senso consento ad abitudini secolari, parlo, utilizzo unn linguaggio

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secolare, ecc. Anche se quanto evocate in una lettera molto più chiara, mi sembra, che [mancano diverse parole causa foglio strappato], era in sé di natura [mancano diverse parole] di valore ciò che per una ragione o l'altra mi ha fatto andare in bestia, è soltanto nella misura in cui il vostro linguaggio avrà operato tale privazione. E dal momento che sembrate darvene pensiero... Non so, da parte mia, ciò che significhi una lucidità essenziale se essa non impegna o non s'impegna ad assumere, se può, la lucidità comune. E non vedo come evitare, poiché viviamo i nostri più intimi problemi appoggiandoci alle definizioni del linguaggio, la messa in chiaro dei problemi che ponete. C'è in noi troppa volontà di ripiegarsi, troppa fuga davanti all'autentico, per non assumersi la miseria che questo chiama in causa. Ma credetemi, soprattutto mi rattrista percepire, in quel che qui ci separa, l'espressione di una situazione comune, che non può non separare pure quelli che vi si trovano. Poichè essa rende normalmente ombrosi e si potrebbe sospettare se, non appena venga meno il carattere ombroso, non sia l'autenticità a fuggire. Con affetto.

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Georges Bataille Se vi scrivo prima di partire è che avrebbe avuto poco senso rivederci prima che lo abbia fatto, dal momento che ci tengo e mi farebbe piacere anche incontrarvi da solo. In ogni caso, da domenica mattina sarò raggiungibile al numero Danton 60.24. .

1. M. Fardoulis-Lagrange (1910-1994) frequentò Bataille al tempo del Collège d'Études socratiques e da lui venne ospitato e difeso durante la guerra. Fondò nel 1945 la rivista Troisième Convoi. 2. In precedenza Fardolulis-Lagrange si era mostrato perplesso quanto all'atteggiamento distaccato di Bataille verso gli usi del mondo letterario.

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A Pierre Prevost Vézelay, 9 aprile 1946 Caro amico ⁽¹⁾, vi invio del materiale e più tardi riceverete tutto il resto. In ogni caso bisogna cercare di fare il possibile per segnalare nel n° 1 almeno uno o due libri americani. Maquet ⁽²⁾ non è la persona indicata 1) per qualsiasi libro che non abbia a priori per lui un senso profondo 2) per un tema come quello dei neri americani. Per contro, è possibile chiedergli, come lavoro remunerato, uno studio analitico del Mosè di Freud (da 3 a 5 pagine della rivista) che lui potrebbe, se vuole, firmare con pseudonimo. (Gli scriverò io stesso a tal proposito). È evidente che nessuna delle opere indicate può permettere, quanto quella, di rispondere a priori al desiderio d'informarsi dei lettori.

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Per l'opera di Margaret Mead [From the South Seas], bisognerebbe chiedere a Caillois se conosce qualcuno (e naturalmente domandategli anche se vuol parlare della Managerial revolution di Burnham, un libro effettivamente importante, un poco fascista per certi versi. Ma è in possesso di Caillois? Potete pure, se Maquet non accetta, parlargli di Freud. Forse suo fratello [Roland Caillois] potrebbe pensarci. A proposito, sappiate che ho il suo grande articolo su Merleau-Ponty: occorrerebbe, se vi capitasse di vederlo, dirgli che si è obbligati a far passare l'Heidegger di Koyré). Potete chiedere a Caillois ma ripensandoci è più indicato rivolgersi a Michel Leiris. Attualmente, verso di me è ben disposto. Può sicuramente indicarvi qualcuno del Trocadéro: ricordargli che, per un giovane addetto del Musée de l'homme, la possibilità di guadagnare 1500 o 2000 franchi facendo un lavoro che non gli fa perdere del tempo, è interessante. Occorre, su un argomento come quello, più che una breve recensione qualcosa come 4 pagine della rivista. Più analitico che critico ma, va precisato, tale che il primo lettore venuto possa appassionarsene (cosa che non esclude una certa serietà scientifica). (A proposito di Leiris, bisognerà

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fare una recensione della ristampa di L'Âge d'homme. Il fatto che il libro sia uscito nell'estate del '39 giustifica che se ne parli adesso. Ho in mente di chiedere a Sartre -visto la considerazione che ha per Leiris ed il libro. Che ne pensate? Se oltre a questo trovate qualche persona competente che voglia parlare di Munford, andrà bene ma meno bene degli altri due. Per l'argomento bisognerebbe trovare qualcuno che lo conosca già approfonditamente. Se no, lasciamo perdere. Per Smith (Strange Fruit), ritengo possiamo parlare solo con precauzione e relativamente poco di letteratura. Possiamo affidarci a Kaplan, ma poiché abbiamo altre opzioni di libri inglesi, è con gli altri che bisogna cominciare. Per Veblen, il titolo è bello ma è meglio non imbarcarsi su un titolo per cominciare una storia nelle condizioni che mi avete descritto. Non vi nascondo la sorpresa per quanto riguarda la questione politica. Ignoravate che ero pressoché d'accordo con Blanchot nel considerare la posizione anticomunista come insostenibile? La cosa peggiore per me è manifestare tale posizione in modo aggressivo senza fare niente e senza aver niente da proporre. Capisco che Ollivier ⁽³⁾ sia stato portato, controvoglia e perché attaccato, ad assumere

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decisamente in questi ultimi tempi l'atteggiamento in questione: semplicemente ritengo che sia una storia fastidiosa, spiacevole. Dato il tempo che ci ha messo ad arrivarci, immagino che sia più o meno d'accordo con me -forse per altre ragioni. Questo in ogni caso il mio parere in generale. Per quanto concerne la rivista, le cose erano già in chiaro nella conversazione di cui vi ho parlato, molto circostanziata. Che Ollivier nel frattempo sia stato costretto a cambiare posizione in Combat è una questione personale. Ma mi stupisco che non vi siate ricordato di quella conversazione che chiariva la questione della rivista. Ma, insomma, vediamo ciò che proponete. Esprimeremo posizioni differenti. In tutta libertà. La posizione di [Eric] Weil non potrà essere espressa. Quando leggo quel che mi scrivete, mi domando se mi si appannano gli occhi. Caro amico, vi ho scritto, credo, nella maniera più moderata. Quando più persone agiscono insieme, l'azione implica una moderazione conciliante e una buona volontà di accordarsi da parte di tutti. Se non si osserva questa regola... E, cosa strana! in questo caso, non è il comunista ad essere in difetto. Vi inalberate troppo. Altrimenti, come potreste avanzare proposte tali da rendere ogni conversazione inutile? Quando si è

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trattato dell'entrata di Weil nel comitato di redazione, potevate già pensarci. Perché no? Non sarei stato d'accordo con voi, non foss'altro a motivo del desiderio che condividete con me di vedere entrare Blanchot nel comitato di redazione (e vi è nota la sua insistenza nel chiedere, per il cahier [Actualité], che venisse espressa l'opinione stalinista), ma in quel momento avrei potuto accettare. D'altra parte, ho un altro motivo per pensare che la vostra proposta non possa servire da base ad una rivista di recensioni. In un cahier per esempio, come una volta su La N.R.F, opinioni particolari possono venire espresse in quanto opinioni particolari. Ma quando scrivete un resoconto non è la stessa cosa. Vi si chiede per prima cosa di parlare di un libro. A partire da lì è possibile esprimere giudizi ma, non appena li si faccia risaltare nei vari aspetti, se essi sono divergenti, la cosa non mi darà più fastidio che in un cahier, ma troverò la rivista comica e senza personalità. Rimango persuaso che Albert Ollivier, parlando dello Zero e l'infinito [di Arthur Koestler], avrebbe lasciato pochi dubbi quanto alle proprie idee. Ma non ho mai pensato che, come voi, avrebbe aggiunto alla sua critica una vera presa di posizione, ben definita. E ciò, se

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aggiungiamo che siete redattore capo della rivista, non fa che rendere la cosa più pesante. Ve lo ripeto: abbiamo una pietra di paragone. Immaginate che Weil da parte sua si lanci in un suo piccolo pezzo di bravura stalinista. La rivista risulterebbe semplicemente ridicola. Come vi ho detto all'inizio, sono a priori portato a preferire non l'astensione totale, ma la maggiore possibile in materia. Ma su tale questione di principio cercherò d'essere molto conciliante. Se si trattasse di una rivista del genere La N.R.F. perché no? Soltanto, il problema che si pone oggi non è di sapere se la rivista prenderà questa o quella posizione dal punto di vista politico. Ma di sapere se essa avrà o no una sua compostezza. Se sarà o no presentabile. Mi stupisce che vi siate trovato davanti a un muro. Ed evidentemente la vostra conversazione con Albert Ollivier non poteva sistemare niente. Il mio atteggiamente è del tutto diverso. Avrei voluto aver lo scritto di Ollivier il più presto possibile. Non per discuterlo ma perché passasse. Sono convinto che sarebbe stato perfetto. Adesso, una discussione pesante oscurerà la questione. Farà sembrare difficile quel che dipendeva solo dal senso delle sfumature. E il

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testo di Ollivier è previsto in ogni caso per il n° 3. Lo confesso, mi pare un risultato desolante. Non voglio d'altra parte desolarmi oltre misura. Credo che tutto si sistemerà. Una conversazione avrebbe evitato, ritengo, tutta la storia. Ma penso che, indipendentemente dalle questioni di principio, voi non abbiate ancora chiaro quel che dovrebbe essere una recensione in una rivista come quella che dobbiamo fare. Così, non importa come, ogni dichiarazione generale, poco o tanto, stonerà. E senza arrivare a dire che l'ideale sarebbe un resoconto impersonale, credo che le opinioni dell'autore andrebbero soprattutto espresse in forma di riserve e se non di studi almeno abbozzati, giustificate da una conoscenza particolare della questione (e non soltanto da una tendenza). Quel che stiamo cominciando è sostenibile soltanto a condizione d'essere combinato in maniera differente dai giornali. Parecchio seccato ma credetemi molto cordialmente, Georges Bataille Quanto a Part du diable [di Denis de Rougemont] altre scocciature! ma ho letto, già da molto tempo, degli

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articoli su settimanali e riviste ! Bisogna aspettare, per riparlarne, l'edizione francese. O ci vorrebbe un motivo specifico. Si potrà in ogni caso far coincidere grosso modo la pubblicazione del libro e della recensione. Scrivo due righe a Albert Ollivier in cui gli dico l'essenziale di quel che vi ho scritto oggi. Ho avuto l'indirizzo di Waldberg: 51, rue Bonaparte. Sarà senz'altro un albergo. Scrivo anche a Caillois cui non posso non chiedere, secondo il desiderio di Aron, le recensioni dei suoi libri. Per Jazzmen, chi potrebbe parlarne? Non vedo nessuno. Finchè non avremo un numero consistente di libri americani, non potremo d'altronde parlarne. Thomas Mann mi lascia davvero freddo. L'interesse verso i suoi scritti mi pare convenzionale. E poi...Bisognerà parlarne a Weil.

1. Pierre Prévost (1912-2003) giornalista e saggista.

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2. Jean Maquet, collaboratore della rivista Critique. 3. Albert Ollivier (1915-1964) saggista e storico.

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A Pierre Prevost [Vézelay, metà aprile 1946] Caro amico, sfortuna nera ieri. Sbagliandomi d'ora, ho mancato la spedizione. Ricevuto la lettera in cui dite d'essere d'accordo con Weil. Sono più felice che sorpreso, poiché non avevo dubbi sulla sua larghezza di mente. Ma da parte mia non posso, anche se Weil l'accetta, ammettere che la posizione stalinista sia tabu e l'antistalinista liberamente ammessa. Tutto questo d'altronde non è tanto una questione di principio. In causa è la correttezza sella rivista, più che i suoi principi. Opinioni espresse contraddittoriamente in un nostro fascicolo non debbono in ogni caso avere un carattere fastidioso

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o inammissibile per la parte opposta. Non è evidente? Accettato ? Soprattutto, vi prego, se qualcosa nel tono delle mie lettere vi seccasse, sappiate che una conversazione ci metterebbe sempre di buonumore, perfino divertiti a causa della piccola baruffa. Per lettera è impossibile. Cordialmente. Georges Bataille

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A Pierre Prévost Vézelay, 26 novembre 1946 Caro amico, stavolta l'impossibilità di ricevere compensi dalle edizioni du Chêne arriva al punto da farmi rifiutare d'accettare tali condizioni. Rimane solo la possibilità di darvi un potere ancora maggiore. Sono parecchio seccato di chiedervi del lavoro in sovrappiù, ma vi dico che si tratta di un rifiuto definitivo da parte mia. Voglio smetterla con questa commedia. In qualunque maniera mi muova, che chieda un anticipo o che si sia in ritardo verso di me, la macchina anonima degli uffici di Chêne mi riduce allo stato di barboncino in attesa dello zucchero. Vi si mostra un'indegnità che supera tutti i limiti.

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Non ci sono difficoltà insuperabili. Se il sistema di cui vi parlo comporta errori di dichiarazione fiscale, questi errori saranno rettificati a fine anno. Vi fornirò, se occorre, una procura legale (ma vi ho detto che la stessa Amministrazione si accontentava di una procura in carta libera). Capisco che la casa sia costretta a dei rinvii, ma se al rinvio s'aggiunge il fatto che una comunicazione di invio: 1) non significa niente 2) se va bene, deve essere seguita da cinque giorni d'attesa, capirete facilmente che l'unico punto oscuro nel mio rifiuto di continuare sta nella data tardiva in cui esso avviene. Vi chiedo perciò di vedere Madame Rieberger a tal riguardo, ma non per esporle un problema; per comunicarle che d'ora in avanti avrete una procura per percepire le somme dovutemi dalla casa. Tuttavia, deciderà lei se preferire una procura legale generale, o una procura generica in carta libera, oppure delle procure particolari per ogni somma in carta libera. Se Madame Rieberger fa obiezioni, ricordatele pure 1) che è escluso rifiutare il pagamento d'una somma dovuta in presenza di regolare procura; 2) che da parte mia si tratta di una decisione su cui non ritornerò (l'esperienza di questi pochi mesi è decisiva); 3) che,

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beninteso, se sia necessario, le scriverò per spiegarle tale decisione. Solo precisate che non si tratta di una protesta. L'esperienza indica che non ci sono altri modi, tutto qui. (È proprio divertente che l'unico invio fattomi a Vézelay in condizioni normali, alla data voluta, sia avvenuto nel momento in cui mi trovavo a Parigi). Mi scuso ancora una volta se vi metto alle strette, ma credo che, anche per voi, sarà meno fastidioso andare qualche volta alla posta piuttosto che reclamare senza esito e sentire le mie proteste continue. Per il Baudelaire di Sartre, potrete utilmente rivolgervi a Saillet (presso Adrienne Monnier). Sapete che è Justin Saget⁽¹⁾. Portategli i miei saluti e ditegli che la lettura del suo bigliettino mi ha proprio convinto a far coro con lui ma in 20 pagine (con un tono più accademico, forse, ma altrettanto nettamente) ⁽²⁾. Aggiungo qui una piccola lista di servizi da espletare. Cordialmente. Georges Bataille Ricevuto niente oggi a giro di posta! Vedete che si tratta di uno scherzo durato troppo. E nessun vaglia telegrafico. Naturalmente qui compro un sacco a

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credito, ma non posso farmi prestare dei soldi: mi restano soltanto trenta franchi. II P.S. Ricevuto vaglia tel. di 3000. E chiaramente nient'altro. Vorrei sapere quando riceverò gli 11.000 restanti. III P.S. Il Baudelaire di Sartre secondo l'indicazione di Saget è pubblicato non a Monaco ma dalle Éd. Du Point du jour, 23 rue Pasquier. Il che semplifica: è molto importante per telefonar loro, ma chiedo un esemplare con lo stesso invio, da spedire a V[ézelay].

1. Maurice Saillet firmava come Justin Saget gli interventi, i bigliettini galanti, spesso severi, su Combat o Critique. 2. Il resoconto di Bataille sul Baudelaire sartriano comparve su Critique, nn. 8-9, 1947 e denunciava “l'inconsistenza dell'esistenzialismo” inadatto a cogliere tanto il sensibile quanto la poesia o l'azione.

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A Jérôme Lindon Vézelay, 25 ottobre 1947 Egregio Signore ⁽¹⁾, ecco il testo in questione ⁽²⁾. Ho sistematicamente scritto io, non avrete da metterci che il mio cognome. Nel caso in cui ci fosse bisogno di un adattamento nel senso dell'omogeneità dell'insieme, sono a disposizione. Inviatemi nel caso una copia dell'insieme, vi rispedirò il tutto senza ritardi. Fate conto che, se consegnate il plico alla posta di mattina, riceverete il testo sistemato tre giorni dopo (questo dal lunedì al giovedì, ma può capitare a rigore, con un po' di sfortuna, un giorno di ritardo). Risponderò lunedì a una lettera di Lambrichs ricevuta ieri.

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Con i miei distinti saluti. Georges Bataille Non ho una copia di questo testo. COLLEZIONE “L'USAGE DES RICHESSES” Parto da un principio semplice e indipendente da ogni analisi economica. Secondo me, la legge generale della vita richiede che in condizioni nuove un organismo produca una quantità di energia maggiore di quella di cui ha bisogno per sussistere. Ne risultano due cose: o questo sovrappiù d'energia disponibile può essere impiegato per la crescita o la riproduzione, oppure viene sprecato. Nel campo dell'attività umana, il dilemma assume questa forma: o s'impiega la maggioranza delle risorse (vale a dire del lavoro) disponibili per mettere in opera nuovi mezzi di produzione -ed abbiamo l'economia capitalistica (l'accumulazione, l'aumento delle ricchezze)- o si sperpera l'eccedente senza cercare di aumentare il potenziale di produzione -ed abbiamo l'economia della festa. Nel primo caso, il valore umano è in funzione della produttività; esso si collega, nel secondo caso, ai migliori esiti dell'arte, alla

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poesia, alla piena fioritura della vita umana. Nel primo caso, non ci si occupa che del tempo a venire, cui si subordina il tempo presente, nel secondo caso conta soltanto l'istante presente, la vita liberata, almeno ad intermittenza, ed il più possibile, dalle considerazioni servili che dominano un mondo consacrato alla crescita della produzione. Questi due modelli di sistemi valoriali non possono esistere allo stato puro. C'è sempre un minimo di compromesso. Ma l'umanità di cui siamo parte s'è formata sotto il primato dell'accumulazione, della consacrazione delle ricchezze all'aumento del potenziale di produzione. Le nostre concezioni morali e politiche sono tuttora dominate da un principio: l'eccellenza dello sviluppo delle forze di produzione. Ma se è vero che un tale principio ha trovato poche obiezioni nelle menti, lo stesso non succede nel gioco dell'economia stessa: messo alla prova, il principio dello sviluppo infinito ha mostrato che poteva portare a conseguenze impreviste. Quanto meno, se i risultati teorici appaiono sempre quelli augurabili, certi risultati pratici si sono empiricamente rivelati incresciosi. E se l'umanità, nel suo insieme, continua a volerlo e a regolare i suoi giudizi di valore su quel desiderio, in molte menti si è installato il dubbio riguardo alla praticabilità infinita dell'operazione.

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Ma si può andare oltre e porre molto precisamente il problema: le concezioni morali e politiche che continuano a dominare la nostra attività -vale a dire l'economia- non sono forse in ritardo sui fatti? Non ripetiamo forse nei nostri giudizi complessivi l'errore di quegli stati-maggiore che si rivelavano ogni volta in ritardo di una guerra? E in definitiva, il pensiero umano non dovrebbe seguire il movimento rapido dell'economia? Senza dubbio, non si tratterebbe di rinunciare di colpo alla dotazione strumentale crescente del globo, ma potrebbe essere tempo di riformare le nostre concezioni sull'uso delle ricchezze. Già l'America, il cui potenziale si è straordinariamente sviluppato, pone problemi che non possono essere risolti senza impatto sulle nostre concezioni. Cosa strana, il resto del globo può, per parte sua, perseguire una dotazione tanto più necessaria avendo la guerra un po' dappertutto diminuito le proprie forze, solo se l'America rinuncia in parte ad utilizzare le sue ricchezze, secondo le antiche regole, per l'accrescimento delle proprie forze. Il fatto di impiegare ricchezze per qualche cosa di diverso dall'arricchimento di sé stessi è così messo in conto in primo luogo nell'attività politica. In tali condizioni, è tempo di calibrare le nostre concezioni secondo le nuove necessità che sono venute alla luce,

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meglio, se possibile, precorrere quelle che ci si imporranno inevitabilmente. Per contribuirvi, mi propongo di indicare in una serie di lavori e saggi, in vista dei quali ho ottenuto la collaborazione di persone qualificate, da un lato le profonde deformazioni dell'equilibrio generale causate dallo sviluppo attuale dell'industria, dall'altro le prospettive di una economia non centrata sulla crescita. Nella prima parte non ci rimarrà che proseguire una analisi già avviata dalla moderna scienza economica, ma la seconda parte dovrà introdurre delle considerazioni teoriche nuove e fondare la rappresentazione generale del gioco economico sulla descrizione dei sistemi anteriori all'accumulazione capitalistica. Questi studi dovranno così includere un campo ritenuto generalmente esterno a quello dell'economia: quello delle religioni, primitive o no, a cui è connesso quello della storia delle arti. Effettivamente, secondo me, l'uso delle ricchezze, più esattamente il loro fine, è essenzialmente lo spreco: il loro ritiro dal circuito della produzione. Ora, non solo questa verità ha fondato dal principio i profondi valori morali (quelli del disinteresse) e tutti i tesori umani trasmessici nei secoli; ma di più, è la sola su cui possiamo basarci adesso per risolvere i problemi posti dallo sviluppo industriale. Soltanto il dono

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senza speranza di profitto, come richiesto da un principio d'eccedenza finale delle risorse, può trarre fuori il mondo attuale dal vicolo cieco. L'attuale economia ha già da adesso determinato in profondità un rovesciamento radicale delle idee; ma tale rovesciamento deve essere ancora posto in opera per rispondere alle esigenze dell'economia.

1. Jérôme Lindon (1925-2001) editore, alla testa delle Éditions de Minuit. 2. Si tratta della presentazione della collezione “L'Usage des richesses” voluta da Bataille presso le Éditions de Minuit.

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A Albert Camus p394 Vézelay (Yonne), 5 marzo 1949 Caro amico, sono seccato per i tanti refusi infilatisi nella recensione di Lo stato d'assedio che ho affidato a Critique [n° 33, febbraio 1949]. In particolare style invece che cycle assez disparate, e soprattutto traduit al posto di trahit la vérité non aggiustano un testo scritto d'altro canto in condizioni molto difficili. Posso chiederti se hai un'idea circa la data di uscita de L'uomo in rivolta? Sto pensando di riunire una serie di studi sulla morale a partire dalla tua posizione (cha ha tanto più significato in quanto è al momento quella su cui converge la maggioranza. Non parlo di quelli che restano attaccati alla propria servitù). Un libro di tal

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genere avrebbe senza dubbio più interesse se tenesse conto di quel che dirai ne L'uomo in rivolta ⁽¹⁾. Mi rattista un poco leggere quel che dici di Sade a Claudine Chonez [su Paru, ottobre 1948]. Non che sia scioccato dal vederti prendere Sade meno seriamente di quanto faccia io (la venerazione non è il mio forte), ma quel che ne ho detto non è di natura tale da giustificare le frasi che ti attribuisce Claudine Chonez. D'altra parte mi pare che tutta la cosa abbia un suo peso. Credo che tu immagini, da parte mia, un accordo con la crudeltà, mentre è solo l'orrore per tutto quanto è condanna, punizione, giudizio a farmi cercare una morale al di là della giustizia. Senza dubbio non ti avrei scritto non fosse per quegli stupidi refusi, ma non lo rimpiangerei se tu ci vedessi il segno di una vera amicizia. Georges Bataille

1. L'idea di un libro dal titolo Albert Camus, la morale e la politica non si concretizzò.

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A Raymond Queneau Carpentras Bibliothèque Inguimbertine, 29 marzo 1950 Caro Raymond, non ti ho più scritto dopo la nostra conversazione a proposito delle ristampe di L'Esperienza interiore e di Su Nietzsche. In realtà, da allora ho ripensato seriamente ai problemi che quelle ristampe mi ponevano. Ho già lavorato a lungo alla prefazione di L'Esperienza interiore che mi pare inevitabile. Vorrei avanzare alle Edizioni la proposta seguente, su cui ho parecchio riflettuto. Vorrei raccogliere l'insieme dei miei scritti sulla N.R.F. che in tutto dovrebbero formare tre volumi in successione sotto il titolo generale di “Somma ateologica”: questo titolo

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potrebbe essere stampato in caratteri piccoli, riservando quelli grandi ai titoli particolari (come per Alla ricerca del tempo perduto). Il primo volume consisterebbe sostanzialmente di L'Esperienza interiore. Ma sarebbe senza dubbio necessario aggiungere il contenuto dettagliato sulla pagina del titolo, vale a dire: “L'ateologia” (introduzione non solo dell' Esp. Int. Ma della “Somma” intera); L'Esp. Int. 2 ed.; Metodo di meditazione, 2 ed.; Studi d'ateologia (sull'esistenzialismo, la poesia, l'erotismo, ecc.). Il secondo volume sarebbe formato da: Il Mondo nietscheano di Hiroshima (che sto per terminare): Su Nietzsche, 2 ed.; Memorandum, 2 ed. (si tratta dei brani scelti di Nietzsche che mi riprometto di rimaneggiare nei passi personali -introduzione dei capitoli). Il terzo volume potrebbe portare il titolo di L'Amicizia (primo titolo del Colpevole). Comprenderebbe: Il Colpevole, 2 ed.; L'alleluia, 2 ed.; Storia di una società segreta (non scritto) ⁽¹⁾. In un colloquio di novembre con Gaston Gallimard avevamo convenuto che nel csso in cui la riedizione di Su Nietzsche fosse approntata per il centenario [sic,

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leggasi cinquantenario] della sua morte (25 agosto), sarebbe bastato consegnare il manoscritto ad aprile. Posso prendere l'impegno di farlo per il 15 aprile. Per quanto concerne L'Esperienza interiore, mi pare, data la non eccessiva importanza del titolo generale, che non potrebbe esserci nessun inconveniente nel pubblicare questo volume ad ottobre o anche più tardi, se lo ritenete giusto. In effetti potrei consegnare il manoscritto finito soltanto a giugno. Penso che converrebbe pubblicare i volumi così composti nel formato in-8°, forse nella collezione “Philosophie. Systèmes et confessions”. I volumi avrebbero effettivamente in media quasi 800.000 caratteri. Di norma. La Santità del male ⁽²⁾ dovrebbe costituire il quarto volume di questa somma e forse ci sarebbe interesse nel farlo passare prima di Il Colpevole, al fine di evitare una serie troppo lunga di riedizioni. Vorrei sapere che ne pensi del progetto e, in particolare, sarebbe per me importante sapere se la casa è d'accordo sulla riedizione di Su Nietzsche e del Memorandum. Saluti. Georges Bataille

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1. Questo piano di “Somma ateologica” riuscì effettivamente a concretizzarsi, comprendendo però solo opere già edite; il resto dei titoli annunciati da Bataille non vedrà la luce. 2. Era previsto di riunire sotto questo titolo diversi articoli apparsi su Critique, tra gli altri su Simone Weil, Sade e Baudelaire.

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A Alexandre Kojève Orléans, 8 aprile 1952 Caro amico, mi trovo d'accordo con quanto dite ⁽¹⁾ ma non vi sfuggirà che il terreno su cui avanzate è parecchio scivoloso: mi sembra malgrado tutto che impegnandovi solo a metà, non ammettendo che quell'appagamento di cui parlate non è afferrabile, essendo in fine al più una farsa, voi veniate meno alla cortesia elementare consistente nell'invitare i vostri barbuti ⁽²⁾ a ballare epiletticamente con i personaggi di cui parlate. Bisognerebbe, in verità, per maggior completezza, trovare quel tono indefinito che non è né quello della farsa né il suo contrario ed è evidente per finire che le parole escono ad un'unica condizione dalla gola: d'essere senza importanza.

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Credo che voi minimizziate l'interesse delle espressioni evasive che impiegate nel momento in cui giungete alla fine della storia. Per questo mi piace tanto il vostro articolo, che è il modo di parlarne più derisorio, vale a dire, a mio parere, meno evasivo. Solo che andate forse veloce, per nulla preoccupandovi di pervenire ad una saggezza ridicola: bisognerebbe infatti rappresentare ciò che fa coincidere la saggezza con l'oggetto del riso. E io non credo che possiate personalmente evitare quest'ultimo problema. Non vi ho mai sentito dire, in effetti, nulla che non sia espressamente e volutamente comico, al momento di arrivare a questo punto risolutivo. Forse è questo il motivo per cui avete talvolta ostentato di riservare una parte alla mia saggezza. Malgrado tutto, ecco quel che ci oppone: voi parlate di soddisfazione e nella vostra soddisfazione vi compiacete che ci sia di che ridere, ma non che sia il principio stesso della soddisfazione ad essere risibile. Questo apre, credo, le prospettive in cui sviluppo un certo numero di domande nuove, legate a un problema che non è tanto quello del soddisfacimento quanto quello della sovranità. In tal senso, non è solo una

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differenza di vocabolario: 1) che la sovranità è più visibilmente inaccessibile del soddisfacimento; 2) che la contraddizione tra la sovranità e la lotta contro la natura animale cominci male fin dal subito (essere umano è smettere d'essere sovrano); 3) che il problema della sovranità rimane storicamente legato (storicamente: sensibilmente) a tutte le forme in cui l'uomo si rivela a sé stesso; dunque bisogna considerarlo sui piani più umani: il riso, l'erotismo, la lotta, il lusso. In altri termini, ponendo la sovranità del sapiente alla fine della storia e non la sua soddisfazione, la storia è presente tutta intera -concretamente- nella fine della storia; e l'identità dell'insoddisfazione e della soddisfazione diviene sensibile (sotto questa luce, i problemi del passato sembrano mal posti, subordinati ad un risultato che pareva possibile e il problama ultimo sopprime gli altri, essendo quello di un ritorno all'istante -che implica lo scacco in ultima istanza di ogni ricerca subordinata). Penso in particolare che nel momento in cui tirate in ballo l'asceta dell'India voi dimentichiate che il vostro atteggiamento implica il non dar ragione a nessuna delle parti; la questione che si pone alla fine ha come risposta questo stallo in cui l'uno e l'altro

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soddisfacimento immaginabile (quello dell'asceta ed il vostro -o quello di Queneau) mostrano bene la natura dell'istante per l'uomo; che è, nel medesimo tempo che il suo unico possibile compimento, il suo annientamento come coscienza. Ciò non toglie che nel formulare la saggezza della fine della storia con l'aiuto d'immagini prese a prestito a Queneau voi diate l'impressione allo spettatore che incarno d'essere stato spinto negli ultimi trinceramenti e d'aver occupato la posizione in cui poter al massimo sfuggire ad una colpevolezza definita dalla sola innocenza possibile: quella dell'istante. Mi piacerebbe riconoscere, senza dubbio, che Homo quenellensis sia ben più vicino... Eppure! Lo sarebbe senza la coscienza d'essere l'annientamento dei barbuti? In fondo, potreste riconoscere questo: che l'uno e l'altro falliscono proprio per il fatto che l'uno e l'altro procedono verso uno scopo soltanto nella misura in cui s'allontanano dalla coscienza, in cui ritrovano un'innocenza che, sola, rende il soddisfacimento sopportabile, ma essa nello stesso momento sfugge. A proposito di soddisfazione, qualcosa nel vostro articolo mi crea imbarazzo. In francese non si può dire

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soddisfazione con [avec] sé stesso. In certi casi ho potuto sostituire avec con de; in altri, non funzionava, soprattutto al principio. Poiché questo dava l'idea di una soddisfazione vanitosa. Non ho potuto risolvere l'intoppo prima d'inviare l'articolo ieri sera alla tipografia. Ma senza volere in nulla cambiare il vostro stile, credo che sarebbe meglio sopprimere le imprecisioni. Tanti cari saluti. Georges Bataille P.S. Ho letto la fine della “Domenica” che non conoscevo; peccato che il vostro articolo abbia un po' troppo di quella letteratura provocatoria e poco intelligibile che tanto bene denunciate. Diane, che vi saluta, mi dice che questa lettera è sgradevole. Spero che si sbagli, altrimenti sono io che non riesco a esprimermi bene.

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1. Argomento della lettera è l'articolo di Kojève dedicato a tre romanzi di Queneau (Pierrot mon ami, Loin de Rueil e Les Dimanches de la vie) e apparso su Critique, n° 54, novembre 1951. 2. Il barbuto Hemingway riassumeva bene la devirilizzazione del mondo contemporaneo in prevalenza abitato da proletari conservatori, non più in rivolta né tantomeno eroi. Considerando il declino dell'imago paterna Kojève scriveva: “Non restano che sembianti virili. Si tratta di una mascherata virile impersonata dal barbuto americano con il fucile, uccisore di tori, pescatore, seduttore di donne e grande bevitore al cospetto dell'eternità. Questo è tutto quanto potete ottenere dagli uomini odierni, una sembianza virile”.

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A André Masson [1955] Caro André soltanto la malattia mi ha impedito di venire a Parigi. Non sappiamo proprio cosa sia. C'è un piccolo attacco di tubercolosi polmonare. Forse della tubercolosi ossea. Ma sono proprio mal ridotto. Rattristato di non poter essere venuto. Georges A presto, spero, malgrado tutto.

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A Dionys Mascolo Orléans, 18 novembre 1956 Caro Dionys, potrei aver notizie sulla riunione del 15 ⁽¹⁾ ? Credo che la depressione non mi abbia mai concesso un momento di respiro, perché è di depressione nervosa che si tratta. Se non me lo avesse chiesto insistentemente Diane, sarei tuttavia venuto, ma quel tipo di riunioni, penso, lascino poco spazio ai fantasmi. Si tratterebbe d'essere proprio il contrario. Devo darne la colpa, in fondo, ad un'ipersensibilità. Il peggio (?), è che essa accresce, mi pare, la lucidità; ma devo fermarmi nel momento in cui ho la sensazione di perdere la testa (è ancora più mediocre, quando i nervi s'allentano, tutto diventa mediocre e vile).

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Qualunque cosa sia -e benché, senza dubbio, grazie ai ricostituenti ordinatimi per telefono da Fraenkel, mi riprenda- la saggezza mi consiglia di mantenere uno stile ritirato. Se non vi ho troppo innervosito, mi piacerebbe rivedervi spesso. Mi piacerebbe tanto rivedere Axelos. E un giorno vorrei anche vedere Rolland [Jacques-Francis Rolland]. Ma, malgrado tutto, sono condannato a rimanere solitario. In questo, spossatezza fisica e depressione morale vanno d'accordo. E, in aggiunta, come dimenticare che la riflessione mi ha spinto a percepire sempre più la differenza tra gli uomini come un qualcosa di più reale dell'uguaglianza? Con affetto, Georges Bataille

1. Organizzata dalla rivista Arguments per dibattere pubblicamente sulla situazione politica dopo l'intervento sovietico in Ungheria; Bataille fu impedito a parteciparvi per l'aggravamento delle condizioni di salute.

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A Dionys Mascolo Orléans, 27 settembre 1957 Caro Dionys, spedisco oggi una lista di nomi da aggiungere agli inviti per la faccenda che sapete -ne abbiamo parlato insieme- che si terrà il 4 ottobre ⁽¹⁾ ma non ho aggiunto il vostro supponendo che questo genere di riunioni sia parecchio deprimente (per me, senza dubbio, lo sarà ancora di più). Inutile ricordarvi, tuttavia, che se vi ci vedessi avrei un momento di conforto. La stessa cosa ho pensato per Antelme e Des Forêts, entrambi a me cari. Ad ogni modo spero di vedervi e vi dico a presto. Con affetto. Georges

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1. Per festeggiare il sessantesimo compleanno di Bataille e la concomitante pubblicazione di La Letteratura e il Male, L'Azzurro del cielo e L'Erotismo, i tre editori Gallimard, Pauvert e Minuit organizzarono una serata di festeggiamenti presso il Pont-Royal.

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A Dionys Mascolo Orléans, 15 aprile 1958 Caro Dionys, leggendo il vostro libro ⁽¹⁾ ho scritto queste due o tre pagine. Ve le invio. Con affetto. Georges p. 34. “Sarebbe rischioso proporre come caratteristico questo o quel tratto dell' senza inscriverlo su un tale sfondo, storico. Prima d'essere visto come si viene al mondo in un certo paese, s'impara a leggere in una certa lingua, ci si trova a vivere in un contesto storico dato”

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È falso. Una formica sta al mondo senza niente altro. Non c'è un contesto per una formica. Ora, in me la formica conta almento quanto l'uomo, o più. La formica in me è più di quest'uomo. Ciò che in me si distingue dal contesto non è riducibile a “io più di una formica”. Ciò che si distingue in me dal contesto è inumano, se ne distacca per eccesso. Ma la sua irriducibilità al contesto è la stessa del moscerino. Quel che dico, lo dico in un linguaggio umano, ma senza potervi conformare le mie frasi le proietto nell'oblio d'esse in cui vivo, nella mia animalità. Esse sono subordinate. L'oblio è come la morte, la morte è sovrana. Proiettate senza indugio ciò che dico nel cielo dell'oblio e della morte definitiva. Non posso scrivere una parola senza distanziarmene. Voi non potreste, senza farlo a vostra volta, intendere una parola che dico. Voi siete un altro! Parleremo se volete la mia lingua di moscerino. Oppure un silenzio di morte ci libererà dalle articolazioni del linguaggio comune che, sole, con le loro interruzioni nette, ci hanno sciolto da una liberazione abborracciata. Ascoltatemi bene, scendete con me in fondo al pozzo. Paragonato alla chiarezza del linguaggio comune, è la tomba. p. 98

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...le posizioni teoriche del surrealismo...sono l'integrità del pensiero, il suo punto d'onore, quel che gli consente di rimanere integro. Come se il pensiero non fosse un'attrezzo. Ma un'attrezzo senza onore. Il giorno in cui un surrealista sconcerterà l'altro come farebbe rendendogli l'ultimo respiro...Nella sua immensità, il riso sfugge come i morti alle servitù del pensiero. Se vi spiegate siete già intrappolato. Vi occupate delle faccende successive e siete già impantanato nei successi raggiunti seguendo un saggio consiglio. Nessuno può agire e svincolarsi dall'azione.

1 . D. Mascolo, Lettre polonaise sur la misère intellectuelle en France, Éd. de Minuit, 1957.

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A Dionys Mascolo Guitrancourt, 22 giugno 58 Caro Dionys, è possibile che venga a trovarvi domani, ma sarà comunque di volata. Preferisco perciò scrivervi. Sono certo di essere del tutto estraneo alle vostre preoccupazioni. L'unica espressione che mi abbia colpito nella vostra lettera è il rifiuto non condizionato di cui parlate. Ma non accetterete che io dia sul vostro giornale i motivi che ho per ritenere equivoco il vostro rifiuto non condizionato. Mi accontento di comunicarveli in questa lettera. Parlo di ragioni religiose per abbreviare, tuttavia intendo qualcosa di semplice. Per me si tratta di un'impossibilità d'essere d'accordo col principio su cui riposa l'azione reale di una società organizzata, di una

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società che si dà leggi senza le quali non avrebbe esistenza materiale. Per me non ci sono che ragioni d'ordine religioso in grado d'opporsi nel loro principio a questo accordo. Infatti, quale che sia l'ordine sociale di cui si tratta, le ragioni per accordarmi ad esso, anche se mi si impongono, potrebbero valere soltanto relativamente, non sarebbero mai soddisfacenti fino in fondo: non sarò mai d'accordo con l'imprigionamento di tutti gli imprigionati e mai potrò opporre ad un imprigionamento dato solo un'altra forma d'imprigionamento. Aggiungo, per scrupolo di precisione, che il rifiuto sistematico di ogni forma d'imprigionamento avrebbe per me soltanto un senso, farmi mettere a mio volta in prigione. Parlate di rigore: giungo a questa conclusione rigorosa. Il campo politico che ci rimane è il campo del possibile. In questo campo, posso contribuire con scarso interesse. Posso avere, a tal proposito, non più un'esigenza logica ma solo l'esigenza definita dal possibile: il possibile deve poter essere. Non posso sopportare l'idea di lottare per un impossibile, ad esempio per una democrazia cui, in anticipo, il partito comunista toglie la praticabilità (cosa in cui ha forse ragione). In una tale lotta non vedo nulla di un rifiuto senza condizioni, ma una

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confusione derisoria con questo rifiuto. Il rifiuto senza condizioni è l'affermazione della mia sovranità. Non voglio lasciare un'affermazione tanto violenta nel fango del compromesso, non voglio, soprattutto, mischiarla in un'azione che, senza l'impotenza e l'assurdità che la limitano, porterebbe all'imprigionamento di una parte degli altri. In materia di politica, posso solo, a rigore, accordarmi con quella che evita il peggio (restando inteso che ogni uomo deve sapere fronteggiare il peggio, il che esige grande forza, vale a dire la possibilità di morire e di sopportare la sofferenza nella solitudine). Adesso noterete, forse, quelle ragioni religiose messe in avanti per cominciare. C'è secondo me nella posizione religiosa una scelta chiara da cui ogni religione si è allontanata poiché nessuno ha avuto la forza di farvi fronte. Tutti hanno cercato l'accordo tra possibile ed impossibile. Questo si può fare in maniera realista, empiricamente. Ma l'impossibile confuso con il possibile è la miseria peggiore, sono le perle gettate ai porci. È quanto proponete di fare. Non volete essere gollista. Non volete essere comunista. Dovreste saperlo bene: siete contro tutto e tutti. E volete ricavare

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da tale impossibile situazione un chiacchiericcio impotente. Anche se, da ultimo, qualcosa di più adatto ai bisogni dovesse sopravvenire nel campo del possibile, le condizioni sono tali che è attualmente insensato scommettere la propria vita su di esse (a rigore sarebbe un'evoluzone indipendente dalla politica convulsiva che le si potrebbe accostare). Ma, per sfortuna, siamo tenuti piuttosto a considerare il peggio: la moltiplicazione delle possibilità di catastrofe, con la crescita estrema della popolazione a richiedere, come unico rimedio, la crescente efficacia dei mezzi di distruzione. Spesso mi sembrate cieco all'evidenza: che le prospettive classiche, su cui siamo stati formati, sono superate. Ad ogni modo, siamo personalmente, oggi, tenuti a scegliere tra una chiacchiera da opposizione e la coscienza di una situazione decisiva, quella di un uomo che deve far fronte contemporaneamente da tutti i lati. Contro tutto e tutti è un atteggiamento pretenzioso, senza dubbio, ma è ancora il tempo di chiudere gli occhi? Con affetto Georges

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A Dionys Mascolo 12 [luglio] 58 Caro Dionys, avrete buoni motivi per partire dal surrealismo. Ma alla base il surrealismo ha confuso due cose che d'altra parte sono confuse nel marxismo. Mi piacerebbe farvi una proposta assai rigorosa, su cui sarebbe possibile intenderci. Per questo inizio dal cominciamento, dalla iniziale confusione. Dopo un'esperienza a mio parere sufficiente, ecco come si presenta la situazione. La ricerca di un'uguaglianza di condizioni materiali, la sola che liquiderebbe l'alienazione, ristabilisce di fatti l'alienazione a profitto della produttività: ogni cosa è subordinata, nella relativa uguaglianza delle condizioni, al valore sovrano che è la produttività. Bisognerebbe

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qui risalire all'opposizione del servo e del padrone, ma è impossibile in questa lettera in cui mi preme essenzialmente di evidenziare l'opposizione finale che risulta dalla dittatura totale che dà il potere alla produttività. Che fa esattamente di un valore relativo un valore sovrano. Poiché, nella ricerca dell'uguaglianza delle condizioni materiali, è fatale perdere di vista ogni considerazione diversa dalla produttività. Difatti, tutti i valori sovrani della tradizione si legano a dei privilegi. Aboliti i privilegi, si aboliscono insieme tutti i valori sovrani. Mi rivolgo a voi. Non credo che scorgiate i valori sovrani indipendentemente dai privilegi. Adesso dico noi, perché penso a quel che ci incombe. Dobbiamo riconoscere la necessità in cui si è trovato il movimento sociale di opporsi ad ogni valore sovrano. Dobbiamo dunque ad ogni costo evitare di difendere dei valori in maniera tale che possano essere difesi con dei privilegi. In questo senso dobbiamo spingerci oltre. Dobbiamo perciò riconoscere come il valore sovrano debba essere effettivamente ma non interamente conferito alla produttività. È al di là di una tappa, a cui non abbiamo da opporci, che comincia una lotta

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decisiva in cui dobbiamo riconsiderare tutto quel che pensiamo sia legittimo. Ho una gran voglia di convincervi. Si tratta infatti di uno scontro decisivo. Ma non può essere condotto che a condizione d'abbandonare le solite baruffe. Ci vuole una decisione difficile. Ma da un lato è tempo, gran tempo di assumere tale decisione. D'altro lato, le circostanze sono favorevoli. Entriamo in un mondo in cui le conoscenze acquisite consentiranno in genere di mutare l'uomo in mezzo. Non si tratta di opporsi a una simile trasformazione. Sarebbe tempo perso, parleremmo nel deserto. Dobbiamo definire ciò che è irriducibile a tale trasformazione. Dobbiamo crearlo, dobbiamo renderlo sensibile, dopo una rottura rigorosa col passato. Personalmente sono deciso a mettervi di fronte a quel che possiamo fare, che mi sembra esattamente il culmine di tutto il possibile. Penso tuttavia che il surrealismo non fu che un balbettio e che sia andato a picco nelle confusioni da cui noi siamo chiamati ad uscire. Verrò a Parigi la settimana dopo il 14 luglio e vi avviserò. Con affetto,

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Georges Non vedo nessun inconveniente, al contrario, a che questa lettera sia resa nota a qualche nostro amico comune.

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A Dionys Mascolo Orléans, 13 settembre 1958 Caro Dionys, ecco la correzione necessaria ⁽¹⁾, p.179, r. 22. Cancellare: gli è dato all'interno di questa. Sostituire con: il diritto superiore dell'accettazione efficace, La frase intera è: In altri termini, nell'accettazione della morte, il diritto superiore dell'azione efficace, subordinata allo scopo, viene riconosciuto, ma il limite della morte gli è dato... Come fate a non avvertire un carattere inconciliabile della dottrina esposta in queste pagine e l'esigenza da voi espressa l'altra sera, quella di un diritto!? Come fate a prendermi sul serio, trascurando l'essenziale, un senso di colpa profondo, a cui, è vero,

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non mi tengo stretto, a cui mi sottraggo, ma a condizione di aver confessato, di aver confessato davanti al giudice, è vero, e ricavando dalla confessione stessa, al contrario di Kafka, per una strana ironia, una sensazione di libertà e d'innocenza definitive! Ma finché conservate la sensazione di auto-certezza che voi stesso manifestate, la sensazione che fonda un'affermazione diretta (un'affermazione virile) siete del tutto estraneo al mio contributo, non potete capirci niente, falsate ogni cosa. Lo capite, sì o no, ciò che significano la tristezza estrema e l'allegria folle di Kafka? Immaginate un Kafka uomo politico! Con la stessa certezza con cui ognuna delle nostre gambe è attratta anticipatamente verso la tomba dalla morte, la parte sovrana che sempre in noi sussiste è sottratta alla discussione politica. Con affetto, Georges

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1. Riferito alle bozze della riedizione del Colpevole, edizioni Gallimard.

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A Patrick Waldberg Fontenay-le-Comte, Sotto-prefettura 5 marzo 1960 Caro Patrick, ho passato proprio brutte giornate, trascorse a domandarmi se il mio stato nervoso non diventasse tale da non permettermi più di scrivere, cosa che, senza parlare di disastro materiale, per me sarebbe molto deprimente. Deprimente in in un senso essenziale. Non ho del tutto smarrito un certo buon umore. Ma insomma... Adesso cerco di riprendermi e penso di riuscirci. Ma ho cominciato cercando di metter in piedi un minimo di organizzazione materiale per cui, sono certo, mi scuserai se te ne parlo.

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Lavoro ad un libro sull'erotismo ⁽¹⁾ da consegnare a Lo Duca che lo pubblicherà con Pauvert. Dovrebbe uscire nel mese di giugno. Ma per la sua uscita mi piacerebbe dare una conferenza. A dispetto del mio stato di salute, che non mi vieta da qualche giorno un minimo di lavoro, penso che la cosa sia fattibile e seria. Che ne pensi della possibilità di una conferenza per il mese di giugno? Mentre cercavo di riprendermi, ho ritrovato una lettera di Isabelle [Waldberg] ⁽²⁾ che mi chiedeva una prefazione per un'esposizione. Mi vergogno della mia negligenza. Quel che vorrei chiederti è se sono ancora in tempo. Rientro dalla Vandea verso il 20. Evidentemente la cosa migliore sarebbe passare per Parigi e andare a trovarla. Ma è ancora possibile? Mi sembra di cominciare ad andar meglio, il che sarebbe logico dopo tutte le iniezioni che mi hanno fatto (Bogomeletz in particolare!). Scrivimi, vecchio Patrick (anche se soltanto io merito questa qualifica...) Ricordami a Line. Con immutata amicizia. Georges

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Evidentemente, è un po' per caso che parlo della possibilità di una conferenza. Non so più cosa ci sia di già organizzato. D'altro lato, scriverò a Lo Duca a tal proposito. Il tutto forse è assurdo.

1. Les Larmes d'Éros. 2. Ex moglie di Patrick W.

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A Dionys Mascolo Fontenay-le-Comte (Vandea), Sotto-prefettura, 11 marzo 60 Caro Dionys, ho letto il vostro articolo su Camus ⁽¹⁾. Mi sarebbe piaciuto partecipare a quest'omaggio, ma lo stato dei miei nervi era così malandato che ho dovuto rinunciarvi. Non ho neppure risposto a Paulhan che mi aveva chiesto di parteciparvi. In effetti avevo cominciato a scrivere ma la depressione l'ha avuto vinta. Non mi è avanzata che un'ultima possibilità: quella di scrivere un libro di cui ho parlato a Marguerite e in cui ho intenzione di parlare tra le altre cose, o meglio, finalmente del film su Hiroshima ⁽²⁾.

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È soltanto a forza d'ostinazione che persisto in una simile intenzione. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito perduto. Oggi mi sembra di farcela, ma già temo di scriverlo. Posso però dirvi, scrivendovi, quanto mi senta rivivere leggendovi, pensando a voi, a tutto quel che mi unisce a voi, che non dipende solo dall'amicizia, ma da ciò che vive in me nel profondo. Non ho mai scritto un libro in un tale stato ma in un certo senso è esaltante. Non è che vada ancora molto bene, ma mi sembra che non avrei potuto scrivervi niente se non avessi potuto finalmente sentirmi rivivere mandandovi un segno da lontano. Con tanto affetto, Georges

1. D. Mascolo, “Sur deux amis morts” (Albert Camus e Michel Gallimard), incluso nel numero speciale della Nouvelle revue française del 1 marzo 1960.

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2. Il film è Hiroshima, mon amour di Alain Resnais, scritto da Marguerite Duras.

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A Michel Leiris [Orléans] 22 marzo 60 Caro Michel alla fine sono stato molto male. Prima difficoltà nel lavoro. Poi trattamento col Bogomoletz prescrittomi da Fraenkel ⁽¹⁾ e che certo ha fatto effetto ma che, al momento, mi lascia in uno stato difficile da sopportare. Compensato però da una prospettiva di miglioramento finale. Avrei dovuto scriverti da molto tempo, anche soltanto per informarti di aver parlato con Jardot -che era d'accordo- un mese fa, della possibilità di andare insieme a Lascaux. Ti spiace dire o far sapere a Jardot che mi scuso di non aver dato segni di vita dopo le conversazioni avute?

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Forse un giorno -forse dopo le vacanze di Pasqua- da parte mia sarebbe possibile concretizzare quel viaggio. Per adesso non mi resta che scusarmi. D'altro lato, sono depresso non solo perché malato. Diane è in uno stato nervoso terribile. Non riesce piùo quasi- a sopportarmi. Cerco di lavorare -senza di che sarei in trappola- ma questo diventa per metà impossibile prima che il trattamento faccia il pieno effetto... Scusami di questo lungo lamento, malgrado tutto legato, principalmente, ad uno stato temporaneo. Ed ancora una volta scusami se abuso della tua amicizia. Di regola, dovrei essere a Parigi all'inizio della settimana. Forse potremmo vederci lunedì o martedì. Cercherò di telefonarti. Ma se sono sempre in questo stato di sospensione è probabile che dovrò rimandare il passaggio da Parigi – o ridurlo al minimo indispensabile. Non dimenticare che il carattere assurdo o insopportabile della mia lettera è dovuto al Bogolometz, almeno in gran parte. Saluta per me Zette e non volermene per essere stato incapace di scriverti in maniera più sensata.

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Malgrado tutto, non potrei terminare la lettera senza legarla alla speranza che ho di uscirne a forza di resistenza, ma in questa resistenza conta prima di tutto l'amicizia. Georges

1. Théodore Fraenkel, medico, vecchio amico di Bataille.

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A Patrick Waldberg Fontenay-le Comte 1 agosto 1960 Caro Patrick, stavolta penso di partire, un giorno o l'altro, per Seillans. Ti assicuro che la cosa mi rallegra. In ogni caso, sento di poter senz'altro tornare molto presto ad uno stato se non normale perlomeno migliore. Credo che senza alcuni evidenti errori la cosa non sarebbe andata tanto male. Comunque sia, ho la sensazione che la possibilità di passare qualche giorno vicino a te rappresenti per me una possibilità eccezionale. D'altra parte, potrei descrivertelo nei particolari. Man mano che la giornata trascorreva le cose sono andate degradandosi, tutto s'è, nuovamente, offuscato. Sempre pIù confuso. Però posso, fin d'ora, risponderti che,

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preso il biglietto, arriverò a Seillans giovedì mattina per le 8 e 42. E se le cose, come è legittimo sperare, migliorano poco per volta superata la stanchezza del viaggio, dovrei, a Saint-Raphaël, quando ci rivedremo, star sul punto di riprendere le redini in mano, lieto, riconfortato al pensiero di un po' di tregua e della possibilità, in tua compagnia, d'uscire da questa specie d'incubo. Non so se te ne ho già parlato apertamente: ho esaurito tutte le possibilità per venire a capo del mio libro ⁽¹⁾, mi sono tanto stancato che invece di progredire ho cominciato a ingarbugliarmi, e solo dopo essermi dimenato ho mollato, ma un pochino ero avanzato. Quel che è curioso è che sono sempre stato in grado -all'incirca almeno- di scrivere una lettera: è solo nel ritornare al libro che ricominciavo a perdere la bussola. Agli inizi del pomeriggio, mi sono reso conto, una volta di più, che non potevo scrivere quel disgraziato libro... Scusami se ti infastidisco con queste lettere. Spero, quando ci rivedremo, di stare meglio e intanto non mi resta che scriverti, se no mi ritrovo sempre allo stesso punto. E mi piace pensare che avrei torto di scusarmi d'accettare la tua offerta. Conto proprio di non importi il ricordo dell'incubo che ancora m'imbarazza.

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I miei saluti a Line e che sia la volta buona. Ti abbraccio. Georges Bataille Va già molto meglio dall'altro giorno: grazie a te!

1. Ancora Les Larmes d'Eros.

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A Patrick Waldberg Parigi, 24 ottobre 1960 Caro Patrick, ho passato tre giorni a Parigi. Spiaciuto di non avertici trovato questa volta. Comuque mi sembra che presto avrò da dirti qualcosa di nuovo. Ancora non mi sento un criminale che nell'intenzione, ma mi chiedo per quanto tempo potrò sottrarmi alle accuse: ricostituzione di società disciolta (disciolta da destino avverso) questo è ciò di cui, con un'ironia piena di cattiva fede, sento sarò presto colpevole. Ma si può vivere innocentemente? Scusa la mia incapacità di esprimere altrimenti che in frasi assurde un mutamento di prospettive per me inevitabile, ma che risponde alle tue affermazioni di Huismes ⁽¹⁾. Temo proprio che le tue velleità d'allora ci

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lascino in uno stato difficilmente sopportabile -e che forse ti procureranno del disagio. Nulla di troppo temibile. Se, dall'una parte o dall'altra, dal disagio si origina l'invivibile, lo scacco, anche definitivo, è quanto meno preferibile all'infedeltà. I miei saluti a Line. Ti abbraccio, caro Patrick, con la sensazione strana di una necessità inevitabile... Georges Bataille Orléans, 28 ottobre 1960 ⁽²⁾ Volevo completare questa lettera (o renderla meno assurda). L'ho conservata qualche giorno senza motivo ma avevo poco tempo. Oggi andrò in posta. Ma non prima d'avervi aggiunto la copia di una lettera a Ambrosino che ho appena scritto (cui seguiranno spiegazioni, le più chiare possibili): Ecco prima la copia: “È passato parecchio tempo senza che ci vedessimo. Non so se questo isolarsi di uno in rapporto all'altro avesse un senso. Può darsi che abbia avuto un senso provvisorio e che ora sia più facile, più interessante, per entrambi, porvi fine. Comunque sia, penso di dar

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seguito a ciò che una volta abbiamo affrontato insieme e non posso farlo senza reincontrarti, o perlomeno senza averti proposto un colloquio ⁽³⁾. Da quando non ci vediamo più quel che mi è capitato può riassumersi semplicemente: innanzitutto, si tratta di un caos insensato, ma soprattutto di un crollo di tutte le speranze misurate, rimane quel che chiamo una speranza a misura della disperazione (o dello scacco definitivo), essenzialmente smisurata. Questo modo di esprimermi dipende senza dubbio dalla lontananza che avrai sentito nei miei confronti! Allo stesso tempo, corrisponde a quel pericolo definitivo che solo permette d'aprire gli occhi su di un avvenire che va cancellandosi, che si cancella tanto accuratamente che, alla fine, il presente diventa accessibile senza illusione... Non dubito che in te si sia fatta strada la disillusione riguardo a me. Non sospetti che nei tuoi riguardi sia sorta in me una parallela disillusione? Non possiamo sapere quale delle due abbia la meglio sull'altra. Ma entrambe sono incerte. È forse (?) un buon motivo per vederci. Devo andare in campagna per un mese. In linea di massima, il medico mi ha chiesto di stare da solo e,

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salvo eccezioni, la cosa più semplice, mi pare, è di conformarmi. (Sono stato malato ed ho ancora problemi). Ma ti sarei riconoscente se accettassi di rivedermi a dicembre. Se sei d'accordo, scrivimi: ti comunicherò il mio indirizzo tra pochi giorni. Mi sarò irritato con te, ma non aver dubbi sulla fondatezza della mia amicizia verso di te. G.B.” Non so, caro Patrick, quale sarà la tua reazione. Questa lettera si lega alla conversazione che abbiamo avuto ritornando da Huismes. Nulla di nuovo, mi pare, dopo quei discorsi (abbiamo parlato poco a Seillans). Sono sempre, beninteso, d'accordo sul principio di una riunione ristretta. Ma proporrò, quando avrà luogo, -se avrà luogo- una riunione allargata cui tutti quelli che hanno qualche rapporto con ciò che un tempo abbiamo fatto siano invitati, facendondo gli inviti o al momento della riunione o proponendoli, in anticipo, io e te e confermandoli soltanto al momento della riunione. Non mi dilungo oltre aggiungendo solo un principio secondo me saldo. Che non possa trattarsi che di rispondere ad una ricerca già presente in certe menti.

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Mi sento tenuto ad avvisarti, per correttezza, che ho accennato molto vagamente a tali questioni con il mio amico Jacques Pimpaneau, che una volta hai conosciuto e che è ritornato dalla Cina. Scrivimi presso la sotto-prefettura di Fontenay-leComte dove trascorrerò alcuni giorni. T'abbraccio come un fratello, Georges Bataille

1. A Huismes si erano stabiliti Max Ernst e Dorothea Tanning. 2. Continuazione, da Orléans, della lettera cominciata a Parigi il 24 ottobre. 3.Qui come in altre comunicazioni private Bataille accenna al proposito di riformare il vecchio gruppo di Acéphale.

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A Michel Leiris Orléans, 28 ottobre 60 Caro Michel, sono diventato talmente balordo, incerto, malandato, da non riuscire a cercarti in tempo per telefono al momento del mio ultimo passaggio da Parigi. Tuttavia, ci terrei assolutamente a vederti. Lo vorrei anche se non avessi un motivo particolare: il ritorno dalla Cina di un mio amico (forse hai sentito parlare di Jacques Pimpaneau) mi spinge a considerare almeno le remote conseguenze dell'assurdo tentativo legato al nome di Acéphale; tu sei tra coloro che mi sento obbligato a tenere al corrente, almeno per l'essenziale. Non penso minimamente di ricominciare, ma sono costretto a notare che in fondo c'era, in quell'impresa delirante, qualcosa che non è del tutto morto a dispetto della

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distanza pure da me avvertita. Questo lungo distacco permane nel senso d'angoscia e d'orrore all'idea di ritornare a ciò che di miserabile ho potuto tollerare, ma senza considerare un attimo di riandare al passato, mi sembra valere per altri, oltre a me stesso, e non potrei richiamarla senza parlartene. Mi sembra che la mia angoscia ed il mio orrore abbiano questo significato: che non potrebbe presentarsi -per nessunoniente di quanto allora ti aveva allontanato da me. Non credere che io sragioni, ma se sono ben lontano dall'assumere una vera iniziazione, ammetti che non posso neanche sottrarmi. D'altra parte si tratta solo di parlare. E considerando la parte di serietà che entra in gioco. Avrei dovuto scrivere a Zette, ma sono stato preso da un sacco di impegni arretrati o di appuntamenti (a Parigi, soprattutto) alla cui altezza fatica a tenersi il mio stato complessivo. Posso chiederti di scusarmi con lei? Dille quanto mi spiace che la mia negligenza mal risponda ai miei sentimenti di profonda riconoscenza che si legano alla vecchia amicizia.

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Mi sento stanco, invecchiato, ma il passato, al pensiero di quanto ci lega, il passato profondo in me non è invecchiato. Georges

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A Alexandre Kojève Orléans, 2 giugno 1961 Caro amico, non vi ho inviato il segno di vita promesso al momento del nostro ultimo incontro. Effettivamente il mio stato di salute è divenuto aleatorio. A questo si aggiungevano faccende obbligatorie che finora non mi permettevano di prendere in considerazione qualcosa di più serio. In parte sono d'altronde costretto a riflettere sulla rovina almeno relativa della mia testa: non sono più certo di disporre ancora di quelle possibilità appartenutemi fino a poco fa...Particolarmente se si tratta di filosofia. Tuttavia voglio almeno tentare una sorta di parallelo alla vostra Introduzione alla lettura di Hegel, ma la cosa dovrebbe essere molto più arbitraria. E basata, principalmente, su uno sforzo per

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interpretare quel che Hegel ha ignorato o trascurato (come la preistoria, il tempo presente, l'avvenire, ecc.). Non si tratta di farmi beffe del principio della civetta poiché potrebbe essere più giustificato che mai (possibilità e forse fatalità di catastrofe finale) ma di porre alla base stessa (o alla fine) della riflessione hegeliana un equivalente della follia: non saprei, a dire il vero, precisare ciò di cui si tratta -di cui piuttosto si tratterà- se non dopo averlo scritto. Ma questa sorta di compimento mi pare implicato nel principio -se non dello hegelismo- del suo oggetto. Saluti a Nina. Sinceramente vostro. Georges Bataille

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A Patrick Waldberg Les Sables d'Olonne, 44 boulevard Roosevelt, 16 agosto 61 Caro Patrick, hai veramente tentato di fare tutto il possibile per me e Diane, ma le cose vanno sempre peggio. Diane non sta bene, io me la passo male come l'anno scorso. Se non ti ho scritto prima è a causa di questo stato di sofferenza. Mi sembra di non far niente per aggravarlo e che malgrado tutto rimanga possibile, probabile anzi, che ne usciamo, ma, in ogni modo, le vacanze non fanno che inaugurare una crisi temibile. Ho fatto la conoscenza di tua suocera -gentilissima- a Fontenay-le-Comte. Scrivimi qui -una tua lettera mi darebbe tranquillitàdimmi quando conti di rientrare a Parigi, ciò che pensi

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dei fatti recenti. Io faccio fatica a confrontarmici, devo essere troppo vecchio. Sai quanto ti sono amico. Mi piacerebbe incontrarti. In ogni caso vorrei sapere quando ritornerai. Dì a Line tutto il mio affetto. E pensa ogni tanto al tuo vecchio amico che lavora quel poco che può. Georges

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A Jérôme Lindon Orléans, 31 gennaio 62 Caro amico, […] Espongo qui di seguito il piano per la prefazione modificata ⁽¹⁾. Penso che sarete d'accordo nel ritenere che il ritardo insignificante potrebbe essere utilmente compensato dal carattere nuovo assunto dalla prefazione e di conseguenza dal titolo stesso del libro. Successivamente alla parte già consegnata, indicherò che l'impossibile tematizzato nel libro è in fondo la sessualità e che Sade ne è la forma essenziale, tanto nella sua morte che nella sua vita. Sosterrò poi che l'impossibile è la letteratura, che non si coglie il senso della letteratura senza rilevarlo. Ma, innanzitutto, la filosofia è il senso dell'impossibile, e la filosofia, nella misura in cui è l'impossibile, cessa d'avere

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qualsiasi cosa in comune con la filosofia formale che è prevalente. L'impossibile, in tal senso, è espresso piuttosto da me e da Blanchot. Blanchot ha scritto su Sade. Io stesso... Carattere della filosofia impossibile: a) l'accordo ironico col suo principio e il valore formale di questo principio; b) l'incidente Heidegger: Heidegger che confonde Blanchot e Bataille ⁽²⁾; c) il lato in comune tra Blanchot e Bataille è che la rinuncia ad una filosofia formale porta ad una filosofia impossibile; d) Blanchot filosofo e politico e lati filosofici e politici personali; e) nel modo dell'ironia: vuol dire una politica dell'impossibile; f) la politica dell'impossibile è la via migliore per scoprire la politica del possibile che non può essere diversa da un'incognita dalle molteplici soluzioni (Krusciov, e soprattutto le diverse forme che si perpetuano nell'opposizione senza esito, ma non può esserci conclusione). Tutto questo dovrebbe esser detto in maniera spedita,

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[…] Per quanto concerne lo sviluppo, insisterò beninteso sul possibile, vale a dire la politica (almeno per quanto riguarda il senso di questo testo). […] La prefazione modificata dovrebbe occupare fra le 12 e le 15 pagine.

1. Abbozzo, più che reale missiva spedita a Lindon, queste righe rientrano fra gli appunti in vista della nuova prefazione a Haine de la poèsie (L'Impossible). 2. Riporta la storiella che nel corso di un incontro con ammiratori francesi Heidegger sostenesse essere Bataille “la testa pensante migliore di Francia” e confondendo appunto Bataille con Blanchot cui era diretto il complimento.

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A Théodore Fraenkel [1924-1925] Signor non-pensatore, vi annuncio che mi hanno portato di che scrivere e che m'annoierei se non scrivessi, ma probabilmente oggi mi contenterò d'immaginare la vostra noia e nascondermi la mia. Eppure non trovo alcun pretesto. Di certo non i vostri foglietti, semplice apertura intitolata porta chiusa, perché ne va del piacer vostro, per non parlar del resto. A tal proposito, evidentemente è sufficiente porre una parola qualsiasi e continuare per esempio così: che il resto, risultante dalla sottrazione, differisce dalla somma non solo per quantità ma per qualità, vale a dire che quando si tratta di un'operazione intellettuale e si decide di procedere al contrario ciò che sussiste ha

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una qualità diversa di prima dell'operazione. Bisognerebbe riflettere prima di ammettere che mi sono burlato di voi o che prenderei me stesso sul serio. Ma nel caso in cui questo tendesse, come tante altre proposizioni, a qualcosa di definitivo, occorrerebbe probabilmente negare il metodo a causa del peso morto? A causa dello spostamento cieco che ha luogo nello sviluppo del pensiero allorché per principio il pensiero dovrebbe svilupparsi senza accidentalità? L'ostinazione o meglio ancora un impulso superfluo, può impegnare a mantenere il metodo per non lasciar cadere la proposizione. E su tale cammino, una volta intrapreso, non c'è più una ragione valida per non oggettivare quel metodo particolare alla stessa maniera in cui si è per esempio oggettivata la dialettica. In effetti è impossibile concepire il mondo se non in modo conforme alla propria mente. Ma non siete voi a pretendere che ci si possa deliberatamente risolvere a non considerare il mondo, perché voi trovereste, senza dubbio a buon diritto, la stessa impresa impossibile da concepire. E quanto sarebbe meraviglioso inquietarsi per tali ostacoli e addormentarsi contro un limite.

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È forse una condanna al contrario credere che niente rinchiuda e che tutto possa essere scoperto (in tal caso, sarebbe preferibile escludersi da sé stessi da questa scoperta futura che sarebbe certa dato che si ha sempre paura degli occhi altrui, anche i più familiari: così non vi nascondo che non mi è possibile niente di tutto ciò, per questo ne parlo, mentre se parlassi di ciò che penso senza esitazione e più ancora di quel che mi piace, sarei completamente perduto e fatico ad immaginare il disastro). E adesso la cosa mi dà noia perchè non penso che al resto e, come si dice, il resto è silenzio, ma il silenzio proviene da parole 1° perché è una sottrazione 2° perchè si può sottrarre solo facendo l'enunciato della sottrazione 3° perché le parole degli altri non sono meno odiose delle mie e perché ecc. Non mi scoraggerebbe il fatto che voi trovaste tutto questo stupido e la cosa vi farebbe onore perché mi piace troppo che niente resti al suo posto. Solo che, a partire da una certa velocità, non rimane più molto da sperare accelerando. Georges Bataille

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A Michel Leiris [1931] Caro Michel, non ti ho scritto, non per negligenza ma perché nutro troppo amicizia verso di te per non essere sensibile a molte cose. In ogni caso, mai mi sarei deciso a scriverti piattezze o cose spiacevoli. Vado in campagna davvero parecchio disgustato di una vita che non è sfortunatamente diversa da quella che conducevo qui. Ieri sera ho visto le danze negre all'Esposizione ⁽¹⁾, i danzatori introdotti su un palco come delle vacche in un carro. Ma non credo che l'impossibilità di certe cose sarebbe potuta essere più sorprendente per me di quanto lo sia là riguardo a ciò che separa gli invitati negri e bianchi del Museo del Trocadéro. Non riesco proprio a

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concepire che senso potrebbe avere una qualsiasi iniziativa se essa non mi staccasse in maniera netta da tutte quelle tristi esistenze. Con immutata amicizia. Georges

1. Si riferisce all'Exposition coloniale del 1931.

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édition particulière pour les Amis “discord”

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