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TEMI DEL NOSTRO TEMPO
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a cura di Dario Antiseri
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Maria Teresa Russo
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CORPOREITÀ E RELAZIONE Temi di antropologia in José Ortega y Gasset e Julián Marías
ARMANDO EDITORE
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RUSSO, Maria Teresa Corporeità e relazione. Temi di antropologia in José Ortega y Gasset e Julián Marías ; Roma : Armando, © 2012 192 p. ; 20 cm. (Temi del nostro tempo) ISBN: 978-88-6677-240-8 1. José Ortega y Gasset: il corpo come espressione di intimità 2. Julián Marías: corporeità come struttura della vita umana 3. Antropologie a confronto
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CDD 100
© 2012 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 32-00-100 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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SOMMARIO
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Premessa: La centralità del corpo nel realismo español
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1. José Ortega y Gasset: il corpo come espressione di vitalità e di intimità 1.1 “Circostanza” e “prospettiva” categorie centrali nel pensiero di Ortega 1.2 Il corpo come “circostanza” 1.3 Fenomenologia del corpo vissuto: la nozione di “intracorpo” 1.4 Il corpo come geroglifico: l’espressione, fenomeno cosmico 1.5 Dinamiche del riconoscimento: corporeità e percezione del prossimo 1.6 Femminilità, innamoramento, amore 2. Julián Marías: la corporeità come struttura empirica della vita umana 2.1 Il tema dell’uomo, questione centrale della filosofia 2.2 La ricerca di un’antropologia “in prima persona” 2.3 La struttura empirica, forma concreta della nostra circostanza 2.4 Vivere è “essere installati in un corpo” 2.5 Vivere è “essere installati” in un corpo sensibile e mortale 2.6 Fenomenologia del volto e della carezza 2.7 Vivere è essere installati in un corpo sessuato 2.8 La condizione amorosa 2.9 Filosofia del femminile
21 21 30 37 45 53 71
89 89 99 111 118 125 133 138 147 158
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Conclusioni: Due antropologie a confronto
173
Cronologia essenziale della vita e delle opere di José Ortega y Gasset
179
Cronologia essenziale della vita e delle opere di Julián Marías
181
Bibliografia essenziale 1. Opere di José Ortega y Gasset 2. Opere di Julián Marías 3. Bibliografia critica su José Ortega y Gasset, Julián Marías e la filosofia in Spagna
185 185 186 187
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Premessa
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LA CENTRALITÀ DEL CORPO NEL REALISMO ESPAÑOL
Forse solo in Spagna si è svolto con toni particolarmente accesi un dibattito, che ha visto coinvolti un gran numero di studiosi, storici, filosofi, linguisti. L’oggetto attorno al quale si sono confrontate posizioni spesso opposte è stato il tentativo di definire la cifra della cosiddetta hispanidad o de lo hispánico, per rispondere a un unico interrogativo, diversamente modulato: quali siano i tratti caratteristici che concorrono alla definizione della cultura e del pensiero nella penisola iberica. Non si registrano dibattiti così vivaci in altri Paesi europei: cosa significhi la cultura italiana o francese o tedesca non è stato argomento di accurate indagini teoretiche, nonostante i rigurgiti di nazionalismo della prima metà del Novecento. Sono state certamente numerose le riflessioni sull’idea di nazione – tedesca, italiana – ma dando per scontati una tradizione, un popolo e una continuità culturale. Lo spirito germanico o il revanchismo francese hanno connotazioni essenzialmente politiche, non culturali. Si può dunque affermare senza timore di esagerare che la preoccupazione di definire se stessi sia una costante nell’ambiente intellettuale della Spagna, soprattutto nel XX secolo, quando si fa più pressante l’esigenza di sentirsi inseriti in un contesto europeo, ma anche di conservare la propria identità culturale. Il motivo di questo atteggiamento forse è da attribuire, più che al lungo processo di unificazione politica della Spagna, registratosi anche in altre nazioni come l’Italia e la Germania, alla coesistenza secolare di diverse tradizioni linguistiche e culturali, che hanno mantenuto una loro autono7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mia, nonché all’esportazione oltre oceano della lingua e della cultura spagnola, con il risultato dello sconfinamento della hispanidad in uno spazio più ampio ed estremamente diversificato, quello iberoamericano. Anche il meticciato che si è prodotto in questo nuovo orizzonte è stato un ulteriore elemento di complessità, per il costante confronto con la madrepatria, sia per conservare una certa filiazione che per rivendicare un’autonomia culturale. Nella prima metà del Novecento, la preoccupazione dell’identità è stata inseparabile dal problema della “rinascita della Spagna”, sentito con grande urgenza da parte di tutti i filosofi spagnoli dell’epoca, che lamentavano l’isolamento della Spagna nei confronti dell’Europa, coincidendo nella proposta di una reforma, intesa come consapevolezza della propria identità culturale e ricerca di un ruolo in ambito europeo. Gran parte degli interpreti riconosce che dalla fine del XVII secolo la Spagna non soltanto non avesse registrato nessun germe filosofico di rilievo, perdendo progressivamente l’abito del pensiero teorico a favore della letteratura, ma si era isolata sempre di più dal resto dell’Europa. Filosofi come Ortega y Gasset indicano in una ragione inaridita e lontana dalla vita la causa della stagnazione della cultura spagnola di cui auspicano lo svecchiamento. Per lui la reforma del entendimiento, ossia la maturazione della mentalità ispanica deve avvenire attraverso l’apertura al resto dell’Europa, ma senza perdere la propria identità. “Liberar España del extranjero”: è il proposito annunciato da Ortega sin dal 19101, che va inteso come il progetto di affrancare la Spagna dalla condizione di estraneità nei confronti della cultura europea, percepita, appunto, come straniera. Se la Francia era stata, per secoli, il tramite con il resto dell’Europa, l’europeizzazione della Spagna doveva passare attraverso l’apertura ad altre nazioni, come la Germania e l’Inghilterra. Non si tratta di un progetto di sradicamento né di spaesamento: Ortega respinge, infatti, ogni forma di evasione o di dispersione dello spirito spagnolo, cercando, piuttosto, di risali1
J. Ortega y Gasset, Europa ha de salvarnos del extranjero (1910), Obras completas, Revista de Occidente, Madrid 1983, vol. I, p. 144.
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re alle radici della cultura ispanica, mostrandone il respiro europeo. Occorre, pertanto, nello sforzo di superare l’isolamento, proteggersi dal rischio di essere assorbiti da altre culture, rischiando l’estinzione dell’autentico spirito spagnolo:
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«Oggi siamo francesizzati, anglicizzati, germanizzati: stiamo incorporando parti senza vita di altre civilizzazioni per una fatale alluvione di incoscienza. Importiamo più che esportare: il che è semplicemente la concrezione commerciale della nostra stranierizzazione. Siamo cisterna e dovremmo essere sorgente»2.
La categoria della “circostanza”, la più celebre tra quelle orteghiane, nasce proprio con questo connotato. La prima “circostanza” da cui è impossibile prescindere è quella geografica, storica, culturale, che però è collocata in una “circostanza” più ampia, quella europea. Il rispetto della “circostanza”, “el saber a qué atenerse” è una forma di realismo. Tra i due estremi, provincialismo e cosmopolitismo, si muove questo proposito di rompere la chiusura, la “tibetanización” della Spagna, per recuperare una nuova concentrazione di energia e nuovo slancio. Ma la questione dell’europeizzazione ne pone immediatamente un’altra: quella di definire cosa significhino concetti come “Europa” e cultura “europea”3. Mentre lo storico Ramón Menéndez Pidal ha cercato di tratteggiare le caratteristiche psicologiche dell’individuo iberico, da cui ha ricavato alcune tendenze culturali4, il filologo Américo Castro ha cercato invece nella storia le radici della hispanidad. Nella lettura che ne ha dato il filosofo Julián Marías, in un saggio del 19475, i tratti essenziali del popolo spagnolo segnalati da 2 «Hoy estamos afrancesados, anglizados, alemanizados: trozos exánimes de otras civilizaciones van siendo traídos a nuestro cuerpo por un fatal aluvión de inconsciencia. El hecho de que importemos más que exportamos es sólo la concreción comercial de nuestra extranjerización. Somos cisterna y deberíamos ser manantial». Ivi, p. 145. 3 J. Ortega y Gasset, Asamblea para el progreso de la ciencia (1908), Obras completas, cit., vol. I, pp. 99-105. 4 Cfr. R. Menéndez Pidal, Historia de España, Espasa Calpe, Madrid 1947. 5 J. Marías, Una psicología del español, in Ensayos de convivencia, Obras, Revista de Occidente, Madrid 1982, vol. III, pp. 53-61.
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Menéndez Pidal sono la sobrietà, la carica di idealità e la tendenza all’individualismo. Nella sobrietà è possibile rintracciare l’eredità della dimensione stoica, condensata soprattutto nel pensiero di Seneca, nativo di Cordoba, che ha dato luogo a una filosofia e a un atteggiamento tipico, denominato senequismo6. Da qui una certa essenzialità e persino rozzezza delle forme di vita, prive di raffinatezza e di comodità. Menéndez Pidal vi riconosce una radice psicologica nella mancanza di desideri e nella scarsa immaginazione, con evidenti conseguenze. Da un lato, la scarsa rappresentazione immaginativa del futuro, per cui lo spagnolo si imbarca in imprese rischiose senza calcolarne le conseguenze, come è avvenuto per la scoperta dell’America. Dall’altro, il disinteresse per l’economia e per il danaro, causa del ristagno economico della Spagna. E se tipico della hispanidad è quell’atteggiamento denominato sosiego, emergente soprattutto nel XVI secolo, ossia quel misto di eleganza e di posatezza nell’azione, il rovescio della medaglia è costituito dall’apatia, dall’inazione e dall’ostilità nei confronti del nuovo. Quest’ultimo aspetto è però compensato dalla forte carica di idealità, che si mostra nella pronta disposizione alla morte, così come la profonda religiosità ha bilanciato il disinteresse per le opere sociali. Infine, l’individualismo, manifestato nel debole senso della collettività ha prodotto quell’oscillazione tra arbitrarietà e benevolenza caratteristica della vita sociale e anche dello stile istituzionale del popolo spagnolo. Per il filosofo Julián Marías questa psicologia è alquanto rigida e schematica, in quanto non si riferisce alla natura di un popolo, ma ad abiti che si sono costituiti storicamente, come ingredienti naturali di 6 Angel Ganivet, nel suo Idearium español (1897), considera questo atteggiamento come costitutivo del temperamento iberico: «Lo spirito spagnolo, rude, informe, nudo, non copre la sua nudità primitiva con artificiosi vestimenti; si copre con la foglia di fico del senechismo; e questo vestito sudario gli resta attaccato per sempre e si mostra non appena si penetra un po’ nella superficie o corteccia ideale della nostra nazione». («El espíritu español, tosco, informe, desnudo, no cubre su desnudez primitiva con artificiosa vestimenta; se cubre con la hoja de parra del senequismo; y este traje sudario queda adherido para siempre y se muestra en cuanto se ahonda un poco en la superficie o corteza ideal de nuestra nación»). A. Ganivet, Idearium español, Espasa Calpe, Madrid 1957, p. 9. Cfr. L. Frattale, Melanconia, crisi, creatività nella letteratura spagnola tra Otto e Novecento, Bulzoni, Roma 2005, p. 173 e ss.
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una realtà storica, che possono essere modificati dall’agire. Si tratta di un repertorio di caratteristiche, acquisite nella storia o in parte date dalla natura, che contribuiscono a comporre la “circostanza”: con essi occorre fare i conti, ma possono essere un punto di partenza per successivi cambiamenti. Anche Américo Castro polemizza con il suo maestro Menéndez Pidal, tra l’altro negando con decisione che il senequismo sia una componente essenziale dello spirito spagnolo7, per il semplice motivo che non è possibile parlare di una vera e propria cultura “spagnola” prima della Reconquista. A suo parere l’identità ispanica si forgia tra l’VIII e il XV secolo, come risultante di tre elementi: il cristianesimo, l’eredità islamica, il giudaismo8. Non è d’accordo Marías9, che respinge l’idea dell’amalgama culturale, rivendicando la profonda coerenza della storia della Spagna, che la rende, pertanto, estremamente intellegibile. Per il filosofo cinque miti vanno sfatati per comprendere la hispanidad: il mito del mosaico culturale privo di parti essenziali, con la preponderanza del fattore islamico, come voleva Castro (che non tiene conto della funzione civilizzante della romanizzazione); il mito della decadenza prodotta, come pretendeva Ortega, dall’assenza di élites; il mito della “leggenda nera” sulla colonizzazione delle Americhe; il mito dell’epoca dell’Inquisizione, che invece coincide con il cosiddetto Siglo de Oro10; il mito dell’inferiorità congenita della Spagna. Qui non interessa entrare nel vivo di un dibattito che forse ha fatto il suo tempo. È invece stimolante cercare di individuare se esistano precise specificità della cultura iberica, che possa far inquadrare nella giusta luce il suo apporto prezioso alla storia del pensiero. Senza forzature inopportune, importa rintracciare un filo da seguire per orien7 «Séneca no era español, ni los españoles son senequistas». A. Castro, La realidad histórica de España (1948), Porrua, México 1962, p. 642. 8 Cfr. A. Castro, Los españoles, Taurus, Madrid 1966. Cfr. anche G. Fernández de la Mora, Pensamiento español (1965), Rialp, Madrid 1966, pp. 287-294. 9 Cfr. J. Marías, España intelegible. Razón histórica de las Españas, Alianza Editorial, Madrid 1985. 10 Tra l’altro osserva Marías che le maggiori esecuzioni dell’epoca non avvennero in Spagna, ma altrove, se si pensa a Tommaso Moro, Giordano Bruno, Michele Serveto. Cfr. ivi, p. 289.
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tarsi in un panorama diversificato e ricco, che merita di essere ancora adeguatamente studiato, forse per il ruolo marginale esercitato fino a una certa epoca in ambito europeo. Seguendo anche la linea interpretativa di Alain Guy, che riassume la cifra della filosofia spagnola in quattro caratteristiche, il gusto per la logica, la preoccupazione morale e politica, la nostalgia dell’assoluto e la presenza di una filosofia medica11, si può affermare che in queste note abbia un peso rilevante la convivenza cristiano-islamico-giudaica verificatasi per secoli nella penisola iberica. Più che un’attenzione nei riguardi di questioni squisitamente metafisiche e teoretiche, vi è una chiara tendenza a valorizzare la concretezza della vita nel suo carattere potremmo dire drammatico e carnale, come si manifesta nelle espressioni più quotidiane, quali l’amore, la festa, le esperienze del corpo, l’animo femminile, con la contraddittorietà che è propria della vita. Questa è anche la tesi di José Luis Abellán, per il quale l’elemento più tradizionale dell’anima spagnola è quello di “una cultura hecha desde la vida y para la vida”12. Proprio perché è una sorta di applicazione pratica della ragione vitale, egli ritiene che la cultura spagnola abbia come espressioni più tipiche la pittura, la poesia e l’arte in generale, mentre sarebbe carente in ambito filosofico e scientifico. Egli condivide la posizione di Unamuno, per il quale le manifestazioni della filosofia spagnola, più dotata per esplorare l’intramondo che il sovramondo, andrebbero ricercate non nei trattati, ma nei simboli, nei cantici, in opere letterarie come La vida es sueño di Calderón de la Barca o il Quijote. Per questo motivo, secondo Abellán, è più esatto parlare di pensiero spagnolo, piuttosto che di filosofia spagnola13. Personaggi letterari come Don Chisciotte o Don Giovanni sono l’espressione di questo modo di sentire, incarnando rispettivamente il gusto dell’avventura e la passione amorosa. Ma né il quijotismo né il 11
Cfr. A. Guy, La philosophie en Espagne, in Encyclopédie Philosophique Universelle, PUF, Paris 1998, vol. IV, p. 454; cfr. anche A. Guy, Histoire de la philosophie espagnole, Publications Université de Toulouse, Toulouse 1985, pp. 32-34. 12 Cfr. J.L. Abellán, Historia crítica del pensamiento español. De la Gran Guerra a la guerra civil española, t. 5/III, Espasa Calpe, Madrid 1988, p. 209. 13 Cfr. ivi, p. 209.
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donjuanismo, entrambi atteggiamenti improntati a una certa radicalità, rappresentano da soli l’autentico esprit ispanico, che può essere individuato anche nell’antieroe Sancho, forse alter ego di Cervantes14, il quale nel suo realismo ironico fa da correttivo ai sogni dell’hidalgo Chisciotte. E se anche la corrida de toros evoca un impasto drammatico e primitivo di passione, fisicità e morte, come lo ritroviamo in alcune pitture di Goya, le Madonne andaluse portate in processione rischiarano invece questi toni foschi e ancora una volta sono un richiamo alla carnalità, con i loro volti femminili, ben poco idealizzati. Materia e spirito, corporeità e mistica si mescolano nelle manifestazioni culturali della Spagna, rappresentate da figure apparentemente distanti: Don Juan di fronte al mistico San Juan de la Cruz; Don Quijote di fronte a Sancho Panza. La ragione consolatrice e guaritrice di Seneca, orientata alle dimensioni dell’interiorità; la filosofia medica di Maimonide, finalizzata alla salute come armonia; infine il pensiero di Teresa de Ahumada (Teresa de Jesús), che unisce alla mistica del castello interiore un’intensa attività di viaggi e di fondazioni, hanno uno sfondo comune. Una sorta di patetica unisce questa linea di pensiero, intesa come centralità del pathos nelle sue diverse manifestazioni, assieme alla rilevanza del corpo, realtà da curare e da guidare, lontano dagli eccessi dello spiritualismo e del materialismo. In Seneca, cordobese di nascita, troviamo un’attenzione per le cosiddette malattie dell’anima, che è compito della filosofia guarire: la aegritudo o taedium vitae, da ricondurre alle passioni dell’anima e che ha il suo corrispettivo nelle malattie del corpo. Filosofia e medicina si muovono su linee parallele, la prima procurando la consolatio, l’altra il solacium, il sollievo fisico. Come è stato osservato, perché si possa dire che l’anima patisce la malattia, occorre una nozione di malattia che è medica, ma altresì una nozione di anima, che è filosofica15. Noto per la sua Guida dei perplessi (1190), il filosofo e medico Mosé Maimonide, anch’egli cordobese, scrive: «l’intenzione che 14 Cfr. A. Savignano, Panorama della filosofia spagnola del Novecento, Marietti, Milano 2005, p. 68. 15 Cfr. J. Pigeaud, La maladie de l’âme. Étude sur la relation de l’âme et du corps dans la tradition médico-philosophique antique, Les Belles Lettres, Paris 1989, pp. 10-16.
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l’uomo deve perseguire con la salute del corpo è quella che la sua anima disponga degli strumenti sani e perfetti per lo studio delle scienze e per l’acquisizione delle virtù morali e intellettuali, in modo da raggiungere il suo fine»16. L’ideale maimonideo del medico è quello del medico-filosofo, un sapiente capace di praticare e di insegnare quella medietà della virtù che sarà il principio ispiratore anche della misura e dell’equilibrio nell’esercizio dell’arte medica. Lo stile di vita, la diáita, che il medico deve consigliare è, in fin dei conti, la pratica della sapienza e della virtù, in rapporto diretto con la salute fisica. Un profondo realismo fa dunque da sfondo alla cultura ispanica. Il medico e filosofo Laín Entralgo, trattando del dinamismo della pittura di Vélazquez, la riconduce al “realismo impressionista” dell’anima spanola, l’esatto contrario delle trasfigurazioni artistiche dell’idealismo17. In Spagna, afferma Entralgo, l’ascesi di San Juan de la Cruz e Luis de León convive con la satira di Francisco de Quevedo e il realismo scientifico di Ramón y Cajal e Severo Ochoa18. Unamuno è l’esempio filosofico più vigoroso della critica alla ragione teorica e senza vita. All’idea astratta di sostanza egli contrappone con toni paradossali la sostanza della realtà concreta: «Quando sento parlare di sostanza, mi si risvegliano le oscure reminiscenze di sostanze concrete, della sostanza del brodo, del sostanzioso di un bollito, della sostanza della carne», ed è la persona umana “l’unico sostanziale”19. Contrapponendo il mondo delle cose al mondo delle essenze, egli rifiuta l’astrazione della generica humanitas, privilegiando l’uomo concreto e vivente, l’uomo «di carne e ossa, che nasce, soffre e muore – soprattutto muore – che mangia e beve e gioca e 16 M. Maimonide, Shemoná Peraqim, cap. 5, in C. Del Valle Rodríguez, Maimónides. Etica, Aben Ezra Ediciones, Madrid 2004, p. 91. 17 Cfr. P. Laín Entralgo, Ocio y trabajo, Revista de Occidente, Madrid 1960, p. 165. 18 Santiago Ramón y Cajal, medico, premio Nobel per la Medicina nel 1906 e Severo Ochoa, biochimico, premio Nobel per la Medicina nel 1959, incarnano l’attenzione alla vita dal versante scientifico. Cfr. ivi, p. 270. 19 «Cuando oigo hablar de sustancia, se me despiertan las oscuras reminiscencias de sustancias concretas, de la sustancia del caldo, de lo sustancioso de un cocido, de la sustancia de la carne». M. de Unamuno, Ensayos, Obras completas, Turner, Madrid 1985, vol. V, p. 49.
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dorme e pensa e ama, l’uomo che si vede e che si sente, il fratello, il vero fratello»20. Anche per María Zambrano la cifra essenziale del pensiero spagnolo è il realismo, inteso innanzitutto come un preciso stile di vita, una certa modalità di incardinamento nell’esistenza; ma anche come una forma di conoscenza, perché è un modo di stare nel mondo e di guardarlo, senza pretendere di ridurlo alla propria misura. Per la Zambrano, questo è il modo di comportarsi dell’innamorato: essere innamorati del mondo, catturati da esso, senza pertanto potersene staccare21. Su questo terreno si è sviluppata la filosofia spagnola vera e propria, a partire dal cosiddetto Siglo de Oro, ossia dal XVI secolo, quando all’unità politica della penisola iberica si aggiunge una chiara unità intellettuale e religiosa22. L’attenzione alla vita concreta – e non l’isolamento culturale, come vorrebbero alcuni – è il motivo principale per cui l’idealismo non attecchisce in Spagna, mentre invece è presente il positivismo, ma sempre come rivendicazione della realtà del mondo, piuttosto che come riduzionismo metodologico. Si pensi al saggio di Ramón Turró i Darder23, Orígenes del conocimiento. El hambre24, nel quale l’autore considera la fame come il tramite della nostra conoscenza del mondo. In chiave decisamente antikantiana, Turró analizza gli impulsi trofici giudicandoli non come “impulsi amorfi”, ma come “una somma di tendenze elettive”. Dall’inquietudine trofica e dal riflesso 20
«De carne y hueso, que nace, sufre y muere – sobre todo muere – el que come y bebe y juega y duerme y piensa y quiere, el hombre que se ve y a quien se oye, el hermano, el verdadero hermano». Id., Del sentimiento trágico de la vida, cap.1, p. 3; trad. ital. Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, SE, Milano 2003. 21 Cfr. M. Zambrano, Pensamiento y poesía en la vida española, Endymion, Madrid 1987, p. 39. 22 Cfr. J.E. Gracia, Filosofía hispánica. Concepto, origen y foco historiográfico, EUNSA, Pamplona 1998, pp. 28-30. 23 Gerona, 1854 - Barcellona, 1926. 24 Cfr. R. Turró i Darder, Orígenes del conocimiento. El hambre, Minerva, Barcelona 1916. Il saggio apparve in catalano nel 1912, immediatamente tradotto in tedesco e in francese ancor prima che in spagnolo. La prefazione all’edizione spagnola del saggio fu opera di Miguel de Unamuno, che riconobbe una profonda affinità tra la tesi di Turró e la sua teoria della conoscenza.
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trofico, percezioni confuse del sistema vegetativo, la fame o intuizione trofica è la coscienza del bisogno di sostanze commestibili, che conduce all’esperienza trofica. Contro l’errore dello scetticismo, che nega il mondo esterno, Turró afferma che l’intellezione è un processo logico i cui dati sono imposti sensorialmente25. Oltre all’idealismo, non ritroviamo in terra iberica neppure la corrente filosofica dell’esistenzialismo. C’è chi ha attribuito questa assenza al ritardo culturale della Spagna. La risposta di Julián Marías colloca invece la filosofia spagnola ancora una volta nella linea del realismo26. Non solo egli obietta che Kierkegaard fu conosciuto molto presto da Unamuno, che imparò addirittura il danese per leggerlo, così come Ortega conobbe la filosofia di Husserl e di Heidegger, diffusa in Spagna anche grazie a numerose traduzioni. In realtà, il pensiero spagnolo ha anticipato molte delle tesi esistenzialiste, ma alla luce di un’idea di ragione che gli ha impedito di cadere negli errori dell’esistenzialismo. Si tratta della ragione vitale, cioè dell’“apprensione della realtà nella sua connessione”27, che si realizza concretamente come ragione storica e ragione narrativa. Unamuno, afferma Marías, si è interrogato sull’esserci del reale nel 1904, venticinque anni prima di Heidegger. È indubitabile che tale approccio può condurre a radicalismi, come il vitalismo, lo storicismo e l’irrazionalismo. Per questo motivo, nella prospettiva elaborata da Marías, come si spiegherà nelle pagine che seguono, la ragione vitale deve essere integrata da un’analitica o teoria della vita umana, costituita da enunciati universali e necessari, che potranno fornire conoscenze reali solo ricevendo una concretizzazione individuale e circostanziale. La centralità del corpo, assieme alla categoria di ragione vitale, si può pertanto considerare un filo conduttore della filosofia spagnola, soprattutto nel XX secolo, quando, a parere di alcuni interpreti, essa si presenta con una profonda affinità sostanziale, tanto da comporre un
25 Cfr. A. Guy, Historia de la filosofía española, Anthropos, Barcelona 1985, pp. 426-429. 26 Cfr. J. Marías, Presencia y ausencia del existencialismo en España (1950), Obras, cit., vol. V, pp. 233-247. 27 J. Marías, Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 42.
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“sistema storico”, un “sistema di filiazione intellettuale”28. Unamuno ne è in un certo senso il capostipite, anche se non da tutti considerato filosofo in senso stretto, per la frammentarietà del suo pensiero e la preferenza accordata alla novella. L’elemento che accomuna i filosofi di questo periodo è l’insoddisfazione nei confronti della categoria dell’essere, che tuttavia non li conduce a esiti antimetafisici, ma ad interrogarsi sulla realtà in quanto tale, cioè sul ciò che c’è, in cerca di una metafisica che sia al di là dell’ontologia29. Questo atteggiamento, seppure con un esito storicistico, appare chiaramente in Ortega, per il quale il pensiero è una funzione della vita, non considerata in generale, ma della “mia vita”: «Cogito quia vivo, perché qualcosa attorno mi opprime e mi preoccupa, perché all’esistere non esisto solo io, ma “io sono una cosa che si preoccupa delle altre lo voglia o no”»30. La stessa preoccupazione la ritroviamo nei cosiddetti medici-filosofi, che nella Spagna della prima metà del Novecento sono numerosi. Da un lato, si tratta degli esponenti di quella che Alain Guy denomina “filosofia psichiatrica”, come l’endocrinologo Gregorio Marañón, con le sue patobiografie31 e lo psichiatra Juan José López Ibor32. Dall’altro, abbiamo medici dediti a coltivare un’antropologia filosofica dal taglio esistenzialista, come Juan Rof Carballo33
28
Cfr. J. Marías, Realidad y ser en la filosofía española (Los Angeles, 1955), Obras, cit., vol. V, pp. 519-529. 29 Cfr. ivi, p. 521. 30 «Cogito quia vivo, porque algo en torno me oprime y preocupa, porque al existir yo no existo sólo yo sino que “yo soy una cosa que se preocupa de las demás quiera o no”». J. Ortega y Gasset, Filosofía pura (luglio 1929), Obras completas, cit., vol. IV, pp. 48-59; cfr. J. Marías, Realidad y ser en la filosofía española, cit., p. 522. 31 Madrid, 19 maggio 1887 - Madrid, 27 marzo 1960. Famose le sue biografie psicologiche di figure storiche come Amiel, Enrico IV di Castiglia, Tiberio, il conte duca di Olivares. Cfr. A. Guy, Historia de la filosofia española, cit., pp. 439-442. 32 Sollana, Valencia, 22 aprile 1908 - Madrid 1991. Si distinse per l’applicazione del metodo fenomenologico alla psichiatria, con una particolare attenzione all’aspetto esistenziale delle patologie. Cfr. ivi, pp. 442-443. 33 Lugo, 1905 - Madrid, 1994. Introdusse la psicoanalisi in Spagna, ma ne fu allo stesso tempo un critico severo, elaborando la teoria della urdimbre, trama originaria di relazioni che presiede allo sviluppo dell’io. Cfr. M.T. Russo, La ferita di Chirone. Itinerari di antropologia ed etica in medicina, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 57102.
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e Luis Martín-Santos34, o dal taglio personalista, come Pedro Laín Entralgo35. Questo bisogno di concretezza si riflette nel privilegiare il corpo come oggetto dell’indagine filosofica, parte eminente di quella realtà su cui interrogarsi, non dal punto di vista dell’esteriorità, ma come la condizione stessa dell’esistenza personale. Esso occupa dunque un posto centrale nella speculazione della maggior parte dei filosofi di questo periodo. A titolo esemplificativo si possono citare i saggi sul corpo di José Gaos e di Joaquín Xirau, che frequentarono entrambi negli anni ’20-’21 la facoltà di Filosofia dell’università di Madrid e furono allievi di Ortega. José Gaos36, nell’ambito del suo proposito di dar inizio a una “terza e nuova filosofia”, lontana sia dal naturalismo che dallo spiritualismo, scrive nel 1944 un intero saggio dedicato al fenomeno della carezza: Dos exclusivas del hombre: la mano y el tiempo37. Egli mette in luce la ricchezza inesauribile della mano umana, dalla capacità artigiana alla chiromanzia, fino alla pittura e alla scultura. La fenomenologia della carezza mostra tutta la complessità di un gesto ricco di sfumature. Dalle caratteristiche della mano che accarezza – dura, callosa, rugosa, umida, calda, fredda – a quelle della qualità del tocco – soave, fugace lento – a quelle della superficie accarezzata, che non può essere né concava né irsuta, infine al significato stesso della carezza, che può essere finalizzata a consolare, a implorare, a 34 Larache, Marocco, 1924 - San Sebastián, 1964. Fu direttore dell’ospedale psichiatrico di San Sebastián e attento alle basi filosofiche della malattia mentale, come appare dal saggio, Dilthey, Jaspers y la comprensión del enfermo mental, Paz Montalvo, Madrid 1955. 35 Urrea de Gaén (Teruel), 1908 - Madrid, 2001. Medico e storico della medicina, si è dedicato ad approfondire le basi filosofiche dell’arte medica, in vista di una maggiore comprensione dell’uomo malato. Cfr. M.T. Russo, La ferita di Chirone, cit., p. 103 e ss. 36 Gijón, 1900 - México, D.F., 1969. Rettore dell’università di Madrid tra il ‘36 e il ’39, fu poi esiliato in Messico. Cfr. A. Savignano, Panorama della filosofia spagnola del Novecento, cit., pp. 260-269. 37 J. Gaos, La caricia in Dos exclusivas del hombre: la mano y el tiempo, Ed. Universidad de Nuevo León, México 1945. Il saggio risale ad alcune conferenze tenute l’anno precedente nell’Universidad de Nuevo León (Monterrey). Pubblicato successivamente in Obras completas de José Gaos, tomo III, UNAM, México 2003.
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calmare38. Mentre la vista e l’udito sono sensi della distanza, il tatto, di cui la carezza è l’espressione più ricca, è il senso della prossimità. Esprime trascendenza e capacità di accoglienza piuttosto che di conquista e di appropriazione. La mano che accarezza accoglie nell’intimità personale chi viene accarezzato, creando un recinto di intimità. La carezza è opera non del corpo, ma della carne, intendendo con questo termine la corporeità in quanto espressione di un io personale. Contrariamente all’interpretazione freudiana, Gaos intende la carezza come il non sessuale nel sessuale, in quanto attesta la presenza di un amore spirituale e oblativo, in grado di mediare tra il desiderio e la sua soddisfazione39. Joaquín Xirau40, al quale si attribuisce l’elaborazione di una vera e propria “metafisica dell’amore”41, nel 1946 scrive Presencia del cos42, in cui approfondisce la distinzione husserliana tra corpo fisico e corpo vivente, soffermandosi ad analizzare i vissuti e le modalità attraverso le quali il corpo si fa “presente” a noi stessi. Il corpo è presenza mia di fronte a me stesso e al mondo, ma è anche presenza del mondo di fronte a me. Egli distingue tra “corpo mio”, “mio corpo” e corpo fisico. Il primo è il luogo dell’identità, il balcone da cui si affaccia l’anima; il secondo è il mediatore dell’azione; mentre il corpo fisico nella sua visibilità, se separato dalle altre dimensioni, può persino provocare repulsione e timore. Significativo è il riferimento al termine spagnolo entrañable, che deriva da entrañas (visceri) ed esprime affetto intimo per gli amici, per le cose43. Il corpo è espressione, manifestazione, ma anche resistenza e ostacolo, origine di tutte le limitazioni, come il sonno, il peso, il bisogno di alimentarsi. Eppure fare a meno del corpo comporterebbe più svantaggi che vantaggi, per38
Cfr. J. Gaos, La caricia, in A. Serrano De Haro, Cuerpo vivido, Encuentro, Madrid 2010, pp. 53-85. 39 Cfr. ivi, p. 84. 40 Figueras, 1895 - México, 1946. 41 Cfr. A. Guy, Historia de la filosofia española, cit., pp. 342-345. 42 J. Xirau, Presencia del cos, pubblicato in Messico in «La nuestra Revista», 4, aprile 1946, pp. 121-125, poi raccolto in Obras completas III, Anthropos/Fundación Caja Madrid, Barcelona 2000, vol. II, pp. 328-335. 43 Cfr. J. Xirau, Presencia del cuerpo, in A. Serrano De Haro, Cuerpo vivido, cit., pp. 87-98.
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ché darebbe luogo all’impossibilità di abitare il mondo, come aprire una porta, parlare, dare una stretta di mano. Si ritorna, allora, “tremando al proprio centro di gravità” 44, tanto che la vita si può definire quasi come il dramma della lotta con il proprio corpo. Suggestivo il riferimento alla vecchiaia: per Xirau, è il corpo fisico a invecchiare e a divenire estraneo, mentre il mio corpo diventa sempre più intimo:
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«mi infiltro in esso, lo penetro e mi rivelo in esso. Lo rendo anima della mia anima, essenza della mia essenza. Il compito di una vita autentica è renderla ogni giorno più pura, più sicura e unitaria. E nel giorno della morte il mio compito resta incompiuto… Non sarà forse questo il significato autentico dell’immortalità personale?»45.
44
Cfr. ivi, p. 89. infiltro en él, lo penetro y me revelo en él. Lo hago alma de mi alma, esencia de mi esencia. La tarea de una vida auténtica es hacerla cada día más pura, más segura y unitaria. Y en el día de la muerte queda mi tarea inacabada… ¿No será éste el sentido auténtico de la inmortalidad personal?». Ivi, p. 97. 45«Me
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1. JOSÉ ORTEGA Y GASSET: IL CORPO COME ESPRESSIONE DI VITALITÀ E DI INTIMITÀ
1.1 “Circostanza” e “prospettiva” categorie centrali nel pensiero di Ortega L’assenza di uno spirito di sistema rende piuttosto problematico ripercorrere nel pensiero del filosofo José Ortega y Gasset una linea speculativa chiaramente articolata. Questo è il motivo per cui del suo percorso filosofico si possiedono diverse periodizzazioni, centrate alternativamente sulle influenze culturali subite, sul contenuto degli scritti o su alcuni eventi biografici significativi. José Gaos1, allievo di Ortega, divide in due grandi periodi, ciascuno di vent’anni, il pensiero del suo maestro. Il primo (1914-1936) che egli definisce di “esperanza y afirmación” e il secondo, denominato “expatriación” (1936-1955), di declino di produttività e di ritiro. Nel primo periodo riconosce tre tappe: “mocedades” (1902-1914), in cui non c’è ancora un’elaborazione filosofica personale; “primera etapa de plenitud”, dalle Meditaciones del Quijote (1913) fino al biologismo raziovitalista di El tema de nuestro tiempo (1923); infine, “segunda etapa de plenitud”, che vede Ortega, a motivo dell’influenza di Heidegger, passare dal puro storicismo al “biografismo raziostoricista”. Nella periodizzazione di Armando Savignano, l’evoluzione del pensiero di Ortega attraversa quattro fasi: il periodo giovanile (19021 Cfr. J. Gaos, Los dos Ortegas, in Sobre Ortega y Gasset y otros trabajos de historia de las ideas en España y la América Española, Imprenta Universitaria, Ciudad de México 1957.
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1914), caratterizzato dall’esperienza neokantiana con l’influsso di Cohen e Natorp, ben presto rigettati in vista della fenomenologia; la fase antropologica (1914-1928), centrata sulla dimensione biologicovitalistica della vita, sull’analisi della “circostanza” e dell’amore con le figure di Don Chisciotte e Don Giovanni; la fase dell’ontologia e della metafisica della vita umana, intesa come biografia e storia (19281935) con l’influsso del’esistenzialismo di Dilthey e Heidegger e la creazione della Escuela de Madrid2; infine, la fase della “radicalizzazione” dell’idea di filosofia3. José Luis Abellán sottolinea, invece, come sia inutile e inadeguato tentare di rintracciare tutte le influenze subite da Ortega in Spagna e all’estero, per poi comporne una rigida periodizzazione della sua evoluzione filosofica, mentre occorre tener conto della contraddizione che in lui era evidente, tra l’aspirazione alla sistematicità e l’occasionalità delle riflessioni4. Dal canto suo, Julián Marías, l’interprete più autorevole di Ortega, mette in luce la circostanzialità del pensiero del filosofo5 e la necessità di non identificare il suo pensiero con i suoi scritti, perché questi sono sempre relativi a un’occasione determinata. La filosofia di Ortega vi è senz’altro presente, ma al di sotto, soggiace ad essi, ne è il sottosuolo. Da qui il paragone degli scritti orteghiani a degli iceberg il cui sommerso è reale, ma è tutto da scoprire. Secondo lo studioso, il sistematismo di Ortega è radicalmente differente da quello intenzionale dell’idealismo tedesco: è lo sforzo di adeguarsi alla siste-
2 Con l’espressione Escuela de Madrid, coniata da José Gaos, si indica quel gruppo di intellettuali della Facoltà di Filosofia dell’Università di Madrid che condivisero tra il 1931 e il 1936 la linea di pensiero e il metodo inaugurati da Ortega. Del nucleo originario facevano parte Manuel García Morente, Xavier Zubiri, José Gaos e più tardi anche Julián Marías, Joaquín Xirau, María Zambrano, Pedro Laín Entralgo, José Luis Aranguren. Cfr. J. Ferrater Mora, Escuela de Madrid, in Diccionario de Filosofía, Alianza Editorial, Madrid 1980, vol. 3, p. 2066. 3 Cfr. A. Savignano, Introduzione, in J. Ortega y Gasset, Origine ed epilogo della filosofia, Bompiani, Milano 2002, pp. V-VI. 4 Cfr. J.L. Abellán, Ortega y Gasset en la filosofía española, Tecnos, Madrid 1966, p. 87. 5 Cfr. J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación (1960), Alianza Editorial, Madrid 1983, pp. 167-180.
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maticità della realtà, che però è essenzialmente e irrinunciabilmente “mi vida”, la propria vita6. Pedro Cerezo invita a tenersi lontano tanto da interpretazioni di carattere “adamitico”, che considerano la filosofia di Ortega come originale in senso assoluto, isolata e scevra da qualsiasi debito intellettuale, il frutto di un pensatore che «quasi a colpi di ispirazione personale, si dispone a sfoggiare ben precocemente un mondo filosofico»7, quanto dal riconoscere una filiazione diretta nei confronti di scuole filosofiche da cui invece Ortega volle distinguersi esplicitamente. Cerezo assegna un’importanza essenziale all’influenza di Husserl, ritenendola addirittura il punto di avvio della riflessione filosofica di Ortega, a partire da Investigaciones psicológicas, e ne riconosce nella categoria di vita il nucleo originale, che egli andrà modulando in dialogo con le principali posizioni filosofiche dell’epoca: «Non si tratta, pertanto, dello sviluppo interno di un nucleo originale di pensiero, quanto piuttosto della costante modulazione della sua idea di vita nel frangiflutti delle opere filosofiche più importanti del suo tempo»8.
Il 1910 è l’anno in cui Ortega mostra il suo distacco sia dalle influenze francesi che da quelle germaniche. Il saggio Adán nel Paraíso9, scritto dopo il primo soggiorno a Marburgo, nel cosiddetto “momento neokantiano”, ne rappresenta una tappa significativa, perché contiene un iniziale abbozzo del “prospettivismo”, che poi apparirà maturo nel 1916, con Verdad y perspectiva. In quella che è una suggestiva metafora, la rappresentazione dei vissuti del primo uomo nel paradiso terrestre, Ortega per la prima volta espone in germe l’in6
Cfr. J. Marías, Ortega. Las trayectorias, Alianza Editorial, Madrid 1983, p. 495. «Casi a golpes de inspiración personal, se dispone a estrenar muy tempranamente un mundo filosófico». P. Cerezo, La voluntad de aventura. Aproximamiento crítico al pensamiento de Ortega y Gasset, Ariel, Barcelona 1984, p. 193. 8 «No se trata, pues, del desarrollo interno de un núcleo original de pensamiento, sino de la continua inflexión de su idea de la vida en el rompeolas de las obras filosóficas más capitales de su tempo». Ivi, p. 194. 9 J. Ortega y Gasset, Adán en el Paraíso (1910), Obras completas, vol. I, pp. 474493. 7
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tuizione che avrà successive precisazioni e rielaborazioni nel corso del suo percorso intellettuale: la vita umana come problema e la sua circostanzialità. «Quando Adamo comparve nel Paradiso, come un albero nuovo, cominciò ad esistere ciò che chiamiamo vita. Adamo fu il primo essere che, vivendo, si sentì vivere»10. Con la comparsa di Adamo, la vita diviene problema, in quanto, a differenza di quanto accade con gli altri viventi, è percepita dal soggetto, vissuta all’interno di uno scenario, che costituisce una circostanza. L’io è inseparabile da essa: Adamo non può concepirsi senza il paradiso, che a sua volta è tale soltanto con e per Adamo. L’idea di circostanza ha un chiaro precedente nella categoria di environment elaborata da James ed esposta sia in Great Men and their Environment (1880) sia nei suoi Principles of Psychology (1902). Tuttavia, si tratta più di una coincidenza che di una vera e propria derivazione. Marías ritiene più corretto collegare invece la categoria orteghiana di circostanza alla Umwelt del biologo Jacob von Uexküll11, come del resto aveva dichiarato lo stesso Ortega nel prologo all’edizione spagnola di Ideas para una concepción biológica del mundo di Uexküll: «Debbo dichiarare che su di me, sin dal 1913, hanno esercitato una grande influenza queste meditazioni biologiche. Questa influenza non è stata semplicemente scientifica, ma cordiale. Non conosco suggestioni più efficaci di quelle di questo pensatore, per dare ordine, serenità e ottimismo a guasti dell’animo contemporaneo»12. 10
«Cuando Adán apareció en el Paraíso, como un árbol nuevo, comenzó a existir esto que llamamos vida. Adán fue el primer ser que, viviendo, se sintió vivir». Ivi, p. 480. 11 J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, cit., p. 352. Cfr. J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Julius Springer, Berlin 1909. 12 «Debo declarar que sobre mí han ejercido desde 1913 gran influencia estas meditaciones biológicas. Esta influencia no ha sido meramente científica, sino cordial. No conozco sugestiones más eficaces que las de este pensador, para poner orden, serenidad y optimismo sobre el desarreglo del alma contemporánea». J. Ortega y Gasset, Prólogo a J. von Uexkull, Ideas para una concepción biológica del mundo (1922), Obras completas, cit., vol. VI, p. 310. Si veda anche Biología y pedagogía. El Quijote en la escuela (1920), Obras completas, cit., vol. II, pp. 289-291.
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In Uexküll, la Umwelt costituisce il mondo esteriore, l’insieme delle funzioni che esso rappresenta e che è condizione del mondo interiore (Innenwelt), ossia degli effetti che queste funzioni producono nell’organismo del vivente. Il secondo punto di riferimento chiaro per Ortega è la fenomenologia di Husserl, che affianca alla categoria di Umwelt quella di Einstellung (atteggiamento), intesa come la particolare modalità con cui il mondo è percepito dalla coscienza soggettiva nel suo significato o valore d’uso e che può essere messa tra parentesi nel processo di riduzione fenomenologica. In che misura la categoria orteghiana di circostanza è debitrice nei confronti di questi antecedenti e in che misura se ne discosta? Per rispondere conviene rifarsi al primo testo dove l’idea di circostanza appare più precisa e meglio argomentata rispetto al saggio del 1910. Si tratta delle Meditaciones del Quijote13, apparse tre anni dopo. In questo saggio, sebbene affiorino le analogie e i riferimenti agli autori sopracitati, emergono chiaramente anche le differenze, che rendono originale l’idea di circostanza elaborata da Ortega. Innanzitutto il filosofo si congeda dalla prospettiva biologica di Uexküll, pur facendovi riferimento esplicito, per approdare invece alla dimensione geografica, storica e culturale della circostanza, che non è né separabile né sovrapposta alla natura dell’uomo. La nota formula «io sono io e la mia circostanza e se non la salvo, io non mi salvo»14 esprime la reciproca implicazione di soggetto, mondo esterno e mondo interno, senza possibilità alcuna di messa tra parentesi, come invece riteneva la scuola fenomenologica. La circostanza è prospettiva, punto di vista dal quale affacciarsi alla realtà, non soltanto contesto vitale, ma condizione esistenziale dell’uomo. Non è, come in Uexküll, un insieme di funzioni esteriori, separate dal mondo interiore, dal semplice carattere organico, ma è la possibilità stessa della costituzione della nozione di mondo, grazie al suo valore percettivo e interpretativo. La nozione di prospettiva è, pertanto, un’articolazione importante dell’idea di circostanza. Già abbozzato nel saggio Adán en el Paraíso, 13 14
Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., vol. I, p. 309 e ss. «Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo». Ivi, p.
322.
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maggiormente argomentato ne Las meditaciones del Quijote, il prospettivismo orteghiano riceverà un’ulteriore precisazione in uno scritto del 1916, Verdad y perspectiva15, dove è affrontato in relazione al tema della verità e al rapporto tra teoria e azione. L’affermazione che «l’essere definitivo del mondo non è né materia né anima, quanto piuttosto una prospettiva»16 non implica in alcun modo un soggettivismo radicale, à la Nietzsche. Non induce a ritenere che la realtà sia una proiezione del soggetto, indica piuttosto il contrario, ossia l’esclusione di ogni pretesa di assolutismo da parte dell’intelletto. Mentre in Nietzsche la prospettiva si oppone alla realtà, in Ortega diventa la condizione della realtà e la possibilità stessa di conoscerla17. Con accenti più vicini dunque all’ermeneutica che all’idealismo o al nichilismo, il filosofo spagnolo rivendica le esigenze della verità invece che eluderle, prendendo le distanze tanto dallo scetticismo – che nega la verità a favore del punto di vista individuale – come dal razionalismo, che afferma una verità esclusivamente logica e sovraindividuale18. Scrive in Verdad y perspectiva, con cui dà inizio all’opera significativamente intitolata El Espectador, colui che osserva da un determinato luogo: «La verità, il reale, l’universo, la vita si scompongono in mille innumerevoli sfaccettature, in imprevedibili direzioni, ciascuna delle quali si offre a un individuo. Se questi ha saputo essere fedele al proprio punto di vista, se ha resistito all’eterna seduzione di cambiare la sua retina per un’altra immaginaria, quello che vede sarà un aspetto reale del mondo. E viceversa: ogni uomo ha una missione di verità. Dov’è la mia pupilla non vi è un’altra: ciò che della realtà vede la mia pupilla non lo vede un’altra. Siamo insostituibili, siamo necessari. Solo tra tutti gli uomini può esser vissuto l’umano dice Goethe. All’interno dell’umanità ogni razza, all’interno di ogni razza ogni individuo, è 15 Cfr. J. Ortega y Gasset, El Espectador (1916), Obras completas, cit., vol. II, pp. 17-18. 16 «El ser definitivo del mundo no es materia ni es alma, sino una perspectiva». J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Obras completas, cit., vol. I, p. 321. 17 Cfr. J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, cit., p. 372. 18 Cfr. J. Ortega y Gasset, Verdad y perspectiva, Obras completas, cit., vol. II, p. 18.
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un organo di percezione diverso da tutti gli altri e come un tentacolo che giunge a parti di universo agli altri inaccessibili. La realtà si offre pertanto entro prospettive individuali. Ciò che per uno è all’ultimo posto, per l’altro si trova in primo piano. Il paesaggio ordina le sue dimensioni e le sue distanze d’accordo con la nostra retina e il nostro cuore distribuisce gli accenti. […] Invece di discutere, integriamo le nostre visuali in generosa collaborazione spirituale e come le sponde indipendenti si riuniscono nell’ampia vena del fiume, componiamo il torrente del reale»19.
La circostanza orteghiana, pur vicina alla nozione di Environment, presente in alcuni dei primi saggi di William James20, se ne discosta per la chiara dimensione antropologica, in quanto concorre a definire l’io non soltanto nella sua condizione esistenziale, ma anche nella dinamica del suo sviluppo. Ciò appare anche da quella che il filosofo qualifica come “reabsorción de la circunstancia”21: l’atto di libertà con cui il soggetto assume intenzionalmente l’insieme delle situazioni concrete che, in un certo senso, ha ricevuto passivamente, incorporandole nel proprio progetto di vita. In questo modo, la circostanza si umanizza, trasformandosi da offerta in progetto, acquistando un significato, un lógos e una direzione e diventando, così, autentica vita 19 «La verdad, lo real, el universo, la vida se quiebra en facetas inumerables, en vertientes sin cuento, cada una de las cuales da hacia un individuo. Si éste ha sabido ser fiel a su punto de vista, si ha resistido a la eterna seducción de cambiar su retina por otra immaginaria, lo que ve será un aspecto real del mundo. Y viceversa: cada hombre tiene una misión de verdad. Donde está mi pupila no está otra: lo que de la realidad ve mi pupila no lo ve otra. Somos insustituibles, somos necesarios. Sólo entre todos los hombres llega a ser vivido lo Humano dice Goethe. Dentro de la humanidad cada raza, dentro de cada raza cada individuo, es un órgano de percepción distinto de todos los demás y como un tentáculo que llega a trozos de universo para los otros inasequibles. La realidad, pues, se ofrece en perspectivas individuales. Lo que para uno está en último plano, se halla para otro en primer término. El paisaje ordena sus tamaños y sus distancias de acuerdo con nuestra retina, y nuestro corazón reparte los acentos. […] En vez de disputar integremos nuestras visiones en generosa colaboración espiritual, y como las riberas independientes se aunan en la gruesa vena del río, compongamos el torrente de lo real». Ivi, p. 19. 20 Cfr. W. James, Great Men, Great Thoughts, and the Environment, in «The Atlantic Monthly», 46, ottobre, 1880. 21 Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Obras completas, cit., vol. I, p. 322.
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umana personale. Il termine riassorbimento (re-absorción) indica un movimento successivo, non automatico ma intenzionale, all’assorbimento (absorción), una sorta di ritorno su se stessi, per riconfigurare volontariamente quanto configurava originariamente l’io. Osserva Marías, sottolineando il rapporto dinamico tra l’essere umano e la sua circostanza: «In questo consiste il ri-assorbimento della circostanza: l’uomo, che in un determinato momento si trova lì, tra le cose e con esse, vivendo la sua vita con esse come con qualcosa di estraneo, se ne appropria, personalizzandole, mondificandole, se si ammette l’espressione, in virtù del suo progetto, che è il modo di realizzare questo ritorno tattico in cui si mette la catena al collo del concreto e così lo si incorpora e lo si riassorbe. Per questo, la relazione dell’io con la circostanza non è un semplice riferimento intenzionale e neppure una semplice coesistenza, quanto piuttosto una reciproca pertinenza: solo a partire da essa ciascuno dei due termini ha senso e realtà subordinata»22.
Questo riassorbimento della circostanza è uno sforzo che si protrae nel corso dell’intera vita e non ha un esito predeterminato, a motivo del margine di irriducibilità della realtà ai propri progetti. L’uomo è, con espressione di Ortega, un essere utopico, proprio in quanto vive di questa dialettica tra il progetto e la resistenza della realtà, sempre spinto in avanti verso la realizzazione di sé. È una sorta di dramma che appare in modo particolarmente evidente nella figura dell’eroe o del personaggio tragico. Sia l’uno che l’altro realizzano in misura eminente quanto avviene nella vita dell’uomo comune, ma mostrandolo nelle sue estreme conseguenze. Vivono essenzialmente di futuro, 22 «En esto consiste la re-absorción de la circunstancia: el hombre, que por lo pronto se encuentra ahí, entre las cosas y con ellas, haciendo su vida con ellas como algo ajeno, ejecuta una apropiación de ellas, personalizándolas, mundificándolas, si vale la expresión, en virtud de su proyecto, que es el modo de realizar esta “vuelta táctica” en que se echa la cadena al cuello de lo concreto y así se lo incorpora y reabsorbe. Por eso, la relación del yo con la circunstancia no es una mera referencia intencional, ni siquiera una simple coexistencia, sino que es una mutua pertenencia, sólo desde la cual tienen sentido – y realidad subordinada- cada uno de los dos términos». J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, cit., p. 401.
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nella costante tensione di progettare se stessi, senza cedere al conformismo. Scrive in La rebelión de las masas: «È falso affermare che nella vita “decidono le circostanze”. Al contrario: le circostanze sono il dilemma, sempre nuovo, di fronte al quale dobbiamo deciderci»23. Eroe è chiunque respinga la passività, resistendo alle pressioni e all’inerzia per conquistare e conservare la propria medesimezza (mismidad), per essere se stesso. Da qui il nesso tra eroicità e autenticità, in cui Ortega sembra anticipare le considerazioni heideggeriane del 1927 sull’esistenza autentica. La sua descrizione dell’eroe riecheggia forse ancor di più, con la fondamentale differenza della tonalità drammatica, nelle osservazioni che nel 1932 Bergson farà a proposito della morale aperta ne Les deux sources de la morale et de la religion. «La sua vita è una perpetua resistenza a ciò che è abituale e consueto. In ogni movimento che realizza ha avuto bisogno innanzitutto di vincere l’abitudine e di inventare una nuova modalità di gesto. Una vita così è un perenne dolore, un costante strappare da sé quella parte di se stesso consegnata all’abitudine, prigioniera della materia»24.
Teso costantemente a superare non soltanto la resistenza esterna, ma anche quella interna, della propria inerzia e tendenza al conformismo, l’eroe orteghiano non è un Übermensch che forgia volontaristicamente il proprio destino. Egli è piuttosto capace di fedeltà a un destino che, pur non essendo stato oggetto di scelta, è liberamente riconosciuto e accolto come vocazione e come compito. La filosofia della vita di Ortega parte dunque da queste considerazioni di carattere esistenziale, dal carattere drammatico dell’agire come forma in cui la realtà della vita si rivela all’uomo, che succes23
«Es falso decir que en la vida “deciden las circunstancias”. Al contrario: las circunstancias son el dilema, siempre nuevo, ante el cual tenemos que decidirnos». La rebelión de las masas, cit., vol. IV, pp. 170-171. 24 «Su vida es una perpetua resistencia a lo habitual y consueto. Cada movimiento que hace ha necesitado primero vencer a la costumbre e inventar una nueva manera de gesto. Una vida así es un perenne dolor, un constante desgarrarse de aquella parte de sí mismo rendida al hábito, prisionera de la materia». J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., p. 390.
29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
sivamente troverà ulteriori sviluppi in una più elaborata teoria della vita umana25.
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1.2 Il corpo come “circostanza” La chiave di lettura per la comprensione della filosofia del corpo di Ortega la si può forse rinvenire nel saggio del 1923 El tema de nuestro tiempo26, dove l’asse della riflessione ruota attorno alla necessità che la cultura non si allontani dalla vita, cadendo in un razionalismo astratto o in uno spiritualismo disincarnato. Quello che Ortega definisce come il fenomeno vitale umano oscilla tra due poli opposti, la dimensione biologica e quella spirituale, due istanze che non possono essere separate né negate, in quanto si compensano e correggono a vicenda. Per questo motivo, la vita senza cultura diventa barbarie, ma la cultura devitalizzata si trasforma in bizantinismo27. Ortega indica come cifra di questa contrapposizione il confronto tra due ironie, quella di Socrate e quella di Don Giovanni28. Socrate – o meglio, il socratismo – rappresenterebbe l’estremo sforzo di eliminare la spontaneità della vita per sostituirla con la pura ragione, che trova la sua manifestazione nell’ironia: l’operazione per cui invece di dire ciò che si pensa, si finge di pensare ciò che si dice. Da qui che il razionalismo non è altro che il tentativo di ironizzare la vita spontanea considerandola dal punto di vista della pura ragione. Per Ortega, invece, l’urgente “tema del nostro tempo” è quello di rimettere al suo posto la ragione, restituendole vitalità e ricollocandola all’interno della dimensione biologica. La ragion pura deve essere sostituita dalla ragione vitale, il che rende necessaria una nuova ironia, diversa dalla socratica. Il personaggio di Don Giovanni è pertanto presentato come antidoto, ma non come soluzione definitiva: l’ironia mordace di questo personaggio, ridicolizzando la morale che ha dimenticato la vita, 25
Cfr. J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, cit., p. 407. El tema de nuestro tiempo, Obras completas, cit., vol. III, p. 143 e ss. 27 Ivi, p. 169. 28 Ivi, pp. 174-178. 26
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può fungere da detonatore e, una volta ottenuto lo scopo, aderire a valori morali più autentici. Questa attenzione alla concretezza del fenomeno vitale umano e lo sforzo di ricomporre i dualismi può essere lo sfondo in cui collocare le riflessioni antropologiche che Ortega elabora sul tema del corpo, considerato sia a livello individuale che nelle relazioni interpersonali. L’11 giugno del 1949 così scrive ringraziando il medico gallego Juan Rof Carballo per il suo volume di Patología psicosomática: «I concetti di corpo e anima o psiche si sono volatilizzati quasi contemporaneamente e converrebbe tentare di partire da una terza cosa che superi a limine quella dualità. La liberazione assoluta dall’idea di “sostanza” che la mia filosofia offre permette di dare avvio a un’impostazione completamente nuova del problema tradizionale corpoanima»29.
Parole in cui Ortega si dichiara un innovatore e sintetizza uno dei motivi di fondo della sua speculazione, che è quello di trovare un tertium quid che consenta di reimpostare l’antropologia filosofica, impantanata nell’alternativa tra materialismo biologista o spiritualismo. Se e in che misura ci riesca, sarà l’argomento delle prossime pagine. Senz’altro occorre notare che prima o contemporaneamente a Ortega sugli stessi temi, cioè sul rapporto tra corpo e spirito, sulla nozione di corpo vissuto, sul riconoscimento, altri pensatori hanno dato il loro contributo: si tratta di Bergson, Husserl, Scheler, Simmel, le cui opere erano ben note a Ortega. Senza cadere nel concordismo, è però importante segnalare alcune affinità, ma anche gli elementi di originalità del filosofo spagnolo. L’opera di Ortega che tratta con maggiore ampiezza il tema della corporeità è il saggio Vitalidad, alma, espíritu, del 1924, a cui si 29
«Los conceptos de cuerpo y alma o psique se nos han volatilizado casi al mismo tiempo y convendría intentar partir de una tercera cosa que supere a limine aquella dualidad. La liberación absoluta de la idea de “sustancia” que mi filosofía proporciona permite ensayar un planteamiento completamente nuevo del problema tradicional cuerpo-alma». J. Rof Carballo, Complementaridad y urdimbre, in AA.VV., Homenaje a Julián Marías, Espasa Calpe, Madrid 1984, pp. 631-632.
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possono aggiungere anche La percepción del prójimo, del 1929, e El hombre y la gente, che raccoglie testi scritti nell’arco degli anni 194950. In apertura del primo saggio, egli annuncia che la questione del corpo è «un tema di insuperabile attualità, perché l’uomo europeo va dritto verso una gigantesca rivendicazione del corpo, verso una resurrezione della carne»30. Anni più tardi, anche il filosofo Gadamer, in uno scritto del 1986 sul tema della salute, avrebbe affermato la centralità del corpo, ma osservando che il destino della civiltà occidentale si sarebbe giocato su un difficile equilibrio: quello tra l’esperienza soggettiva che ciascuno ha del proprio corpo – ossia tra i valori umani di cui la corporeità è espressione – e l’oggettivazione sempre crescente che ne avrebbero fatto sia la scienza che la cultura31. Secondo Nelson Orringer, la filosofia del corpo di Ortega non solo presenta delle affinità con il pensiero di Max Scheler, ma ne è debitrice per esplicita dichiarazione dello stesso Ortega32. Ciò non impedisce, tuttavia, che mostri un carattere di originalità, dovuto al fatto che Ortega presenta il corpo umano come un esempio della sua concezione prospettivista. Orringer definisce la posizione di Ortega con il termine di prospettivismo corporalista, che a suo avviso può essere interpretato come neokantiano-marburghese nel saggio Tres cuadros del vino (1911), scheleriano in Estética en el tranvía (1916) e simmeliano in La doctrina del punto de vista contenuta in El tema de nuestro tiempo33. Sebbene lo schema interpretativo sembri alquanto rigido, può essere interessante ripercorrere questi saggi, pur consapevoli che è quasi impossibile riferendoci a Ortega individuare uno sviluppo coerente e sistematico rintracciabile nella linea cronologica degli scritti. I due saggi Tres cuadros del vino34 ed Estética en el tranvía35 abbordano indirettamente il tema del corpo, partendo dalla considerazio30 31
Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, p. 453. Cfr. H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994,
p. 81. 32 Cfr. N. Orringer, La corporalidad en Ortega y Gasset, EUNSA, Pamplona 1999, pp. 11-12. 33 Cfr. ivi, p. 15. 34 Cfr. Obras completas, cit., vol. II, pp. 50-58. 35 Cfr. ivi, pp. 33-39.
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ne della bellezza. Il primo prende spunto dal commento a tre quadri accomunati dal tema del vino: il Baccanale di Tiziano, il Baccanale di Poussin, Gli ubriachi di Velázquez, che offrono a Ortega l’occasione di riflettere sul rapporto tra corpo e natura in una prospettiva chiaramente vitalista. Tiziano, secondo il filosofo, interpreta in modo emblematico la filosofia del Rinascimento, con la sua esaltazione del corpo e della natura materiale, mentre tutti e tre i pittori riescono a raffigurare l’effetto prodotto dal vino come un’immersione dei corpi nell’armonia cosmica dell’universo. In Estética en el tranvía, Ortega non si riferisce alla bellezza in quanto ideale universale, come nel saggio Tres cuadros del vino, piuttosto appare più vicino alla posizione antikantiana di Scheler, cercando di individuare la norma di bellezza essenziale e intrinseca in ciascun individuo36. Egli propone una riflessione sul processo del giudizio estetico, prendendo spunto dall’abitudine diffusa tra gli spagnoli di osservare con certa attenzione, mentre viaggiano in tram, le donne presenti. Ortega ritiene che questa abitudine, depurata dagli elementi di insistenza e di indiscrezione che talvolta la accompagnano, possa fornire dati interessanti sulla formulazione del giudizio estetico, applicato in questo caso al “calcolo della bellezza femminile”37. Il suo è un esperimento, da realizzare per poter determinare in base a quali criteri si giudichi un corpo più o meno bello. Ne risulta una fenomenologia che non è solo del giudizio estetico, ma anche dello sguardo, che smonta la concezione di stampo platonico per cui nel giudicare un volto si possiederebbe già un ideale previo di bellezza, una sorta di unità di misura, che viene semplicemente applicata all’oggetto reale che si sta guardando. Per Ortega, invece, la perenne ricerca della bellezza, che caratterizza l’essere umano è la dimostrazione che non la si possiede già a priori. Per valutare il caso singolo, non solo non esiste un archetipo o modello unico di bellezza, ma neppure una pluralità di esemplari tipici di bellezza, che moltiplicherebbero le difficoltà e renderebbero impossibile il giudizio.
36 37
Cfr. N. Orringer, La corporalidad en Ortega y Gasset, cit., p. 16. Cfr. Obras completas, cit., vol. II, p. 34.
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Secondo il filosofo, il punto di partenza non è il prototipo, ma la realtà del volto che si ha di fronte:
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«partiamo dal volto che vediamo e questo, da se stesso, secondo questa teoria, seleziona tra i nostri modelli quello che gli si deve applicare. In questo modo, la realtà individuale collabora al nostro giudizio di perfezione e non rimane, come prima, totalmente passiva»38.
Chi guarda non è un giudice che applica un codice prestabilito e conosciuto in precedenza, ma un esploratore che attende una rivelazione dall’esperienza della realtà, che gli si presenta come una promessa. Nello scrutare un volto, non ci si lascia, pertanto, guidare da un modello ideale di naso, di labbra o di zigomo, quanto piuttosto da “determinate linee incorporeee” tracciate dalla nostra coscienza quando percepiamo un difetto in un soggetto corporeo39. Più che attribuirlo a un ideale di bellezza unico e tipico, occorre affermare che ciascun volto suscita il suo proprio, unico ed esclusivo ideale. L’impostazione di Ortega è dunque antiplatonica e antikantiana e dall’estetica le sue considerazioni si estendono anche all’etica. Come dal volto concreto che ho di fronte, non dall’universale, io apprendo cos’è la bellezza, così è dalla situazione concreta – e non da un’aprioristica idea di dovere – che ricavo un’indicazione morale. L’invito è pertanto a scoprire l’ideale di perfezione che conviene a ciascuno, con le sue irripetibili caratteristiche, piuttosto che applicare un modello generale a cui adeguarsi. “Diventa ciò che sei!” esprime questa prospettiva, che invita ciascuno a confrontare ciò che è in quanto realtà con ciò che è in quanto progetto40. Il saggio che più estesamente sviluppa il tema del corpo è Vitalidad, alma, espíritu, che risale al 192441, in cui Ortega si propone di tratteg38
«partimos del rostro que vemos, y él, por sí mismo, según esta teoría, selecciona entre nuestros modelos el que ha de aplicársele. De esta suerte, la realidad individual colabora en nuestro juicio de perfección y no permanece, como antes, totalmente pasiva». Ivi, p. 35. 39 Ivi, p. 37. 40 Ivi, p. 38. 41 Ivi, pp. 451-480. Il saggio risale a due conferenze tenute nella “Residencia de Señoritas” l’1 e il 19 maggio del 1925, pubblicate successivamente in “El Sol”, il 24
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giare “una topografia dell’intimità”, partendo dall’assunto che l’interiorità non è uno spazio omogeneo, ma stratificato e diversificato. Secondo il filosofo, la struttura dell’intimità, quella che egli definisce “la tettonica della persona”, l’“anatomia dell’anima” è stato un tema poco frequentato dalla filosofia. Ortega riconosce a Freud il merito di averla in parte esplorata, ma prende radicalmente le distanze dalla visione psicoanalitica, non condividendone la riduzione della vita psichica a un processo meccanico e ritenendo più feconda una teoria psicologica «che non atomizzi la coscienza spiegandola come il semplice risultato di associazioni e dissociazioni tra singoli elementi»42. Anche la psicologia, nella sua versione sperimentale, non ha fatto altro che una “fisica dell’anima”, mentre nella sua versione razionale l’ha scomposta nei suoi elementi astratti e generici. L’intento di Ortega è recuperare una visione unitaria del soggetto umano, una sintesi che non ammetta amputazioni e, allo stesso tempo, riconoscerne la complessità, sebbene questo termine non ricorra nel vocabolario orteghiano. Si tratta di postulare una sorta di “tripartizione dell’intimità”43, individuando tre grandi regioni della personalità. La prima, che possiede una dimensione più istintuale, viene definita da Ortega con i termini di “alma corporal”44 o “alma carnal”45, “vitalidad”46, “subconsciente, oscura y latente”47, dove originano le sensazioni di piacere e di dolore e le tendenze della vitalità, come l’attrazione sessuale. Una sorta di “sottosuolo animale”, che è un tutt’uno con la parte più spirituale della persona e ne è inseparabile, dove si fondono l’elemento somatico con quello psichico e spirituale. Lontano da ogni dualismo di stampo platonico-cartesiano, Ortega riconosce nel cristianesimo – e ancor di più nel cattolicesimo – la religione meno ostile alla corporeità e la stessa insistenza con cui nel maggio e il 12 luglio dello stesso anno e incluse nel 1926 in El Espectador V, con l’aggiunta del capitolo intitolato Para una caracterología. 42 «Que no atomiza la conciencia explicándola como el mero resultado de asociaciones y disociaciones entre elementos sueltos». Ivi, p. 452. 43 Ivi, p. 465. 44 Ivi, p. 453. 45 Ivi, p. 455. 46 Ivi, p. 456. 47 Ivi, p. 462.
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corso dei secoli ha invitato a una disciplina del corpo costituisce una conferma della centralità che gli veniva assegnata. Nel cristianesimo si tocca con mano la continuità dello spirito con la carne. «Non c’è dubbio che questa comprensione della carne, questa sublime idea eucaristica, sia una delle molte superiorità del cattolicesimo sul protestantesimo – religione che propende verso lo spettrale, l’incorporeo e la fuga dal mondo. Il cattolicesimo tira il corpo e tutto il pianeta verso l’alto. Con un profondo senso cattolico, Unamuno chiede la salvezza del corpo. Di questo si tratta: di salvare tutto, anche la materia, non di sottrarsi fuggendo. Abbiamo bisogno di non perdere nessun ingrediente: anima e corpo. […] Integrazione. Sintesi. Niente amputazioni»48.
Tre anni prima che Gabriel Marcel mettesse in luce nel Journal métaphysique la centralità dell’“incarnazione”, come il «carattere insieme misterioso e intimo del legame tra me e il mio corpo»49 e due decenni prima delle riflessioni di Merleau-Ponty50 sulla “carne”, intesa come corpo proprio, troviamo in Ortega, seppure nell’ambito di un’antropologia dai contorni incerti, un’attenzione speciale nei confronti della dimensione personale del corpo vissuto, la nostra prima circostanza.
48 «No hay duda que esta comprensión de la carne, esta sublime idea eucarística, una de las muchas superioridades del catolicismo sobre el protestantismo – religión esta que propende a lo espectral, a la incorporeidad y a fugarse del mundo. El catolicismo tira del cuerpo y del planeta todo hacia arriba. Con un hondo sentido católico, Unamuno demanda la salvación del cuerpo. Se trata de eso: de salvar todo, también la materia, no de ser tránsfugas. Necesitamos no perder ningún ingrediente: alma y cuerpo. […] Integración. Síntesis. No amputaciones». Ivi, pp. 454-455. 49 Cfr. G. Marcel, Journal métaphysique, Gallimard, Paris 1927; trad. ital. Diario Metafisico (1928-1933), in Essere e avere, ESI, Napoli 1999, p. 7. 50 Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945.
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1.3 Fenomenologia del corpo vissuto: la nozione di “intracorpo”
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Ortega elabora la nozione di “intracuerpo”51 a partire dalla considerazione della duplice conoscenza che abbiamo del corpo, una esteriore, l’altra dall’interno. La distinzione qualitativa tra queste due percezioni appare chiaramente nella radicale differenza di significato che assume un’espressione che indica un’azione corporea, a seconda che sia riferita a se stessi o ad altri. Si pensi ad esempio all’espressione “io cammino”, che è radicalmente differente da “egli cammina”, in quanto quest’ultima esprime un fenomeno percepito dalla vista, che segue la successione di posizioni di un corpo nello spazio. «“Camminare” indica due azioni che si distinguono in “io cammino” e in “egli cammina”. Il significato di camminare in “io cammino” e in “egli cammina” ha evidentemente un primo aspetto d’identità – altrimenti non useremmo la stessa radice idiomatica. […] Tuttavia, se fissiamo con certa insistenza la nostra attenzione su quale sia la realtà a cui l’“io cammino” allude, noteremo quanto grande sia la differenza da quella indicata da “egli cammina”. Il camminare di “lui” è una realtà che percepisco con gli occhi, giacché si verifica nello spazio: una serie di posizioni successive di due gambe sulla terra. Nell’“io cammino” forse mi appare anche l’immagine visiva dei miei piedi in movimento; però oltre a questo, ciò che più direttamente si intende con quelle parole è una realtà invisibile ed estranea allo spazio: lo sforzo, la spinta, le sensazioni muscolari di tensione e di resistenza. La differenza non può essere maggiore. Si può dire che nell’“io cammino” ci riferiamo al camminare visto dall’interno di ciò che è e nell’“egli cammina”, al camminare visto dal di fuori, nel suo risultato esteriore»52. 51
Cfr. Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, pp. 455-456. «Las palabras que significan acciones corporales tienen siempre doble significación, según las refiramos a nosotros o al prójimo. “Andar” significa dos hechos muy distintos en “yo ando” y en “él anda”. El sentido andar en “yo ando” y “él anda” tiene evidentemente un primer aspecto de identidad – de otra suerte no emplearíamos la misma raíz idiomática. […] Pues bien: si fijamos con alguna insistencia, nuestra atención en cuál sea la realidad a que el “yo ando” alude, notaremos cuan grande es su diferencia de la aludida por “él anda”. El andar de “él” es una realidad que percibo por los ojos, 52
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L’intracorpo non è dunque un oggetto visivo come l’extracorpo, ma è costituito da sensazioni muscolari, nervose, dolorifiche, piacevoli, ecc. Nell’architettura della persona l’intracorpo, che potremmo chiamare anche corpo vissuto, è l’orizzonte che normalmente, proprio per la sua presenza costante, passa inavvertito, da cui inquadriamo tutta la conoscenza del mondo e degli altri. Con ragione la nozione di intracorpo coniata da Ortega è stata considerata affine a quella di “coscienza interna del nostro corpo”, elaborata tra il 1913 e il 1927 da Scheler. Questi la descrive non come una somma di sensazioni localizzate nei singoli organi, ma come coscienza di un tutto più o meno articolato, che è indipendente e precedente alle sensazioni organiche, perché si manifesta in modo autonomo, come un dato di fatto presente a noi stessi. Ciò non è possibile per il corpo fisico, che non potremmo conoscere se non avessimo la possibilità di vederlo e di toccarlo. D’altra parte la coscienza interna del corpo proprio è la forma inseparabile delle sensazioni organiche, in quanto le pone in relazione e le unifica53. Occorre, tuttavia, sottolineare le differenze tra la concezione orteghiana e quella scheleriana. Secondo Ciriaco Morón Arroyo, che al pensiero di Ortega ha dedicato un’ampia analisi, la differenza tra l’una e l’altra è da rinvenire nel taglio marcatamente biologista del filosofo spagnolo rispetto a Scheler, più aperto alla trascendenza. Per quest’ultimo, “l’uomo trascende se stesso, la propria vita e ogni vita” ed è “l’unico essere vivente che si pone alla ricerca di Dio”54. Ortega, invece, intende costantemente sottolineare l’adesione alla vita, il cui dinamismo si manifesta in modo speciale nell’intracorpo55. verificándose en el espacio: una serie de posiciones sucesivas de unas piernas sobre la tierra. En el “yo ando” tal vez acuda a mí la imagen visual de mis pies moviéndose; pero sobre ello, y como más directamente aludido en aquellas palabras, encuentro una realidad invisible y ajena al espacio, el esfuerzo, el impulso, las sensaciones musculares de tensión y resistencia. La diferencia no puede ser mayor. Diríase que en el “yo ando” nos referimos al andar visto por dentro de lo que él es, y en el “él anda”, al andar visto por fuera, en su resultado exterior». Ivi, p. 456. 53 Cfr. M. Scheler, Il formalismo nell’Etica e l’etica materiale dei valori, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, pp. 498-499. 54 Cfr. ivi, pp. 357 e 360. 55 Cfr. C. Morón Arroyo, El sistema de Ortega y Gasset, Alcalá, Madrid 1968, p. 183.
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Per Nelson Orringer, invece, Ortega mostra una maggiore preoccupazione di conservare un punto di vista più ampio possibile, in modo da integrare lo sguardo sul corpo fisico con quello sull’intracorpo56. Trattando, ad esempio, della conoscenza che del corpo possiamo avere attraverso i sensi, egli ritiene che ai cinque sensi tradizionali se ne debbano aggiungere altri indicati dai fisiologi, che consentono una maggiore penetrazione nel dinamismo del corpo vissuto: la sensibilità labirintica e vestibolare dell’udito, la pressione del contatto, il dolore, il freddo, il caldo, la cinestesia, ossia le sensazioni muscolari, tendinee e articolari e la cenestesia, cioè la sensibilità viscerale57. Per altri studiosi l’originalità di Ortega non si limita a questo aspetto. Secondo il medico e filosofo Pedro Laín Entralgo, egli intende stabilire una vera e propria “scienza della sensazione del corpo proprio”, una somatologia, tentandone una descrizione il più possibile precisa in vista di una conoscenza più concreta della realtà uomo58. Egli è il primo a formulare la concezione del corpo come carne, anticipando le riflessioni dei filosofi francesi. Laín considera originale in questa indagine da un lato l’analisi del dinamismo dell’intracorpo estesa a due ambiti particolari, la sensibilità femminile e i vissuti del nevrotico, dall’altro la rilevanza del corpo proprio nel processo di riconoscimento. Infatti l’analisi dell’intracorpo consente a Ortega di analizzare con maggiore esattezza il cambiamento che si produce nella situazione di malattia, organica o psichica che sia. A livello antropologico, il suo effetto consiste in un movimento di ripiegamento dell’attenzione sul proprio corpo, di cui si comincia ad avvertire ogni sensazione e a riconoscere anche i cambiamenti più impercettibili, come un’alterazione nel battito cardiaco o nella circolazione del sangue. «Il resto del mondo sembra allontanarsi sfocato, perdere realtà e al suo posto si istalla, gigantesco, formidabile, il liquido dramma del sangue circolante, il 56
Per questo Orringer non concorda del tutto con la critica di Arroyo. Cfr. La corporalidad en Ortega y Gasset, p. 20. 57 Cfr. J. Ortega y Gasset, ¿Qué es filosofía?, Obras completas, cit., vol. VII, p. 351. 58 P. Laín Entralgo, El cuerpo humano. Teoría actual, Espasa Calpe, Madrid 1989, pp. 118-120.
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battito ritmico del cuore»59. Si può dunque definire la salute come l’orientamento dell’attenzione verso ciò che è al di là del corpo, verso il mondo. Invece la malattia o la nevrosi sono caratterizzate proprio dall’inversione dell’attenzione, da un processo di ritorno in se stessi (ensimismamiento). D’altra parte, secondo Ortega è proprio a questo ritorno su di sé che si deve storicamente la scoperta dell’interiorità, come è avvalorato dal fatto che i grandi uomini di intensa vita interiore – i mistici, i poeti, i filosofi – sono stati spesso se non dei nevrotici, perlomeno dei soggetti molto attenti nei confronti dei vissuti del proprio corpo. Anche la donna possiede una vita interiore più ricca e profonda dell’uomo, forse proprio per la più fine percezione del suo intracorpo, che la rende anche più sensibile al dolore. Secondo Ortega, la psicologia ha prestato scarsa attenzione a questo particolare vissuto corporeo, su cui si fondano gran parte delle differenze psicologiche tra l’uomo e la donna. «La relativa iperestesia delle sensazioni organiche della donna comporta che per lei il corpo esista più di quanto esista per l’uomo. Noi uomini, normalmente, ci dimentichiamo del nostro fratello corpo; non sentiamo di averlo se non nel momento freddo o torrido dell’estremo dolore o dell’estremo piacere. Tra il nostro io, puramente psichico e il mondo esterno non sembra interporsi nulla. Nella donna, invece, l’attenzione è costantemente sollecitata dalla veracità delle sue sensazioni intracorporee, per cui sente in ogni momento il proprio corpo come frapposto tra il mondo e il suo io, lo porta sempre avanti a sé, come scudo di difesa e allo stesso tempo come ostaggio vulnerabile. […] La sua anima è più corporea – ma anche viceversa, il suo corpo è più permeato d’anima»60. 59 «El resto del mundo parece alejarse borroso, perder realidad, y en su lugar se instala, gigantesco, formidable, el líquido drama de la sangre circulante, el golpe rítmico del corazón». Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, p. 458. 60 «La relativa hiperestesía de las sensaciones orgánicas de la mujer trae consigo que su cuerpo exista para ella más que para el hombre el suyo. Los varones, normalmente, olvidamos nuestro hermano cuerpo; no sentimos que lo tenemos si no es a la hora frígida o tórrida del extremo dolor o el extremo placer. Entre nuestro yo, puramente psíquico, y el mundo exterior no parece interponerse nada. En la mujer, por el contrario, es solicitada constantemente la atención por la veracidad de sus sensaciones
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La “vitalità” è pertanto come il paesaggio che fa da sfondo al quadro in cui si colloca la seconda dimensione della personalità: lo spirito. Ortega dà a questo termine un significato ben diverso da quello della metafisica tradizionale, visto che lo definisce come «l’insieme degli atti intimi di cui ciascuno si sente veramente autore e protagonista»61. Egli lo differenzia dalla terza dimensione, l’anima, considerandolo l’attività stessa, sempre cangiante, del volere e del pensare, mentre l’anima è il centro stabile di sentimenti, desideri, ricordi. «Lo spirito, l’“io” non è l’anima: si potrebbe dire che è sommerso, come un naufrago, in essa, che lo avvolge e lo alimenta»62. Su questo si basa la distinzione tra le emozioni: se non affiorano alla dimensione dell’anima per stabilirvisi, sono “in me”, ma non sono “mie”, ossia non costituiscono l’“io”. Ci possono essere situazioni in cui l’anima riesce a rimanere impermeabile, quasi ermeticamente chiusa alle sollecitazioni emotive dello spirito, come ad esempio quando si mantiene una certa impassibilità di fronte a una notizia dolorosa, perché ci si trova in una circostanza ufficiale o, al contrario, casi in cui l’anima è massimamente porosa, forse per una situazione momentanea di tensione psicologica. Questa tripartizione tra vitalità, anima, spirito consente di comprendere meglio i diversi gradi di appartenenza all’io e pertanto di profondità che assumono il pronome personale “mi” e l’aggettivo possessivo “mio”. Un’emozione come la tristezza, ad esempio, è “in me”, ma è “mia” in grado diverso da come lo è una decisione; allo stesso modo, un mal di denti non è solo “nel mio corpo”, ma è “in me”, pur non essendo “mio”. Tuttavia, sia la tristezza sia la decisione sia il mal di denti appartengono all’io, al soggetto che decide, soffre, patisce. Questa distinzione tra “ciò che in me” e “ciò che è mio” la ritroviamo qualche anno dopo nelle Meditazioni cartesiane di Husserl (1931), con la distinzione tra das mir Eigene, ciò che è mio proprio intracorporales y siente a toda hora su cuerpo como interpuesto entre el mundo y su yo, lo lleva siempre delante de sí, a la vez como escudo que defiende y rehén vulnerable. […] Su alma es más corporal – pero viceversa, su cuerpo está más transido de alma». La percepción del prójimo, Obras completas, cit., vol. VI, p. 162. 61 «El conjunto de los actos intímos de que cada cual se siente verdadero autor y protagonista». Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, p. 461. 62 Ivi, p. 465.
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e das mir Fremde63, ciò che mi è estraneo e verrà ripresa da Laín Entralgo nella sua trattazione del rapporto con la malattia64. Analoghe considerazioni le ritroviamo in un testo più o meno contemporaneo, Las dos grandes metáforas65, dove Ortega tratta dell’uso della metafora, che ricorre all’elemento corporeo per alludere all’elemento psichico, il che attesta l’inseparabilità della dimensione psichica da quella fisica. A sostegno di questa tesi, egli si riferisce al processo di formazione dei pronomi personali, che mostra lo sforzo di astrarre le realtà psichiche dalla loro dimensione corporea. «Invece di “io” si dice prima “la mia carne”, “il mio corpo”, “il mio cuore”, “il mio petto” […] il pronome possessivo precede quello personale. L’idea del “mio” è anteriore a quella dell’“io”»66. A conclusione della sua antropologia, Ortega utilizza un’immagine quasi agostiniana, parlando di una sorta di trinità nella persona, costituita da tre “io”, distinti ma inseparabilmente articolati: un io della sfera psicofisica, un io dell’anima, un io spirituale. Si tratta di definire in che rapporti siano i tre “io” e quale tra essi costituisca più autenticamente la persona. Ortega afferma che le radici e il fondamento dello spirito siano da ricercarsi oltre il soggetto, proprio per la sua capacità di attingere agli universali, come la verità, il dovere, il bene. Lo spirito sarebbe, pertanto, “pubblico”, mentre l’anima, invece, è individuale, dimora (morada), sede stabile (aposento), dove l’individuo «vive “da” se stesso e “su” se stesso»67. Anche nel corpo si trova una sorta di principio vitale unico e universale, che si mani63
Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen. Eine Einleitung in die Phänomenologie, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1977, p. 97; trad. ital. Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1970. 64 Per il medico spagnolo, una malattia non accettata è “in me”, ma non è “mia”: lo diventa solo se il soggetto riesce a incorporarla positivamente nella sua biografia, nella trama dei suoi progetti più personali, pur non essendo stata oggetto di scelta. Cfr. P. Laín Entralgo, La relacion médico-enfermo. Historia y teoría, Revista de Occidente, Madrid 1964, p. 287. 65 Cfr. Obras completas, cit., vol. II, pp. 387-400. 66 «En lugar de “yo” se dice primero “mi carne”, “mi cuerpo”, “mi corazón”, “mi pecho” […] el pronombre posesivo precede al personal. La idea de “lo mío” es anterior a la del “yo”». Ivi, p. 395. 67 «Vive “desde” sí mismo y “sobre” sí mismo». Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, p. 467.
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festa nella forza dell’istinto. Se il corpo o invece lo spirito divengono predominanti – come nel caso dell’ebbrezza o, al contrario, del nirvana –, il soggetto si disindividualizza, immergendosi in un universale cosmico, o inferiore, come il Vitale o superiore, come l’Ideale. La vita autentica del soggetto è pertanto la vita dell’anima, il centro da cui emanano gli atti individuali. La comparsa del pudore, secondo Ortega, raffigurata dal gesto di Adamo ed Eva di coprirsi, segna il manifestarsi dell’anima, dell’intimità che si costituisce con uno spazio proprio, separandosi da quel tutto che collegava corpo, spirito e natura in un unico universo. L’eccentricità dell’anima significa proprio questo: separazione, sottrazione al tutto per guadagnarsi uno spazio privato e intimo. La tripartizione della persona ha un riflesso nella caratteriologia: vi sono individui in cui lo spirito ha priorità sull’anima o altri che sono dominati dalla vitalità del corpo. Le diverse età della vita o la differenza sessuale assegnano un peso diverso a corpo, anima e spirito: ad esempio in un bambino predomina il corpo, mentre in una donna è l’anima ad avere la priorità, il che si manifesta nelle ricchezza della sua intimità e della sua vita sentimentale, a scapito delle capacità di ragionamento e della logica68. Anche nelle manifestazioni culturali dei diversi popoli è possibile rintracciare una diversa predominanza delle tre dimensioni dell’uomo. Per Ortega le epoche storiche si possono definire proprio in base alla diversa importanza assegnata a una delle tre dimensioni dell’uomo, per cui si può formulare una sorta di storia e antropologia del corpo, che è allo stesso tempo una storia della cultura e una “fenomenologia delle specie amorose”69. Vi sono periodi in cui predomina il corpo, epoche “corporaliste”, che si concentrano soprattutto sulla dimensione carnale dell’uomo e altre che vedono invece nella carne solo lo specchio dell’anima. La grecità, ad esempio, è priva di individualità e vive dell’universale, sia che si chiami dionisiaco – predominio della vitalità del corpo – sia che si manifesti come apollineo, universale dello spirito. 68
Cfr. ivi, p. 474. Cfr. Nota sobre el “amor cortés” (29 luglio 1926), Obras completas, cit., vol. III, pp. 443-445. 69
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Il Medioevo vive, invece, dell’interiorità dell’anima. La statua gotica ne è il simbolo più chiaro: al contrario della statua greca, che rappresenta il corpo ideale, questa esprime un’intimità sentimentale, che spinge ad andare al di là della forma e della materia, centrali, invece, nella scultura ellenica. «Se l’arte greca è plasticità=pura presenza, l’arte medievale è espressività=allusione a qualcosa di assente. Ma ad esprimersi è soltanto l’anima. Dunque dove c’è espressivismo c’è un predominio dell’anima»70. Il cosiddetto “amor cortese” del XIII secolo è una forma estrema di erotismo spiritualista, in cui è essenziale la distanza, che si alimenta della nostalgia, come appare nei versi di Dante per Beatrice e nelle poesie dei trovatori, che sono soprattutto lode, encomio, mai descrizione71. Questa modalità amorosa oscilla tra un sentimento reale e una finzione simbolica, gioco di corte, pura forma amorosa priva dell’inerzia della carne. Il Rinascimento è contraddistinto dal congelamento dell’anima a favore della vitalità del corpo, su cui si esercita nuovamente il progressivo predominio dello spirito. Il risultato di questo processo è quello che Ortega definisce corpo psichico (psicocuerpo) del Barocco, dove non solo l’anima, ma anche il corpo sono assorbiti da uno spirito che solo apparentemente valorizza le emozioni, ma in realtà le sottomette alla disciplina della ragione. Questa tendenza si prolunga nel XVIII secolo, che vede il corpo molto spesso tema di narrazioni, con una letteratura delle avventure amorose che costituisce la premessa al grande cambiamento dell’epoca romantica, dove si celebra il trionfo dell’anima, nell’esaltazione del sentimento e della fantasia: «è l’epoca che ha vissuto più decisamente nella prospettiva dell’anima, con il massimo annullamento del corpo e – in proporzione – ben poco spirito»72. Si tratta di una 70
«Si el arte griego es plasticidad=pura presencia, el arte medieval es expresividad=alusión a algo ausente. Pero sólo se expresa el alma. Luego donde hay expresivismo hay predominio del alma». Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, p. 476. 71 Cfr. Nota sobre el “amor cortés”, Obras completas, cit., vol. III, p. 444. 72 «Es la época que ha vivido más decididamente desde su alma, con máxima anulación del cuerpo y – relativamente – muy poco espíritu», Vitalidad, alma, espíritu, Obras completas, cit., vol. II, p. 480.
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tendenza che viene rovesciata dall’utilitarismo anglosassone, dove si assiste a una nuova rivalutazione del corpo. Anche tra i popoli si può riconoscere una differenza in base alla predominanza di corpo, anima o spirito. I popoli latini – pur con le debite differenze – sono in generale più “vitali”, ossia più corporalisti di quelli nordici. Non a caso, afferma Ortega, una filosofia così spiritualista come quella idealista, è nata in Germania, come «un uccellaccio che ha fatto il suo nido negli iceberg. L’uomo mediterraneo, che si chiami Francesco d’Assisi (fratello corpo!) o Cesare Borgia, è più vicino al suo corpo»73. Mentre la sensualità dello spagnolo è superiore a quella dell’italiano, che vive maggiormente della propria anima, il francese riesce ad equilibrare i tre elementi, motivo per cui è uno dei popoli che ha avuto una storia meno tragica rispetto ad altri.
1.4 Il corpo come geroglifico: l’espressione, fenomeno cosmico Laín Entralgo mette in luce un altro aspetto dell’analisi orteghiana: l’attenzione dedicata al tema dell’espressività corporea74. Un anno dopo il saggio sulla tripartizione della persona, troviamo infatti due brevi scritti dedicati proprio a questo tema: El silencio, gran Brahamán75 e Sobre la expresión, fenómeno cósmico76. La voce e, di conseguenza, la parola sono corpo. Da qui l’interesse di Ortega per la funzione del parlare e del tacere nella relazione interpersonale. Il tema del silenzio ha nella cultura ispanica una lunga tradizione, sia in ambito filosofico, da Unamuno fino a Zambrano, sia in ambito poetico, da Jiménez a Machado. Esso troverà applicazione anche nell’ambito dell’antropologia medica, con le riflessioni di Laín 73
«Un pajarraco que hizo su nido en los icebergs. El hombre mediterráneo, llámese Francisco de Asís (¡hermano cuerpo!) o César Borgia, está más cerca de su cuerpo». Ivi, p. 454. 74 Cfr. P. Laín Entralgo, El cuerpo humano. Teoría actual, cit., p. 172. 75 Il saggio è del 1925, inserito l’anno dopo in El Espectador VII, Obras completas, cit., vol. II, pp. 625-633. 76 Il saggio è dell’agosto 1925, inserito l’anno dopo in El Espectador VII, Obras completas, cit., vol. II, pp. 577-594.
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Entralgo77 e del medico filosofo Juan Rof Carballo, che vi dedicherà uno dei suoi saggi più suggestivi78. Tacere è per Ortega «tralasciare di dire ciò che si può dire. Questo è il silenzio fecondo. Non semplice assenza di parole, quanto piuttosto silenziamento di esse, trattenerle, tacerle»79. Occorre una vera e propria pedagogia del silenzio, inteso come silenzio attivo: educare a tacere ciò che si sa per rispetto al prossimo. Per il filosofo spagnolo, la necessità di tacere nasce, infatti, da una sorta di trasparenza della nostra intimità agli altri. Ben presto riusciamo a conoscere il prossimo profondamente e anche a conoscere l’immagine che il nostro prossimo si forma di noi. Ci crediamo opachi, convinti che nessuno possa svelare il segreto della nostra intimità, servendoci del corpo come di una maschera per nascondere il nostro io profondo, mentre invece siamo in un certo senso trasparenti gli uni agli altri80. Il silenzio frena e rende inaccessibile lo svelamento di questa trasparenza. Appare qui in nuce quel pessimismo che caratterizza la concezione orteghiana dei rapporti interpersonali e che apparirà più chiaramente nei saggi successivi dedicati al tema del riconoscimento. «Man mano che avanziamo nella vita, ci ritroviamo più lontani gli uni dagli altri, più abissalmente distanti, fino a un doloroso isolamento. Ci va isolando dal prossimo ciò che di lui sappiamo e taciamo. Quanto più sappiamo, più taciamo e più ci isoliamo. Si accumulano tra noi montagne di silenzio»81.
L’espressione dell’intimità è la manifestazione della carne, della 77
Si veda P. Laín Entralgo, La curación por la palabra en la Antigüedad clásica, Revista de Occidente, Madrid 1958, si veda anche La relación médico-enfermo, in Historia v Teoria, cit., pp. 333-334. 78 Cfr. J. Rof Carballo, Entre el silencio y la palabra, Espasa Calpe, Madrid 1990. 79 «Dejar de decir lo que se puede decir. Este es el silencio fecundo. No mera ausencia de vocablos, sino acallamiento de ellos, el retenerlos, silenciarlos». El silencio, gran Brahamán, Obras completas, cit., vol. II, p. 626. 80 Ivi, p. 631. 81 «Conforme avanzamos en la vida nos hallamos más lejos unos de otros, más abismaticamente distantes, hasta un doloroso aislamiento. Nos va aislando del prójimo lo que de él sabemos y callamos. Cuanto más sabemos, más callamos y más nos aislamos. Se acumulan entre nosotros cordilleras de silencio». Ivi, p. 632.
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realtà di un corpo che non è semplice organismo o cosa, ma manifestazione dell’io. La simbolica dei gesti, la simbolica del vestito, la simbolica del nudo sono pertanto aspetti fondamentali del processo di riconoscimento. Il gesto espressivo e la parola, scriverà anni dopo Ortega commentando un saggio di Bühler, sono come “i gemelli nello zodiaco dei problemi umani”82. Così come il gesto non è la semplice contrazione di un muscolo, neppure la parola è un puro fenomeno acustico. Sono entrambi espressione di interiorità. Il primo “mondo” in cui l’uomo si trova, il primo elemento in cui è immerso, è fatto di gesti e di parole e tutti gli altri “mondi” gli giungono attraverso questo filtro. D’altra parte, il termine “espressione”, utilizzato indistintamente sia per il linguaggio che per il gesto, non dà ragione della differenza tra le due azioni. Infatti, la relazione tra la parola e la cosa significata è ben diversa da quella tra il gesto e l’emozione sperimentata. In quest’ultimo caso, si esprime un’intimità, per cui l’emozione, ad esempio la tristezza, sta nell’espressione contratta del volto, mentre un qualsiasi concetto non sta nella parola che lo enuncia83. Questo è il motivo per cui un’idea può essere resa con molte parole diverse, a seconda della lingua, mentre i gesti espressivi possiedono un carattere universale, pur con alcune variazioni da cultura a cultura. Secondo Ortega, mentre l’indagine sul linguaggio sta registrando notevoli sviluppi, quella sull’espressività corporea appare ben più indietro, per cui il saggio di Bühler è presentato come un contributo rilevante sia per l’una che per l’altra84. Perché ci sia davvero “espressione”, occorre da un lato una realtà patente – il corpo fisico –, dall’altro una latente, che appare attraverso la prima e ne è inseparabile. «Quando vediamo il corpo di un uomo, vediamo un corpo o vediamo un uomo? Perché l’uomo non è soltanto un corpo, ma, oltre a un corpo, un’anima, spirito, coscienza, psiche, io, persona, come si pre82 Prólogo a “Teoría de la expresión” de Karl Bühler, Revista de Occidente, Madrid
1950, Obras completas, cit., vol. VII, pp. 35-37. 83 Cfr. ivi, p. 36. 84 Come rilievo critico, Ortega osserva che nel saggio sarebbe stato più opportuno separare la storia delle concezioni sull’espressività – ad esempio la storia della fisiognomica – dalla trattazione propriamente teorica dell’espressione.
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ferisca chiamare tutta questa porzione dell’uomo che non è spaziale, che è idea, sentimento, volizione, memoria, immagine, sensazione, istinto»85.
A differenza dello sguardo su di un minerale, quello sulla carne ci apre a una dimensione ulteriore: «prevediamo qualcosa di più di ciò che vediamo; la carne ci si presenta come esteriorizzazione di qualcosa essenzialmente interiore. […] Questa intimità la chiamiamo vita»86. Carne e anima ci si presentano in un’unità, non l’una dopo l’altra: ma l’una attraverso l’altra; si articolano formando una struttura in cui vita organica e intimità si richiamano l’una all’altra. Da qui il titolo del saggio, che presenta l’espressione come un “fenomeno cosmico”, per ricchezza e profondità. «Il nostro corpo mette a nudo la nostra anima, la annuncia e la va proclamando per il mondo. La nostra carne è un intermediario trasparente dove si rifrange l’intimità che la abita. Non guardiamo mai al corpo dell’uomo come semplice corpo, ma come carne; vale a dire: come una forma spaziale carica, quasi elettricamente, di allusioni a un’intimità […] La carne dell’uomo manifesta qualcosa di latente, ha un significato, esprime un senso. I Greci chiamavano “logos” ciò che ha un senso e i latini tradussero questa parola con “verbo”. Ebbene: nel corpo dell’uomo il verbo si fa carne; a rigore, ogni carne incarna un verbo, un senso. Perché la carne è espressione, è simbolo patente di una realtà latente. La carne è un geroglifico. È l’espressione come fenomeno cosmico»87. 85
«Cuando vemos el cuerpo de un hombre, ¿vemos un cuerpo o vemos un hombre? Porque el hombre no es sólo un cuerpo, sino, tras un cuerpo, un alma, espíritu, conciencia, psique, yo, persona, como se prefiera llamar a toda esa porción del hombre que no es espacial, que es idea, sentimiento, volición, memoria, imaginación, sensación, instinto». Sobre la expresión, fenómeno cósmico, Obras completas, cit., vol. II, p. 577. 86 «Prevemos algo más de lo que vemos; la carne se nos presenta como exteriorización de algo esencialmente interno. […] A esta intimidad la llamamos vida». Ibidem. 87 «Nuestro cuerpo desnuda nuestra alma, la anuncia y la va gritando por el mundo. Nuestra carne es un medio transparente donde da sus refracciones la intimidad que la habita. No vemos nunca el cuerpo del hombre como simple cuerpo, sino como carne; es decir: como una forma espacial cargada, casi eléctricamente, de alusiones a una intimidad […]. La carne del hombre manifiesta algo latente, tiene significación, expresa un
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Trovarsi alla presenza di un altro comporta dunque la necessità di decifrare la complessa simbologia manifestata dalla corporeità. Scriverà Ortega circa quindici anni dopo, trattando il tema della conoscenza dell’altro, in El hombre y la gente: «l’Altro […]. Non ci è presente di lui se non un corpo, ma un corpo che è carne e la carne, oltre ai segni simili che gli altri corpi ci inviano, possiede l’enigmatico dono di indicarci un intus, un dentro o intimità. […] Il corpo di ciò che diventa per noi un altro Uomo, o l’altro, è un ricchissimo “campo di espressività”. Le sue sembianze, il suo profilo, la sua intera mole sono già espressione di qualcuno invisibile a cui appartengono. Lo stesso vale per i suoi movimenti utili, il suo andare e venire, il suo manipolare le cose»88.
Il potere espressivo della carne implica la simbolica del gesto emotivo. Decisa è la critica di Ortega all’antropologia darwinista e spenceriana – più in generale, positivista –, per la quale il carattere extrautilitario dell’espressione delle emozioni ha costituito un punto estremamente problematico. L’espressività risulta una funzione primaria della vita umana e non, come voleva Darwin il residuo di operazioni che negli stadi evolutivi precedenti sono state utili alla specie per sopravvivere. Del resto, lo stesso Darwin aveva riconosciuto come il principio utilitarista non fosse sufficiente a giustificare la vasta gamma di gesti riscontrabili nell’uomo e fu costretto a formulare un altro principio, quello del contrasto, che di fatto non è più di ordine fisiologico, ma psicologico. Secondo il principio del contrasto, infatti, un insieme di gesti si sarebbe sviluppato semplicemente in contrapsentido. Los griegos, a lo que tiene sentido llamaban “logos”, y los latinos tradujeron esta palabra en la suya: “verbo”. Pues bien: en el cuerpo del hombre el verbo se hace carne; en rigor, toda carne encarna un verbo, un sentido. Porque la carne es expresión, es símbolo patente de una realidad latente. La carne es geroglífico. Es la expresión como fenómeno cósmico». Ivi, p. 580. 88 «El Otro […]. Presente no nos es de él más que un cuerpo, pero un cuerpo que es carne, y la carne, sobre las otras señales parejas a las que los demás cuerpos nos hacen, tiene el enigmático don de señalarnos un intus, un dentro o intimidad. […] El cuerpo de lo que va a sernos otro Hombre, o el otro, es un riquísimo “campo de expresividad”. Su faz, su perfil, su talle entero son ya expresión de alguien invisible cúyos son. Lo mismo sus movimientos útiles, su ir y venir, su manipular las cosas». El hombre y la gente, Obras completas, cit., vol. VII, p. 155.
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posizione ad altri, che esprimono un sentimento contrario: così, ad esempio, la meccanica muscolare del pianto si sarebbe manifestata in opposizione a quella del riso. Ma, osserva Ortega, questa spiegazione apre un varco all’interno della prospettiva puramente fisiologica, per alludere – sebbene lontanamente – a una relazione intenzionale e simbolica tra il gesto e l’emozione. «L’organismo simbolizza corporalmente la polarità o opposizione psicologica tra due emozioni»89. È un primo passo verso una teoria simbolica dei gesti emotivi, che sarà sviluppata successivamente. Con queste considerazioni, Ortega anticipa le riflessioni analoghe di Helmut Plessner nel famoso saggio sul riso e sul pianto, apparso per la prima volta in olandese nel 194190. Così, il gesto d’ira di chi, infuriato per un torto ricevuto da un collega, batte il pugno sul tavolo o dà colpi contro il muro, esprime nella sostituzione dell’oggetto dell’emozione un nesso simbolico: mentre l’emozione è diretta a un oggetto concreto e individuale, il gesto si rivolge a un oggetto generico, che è metafora dell’altro. Esiste pertanto una corrispondenza tra la dimensione psichica e quella spaziale, una sorta di analogia o di nesso metaforico, che per Ortega è assimilabile alle leggi che governano il cosmo: «non c’è nulla nel mondo fisico che non abbia il suo logaritmo psicologico e viceversa»91. Non si tratta, pertanto, di una corrispondenza di ordine fisiologico, ma neppure di una sorta di armonia prestabilita, né di un parallelismo psicofisico, come volevano alcune teorie di stampo razionalistico, bensì di una funzionalità simbolica. L’espressione delle emozioni non affiora comunque soltanto nel gesto, che è transitorio e mutevole: si può dire che plasmi in modo stabile l’intero corpo, nelle sue movenze e persino nella sua configurazione anatomica, sicché la forma corporea diviene in certa misura 89
«El organismo simboliza corporalmente la polaridad u oposición psicológica entre dos emociones». Sobre la expresión fenómeno cósmico, Obras completas, cit., vol. II, p. 584. 90 Cfr. H. Plessner, Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens, Van Loghus Slaterus, Arnhem 1941; trad. ital. Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, Bompiani, Milano 2000. 91 «Nada hay en el mundo físico que no tenga su logaritmo psicológico y viceversa». Sobre la expresión fenómeno cósmico, Obras completas, cit., vol. II, p. 585.
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il segno del carattere della persona. Ad esempio, il più delle volte la professionalità affiora nel portamento e nell’attitudine del corpo e l’indole o carattere (el genio) contribuisce a configurare la persona. Ortega definisce il carattere «scultore della figura, che rappresenta il gesto pietrificato, dove si annuncia l’indole profonda e perenne del soggetto che in nessun atto né postura particolare potrebbe trovare una sufficiente esteriorizzazione»92. L’espressività del vestito rafforza quella del corpo. Anche in questo caso, occorre sottolineare il carattere inutile, extrautilitario, del vestito, che non ha avuto origine dal difendersi dalle intemperie, ma, oltre ad esprimere una motivazione ornamentale, è simbolo di stati interiori. Al significato del vestito qualche anno prima Ortega aveva accennato in Meditación del marco, dell’aprile 192193, dove mette a confronto il rapporto tra il quadro e la cornice con quello tra il corpo umano e il vestito, per sottolinearne le differenze e le analogie94. A differenza del vestito che copre il corpo, la cornice ostenta il quadro. Nel caso però che il vestito scopra parti del corpo più di quante ne copra, non è più vestito ma diventa ornamento. La cintura del selvaggio nudo è un ornamento, come la piuma di uccello sul suo capo: si tratta delle prime manifestazioni di senso artistico. La piuma ha finalità seduttiva, di attirare l’attenzione e comunica un potere, una consapevolezza di superiorità rispetto agli altri. «La piuma fu un accento e l’accento non accentua se stesso, ma la lettera sotto di esso. La piuma accentua, dà risalto alla testa e al corpo dell’indigeno»95. Si attira lo sguardo sulla piuma, perché così si possa ammirare il corpo. Differente è la funzione invece della cornice, che ha un ruolo secondario e deve orientare lo sguardo sul quadro. In questa dimensione espressiva del corpo radicano sia l’origine del pudore, che è protezione della propria intimità sia la funzione 92 «Escultor de la figura, la cual representa el gesto petrificado, donde se anuncia la índole profunda y perenne del sujeto que en ningún acto ni ademán particular podría hallar exteriorización suficiente». Sobre la expresión, fenómeno cósmico, cit., p. 591. 93 Meditación del marco, Obras completas, cit., vol. II, pp. 307-313. 94 Cfr. ivi, p. 309. 95 «La pluma fue un acento, y el acento no se acentúa a sí mismo, sino a la letra bajo él. La pluma acentúa, destaca la cabeza y el cuerpo del indio». Ivi, p. 310.
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comunicativa che ha l’abbigliamento. Per questo stesso motivo, la nudità è polisemica. Non parlano lo stesso linguaggio un corpo nudo in una tribù primitiva, il nudo di un atleta nell’antica Grecia o quello di un beato nel paradiso. Così come sono simbolicamente differenti il nudo femminile e quello maschile, quello di un adulto e quello di un bambino, quello di un saggio e quello di un incolto. Osserva Ortega che quanto più ricca è l’intimità di una persona, tanto più significativa sarà la nudità, perché il suo corpo esprime l’anima in grado maggiore. Un bambino è come se fosse tutto corpo, per cui la sua nudità è quasi insignificante, mentre l’adulto sperimenta col passare del tempo che sul corpo si imprime non soltanto la traccia degli anni, ma anche l’orma indelebile della personalità. Un corpo adulto ha perso senz’altro freschezza, ma ha guadagnato in carattere personale, in significatività espressiva. Questa considerazione spinge il filosofo a rilevare come le epoche in cui ha trionfato il nudo siano anche epoche di puerilità, «età di corporalismo e di scarsa vita interiore, né intellettuali né sentimentali»96. La persona con una ricca vita interiore ama infatti coprirsi, come a proteggere meglio il segreto della propria intimità. Negli stessi anni lo psicoanalista e filosofo Juan Rof Carballo mostrava anch’egli uno spiccato interesse per la centralità del gesto nella condotta umana, come manifestazione della relazione tra il corpo e lo spirito. Più tardi avrebbe esposto le sue riflessioni sul significato della nudità, mettendola in rapporto con la sua concezione antifreudiana dell’uomo considerato come un essere bisognoso di tutela e di tenerezza97. Nella normalità, quando l’uomo rimane nudo, è come mutilato. Egli, infatti, sentendosi esposto allo sguardo degli altri, si atteggia sempre in un certo modo e adotta una certa postura, perché è alla costante ricerca, seppure inconsapevolmente, di una conferma della propria dignità. Solo il cadavere può, in senso stretto, dirsi nudo. 96
«Edades de corporalismo y poca vida interior, ni intelectuales ni sentimentales». Sobre la expresión, fenómeno cósmico, Obras completas, cit., vol. II, p. 593. 97 Di formazione psicoanalitica, Rof Carballo elaborò una antropologia per certi aspetti radicalmente opposta a quella freudiana e heideggeriana, considerando lo sviluppo dell’identità personale come il frutto della protezione e della cura genitoriale. Grazie a questa tutela, si costituisce la urdimbre, la trama dell’identità personale, che rende il mondo abitabile e familiare. Cfr. J. Rof Carballo, Urdimbre afectiva y enfermedad. Introducción a una medicina dialógica, Labor, Barcelona 1961.
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Da qui emerge che solo nel contesto della tenerezza, che sia la carezza al neonato o la relazione amorosa, la nudità sia rassicurante e dunque degna dell’umano: negli altri casi rappresenta una violenza alla propria intimità, alla quale l’uomo reagisce in modo preventivo, cioè ricorrendo alla protezione del vestito. Chi invece espone il proprio corpo alla nudità – osserva Rof Carballo – come accade in alcuni spettacoli o nel caso di abbigliamenti succinti, manifesta un’inconsapevole carenza di questa “tenerezza originaria”. Senza la carezza materna, che rende capaci di riconoscere i confini del proprio corpo e di identificarsi con esso, l’uomo non diviene consapevole di sé e quando da adulto si denuda, senza saperlo sta regredendo allo stadio infantile, nella vana ricerca di recuperare un ordine perduto98.
1.5 Dinamiche del riconoscimento: corporeità e percezione del prossimo Nel saggio La percepción del prójimo, del 192999, Ortega analizza l’espressività del corpo nella dinamica del riconoscimento. Come avviene la percezione dell’altro come prossimo, cioè come un altro io? Come nascono la simpatia, l’antipatia, l’amore? Per il filosofo si tratta di interrogativi di ordine antropologico, ancor più e prima che psicologico. Secondo Ortega, “il problema umano per eccellenza”, in quanto è la base della convivenza, è proprio quello che riguarda la specifica modalità di percezione del prossimo, rispetto alla percezione delle cose fisiche e dei fenomeni, spiegare in che modo si giunga all’esistenza degli altri, «altri esseri come noi, dotati di psiche, ossia di una coscienza, di un io, capaci di pensare e di sentire, di emozionarsi e di amare»100. Con queste domande Ortega si pone in dialogo ideale con Husserl, ma ancor di più con Scheler, che già da alcuni anni aveva 98 J. Rof Carballo, Prólogo, in J. Brun, La desnudez humana, Magisterio Español, Madrid 1977, pp. 11-26. 99 Il saggio fu pubblicato in “La Nación” di Buenos Aires, nell’agosto del 1929, ora in Obras completas, cit., vol. VI, pp. 153-163. 100 «Otros seres como nosotros, dotados de psique, esto es, de una conciencia, de un yo, capaces de pensar y de sentir, de emocionarse y de querer». La percepción del prójimo, Obras completas, cit., vol. VI, p. 156.
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dato alle stampe le sue considerazioni sulla dinamica dell’alterità e sulle forme della simpatia101. Ortega respinge in primo luogo la tesi che riconduce la percezione del prossimo a un ragionamento per analogia, per cui, imbattendoci nella presenza dell’altro, riconosciamo una somiglianza tra noi e il corpo e i movimenti altrui. Egli obietta che da un lato, non è dai nostri gesti che riconosciamo quelli degli altri, ma al contrario, è dall’osservazione della gestualità altrui che siamo condotti a riconoscere la nostra, come accade, del resto, di fronte a uno specchio. Inoltre, il ragionamento per analogia ci permetterebbe al massimo di accedere a un alter ego identico a noi e non a un tu differente. Critico è anche nei confronti della Einfhülung di Husserl e Scheler, che considera inadeguata per un duplice motivo: perché presuppone che vi sia prima la percezione del nostro io e che solo successivamente, avvalendoci di questa conoscenza di noi stessi, si giunga ipoteticamente alla conoscenza dell’altro. In secondo luogo, perché il primo termine del riconoscimento è il corpo dell’altro, come se all’esistenza di un io in quel corpo si pervenga secondariamente. Per Ortega questa soluzione è insoddisfacente e rinchiude l’io dentro di sé, mettendolo in contatto solo con dei fantasmi che non sono altro se non una proiezione di se stessi. Come giustificare, tra l’altro, la conoscenza che un uomo di fatto ha di una donna, viste le profonde differenze tra i due102? La prospettiva fenomenologica di Husserl, nell’interpretazione di Ortega, esagera da un lato la prossimità dell’io con se stesso, dall’altro la distanza dell’io dagli altri. Inoltre presuppone che, mentre per la conoscenza del mondo esterno si ha necessità di intermediari, la percezione di sé avvenga invece in modo immediato. Per il filosofo spagnolo, la psicologia ha prestato molta attenzione al ruolo degli organi di senso per la selezione e la conoscenza del mondo esterno, 101
Si tratta del saggio Zur Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle und von Liebe und Hass: Mit einem Anhang über den Grund zur Anahme der Existenz des fremden ich, M. Niemeyer, Halle a.S. 1913, pubblicato dieci anni dopo in una versione modificata: Wesen und Formen der Sympathie: der Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle, Friedrich Cohen, Bonn 1923. 102 Cfr. La percepción del prójimo, Obras completas, cit., vol. VI, p. 158.
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mentre ha trascurato il ruolo della sensibilità intracorporea (intracorporal), ugualmente importante per la percezione di sé e del proprio stato interiore. Le sensazioni muscolari, il dolore e il piacere, le impressioni provocate dal funzionamento degli organi o dalla pressione sanguigna, costituiscono «la tastiera meravigliosa su cui poggia direttamente la percezione che abbiamo di noi stessi»103. Perché un pensiero sia formulato e affiori alla coscienza, perché una pagina possa essere letta correttamente, occorre il contributo dell’apparato fonetico, per pronunciare interiormente le parole. Pertanto la conoscenza dei nostri pensieri richiede un’espressione, per quanto interiore, così come la conoscenza dei pensieri altrui. Corpo, pensiero, linguaggio procedono all’unisono: «Se atteggiamo il nostro apparato boccale per pronunciar la b, ci costa sforzo pensare alla a. Per vedere con chiarezza un’idea, abbiamo bisogno di stringerla, per così dire, tra i muscoli frontali; da qui la contrazione della fronte nell’uomo che riflette e medita»104.
Ortega paragona la funzione che la sensibilità intracorporea gioca nella percezione di sé alla parte di un attore che imita gli stati d’animo di fronte a se stesso, come se fosse davanti a un pubblico. Egli riconosce a Bergson105 il merito di essere stato tra i primi a formulare questa concezione relativa agli stati e al dinamismo della coscienza. Questo stesso concetto, chiaramente anticartesiano, era stato anche espresso in “Yo” y mi yo, contenuto nel saggio Ensayo de estética a manera de prólogo, del 1914106. Affermando che l’io non ci appare direttamente grazie a un’intuizione, egli argomenta che di fatto, per riconoscere un mio stato d’animo o una mia sensazione, ad esempio 103 «El teclado maravilloso sobre el que se apoya directamente la percepción que de nosotros mismos tenemos». Ivi, p. 160. 104 «Si ponemos nuestro aparato bucal en la actitud de pronunciar la b, nos cuesta como un esfuerzo pensar en la a. Para ver con claridad una idea, necesitamos sujetarla, por decirlo así, entre los músculos frontales; de ahí la contracción de la frente en el hombre que atiende y medita». Ibidem. 105 Cfr. H. Bergson, Matière et mémoire (1896), in Oeuvres, PUF, Paris, 1963, pp. 161-378; trad. ital. Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 20114. 106 “Yo” y mi yo, Obras completas, cit., vol. VI, pp. 247-264.
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il dolore, «è necessario che interrompa la mia situazione di dolente e mi trasformi in un io vedente»107. L’io che contempla l’io che soffre è quello reale, mentre quest’ultimo è soltanto un oggetto di conoscenza al pari delle cose esterne. “Io” non lo è in opposizione alle cose o a un tu o a un lui: l’errore del soggettivismo è stato quello di ritenere che l’io sia il più prossimo a me, mentre di noi stessi non abbiamo alcuna notizia diretta. Detto in termini ricoeuriani, il sé è “come un altro”, nel senso che non c’è una trasparenza assoluta dell’io a se stesso, ma la coscienza di sé è sempre successiva alla coscienza dell’altro da sé, delle cose108. La centralità della percezione del corpo altrui ritorna nel saggio El hombre y la gente109. Fin dal 1935, Ortega aveva fatto riferimento all’intenzione di pubblicare un saggio sui principi di una nuova sociologia, centrato sulle “usanze” come elementi costitutivi del sociale, che avrebbe avuto il titolo El hombre y la gente110. A suo avviso, la sociologia non ha analizzato sufficientemente i fenomeni sociali elementari. Se prima non si definisce esattamente cosa sia la società, non si potranno definire né la politica, né lo Stato, né il diritto. L’errore più frequente consiste nel credere che la società sia soltanto un agglomerato di individui, per cui, una volta studiato l’individuo, si conoscerebbe sufficientemente anche la società che ne risulta. Secondo Ortega, solo la filosofia può indagare se realmente le cose stiano così e illuminare adeguatamente i cosiddetti “fatti sociali”. L’interrogativo di fondo è: in cosa consiste “il sociale”? Per il filosofo spagnolo, le azioni e comportamenti sociali, in quanto manifestazioni della vita umana hanno sempre origine a livello individuale, 107
«Es menester que interrumpa mi situación de doliente y me convierta en un yo vidente». Ivi, pp. 252-253. 108 Cfr. P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; trad. ital. Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1996. 109 Pubblicato nel 1957, raccoglie testi scritti nell’arco degli anni 1949-50, Obras completas, cit., vol. VII, pp. 71-269. 110 In una conferenza tenuta a Valladolid nel 1934, intitolata El hombre y la gente, aveva cominciato a esporre il tema, ampliato successivamente in una serie di corsi tenuti a Buenos Aires, a Madrid, in Germania, in Svizzera. Il saggio finale è il risultato di parte di questi testi rivisti e integrati dallo stesso Ortega con il contenuto di un corso tenuto negli anni 1949-1950 a Madrid, presso l’Instituto de Humanidades. Cfr. ivi, p. 72.
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ossia singolare e irripetibile. Di fatto, sono umani solo quegli atti che emanano da un soggetto che pensa e decide, di cui è responsabile: quindi si tratta di azioni intrasferibili, nelle quali si dà una certa solitudine del soggetto111. Il sociale risulta, invece, dalla condotta dell’individuo nei confronti degli altri, dunque non va considerato un fenomeno della vita umana quanto un effetto della convivenza tra gli uomini, che forma “un mondo di relazioni interindividuali”112. Oltre a questa rete di rapporti, secondo Ortega il sociale è costituito anche da una serie di azioni – ad esempio, il saluto – che si realizzano volontariamente, ma in modo automatico in quanto adeguate a una consuetudine sociale, come se originassero da un soggetto indeterminato, dalla collettività o gente. A questi fatti sociali Ortega dà il nome di usanze, «forme di comportamento umano che l’individuo adotta e compie perché, in un modo o nell’altro, in una misura o in un’altra, non ha altra scelta. Gli sono imposte dal contesto di convivenza: dagli “altri”, dalla… società»113. Il sociologo Durkheim – osserva Ortega – con ragione ritenne che le usanze fossero frutto di una pressione sociale e fossero extraindividuali e impersonali, ma ebbe torto nel considerarle razionali in quanto emanazioni di una “coscienza collettiva”114. Secondo Ortega, invece, le usanze non hanno un carattere pienamente razionale e poiché la vita sociale è costituita da usanze, non si può dire umana in senso stretto, ma è a metà tra l’uomo e la natura, una quasi-natura, che partecipa della razionalità dell’uno e della brutalità della seconda. La società è dunque desalmada, senz’anima, è un meccanismo115. È evidente il pessimismo orteghiano, che nasce dall’intenzione di sottolineare con forza la singolarità e l’originalità della vita personale, nonché i
111
Cfr. ivi, p. 75. Cfr. ibidem. 113 «Formas de comportamiento humano que el individuo adopta y cumple porque, de una manera u otra, en una u otra medida, no tiene remedio. Le son impuestas por su contorno de convivencia: por los “demás”, por… la sociedad». Ivi, p. 76. 114 Cfr. É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Alcan, Paris 1912; trad. ital. Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1963. 115 Cfr. El hombre y la gente, Obras completas, cit., vol. VII, p. 77. 112
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rischi del conformismo sociale, ma finisce per considerare inautentica e quasi posticcia la stessa vita in società. In ordine a questa inautenticità, le usanze producono tre effetti: sono modelli di comportamento che rendono prevedibili le azioni di individui sconosciuti, che pertanto restano per noi estranei in una “quasi-convivenza” e non assurgono a livello di “prossimo”. Obbligano a vivere contemporaneamente nella storia e nel futuro, perché combinano l’eredità del passato con la variabilità del presente. Grazie agli automatismi che risolvono alcuni aspetti della convivenza, permettono all’individuo di concentrare la sua creatività ed energia in altre direzioni. Nel capitolo Ensimismamiento y alteración116, dopo un’aspra critica nei confronti di Comte e Bergson, che non sono riusciti a definire cosa sia la società, Ortega tratta di una caratteristica essenziale dell’uomo, che è la capacità di ensimismamiento117. L’animale è sempre rivolto a ciò che accade fuori di lui, all’altro che non è se stesso. È orientato all’alter: da qui la sua caratteristica essenziale che è l’alteración, categoria che non è resa con sufficiente chiarezza dall’italiano alienazione e neppure da alterazione. Si tratta piuttosto di un estraniamento. L’essere umano, invece, può rientrare in se stesso (en sí mismo), volgere le spalle al mondo e rivolgersi alla propria intimità, ossia ensimismarse. Questa capacità radica nel fatto che mentre l’uomo riesce a trasformare le cose grazie alla tecnica, in modo da essere protagonista e abitante del mondo, l’animale è consegnato al mondo. La vita in società comporta, secondo il filosofo spagnolo, il rischio di essere strappati all’ensimismamiento e di perdere se stessi in un anonimato di rapporti. Per questo, alla comparsa dell’altro, al ruolo del suo corpo nel riconoscimento, è dedicata un’attenzione speciale e 116
Cfr. ivi, pp. 79-98. Una trattazione più ampia di questa categoria dell’ensimismamiento, peraltro presente in molti saggi di Ortega, la si trova già in Meditación sobre la técnica pubblicata nel 1935, in “La Nación” di Buenos Aires e successivamente, in Ensimismamiento y alteración, Espasa Calpe, Buenos Aires 1939, che raccoglie la prima lezione di un corso intitolato Seis lecciones sobre el hombre y la gente, impartito a Buenos Aires, presso la “Asociación de Amigos del Arte”. Cfr. Obras completas, cit., vol. V, pp. 293315. 117
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un’analisi dettagliata118: se infatti non avviene un incontro autentico con l’altro, se non c’è un tu dal quale si è interpellati e che consente di passare al noi della relazione amicale, necessariamente ci si perde nella gente, adattandosi a forme di convivenza stereotipate. Nel capitolo dedicato alla comparsa dell’altro e al riconoscimento, trattando del ruolo della corporeità, Ortega mette in luce l’importanza fondamentale del tatto rispetto alla vista. La peculiarità della sensazione tattile sta nel fatto che il corpo toccato è inseparabile dal corpo che tocca. La durezza ci presenta contemporaneamente qualcosa che resiste e il nostro corpo che è ostacolato. «Per questo si potrebbe affermare che nel contatto sentiamo le cose dentro di noi, vale a dire dentro il nostro corpo e non come nella visione e nell’ascolto, fuori di noi, o come nel sapore e nell’olfatto le sentiamo in certe porzioni della nostra superficie corporea, la cavità nasale e il palato»119.
Si può pertanto affermare che percepiamo l’esistenza di altri corpi perché urtano contro il nostro corpo. E poiché siamo reclusi nel nostro corpo, nel senso che esso ci localizza in un qui preciso e non permette l’ubiquità, sebbene si possa cambiare luogo, il posto in cui si sta sarà sempre un qui, una prospettiva da cui guardare il mondo, che risulterà vicino o lontano, a destra o a sinistra. Per questo motivo, il mondo è una prospettiva, che non coinciderà mai con quella dell’altro. La coseguenza è dunque una solitudine radicale: «Non soltanto io sto fuori dell’altro uomo, ma anche il mio mondo sta fuori del suo: siamo, reciprocamente, due “fuori” e per questo siamo radicalmente forestieri»120. 118
I titoli di alcuni dei successivi capitoli del saggio El hombre y la gente sono significativi: La aparición del otro (pp. 124-140); La vida inter-individual. Nosotrostu-yo (pp. 141-153); El peligro que es el otro y la sorpresa que es el yo (pp. 174-196). 119 «Por eso cabría decir que en el contacto sentimos las cosas dentro de nosotros, entiéndase, dentro de nuestro cuerpo, y no como en la visión y audición, fuera de nosotros, o como en el sabor y el olfato las sentimos en ciertas porciones de nuestra superficie corporal, la cavidad nasal y el paladar». Ivi, p. 124. 120 «No solo yo estoy fuera del otro hombre, sino que también mi mundo está fuera del suyo: somos, mutuamente, dos “fueras” y por eso somos radicalmente forasteros». Ivi, p. 126.
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L’essere corpo implica pertanto non solo che tutte le altre cose siano corpi, ma che il mio corpo sia il punto di riferimento di tutto il resto. Ciò comporta una sorta di “servizialità”, di funzionalità delle cose, nel senso che le conosciamo in quanto funzionali a noi, non nella loro sostanzialità, ma ciascuna in quanto mezzo per un fine, che è a sua volta mezzo, in catene funzionali, in “architetture di servizialità”, che costituiscono altrettanti mondi, ambiti pragmatici di importanza, “sfere di fatti e di importanza”121. Tutto questo forma un «diagramma del mondo ai cui quadranti e regioni riferiamo tutte le cose»122: si tratta di una struttura formale del mondo, che solo parzialmente coincide con il mondo fisico, in quanto si tratta del mondo che pensiamo e che immaginiamo. Osservando la nostra modalità di entrare in relazione con gli elementi di questa struttura, il rapporto con gli animali già risulta emergente rispetto al rapporto con gli oggetti: mentre questi né agiscono né patiscono, gli animali patiscono e reagiscono, per cui con essi si instaura una relazione di reciprocità che ci può condurre ad affermare una sorta di coesistenza con l’animale che si accorge, risponde e corrisponde, seppure in modo limitato. Infatti, il suo repertorio di azioni è molto esiguo rispetto a quello umano, per cui, se si volesse davvero instaurare una forma di coesistenza autentica con l’animale, ci si dovrebbe abbassare al suo livello, elementarizzare la propria vita. Se ne conclude che la comunicazione tra uomo e animale non si possa considerare un fatto sociale123. Diversa è la dinamica della comparsa dell’altro. Quando ci affacciamo per incontrare realmente un altro essere umano, riusciamo a desoledadizarnos124, a rompere la nostra solitudine, in una reciprocità che è compresenza e coesistenza. Pur vedendo di primo acchito solo un corpo in movimento, è sorprendente che in esso, nei suoi gesti, si colga un’essenza invisibile, un’intimità, un qualcosa che ciascuno
121
Cfr. ivi, pp. 129-130. «Diagrama del mundo a cuyos cuadrantes y regiones referimos todas las cosas». Ivi, p. 131. 123 Cfr. ivi, p. 135. 124 Cfr. ivi, p. 140. 122
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conosce direttamente solo di se stesso: degli atti interiori che sono pensare, sentire, volere.
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«Ebbene, quando un corpo è segno di un’intimità che in esso è come inclusa e reclusa, vuol dire che il corpo è carne e questa funzione di segnalare l’intimità si chiama “espressione”. La carne, oltre a pesare e a muoversi, esprime, è “espressione”»125.
Il corpo dell’altro si presenta dunque come “un semaforo”, da cui ci sono inviati costantemente segnali, indizi o allusioni di quanto accade in quel dentro che è l’altro. Quando si incontra un corpo umano, si incontra un’intimità simile alla propria. Si può pertanto fare una sorta di classificazione dei gesti e delle posture in modo da riuscire a coglierne la diversa intensità espressiva. Ortega presenta l’esempio dello sguardo, che sarà poi oggetto anche dell’acuta analisi di Sartre126. Gli sguardi costituiscono quasi una sorta di vocabolario. L’occhiata “astenica”, “di sufficienza” di una donna vede, ma non guarda, al contrario dell’occhiata “satura”, che è carica di intimità e di senso127. C’è uno sguardo minimo e uno massimo, uno che dura un istante e un altro insistente, che scivola sulla superficie o che si aggancia come un’ancora, dritto e obliquo, con la coda dell’occhio, furtivo, di traverso, quello con gli occhi socchiusi, penetrante come lo sguardo del pittore quando si allontana dal quadro per controllare l’effetto della pennellata: ognuno di questi rivela ciò che accade nell’intimità della persona, le sue intenzioni e costituisce il contesto irrinunciabile della parola128. Naturalmente, la vita dell’altro è una realtà solo presunta, che trascende la propria vita e non costituisce una realtà evidente come la 125 «Ahora bien, cuando un cuerpo es señal de una intimidad que en él va como inclusa y reclusa, es que el cuerpo es carne, y esa función que consiste en señalar la intimidad se llama “expresión”. La carne, además de pesar y moverse, expresa, es “expresión”». Ivi, p. 138. 126 Cfr. J.P. Sartre, L’être et le néant: Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943; trad. ital. L’essere e il nulla: saggio di ontologia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1964. 127 Cfr. El hombre y la gente, Obras completas, cit., vol. VII, p. 139. 128 Cfr. ivi, pp. 156-158.
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propria. Il corpo dell’altro è una realtà fuori questione, ma che in quel corpo risieda un altro come noi è una realtà tutta da scoprire. Ci si rende conto, tuttavia, che l’altro è un nostro reciprocante, perché ci risponde e ci corrisponde. Nonostante la complessità delle dinamiche di riconoscimento, l’uomo è naturalmente aperto all’altro e possiede una disposizione originaria all’altruismo, che va però attualizzata attraverso azioni positive nei confronti degli altri. Davanti a noi c’è un essere che appare come un io e come un alter, un non-io che ha un mondo simile al mio, ma solo suo, intrasferibile. Colui che inizialmente è solo un nostro simile, con il tratto diviene un prossimo e, a misura che il tratto si fa più intenso, diventa intimo, un Tu unico e inconfondibile. La noità (nostridad) è possibile grazie a una relazione di prossimità e di reciprocità, che permette di riconoscere noi stessi come un Io: la prima persona è pertanto l’ultima a fare la sua comparsa129. Ortega riconosce a Husserl di essere stato il primo a porre in modo preciso e non semplicemente psicologico il problema della comparsa dell’altro. Egli ha colto il paradosso contenuto nella stessa espressione alter ego, quasi contraddittoria, poiché esprime che nell’alter c’è qualcosa che è analogo all’ego in me. Tuttavia, lo ha sviluppato poco adeguatamente, commettendo l’errore di supporre che l’intimità dell’altro ci venga rivelata per trasposizione o proiezione analogica130. In altri termini, poiché il mio corpo è corpo personale, nel corpo di un altro dovrà esserci anche un altro io. Ortega giudica che sia un errore madornale ritenere che la differenza tra il mio corpo e quello di un altro sia solo una differenza di prospettiva, tra ciò che vedo da qui e ciò che vedo da lì. A suo parere, l’insufficienza della prospettiva costringe Husserl a continue rettifiche delle sue affermazioni: l’altro sarebbe un io in quanto a me simile, però un io che non sono io, pertanto diverso da me. La trasposizione analogica consisterebbe nel fatto che se io mi sento corporeo, anche nel corpo dell’altro, che riconosco analogo, ci deve essere un altro io. Il termine comune sarebbe il mio corpo del quale quello dell’altro è analogo. Secondo Husserl, il 129 130
Cfr. ivi, pp.152-153. Cfr. ivi, pp. 161-163.
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mio corpo sarebbe l’elemento a me più prossimo, il mio qui: proprio per questo io posso dislocarmi da qui a lì, dove mi appare un corpo come il mio, che si differenzia dal mio per la distanza, è lì. L’errore sta nel ritenere che vi sia solo una differenza di prospettiva tra il mio corpo e quello dell’altro, mentre invece – afferma Ortega – vi è una differenza radicale. Infatti, la conoscenza del mio corpo non è esteriore, ma mi è data dai vissuti di piacere e di dolore, dall’intracuerpo, mentre la conoscenza del corpo dell’altro è esteriore. Ciò che mi denuncia la presenza dell’altro non è tanto la sua figura, quanto i suoi gesti: anzi, è dai gesti altrui che riconosco meglio anche le mie stesse emozioni, come davanti a uno specchio131. Per Ortega la dimostrazione più evidente dell’inadeguatezza della tesi husserliana risulta evidente quando l’alter è una donna. In questo caso è chiara l’eterogeneità tra l’ego e l’alter, diversità che non si risolve con l’affermazione che sono entrambi esseri umani. La categoria di “essere umano”, priva di determinazione sessuale, è per Ortega un’astrazione. In aperta polemica con Simone de Beauvoir e con il suo mito dell’uguaglianza, il filosofo rivendica alcune caratteristiche specifiche della femminilità, che si riferiscono alla personalità femminile, ma che si estendono a un particolare rapporto della donna con il proprio corpo132. Per il filosofo, la femminilità risiede prima e più nell’anima, per poi ridondare sul corpo. Per questo, mentre l’intimità maschile è chiara, precisa e per questo palese e spigolosa, quella femminile è incerta, crepuscolare, segreta e sinuosa: «è l’intimità della donna che filtra nel suo corpo e lo femminilizza. Non è il corpo a rivelarci l’“anima” femminile, quanto piuttosto è l’“anima” femminile a farci vedere femminile il suo corpo»133.
Rispetto a Husserl, Ortega non afferma una conoscenza per analogia dell’altro, bensì una conoscenza per presenzialità, che si ottiene 131
Cfr. ivi, p. 164. Cfr. ivi, pp. 168-169. 133 «Es la intimidad de la mujer que rezuma sobre su cuerpo y lo feminiza. No es el cuerpo quien nos revela el “alma” femenina, sino el “alma” femenina quien nos hace ver femenino a su cuerpo». Ivi, p. 167. 132
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grazie agli atti esterni, alla fisionomia, alla gestualità e che non rende immediatamente palese la vita altrui, ma la lascia intravvedere, la rende compresente, permette di supporre l’esistenza di un tu in un ambito di reciprocità costituito dal noi134. È proprio l’“urto” (choque) con l’altro, che ci consente di scoprire il nostro io e di cogliere i limiti entro i quali muoverci: «è nel mondo dei tu e grazie a loro che si va modellando la cosa che sono io, il mio io»135. La solitudine radicale del bambino, origine del suo egocentrismo, ad esempio, è interrotta dalla comparsa del primo “altro”, costituito dall’orizzonte del mondo – i mobili, gli spazi più o meno angusti in cui si muove –, a cui deve adattarsi pena lo scontro fisico e che gli consente poco a poco di riconoscere le dimensioni e i confini del proprio corpo. La posizione di Husserl, che vede nell’io il punto di partenza da cui scoprire l’altro per analogia, viene pertanto rovesciata: il tu non è un alter ego, piuttosto l’ego concreto nasce come alter tu, successivamente al tu, grazie alla rottura della sua solitudine radicale resa possibile dalla convivenza reciproca136. È la trasformazione dell’altro in un tu, il passaggio dalla terza alla seconda persona a rendere possibile la scoperta della prima persona, visto che dell’io non abbiamo una conoscenza immediata e diretta. La sorpresa che deriva dalla relazione con l’altro è proprio la scoperta dell’io. Questo reciproco riconoscimento richiede, però, dei passaggi successivi. All’inizio si ha di fronte soltanto una “promessa di umanità”, con la quale si comincia una relazione a livello zero di intimità: dell’altro si intuisce una somiglianza a motivo dell’aspetto corporeo, ma si ignorano sentimenti e biografia. Il passaggio da questa prima forma di contatto con lo sconosciuto a una fase successiva che lo renda prossimo è segnato da un’azione esplorativa di reciproco avvicinamento, che ritroviamo ritualizzata in tutte le culture e che consiste nel saluto137.
134
Cfr. ivi, pp. 186. «Es en el mundo de los tús y merced a estos donde se va modelando la cosa que yo soy, mi yo». Ivi, p. 196. 136 Cfr. ibidem. 137 Cfr. ivi, pp. 181-184. 135
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Al tema del saluto Ortega dedica un’ampia trattazione, tracciando una fenomenologia di questa prima modalità di relazione con l’altro. La premessa è sempre la critica nei confronti della sociologia tradizionale, che ha confuso “il sociale” con l’“inter-individuale”, ossia con la con-vivenza, che per Ortega è costituita dalla scoperta della singolarità dell’altro con il quale si instaura una reciproca intesa, la comunità del noi. Ciò che non hanno compreso i sociologi è il fatto che la relazione sociale non nasce in opposizione alla relazione individuale, ma a quella inter-individuale. Ad esempio, fa parte del sociale il gesto con cui un vigile improvvisamente ci intima di fermarci, mentre stiamo per attraversare una strada. Infatti, non viene compiuto spontaneamente a livello individuale e con una motivazione personale, bensì nasce da un motivo istituzionale, che rende la condotta del vigile quasi automatica, in quanto esprime l’applicazione di un regolamento138. Il sociale è pertanto definito come l’insieme di comportamenti che rispondono a regole generali, a consuetudini. Si tratta delle cosiddette “usanze”, in cui rientra anche la foggia particolare dell’abbigliamento – non il vestito in quanto tale – e tutto ciò che scegliamo di compiere non per nostra decisione, ma perché “così si fa”, così fa “la gente”, tutti e nessuno in particolare. Si tratta senz’altro di atti umani, ma non nostri, nel senso che non ne siamo protagonisti, che si coniugano all’impersonale “si” – si dice, si fa – e che costituiscono un comportamento proprio di un contraddittorio “uomo inumano”139. La consuetudine del saluto, ad esempio della stretta di mano, rappresenta un esempio significativo, ma piuttosto trascurato dall’indagine sociologica. Per Ortega non si tratta di una relazione inter-individuale o interumana, sebbene siano due individui a compierla, in quanto il soggetto creatore e responsabile del saluto è un “fattore x”, in cui entrambi gli individui sono coinvolti. Tuttavia, l’individualità riesce ad affiorare nei “lievi ricami personali” che si possono aggiungere alla “trama rigida” del saluto, come ad esempio l’intensità o la durata della stretta di mano140. 138
Cfr. ivi, p. 204. Cfr. ivi, pp. 205-206. 140 Cfr. ivi, p. 208. 139
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Le caratteristiche del saluto indicate da Ortega avvalorano questa prospettiva. Si tratta di un atto che realizziamo in quanto umani, ma che non è spontaneo, bensì copiato da altri e replicato in base a ciò che fa la gente; ha un’origine extraindividuale; non possiede le due caratteristiche proprie dell’atto umano, cioè la consapevolezza e l’intenzionalità, per cui assomiglia a un movimento meccanico e inumano e poiché spesso non ne comprendiamo il significato, risulta anche irrazionale. Siamo obbligati dall’usanza, che appare attorno a noi in molteplici forme e sistemi, un “oceano di usanze”, come la lingua, le norme della moda, ecc. e che danno luogo al “costume”, alla consuetudine. Secondo Ortega, Weber141 e Bergson142 hanno a torto descritto la consuetudine come un automatismo, un’abitudine originata dalla frequenza di un comportamento che diviene stereotipato. Lo conferma il fatto che ci sono azioni frequenti che non sono costumi (respirare, camminare) e azioni non frequenti che nondimeno lo sono, come le sagre in determinati periodi dell’anno. Weber e Bergson hanno confuso l’effetto con la causa: qualcosa non diventa usanza perché è frequente, ma diviene frequente in quanto è una usanza. Dunque l’usanza si costituisce non tanto per la frequenza quanto per una sorta di coazione esteriore, una minaccia che non deriva da un soggetto determinato, ma dagli “altri”, considerati nel loro insieme143. Il “sociale” ci si presenta pertanto come un potere esercitato sulla nostra volontà, assimilabile quasi a una elementare forza della natura, fisico e brutale sebbene camuffato, che si esercita attraverso l’usanza. Questa appare priva di significato proprio perché in molti casi risulta il retaggio di qualcosa che in passato ha avuto un senso, come la stessa stretta di mano che significava il gesto pacifico di chi non ha in mano armi o oggetti offensivi. Questo aspetto, secondo Ortega aggrava l’insensatezza dell’usanza, che si è fossilizzata in un automatismo, dando luogo a una “mineralizzazione” dei rapporti umani: si tratta di un residuo 141 Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1921; trad. ital. Economia e società, 2 voll., Edizioni di Comunità, Milano 1974³. 142 Cfr. H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris 1932; trad. ital. Le due fonti della morale e della religione, Laterza, Roma-Bari 1998. 143 Cfr. El hombre y la gente, Obras completas, cit., vol. VII, p. 215.
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di vita che non è più vivente, ma assomiglia a uno scheletro o a un fossile144. Anche la prospettiva di Spencer, uno dei pochi che abbia scritto sul saluto, presenta i limiti dell’impostazione positivista dell’uomo. Trattando della genesi del saluto, Spencer lo considera come un inutile residuo – un frammento atrofizzato di un organo – di un’azione cerimoniale più antica, che consisteva nell’omaggio del vinto nei confronti del vincitore e, successivamente, dell’inferiore rispetto al superiore. Per Ortega questa interpretazione è vera solo parzialmente, perché il saluto si dà anche in situazioni di uguaglianza e assume molteplici forme, rivolgendosi anche a oggetti, come la croce o la bandiera145. Per risolvere l’enigma del saluto occorre, allora, coglierne le sfumature, le lievi variazioni che registra nelle diverse tipologie di rapporti umani. Quanto più le persone ci sono prossime e vicine e pertanto prevedibili, meno sono salutate in modo formale, mentre il saluto si impone nella misura in cui il prossimo diventa anonimo, indeterminato, diventa gente, ossia qualcuno svuotato della sua individualità. In altri termini, di fronte a un altro di cui non conosco le intenzioni e di cui non posso prevedere il comportamento, il saluto presuppone un gesto iniziale di accettazione reciproca delle regole di comportamento vigenti. In questo modo, si riesce a disporre di un sistema di punti di riferimento che rendono possibile l’avvio delle relazioni. La visione di Ortega mostra un chiaro pessimismo antropologico: per mitigare il rischio della vicinanza con l’altro, dovuto all’originaria condizione ferina, l’uomo ha inventato questa “tecnica di avvicinamento” che è il saluto, con cui si dichiara la reciproca sottomissione agli usi comuni di un gruppo sociale e che progressivamente alla diminuzione del rischio dell’altro ha perso la sua originaria carica difensiva146. Per questo motivo, il saluto è uno degli elementi più significativi del sociale, in quanto “usanza di usanze”, simbolo di tutte le altre. Ortega si chiede però se questa interpretazione possa reggere 144
«La supervivencia no es ya vivida vivencia, sino sólo su despojo, residuo, cadáver y esqueleto o fósil». Ivi, p. 216. 145 Cfr. ivi, p. 221. 146 Cfr. ivi, p. 223.
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di fronte all’evidenza di un fenomeno storico recente: la sostituzione della stretta di mano con il pugno in aria o con il braccio disteso in avanti, con una chiara allusione non più all’intesa, ma al conflitto. Questo ulteriore elemento gli consente di distinguere tra “usanze deboli e diffuse” e “usanze forti e rigide”, le prime sono quelle comprese nella denominazione di “opinione pubblica”, come gli usi nel mangiare, nel vestire, nel comportarsi; le seconde sono quelle imposte dai regimi politici, che si diffondono rapidamente, ma altrettanto rapidamente declinano e che occorre osservare sotto minaccia di una pena147. Considerato in questa prospettiva, il saluto bellico, in senso stretto, non è un saluto, perché anziché esprimere l’accettazione di un sistema sociale condiviso, significa obbedienza a un gruppo politico o a una legge emanata dallo Stato. D’altra parte, la conclusione di Ortega non è quella di disfarsi del saluto, che invece conserva la sua funzione di “termometro della socialità o dell’amicizia”, indicando il grado di temperatura raggiunto da una determinata relazione148. Solo gli angeli, essendo reciprocamente trasparenti, non hanno bisogno di salutarsi. Ma la situazione angelica applicata all’uomo produrrebbe delusione e sconcerto, giacché la comunicazione diretta della propria intimità all’altro metterebbe allo scoperto la conflittualità che il pessimismo orteghiano ritiene inevitabile nell’uomo. Meglio dunque filtrare tutto attraverso il saluto e prenderci tempo per calcolare con cautela le intenzioni dell’altro. Da alcuni definita aristocraticismo borghese149, la teoria della vita sociale di Ortega, come ha osservato Julián Marías, il suo più diretto discepolo e autorevole interprete, è dominata dalla tesi che la vita umana, essendo intrasferibile, sia solitudine radicale150. E se l’io diviene capace di riconoscere se stesso grazie alla relazione di autentica reciprocità con l’altro, è pur vero che questa si può instaurare solo quando ci si ritira dal sociale, luogo del formalismo e della finzione. 147
Cfr. ivi, p. 228. Cfr. ivi, p. 231. 149 Cfr. A. Savignano, Panorama della filosofia spagnola del Novecento, Marietti, Milano 2005, p. 184. 150 Cfr. J. Marías, La teoría de la vida social en Ortega (1957), in J. Marías, Obras, Revista de Occidente, Madrid 1982, vol. V, pp. 447-458. 148
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Come appare evidente, per Ortega esiste una distinzione fondamentale tra vita sociale e convivenza o coesistenza: la prima è formale e stereotipata, la seconda è personale e reciproca; nella prima vigono le usanze e le regole sociali, nella seconda si stabiliscono relazioni calde e amicali. In questa prospettiva dualistica, egli non sembra ammettere una compenetrazione di una sfera con l’altra. Dalla gente non si può passare al prossimo, dall’impersonale si (“si dice”, “la gente la pensa così”), è impossibile giungere al tu e al noi, se non attraverso un cambiamento radicale di contesto e una trasformazione della qualità delle relazioni. Il sociale è per definizione inautentico: questa concezione aristocratica ed élitaria dei rapporti umani, se da una parte anticipa la deriva omologante che sarebbe stata prodotta dalla società di massa, dall’altra rinchiude l’io nella sfera dei rapporti inter-individuali, autentici ma privati, mentre l’agone pubblico resta il regno dell’anonimato e dello stereotipo. Vicina per certi aspetti alla concezione di Bergson, che aveva distinto la società chiusa da quella aperta, la visione di Ortega se ne distanzia radicalmente per l’assenza della prospettiva religiosa, che nel filosofo francese consentiva di rompere la chiusura e di far procedere lo slancio vitale. Pur con le ovvie differenze, la critica orteghiana al sociale risulta più affine a quella di Rousseau, di cui sembra echeggiare l’inautenticità delle consuetudini imposte dalla necessità di adattarsi alla vita in società151. Il pessimismo di fondo impedisce a entrambi di scorgere la possibilità di trovare l’autenticità nel sociale e non nella fuga dal sociale. Anche il filosofo Paul Ricoeur, decenni dopo, denuncerà la dicotomia tra sociale o istituzionale e inter-individuale, ma con esiti ben diversi152. Egli riconosce l’inevitabile frattura tra rapporti “caldi” – 151 «Ad ogni istante le buone maniere impongono le loro esigenze, la convenienza i suoi obblighi; si seguono sempre le usanze e mai la propria indole. Non si ha più il coraggio di apparire quali si è, e in questo stato di costrizione incessante gli uomini, che formano il gregge chiamato società, faranno tutti, nelle medesime circostanze, le medesime cose, a meno di esserne distolti da motivi più potenti». J.J. Rousseau, Discours sur les sciences et les arts, Barillot & fils, Geneve 1750; trad. ital. Discorso sulle scienze e le arti, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 13. 152 Cfr. P. Ricoeur, Le socius et le prochain, in Histoire et verité, Seuil, Paris 1955, pp. 99-111; trad. ital. Storia e verità, Marco Editore, Cosenza 1994.
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amicali – e rapporti “freddi” – istituzionali –, dovuta al fatto che il nostro mondo è caratterizzato dalla differenziazione e dall’organizzazione dei gruppi sociali. Sembrerebbe pertanto che le uniche relazioni intersoggettive reali e praticabili siano quelle declinate alla terza persona, in cui l’altro non costituisce il “prossimo”, ma il “socio”153. Ma Ricoeur ritiene possibile individuare un punto di passaggio dalla terza alla seconda persona. Il transito così fondamentale tra il lui e il tu, tra il socio e il prossimo, che consente di conciliare la teoria dell’alterità con un’autentica prassi del prossimo è, però, reso possibile solo dall’agápe, l’amore gratuito di matrice cristiana. Senza il dono dell’amore privo di interesse, l’altro resta sempre un estraneo: solo questa prospettiva consente di ricomporre l’opposizione tra comunità e società, tra relazioni personali e relazioni istituzionali, che altrimenti rischia di trasformarsi in una frattura insanabile154. Per il filosofo francese non bisogna perdere di vista la valenza storica dell’agápe, o amore gratuito: esso è capace di intervenire anche a livello delle istituzioni, trasformandole dal di dentro. Di fatto, l’esperienza quotidiana conferma che il più delle volte «la relazione personale nei confronti del prossimo passi attraverso la relazione nei confronti del socio»155, sebbene sia anche possibile che le si opponga o la ignori. Nella quotidianità esistono ben pochi “avvenimenti puri”, ossia situazioni che impongono la più assoluta impersonalità in quanto istituzionali oppure, al contrario, momenti di perfetta intimità caratterizzati da una dimensione del tutto privata. Per questo, più che un’opposizione insanabile, esiste un legame molto stretto tra il livello del sociale, improntato alla giustizia e al rispetto delle regole e quello dell’amore. Esiste senz’altro il “maleficio dell’istituzione”, ossia il rischio dell’oggettivazione, che può rendere anonimi e disumani i rapporti interpersonali negli ambienti di lavoro e in certe strutture. La società rischia allora di diventare un insieme di meccanismi che devono funzionare e la persona si trasforma in qualcosa di astratto, da usare se è necessario. In questo caso, l’analisi sociologica è spesso tentata 153
Cfr. ivi, p. 102 Cfr. ivi, p. 105. 155 Ivi, p. 106. 154
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di accusare la struttura, la tecnica, gli apparati e i sistemi, ma sbaglia bersaglio, in quanto il problema non sono gli strumenti ma l’uso umano degli strumenti156. Il problema della tecnica, pertanto, non è uno squilibrio orizzontale, nella direzione dell’eccesso di mezzi, quanto uno squilibrio verticale, che risiede nell’azione oggettivante e reificante delle relazioni umane. Ciò appare in modo vistoso nel caso di emergenze umanitarie o in generale nei cosiddetti “casi estremi”, che scuotono facendo emergere in modo improvviso e drammatico la necessità del rapporto autentico, il bisogno di ricorrere al tu della seconda persona. In questa prospettiva, secondo Ricoeur, «la categoria del prossimo esercita una critica permanente al legame sociale»157, in quanto mette a nudo quelle situazioni in cui le relazioni sociali diventano automatiche o anonime e, allo stesso tempo, quegli atteggiamenti in cui il dono può diventare perverso, ossia nascondere seconde intenzioni, finalizzate all’interesse o al dominio dell’altro158. Tutto ciò richiede come premessa che si affianchi all’idea di individuo quella di persona e alla relazione inter-individuale quella interpersonale. L’inter-individuale, infatti, consente a due individui di incontrarsi, ma per essere semplicemente l’uno accanto all’altro; solo l’interpersonale consente davvero di essere l’uno per l’altro, che è la chiave dell’autentica reciprocità. Ortega non elabora adeguatamente questa distinzione e tale insufficienza riappare anche nella sua analisi del fenomeno dell’amore.
1.6 Femminilità, innamoramento, amore Secondo l’interpretazione di Armando Savignano, la riflessione sul ruolo della donna e sulla femminilità appartiene alla cosiddetta “tappa antropologica” (1914-1928) del pensiero di Ortega, che ne tratta 156
Cfr. ivi, p. 108. Ivi, p. 109. 158 Cfr. J. Starobinski, A piene mani: dono fastoso e dono perverso, Einaudi, Torino 1995; cfr. anche D. Moyo, La carità che uccide: come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli, Milano 2011. 157
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nell’ambito dell’analisi sul ruolo della corporeità nel riconoscimento dell’altro159. Se è vero che i riferimenti più ampi si possono ritrovare proprio nei saggi di quegli anni, è però anche possibile individuare in quasi tutta la produzione orteghiana un costante riferimento alla figura femminile, con sullo sfondo la convinzione che la storiografia e la storia del pensiero non abbia assegnato alla donna lo spazio e l’attenzione adeguati: una storia di soli uomini. «Finora – afferma il filosofo – quando si parlava della storia e delle generazioni, sembrava che ci si riferisse soltanto agli uomini, come se le donne non esistessero, come se non intervenissero affatto nella storia o avessero atteso millenni e millenni a intervenire fino a che non è stato concesso loro il diritto di voto»160.
Divagación ante el retrato de la marquesa de Santillana, scritto nel 1918161 è il saggio in cui, anche secondo l’interpretazione di Julián Marías, è già presente l’intera teoria della donna e dell’amore che Ortega svilupperà nei decenni successivi162. Dal quadro di Jorge Inglés, che ritrae la marchesa inginocchiata in preghiera, in abito da cerimonia, con le dita inanellate, Ortega ricava lo spunto per una serie di considerazioni sulla femminilità e sul ruolo della donna. La donna, rispetto all’uomo, ha un’attitudine più “signorile” nei confronti dell’esistenza, nel senso sia del distacco che del dominio. Non cerca un pubblico che la approvi e la applauda come l’uomo, ma vive di se stessa e per se stessa. Per questo anche le dimostrazioni di vanità, come il trucco, i gioielli, gli abiti, in realtà sono più vistose che nell’uomo in quanto si riferiscono solo all’esterno della sua persona e non riguardano la sua realtà più intima. La vanità maschile è meno 159 Cfr. A. Savignano, Immagine della donna secondo Ortega y Gasset, in Radici del pensiero spagnolo del Novecento, La Città del Sole, Napoli 1995, pp. 79-91. 160 «Hasta ahora, al hablar de la historia y de las generaciones parecía que hablábamos sólo de los varones, como si las mujeres, que son ciertamente unas pocas, no existiesen; como si no interviniesen en la historia o hubiesen esperado milenios y milenios a intervenir hasta que se les concediera el voto electoral». En torno a Galileo (1934-35), Obras completas, cit., vol. V, pp. 48-49. 161 Obras completas, cit., vol. II, pp. 687-694. 162 Cfr. J. Marías, Ortega. Las trayectorias, cap. VIII, La mujer y el amor, p. 136.
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palese, ma più profonda e si manifesta più nella ricerca del potere che della bellezza. In realtà, la cura di sé che la donna mostra nel presentarsi in pubblico non è altro che un mezzo per istituire una distanza dalla sua personalità più autentica, un modo per nascondere meglio la propria intimità e renderla inaccessibile. «La donna ha una esteriorità teatrale e un’intimità riservata; nell’uomo è l’intimità ad essere teatrale. La donna va a teatro: l’uomo lo porta dentro di sé ed è l’impresario della propria vita»163. Ortega lamenta che le analisi psicologiche non abbiano messo sufficientemente in luce questa differenza. Da un lato c’è la tendenza ad apparire, il desiderio di visibilità tipico dell’uomo, che lo rende propenso a manifestare la sua intimità, come se in questo modo diventasse più reale e consistente e che può indurlo alla millanteria. «Una buona parte degli uomini non ha altra vita interiore se non quella delle sue parole e i suoi sentimenti si riducono a un’esistenza verbale»164. Dall’altro, invece, la tendenza a scomparire che si riscontra nella donna, evidente nel pudore, che ne è la forma simbolica e che non è semplicemente il gesto di difendere il corpo dagli sguardi maschili, quanto piuttosto di proteggere i propri sentimenti riguardanti le intenzioni maschili nei confronti del suo corpo. Il rossore è l’effetto di un’emozione suscitata dal timore che lo sguardo dell’altro possa penetrare nel segreto dei propri pensieri e affetti. «Questo possedere una vita propria, appartata e segreta, questa signorilità di uno spazio interiore in cui non si lascia circolare il prossimo, è una delle superiorità della donna sull’uomo. In questo consiste la “distinzione” nativa della donna, questo tenue, mistico espediente che frappone una distanza tra lei e noi»165. 163 «La mujer tiene un exterior teatral y una intimidad recatada; en el hombre es la intimidad lo teatral. La mujer va al teatro: el hombre lo lleva dentro y es el impresario de su propia vida». Divagación ante el retrato de la marquesa de Santillana, Obras completas, vol. II, p. 689. 164 «Una buena parte de los hombres no tiene más vida interior que la de sus palabras, y sus sentimientos se reducen a una existencia oral». Ibidem. 165 «Esta posesión de una vida propia, aparte y secreta, este señorío de una morada interior donde no se deja circular al prójimo, es una de las superioridades de la mujer sobre el hombre. En ello consiste la “distinción” nativa de la mujer, este tenue, místico
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Da questo deriva la continua sorpresa dell’uomo nel rapportarsi alla donna, da qui la spontanea repulsione da parte dei soggetti più sensibili nei confronti della figura della prostituta, la quale proprio perché si offre senza pudore agli sconosciuti, rappresenta la negazione della femminilità e mostra una personalità quasi mascolina. D’altra parte, questa capacità di distanza è anche una sorta di corazza, che rende meno intima e meno profonda l’amicizia tra donne rispetto a quella tra uomini, più forte e durevole. Questa maggiore forza della donna si concilia per Ortega con la definizione di “sesso debole”, che egli intende in senso radicale: come “condizione vitale inferiore” della donna rispetto all’uomo. L’affermazione risulterebbe sconcertante, se non se ne chiarisse il significato reale. La debolezza femminile radica non in un’inferiorità di dignità, ma nella maggiore vulnerabilità. Come già era stato messo in luce nel saggio Vitalidad, alma, espíritu, la donna mostra una sensibilità intracorporea molto più marcata rispetto all’uomo, il che la rende più concentrata e ripiegata sui vissuti del proprio corpo, che sente come frapposto tra sé e il mondo esterno, più presente e pertanto più vulnerabile. Per questo l’animo femminile è più “corporeo” e la compenetrazione tra corpo e spirito è più profonda che nell’uomo. Tra le conseguenze di questa dimensione, vi è la maggiore propensione della donna nei confronti dell’abbellimento e della cura del proprio corpo, che diventa l’oggetto più prossimo nella sua prospettiva sul mondo. Da qui la sua maggiore attitudine alla cura fisica e alla cosmetica, che ha dato luogo alla creazione di una cultura del corpo, che va dall’ornamento alla toilette alla cortesia, come attenzione alla scelta del gesto opportuno. L’impressione di debolezza che la donna suscita è data proprio dal fatto che il suo corpo si mostra “impregnato” di anima, pertanto più indifeso e fragile, ma anche più attraente, producendo una fascinazione che radica, in ultima analisi, non nella dimensione fisica, ma nella sua maggiore profondità spirituale. Tuttavia, l’esito di questa condizione è paradossale e ricorda seppure con chiare differenze la dialettica hegeliana servo-padrone: la vulnerabilità femminile ha la resorte que pone una distancia entre ella y nosotros». El hombre y la gente, Obras completas, cit., vol. VII, p. 690.
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funzione di rendere più forte l’uomo, perché lo esige come necessario e pertanto lo conferma nel suo valore. La conseguenza è che, avendo bisogno della donna per essere confermato nella sua identità, è l’uomo a dipendere dalla donna e non viceversa166. È nell’analisi della fenomenologia dell’amore che Ortega inquadra la maggior parte delle sue riflessioni sulla femminilità, che si intrecciano con la trattazione del tema della bellezza e della percezione sensibile. L’insieme di saggi Estudios sobre el amor, che più direttamente sviluppano il tema dell’amore, risale agli anni 1926-1927167, ma molte delle considerazioni sono già contenute in nuce in alcuni scritti precedenti: precisamente nel capitolo di Las Atlántidas intitolato El sentido histórico168, nell’Epilogo al libro di Victoria Ocampo, De Francesca a Beatrice169, entrambi del 1924 e in Para una psicología del hombre interesante, del 1925170. L’Epilogo al libro di Victoria Ocampo, De Francesca a Beatrice171 ha il tono di una lunga lettera con cui Ortega rivolgendosi all’autrice con l’appellativo di “Señora”, sembra dirigersi implicitamente a ogni donna, proponendo una difesa appassionata dell’ideale come motore della storia, in opposizione a tutti i materialismi e ai biologismi. Tuttavia, nella prospettiva della sua concezione vitalistica, Ortega intende l’ideale come una “risorsa biologica”, uno stimolo dell’energia vitale, che anche la biologia può esplorare172. Se un ideale non potenzia la vita e la sensibilità, è un “ideale paralitico”173. Sinora l’ideale è stato esplorato solo in rapporto all’assoluto, ma non se ne è analizzato 166
Cfr. ivi, p. 172. Furono pubblicati a puntate in “El Sol” (1926-1927), successivamente riuniti in un volume apparso prima in tedesco nel 1933 e poi in spagnolo nel 1941. 168 El sentido histórico, Obras completas, cit., vol. III, pp. 307-315. 169 De Francesca a Beatrice, Obras completas, cit., vol. III, pp. 317-336. 170 Pubblicato nella “Revista de Occidente”, luglio 1925 e successivamente in Goethe desde dentro (1932), Obras completas, cit., vol. IV, pp. 467-480. 171 Il saggio fu tradotto in tedesco con il seguente titolo: Vom Einfluss der Frau auf die Geschichte (L’influsso della donna nella storia), Deutsche Verlag-Anstalt, Stuttgart 1930. 172 Cfr. De Francesca a Beatrice, Obras completas, cit., vol. III, p. 325. 173 Accenti simili si ritroveranno in altre concezioni vitalistiche. Thomas Mann nel Doctor Faustus, nel dialogo tra il musicista Adrian Leverkuehn e il diavolo, mette in bocca a quest’ultimo un elogio dell’energia della vita contro la ragione e la stessa verità. Cfr. T. Mann, Doctor Faustus (1947), Mondadori, Milano 1980, pp. 331-332. 167
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il ruolo all’interno dell’economia vitale. In questa prospettiva, cosa significa, allora, che la donna è un ideale dell’uomo? La grande scoperta di Dante, attraverso la figura di Beatrice “donna della salute”, è aver considerato la donna “come norma”, ossia come depositaria di una missione storica. Tuttavia, secondo il filosofo, questo compito non si identifica con l’essere sposa o madre, o figlia o sorella. Egli definisce questi ruoli come aspetti residuali (precipitados) della femminilità, seppure indispensabili. L’essenza della donna è essere nient’altro che donna (no ser sino mujer), vale a dire rappresentare il concreto ideale dell’uomo: niente di più e niente di meno. In questo consiste la magia, il fascino femminile. Mentre l’eccellenza maschile risiede in un fare, quella femminile consiste in un essere o in uno stare che sia per l’uomo un richiamo verso l’alto. «Il progresso della donna consiste nel rendere se stessa più perfetta, creando in sé un nuovo tipo di femminilità più delicato e più esigente… È questa la suprema missione della donna sulla terra: esigere, esigere la perfezione all’uomo»174.
La donna possiede dunque un’“indole atmosferica”, che diffonde lentamente attorno a sé la sua influenza, similmente all’azione di un clima175. A questo potenziale fattore di cultura della donna Ortega accennerà anche qualche anno più tardi, nel saggio ¿Masculino o femenino?176, dove Ortega distingue nella storia delle epoche “mascoline”, caratterizzate da guerra e rozzezza di costumi, che si aprono alla vita sociale grazie all’ingresso della donna nella scena della vita pubblica, costituita inizialmente dalla corte. Ma egli lamenta anche una sorta di ritirata della donna da questo compito nei confronti della società, a causa dell’assunzione di modi e stili di vita maschili, che l’hanno portata a livellarsi all’uomo. 174 «El progreso de la mujer consiste en hacerse a sí misma más perfecta, creando en
sí un nuevo tipo de feminidad más delicado y más exigente… Es ésta la suprema misión de la mujer sobre la tierra: exigir, exigir la perfección al hombre». Ivi, p. 329. 175 Ivi, p. 330. 176 Apparso in “El Sol”, 26 giugno e 3 luglio 1927. Poi in Obras, cit., vol. III, pp. 471-480.
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La cultura femminile è un autentico fattore di sviluppo, purché la donna educhi se stessa, completando la propria persona e facendone un “perfetto diapason di umanità”177: in questo modo, la sua azione può essere di gran lunga più efficace di quella di molti pedagogisti e politici. D’altra parte, Ortega prende le distanze dalla visione dantesca, che ritiene dualistica e “gotica”, eccessivamente razionalista, mentre ritiene indispensabile reintegrare nel corpo l’emozione spirituale: «Credo che questa integrazione del sentimento, questo sforzo di fondere l’anima con la carne, sia la missione della nostra epoca»178. Riscoprire il corpo come contrappeso dell’anima, respingendo le astrazioni e i dualismi: «Il corpo significa un imperativo di realizzazione che si presenta allo spirito. Io direi di più: il corpo è la realtà dello spirito. Senza i suoi gesti, signora, non saprei nulla di quel dorato mistero che è la sua anima»179.
L’ammirazione disincarnata non rende ragione della realtà dell’altro, nello specifico della realtà della donna. Da qui l’importanza rivelatrice dei gesti, già messa in luce nei saggi precedenti: «il corpo vivo non è come il minerale: pura materia. Il corpo vivo è carne e la carne è sensibilità ed espressione. Una mano, una guancia, un labbro dicono sempre qualcosa; sono essenzialmente gestualità, capsule di spirito, esteriorizzazione di quella essenziale intimità che chiamiamo psiche. La corporeità, signora, è santa perché ha una missione trascendente: simbolizzare lo spirito»180. 177
De Francesca a Beatrice, Obras completas, cit., vol. III, p. 331. «Yo creo que esta integración del sentimiento, este ensayo de fundir el alma con la carne, es la misión de nuestra edad». Ivi, p. 335. 179 «El cuerpo significa un imperativo de realización que se presenta al espíritu. Yo diría más: el cuerpo es la realidad del espíritu. Sin los gestos de usted, señora, no sabría nada del dorado misterio que es su alma». Ibidem. 180 «El cuerpo vivo no es como el mineral: pura materia. El cuerpo vivo es carne y la carne es sensibilidad y expresión. Una mano, una mejilla, un belfo dicen siempre algo; son esencialmente ademanes, cápsulas de espíritu, exteriorización de esta esencial intimidad que llamamos psique. La corporeidad, señora, es santa porque tiene una misión trascendente: simbolizar el espíritu». Ivi, p. 335. 178
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Nel saggio Para una psicología del hombre interesante, del 1925181, il tema del corpo ritorna nella trattazione della dinamica dell’innamoramento: l’uomo interessante è quello del quale la donna si innamora. Ma per comprendere come questo avvenga, occorre analizzare il fenomeno dell’amore, farne una psicologia, evitando la superficialità con cui spesso si tratta questo tema: «Se un medico parla di digestione, la gente ascolta con modestia e curiosità. Ma se uno psicologo parla di amore, tutti lo ascoltano con disprezzo. Meglio: non lo ascoltano, non riescono a rendersi conto di quanto espone, perché tutti si credono dottori in materia. In poche cose appare così evidente la stupidità abituale della gente. Come se l’amore non fosse, in fin dei conti, un tema teorico con la stessa dignità di altri e pertanto, ermetico per chi non vi si accosta con acuti strumenti intellettuali!»182.
Per Ortega, l’amore consta di due elementi: incantamento, fascinazione (encantamiento) e consegna (entrega), consegna che avviene per incantamento e non per altri motivi, come invece accade per l’amore materno o amicale183. Il termine encantamiento sottolinea il significato magico e quasi fatale del fenomeno amoroso: non è né desiderio né attrattiva sessuale, che consistono nell’attirare l’oggetto desiderato verso di sé, come assorbendolo. Nell’encantamiento accade il contrario: l’amante è catturato dall’altro, come rapito. L’amore ha dunque un chiaro carattere dinamico, estatico, che spinge l’amante verso l’amata. Già nel 1913 Ortega osservava a questo proposito: «non è questo ciò che fa l’amore? Dire di un oggetto che lo amiamo e 181
Cfr. “Revista de Occidente”, luglio 1925, pubblicato nel 1932 in Goethe desde dentro, Obras completas, cit., vol. IV, pp. 467-480. 182 «Si un médico habla sobre la digestión, las gentes escuchan con modestia y curiosidad. Pero si un psicólogo habla del amor, todos le oyen con desdén; mejor dicho, no le oyen, no llegan a enterarse de lo que enuncia, porque todos se creen doctores en la materia. En pocas cosas aparece tan manifiesta la estupidez habitual de las gentes. ¡Como si el amor no fuera, a la postre, un tema teórico del mismo linaje que los demás y, por tanto, hermético para quien no se acerque a él con agudos instrumentos intelectuales!». Ivi, p. 468. 183 Cfr. ivi, pp. 471-472.
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dire che è per noi il centro dell’universo, il luogo dove si riannodano i fili tutti la cui trama è la nostra vita, il nostro mondo»184. L’amore “è l’atto più delicato e totale di un’anima” ed è per questo un fenomeno poco frequente, che richiede talenti da entrambe le parti e precise condizioni: condizioni di percezione delle qualità personali dell’altro; condizioni di emozione, per le quali si è attratti da ciò che si è percepito; condizioni di costituzione personale del proprio essere185. In primo luogo, occorre saper vedere l’altro, il che non equivale al semplice aprire gli occhi. È necessaria una curiosità non orientata alle cose, come quella tecnica, turistica, scientifica, ma occorre essere «curiosi di umanità e della sua forma più concreta: della persona come totalità vivente, come modulo individuale di esistenza»186. È il paradosso dell’“interesse disinteressato” che possono provare solo spiriti capaci di uscire dalla cerchia abituale dei loro interessi: «anime porose dove l’aria circola libera, non limitata da nessun muro di cinta»187. Occorre perspicacia, il primo ingrediente dell’amore, una particolare intuizione che permetta di scoprire rapidamente l’intimità dell’altro, «la figura della sua anima in unione con il significato espresso dal suo corpo»188. Non si tratta di acume intellettuale, ma di capacità di apprezzare il livello morale dell’altro, le sue qualità. L’amore non è antirazionale e illogico, piuttosto è arazionale e alogico, ma logoide, in quanto risponde a un uso più ampio di ragione, che è l’orientamento al significato189. Appare già in questo saggio la critica alla concezione di Stendhal, che sarà sviluppata successivamente: l’amore non è cieco, anzi è un fenomeno dell’attenzione. Possiede ragioni per 184
«¿No es esto lo que hace el amor? Decir de un objeto que lo amamos y decir que es para nosotros el centro del universo, lugar donde se anudan los hilos todos cuya trama es nuestra vida, nuestro mundo». Meditaciones del Quijote, Obras completas, cit., vol. I, p. 351. 185 Cfr. Para una psicología del hombre interesante, Obras completas, vol. IV, pp. 473-476. 186 «Curiosos de humanidad, y de ésta en la forma más concreta: la persona como totalidad viviente, como módulo individual de existencia». Ivi, p. 477. 187 «Almas porosas donde circule el aire libre, no confinado por ningún muro de limitación». Ivi, p. 478. 188 Ibidem. 189 Ivi, p. 479.
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nascere e per crescere, mentre molte delusioni amorose si devono a errori percettivi, illusioni ottiche, miraggi. Ortega concorda dunque con Pascal, quando affermava che occorre restituire all’amore l’attributo della vista. Alla capacità di percezione va affiancata la capacità di emozione, per cui l’amore risulta come:
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«il sentirsi “incantato” da un altro essere che provoca in noi un totale “entusiasmo” e il sentirsi assorbiti da lui fino alla radice della nostra persona, come se ci avesse strappato dal nostro proprio fondo vitale e vivessimo trapiantati in lui, con le nostre radici vitali in lui»190.
Per Ortega l’amore non è una semplice simpatia reciproca, adesione o benevolenza, perché questi sentimenti non possiedono il carattere di cattura o rapimento da parte dell’altro. Si può affermare che lo intenda come una passione, anche se egli rifiuta l’aspetto irrazionale, la fisicità e l’eccesso emotivo che generalmente accompagnano l’interpretazione passionale dell’amore. È nei saggi Estudios sobre el amor che appare la trattazione più analitica del fenomeno amoroso. Nel primo, intitolato Facciones del amor191, Ortega rileva come si parli molto di “amori” e poco di “amore”. Tre sono gli aspetti o fattezze (facciones) dell’amore, che in verità sono comuni anche all’odio: è centrifugo, è un movimento verso l’oggetto, è continuo e fluido. Ma tra amore e odio vi è una radicale differenza: quest’ultimo è un movimento contro, il primo è pro. L’amore differisce anche dal desiderio: desiderare significa tendere al possesso di un oggetto perché entri nella nostra orbita e divenga parte di noi. Amare invece comporta uscire da sé e gravitare verso l’amato. Secondo Ortega, Sant’Agostino lo ha illustrato con grande efficacia quando ha affermato: pondus meum, amor meus192. 190 «El sentirse “encantado” por otro ser que nos produce “ilusión” integra y el sentirse absorbido por él hasta la raíz de nuestra persona, como si nos hubiera arrancado de nuestro propio fondo vital y viviésemos transplantados a él, con nuestras raíces vitales en él». Ivi, p. 471. 191 Luglio 1926, Obras completas, vol. V, pp. 553-559. 192 «Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror». (Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto). Agostino d’Ippona, Confessioni, 13, 9, 10.
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Nel saggio El amor en Stendhal193, è contenuta una critica alla “teoria della cristallizzazione” esposta dallo scrittore francese, per il quale l’amore nasce da un insieme di perfezioni immaginarie che l’innamorato proietta sull’amato, costruendo così un’immagine ideale e illudendosi di essere ricambiato194. Ortega prende le distanze da questo pessimismo, riaffermando invece il ruolo non dell’immaginazione, ma dell’attenzione, che permette di scoprire più che inventare. La donna, il cui animo possiede una sorta di struttura concentrica, ha un unico asse di attenzione e per questo è capace di indirizzarsi più rapidamente verso un unico oggetto, a differenza dell’uomo più incline alla dispersione e dunque meno facile ad essere mosso da un’unica forza gravitazionale. In La elección en amor195 ritroviamo alcune delle considerazioni pessimistiche sui rapporti interpersonali già esposte in El hombre y la gente, sempre a rischio di inautenticità per il carattere di finzione che la vita sociale possiede. Ciascuno tenta di abbellirsi di fronte al suo stesso sguardo, quasi attore di se stesso, in quanto il contesto sociale soppianta la vita autentica. Per scoprire il segreto del prossimo, più che alle parole occorre prestare attenzione al gesto e alla fisionomia. Tuttavia, l’amore rappresenta un’eccezione, perché rende possibile mostrare e riconoscere l’intimità propria o altrui senza finzioni. In questo caso, non si tratta di “spiare” la fisionomia e il gesto dell’altro per carpire il segreto che le parole nascondono, quanto piuttosto di ammirarne l’espressività e la bellezza. Ortega osserva che la bellezza seduttrice raramente coincide con la bellezza che innamora. Le bellezze che si percepiscono a distanza, quelle “bellezze ufficiali” sono come monumenti pubblici: 193 Agosto
1926, Obras completas, cit., vol. V, pp. 561-596. «Alle miniere di sale di Salisburgo, si getta, nelle profondità abbandonate della miniera, un rametto d’albero spoglio a causa dell’inverno; due o tre mesi dopo lo si ritrae coperto di cristallizzazioni brillanti: i rami più piccoli, quelli che non sono più grossi della zampina di una cinciallegra, sono guarniti d’una infinità di diamanti, mobili e abbaglianti; è impossibile riconoscere il rametto primitivo. Quel che chiamo cristallizzazione, è l’operazione dello spirito che trae da tutto ciò che si presenta la scoperta di nuove perfezioni nell’oggetto amato». Stendhal (M.H. Beyle), Dell’amore (1822), Garzanti, Milano 1976, p. 8. 195 Luglio 1927, Obras completas, cit., vol. V, pp. 597-626. 194
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«questa bellezza è così decisamente estetica, che converte la donna in oggetto artistico e di conseguenza la rende distante e lontana. La si ammira – sentimento che comporta lontananza – ma non la si ama. Il desiderio di prossimità, che è l’avanzata dell’amore si rende, pertanto, impossibile»196.
È la grazia espressiva e non la perfezione plastica a risvegliare l’amore. Platone aveva unito amore e bellezza, ma intendendo per bellezza la perfezione della forma. Invece l’amore non ha per oggetto alcune fattezze esteriori, ma è un’intima adesione a una persona che si annuncia simbolicamente nel volto, nella voce, nel gesto. Ortega ribadisce più volte che l’amore è un’elezione, che dipende dal carattere radicale del soggetto, il quale gravita verso l’amato perché ne scopre l’intima indole, che si esprime nelle fattezze e nei gesti. Anche ammettendo che possano esserci abbagli nella percezione dell’altro, egli respinge la separazione tra la dimensione fisica e quella psichica, affermando che la visione fisica della forma vivente è sempre anche e contemporaneamente percezione della sua anima. «È falso, assolutamente falso, vedere solo un corpo quando vediamo davanti a noi una figura umana. Come se in un momento successivo, con un atto mentale nuovo e posteriore, aggiungessimo magicamente e non si sa come a questo oggetto materiale una psiche ricavata da non si sa dove! Carne è essenzialmente e costitutivamente il corpo fisico carico di elettricità psichica; in definitiva, di carattere»197.
L’uomo e la donna realizzano comunque in modi differenti il carattere elettivo del sentimento d’amore. Mentre nell’uomo si può dare 196 «Esa belleza es tan resueltamente estética, que convierte a la mujer en objeto artístico, y con ello la distancia y aleja. Se la admira – sentimiento que implica lejanía – pero no se la ama. El deseo de proximidad, que es la avanzada del amor, se hace, desde luego, imposible». Ivi, p. 606. 197 «Es falso, de toda falsedad, que veamos sólo un cuerpo cuando vemos ante nosotros una figura humana. Como si luego, por un acto mental nuevo y posterior, añadiésemos mágicamente y no se sabe cómo a ese objeto material una psique tomada de no se sabe donde! Carne es esencial y constitutivamente cuerpo físico cargado de electricidad psíquica; de carácter, en suma». Ivi, p. 616.
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amore carnale anche nella totale assenza dello spirito o, al contrario, come accade in soggetti particolarmente elevati per cultura e finezza d’animo, si può generare un sentimento puramente spirituale, nella donna questa dissociazione tra anima e corpo non si verifica, per cui da un lato è incapace di provare una semplice attrazione fisica senza un rapporto affettivo e, dall’altro, non è in grado di concepire un affetto che non si accompagni a gesti e manifestazioni del corpo. Questo è il motivo per cui la donna sperimenta la relazione carnale come inseparabile da una chiara dimensione simbolica, considerandola sempre una prova tangibile di amore e mai come una semplice unione di corpi. D’altra parte, l’elezione in cui si esprime l’amore non consiste per Ortega in un preferire uno/a tra molti – che egli definisce pseudoelezione –, ma in un’elezione irrimediabile, ossia nell’impossibilità di amare altri se non un determinato essere, per cui l’amore risulta inalienabile quasi come un evento fatale198. Per il filosofo l’amore nasce grazie a un colpo di fulmine: è come una frecciata, istantaneo e travolgente199. Questa caratteristica, che emerge soprattutto nei primi scritti del filosofo sul tema, rende l’amore fugace e irrimediabilmente precario. La fedeltà, pertanto, diviene un ideale di fatto irraggiungibile. In un saggio del 1917, intitolato Para la cultura del amor200, è molto evidente questa concezione puramente sentimentale, quasi emotivista dell’amore. Respingendo l’elemento trascendente dall’amore e la sua “illusione di eternità”, Ortega prende le distanze anche da una concezione morale dell’amore. Questo sopravviene all’uomo, lo investe e crea una situazione affettiva totalizzante, che dà agli amanti l’illusione di eternità, in cui si giurano amore per sempre. Ma il giuramento amoroso è inevitabilmente insolvibile: «c’è un minuto dello zenit, al cui passaggio gli amanti si giurano amore eterno. Ma questo istante 198 Cfr. Divagación ante el retrato de la marquesa de Santillana, Obras completas, vol. II, p. 688. 199 Cfr. De Francesca a Beatrice, Obras completas, cit., vol. III, p. 331. 200 Cfr. Obras completas, cit., vol. II, pp. 141-144. Il saggio, incluso successivamente in El Espectador II, rappresenta il seguito di un commento, già iniziato l’anno prima, sull’opera di Benjamin Constant, Adolfo. Cfr. Leyendo el “Adolfo”, libro de amor (1916), Obras completas, vol. II, pp. 25-28.
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vola via e con esso svapora il vigore del giuramento»201. D’altra parte, conclude il filosofo, anche se l’amore eterno è un’illusione, occorre rispettare i diritti dell’illusione202. Questa affermazione è piuttosto deludente, ma è coerente con la concezione dell’amore come passione, che non resiste alla prova del tempo e pur promettendo fedeltà non può realizzarla. Il filosofo Julián Marías, nonostante i generali apprezzamenti nei confronti del pensiero del suo maestro, intravede un limite chiaro nella dottrina orteghiana dell’amore203. Egli osserva che l’elemento dell’elezione e della fugacità accompagneranno sempre la concezione dell’amore per Ortega: questo è il motivo per cui egli non valorizza la donna madre, sorella, figlia, ma solo la donna capace di rivelarsi nel momento fatale dell’attrazione amorosa. Marías condivide solo in certa misura l’espressione “entrega por encantamiento” di Ortega, mentre le preferisce il termine “ilusión”, come stato d’animo che comprende l’aspettativa, l’anticipazione, la prospettiva del futuro204. Oltre a mancare dell’idea di progetto e di durata fedele nel tempo, la concezione orteghiana propone un amore di fusione, molto affine alla concezione greca205, che invece risulta inadeguata se si considera che chi ama desidera mantenere sempre l’alterità dell’amato206. Questo giudizio piuttosto severo si attenua, quando Marías prende in esame il contenuto del saggio Geometría sentimental del 1924207, in cui Ortega descrive il suo spaesamento in una città divenuta inospitale dopo la partenza della donna amata, Soledad. La topografia dello spazio è sentimentale, cioè stabilita in base all’affettività: senza 201 «Hay un minuto del cenit, al pasar por el cual los amantes se juran amor eterno. Pero ese instante transcurre y con él se evapora el vigor del juramento». Para la cultura del amor, Obras completas, cit., vol. II, p. 141. 202 Cfr. ivi, p. 143. 203 Cfr. J. Marías, Ortega. Las trayectorias, cit., pp. 137-138. 204 Cfr. J. Marías, Breve tratado de la ilusión, Alianza Editorial, Madrid 1982, p. 108. 205 L’amore è per Ortega una sorta di “unione trasfusiva”, nella quale ciascuno trasferisce nell’altro le radici del suo essere, per pensare ed agire come se fosse l’altro. Cfr. Amor en Stendhal, in Estudios sobre el amor, Obras completas, cit., vol. V, p. 589. 206 Cfr. J. Marías, Ortega. Las trayectorias, cit., pp. 153-154. 207 Il saggio è incluso in El alma como excentricidad, Obras completas, cit., vol. II, pp. 471-472.
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Soledad la città non ha più centro né periferia ed è vuota o addirittura ostile.
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«Adesso noto fino a che punto il mio amore per Soledad si irradiava su tutta la città e tutta la mia vita in lei. Ora mi rendo conto fino a che punto era il centro autentico di gravitazione al quale tutte le cose tendevano, il centro della sua realtà per me»208.
Già in El hombre y la gente Ortega aveva trattato della “servizialità” o funzionalità delle cose e degli spazi, nel senso che sono conosciuti in quanto funzionali a noi, non nella loro sostanzialità, ambiti pragmatici di importanza, “sfere di fatti e di importanza”209. Tutto questo forma un «diagramma del mondo ai cui quadranti e regioni riferiamo tutte le cose»210: si tratta di una struttura formale del mondo, che solo parzialmente coincide con il mondo fisico, in quanto si tratta del mondo che pensiamo e che immaginiamo211. Secondo Marías, nel saggio Geometría sentimental Ortega “riscatta” in certa misura la sua concezione dell’amore come fusione, perché tratta dell’effetto – la trasfigurazione – che produce la presenza o assenza della donna nella circostanza dell’uomo. La donna è altra, l’alterità si mantiene e la comunicazione di circostanze è condivisione di progetti. Tuttavia, come si vedrà in seguito, l’idea dell’amore che elaborerà Marías sarà ben lontana da quella del suo maestro. H. Raley ha osservato che mentre l’essenziale dell’amore in Ortega è l’attenzione, in Marías sarà la vocazione, come chiamata profonda che coinvol-
208
«Ahora noto hasta qué punto mi amor a Soledad irradiaba sobre toda la ciudad y toda mi vida en ella. Ahora percibo hasta qué punto era el centro auténtico de gravitación al que todas las cosas se inclinaban, el centro de su realidad para mí». Geometría sentimental, Obras completas, cit., vol. II, p. 472. 209 Cfr. El hombre y la gente, Obras completas, cit., vol. VII, pp. 129-130. 210 «Diagrama del mundo a cuyos cuadrantes y regiones referimos todas las cosas». Ivi, p. 131. 211 Anni più tardi Otto Friedrich Bollnow, nel saggio Mensch und Raum, Kohlhammer, Stuttgart 1963, svilupperà ulteriormente questa concezione affettiva dello spazio, applicandola anche alla casa.
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ge l’intera esistenza212. Egli cercherà di integrare e correggere le incertezze presenti nella concezione orteghiana: da un lato, l’ambigua definizione di trascendenza e di Dio213, che impoverisce il discorso sull’amore; dall’altro la poco chiara distinzione tra sessuale (erotico) e sessuato (riferito al maschile e al femminile). Infatti, pur cercando di prendere le distanze da un’interpretazione puramente metafisica dell’amore e da una semplicemente fisiologica, Ortega paga le conseguenze di un’antropologia incerta, che non gli permette di chiarire adeguatamente il rapporto tra gli atti dell’amore e la totalità della persona. Fin dal 1943, nel saggio su Unamuno, Marías aveva rilevato nella concezione orteghiana dell’amore l’assenza di un elemento: quello della necessità, conseguenza del fatto che l’amore è una determinazione ontologica, che modifica la realtà della persona e non semplicemente un fatto di sentimento. Solo così si può comprendere la nozione di “amore compiuto” (logrado) che si dà nel matrimonio, a differenza dell’amore frustrato, che non riesce a diventare parte integrante della biografia del soggetto: «Chi davvero ama si sente unito alla persona amata da un vincolo necessario, indipendente dalla volontà e dai sentimenti, perché risiede in strati molto più profondi; avverte che non può svincolarsi dalla persona che ama; al parlare di questa impossibilità non intendo dire semplicemente che sia penoso o doloroso, quanto piuttosto, in senso rigoroso, non attuabile, perché l’essere stesso dell’amante coinvolge e include in modo forzoso quello dell’amato»214. 212
Cfr. H. Raley, Julián Marías: una filosofía desde dentro, Alianza Editorial, Madrid 1997, pp. 56-57. 213 Così Ortega definisce Dio in un breve scritto del 1916: «nome collettivo che diamo a ciò che è illimitato, infinito in estensione o in qualità, a quanto supera il nostro potere di misurare e di prevedere» («nombre colectivo que damos a lo que es ilimitado, infinito en extensión o en calidad, a cuanto rebosa nuestro poder de medir y prever»), Leyendo el “Adolfo”, libro de amor, vol. II, p. 25. 214 «El que de verdad ama se siente unido a la persona amada por un vínculo necesario, independiente de la voluntad y de los sentimientos, porque reside en estratos mucho más profundos; advierte que no puede desligarse de la persona a quien ama; y al hablar de esta imposibilidad no quiero decir simplemente que sea penoso o doloroso, sino, con todo rigor, no hacedero, porque el ser mismo del amante complica e incluye de
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È questo il fondamento antropologico del vincolo coniugale, perché, più che della forza magnetica di un momento, l’amore si alimenta della radice solida e irremovibile della vita quotidiana, che rende possibile la comunione – non la fusione – delle biografie.
un modo forzoso él del amado». J. Marías, Miguel de Unamuno, Obras, vol. V, Revista de Occidente, Madrid 1982, p. 66; cfr. Id., La mujer en el siglo XX, Alianza Editorial, Madrid 1980, pp. 228-229.
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2. JULIÁN MARÍAS: LA CORPOREITÀ COME STRUTTURA EMPIRICA DELLA VITA UMANA
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2.1 Il tema dell’uomo, questione centrale della filosofia Julián Marías1 è il discepolo e l’interprete più autorevole di Ortega, che ha saputo elaborare un pensiero originale a partire dalle intuizioni del suo maestro senza esserne un pedissequo ripetitore. Terminati nel 1935 gli studi di Filosofia nell’università di Madrid, dove insegnavano, oltre a Ortega e Zubiri, José Gaos, Menéndez Pidal, Américo Castro, nel 1948 egli fondò a Madrid insieme a Ortega l’Instituto de Humanidades2 e dal 1951 realizzò numerosi viaggi in America Latina e negli Stati Uniti, invitato a tenere corsi in diverse università e istituzioni culturali. Marías si colloca con originalità nella linea tracciata da Ortega e Zubiri con i quali condivide la convinzione che l’indagine filosofica sia una ricerca di autenticità, terapia per le incertezze in cui vive l’uomo contemporaneo. Per realizzarla, è necessario ottenere una comprensione della realtà attraverso la storia: comprendere qualcosa significa includerla nella propria vita, che è l’organizzazione reale della realtà e assumere i diversi significati che il passato ha depositato su di essa: sintesi di ragione vitale e di ragione storica. Prolungando le 1 Valladolid, 17 giugno 1914 - Madrid, 15 dicembre 2005. Per un’informazione più ampia si veda l’autobiografia in tre volumi J. Marías, Una vida presente. Memorias 1, 2, 3, Alianza Editorial, Madrid 1988. 2 L’Instituto de Humanidades sorse per iniziativa di Ortega e di Marías per creare una comunità di intellettuali che riflettesse su temi riguardanti l’humanitas e le sue espressioni, come la storia, la filosofia, l’arte. Senza una sede vera e propria, ebbe vita breve, anche per l’ostilità di cui fu oggetto da parte del regime politico.
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riflessioni di Ortega, Marías intende la vita come dramma o compito dell’io con la sua circostanza, che esiste sempre in forma disgiuntiva, come un aut-aut che comporta un decidersi per l’una o per l’altra possibilità. Il suo rapporto con Ortega è pertanto quello con un maestro da ammirare, ma anche da superare. Le parole del prologo all’edizione americana (1954) di Introducción a la filosofía, con cui dichiara che il suo è un libro filiale, illustrano con efficacia come egli intendesse questa filiazione: «La genealogia intellettuale è decisiva, perché la vita intellettuale si fa in comunità; ma in essa, contrariamente a quanto avviene nella vita civile, è il figlio che riconosce il padre. Il figlio non è il padre, né può esserlo, proprio perché proviene da lui e non può ridursi a lui, perché l’umano è irriducibile; proviene dal padre e va verso se stesso; vale a dire, si attiva partendo dal suo proprio livello e per questo la fedeltà a un maestro, quella che potremmo chiamare la filiazione legittima, non può che essere innovazione. Per questo, il rapporto di un pensiero con quello di un maestro potrebbe ridursi a questa formula, che è valida per il rapporto di qualsiasi filosofia con l’intero passato filosofico: inspiegabile senza questo, ma irriducibile ad esso»3.
Più tardi dichiarerà che, pur avendo avuto come punto di partenza il pensiero di Ortega, la forzata separazione dal suo maestro4 lo condusse gradualmente a formarsi un pensiero personale, «una filosofía
3 «La genealogía intelectual es decisiva, porque la vida intelectual se hace en comunidad; pero en ella, al contrario que en la vida civil, es el hijo quien reconoce al padre. El hijo no es el padre, ni puede serlo, precisamente porque viene de él, y no puede reducirse a él, porque lo humano es irreductible; viene del padre y va a sí mismo; es decir, se moviliza desde su nivel propio, y por eso la fidelidad a un maestro, lo que podríamos llamar la filiación legítima, no puede ser mas que innovación. Por eso, la relación de un pensamiento con él de un maestro podría reducirse a esta fórmula, que es válida para la relación de cualquier filosofía con todo el pasado filosófico: inexplicable sin él, irreductible a él». Introducción a la filosofía, Obras, vol. II, Revista de Occidente, Madrid 1982, p. XXI. 4 L’esilio di Ortega in Portogallo durò dal 1936 al 1945.
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ripensata, rivissuta, prolungata nelle direzioni verso le quali la mia personale vocazione mi conduceva»5. Come è stato osservato, tutta la linea di pensiero di Marías è dominata da una sorta di “imperativo empirico”, che nasce dalla costatazione che vi sia un’intera dimensione della realtà umana non esplorata dalla teoria analitica della vita umana, sia in Ortega che in Heidegger. Si tratta di un’idea presente fin dal 1947, quando scrive uno dei suoi primi saggi: La vida humana y su estructura empírica. Ma passeranno anni prima che egli riesca ad elaborare una «filosofia globale della vita fisica così come realmente la viviamo, vale a dire, in un corpo di uomo o di donna»6. Marías lamenta che quasi sempre ci si sia riferiti a una concezione generica e onnicomprensiva di vita, che include indifferentemente dai vegetali all’uomo e che impedisce una comprensione autentica del fenomeno, fornendone un’immagine astratta. In questo modo, la teoria della vita o sulla vita rimpiazza la vita stessa. Occorre pertanto invertire il metodo: anziché partire dall’universale, è necessario partire dall’unica vita che ci è più direttamente accessibile, la propria, non la vita dell’uomo considerato in generale, perché l’uomo non è se non una realtà che si incontra nella vita. L’orizzonte di riferimento è pertanto il vitalismo di Ortega, quella filosofia del concreto, che si rivolge alla storia di ciascuno e che ha come forma espressiva la narrazione. Egli ritiene però necessario andare oltre e colmare la lacuna che scorge nel pensiero del suo maestro: l’assenza di un anello di congiunzione per passare dalla teoria analitica della vita al metodo della narrazione biografica7. Dopo avere condiviso il suo rifiuto di un’ontologia essenzialista, che deduceva le proprietà della vita dalla sostanza uomo, Marías intende evitare il rischio, dal quale Ortega non è del tutto immune, dello storicismo assoluto. Con questo scopo elaborerà una categoria nuova, un tertium quid: è quella che chiamerà “struttura empirica della vita umana”, costituita dai caratteri della nostra esistenza che appaiono all’osservazione immediata, che né sono 5
«Una filosofía repensada, revivida, prolongada hacia las direcciones a que mi propia vocación me llevaba». J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, p. 31. 6 H. Raley, Julián Marías: una filosofía desde dentro, cit., p. 132. 7 Cfr. A. Guy, Historia de la filosofía española, pp. 302-307.
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un a priori né appartengono alla storia individuale. Sono requisiti stabili e universali – quello che gli aristotelici chiamavano proprium – che rappresentano la modalità di inserimento dell’uomo nella storia e le condizioni previe di ogni vita umana quando si realizza nel tempo. Questo progetto, primo nell’intenzione ma ultimo nell’attuazione, lo spinge a inquadrare in primo luogo, dedicandovi uno dei suoi primi saggi8, il tema dell’uomo che, a suo parere, è talmente centrale da essere divenuto il tema della filosofia. Nell’introduzione di El tema del hombre9, il filosofo precisa come nel corso della storia della filosofia la questione dell’uomo non si presenti in modo chiaro e univoco e non perché le risposte non siano soddisfacenti, ma perché è l’interrogativo stesso a presentarsi particolarmente complesso. Lo è a tal punto che l’intera storia del pensiero si potrebbe interpretare come un tentativo non tanto di rispondere alla domanda, ma di chiarire la domanda stessa, di scoprire cioè l’oggetto stesso dell’indagine nella sua problematicità. Se è vero che la questione antropologica cronologicamente segue quella cosmologica, è pur vero che nella filosofia greca l’uomo risulta un oggetto di contemplazione più che riflessione, studiato sempre “alla terza persona”, nella prospettiva dell’esteriorità, della sua costituzione di soma e psyché. Il punto di vista della “prima persona” appare soltanto dopo la svolta cristiana, quando il “factus sum mihi magna quaestio” di Sant’Agostino non indica più l’interrogativo sull’uomo in generale, ma la domanda su di sé, con un movimento di introspezione che conduce alla scoperta dell’interiorità. Nella filosofia dell’interiorità, l’anima, o spirito, assume una connotazione ben diversa da quella della filosofia greca, dando inizio a una parabola che nello sviluppo della modernità condurrà all’elaborazione della res cogitans cartesiana. Un epilogo che, paradossalmente, farà svanire l’uomo, per ridurlo ad un io senza corpo, di volta in volta considerato come io puro, io trascendentale, spirito, coscienza, ragione, soggettività. Il corpo finisce così per divenire appannaggio della biologia, della sociologia 8 9
J. Marías, El tema del hombre (1952), Espasa Calpe, Madrid 19868. Cfr. ivi, pp. 11-24.
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o della psicologia sperimentale. In questo modo, secondo Marías, la filosofia ha percorso un cammino al contrario: dalla considerazione dell’uomo come parte del mondo, tipica del pensiero greco, è passata a scinderlo nelle sue diverse dimensioni, come esito imprevedibile dell’accento sulla sua interiorità. Una volta ridotto l’uomo alla realtà puntiforme dell’io, il problema della filosofia, espresso ad esempio dall’idealismo, è stato quello di giustificare la consistenza del non-io, del mondo al di fuori del soggetto. Occorre, pertanto, una svolta che renda possibile considerare l’uomo non più come cosa del mondo, ma neppure come un io chiuso in se stesso. La domanda “chi è l’uomo?” appare, dunque, con un difetto di origine, perché risulta portare in sé il rischio della scissione e dell’equivocità. Secondo Marías, per rispondere adeguatamente a questo interrogativo, è necessario possedere previamente una nozione provvisoria del suo oggetto, che ci permetta di entrare in contatto con esso e di riconoscerlo10. Si tratta, in altri termini, di non limitarsi ad aspetti parziali, alla descrizione delle sua facoltà o dimensioni, ma di riferirsi sempre all’idea unitaria di essere umano, all’uomo in quanto tale. Indubbiamente, il motivo della ricorrente tentazione dualistica che si ripropone nella storia del pensiero risiede nella struttura duale dell’essere umano. Ma per Marías la natura corporeo-spirituale dell’uomo piuttosto che l’effetto di questa dualità, ne è la causa. Da un lato, l’uomo appare soggetto alla molteplicità e alla vulnerabilità, mentre dall’altro tende all’unità e all’immortalità. L’intelletto e la sensibilità riflettono questa appartenenza dell’uomo a un duplice ordine, questo carattere intermedio, questa sospensione tra due mondi, come aveva messo in luce Pascal. Il carattere problematico dell’uomo risiede in questo conflitto tra uno e molteplice, tra il suo essere e il suo divenire, questione irrisolta in tutta la filosofia greca fino al tentativo di composizione aristotelico. Si tratta di una problematicità che, in un certo senso, viene resa più profonda dalla ulteriore distinzione, elaborata dall’antropologia cristiana, come appare nei testi paolini, tra “spirito” e “carne”, che tuttavia non corrispondono all’anima e al corpo. Non sono, infatti, ele10
Cfr. ivi, p. 16.
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menti antropologici che entrano nella costituzione dell’essere umano, ma modi di essere dell’uomo nel suo riferirsi a Dio. La religazione – secondo l’espressione coniata dal filosofo Zubiri11 – connessa alla teologia dell’immagine, appare allora come una categoria che dà una nuova prospettiva alla condizione intermedia dell’essere umano, che in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio partecipa dell’immanenza del mondo, ma è anche interlocutore di Dio. La filosofia moderna, che non ha conservato il respiro profondamente religioso di questa antropologia, ha comunque dovuto fare i conti con l’ordine duale insito nell’uomo, riproponendolo nella dicotomia tra natura e cultura. Ne deriva una nuova problematicità: saranno le scienze della natura o le scienze dello spirito le più adeguate a rispondere alla domanda sull’uomo? Il punto di vista dell’antropologia deve dunque considerare sia la dualità che l’unità dell’uomo, sia la sua tensione alla trascendenza che il suo stare nel mondo, sia la sua mismidad (medesimezza, per dirla con linguaggio ricoeuriano) che la sua storicità (l’ipseità), sia il suo vivere che il suo con-vivere. La nozione di vita umana è, secondo Marías, che ne fa oggetto di indagine fin dai suoi primi saggi, la chiave per il necessario cambiamento di prospettiva: vivere significa confrontarsi con le cose, “avere a che fare con il mondo” non solo nella sua incompiutezza e molteplicità, ma anche nel suo fondamento ontologico, ossia nel suo rimando alla trascendenza divina. L’argomento centrale di Introducción a la filosofía, uno dei primi saggi di Marías12, è l’“analitica della vita umana”, a suo parere la prima questione della filosofia13. Sin dalle prime battute, il filosofo chiarisce che questo termine non va inteso alla maniera di Heidegger, come un’analitica dell’esistenza, ma come una metafisica della vita. La filosofia ha dedicato scarsa attenzione alla questione della vita, posponendola ad altri ambiti di indagine. Il motivo di questa difficoltà sta nel fatto che la vita, più che essere un 11
Cfr. X. Zubiri, Naturaleza, Historia, Dios, Editora Nacional, Madrid 1944. Risale al 1947, ora in Obras, vol. II, pp. 1-366. 13 Sia la teoria analitica della vita umana che la ragione vitale sono concetti che Marías mutua da Ortega. Cfr. M. Rovira, Ortega desde el humanismo clásico, EUNSA, Pamplona 2002, pp. 192-252. 12
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oggetto di studio, è una condizione: non la troviamo, ma ci troviamo in essa, per cui occorre uno sforzo di riflessione grazie al quale la ragione può diventare ragione vitale, giungendo alla verità radicale, ossia al cuore dei problemi posti dal vivere. Per questo motivo la questione della vita, secondo Marías, non può essere categorizzata né teorizzata. La vita ha un carattere passivo, nel senso che “ci è data” senza il nostro consenso o intervento, è anteriore a noi; allo stesso tempo, risulta un incompiuto: resta “da fare”. È un quehacer che ha quattro dimensioni essenziali: è personale in quanto mia; è una realtà dinamica; è qualcosa di dato dall’esterno senza il concorso dell’io; è circostanziata, vincolata al qui e adesso. È quest’ultima caratteristica quella a cui Marías dedica una maggiore attenzione, secondo gli insegnamenti del maestro Ortega. Vivere è con-vivere: «La vita consiste in una relazione essenziale dell’io con le cose, antecedente a entrambi e costitutiva, perché l’io si costituisce come tale soltanto quando è con le cose e queste sono il mio contesto o circostanza. L’uomo si dà soltanto nel mondo e questa mondanità o, se si preferisce, intramondanità, lo costituisce»14.
Pertanto, l’io non è né un pensiero indipendente dalle cose, alla maniera cartesiana, ma neppure una soggettività chiusa e autoreferenziale, alla maniera idealista: è piuttosto aperto alle cose, capace di autotrascendenza o, con un termine preso a prestito da Brentano e poi da Husserl, di intenzionalità. Il tema della circostanza, elaborato da Ortega fin dal 1914, esprime dunque la reciproca implicazione tra soggetto e mondo: l’io assume una prospettiva specifica sulle cose, dalle quali non può separarsi. L’esistenza dell’io include già il mondo, come coesistente, che pertanto non deve essere aggiunto o giustificato nella sua presenza. Il mondo, però, non è qualcosa che circonda il corpo, ma è il corpo stesso. 14 «La vida consiste en una relación esencial del yo con las cosas, anterior a ambos relatos y constitutiva, porque el yo sólo se constituye como tal estando con las cosas, y estas son mi contorno o circunstancia. El hombre sólo se da en el mundo, y esa mundanidad o, si se quiere, intramundanidad lo constituye». La estructura de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 192.
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L’esistenza umana assume pertanto un carattere dinamico, ma non è l’insieme di attività compiute da una sostanza già configurata, come accade con il corpo vivente, bensì di un soggetto che si va configurando proprio nel suo agire. In quanto caratterizzata dall’attività, l’esistenza ha pertanto un carattere plastico e imprevedibile, ma in quanto riferita a un io che ne è il protagonista, è allo stesso tempo compito, missione, come aveva messo in luce anche Zubiri parlando di carattere missivo della vita umana o Heidegger, con la sua nozione di Sorge, cura degli altri e del mondo. Ma la presa d’atto che la vita è compito, lungi dal risolvere la problematicità della domanda sull’uomo, la apre ad ulteriori interrogativi, come quello della consistenza della temporalità, che caratterizza ma non esaurisce la nozione di vita e quello dell’origine della missione (chi o cosa mi invia?), che è in definitiva l’origine della vita stessa (chi o cosa mi rende capace di vivere?). È di fondamentale importanza pertanto elaborare un’antropologia della nascita, che, nella prospettiva ebraico-cristiana rimanda a un’antropologia della creazione: nascita significa dipendenza, inquadrata nella prospettiva della contingenza della persona e della sua irriducibilità ad altro – o altri – che non sia lei stessa15. Marías muove dal proposito di trattare personalmente e non solo biologicamente la questione della generazione16. La biologia ci dice che la realtà psicofisica del figlio “deriva” dai genitori, ma la prospettiva filosofica ci mostra che il figlio non è ad essi riducibile. «Vale a dire, “ciò che” il figlio è, il suo “che cosa” sì; però non “chi” è. Il figlio che è e dice “io” è assolutamente irriducibile all’io del padre e a quello della madre, ugualmente irriducibili, ovviamente, tra loro»17. 15 Anni dopo, anche H. Arendt tratterà dettagliatamente il tema della nascita, sottolineandone il carattere di novità. Cfr. The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago 1958, trad. ital. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano. 16 Cfr. J. Marías, Antropología metafísica, Revista de Occidente, 1970; Alianza Editorial, Madrid, 1983 e 1995, p. 38. I numeri delle pagine si riferiscono a quest’ultima edizione. 17 «Es decir, “lo que” el hijo es, su “qué” sí; pero no “quién” es. El hijo que es y dice “yo” es absolutamente irreductible al yo del padre y al de la madre, igualmente irreductibles, por supuesto, entre sí». Ivi, p. 38.
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La nascita di una persona diviene così una novità assoluta, la comparsa di un essere radicalmente contingente e allo stesso tempo un “chi” totalmente singolare: «Dire “io” significa formare una opposizione polare con qualsiasi altra realtà possibile o immaginabile e questa polarità, in forma bilateralmente personale, è proprio la dualità io-tu»18. Il termine “creazione” di matrice biblico-cristiana trova allora una conferma filosofica in questa “innovazione di realtà”19, costituita dall’irruzione, fenomenologicamente sperimentabile, di una creatura, un essere totalmente nuovo e intrinsecamente irriducibile. Se non considerassimo la persona come creata, dovremmo ritenerla prodotta, derivata o fabbricata, il che significherebbe ridurla al rango di una cosa, reificarla. L’evidenza che si impone è la comparsa di un qualcuno: «un io assolutamente irriducibile a tutto, polarmente opposto all’insieme della realtà, inclusa quella possibile del suo Creatore, inspiegabile per generazione, estraneo alla condizione delle cose, seppure inestricabilmente unito ad esse»20.
La nascita esclude all’origine la solitudine dell’uomo, sia per la sua provenienza da altri, i genitori, sia per la strutturale indigenza del neonato, che si prolunga per un certo tempo e che caratterizza il vivere come un convivere, una rete di rapporti interpersonali21. Nascita e morte sono realtà latenti, nascoste in quanto risultano ai bordi della vita: sono poste al di là, oltre la vita e dunque in certo modo la trascendono, eppure sono interne ad essa e le conferiscono una struttura:
18 «Decir “yo” es formar una oposición polar con toda otra realidad posible o imaginable, y esta polaridad, en forma bilateralmente personal, es precisamente la dualidad yo-tú». Ivi, p. 38. 19 Cfr. ivi, p. 39. 20 «Un yo absolutamente irreductible a todo, polarmente opuesto al conjunto de la realidad, incluida la posible de su Creador, inexplicable por generación, ajeno a toda condición de cosa, aunque inextricablemente unido a ellas». Persona, Alianza Editorial, Madrid 1996, p. 138. 21 Cfr. ivi, p. 39.
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«come fondo o ultimo termine della sua prospettiva, in funzione del quale si ordinano gli altri immediati e “interni” o immanenti a ella. Per questo, gli estremi (ultimidades) appartengono anche alla vita, non come suoi ingredienti, ma con carattere “orizzontale”: in definitiva posso dar ragione della mia vita soltanto appellandomi alla sua totalità e pertanto in vista di questo orizzonte che contiene gli estremi (ultimidades)»22.
La nascita non è né un atto del soggetto né un semplice evento della vita, come risulta essere, invece, la nascita di altri. La nascita resta fuori dalla propria vita, in quanto si caratterizza come un passato assoluto. Mentre, infatti, osserva Marías, tutti gli eventi passati della propria vita possono essere rievocati come qualcosa che è stato presente in un dato momento pur non essendolo più, la nascita invece risulta assolutamente inscritta in un passato. «Per questo vivere è sempre “essere nati”, nel senso di aver cominciato a vivere; da qui il fatto che vivere sia trovarsi già nella vita, di modo che questa risulti “data”, sebbene nella forma concreta dell’ancora da fare e pertanto del da farsi»23.
C’è, dunque, nel trovarsi a vivere (encontrarse viviendo) la percezione del limite, che deriva dalla consapevolezza di aver avuto un inizio e che conferisce alla vita un carattere di finitezza e di contingenza. La nascita priva la vita di assolutezza e di autosufficienza e la mette radicalmente in discussione, obbligandoci a interrogarci sulla sua origine latente e così a trascenderla24. 22 «Como fondo o último término de su perspectiva, en función del cual se ordenan los más inmediatos e “internos” o inmanentes a ella. Por esto, las ultimidades pertenecen también a la vida, no como ingredientes de ella, sino con carácter “horizontal”, y en definitiva sólo puedo dar razón de mi vida apelando a su totalidad, y por tanto en vista de ese horizonte de ultimidades». El horizonte de las ultimidades, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 338. 23 «Por esto vivir es siempre “haber nacido”, en el sentido de haber empezado a vivir; de ahí el hecho de que vivir sea encontrarse ya en la vida, de suerte que ésta le es “dada” a uno, aunque en la forma concreta de lo “por hacer”, y por tanto del quehacer». Ivi, p. 339. 24 Cfr. ivi, p. 340.
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La morte costituisce l’altro limite estremo. Le riflessioni di Marías risultano molto in sintonia con quelle elaborate più o meno negli stessi anni da Vladimir Jankélévitch, nel saggio La mort25. Delle tre morti, quella di ogni uomo in generale, quella mia personale – che resta latente in quanto futuribile – e quella del prossimo individuale, solo quest’ultima mi si presenta come un evento concreto e originario, fonte di interrogativi. Essa, infatti, ci riguarda, in quanto perdita, assenza dell’altro che ci era vicino. Per comprenderne il significato, secondo Marías, occorre porsi dal punto di vista di colui che muore, considerandola un’anticipazione immaginativa della propria morte. La morte del prossimo ci obbliga a confrontarci con questo mistero, che possiede una duplice latenza: l’inaccessibile solitudine di colui che muore e la nostra solitudine rispetto a lui, come anticipo del futuro della nostra stessa condizione mortale. Nascita e morte, dunque, restano eventi del mondo se considerati in generale, ma riferiti a sé o al prossimo, si trasformano in interrogativi che mostrano la mancanza di assolutezza della vita e mettono in discussione il nostro stesso progetto vitale. Per questo motivo, l’uomo ha bisogno di includere nella realtà della sua vita una credenza che dia ragione del significato della morte, il che comporta, implicitamente, confrontarsi con la questione della propria sopravvivenza e dunque della trascendenza o, al contrario, della caduta nel nulla.
2.2 La ricerca di un’antropologia “in prima persona” Il punto di partenza per elaborare una nuova antropologia è dunque la nozione di vita umana. Ma è importante mettere in luce in quali aspetti Marías si distanzi dalle varie concezioni vitalistiche della prima metà del Novecento e come prolunghi o corregga le riflessioni di Ortega. Fedele all’imperativo empirico della sua indagine, egli intende mettere in luce il limite di fondo dell’antropologia filosofica. È proprio l’interrogativo tradizionale, “chi è l’uomo?”, ad aver arenato i 25
Cfr. V. Jankélévitch, La mort, Flammarion, Paris 1966; trad. ital. La morte, Einaudi, Torino 2009.
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tentativi di risposta in insanabili dicotomie. Si tratta infatti di una domanda posta alla terza persona, che rischia di confondere un soggetto con un oggetto, peraltro indicandolo al neutro, senza femminile o maschile. La storia del pensiero ha cercato di rispondervi fondamentalmente in due modi: o definendo l’uomo come animale, con il rischio del biologismo, oppure definendolo come soggettività, come “un io”, secondo le concezioni del razionalismo e dell’idealismo. Marías propone una strada diversa: la realtà “uomo” non è immediata e originaria, ma è la forma concreta in cui si presenta la realtà radicale della mia vita. È più esatto allora definire l’uomo come “l’animale che ha vita umana”26, la cui peculiarità non va cercata né nell’animalità né nella soggettività, bensì nel carattere specifico della sua vita, che è vita biografica. Occorre ricondurre l’antropologia filosofica alla prospettiva “della prima persona”, assumendo come punto di partenza non l’interrogativo “chi è l’uomo?”, ma due interrogativi fondamentali, che si implicano reciprocamente: “chi sono io?” e “cosa ne sarà di me?”27. La questione della vita personale si pone proprio nell’articolazione tra la domanda sul “chi” e quella sul “che cosa”: «quanto più so chi sono, quanto più possiedo la mia realtà programmatica e proiettiva, futuribile, irreale e dinamica, quanto più autenticamente sono “io” nel modo della vita personale, meno so cosa ne sarà di me, più incerta è la mia realtà futura, più aperta alla possibilità, all’invenzione, al caso e all’innovazione»28.
È di fondamentale importanza partire dalla funzione denominativa “io”, senza sostituirla con la sua forma sostantivata, di stampo idealistico, “l’io”, che ne altera il significato originario29. La forma pronominale “io” indica l’insostituibilità e l’irriducibilità dell’individuo e 26
Antropología metafísica, cit., p. 70. Cfr. ivi, pp. 44-45. 28 «Cuanto más sé quién soy, cuanto más poseo mi realidad programática y proyectiva, futuriza, irreal y viniente, cuanto más autenticamente soy “yo” en el modo de la vida personal, menos sé qué va a ser de mí, más incierta es mi realidad futura, más abierta a la posibilidad, la invención, el azar y la innovación». Ivi, p. 45. 29 Cfr. ivi, p. 38. 27
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segnala la sua concreta realtà circostanziale, mentre l’indeterminativo “un io” elimina questa singolarità.
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«Questa funzione pronominale dell’“io” o del “tu” circostanziali equivale a un nome proprio – a un nome personale –, purché si tenga conto che questa ha non soltanto un significato, ma una funzione denominativa e un’altra vocativa»30.
Con il termine “io” indichiamo un qualcuno che possiede una vita umana e la declina a livello personale. Il compito dell’antropologia filosofica diventa pertanto quello di esplorare le caratteristiche della singolarità di questa vita. È da questo proposito che Marías intende partire per analizzare la categoria di vita umana. Anche Ortega si era fatto interprete di questa esigenza di centralità della vita, ma senza passare dal piano della storia a quello della metafisica. Occorre sgombrare il campo dai concetti che nel corso della storia del pensiero vi si sono sovrapposti, alterandone l’autentico significato: l’uomo, inteso in senso generico e cosificante, il soggetto, l’io, la coscienza, l’esistenza. Quasi tutti hanno inteso la nozione di “vita” in senso generico e onnicomprensivo, finendo per renderla indeterminata e astratta. Occorre, invece, applicare un metodo fenomenologico, muovendo da quella manifestazione della vita che è immediatamente evidente, ossia dalla mia vita, quella di ciascuno, a partire dalla quale si possono comprendere anche tutte le altre manifestazioni. «Il significato primario dell’espressione “vita” appare quando ciascuno di noi parla della sua, ossia quando si tratta della mia vita»31. Realtà radicale, secondo l’espressione di Ortega, ossia originaria, la mia vita comprende ogni altra realtà, che vi si radica – è radicata –, ma non è la somma di esse, perché le trascende ed è pertanto oggetto della metafisica. «La mia vita è l’organizzazione reale della realtà, a differenza di qualsiasi altra organizzazione interpretativa o 30 «Esa función pronominal del “yo” o el “tú” circunstanciales equivale a un nombre propio – a un nombre personal –, siempre que tengamos en cuenta que éste tiene, no sólo una significación, sino una función denominativa y otra vocativa». Ivi, p. 42. 31 «El sentido primario de la expresión ‘vida’ aparece cuando cada uno de nosotros habla de la suya, es decir, cuando se trata de mi vida». Ivi, p. 55.
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teorica»32. Che sia la realtà radicale, originaria, non vuol dire che la categoria della mia vita sia immediatamente evidente: le prime realtà che ci si mostrano sono quelle radicate, che però rischiano di fare da barriera, impedendo di giungere al livello di realtà più profondo e irriducibile, fondamento di tutto il resto. Da questa realtà della mia vita, individuale, singolare, irriducibile, occorre partire per giungere alla categoria generale di “vita umana”. La categoria che consente di passare dal livello di realtà della mia vita a quello di vita umana è la convivenza, che caratterizza la mia vita, per la quale ci si scopre come un io di fronte a un tu. Questo riferimento ad altre vite mostra il carattere disgiuntivo della mia vita, che non può essere quella di un altro: la dimensione disgiuntiva sottolinea il carattere circostanziale di ogni vita, che per questo è insostituibile, singolare, irriducibile a un’altra33. Grazie a questa considerazione, dalla categoria della mia vita si è condotti a una nuova nozione: quella di vita umana. Questa volta si tratta di una nozione teorica, ma necessaria per la comprensione della mia stessa vita. Marías la denomina “teoria intrinseca”, perché dà ragione della mia vita, la rende comprensibile nei suoi nessi essenziali, in quanto ne mostra i requisiti necessari e universali34. E se, come affermava Ortega, l’unica vita reale è quella individuale, mia personale, che per essere compresa va raccontata e non descritta o spiegata, tuttavia questa narrazione risulta incomprensibile o addirittura impossibile, se non alla luce di una categoria più ampia, che è quella di vita umana35. Proprio in questo punto radica la fondamentale differenza tra la posizione di Ortega e quella di Marías. Quest’ultimo ritiene insufficiente la prospettiva della vita individuale se non la si colloca in una concezione teorica che le dia fondamento, in altri termini se non si risale dall’antropologia alla metafisica o, secondo la sua innovativa espressione, se non si elabori un’antropologia metafisica. 32 «Mi vida es la organización real de la realidad, a diferencia de cualquier otra organización interpretativa o teórica». Ivi, p. 55. 33 El método, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 123. 34 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 60. 35 Cfr. ivi, p. 61.
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Così egli illustra il carattere innovativo della concezione di antropologia metafisica, sottolineando, nel prologo di uno dei suoi saggi più maturi che reca proprio questo titolo, come essa sia il punto di arrivo necessario per rispondere in modo “personale ed empirico” alla domanda sull’uomo: «una dottrina dell’uomo (come insieme delle strutture empiriche con cui si presenta nel nostro caso la vita personale) visto come realtà radicata nella realtà radicale che è la mia vita, vale a dire in una prospettiva metafisica. Solo così era possibile un’interpretazione rigorosamente personale e allo stesso tempo empirica dell’uomo, proprio ciò che è sfuggito sia a quella disciplina biologica che, abusivamente, oggi viene chiamata “antropologia”, sia all’antropologia definita, con certa vaghezza, “filosofica”. Credo che per la prima volta si presentava la realtà umana come qualcosa di strettamente biografico e, di conseguenza, drammatico, senza alcun residuo dell’interpretazione dell’uomo come “cosa” (sia materiale che spirituale)»36.
Per il filosofo non basta affermare la possibilità della metafisica, ma occorre provarne la necessità, mostrare che senza la metafisica non è possibile rispondere agli interrogativi fondamentali posti dalla vita umana. L’argomentazione poggia sull’affermazione che l’uomo ha bisogno di avere una certezza radicale circa se stesso e la propria vita. La metafisica risponde a questa necessità di rendere trasparente la vita, cioè di svelarne il senso profondo. Poiché non basta né la percezione né la descrizione, bensì la comprensione della realtà nella sua connessione, in modo da darne ragione. Queste idee hanno una lunga gestazione e compaiono fin dai primi saggi del filosofo, come 36 «Una doctrina del hombre (como conjunto de sus estructuras empíricas con que se presenta en nuestro caso la vida personal) visto como realidad radicada en la realidad radical que es mi vida, es decir en una perspectiva metafísica. Solamente así era posible una interpretación rigurosamente personal y a la vez empírica del hombre, que es precisamente lo que se ha escapado tanto a lo que – abusivamente – se llama hoy “antropología” como una disciplina biológica, como a la antropología que se denomina, con cierta vaguedad, “filosófica”. Creo que por primera vez se presentaba la realidad humana como algo estrictamente biográfico y, por consiguiente, dramático, sin residuo de la interpretación del hombre como “cosa” (sea material o espiritual)». Ivi, p. 14.
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Introducción a la Filosofía (1947) e Idea de la Metafísica (19531954). Nel primo saggio Marías definisce il fare metafisica come un compito al quale l’uomo è obbligato: «una certezza radicale, totale e ultima che l’uomo deve fare, perché non si trova in essa e ne ha bisogno per vivere»37. In questa prospettiva, il termine certezza non indica semplicemente qualsiasi conoscenza esatta, ma quella verità di cui si ha bisogno per vivere, che indica le connessioni di senso della vita. La metafisica fornisce le ragioni non della vita in generale, ma della mia vita e mi consente di sapere a cosa riferirmi (a qué atenerme). Da qui le caratteristiche di questa nuova nozione di metafisica38: 1) non è una certezza in cui si “sta”, ma a cui si “giunge”: non è originaria, ma derivata; 2) deve dar ragione di se stessa e giustificarsi: per questo deve muoversi tra evidenze rigorose; 3) non può poggiare su altre certezze, giacché deve esserne la premessa e il fondamento; 4) è un metodo, in quanto strada verso la realtà essenziale, al di là delle interpretazioni. In altri saggi il filosofo definisce la metafisica anche come la “scienza della realtà radicale”39. Mentre tutte le realtà sono radicate, la realtà radicale è la realtà “in quanto realtà”, originaria, ciò che resta dopo aver eliminato tutte le teorie e le interpretazioni. La realtà radicale è la nuda vita, ben differente – Marías ci tiene a sottolinearlo – dal Dasein di Heidegger. Il filosofo tedesco, infatti, intende fondare l’ontologia sull’analitica esistenziale dell’esistente, per cui procede dall’esserci all’essere. Il filosofo spagnolo invece intende compiere un percorso diverso, che va dalla vita individuale alla teoria generale della vita umana. Ma la vita individuale non è l’esserci (Dasein) di Heidegger, che è indagato dall’analitica esistenziale. La vita individuale è una realtà empirica al di là di ogni interpretazione, dinamica coesistenza dell’io con le cose (la circostanza). 37
«Una certidumbre radical y última que el hombre tiene que hacer, porque no se encuentra en ella y la necesita para vivir». El ser y las cosas, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 283. 38 Cfr. ivi, pp. 283-284, cfr. anche Idea de la metafísica, Obras, cit., vol. II, pp. 401-402. 39 Ivi, p. 396.
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La metafisica può anche essere definita come una teoria della vita umana40. La nozione di vita non va intesa in senso biologico, ma biografico: non si tratta della vita in generale, ma della propria vita, che include le circostanze in cui si svolge e che d’altra parte non va confusa con la traiettoria biografica, che già comporta una selezione di scelte e di percorsi all’interno delle possibilità a disposizione41.
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«La mia vita è l’organizzazione reale della realtà, non l’organizzazione che io proietto in modo astratto e più o meno capriccioso su di essa chiamandola mondo, universo, totalità del reale o omnitudo realitatis»42.
La vita umana è singolare e possiede un carattere disgiuntivo e plastico: è la vita di ciascuno e non può essere quella di un altro, è questa vita qui e non può essere un’altra. È inoltre un faciendum (un quehacer): resta da fare, non è già data. Questo dinamismo della vita presenta una serie di implicazioni: «primo, la mia vita non è già fatta; secondo, devo farla; terzo, non io solo, ma con le cose; quarto, devo possedere già questa realtà prima di vivere; quinto, la vita consiste in un progetto o futurizione; sesto, bisogna immaginarla previamente o previverla. Tutto ciò deriva inesorabilmente da questa semplicissima ed evidente frase, “io devo fare la mia vita con le cose”»43.
Proprio per queste caratteristiche, né la semplice percezione della realtà, che non mi consente di conoscere il futuro possibile, né 40
Cfr. ivi, p. 400. Cfr. Las tendencias actuales del saber y el horizonte de la filosofía, in Nuevos Ensayos de filosofía, Obras, cit., vol. VIII, pp. 516-517. 42 «Mi vida es la organización real de la realidad, no la organización que yo proyecto de manera abstracta y más o menos caprichosa sobre ella llamándola mundo, universo, todo de la realidad u omnitudo realitatis». Ivi, p. 517. 43 «Primero, mi vida no está hecha; segundo, tengo que hacerla; tercero, no yo solo, sino con las cosas; cuarto, tengo que poseer ya esa realidad antes de vivir; quinto, la vida consiste en un proyecto o futurición; sexto, hay que imaginarla previamente o previvirla. Todo esto se desprende inexorablemente de esa sencillísima y evidente frase, “yo tengo que hacer mi vida con las cosas”». Ivi, p. 518. 41
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la descrizione, che mi offre soltanto dati sconnessi insufficienti per la decisione, rendono possibile la scoperta del senso della vita, ma solo la comprensione, che dà ragione della connessione dei diversi elementi, rendendola trasparente. Per essere vissuta umanamente, dunque, la vita porta in sé una teoria, un’esigenza di chiarificazione, che è costitutiva ed è la radice della metafisica. Se la metafisica deve caratterizzarsi come una teoria della vita umana, deve fornire le ragioni della vita nella sua singolarità specifica (en su mismidad). Non può pertanto limitarsi alla descrizione di vissuti, ma deve affrontare il tema decisivo della struttura della vita «della dinamica polarità tra un io o un chi e una circostanza che con questo io astratto costituisce l’io reale e concreto che sono io come effettiva realtà vivente»44. Come teoria della vita umana, la metafisica si occuperà dunque di analizzare le strutture che la costituiscono, in cui radicano le diverse realtà di ogni vita vissuta. La categoria di “struttura” elaborata da Marías merita una speciale attenzione, perché è l’elemento chiave dell’originalità del suo pensiero rispetto a quello del maestro Ortega. Anche se appare appena abbozzata fin dai primi scritti, è nel saggio Antropología metafísica – «il libro più personale di quelli che ho scritto, risultato di venti anni di meditazione e di chiarimento»45 – che i punti chiave del suo pensiero, come la teoria della vita umana, di realtà radicale e radicata e di struttura, appaiono sviluppati in modo preciso, seppure non in una prospettiva sistematica. Nei due prologhi di Antropología metafísica, redatti dall’autore stesso per la prima edizione del 1970 e per quella del 1983, egli manifesta la più che ventennale gestazione di questi concetti che lo ha condotto alla scoperta «di quel livello di realtà che chiamo struttura empirica della vita umana […] così come la si trova realizzata nell’“uomo”»46. Se esiste una 44 «De la dinámica polaridad entre un yo o quién y una circunstancia que con ese yo abstracto constituye el yo real y concreto que soy yo como efectiva realidad viviente». Cfr. Idea de la metafísica, Obras, vol. II, p. 412. 45 «El libro más personal de cuantos he escrito, resultado de veinte años de meditación y esclarecimiento». La mujer en el siglo XX, cit., p. 9. 46 «De aquel nivel de realidad que llamo la estructura empírica de la vida humana […] tal como la encontramos realizada en el “hombre”». Antropología metafísica, cit., p. 18. Le tappe principali di questa gestazione vanno dal saggio del 1949, El método histórico de las generaciones, che misurando in un quindicennio la distanza tra le ge-
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fedeltà ai temi del proprio filosofare, c’è anche un’evoluzione interna, che può avere esiti imprevedibili. Gli scritti sono altrettante pietre miliari di questo percorso: «I libri, quando emergono dal fondo di noi stessi, quando rispondono alla realtà di chi li scrive, agiscono su di lui, una volta dati alla luce. La forma più immediata della responsabilità intellettuale sta nel fatto che l’autore deve rispondere di fronte a se stesso di ciò che ha scritto. I libri, una volta pubblicati, si rendono indipendenti, restano di fronte all’autore, influiscono su di lui, lo condizionano. […] Ogni libro risponde a una traiettoria biografica del proprio autore e la modifica: la realizza, la conduce fino al punto di risoluzione e di sbocco, le fa prendere un’altra rotta, la ostruisce»47.
Marías sottolinea che la sua nozione di struttura deriva dalle Meditaciones del Quijote di Ortega, ma è rielaborata alla luce anche delle posizioni dello strutturalismo. Per Ortega, struttura era l’insieme degli elementi disposti in un certo ordine e in relazione reciproca: una realtà composita, non costituita né dai soli elementi né dal solo ordine in cui sono disposti. Nozione ben lontana, dunque, dall’idea di struttura dello strutturalismo, che è pura forma, configurazione48. Riferendosi all’esistenza umana, Marías prolunga la nozione orteghiana di struttura, articolandola nel binomio di struttura analitica e struttura empirica, che gli consente di superare alcuni limiti di Ortega. È un passo in più indispensabile per poter combinare una teoria analitica della vita umana con la conoscenza immediata, connerazioni, aveva fornito un metodo di analisi diverso da quello della struttura analitica, fino alla teorizzazione più matura, contenuta nel saggio del 1953, La vida humana en su estructura empírica. 47 «Los libros, cuando emergen del propio fondo, cuando responden a la realidad del que los escribe, actúan sobre él una vez dados a luz. La forma más inmediata de la responsabilidad intelectual consiste en que el autor tiene que responder ante sí mismo de lo que ha escrito. Los libros, una vez publicados, se independizan, quedan frente al autor, influyen en él, lo condicionan. […] Cada libro responde a una trayectoria biográfica de su autor, y la modifica: la realiza, la lleva a su desembocadura o desenlace, la hace tomar otro derrotero, la obtura». Ivi, p. 9. 48 Cfr. ivi, p. 11.
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creta e circostanziale di ogni vita, vale a dire per poter giustificare una metafisica sulla quale fondare un’antropologia. Per struttura analitica della vita umana si intende l’insieme di condizioni universali che rendono possibile la vita stessa, sintetizzabile nella formula orteghiana “yo soy y mi circunstancia”. La teoria analitica della vita umana – o metafisica – ha la finalità di interpretare questa struttura analitica e di decifrarne il significato. Si è già posta in evidenza la differenza profonda con l’analitica esistenziale di Heidegger, nonostante entrambe si muovano allo stesso livello di analisi e si avvalgano della descrizione fenomenologica. Il Dasein heideggeriano – il modo di essere dell’ente – non corrisponde alla nozione di vita umana, ossia al binomio inscindibile costituito dall’“io e la mia circostanza”; inoltre, Heidegger non fa ricorso alla ragione vitale, di derivazione orteghiana; infine, l’analitica esistenziale è propedeutica alla metafisica, mentre la teoria della vita umana è già essa stessa metafisica49. La struttura analitica della vita umana è una sorta di repertorio di possibilità che costituiscono lo sfondo dell’esistenza e della libertà e che pertanto non si esercitano a partire dal nulla. In questa prospettiva, l’azione o la decisione sono sempre un movimento “a partire da” e non una pura possibilità, come se si trattasse di uno slancio privo di motivazioni e di determinazioni. La critica alla concezione di Sartre della cosiddetta “elezione prelogica” è evidente: non esiste una scelta senza una ragione che la giustifichi e le conferisca significato, così come non si dà una decisione se non entro un numero limitato di possibilità ed entro un complesso di circostanze ben definito50. Tra queste circostanze, la prima è la condizione incarnata dell’uomo, la sua temporalità e storicità, l’insieme di credenze e di significati che strutturano la vita umana, la quale si presenta sempre articolata in una dimensione narrativa. Grazie alla struttura analitica è possibile la narrazione della vita concreta, di ciascuno, ma poiché non è possibile il passaggio diretto dal livello della teoria a quello della realtà storica, occorre una sorta di anello di congiunzione, costituito appunto dalla 49 50
Cfr. ivi, p. 71. Cfr. ivi, p. 72.
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struttura empirica. È questo il punto in cui Marías supera Ortega, che aveva sì messo in luce il carattere singolare e concreto della vita umana – ciò che c’è, che si dà storicamente e individualmente –, ma senza accennare a come potesse conciliarsi con le strutture universali dell’esistenza51. Marías dichiara che la nozione di struttura empirica gli si affacciò alla mente nel 1946, mentre stava lavorando al saggio Introducción a la filosofía, come la soluzione più adeguata perché l’analitica dell’esistenza, limitata ad un livello astratto, potesse calarsi nella concretezza della storia, giungendo a un’analisi della vita reale storica. La struttura empirica è la forma che la vita riceve nella circostanza o mondo. Per trattare di una realtà personale, qual è l’essere umano, la modalità più adeguata è la narrazione. Di un oggetto ideale si può dare una definizione, di un oggetto reale una descrizione, ma un soggetto personale richiede che di lui si narri una storia, si racconti una biografia in cui emergono immediatamente tutte le sue “circostanze”: la nascita, il sesso, le eventuali malattie, i legami parentali, ecc. Ma la teoria analitica della vita umana non si occupa di questi aspetti, così storici e concreti, eppure indispensabili per la comprensione della singola esistenza. Occorre pertanto esplorare un altro livello di realtà, quello costituito dalla struttura empirica della vita umana: quegli elementi della biografia personale, che non sono né essenziali – in quanto non entrano nella determinazione dell’essenza e quindi non sono presi in esame dalla teoria analitica – ma neppure sono puramente accidentali. Marías stabilisce a questo punto un’analogia con la distinzione aristotelica tra ciò che è “per se”, ciò che è “per accidens” e ciò che è “proprio” (idion). Ma mentre per lo Stagirita quest’ultimo indica le proprietà di una sostanza, ad esempio della sostanza uomo, cioè i caratteri che risultano convertibili con la specie, come la razionalità, la socialità o la risibilità, per Marías il “proprio” è da intendere come l’insieme di proprietà della vita umana stessa52. Questa ha una dimensione drammatica, in quanto è, ma allo stesso tempo, diviene, è da farsi, ha carattere di struttura, ma non in senso aprioristico: è l’am51 Cfr. J.L. Abellán, Historia crítica del pensamiento español. De la Gran Guerra a la guerra civil española, cit., pp. 338-339. 52 Cfr. Antropología metafísica, cit., pp. 74-75.
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bito in cui si danno certe realtà, che non sono proprie della specie, ma di quella particolare vita – la mia, la sua – che si realizza pertanto disgiuntivamente, in modo assolutamente originale. La struttura empirica non è dunque un insieme di requisiti a priori propri della vita umana in quanto tale, ma è in definitiva l’uomo stesso, con quell’insieme di circostanze che appartengono alla sua vita storicamente realizzata: sono comunque proprietà stabili, nel senso che non si riscontrano nel singolo individuo, ma in ogni vita reale, la quale risulta configurata in un determinato modo. «Il che significa che la vita, oltre ad avere la struttura analitica e universale costituita dai suoi requisiti necessari, sine quibus non, deve essere empiricamente strutturata, con una o un’altra struttura empirica»53.
Tutte le determinazioni che nella struttura analitica della vita umana sono astratte, come la corporeità, la mondanità, la temporalità, acquistano concretezza nella struttura empirica – che è «la possibile variazione umana nella storia»54 – e connotano la vita effettiva entro una definita modalità di realizzazione. Se, ad esempio, a livello della struttura analitica si afferma che la temporalità è una proprietà essenziale della vita umana, a livello di struttura empirica è possibile narrare come si articola il tempo, in una traiettoria biografica fatta di quotidianità e di aspettativa, oppure quali siano le caratteristiche delle età della vita55.
53 «Lo cual significa que la vida, además de tener la estructura analítica y universal constituida por sus requisitos necesarios, sine quibus non, ha de estar empíricamente estructurada, con una u otra estructura empírica». Ivi, p. 75. 54 Ibidem. 55 Ivi, p. 183.
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2.3 La struttura empirica, forma concreta della nostra circostanza La lunga gestazione dei concetti e la necessità di precisarli sempre meglio rende il pensiero di Marías piuttosto complesso, anche per l’esposizione più ricorsiva che lineare, in un ritorno sugli stessi punti, per meglio definirne i contorni e ampliarli. Per giustificare il suo procedimento, egli stesso lo ha definito come “metodo di Gerico”: i grandi problemi filosofici richiedono la stessa tattica usata dal popolo ebraico nella presa di Gerico, come è narrata dal sesto capitolo del libro di Giosuè. Invece di attaccare in modo diretto, gli assedianti giravano attorno alle mura lentamente, stringendo il cerchio ad ogni giro e riempiendo l’aria del suono delle trombe. Così deve agire il filosofo, senza perdere di vista le questioni essenziali, ma sapendo di poterle decifrare solo dopo un paziente lavorio: «Nell’assedio ideologico la melodia drammatica consiste nel mantenere sempre la consapevolezza dei problemi, che sono il dramma ideale»56. Quanto esposto finora si può riassumere così: la struttura analitica della vita umana, radicale, universale e stabile nei suoi requisiti necessari, si articola nella struttura empirica, che è la vita nel suo farsi storico, la quale a sua volta assume la sua forma concreta a livello individuale, in ciascuna vita, assolutamente singolare nella circostanzialità in cui è radicata. Essa mostra uno svolgimento drammatico che pertanto solo il racconto può rendere intellegibile. Questa circostanzialità si manifesta nell’insieme di strutture empiriche che sono l’orizzonte in cui si svolge l’esistenza individuale: la corporeità, la sensibilità, la temporalità, la mondanità, la condizione sessuata. La categoria di struttura empirica trova una sua prima originale esemplificazione in una conferenza del 1952, dal titolo La psiquiatría vista desde la filosofía57. Dopo aver affermato che la psichiatria, “di-
56 «En el asedio ideológico la melodía dramática consiste en mantener siempre la conciencia de los problemas, que son el drama ideal». Obras, cit., vol. VII, p. 279. Cfr. H. Raley, Julián Marías: una filosofía desde dentro, cit. 57 Conferenza tenuta a Wellesley, nel Massachussets, febbraio 1952: La psiquiatría vista desde la filosofía, Obras, vol. IV, pp. 362-377.
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sciplina medica dell’anima”58, ha lo strano privilegio di un oggetto che allo stesso tempo è soggetto, Marías sottolinea che il grande merito della psicoanalisi non sta nelle soluzioni e negli schemi esplicativi, ma nell’approccio adottato, che invita a cercare nella biografia la causa dei disagi psichici, attraverso il metodo della narrazione59. D’altra parte, il filosofo mette in evidenza che la psichiatria non può ignorare un problema di fondo: per comprendere realmente chi sia il malato, non può attenersi solo al presente, ma deve “ricostruire il romanzo della sua vita”, proprio perché nella trama biografica c’è un’essenziale co-implicazione di presente, passato e futuro. In ogni azione sono presenti sia il passato, perché la ragione di ciò che si compie si trova solo in ciò che si è fatto prima, sia il futuro, come progetto da cui dipende il significato complessivo e la possibilità stessa della propria vita. Per questo la modalità in cui la vita concreta si rende accessibile è il racconto, nel quale è ricapitolata la trama temporale dell’intera biografia, incluso il futuro in forma d’intenzione. Ogni nostra relazione col prossimo, anche sconosciuto, presuppone questa costante ermeneutica, una sorta di “divinazione” in cui si decifrano le biografie altrui, in modo da cogliere il senso dell’orizzonte umano che ci circonda e di rendere possibile la convivenza60. Tuttavia, il compito del terapeuta è quello di passare dalla storia alla storia clinica, ossia dal racconto personale e soggettivo riferito dal malato alla sua collocazione all’interno di uno schema esplicativo coerente che consenta la diagnosi. Uno psicoanalista freudiano di stretta osservanza si lancerà verso il passato del malato per cominciare un’esplorazione retrospettiva della sua biografia, mentre uno psichiatra esistenzialista si dirigerà verso il futuro. Secondo Marías, entrambe le prospettive, quella dell’inconscio e quella del progetto, sono necessarie, ma il problema è che si può comprendere una biografia individuale solo partendo da una struttura che le dia senso, da una teoria analitica della vita umana. D’altra parte, per passare nuovamente dal livello astratto della teoria della vita umana a quello della vita individuale e concreta, si richiede un livello intermedio: una struttura 58
Cfr. ivi, p. 363. Cfr. ivi, p. 365. 60 Cfr. ivi, pp. 368-369. 59
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empirica della vita umana. La struttura empirica è la forma concreta della nostra circostanzialità: solo così lo psichiatra sarà in grado di comprendere la situazione reale dell’uomo malato e di definire normale o anormale un caso, collocando la biografia su uno sfondo che le dia significato. In altri termini, il racconto del malato va inscritto nell’ambito generale di una teoria analitica, per poter formulare una diagnosi di salute o malattia e poter impostare un programma terapeutico. Ma questo schema interpretativo può funzionare solo se si tiene conto che l’insieme di dati raccolti – sesso, età, doti fisiche e intellettuali, condizione sociale ed economica, istruzione, relazioni familiari, nazionalità, religione – non è inserito oggettivamente nella vita del malato, ma vissuto soggettivamente. Non si può pretendere, infatti, di comprendere “oggettivamente” la situazione di qualcuno al margine della sua intenzione: tutti i dati che si possono raccogliere acquistano il valore effettivo di elementi di una situazione solo alla luce di un determinato progetto e di scopi precisi. Considerare la libertà del soggetto significa tener conto che tutto ciò che è umano rientra nella costellazione delle possibilità e che l’uomo sceglie tra i possibili. Ma la scelta avviene sempre all’interno di un contesto, per cui una preferenza non prova che il preferito sia desiderato, ma solo preferito alle altre possibilità: pertanto potrebbe anche non esprimere direttamente un progetto o un’intenzione. Ciò che un uomo fa ha senso solo in funzione di quello che avrebbe potuto fare: per questo è indispensabile ricostruire l’ambito di possibilità di un soggetto per la comprensione della sua vita61. Ad esempio, la reale consistenza che un reumatismo articolare acquista in una biografia la si comprende solo alla luce dell’intenzione di diventare ballerino e il grado di drammaticità di una malattia mortale si coglie solo mettendolo in relazione con la fede religiosa che il malato possiede o no. È proprio l’articolazione tra la struttura empirica, che si rivela nella sua forma individuale grazie al racconto, e la teoria analitica della vita umana a rendere possibile la comprensione dell’insieme reale di una biografia62. 61 62
Ivi, pp. 374-375. Ibidem.
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La categoria di struttura empirica non è pertanto statica, come semplice disposizione di elementi, ma è dinamica, vettoriale, ha una dimensione drammatica, determinata da un movimento che si proietta verso il futuro. A partire da questa categoria, Marías opera una ricognizione delle dimensioni essenziali della vita umana, oggetto della sua antropologia metafisica. Si tratta delle seguenti, che saranno oggetto di analisi nelle pagine successive: l’installazione corporea, il carattere vettoriale e disgiuntivo, la condizione sessuata, la futurizione, l’indigenza (menesterosidad), la condizione amorosa. La categoria dell’installazione è desunta dal pensiero di Zubiri, ma si avvale anche delle considerazioni di Ortega sulla circostanza in cui necessariamente si svolge ogni vita umana. Secondo Marías, bisogna restituire al verbo stare tutto il suo peso: generalmente, infatti, lo si utilizza per indicare una situazione transitoria, mentre l’essere farebbe riferimento a ciò che permane. In italiano stare è un termine spazializzante, mentre in Marías ha carattere biografico. Il verbo essere possiede una certa staticità, che non dà ragione né del carattere futuribile (futurizo), orientato al futuro, che la vita ha, né del suo carattere drammatico. Occorre sgombrare il campo da un equivoco: quello che da un lato induce a pensare il verbo stare come riferito agli oggetti, quasi per sottolinearne la dimensione inerziale; e dall’altro lo attribuisce a semplici situazioni passeggere, mentre il verbo essere denoterebbe stabilità. Al contrario, mentre essere può far riferimento anche a situazioni fittizie o irreali, stare comporta un rapporto necessario con la realtà, perché implica l’inclusione in un ubi, in un dove concreto, che costituisce la circostanza in cui si svolge la vita di ciascuno, la vita che “si sta vivendo”. L’intraducibilità di molte espressioni castigliane che contengono il verbo stare, rese in altre lingue con il verbo essere, rende difficile la comprensione di questa categoria. “Yo estoy vivo”, “yo estoy enfermo”, “yo estoy cansado” ricevono la traduzione italiana di “sono vivo”, “sono malato”, “sono stanco”, senza che si possa cogliere la differenza tra essere e stare. «La riduzione dello “stare” all’essere – ad esempio nel concetto heideggeriano del Mitsein –, oltre ad assimilarlo a qualcosa che ha ben 114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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poco a che vedere, ha impedito la comprensione del “vivere” come “star vivendo”»63.
Secondo Marías, stare, contenendo il riferimento alla durata, esclude qualsiasi concezione istantaneista o attualista dell’essere e rappresenta l’orizzonte di riferimento della progettualità, il punto di partenza di ogni movimento vitale, la circostanza concreta in cui si è collocati e da cui si parte64. Alla domanda “chi è l’uomo?” non si può dunque rispondere con una definizione, indicandone il genere prossimo e la differenza specifica, quanto piuttosto con una fenomenologia delle strutture empiriche che costituiscono il suo esistere, per poi risalire a una teoria della vita umana. L’antropologia filosofica sarà dunque, secondo Marías, “la scienza della struttura empirica della vita umana”65, mentre la metafisica sarà invece la teoria della vita umana come realtà radicale, in quanto struttura analitica. L’antropologia filosofica ha dunque come oggetto lo studio delle forme di vita concrete in cui l’uomo è dinamicamente “installato”, a partire dalle quali decide e agisce, l’insieme di condizioni definito da Marías come “la struttura biografica dello stare”66. Per comprendere la categoria dell’installazione, la “forma empirica del radicarsi nella vita umana”67, situazione entro cui si formula ogni progetto, dunque, bisogna far riferimento alla durata della vita, che è movimento verso il futuro, ma sempre a partire da qualcosa che dura, da uno stare anteriore ad ogni proiezione in avanti, che dà senso a tutti i progetti possibili: «Quando ci interessa la struttura biografica dello stare, vale a dire, quando consideriamo lo “stare” in modo insieme biografico e strutturale, giungiamo a un concetto imprescindibile in una teoria dell’uomo 63 «La reducción del “estar” al ser – por ejemplo en el concepto heideggeriano del Mitsein –, además de asimilarlo a algo que tiene bien poco que ver, ha obturado la comprensión del “vivir” como “estar viviendo”». Antropología metafísica, cit., p. 100. 64 Cfr. ivi, pp. 79-80. 65 Ivi, p. 78. 66 Ivi, p. 80. 67 Ivi, p. 85.
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come struttura empirica della vita, in un’antropologia nel senso rigoroso del termine: quello dell’installazione»68.
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Da questa concezione deriva una serie di implicazioni: nell’esistenza umana non c’è nulla di biologico che non sia anche biografico; non esiste una “natura” umana separata dalla cultura e dalla storia, sebbene non possa ridursi ad esse; infine, non si dà nell’uomo una libertà come pura possibilità, prescindendo da qualsiasi circostanza che in certo modo precede e inquadra ogni scelta. Non è sufficiente, dunque, la distinzione scheleriana che l’animale vive in un ambiente, mentre l’uomo abita il mondo: occorre riconoscere come “sta” e come dovrebbe “stare” nel mondo69. «Stare nel mondo vuol dire star facendo il mondo, star “mondificando”; l’uomo non è certamente creatore e per questo “si trova” nel mondo; però è demiurgo: fa il mondo – “il suo” mondo – con quello che gli è dato, che fino a quel momento è soltanto circostanza»70.
Occorre realizzare quello che Ortega chiamava “riassorbimento della circostanza” (reabsorción de la circunstancia): la proiezione sulla nuda circostanza dei progetti concreti formulati e realizzati dall’uomo, che rendono possibile trasformare la circostanza in mondo. La categoria dell’installazione possiede le seguenti caratteristiche: è unica, perché appartiene al singolo in modo originale e irripetibile; è stabile, perché è definita dalla durata temporale e consente di “trovarsi” in una situazione, ma allo stesso tempo è dinamica, vettoriale; è unitaria, nel senso che è la forma radicale, per quanto complessa, del “trovarsi”; è pluridimensionale, perché si articola in vari livelli e dimensioni, che la costituiscono come struttura71. Esempi di queste dimensioni sono l’installazione linguistica, dalla quale si parte per 68
Ibidem. Ivi, p. 85. 70 «Estar en el mundo quiere decir estar haciendo el mundo, estar “mundificando”; el hombre no es ciertamente creador, y por eso “se encuentra” en el mundo; pero es demiurgo: hace el mundo – “su” mundo – con aquello que le es dado, pero sólo es hasta entonces circunstancia». Ivi, p. 98. 71 Cfr. ivi, pp. 81-83. 69
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interpretare la realtà e l’installazione corporea, costituita, tra l’altro, dalla sessualità e dalla dolorabilità. Il carattere vettoriale dell’installazione, la “futurizione” di ascendenza orteghiana, non è il semplice scorrere del tempo e neppure un mero processo in avanti, ma è la compresenza di durata e di proiezione nel futuro. Più che la freccia, Marías propone due immagini, più adeguate per rendere questa dimensione che associa grandezza, intensità e direzione. La prima è l’intero arco, che indica direzionalità, tensione, proiezione verso un obiettivo; la seconda è la cascata luminosa di un fuoco d’artificio che si espande in molteplici direzioni, segno dell’unità di origine e insieme dell’inesauribile complessità della vita72. Si tratta di una concezione apparentemente molto vicina a quella dell’élan vital di Bergson, che aveva utilizzato la stessa immagine dello scoppio di una granata, per indicare le molteplici direzioni dell’evoluzione creatrice. La prospettiva di Marías, però, riguarda lo svolgersi concreto non della vita in generale, ma della vita umana, in cui biologia e biografia sono inseparabili, dove è coinvolta l’interazione tra volontà e desiderio del soggetto. L’antropologia tradizionale, che ha spiegato con il ricorso alla volontà il dinamismo della deliberazione e della decisione, è insufficiente, perché ha dimenticato la dimensione del desiderio, la órexis o proaíresis aristotelica, che non è solo la condizione per l’esercizio della volontà, ma ne anticipa l’orientamento, seppure in modo irrazionale73. Il razionalismo filosofico ha progressivamente lasciato in ombra il desiderio a favore della volontà, mentre la psicologia lo ha interpretato come semplice dinamica tendenziale, ossia come espressione di vitalità di un organismo psicofisico. Riconoscere invece il ruolo del desiderio dà ragione dell’inseparabilità nell’uomo di zoé, vita biologica, attualizzazione di potenze e di bíos, vita biografica che si sviluppa attraverso azioni consapevoli e libere.
72 73
Cfr. ivi, p. 87. Cfr. ivi, p. 90.
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2.4 Vivere è “essere installati in un corpo” La trattazione del corpo si colloca all’interno della riflessione sulla struttura empirica della vita umana, in cui l’uomo è non soltanto collocato, ma radicato.
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«Questo corpo che mi accompagna sempre, con il quale mi sono imbattuto, che forse mi è sgradito e mi infastidisce, che non ho scelto, che occupa un luogo, come una cosa in più tra le cose, non è anche un frammento o una porzione della mia circostanza?»74.
Fin dal saggio La estructura corpórea de la vida humana (1963)75 Marías elabora alcuni concetti chiave che riceveranno ulteriori precisazioni nei saggi successivi: 1) il significato del termine struttura corporea; 2) la corporeità come forma concreta della mondanità o circostanzialità; 3) il carattere carenziale del corpo umano; 4) la dimensione compensativa ed espansiva della tecnica; 5) la condizione sessuata della vita umana e la differenza tra sessuato e sessuale; 6) la dimensione simbolica del corpo, in quanto espressione di intimità. La corporeità è una delle strutture empiriche di cui consta la vita umana, ossia di quelle determinazioni che essa presenta nella sua realizzazione storica e che sono l’oggetto dell’antropologia. In quanto struttura empirica costituisce una realtà radicata, che ha bisogno di fondarsi su una realtà radicale, ossia su quella teoria della vita umana che è la metafisica. Per questo Marías preferisce usare le espressioni struttura corporea o “dimensione corporea della vita umana”76, più efficaci nel mostrare il carattere incarnato, la circostanza più essenziale alla vita umana, il cui significato va al di là della semplice biologia. Il sapere biologico sul corpo è comunque da considerarsi come un principio euristico che aiuta la filosofia a orientare l’indagine ver74 «Este cuerpo que me acompaña siempre, con el que me he encontrado, que tal vez me desagrada y me molesta, que no he elegido, que ocupa un lugar, como una cosa más entre las cosas, ¿no es también un fragmento o porción de mi circunstancia?». La estructura de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 194. 75 Incluso successivamente in Nuevos Ensayos de Filosofía, Obras, cit., vol. VIII, pp. 602-618. 76 Cfr. La estructura corpórea de la vida humana, Obras, cit., vol. VIII, p. 609.
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so determinate direzioni e risulta un ingrediente dell’interpretazione effettiva che abbiamo del corpo, perché condiziona la modalità con cui lo viviamo. Ad esempio, elementi del mondo organico, invisibili a occhio nudo, sono divenuti parti o abitanti del corpo, come la flora batterica, i microbi o i virus, modificando profondamente l’immagine interna del corpo, così come è stata decisiva la conoscenza fornita dall’anatomia77. La struttura corporea è inseparabile dalla mondanità o circostanzialità, che non è semplicemente ciò che circonda il corpo, ma ne è il correlato necessario, tanto che la scoperta del mondo, per quanto anteriore cronologicamente a quella del corpo, diviene comunque inseparabile da esso: «scopro le cose prima di rendermi conto del mio corpo e questo lo scopro con le cose. Potremmo dire che io vivo a partire dal mio corpo; grazie alla sensibilità, esso è “trasparente”: per questo io posso passare attraverso di esso per andare alle cose. Il corpo mi rinvia transitivamente all’altro da me»78.
A livello della teoria analitica, la mondanità ha priorità sulla corporeità, mentre a livello della struttura empirica è quest’ultima ad averla, perché è grazie al corpo che è possibile inserirsi nel mondo, occupare uno spazio, percepire le cose. Scrive Marías a proposito del rapporto corpo-mondo in Mapa del mundo personal: «il mondo non è, pertanto, una struttura inerte, ma esercita la sua pressione su di me nella misura in cui io lo opprimo con i miei progetti. Il verbo spagnolo stare permette di comprendere adeguatamente la situazione: sto nel mondo. Ma a condizione di evitare qualsiasi interpretazione estatica: sto vivendo, facendo qualcosa in e con questo
77
Cfr. Ivi, p. 603. «Descubro las cosas antes de caer en la cuenta de mi cuerpo y a éste lo descubro con las cosas. Podríamos decir que yo vivo desde mi cuerpo; gracias a la sensibilidad, este es “transparente”: por eso yo puedo pasar a través de él para ir a las cosas. El cuerpo me remite transitivamente al otro que yo». Ivi, p. 608. 78
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mondo, sfruttando le possibilità che offre, superando o schivando le sue difficoltà, muovendomi in esso nel corso di tutta la vita»79.
Mondo e corpo sono pertanto inseparabili: parafrasando la famosa frase di Ortega “yo soy yo y mi circustancia”, il primo “io” – afferma Marías – indica la mia realtà totale, corporea e mondana, mentre il secondo io indica il chi, la egoità, che si oppone alla circostanza, che non è né corporeo né mondano, in quanto unità di corpo, psiche, spirito80. Inoltre la struttura somatica imprime un ordine nel mondo. È in funzione del corpo che il mondo acquista un’organizzazione vettoriale, a seconda delle direzioni del movimento locale o della vista: non solo la distinzione tra sotto o sopra, avanti o dietro, ma anche la nozione di grande o piccolo dipendono dalla struttura somatica dell’uomo81. Le osservazioni circa il carattere carenziale del corpo umano riecheggiano quelle di Gehlen e di Plessner, anche se non vi sono riferimenti espliciti a questi pensatori. Marías presenta però due considerazioni originali e interessanti: innanzitutto l’uomo sente queste determinazioni naturali come limiti, il che è una dimostrazione che la visione che ha di se stesso non è “naturale”, in quanto trae origine dall’immaginazione e non dalla percezione, per cui egli guarda alcune proprietà degli animali, come il volo o il movimento nell’acqua, con una sorta di invidia biologica, come se queste doti di cui è privo gli spettassero di diritto82. Più che carenze, dunque, queste deficienze sono immaginate come vere e proprie mutilazioni. L’altra osservazione riguarda il ruolo della tecnica, che segna il passaggio dalla pro79 «El mundo no es, por tanto, una estructura inerte, sino que ejerce su presión sobre
mí en la medida que yo lo oprimo con mis proyectos. El verbo español estar permite comprender adecuadamente la situación: estoy en el mundo. Pero con la condición de evitar toda interpretación estática: estoy viviendo, haciendo algo en y con ese mundo, aprovechando las posibilidades que ofrece, superando o esquivando sus dificultades, moviéndose en él a lo largo de toda la vida». Mapa del mundo personal, Alianza Editorial, Madrid 1992, pp. 173-174. 80 Cfr. La estructura de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, vol. II, p. 609; cfr. anche Antropología metafísica, cit., p. 113. 81 Cfr. La estructura de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 607. 82 Cfr. ivi, p. 609.
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spettiva biologica – della carenza – a quella squisitamente umana, che vede nel limite una sfida. Qui si inserisce la tecnica, che trasforma le deficienze in risorse, non soltanto con un’azione vicaria, di sostituzione e di compenso, ma producendo un effetto espansivo della natura umana, che si dilata quasi verso una sovranatura: un processo che con termini moderni denominiamo enhancement e che spesso sembra inarrestabile. «Le tecniche, in primo luogo, sono state vicarie delle possibilità esistenti negli altri animali, dei quali l’uomo era corporalmente privo; poi si sono trasformate in risorse per la sua proiezione immaginativa; infine, si sono rese indipendenti persino dai desideri concreti dell’uomo e in questa misura lo “sospingono” – c’è l’impressione inconfondibile che l’uomo non sappia “dove va”, che sia travolto dalla sua tecnica verso scopi che non si era proposto, ma che gli sopraggiungono –; il che dà il suo significato più rigoroso all’espressione che ho usato in precedenza: natura in espansione»83.
Qualche anno dopo, nel saggio Antropología metafísica, Marías svilupperà ulteriormente queste considerazioni, dedicandovi il capitolo La instalación corpórea. Come già osservato, i limiti del corpo non sono costituiti dalla pelle, ma dal mondo circostante, in cui il corpo è installato e che pertanto diviene un mondo biografico. L’espressione “io sono installato nel mio corpo” è, secondo Marías, quella che risolve la tradizionale antinomia, trattata anche da Marcel, esplicitamente citato, tra essere e avere corpo, evitando sia il rischio della riduzione del corpo a mera proprietà, sia della riduzione dell’io a semplice corpo. Lo sviluppo più ampio che la categoria dell’installazione riceve in questo saggio consente da un lato di decifrare alcune esperienze 83
«Las técnicas, primero, han sido vicarias de las posibilidades existentes, si bien fuera de él, en los demás animales, de las cuales estaba corporalmente privado; luego se han convertido en recursos para su proyección imaginativa; por ultimo, han ido independizándose hasta de los deseos concretos del hombre, y en esa medida lo “arrastran” – hay la impresión inconfundible de que el hombre no sabe “adonde va”, de que va arrebatado por su técnica hacia fines que no se había propuesto, sino que le van sobreviniendo –; lo cual da su significación más rigurosa a la expresión que usé anteriormente: naturaleza en expansión». Ivi, p. 610.
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che mostrano l’interrelazione tra mondo e corpo, come il vissuto del disagio, l’esperienza del riposo, del sonno, del sogno, dall’altro di analizzare diversi aspetti della struttura vettoriale del corpo. Nel vissuto di disagio, ad esempio dovuto al freddo, al caldo, al mal di mare, si riflette in maggiore o minore misura una crisi del nostro “stare” nel mondo84. È interessante osservare che anche il filosofo Lévinas analizzerà il mal di mare come il chiaro sintomo dell’impossibilità di abitare uno spazio che non è il nostro abituale e che produce spaesamento e resistenza85. Al contrario del disagio, il riposo comporta il sottrarsi al mondo, un porlo tra parentesi, sospendendo l’abituale trasparenza del corpo, che normalmente ha una dimensione transitiva, perché è il tramite che consente di rivolgerci alle cose. Nel riposo, invece, ci si concentra verso l’installazione somatica, per cui il mondo viene a ridursi ai limiti del corpo. È ovviamente una situazione transitoria, perché in situazioni non patologiche si sperimenta prima o poi il desiderio di tornare a inserirsi nel mondo. Nel sonno si verifica una disconnessione (Ausschaltung) dell’installazione corporea, che produce spaesamento al risveglio e richiede uno sforzo per “reinstallarsi”. L’atto di addormentarsi avviene quando ci si svincola dall’installazione, interrompendo la continuità tra il corpo e il mondo, con il risultato di non sentire più i limiti né dell’uno né dell’altro. La vita biografica resta sullo sfondo, per quanto in sospeso, come risulta dall’espressione “stare dormendo”, che sottolinea la permanenza implicita dell’installazione86. Nel sogno, infine, l’installazione si riduce a quella dimensione della realtà psicosomatica in cui l’elemento psichico ha la meglio sul sistema percettivo. La struttura vettoriale appartiene al corpo nel suo insieme, per il suo dinamismo teleologico: il corpo “diviene”, a guisa di un proiettile biologico che avanza dalla nascita alla morte. Pertanto si sviluppa in una direzione determinata e secondo una traiettoria specifica, che non è semplicemente la durata media della vita, ma anche l’aspettativa di vita (life expectancy)87. 84
Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 114. Cfr. E. Lévinas, Dell’evasione, Eliotropia, Reggio Emilia 1984, pp. 38-40. 86 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 116. 87 Cfr. ivi, p. 117. 85
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Inoltre la struttura vettoriale si manifesta in ciascuna delle azioni vitali dell’uomo, che sono dotate di orientamento e di intensità. Ad esempio, la stazione eretta, l’incedere in avanti, il suddividere il mondo in destra e sinistra, in sopra e sotto sono atti resi possibili dall’orientamento della struttura somatica, che non si produrrebbero se il corpo umano avesse una forma a raggiera o fusiforme, come la stella marina o la medusa. Si tratta di una configurazione corporea che assume una dimensione biografica: si pensi alla relazione faccia a faccia che nel mondo umano caratterizza l’allattamento o il rapporto sessuale. Infine, la dimensione vettoriale interessa la stessa natura umana, che compensa i limiti della sua condizione esistenziale, attraverso la costruzione di strumenti. La tecnica potenzia la grandezza e la forza corporea, dilatando vettorialmente, in intensità e in molteplicità di applicazioni, la natura umana. Vi è dunque sempre uno scarto tra i limiti imposti dalla condizione biologica dell’installazione corporea e la tensione verso la libertà biografica, cioè il tentativo di superare e di dominare questi limiti. In questo scarto s’inserisce la tecnica che interviene sul corpo, per ripararlo, integrarlo e potenziarlo: ma allora i mezzi tecnici utilizzati non sono più soltanto biologici, bensì diventano biografici88. La corporeità va interpretata, in quanto struttura simbolica, come espressione dell’intimità. Del corpo si può fare una storia, persino una spiritualità, così come anche la differenza sessuale è soggetta a interpretazioni. Vi sono modelli culturali che proiettano sul corpo molteplici significati. Questo è una riprova del carattere opaco del corpo umano, che, a differenza delle cose inanimate o del corpo animale, va decifrato, in quanto portatore di un’interiorità. «Come l’acqua trasuda dai pori di un vaso di coccio non smaltato, così trasuda un po’ di intimità nell’espressione del corpo»89. Si legge un corpo come si legge un libro e Marías spezza una lancia a favore della fisiognomica, che, se si esclude la deriva positivistica, ha colto la densità espressiva delle fattezze fisiche, tentando di comprenderle e di interpretarle. 88
Cfr. ivi, p. 118.
89 «Como rezuma el agua por los poros de una vasija de barro sin vidriar, así rezuma
un poco de intimidad en la expresión del cuerpo». La estructura de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 617.
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Risorsa e limite, pesantezza, spazialità, vulnerabilità, opacità: sono tutte caratteristiche del corpo, grazie al quale viviamo, ma anche moriamo. «Il mio corpo, dunque, è una porzione della mia circostanza ed ha un compito peculiare all’interno di essa, ma dentro di essa, ossia fuori di me»90. La stessa osservazione si può muovere nei confronti dell’intelligenza, della volontà, della dimensione psichica. Quindi, secondo Marías tutto ciò che costituisce la cosiddetta “natura” dell’uomo è una parte della circostanza e pertanto non è separabile radicalmente dalla relazione con quanto è esteriore all’uomo, cioè le cose e l’ambiente. La circostanza, pertanto comprende, oltre al mondo fisico, anche il corpo ed è proprio in esso che la circostanzialità della vita si manifesta nel modo più prossimo all’io. «La circonstanzialità della vita umana si realizza, dunque, nella condizione della corporeità. L’elemento della circostanza a me più prossimo – così prossimo che in certo senso sono io stesso – è il mio corpo; si intende il mio corpo animato, il mio corpo con la sua dimensione psichica; questo elemento occupa un posto eccezionale, perché proprio “attraverso” di esso e grazie ad esso mi è presente il “mondo”, del quale, del resto, forma parte»91.
La prossimità del corpo animato – diremmo vissuto –, attraverso cui mi si fa presente il mondo, fa sì che la sua “scoperta” non sia originaria, ma avvenga in seguito all’incontro con il mondo delle cose. Solo trovandosi tra cose, l’uomo può riflettere sulla qualità della sua presenza tra esse. Corporeità significa localizzazione e movimento, il che comporta l’orientamento del mondo, il suo strutturarsi in direzio-
90 «Mi cuerpo, pues, es una porción de mi circunstancia, que tiene un papel peculiar dentro de ella, pero dentro de ella, es decir, fuera de mí». Ivi, p. 192. 91 «La circunstancialidad de la vida humana acontece, pues, en el modo de la corporeidad. El elemento de la circunstancia más próximo a mí – tan próximo que en cierto sentido soy yo mismo – es mi cuerpo; se entiende mi cuerpo animado, mi cuerpo con su dimensión psíquica; este elemento ocupa un puesto exepcional, porque precisamente “a través” de él y en virtud de él me es presente el “mundo” – del cual, por lo demás, forma parte –». La realización de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 293.
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ni stabilite in base al corpo, come il concetto di destra e sinistra, di lontano e vicino, di avanti e dietro. Il nostro corpo presenta caratteristiche specifiche: è inseparabile dall’io, mentre le cose sono intercambiabili; le sue affezioni si ripercuotono su me stesso; occupa un posto speciale nella mia prospettiva, in quanto è attraverso di esso e grazie ad esso che entro in relazione con le cose. «Queste proprietà fanno sì che possa chiamare il corpo, con ogni rigore, mio e persino che – in un certo senso – possa dire che io sono – si intende anche – il mio corpo»92. La circostanza comprende altri corpi, irriducibili al mio, che si presentano con una peculiarità: l’incontro con essi è simultaneamente un “essere incontrato”. Marías insiste sull’unità radicale del soggetto umano, respingendo ogni considerazione strumentale del corpo. Da qui che è preferibile affermare che l’uomo è intelligente e corporeo, piuttosto che dire che possiede un corpo e un’anima. «Se, da una parte, l’elemento somatico e quello psichico non si “uniscono”, ma, al contrario, sono dimensioni di una unità reale, che è, allo stesso tempo, somatica e psichica, dall’altra il corpo e la psiche non si identificano con l’io che è ciascuno di noi e che con essi svolge la sua vita… L’io non si identifica neppure con l’uomo»93.
2.5 Vivere è “essere installati” in un corpo sensibile e mortale La riflessione sul corpo è inseparabile anche dalla trattazione della sensibilità, che è la modalità concreta di “stare ‘in’ e ‘con’ la realtà”94. 92
«Estas propiedades hacen que pueda llamar al cuerpo, con todo rigor, mío, e incluso que – en cierto sentido – pueda decir que yo soy- se entiende también- mi cuerpo». La estructura de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 196. 93 «Si, de un lado, lo somático y lo psíquico no se “unen”, sino que, por el contrario, son dimensiones de una unidad real, que es, a la vez, somática y psíquica, de otro lado el cuerpo y la psique no se identifican con el yo que es cada uno de nosotros y que con ellos hace su vida… El yo no se identifica tampoco con el hombre». La realización de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 293. 94 Antropología metafísica, cit., p. 100.
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Grazie alla sensibilità il corpo è dotato di trasparenza, ossia di una permeabilità totale, che consente il transito verso il mondo, mentre opaco è il corpo considerato come cosa tra le cose. Il corpo è trasparente al mondo, ma anche il mondo è trasparente, nel senso che si lascia penetrare dai progetti dell’uomo, “come se le sue frecce fossero raggi luminosi”95. Marías riflette sulla complessità delle sensazioni e sul carattere attivo della sensibilità, che non è una lastra fotografica: ciò che è percepito da un singolo organo di senso può essere, infatti, accessibile anche agli altri. Così l’olfatto può percepire il sapore o la vista può cogliere la durezza, in una prospettiva dove le diverse informazioni sono sintetizzate e ampliate. Questo è il motivo per cui la privazione delle informazioni di un organo di senso può inibire la ricezione delle informazioni di un altro, ad esempio il non vedere l’interlocutore può rendere difficile la percezione del suono da parte dell’udito. D’altra parte, l’immaginazione è capace di integrare i dati incompleti, con un’operazione che Marías chiama “prolungamento immaginativo della percezione sensoriale”96, come accade quando dalla percezione di un odore o di un suono si è in grado di risalire alle caratteristiche dell’elemento che ne è la causa. Il problema nasce quando le nuove tecnologie, introducendo più canali visivi o uditivi o cambiando le modalità di trasmissione, finiscono per alterare il sistema percettivo della sensibilità, modificandone radicalmente il prolungamento immaginativo. Nel momento storico in cui Marías scriveva, questo processo era solo agli inizi, ma la notazione coglie nel segno, riconoscendo che i nuovi mezzi di comunicazione, pur dilatando la nostra esperienza, rischiano di modificare la struttura empirica della vita umana, alterando così la trasparenza del mondo e il nostro modo di abitarlo. È interessante la diversa gerarchia d’importanza che i nostri sensi assumono nel processo conoscitivo, a seconda delle età della vita. Dalla priorità del gusto per il neonato e il bambino, si passa alla centralità del tatto, della vista e dell’udito nell’adulto, su cui si fonda la 95 96
Ivi, p. 103. Ivi, p.105.
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conoscenza di tre aspetti delle cose fondamentali e inseparabili: la realtà, la mondanità, la significazione97. La tangibilità è, infatti, conferma di effettiva realtà di ciò con cui entriamo in contatto. Il tatto è l’organo del possesso, da ciò che è a portata di mano a ciò che viene portato alla bocca98. La vista possiede un carattere speciale rispetto agli altri sensi perché, oltre a mostrarci la presenza del mondo, ci offre una pluralità di elementi e di rapporti che articoliamo in un contesto significativo ad essi anteriore. Il nostro campo visivo prima e più che ottico, è vitale, nel senso che abbracciamo con la vista ciò che per noi ha un significato, mentre escludiamo – più o meno consapevolmente – l’insignificante, ciò che non riesce ad occupare un posto nel nostro orizzonte di senso. Visibile e invisibile non sono pertanto categorie percettive, ma vitali o, addirittura, etiche. Visibile è ciò che può essere organizzato, strutturato in una prospettiva di senso, mentre invisibile è ciò che “non si può vedere” o ciò che “non deve essere visto” e pertanto assume il carattere di “lontano” o, addirittura, di inesistente. Viceversa, la vista è anche in grado di dilatare l’orizzonte percettivo, facendoci proiettare verso ciò che “non si riesce a vedere”99. L’udito ci presenta la mondanità sotto un’altra forma, quella della convivenza. La voce è senz’altro corpo, ma ci offre molto di più: è una sorta di emissario della persona, che si stacca dal corpo e viaggia verso l’altro100. Inoltre la voce non è solo suono, ma è parola, veicolo di significato, condizione indispensabile del processo e dell’espressione del pensiero e pertanto della relazione interpersonale. Nella dinamica del riconoscimento la voce è l’equivalente uditivo del volto: «la voce dice ciò che vuole dire il volto, che si vede, ma che si può anche toccare ed è allora quando prova o conferma la sua realtà, quan97
Ivi, p. 107. I filosofi Derrida e Nancy analizzeranno a fondo il tema del tatto, mettendo in luce anche la questione, non affrontata da Marías, del rapporto tra toccare ed essere toccati, che si accompagna alla relazione interpersonale. Cfr. J. Derrida - J. L. Nancy, Le toucher, Galiléé, Paris 2000; trad. ital. Toccare, Marietti, Milano 2007. 99 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 109. 100 Cfr. ivi, p. 111. 98
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do non si limita ad “essere” nel senso della consistenza, ma sta, nel mondo effettivo»101.
Un altro aspetto interessante della valenza della corporeità, particolarmente attuale nella nostra epoca ossessionata dalla forma fisica, lo si trova in un breve saggio, intitolato Una vision antropológica de la obesidad y la delgadez102. Il peso, riferito al corpo umano, risulta essere una riduzione fisica di qualcosa di molto più complesso. Si tratta di un dato quantitativo che non solo va collocato in un contesto – sia personale che culturale –, ma ha una forte valenza simbolica e oggi acquista addirittura una dimensione valoriale, con evidenti risvolti di carattere emotivo. La categoria del peso va dunque inserita e interpretata all’interno di una prospettiva umana: non è un fatto biologico o somatico, ma personale e biografico, che pertanto va analizzato alla luce di un’antropologia. Il cambiamento culturale osservato da Marías riguarda uno slittamento semantico, che è anche concettuale, segnato dal passaggio ad un’espressione spagnola difficilmente traducibile: da “ser delgado o gordo” (essere magro o grasso) a “estar delgado o gordo” (stare magro o grasso). Con il verbo “estar” la grassezza e la magrezza si trasformano in un’affezione, in un’anomalia, in un difetto, effetto dell’imporsi di un modello corporeo che è normativo e normalizzante. Per il filosofo è indispensabile riferirsi alla categoria dell’installazione corporea, già elaborata nei saggi precedenti103, nella quale si distingue tra “corpo-cosa”, che è parte del mondo, ma da esso separabile e “corpo vivente”, che ha una relazione indissolubile con il mondo (si pensi alla necessità dell’aria per respirare). Siamo installati in un corpo, che, a sua volta, è installato nel mondo. Per questo le proprietà del mondo sono correlative alla corporeità. Da qui che l’espressione più adeguata per esprimere la relazione tra l’io e il corpo non è “ho 101
«La voz dice lo que quiere decir el rostro, que se ve pero también se puede tocar, y es entonces cuando prueba o confirma su realidad, cuando no se limita a “ser” en el sentido de la consistencia, sino que está, en el mundo efectivo». Ivi, p. 111. 102 Inserito in La justicia social y otras justicias, Espasa Calpe, Madrid 1979, pp. 113-120. 103 Cfr. Antropología metafísica, cit., capp. 11, 13, 16.
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un corpo” e neppure “io sono un corpo”, ma “io sono corporeo” o meglio “estoy corporalmente”, espressione non del tutto traducibile in italiano. Grassezza e magrezza costituiscono una determinazione dell’installazione corporea, in quanto la rendono precaria e fragile, producendo un’alterazione nella biografia e dando luogo ai vissuti del disagio, dell’impossibilità, dell’estraneità. Si pensi alla difficoltà di un obeso nell’allacciarsi le scarpe o alla scarsa resistenza fisica di una persona eccessivamente magra. Da risorsa il corpo diventa limite, da facilitatore un ostacolo. Da tale esperienza risulta evidente il carattere biografico e personale del corpo, che non è mai riducibile al semplice organismo. «Il corpo è una delle prime “facilità” della vita umana, ma la magrezza e – molto più gravemente – l’obesità lo convertono in “difficoltà”»104. Il vissuto dell’impossibilità mette in luce il carattere progettuale della vita, in particolare della vita umana, la struttura vettoriale teorizzata da Marías come una categoria inseparabile dalla categoria dell’installazione. Un vettore è una grandezza orientata verso una determinata direzione. Il corpo ha una struttura vettoriale, in quanto dotato di intenzionalità, di apertura al mondo, vive proiettato in avanti105. Grassezza e magrezza acquistano un significato particolare, che rimonta alla distinzione tra “ser” e “estar” proprio in funzione del progetto del singolo. Mentre l’essere grassi o magri rimanda a una costituzione, lo stare grassi o magri ha a che vedere con il progetto del singolo e con il suo minore o maggiore adeguamento ai modelli vigenti, che possono indurre vissuti di anomalia o addirittura di colpevolezza. La riprovazione sociale della grassezza e la preoccupazione ossessiva per il proprio peso secondo Marías stanno modificando radicalmente l’esperienza del prendere cibo. Mangiare è una funzione vitale che va al di là della semplice soddisfazione di una necessità biologica: ha un carattere biografico, simbolico. È un atto conviviale, dove s’intrecciano la comunicazione, l’intimità, la conversazione amicale, la 104 «El cuerpo es una de las primeras “facilidades” de la vida humana, pero la delga-
dez y – mucho más gravemente – la obesidad lo convierten en “dificultad”». Una visión antropológica de la obesidad y la delgadez, cit., p. 116. 105 Cfr. ivi, p. 117.
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condivisione di gusti. In ogni caso, un elemento indispensabile della convivialità è l’ozio (holgura), la distensione del tempo, un ritmo festivo ben diverso da quello del lavoro. La tensione vigilante orientata al conto di calorie e alla quantità delle porzioni priva, invece, il gesto del mangiare di questa innaturale naturalezza e lo rende controllato, sospettoso, nervoso. «Da parte mia, credo che l’equilibrio biografico da cui dipende così essenzialmente la vita si turba con estrema facilità quando si attenta alla spontaneità delle funzioni elementari umane»106. Corporeità significa anche dolorabilità e mortalità, tema quest’ultimo a cui Marías ha dedicato diverse pagine, tra cui gli ultimi due capitoli di Antropologia metafisica107. Mortalità non significa soltanto il poter morire, ma anche il dover morire. L’uomo non solo è esposto alla morte – come rischio o eventualità – ma è orientato ad essa, in quanto elemento della vita umana. La possibilità di morire è estrinseca alla vita, mentre la sua necessità deve diventare intrinseca. Solo così egli può passare dall’essere semplicemente mortalis all’essere moriturus108. Ciò significa che la morte deve trovare non un luogo qualunque, ma il giusto posto nella biografia personale di ciascuno, ossia ricevere senso. Il filosofo prende le distanze da quello che definisce come “mortalismo”, in cui si nota un velato accenno a Heidegger: la teoria che riduce la vita alla morte, perché inverte la reale prospettiva, mentre è la morte ad appartenere alla vita e non viceversa109. Ma respinge anche sia il naturalismo, che considera la morte come un fatto biologico, semplice interruzione delle funzioni vitali, sia la concezione dualista, per cui ad essere soggetto alla morte sarebbe il corpo dell’uomo, mentre l’anima o spirito ne sarebbe esente. In questa prospettiva è come se l’uomo con la morte abbandonasse il corpo a guisa di un rettile che abbandona la pelle e si dileguasse intatto verso l’aldi106 «Por mi parte, creo que el equilibrio biográfico de que depende tan esencialmen-
te la vida se perturba con extremada facilidad cuando se atenta a la espontaneidad de las funciones elementales humanas». Ivi, p. 120. 107 Cfr. La mortalidad humana (pp. 210-217) e Muerte y proyecto (pp. 218-224). 108 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 211. 109 Cfr. ivi, p. 214.
130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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là110. In realtà, se l’uomo è “l’animale che ha vita umana”, indicando con questa formula sia la continuità che la profonda discontinuità – l’abisso ontologico – con il resto del mondo animale, l’umano non riguarda esclusivamente alcune proprietà spirituali e neppure solo determinate facoltà, come l’intelligenza e la volontà, ma la persona in quanto tale: umana è la vita che l’uomo vive, ossia la vita biografica, che in ciascuno assume una forma concreta, una struttura empirica temporale e dunque ha una durata limitata. Tuttavia, la morte riguarda la struttura empirica, ossia la vita dell’uomo e non la vita umana di ciascuna persona, che non si riduce alla prima. La difficoltà di trattare questi temi radica nel fatto che, in fin dei conti, la morte è incomprensibile e la problematicità dell’interrogativo “che sarà di me?” rimanda direttamente all’altro “chi sono io?”. Per spiegare meglio la sua prospettiva, Marías ritiene opportuno ricorrere alle “analogie” della morte, che costituiscono un preannuncio della morte personale111. La forma analogica della morte altrui è l’assenza, quella rottura della convivenza che sperimentiamo quando una persona cara parte, transitoriamente o definitivamente, ma che non interrompe il legame sentimentale che si è venuto a creare. Analogie della morte propria, che non è possibile sperimentare, sono invece il sonno, l’anestesia profonda, lo svenimento, l’incoscienza. Sono tutte situazioni in cui il corpo diventa opaco, nel senso che non lascia trasparire il mondo e che, pertanto, sono causa di una radicale solitudine. Secondo un’antropologia non dualistica, all’affermazione “io ho un corpo”, occorre sostituire “io sono corporeo” e all’altra “sono il mio corpo”, preferire “il corpo è mio”. In questa prospettiva, la morte, producendo l’espulsione dalla propria installazione corporea e dunque dal mondo, da essa inseparabile, comporta la morte di tutto l’uomo e non solo del suo corpo: «giacché io sono mondano nel senso concreto che lo sono perché sono corporeo e sto corporalmente in un mondo che per questo è corporeo, questa “espulsione” altera radicalmente la mia installazione 110 111
Cfr. ivi, p. 216. Cfr. ivi, pp. 218-219.
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mondana e, di conseguenza il mio carattere circostanziale. Tuttavia, siccome la circostanza è un ingrediente essenziale della mia realtà e io non sono concepible senza di essa – contro ogni idealismo e ogni “realismo” surrettizio dell’“anima” – la morte riguarda la realtà della mia vita nel suo significato radicale»112.
D’altra parte, siccome la vita è la realtà radicale, possiede un’apertura metafisica, una proiezione verso la trascendenza. In altri termini, l’uomo è mortale, ma la vita umana è aperta all’immortalità: «“ciò che” io sono è mortale, ma “chi” io sono consiste nella pretesa di essere immortale e non può essere considerato diversamente, perché la mia vita è la realtà radicale»113. Il carattere drammatico della vita umana risiede in questa tensione tra la finitezza e la durata, tra la chiusura del tempo e l’apertura all’eterno: in questo conflitto l’uomo realizza se stesso. «La vita mortale – i giorni contati –, tesa tra la nascita e la morte, è il tempo in cui l’uomo sceglie se stesso, non ciò che è, ma chi è, in cui inventa e decide chi vuole essere (e non finisce di essere). Possiamo immaginare questa vita come la scelta dell’altra, l’altra come la realizzazione di questa»114.
112 «Yo soy mundano en el sentido concreto en que lo soy porque soy corpóreo y estoy corporalmente en un mundo que por ello es corporal, esa “expulsión” altera radicalmente mi instalación mundana y, por consiguiente mi carácter circunstancial. Pero como la circunstancia es un ingrediente esencial de mi realidad y yo no soy concebible sin ella – frente a todo idealismo y todo “realismo” subrepticio del “alma” – la muerte afecta a la realidad de mi vida en su sentido radical». Ivi, p. 220. 113 «“Lo que” yo soy es mortal, pero “quién” yo soy consiste en pretender ser inmortal y no puede imaginarse como no siéndolo, porque mi vida es la realidad radical». Ivi, p. 222. 114 «La vida mortal – los días contados –, tensa entre el nacimiento y la muerte, es el tiempo en que el hombre se elige a sí mismo, no lo que es sino quién es, en que inventa y decide quién quiere ser (y no acaba de ser). Podemos imaginar esta vida como la elección de la otra, la otra como la realización de ésta». Ivi, p. 223.
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2.6 Fenomenologia del volto e della carezza La fenomenologia del volto fa riferimento al “carattere frontale” della persona umana, poiché esprime la dimensione proiettiva, vettoriale del corpo, orientata al futuro e alla relazione interpersonale115. Nel volto si manifesta in modo eminente il carattere personale e biografico del corpo: ne è una parte privilegiata, in quanto lo rappresenta come se vi si condensasse. Nella lingua spagnola, volto è reso da tre termini: cara, rostro, faz. Il primo termine, utilizzato anche per il mondo animale, deriva dal latino caro (carne) e dà origine a caricia (carezza) e a careta (maschera). Rostro, invece, dal latino rostrum, che indicava in passato anche la prua della nave, segnala il volto umano, con la sua derivazione anche da os (bocca), che fa riferimento alla voce e alla parola. Faz, invece, dal facies latino, indica il viso, il sembiante, ciò che si mostra alla vista. Nel volto, che rende possibile l’incontro a tu per tu, il soggetto è identificabile, localizzabile e intellegibile. Nel caso di una persona addormentata o anestetizzata oppure nel caso del cadavere, appare il corpo nel volto, ma resta nascosta o assente la persona e la funzione di presenza esercitata dal volto risulta interrotta o soppressa. Da qui la gravità delle deformazioni o mutilazioni del volto, che provocano un’alterazione profonda nella percezione della propria identità e nella relazione di riconoscimento. La bellezza del volto ha un carattere sovrautilitario, che non è finalizzato ad alcuna funzione fisiologica: la perfezione delle linee del naso o degli occhi non sono certo in funzione di una migliore percezione degli odori o dei colori116. Eppure è la parte del corpo che maggiormente attrae o respinge, quella in cui tradizionalmente si è giudicato che risiedesse la bellezza. Per questo motivo, appare paradossale che sempre di più la bellezza femminile si attribuisca a un complesso di forme e di misure che si riferiscono ad altre parti del corpo che non sono il volto: è il corpo che appartiene a un volto e non viceversa. 115 116
Cfr. El rostro humano, in ivi, pp. 42-43, 128-134. Cfr. La mujer en el siglo XX, p. 148.
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Il viso è una struttura drammatica, che rispecchia il farsi, lo svolgersi della vita della persona e allo stesso tempo il suo star vivendo, la sua identità117. Ha un carattere programmatico, perché esprime il progetto vitale della persona:
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«per questo è interessante, con un interesse che non è meramente plastico – e pertanto contemplativo – ma letteralmente drammatico. Dovremmo dire che non “vediamo” il volto umano, piuttosto “assistiamo” ad esso»118.
In un certo senso, più che oggetto di percezione, un volto è oggetto di contemplazione per la sua mobilità che riflette il carattere dinamico della persona, per cui si può considerare “la traduzione somatica” di un progetto vitale e di una biografia119. Da qui l’interesse della fisiognomica che, pur con le dovute cautele, Marías riabilita, a condizione di non ridurla a un’analisi schematica di lineamenti e di espressioni. In realtà, ogni volto è un testo da decifrare, che risulta poco comprensibile se non se ne conosce l’alfabeto, come accade con i soggetti dalle caratteristiche somatiche molto diverse dalle nostre, o se lo si guarda distrattamente. Le dinamiche del riconoscimento hanno il loro punto focale proprio nel volto. Nel caso di un rapporto istituzionale, ci si limita all’identificazione, anche grazie ad altri elementi relativi al contesto abituale della persona120. Nel caso invece di un incontro interpersonale, ad esempio quando si rivede una persona cara dopo qualche tempo, si è portati spontaneamente a fare un bilancio dei suoi mutamenti impercettibili, che alludono all’età, alla salute, allo stato d’animo. In questa relazione, non soltanto identifichiamo l’altro, ma cerchiamo anche “dove va”, considerandolo nella sua dimensione progettuale, il che significa comprenderlo come persona. Le articolazioni delle 117
Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 131. «Por eso es interesante, con un interés que no es meramente plástico – y por tanto contemplativo – sino literalmente dramático. Deberíamos decir que no “vemos” el rostro humano, sino que “asistimos” a él». Ivi, p. 132. 119 Cfr. ivi, p. 133. 120 Cfr. Mapa del mundo personal, cit., p. 20. 118
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relazioni personali sono costituite da questa “presenza del futuro” che si dà in gradi e forme diverse121. Occorre comunque coltivare una particolare sensibilità per realizzare un’ermeneutica del volto, riuscendo a cogliere ciò che rivela e ciò che talvolta nasconde. Se con il volto si può esprimere se stessi, è anche vero che si può fingere ciò che non si è. In questo caso il volto non è rivelatore e si trasforma in una maschera: «Ciò non toglie interesse e importanza alla visione del volto e alla sua espressione, al contrario. Ma obbliga a uno sforzo maggiore […] per uno sguardo attento e perspicace, proprio questa situazione apre un ambito di trasparenza: si può vedere quali persone hanno l’espressione propria, quella che gli appartiene e quali invece ce l’hanno dissimulata, repressa o negata»122.
Nel corpo e soprattutto nel volto è infatti possibile leggere la biografia personale: ciò che si è e ciò che si vuole essere. Basta pensare a come una donna si pettina, si trucca o si veste, per comprendere cosa desidera essere e come desidera essere considerata. Il corpo è dunque un sistema di significati e, in quanto tale, costituisce un’opera d’arte, l’oggetto estetico per eccellenza. Se infatti un’opera d’arte è tale in quanto simbolo estetico dell’intenzione dell’artista, il corpo umano è già un’opera d’arte, in quanto espressione di un’intimità e di un progetto vitale123. È proprio dal volto che parte l’analisi delle due forme radicali della vita umana: quella maschile e quella femminile. Il volto possiede un grado massimo di sessuato, in quanto esprime in modo eminente il carattere maschile o femminile, mentre ha un grado minimo di attrattiva sessuale. Non costituisce, infatti, una zona erogena, mentre 121
Cfr. ivi, p. 21. «Esto no quita interés e importancia a la visión del rostro y su expresión; al contrario. Pero obliga a un esfuerzo mayor […] para una mirada atenta y perspicaz, precisamente esta situación abre un ámbito de transparencia: se puede ver qué personas tienen la expresión propia, la que les pertenece, y las que la tienen disimulada, cohibida, o negada». Ivi, pp. 32-33. 123 Cfr. La realización de la vida humana, in Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, pp. 311-312. 122
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è massimamente erotica, in quanto è il punto di orientamento della relazione amorosa124. Il volto maschile e quello femminile producono un’aspettativa diversa, che può essere soddisfatta o frustrata al loro apparire: alla gravità e alla serietà che si ricerca nel primo, corrisponde la bellezza che invece si auspica nel contemplare un volto femminile125. Non si tratta, naturalmente della semplice perfezione dei lineamenti, ma di quella che Marías definisce “bellezza personale femminile”126, chiamata anche grazia, che si richiama contemporaneamente alla dimensione del dono e della levità. Il carattere progettuale della persona appare centrale anche nella trattazione della fenomenologia della carezza, che Marías collega al processo che definisce di “personalizzazione corporea”. Si tratta del lento e graduale sviluppo di un soggetto che, pur essendo persona fin dal concepimento, prende man mano possesso di sé e riesce a manifestare ciò che già era fin dall’inizio. Questo processo va di pari passo con la presa di possesso della realtà e con il costituirsi di una rete di rapporti che vanno a comporre un mondo personale, la propria circostanza127. La carezza ha un ruolo importante, soprattutto nello stadio dell’infanzia: «Il rapporto che si stabilisce tra l’adulto e il bambino è corporeo, ma primariamente consiste nella carezza, soprattutto da parte della madre. Questo significa la personalizzazione della corporeità. Il corpo accarezzato si interpreta come corpo personale […] Il bambino è essenziale che sia accarezzato – e subito risponde allo stesso modo –. La carezza è il grande strumento di personalizzazione, che risveglia, accelera, completa la costituzione della persona. Da essa dipende in gran parte la prontezza e la perfezione di qualcosa che, come tutto l’umano, è variabile e insicuro»128. 124
Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 129. Cfr. ivi, p. 141. 126 Ivi, p. 143. 127 Cfr. Persona, Alianza Editorial, Madrid 1996, p. 130. 128 «La relación que se establece entre la persona mayor y el niño es corporal, pero primariamente consiste en caricia, sobre todo por parte de la madre. Esto significa la personalización de la corporalidad. El cuerpo acariciado se interpreta como cuerpo 125
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Come accennato in precedenza, già altri pensatori in Spagna avevano trattato della carezza, tra cui José Gaos, che ci ha lasciato un vero e proprio trattato sul tema. Significative sono le riflessioni in proposito del medico e filosofo Juan Rof Carballo, che vede nella carezza in quanto espressione della tenerezza materna la condizione perché l’essere umano completi la sua nascita. A epigrafe del suo saggio Medicina y actividad creadora, aveva posto quei versi in cui Virgilio paragona il lavoro del poeta che cura e ritocca le sue poesie a quello dell’orsa, che dà forma ai figli passando su di essi la lingua e carezzandoli. Per il medico spagnolo la similitudine di Virgilio si trasforma in una profonda verità antropologica: “senza l’amorevole ritocco della carezza”, l’essere umano non termina la sua nascita, ossia non giunge alla piena maturità come persona. Vi è, pertanto, un profondo collegamento tra la carezza e la urdimbre, categoria centrale nel pensiero di Rof Carballo, che è quella trama originaria di relazioni che strutturano fin dall’inizio la persona, facendo sì che si senta accudita e si apra al mondo, che sperimenti l’affetto e la sicurezza della protezione129. Critico nei confronti di molti aspetti della antropologia freudiana, Rof Carballo respinge l’interpretazione psicoanalitica che aveva ricondotto la carezza esclusivamente all’éros, assegnandole una spiccata carica sessuale e invece riconosce in questo gesto umano una maggiore complessità. A suo avviso, la carezza esprime un bisogno fondamentale nella vita umana: il bisogno di tenerezza. Non soltanto la tenerezza non ha la stessa radice dell’eros e non è, come intendeva la psicoanalisi, una forma di sessualità repressa, ma anzi per le sue manifestazioni si contrappone nettamente alla sensualità. Infatti, mentre la sensualità è caratterizzata dalla tensione crescente che termina con lo sfogo esplosivo della soddisfazione libidinosa, la tenerezza si esprime nella prossimità sempre uguale, sia spirituale che personal […] Respecto del niño, es esencial que sea acariciado – y pronto responde del mismo modo –. La caricia es el gran instrumento de personalización, que despierta, acelera, completa la constitución de la persona. De ella depende en alto grado la prontitud y perfección de algo que, como todo lo humano, es variable e inseguro». Mapa del mundo personal, cit., p. 44. 129 Cfr. J. Rof Carballo, Medicina y actividad creadora, Revista de Occidente, Madrid 1964, p. 214.
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fisica, che stabilisce un legame permanente con l’altro, di protezione e di rifugio130. C’è, infatti, una corrispondenza tra tenerezza e rifugio, inteso come cavità originaria che ha accolto chi sta per nascere o è appena nato, per proteggerlo e rassicurarlo. La tenerezza ci svela una verità antropologica, perché manifesta la necessità che ciascuno ha di protezione e di conferma della propria identità; considerata come una modalità di rapportarsi con gli altri, essa racchiude un’importante valenza epistemologica e persino etica. In questa prospettiva, infatti, la tenerezza è una manifestazione autentica della capacità di conoscere le cose senza interpretarle con violenza, lasciando rispettosamente che siano nella propria essenza131. Sa essere tenero chi non forza la realtà o le persone, ma cerca il modo più adeguato per accostarsi ad esse e per confermare il loro bisogno di rispetto. Rof Carballo applicherà queste considerazioni anche all’esercizio della medicina, come necessità di un tocco delicato132. Anche Pedro Laín Entralgo, nel suo saggio dedicato al rapporto tra medico e malato, assegnerà un posto centrale al tocco, attribuendo all’esplorazione tattile e alla palpazione compiuta dal medico non soltanto un significato conoscitivo e oggettivante, ma anche un significato interpersonale133. Al pari della carezza, si tratta di un gesto di riconoscimento, con il quale ci si rapporta al corpo del malato come a un organismo in cui si fa tangibile una persona.
2.7 Vivere è essere installati in un corpo sessuato La distinzione tra i sessi è, secondo Marías, la determinazione della struttura corporea più difficile da analizzare teoricamente, in quanto eccede la dimensione somatica. La differenza tra sessuato e sessuale può costituire un primo elemento chiarificatore. Sessuato fa riferimento a una condizione, dalla quale dipende l’attività sessuale. Pur 130
Cfr. ivi, p. 212. Cfr. ivi, p. 214. 132 Cfr. ivi, p. 215. 133 Cfr. P. Laín Entralgo, La relación médico-enfermo. Historia y teoría, Revista de Occidente, Madrid 1964, p. 341. 131
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essendo una determinazione essenziale e non accidentale della struttura corporea, il carattere sessuato non appartiene, però, alla nozione di vita umana esaminata dalla teoria analitica della vita. In questo senso, Marías non condivide la critica ad Heidegger – che muoverà in seguito anche Derrida134 – secondo cui il filosofo tedesco avrebbe teorizzato un Dasein asessuato. Heidegger – afferma Marías – non si muove sul piano empirico, ma sul piano analitico, in cui non rientra la dimensione del sesso135. Come va inteso il principio di distinzione tra i sessi: è una categoria, una differenza accidentale o altro? Il filosofo spagnolo cerca di rispondere procedendo per esclusione. Considerare una categoria la distinzione tra i sessi pone un problema teorico. Non si può, infatti, ricondurre a una differenza specifica, altrimenti avremmo due specie del genere Homo e la riproduzione darebbe luogo a un ibrido. Non si tratta neppure di una differenza accidentale, da assimilare a predicati come l’altezza o il colore della pelle. Si tratta piuttosto di una determinazione strutturale. Marías propende verso la considerazione della distinzione come un proprium, l’idion di Aristotele, ossia come una modalità radicale di installazione nella circostanza, una determinazione della struttura empirica della vita, che si realizza sempre in una disgiunzione circostanziale136. In altri termini, la mia vita, che si distingue dalla vita umana in generale, si realizza disgiuntivamente, in quanto è la vita di ciascuno e una delle forme di questa disgiunzione è la distinzione uomo/donna. Non si tratta di una divisione né di un’opposizione, piuttosto di un legame che tiene assieme i due estremi, stabilendo tra essi un rapporto di polarità: «Per questo possiamo dire che ciascun sesso co-implica l’altro, o in un modo più diretto ed efficace, complica l’altro. La condizione sessuata non consiste nei termini della disgiunzione, ma nella disgiun134
Cfr. J. Derrida, Geschlecht. Différence sexuelle, différence ontologique, Cahier du l’Herne, Paris 1983; trad. ital. Differenza sessuale, differenza ontologica in Psyché, vol. 2, Jaca Book, Milano 2009, pp. 15-38. 135 Cfr. La estructura corpórea de la vida humana, Obras, cit., vol. VIII, p. 611; cfr. anche Antropología metafísica, cit., p. 121. 136 Cfr. La estructura corpórea de la vida humana, Obras, cit., vol. VIII, p. 612.
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zione stessa, vista alternativamente da ciascuno dei suoi termini. La vediamo da ciascuno di noi, in quanto riferito al sesso contrario. Non posso comprendere la realtà “donna” senza co-implicare la realtà “uomo” e viceversa»137.
La relazione tra i sessi è una ulteriore manifestazione del carattere proiettivo dell’esistenza umana e crea una sorta di campo magnetico nella convivenza, che non è statica, ma dinamica. La sessualità si esercita a partire dalla condizione sessuata, ma non può essere ridotta a questa. Marías osserva che la filosofia ha pressoché ignorato per secoli la questione della dimensione sessuata, non tematizzandola adeguatamente, mentre la dimensione sessuale è stata indagata sempre più a fondo dalla biologia, dalla fisiologia e dall’anatomia. E se alla psicoanalisi freudiana va attribuito il merito di aver assegnato al sesso il giusto posto nell’antropologia, va anche riconosciuto il suo errore di averne dato un’interpretazione “sessuale” e non sessuata, finendo così per rendere inintellegibili tante manifestazioni della vita umana138. Freud non ha distinto il sessuato dal sessuale, rendendo il primo secondario rispetto al secondo e producendo un’ipertrofia del sessuale che ha danneggiato la giusta considerazione da assegnare alla condizione sessuata, come modalità fondamentale di installazione nella realtà, non solo biologica, ma psichica e sociale. L’essere umano “è installato” nel proprio sesso, nella condizione di uomo o di donna, che costituisce la modalità concreta della sua corporeità e pertanto della sua mondanità, da cui dipendono tutte le altre strutture empiriche. Tuttavia, a motivo del carattere vettoriale, cioè proiettivo della vita umana, ciascuno dei due sessi si proietta verso l’altro. «La condizione sessuata, lungi dall’essere una divisione o separazione in due metà, che scinde mezza umanità dall’altra mezza, riferisce 137 «Por esto podemos decir que cada sexo co-implica al otro, o de una manera más directa y eficaz, complica al otro. La condición sexuada no consiste en los términos de la disyunción, sino en la disyunción misma, vista alternativamente desde cada uno de sus términos. La vemos desde cada uno de nosotros, en cuanto referido al sexo contrario. No puedo entender la realidad “mujer” sin co-implicar la realidad “varón”, y a la inversa», p. 613. 138 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 125.
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l’una all’altra, fa sì che la vita consista nell’esserci di ciascuna frazione dell’umanità con l’altra (e dico frazione, perché la sessualità “rompe” la totalità umana in due parti che si reclamano, ciascuna delle quali presenta la sua linea di frattura o, il che è lo stesso, la sua intrinseca insufficienza)»139.
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La dimensione dinamica e il carattere proiettivo della vita umana si manifestano pertanto nel reciproco orientamento dei due sessi, di modo che l’uno è tale in riferimento e di fronte all’altro. Si tratta di una dimensione ineludibile, che costituisce la prospettiva e l’orizzonte di qualsiasi esperienza, giacché non esistono comportamenti asessuati. Ciò che nell’uomo non è sessuato, non è neppure umano140. «Ogni realtà, persino le più remote dalla sessualità – il mangiare, la comprensione di un teorema matematico, la contemplazione di un paesaggio, un atto religioso, il vissuto di un pericolo – si vive a partire dall’installazione nel sesso e, di conseguenza, in un contesto e da una prospettiva che non si può ridurre all’altra»141.
L’irriducibilità della dimensione sessuata a quella sessuale è un aspetto di grande rilevanza antropologica che Marías cerca di esemplificare nelle sue manifestazioni. Ad esempio, a differenza della sessualità animale, che è transitoria e relativa alle epoche dell’accoppiamento, è proprio la condizione sessuata a spiegare la permanenza della funzione sessuale nell’uomo, che non è regolata solo da un orologio biologico e proprio per questo può essere esercitata intenzionalmente 139
«La condición sexuada, lejos de ser una división o separación en dos mitades, que escindiese media humanidad de la otra media, refiere la una a la otra, hace que la vida consista en habérselas cada fracción de la humanidad con la otra (y digo fracción porque la sexualidad “rompe” la totalidad humana en dos partes que se reclaman, cada una de las cuales presenta su línea de fractura o, lo que es igual, su intrínseca insuficiencia)». Ivi, p. 123. 140 Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., p. 158. 141 «Toda realidad, incluso las más remotas de la sexualidad – el comer, la comprensión de un teorema matemático, la contemplación de un paisaje, un acto religioso, la vivencia de un peligro – se vive desde la instalación en el sexo y, por consiguiente, en un contexto y desde una perspectiva que no se puede reducir a la otra». Antropología metafísica, cit., p. 124.
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in un preciso momento o, al contrario, procrastinata. Inoltre, mentre la condizione sessuata riguarda la vita intera, l’elemento sessuale si riferisce solo a certi aspetti e momenti dell’esistenza: tutte le azioni che compongono la condotta umana sono sessuate, ossia realizzate a partire da una condizione maschile o femminile, ma non tutte le azioni hanno carattere sessuale142. La dimensione biografica della condizione sessuata è approfondita da Marías in diversi scritti143, in cui ritroviamo più volte sia la distinzione tra sessuato e sessuale, appena menzionata, sia il rifiuto di un’antropologia della neutralità dei sessi, che annullando la differenza può produrre effetti inquietanti. In La figura viril de la vida humana, Marías sottolinea gli elementi di carattere culturale che indubbiamente accompagnano e hanno accompagnato nei secoli le immagini della virilità e della femminilità, che pertanto hanno subito variazioni. Tuttavia mette anche in luce che il cambiamento non interessa la funzione di polarità reciproca dei due termini, che costituisce un elemento stabilizzatore e unificante. «Tutte le forme di essere uomo e di essere donna, per grande che sia la loro varietà, sono raggruppate dal fatto che in ogni caso si è uomo di fronte alla donna e, pertanto, da questa molteplicità deriva una funzione schematica»144.
Questo è il motivo per cui Marías respinge con decisione qualsiasi idea di uguaglianza indifferenziata tra uomo e donna, propendendo, invece, per una concezione che definisce di «equilibrio dinamico costituito da disuguaglianza e tensione, che mantiene l’uomo e la donna
142
Cfr. La educación sentimental, Alianza Editorial, Madrid 1992, p. 255. Si tratta di due capitoli di Antropología metafísica, intitolati: La figura viril de la vida humana (pp. 135-141) e Razón vital: masculina y femenina (pp. 149-155) oltre agli scritti più direttamente dedicati alla donna, alla sua natura e al suo ruolo, che saranno esaminati nel capitolo 2.9. 144 «Todas las formas de ser varón y de ser mujer, por mucha que sea su variedad, estan agrupadas por el hecho de que en cada caso se es varón frente a la mujer y, por tanto, se desprende de esta multiplicidad una función esquemática». Antropología metafísica, cit., p. 136. 143
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alla pari, proprio perché sia possibile la forza e pienezza del loro incontro, il loro confronto, la loro polarità attiva»145. L’inseparabilità della dimensione biologica del corpo da quella biografica, storica, sociale appare evidente nella dinamica del riconoscimento. Nell’incontro con l’altro non percepiamo semplicemente un corpo nella sua configurazione anatomica, ma un soggetto e un soggetto sessuato. Ne è una dimostrazione il disorientamento che si prova di fronte all’impossibilità di identificare con sicurezza, ad esempio dal volto, il sesso di qualcuno, con la necessità di dover ricorrere all’informazione dei caratteri sessuali primari. Ciò significa che la distinzione uomo/donna, pur rispondendo a una connotazione fisica, viene percepita entro un determinato linguaggio ed è portatrice di un insieme di significati personali e sociali. In Razón vital: masculina y femenina146, Marías, ribadendo l’idea che la condizione sessuata riguarda la totalità della vita, dalla dimensione fisica a quella mentale, si interroga sulla specificità della razionalità femminile, così ingiustamente svalutata da una certa tradizione filosofica e psicologica. Più di dieci anni prima delle riflessioni della psicologa statunitense Carol Gilligan in A different voice147, Marías respinge l’accusa di illogicità della donna, chiedendosi se non esista piuttosto una modalità specificamente femminile di esercitare l’intelligenza. Ma per rispondere occorre definire previamente cosa si intenda per ragione, in modo da sgombrare il campo da concezioni riduttive che assumono la parte per il tutto. Ragione, per Marías significa capacità di “apprensione della realtà nella sua connessione”148 e realtà è “ciò che incontro, così come lo incontro”, inseparabile dall’io che la vive e vi si affaccia da una determinata prospettiva. Per questo, con termini orteghiani la ragione 145
«Equilibrio dinámico hecho de desigualdad y tensión, que mantiene al hombre y a la mujer a la par, precisamente para que sea posible la fuerza y plenitud de su encuentro, su enfrentamiento, su polaridad activa». Ivi, p. 140. 146 Cfr. ivi, pp. 149-155. 147 Cfr. C. Gilligan, In a different voice: Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Harvard 1982; trad. ital. Con voce di donna. Etica e e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987. 148 Antropología metafísica, cit., p. 151.
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è “la vita stessa nella funzione di apprensione della realtà”149. Non è la ragione a giustificare la vita, ma è la vita a “dar ragione” della realtà, che permette di comprenderla nella sua articolazione. Data questa definizione, è evidente che poiché la vita si presenta in forma disgiuntiva, dell’uomo e della donna, anche la ragione sarà connotata da questa disgiunzione e assumerà due modalità diverse di esercizio. A livello della logica pura, a un certo grado di astrazione, non si riscontra una differenza tra l’intelligenza maschile e quella femminile. Quando invece si tratta di realtà concrete, radicate nella vita, ecco che appare un diverso approccio, dovuto al sistema interpretativo utilizzato, che è condizionato dalla “circostanza” sessuata, origine di una differente struttura biografica, progettualità, contesto culturale passato e presente. Vi sono oggetti, fenomeni, atteggiamenti che hanno un senso diverso per l’uomo da quello che hanno per la donna. «Le connessioni della realtà sono differenti; i rapporti di appartenenza, accessibilità, resistenza, esclusione; le valutazioni – ciò che conviene o sta bene, ciò che decet, vale a dire, il decente o l’indecente – ; il carattere di promessa o minaccia; la condizione di persecutore o perseguitato, di cacciatore o cacciato; tutto ciò si articola secondo la dualità sessuata»150.
L’uomo si muove prevalentemente seguendo progetti di vasta portata, mentre alla donna per tradizione è stato assegnato un mondo ridotto, in cui ha dovuto attendere l’iniziativa maschile. D’altra parte, pur svolgendo le stesse identiche attività, l’uomo e la donna si muovono per motivi diversi e perseguono scopi spesso differenti. La difficoltà maschile a comprendere i percorsi logici della donna, che spesso conduce a concludere della sua irrazionalità, è causata dalle diverse prospettive di interesse che costituiscono altrettanti mondi differenti, 149
Ibidem. «Las conexiones de la realidad sono diferentes; las relaciones de pertenencia, accesibilidad, resistencia, exclusión; las valoraciones – lo que conviene o está bien, lo que decet, es decir, lo decente o indecente –; el carácter de promesa o amenaza; la condición de perseguidor o perseguido, de cazador o cazado; todo ello se articula según la dualidad sexuada». Ivi, p. 153. 150
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dove altrettanto differenti sono i progetti e i sistemi di credenze. La figura femminile, ossia la sua personalità si caratterizza per un’intimità particolarmente ricca, che la rende capace di creare stabilità, radicandosi in una dimora. La donna è “l’inventrice del dentro casa, del chez soi, del focolare” in cui si riflette la sua personalità, pur non limitandosi a questo confine151. Secondo Marías, è mancato un pensiero maschile sulla donna, capace di renderne intellegibile la specificità, non una teoria, ma un pensiero in grado di penetrare nella vita: «Solo quando l’uomo e la donna, ciascuno installato nel proprio sesso, si proiettano l’uno verso l’altro e insieme verso la loro duplice vocazione personale, è possibile che si rendano reciprocamente trasparenti; e solo questa duplice vita è capace di mettere in marcia l’integrità della ragione vitale»152.
Lo stile di pensiero femminile corre il rischio di una visione frammentaria, più attenta ai dettagli, ma meno incline alle visioni d’insieme. E siccome tradizionalmente per ragione si è intesa la ragione maschile, la modalità femminile di comprensione della realtà è stata misconosciuta e la donna ha dovuto storicamente “entrare” nel mondo dell’uomo, per prevederne la condotta e anticiparne le mosse. Da qui l’acume dell’intelligenza femminile, ma anche il suo limite, che si rende evidente soprattutto nella donna intellettuale: lo sperimentarsi interiormente divisa, tra le possibilità offerte dall’aver avuto accesso ad una cultura tradizionalmente “maschile” e l’appartenenza a stili di vita e principi tipicamente “femminili”. Secondo il filosofo, solo evitando due atteggiamenti, quello di imitare il maschile e quello di rifuggirlo con risentimento, la donna potrà davvero apportare un contributo significativo per rischiarare problemi sinora irrisolti, perché in attesa di una diversa modalità di esercizio della ragione.
151
Ivi, p. 145. «Sólo cuando el hombre y la mujer, instalados cada uno en su sexo, se proyectan el uno hacia la otra y juntos hacia su doble vocación personal, es posible que se hagan mutuamente transparentes; y sólo esa vida doble es capaz de poner en marcha la integridad de la razón vital». Ivi, p. 155. 152
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Proseguendo nell’analisi degli elementi che costituiscono la struttura empirica della vita umana, Marías giunge alla trattazione dell’amore153, tema caro anche a Ortega. La sua analisi prende le mosse dalla condizione indigente dell’essere umano. Il termine spagnolo menesterosidad, difficile da tradurre letteralmente, indica una situazione permanente e non transitoria di bisogno – il che mostra la differenza con il bisogno sperimentato dall’animale, che cessa una volta soddisfatto – una situazione carenziale, ma contemporaneamente contiene anche un riferimento a un incarico da svolgere, per il significato del termine spagnolo menester (dovere, compito). Marías la definisce come la dimensione attiva del bisogno: «quelle cose di cui ho bisogno, pur possedendole, mi sono necessarie, costituiscono il mio ministero, compito o occupazione, giacché non sono “io”, ma con esse faccio la mia vita»154. Quindi tutto ciò che l’uomo sperimenta come mancanza, diventa per lui anche una tendenza, una spinta a desiderare che è alla base del carattere drammatico della vita umana. Tutto ciò che l’uomo sperimenta come bisogno, anche a livello organico, assume una connotazione biografica e personale. Si pensi al bisogno di alimentarsi, che è sempre soddisfatto in modo culturale; al bisogno di uno spazio ulteriore a quello occupato dal proprio corpo, al bisogno di realizzare le tendenze della creatività. Le stesse esigenze organiche assumono sempre nell’uomo una connotazione biografica e personale: «paragoniamo una necessità con la “medesima” necessità organica: il mio organismo ha bisogno, ad esempio, di una certa quantità di sale e di zucchero; se metto la prima in una tazza di caffè e la seconda in un paio di uova fritte, non c’è nessun problema; non c’è per il mio organismo, ma c’è per me, che ho bisogno esattamente del sale nelle uova e dello zucchero nel caffè»155. 153 Cfr. La condición amorosa, pp. 156-163; Amor y enamoramiento, pp. 164-171, in Antropología metafisíca, cit. 154 «Aquellas cosas que yo necesito, aun teniéndolas, me son menester, constituyen mi ministerio, oficio u ocupación, ya que no son “yo”, pero con ellas hago mi vida». Ivi, p. 156. 155 «Compárese una necesidad con la “misma” orgánica: mi organismo necesita, por ejemplo, cierta cantidad de sal y de azúcar; si pongo la primera en una taza de
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Il bisogno degli altri si presenta con una caratteristica particolare, perché non può essere motivato in modo immediato e generico, come il bisogno di aria o di luce, ma piuttosto richiede un “argomento”, la narrazione di una storia che corrisponde a una porzione della propria biografia. Questo bisogno di relazione si manifesta come tendenza a entrare in rapporto con persone dello stesso sesso – è il caso dell’amicizia – o come proiezione verso l’altro sesso.
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2.8 La condizione amorosa La condizione sessuata fa sì che uomo e donna si trovino in una relazione di reciprocità, sperimentando il bisogno radicale di proiettarsi l’uno verso l’altro, per realizzare non una semplice coesistenza, ma una convivenza dinamica e attiva. Questo bisogno (menesterosidad) è la premessa della condizione amorosa, che Marías analizza alla luce della categoria dell’installazione, prendendo le distanze da una spiegazione puramente psicologica156. Dal punto di vista della teoria analitica, il fondamento della condizione amorosa è la menesterosidad; a livello della struttura empirica, è la condizione sessuata dell’essere umano, che stabilisce una disgiunzione polare, reciproca e proiettiva, in cui la condizione di bisogno si realizza nella possibilità amorosa157. L’amore, infatti, non è per Marías né un semplice sentimento né un insieme di atti, quanto piuttosto una realtà della vita biografica, una determinazione dell’installazione umana, nella quale ci si trova e dalla quale si realizzano atti specifici. Lo stesso prefisso “in” che ritroviamo nei termini “in-namorarsi” e “in-namoramento” indica una situazione che riguarda la vita personale e biografica, non un semplice atto. Per questo motivo, la condizione amorosa è cosa ben diversa dall’essere innamorati: mentre non si può dubitare di provare un sentimento nel momento in cui lo si prova, occorre invece chiedersi se café y la segunda en un par de huevos fritos, no hay inconveniente; no lo hay para mi organismo, pero sí para mí, que necesito precisamente la sal en los huevos y el azúcar en el café». Ivi, p. 157. 156 Cfr. ivi, p. 158. 157 Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., p. 219.
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davvero ci si trova in quella situazione – definita come amore – di totale proiezione e donazione verso la persona dell’altro. Da qui la distinzione – non del tutto traducibile in italiano – tra “enamoración” e “enamoramiento”: il primo è un fenomeno dell’attenzione, che scopre nell’amato qualità per altri nascoste, mentre il secondo è l’installazione, la condizione amorosa per la quale l’uomo e la donna si proiettano l’uno verso l’altro, condividendo la propria biografia. A Marías non sfugge la polisemia del termine “amore”, utilizzato per molti oggetti, dai più spirituali ai più materiali158. Egli ritiene tuttavia che sia un errore partire da un concetto generico e indifferenziato di amore e cercare poi di mostrare le differenze tra le varie tipologie, per giungere a definire cosa sia l’amore tra uomo e donna. Il percorso deve essere esattamente contrario. Non è l’amore tra uomo e donna a differenziarsi dalle altre forme di amore, piuttosto tutte le realtà affettive si ordinano e acquistano un significato biografico alla luce della condizione amorosa, che è originaria, perché deriva dalla struttura essenziale della vita umana e dalla sua struttura empirica. Ciò non significa che tutti gli “amori” debbano essere assimilati ad essa, ma che la possibilità stessa di amare si colloca all’interno della modalità fondamentale dell’amore sessuato, rispetto al quale tutte le altre forme di amore sono omologhe e derivate. Egli considera la condizione amorosa una sorta di “luogo ontologico”159, un nucleo radicale e originario, il cui fondamento risiede nel fatto che l’essere umano è “enamoradizo”160, innamorabile, potremmo dire con un neologismo, ossia orientato, ordinato all’amore, che diventa l’orizzonte in cui si collocano le altre relazioni umane, anche quelle non amorose. È la condizione amorosa a rendere possibile una determinata modalità di rapportarsi al mondo e agli altri e di progettare, quel comportarsi “ilusionadamente”, dove il termine spagnolo “ilusión” non possiede il senso ingannevole e utopico che
158
Cfr. La educación sentimental, cit., p. 276. Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 163. 160 Cfr. ivi, p. 169. 159
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ha in italiano, ma significa piuttosto “ideale gioioso”, entusiasmo che non termina con la soddisfazione ma prosegue senza limiti161. La concezione elaborata da Marías è estremamente elevata. A differenza di Ortega, che faceva dell’amore un fenomeno dell’attenzione, totalizzante sì, ma effimero, egli intende radicare il fenomeno dell’amore nella stessa condizione umana, facendone una dimensione irrinunciabile e stabile dell’esistenza. Tuttavia, ad un’analisi attenta, si può rilevare più che un limite, una questione non del tutto risolta nella prospettiva di Marías: è vero che si ama sempre a partire dalla propria condizione sessuata, nel senso che ciascuno si proietta verso l’altro con la propria femminilità o mascolinità, dalla quale non può prescindere. Non è però altrettanto vero che sia la condizione sessuata a rendere possibile qualsiasi tipo di relazione affettiva, come l’amicizia, l’amore genitoriale o filiale, che radicano piuttosto nell’autotrascendenza, ossia nell’originaria capacità di apertura dell’essere umano. In altri termini, si è relazionali in quanto si è persone, non in quanto si è uomini o donne. Non è l’enamoramiento – la relazione affettiva tra uomo e donna – a spiegare l’amore, ossia le altre forme di donazione affettiva agli altri – amicali, genitoriali –, semmai viceversa. D’altra parte, è pur vero che la modalità di realizzazione di tale relazionalità si dà nella condizione concreta determinata dalla propria differenza sessuale. Marías del resto lo mette in luce, quando indica nella condizione indigente dell’uomo l’impossibilità dell’autosufficienza e il bisogno di entrare in relazione con l’altro. Egli sottolinea con particolare forza il ruolo della mascolinità e femminilità, per sgombrare il campo dal rischio sia di neutralizzare la differenza sessuale, sia di privare l’esperienza amorosa tra uomo e donna della sua specificità e della sua rilevanza nella biografia personale.
161
Cfr. Breve tratado de la ilusión, p. 80. Così Marías descrive i caratteri della “ilusión”: «è sempre anticipazione, realtà presente ma orientata al futuro, progettuale, desiderio con contenuto, compiacenza che non termina né si sazia» («es siempre anticipación, realidad presente pero vuelta al futuro, proyectiva, deseo con argumento, complacencia que no termina ni se sacia»). La educación sentimental, cit., p. 280. Cfr. anche Mapa del mundo personal, cit., p. 141.
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È fuor di dubbio che nell’elaborazione di una concezione così elevata abbia influito anche l’esperienza personale della relazione amorosa che Marías ebbe con Dolores, sua moglie dal 1941, della quale scrive nella sua autobiografia: «In sua compagnia, non soltanto mi sentivo migliore che con nessun altro, migliore di come non mi ero mai sentito prima, ma la cosa che in quella circostanza era più preziosa: mi sentivo, pienamente, decisamente me stesso!»162. La morte di Dolores, con la quale Marías aveva condiviso la quotidianità in tutte le sue dimensioni, significò, infatti, per lui l’inizio di un periodo di profondo ripensamento, spirituale e intellettuale: «La morte di Lolita ha comportato il cambiamento più radicale della mia vita […] Vivevo sempre rivolto a Lolita; non già, non primariamente, alla mia perdita, ma alla sua realtà, alla sua morte, che mi sembrava inaccettabile, alla persona con la quale avevo convissuto come meglio non era possibile, la cui vita troncata, frustrata, mi affliggeva indicibilmente. Non potevo pensare ad altro; anzi: non è che pensassi, piuttosto ero sprofondato, installato in qualcosa di insopportabile, nella più radicale desolazione»163.
Questo vissuto di profonda risonanza emotiva risponde al fatto che la condizione amorosa ha un carattere costitutivo, non avventizio. Una qualunque sofferenza o una gioia ci appartengono, ma non sono nostri e non ci modificano radicalmente. L’amore autentico, invece, “mi altera in quello che sono”164, perché l’amato entra a formar parte dell’amante, come un momento della sua costituzione ontologica. 162
«En su compañia, no sólo me sentía mejor que con nadie, mejor que me había sentido nunca, sino algo que en aquella circunstancia era precioso; me sentía, plena, claramente yo mismo!». J. Marías, Una vida presente. Memorias 1 (1914-1951), Alianza Editorial, Madrid 1989, p. 132. 163 «El cambio más radical de mi vida significó la muerte de Lolita […] Vivía vuelto a Lolita; no ya, no primariamente, a mi pérdida, sino a su realidad, a su muerte, que me parecía inaceptable, a la persona con quien había convivido como parece casi imposible, de cuya vida cortada, frustrada, me dolía indeciblemente. No podía pensar en otra cosa; mejor dicho, no es que pensara, sino que estaba sumido en ello, instalado en algo insoportable, en la más radical desolación». Una vida presente. Memorias 3 (1975-1989), Alianza Editorial, Madrid 1989, p. 79. 164 Cfr. Miguel de Unamuno (1942), Obras, cit., vol. V, p. 65.
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«Tra le determinazioni ontologiche dell’uomo A troviamo l’essere innamorato; ma non soltanto questo, piuttosto concretamente l’essere innamorato di B. E per questo la donna B è inclusa per necessità nella realtà integra dell’uomo A»165.
Per questo amare contemporaneamente più di una persona presuppone un conflitto intimo, radicale e ontologico ed è anche questo il motivo per cui l’amore sopravvive alla perdita dell’amato, rimanendo nell’amante sotto forma di assenza, di privazione. Solo per questa via si può comprendere la possibilità e il significato del matrimonio, ancor di più – per il credente – del matrimonio come sacramento, che conferisce una grazia non a ciascuno dei due individui, ma ad entrambi nella loro unità166. Cercando di esaminare le caratteristiche della condizione amorosa, Marías ne sottolinea innanzitutto il carattere progettuale, che si richiama alla struttura vettoriale della vita umana. Rifacendosi all’immagine agostiniana dell’amore come “pondus”, forza gravitazionale che attira in una determinata direzione, egli definisce l’innamoramento come la situazione in cui l’amato entra a far parte del proprio progetto di vita167. Significa aver scoperto che per realizzare la propria progettualità vitale, l’altro/a non solo è indispensabile, ma è parte integrante. «Non si tratta semplicemente del progettarsi verso di lei, ma del progettarsi con lei, del fatto che nel progettare me stesso mi trovo con lei come inseparabile da me. Senza di lei, propriamente, non sono io. Il che significa, letteralmente, che sono altro da quel che prima – prima di innamorarmi – ero. L’innamoramento consiste, pertanto, in un cambiamente della mia realtà: quel che potremmo chiamare una variazione ontologica»168. 165«Entre las determinaciones ontológicas del hombre A encontramos el ser enamorado; pero no sólo esto, sino concretamente el ser enamorado de B. Y por esto la mujer B está incluida con necesidad en la realidad integra del hombre A». Ivi, p. 66. 166 Cfr. ibidem. 167 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 165. 168«No es simplemente que me proyecte hacia ella, sino que me proyecte con ella, que al proyectarme me encuentro con ella como inseparable de mí. Sin ella, propiamen-
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In una conferenza intitolata Enamoramiento: la persona que se convierte en proyecto, Marías cita un noto passo de La Celestina, la tragicommedia di Fernando de Rojas, in cui Callisto, innamorato di Melibea e da lei respinto, confida il suo amore ai servi Parmeno e Sempronio, dicendo che la sua amata per lui è come se fosse Dio. Di fronte al rimprovero del servo: “ma come, non sei cristiano”, egli risponde: “Io, cristiano? Io, Melibeo sono, in Melibea credo, Melibea amo”. Marías commenta che la frase “Io Melibeo sono” è l’espressione paradossale ed esagerata dell’unicità e assolutezza dell’amore che ha trasformato Melibea nel progetto di vita di Callisto169. Nell’amore tra un uomo e una donna, si dà quella che Marías definisce “comunicabilità delle circostanze” (comunicabilidad de las circustancias): «Grazie a questa comunicabilità, trovo nella mia circostanza altre vite che non mi sono totalmente estranee, giacché le loro circostanze si “comunicano” con le mie, e ho accesso ad esse non soltanto come cose ma come vite. Questa è la base della possibilità dell’amore, dell’amicizia e di tutte le relazioni che sono caratteristicamente umane, ossia, personali»170.
Ben diverso è, dunque, l’innamoramento dall’amore o, con una terminologia à la Marías, il sentirsi innamorati dall’essere o trovarsi innamorati, che comporta questa radicale trasformazione della vita biografica e personale, grazie alla quale si scopre la propria vita più autentica. D’altra parte, il ritrovare se stessi nella persona amata non te, no soy yo. Lo cual quiere decir, literalmente, que soy otro que el que antes – antes de enamorarme – era. El enamoramiento consiste, pues, en un cambio de mi realidad, lo que podríamos llamar una variación ontológica». Ivi, p. 165. 169 Cfr. Conferenza pronunciata a Madrid nell’ambito del corso “Lirismo y prosaismo”, 1999/2000, edita a cura di Ana Lúcia C. Fujikura. Cfr.: http://www.hottopos. com/mirand12/jms5enam.htm. 170 «Gracias a esta comunicabilidad, hallo en mi circunstancia otras vidas que no me son totalmente ajenas, pues sus circunstancias se “comunican” con las mías, y tengo acceso a ellas no sólo como cosas sino como vidas. Esta es la base de la posibilidad del amor, de la amistad y de todas las relaciones que son característicamente humanas, es decir, personales». La estructura dramática de la teoría filosófica, in Ensayos de teoría, Obras, cit., vol. IV, p. 19.
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è da intendersi – alla maniera orteghiana – come fusione di identità, come assimilazione dell’uno all’altro; anzi, l’amante si compiace della persona dell’amato in quanto altro da sé, nella sua realtà irriducibile, che riesce a renderlo migliore. Da qui l’abbaglio tipico dell’amante, che sente di aver amato da sempre l’altra persona: in realtà, l’aver scoperto se stesso grazie all’amore lo induce a leggere tutta la vita passata alla luce di questa nuova verità: «l’amore attuale si proietta sulla vita passata, illuminandola e “ricostruendola”, interpretandola nuovamente, vedendola come mera preparazione o anticipazione. A rigore non è vero che la ama da sempre, ma è certo che la ama colui che sempre era, la ama adesso dalla sua realtà di sempre»171.
Il “da sempre” corrisponde al “per sempre”, per cui l’amore autentico è accompagnato da una promessa di eternità. La fedeltà nell’amore non è dunque un vincolo alla libertà, ma è adesione ferma alla propria forma autentica, che si è riusciti a scoprire proprio grazie alla persona dell’altro. Per questo motivo, mentre per Ortega l’amore era una “dipendenza intenzionale” dall’amato172, per Marías è un’autentica vocazione, intendendo con questo termine un destino liberamente scelto, la forma radicale di vita che consente la realizzazione più piena di se stessi173. Anche riferendosi ad altre modalità di relazione interpersonale, come l’amicizia o l’amore genitoriale, Marías propone di sostituire la metafora del possesso, che riduce l’altro a cosa, con quella dell’effusione. Essa comporta la messa in comune reciproca della propria interiorità e conduce a quel tipo di rapporto che il filosofo definisce 171«El
amor actual se proyecta sobre la vida pasada, iluminándola y “reconstruyéndola”, interpretándola nuevamente, viéndola como mera preparación o anticipación. No es rigurosamente verdad que la ama desde siempre, pero sí es cierto que la ama el que siempre era, la ama ahora desde su realidad de siempre». Antropología metafísica, cit., p. 166. 172 Cfr. J. Ortega y Gasset, Facciones del amor, in Estudios sobre el amor, Obras completas, cit., vol. V, p. 559. 173 Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 169.
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con un’espressione che suona quasi come un ossimoro, il “possesso effusivo” dell’altro.
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«Non c’è altro modo di “possesso” di una persona che la sua inclusione nella trama della nostra propria vita, che si riversa sull’altro e lo avvolge; se posso rendere un’altra persona “mia” è perché, in virtù dell’effusione, la ho incorporata nella mia vita, mi sono reso previamente “suo”»174.
La corporeità è una dimensione decisiva nella relazione d’amore, che nasce grazie alla presenza fisica. Marías assegna un’importanza particolare alla nozione di “presenza e figura”, ricavandola dal Cántico espiritual de San Juan de la Cruz175: «Se ricordiamo la formula un chi corporeo, riconosciamo l’inclusione essenziale della corporeità, ma non di una qualsiasi, isolata e spersonalizzata, piuttosto di quella in cui la persona amata si presenta e acquista una figura percettibile. Il corpo non è uno “qualsiasi”, ma giustamente quello di qualcuno, ed è insostituibile per il fatto che è il suo, non per le qualità somatiche; da qui la concentrazione nel volto, chiave del corpo nel suo insieme, luogo in cui si mostra propriamente la persona»176.
Il filosofo sottolinea la profonda unità tra l’intimità e la corporeità, affermando la dignità di quest’ultima e considerandola il presupposto 174 «No hay más modo de “posesión” de una persona que su inclusión en la textura de nuestra propia vida, que se vierte sobre ella y la envuelve; si puedo hacer a otra persona “mía” es porque, en virtud de la efusión, la he incorporado en mi vida, me he hecho previamente “suyo”». Ivi, p. 208. 175 Si tratta della strofa 11: “Descubre tu presencia,/ y mátame tu vista y hermosura;/ mira que la dolencia/ de amor que no se cura/ sino con la presencia y la figura”. 176«Si recordamos la fórmula alguien corporal, reconocemos la inclusión esencial de la corporeidad, pero no de cualquiera, o aislada y despersonalizada, sino de aquella en la que la persona amada se presenta y adquiere figura perceptible. El cuerpo no es “cualquiera”, sino justamente él de alguien, y por ser el suyo, no por cualidades somáticas, es insustituible; de ahí la concentración en el rostro, clave del cuerpo en su conjunto, lugar en el que se muestra propiamente la persona». Mapa del mundo personal, cit., p. 141.
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indispensabile per comprendere l’amore umano. Da qui l’importanza attribuita alla condizione sessuata, che non è relativa solo al corpo, ma riguarda la totalità della persona. Questa posizione risulta di estrema importanza se la si confronta con le più recenti Gender Theories, che, operando una distinzione tra Sex e Gender, considerano il primo ininfluente e marginale rispetto alla scelta della propria identità e orientamento sessuale177. Per Marías, o si è sessuati o non si è per nulla, nel senso che la differenza sessuale non è accidentale, ma costituisce un modo di collocarsi nel mondo della vita, determinando un orientamento dell’intero essere. «Persone, senza altre determinazioni, non esistono. Le donne non sono persone senza determinazioni, e neppure gli uomini. Io sono una persona maschile. L’idea di persona senza determinazioni è una pura astrazione. La persona si realizza nella forma di uomo o nella forma di donna, entrambi integralmente personali ma ugualmente irriducibili»178.
L’amore radica nella condizione sessuata, perché si ama la persona dell’altro sesso attraverso la sua virilità o femminilità: si tratta di una proiezione personale verso l’altro, che non può essere ridotta alla sola dimensione psicofisiologica della sessualità, ma costituisce un autentico incontro di due soggetti che hanno bisogno l’uno dell’altro. Chi ama di amore autentico si orienta all’intera persona e non al suo 177
Così si esprime Judith Butler, la più nota esponente della teoria del Gender in area statunitense: «Il genere è una costruzione culturale; di conseguenza non è né il risultato causale del sesso, né tanto apparentemente fisso come il sesso. […] Teorizzando che il genere è una costruzione radicalmente indipendente dal sesso, il genere stesso viene ad essere un artificio libero da vincoli; di conseguenza, uomo e maschile potranno essere riferiti sia a un corpo femminile, sia a uno maschile; donna e femminile, sia a un corpo maschile, sia a uno femminile». J. Butler, Gender trouble. Feminism and the subversion of Identity, Routledge, New York-London 1990; trad. ital. Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004, p. 6. 178 «Personas, sin más, no existen. Ni las mujeres son personas sin más, ni los hombres tampoco. Soy una persona masculina. La idea de persona sin más es una pura abstracción. La persona se realiza en forma de varón o en forma de mujer, ambos íntegramente personales pero igualmente irreductibles». La mujer en el siglo XX, cit., p. 95.
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corpo, prova ne sia che è il volto il termine di questa relazione, come espressione dell’io, mentre l’attrazione puramente sensuale si dirige ad altre zone del corpo, tipicamente erogene. Il volto che affascina non è necessariamente il più perfetto, ma quello che esercita una sorta di richiamo irresistibile, in quanto in esso traspare il progetto vitale di un soggetto che ci attrae in quanto riconosciuto indispensabile nella nostra esistenza179. Pur essendo un ingrediente dell’amore, la sessualità è dunque una delle modalità di proiettarsi verso l’altro, che acquista significato solo all’interno delle altre manifestazioni della vita personale. «Lungi dall’essere un semplice meccanismo biologico o psicofisico, la sessualità, quando è amorosa, ha storia e significato personale; è il modo in cui si dà drammaticamente, nella forma reale che impone la struttura empirica della vita umana, l’innamoramento di due persone la cui modalità di esistenza è la corporeità»180.
Il processo di sessualizzazione dell’amore, la riduzione del sessuato al sessuale, ha prodotto un fenomeno che Marías qualifica come primitivismo e che produce un conformismo verso il basso: «L’insistenza zoologica sul “sesso”, il predominio del linguaggio più degradato, confinato a infimi registri, per nominare tutto questo insieme di questioni, la pedanteria delle interpretazioni “scientifiche”, fisiologiche, psicologiche, psichiatriche, che dissolvono in “meccanismi” ogni contenuto vitale, tutto ciò fa sì che i nostri contemporanei, principalmente i giovani, si trovino con un repertorio di interpretazioni prefabbricate che in grande misura condizionano le proprie e la loro stessa condotta»181. 179
Cfr. Antropología metafísica, cit., p. 170. «Lejos de ser un simple mecanismo biológico o psicofísico, la sexualidad, cuando es amorosa, tiene historia y significación personal; es la forma en que acontece dramáticamente, en la forma real que impone la estructura empírica de la vida humana, el enamoramiento de dos personas cuya manera de existir es la corporeidad». Ivi, p. 171. 181 «La insistencia zoológica en el “sexo”, el predominio del lenguaje más rebajador, confinado a infímos registros, para nombrar todo este grupo de cuestiones, la 180
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In altri scritti, questa tendenza viene denominata prosaismo, che ha come tratti fondamentali il predominio di un vocabolario anatomo-fisiologico, l’assenza di immaginazione, la trasformazione della dimensione del sentimento in quella della sensibilità, con il risultato di una riduzione dell’elemento intenzionale, che invece è quello più propriamente umano182. Al contrario, il lirismo è la capacità di scoprire le sfumature, di apprezzare la bellezza e le qualità spirituali, la creazione di una tensione emotiva che induce aspettativa e alimenta la gioia dell’ideale (ilusión)183. Il corpo è anche voce, parola. Parlare è non solo una delle modalità di espressione dell’amore, ma anche una sua condizione, tanto che il linguaggio amoroso ha conosciuto innumerevoli traduzioni poetiche e letterarie. Oggi però la funzione della conversazione è divenuta marginale, il linguaggio si è impoverito e nelle relazioni amorose predomina il gesto più che la parola184. Secondo Marías una parte dell’educazione sentimentale deve riguardare un ritorno alla parola, che è anche un “ritorno all’intimità”, come possibilità di “dire se stessi”185. Il parlare esige la presenza, è transitivo, giacché va da intimità a intimità e richiede un linguaggio adeguato ed espressivo, che d’altra parte è la stessa intimità a creare, nel momento in cui viene comunicata. Se l’unico modo di entrare in relazione intima con qualcuno è quello di riconoscerlo come indispensabile, l’essenza dell’amore risiede non nel trasporto emotivo, quanto nella qualità del legame costituita dalla donazione totale di se stessi186. Per questo, l’autenticità dell’amore si prova sulla tenuta del legame nella lunga durata. Occorre sostituire alla dimensione straordinaria dell’amore-passione pedantería de las interpretaciones “científicas”, fisiológicas, psicológicas, psiquiátricas, que disuelven en “mecanismos” todo contenido vital, todo ello hace que nuestros contemporáneos, principalmente los jóvenes, se encuentren con un repertorio de interpretaciones prefabricadas que en gran medida condicionan las suyas propias y su conducta misma». Mapa del mundo personal, cit., p. 127; cfr. anche La educación sentimental, cit., p. 278. 182 La educación sentimental, cit., pp. 255-256. 183 Cfr. ibidem. 184 Cfr. ivi, p. 238. 185 Cfr. ivi, pp. 240-241. 186 Cfr. Mapa del mundo personal, cit., p. 148; cfr. anche La mujer en el siglo XX, cit., p. 223.
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la versione “quotidiana” dell’amore stabile dell’unione coniugale. Marías respinge l’idea piuttosto diffusa che il matrimonio sia la fine dell’amore, in quanto sarebbe fonte di monotonia e disillusione. Al contrario: l’amore coniugale, proprio in quanto quotidiano, si alimenta ogni giorno della narrazione continua di bilanci e di nuovi progetti, invece di limitarsi a singoli episodi straordinari187. Di fronte alla fugacità delle relazioni esclusivamente sessuali, il matrimonio si fonda sulla permanenza di una vita sessuale come parte della condizione sessuata e attraverso la promessa solenne di fedeltà rivela il carattere di perennità della relazione d’amore188. In sintesi, le caratteristiche che Marias riconosce nel rapporto amoroso considerato nella sua dimensione più autentica, sono le seguenti: a) risponde all’intrinseco bisogno di relazione dell’essere umano, che la condizione sessuata configura come proiezione permanente dell’uno verso l’altra; b) è reciproco, in quanto non è un’elezione unilaterale, ma una condivisione di intimità e di progetti; c) comporta una variazione ontologica dei soggetti coinvolti, perché produce un cambiamento radicale nel proprio progetto di vita, di cui la persona amata diventa un elemento irrinunciabile; d) esige fedeltà nel tempo; e) è effusivo, in quanto consiste nel dare e nel darsi e non nel possedere; f) ha il carattere di una scommessa sul futuro, perché il suo dinamismo è drammatico, come drammatico è lo stesso svolgersi di ogni biografia; g) ha bisogno di esprimersi attraverso la parola ancor prima che con il gesto.
2.9 Filosofia del femminile Al ruolo e alla condizione storica della donna, Julian Marías ha dedicato diversi scritti, anticipando una serie di riflessioni che saranno oggetto solo più tardi della speculazione filosofica189. Nel prologo, de 187
Cfr. ivi, pp. 152-153. Cfr. La educación sentimental, cit., p. 257. 189 Per citarne solo alcuni: i capitoli di Antropología metafísica (1970) intitolati La figura de la mujer (pp. 142-148) e il già citato Razón vital: masculina y femenina (pp. 149-155); i saggi: La mujer en el siglo XX, (1980), che raccoglie una serie di riflessioni 188
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La mujer en el siglo XX, scritto nel 1979, il filosofo confida che il tema della donna, della sua condizione e delle sue possibilità, lo ha interessato per circa cinquant’anni, anche per i profondi cambiamenti storici e sociali. Aggiunge poi audacemente che il suo saggio Antropología metafísica, precedente di un decennio, è stato il primo libro filosofico a prendere in considerazione seriamente l’esistenza della donna nella società e, soprattutto «che la vita umana si realizza in due forme inseparabili ma irriducibili: uomo e donna»190. Il filosofo è attratto da quel misto di intellegibilità e di mistero che caratterizza la donna e che rende l’indagine su di lei sempre complessa e insufficiente. «La donna rappresenta un massimo di intellegibilità, perché è persona, e l’unico elemento realmente razionale è la vita umana. Allo stesso tempo, un massimo di differenza rispetto all’uomo, perché è l’altra forma in cui questa vita si dà, irriducibile nella sua peculiarità. Detto in altri termini, è un mistero, ma con possibilità di comprensione»191.
Anche se sono trascorsi più di trent’anni dalle analisi di Marías, l’approccio del saggio e gli interrogativi di fondo risultano di notevole interesse. Da un lato è da rilevare come un dato originale l’attenzione da parte di un filosofo nei confronti di temi trattati in quegli anni quasi esclusivamente nell’ambito del pensiero femminista, dall’altro alcune riflessioni – accanto ad altre più datate – sembrano anticipare diverse problematiche legate agli sviluppi delle condizioni di vita della donna. Di fronte alla cosiddetta crisi della donna nel XX secolo, il filosofo ritiene essenziale partire da un’analisi del significato stesso di “donna”, intesa come realtà storica. Crisi significa disorientamento, il “no in parte elaborate in un ciclo di conferenze tenute a Madrid, nel biennio 1976-1977 e La mujer y su sombra, Alianza Editorial, Madrid 1986; il capitolo El descubrimiento del niño y la presencia de la mujer (pp. 221-231) in La educación sentimental, cit. 190 Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., p. 9. 191 «La mujer representa un máximo de intelegibilidad, porque es persona, y lo único verdaderamente racional es la vida humana, y a la vez un máximo de diferencia respecto del hombre, porque es la otra forma en que esa vida acontece, irreductible en su peculiaridad. Dicho de otro modo, es un misterio, pero con posibilidad de comprensión». La mujer y su sombra, cit., p. 209.
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saber a qué atenerse”, secondo l’espressione di Ortega, che ha condotto la donna a interrogarsi su se stessa, non a livello individuale sul senso della propria biografia, fenomeno non nuovo nella storia, bensì collettivamente su cosa significa essere donna, aspetto in passato dato per scontato. È interessante osservare che la domanda “cosa significa essere donna?” sia anche una domanda maschile, giacché non è possibile separare la definizione della donna dal riferimento all’uomo192. La difficoltà nel rispondere produce pertanto un duplice disorientamento: della donna rispetto a se stessa e dell’uomo rispetto alla donna. I motivi storici sono molteplici, ma Marías individua una delle principali cause di questa crisi in un cambiamento di ordine biologico, che poi ha implicazioni biografiche: la dissociazione tra sessualità e procreazione, che ha trasformato radicalmente lo scenario delle relazioni tra l’uomo e la donna. Per comprenderne la portata, è indispensabile non ridurre questo processo alla sola dimensione biologica e neppure intenderlo unicamente a livello biografico e culturale. Si tratta di un fenomeno cominciato a livello di biologia, che ha modificato totalmente la progettualità maschile e femminile, producendo un cambiamento di carattere storico-sociale193. In definitiva, si tratta di riflettere sul grado di felicità femminile. La donna oggi è più felice che in passato? si chiede il filosofo194. Per rispondere, egli distingue tra il malcontento della situazione, che è fecondo in quanto stimola al cambiamento, dal malcontento della condizione, che invece è devastante, perché riguarda l’identità stessa della donna. D’altra parte, la crisi di identità ha una dimensione antropologica e non solo sociologica, per cui è un campo d’indagine della filosofia. Come già aveva messo in luce fin dai primi saggi, Marías ritiene inseparabili i due interrogativi fondamentali di ogni indagine filosofica: “chi sono io?” e “cosa sarà di me?”. Non si possono dissociare, giacché se si risponde al primo nella direzione dell’autonomia, si diventa fragili e vulnerabili; se si risponde al secondo, l’accento sul “cosa” rischia di rendere incerta la nostra identità di persone. Ma il 192
Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., pp. 13-14. Cfr. ivi, p. 15. 194 Ivi, p. 194. 193
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“chi sono?”, in quanto domanda in prima persona, ha come soggetto un io che è uomo o donna, anche se non se ne indica il genere: la domanda sull’identità, o meglio, sulla medesimezza, richiede dunque la specificazione della condizione sessuata, esige una risposta alla domanda su “chi è” la donna. Occorre guardarsi sia dal rischio del neutralismo, che riduce a fatto culturale la mascolinità e la femminilità, sia dalla radicalizzazione della differenza, intesa in chiave oppositiva e dialettica. Sono pericoli spesso ricorrenti quando si studia la realtà della donna: «o si prende in considerazione una femminilità disumanizzata, una condizione femminile che non sarebbe strettamente umana, oppure – quando si insiste sulla condizione umana della donna, quando si pensa che la donna è anche “uomo” – si riduce la donna all’umano senza nulla di più, o al massimo si afferma che è l’umano con una differenza»195.
Secondo Marías, il problema non è stato inquadrato adeguatamente per la mancanza di una categoria che tenesse conto tanto della continuità biologica dell’uomo col mondo animale, quanto della sua radicale discontinuità. La categoria di struttura empirica a suo avviso permette di passare dalla teoria generale della vita umana alla concretezza della vita individuale, per formulare una definizione dell’uomo come “quell’animale che ha vita umana”, la cui differenza non è tanto da ricondurre alla biologia, ma alla vita personale, che è una vita realizzata in forma sessuata196. La condizione sessuata pertanto non è una semplice differenza, ma è disgiuntiva: o si è uomo o si è donna, in una reciprocità di relazione. Marías ritiene che la risposta all’interrogativo su chi sia la donna, non possa prescindere da un’ottica storica, in quanto si tratta di una realtà dinamica, che può ricevere un chiarimento solo alla luce di una 195 «O bien se toma una feminidad deshumanizada, una condición femenina que no sería estrictamente humana, o bien – cuando se insiste en la condición humana de la mujer, cuando se piensa que la mujer es también “hombre” – se reduce la mujer a lo humano sin más, o a lo sumo se supone que es lo humano con una diferencia». Ivi, p. 156. 196 Cfr. ivi, p. 157.
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storia della donna, purché questa non sia intesa come una semplice appendice della storia degli uomini. La prospettiva storica può da un lato mostrare la forzatura ideologica di certe correnti femministe, che hanno considerato tutto il passato come un succedersi di epoche di oppressione e di inferiorità femminile, dall’altro permette di prestare attenzione anche alla dimensione quotidiana dell’esistenza della donna, a lungo trascurata e solo di recente privilegiata dagli studiosi. I tre grandi cambiamenti storici relativi alla condizione femminile che il filosofo intende mettere in luce sono: la trasformazione dello scenario del lavoro, con la minore presenza della donna in ambito domestico; il mutamento delle relazioni tra i sessi con la scomparsa della galanteria; la maggiore longevità, che per la donna assume una dimensione qualitativa e biografica. Esaminando alcune delle principali epoche storiche, Marías sottolinea le ombre, ma anche le luci di periodi, come l’età vittoriana, in cui, accanto a innegabili situazioni di disuguaglianza, la donna conservava comunque una “differenza di potenziale” rispetto all’uomo, che si manifestava nel ruolo educativo nei confronti dei figli e nel governo della vita domestica197. Pur ritenendo innegabile il beneficio prodotto dall’ingresso della donna nel mondo del lavoro, Marías ne mette in risalto le ombre, dovute essenzialmente alla concezione salariale del lavoro, che ha avuto tra i suoi effetti l’immediata svalutazione del lavoro domestico. È condivisa da molti studiosi la sua affermazione che la sociologia non ha sufficientemente studiato né l’importanza storica del servizio domestico né le ripercussioni delle sue trasformazioni, sia in ambito privato che sociale. Si tratta, infatti, di un argomento che solo recentemente è stato scelto come preferenziale dalla cosiddetta “sociologia della vita quotidiana”198. Da un lato, il filosofo si sofferma sulla rilevanza che per secoli ha avuto nelle famiglie la figura femminile della “domestica”, tanto da affermare che l’intera struttura sociale europea sia stata influenzata da questa figura, che si è progressivamente trasformata nei ruoli e nelle mansioni o è addirittura scomparsa. Si tratta 197
Cfr. ivi, p. 41. Cfr. P.L. Berger - B. Berger, La dimensione sociale della vita quotidiana, il Mulino, Bologna 1977. 198
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di un fenomeno che ha avuto ripercussioni innegabili sulla struttura della famiglia, sui rapporti tra genitori e figli e tra i coniugi, sul numero di figli, sulla permanenza dei nonni in casa, sulla gestione del tempo. Ma l’effetto più vistoso della crisi del servizio domestico, probabilmente inevitabile, è il dilagare di quella che è la malattia del nostro tempo, nonostante il proliferare di tanti mezzi di comunicazione: la solitudine199. È evidente che Marías non intende elogiare un’epoca in cui le differenze sociali rendevano impossibile a determinate classi di donne l’accesso a professioni brillanti, né auspicare un ritorno a uno stile di vita ormai improponibile nelle grandi città e neppure perpetuare situazioni di ingiustizia sociale. Egli anzi mette in luce gli aspetti negativi che molto spesso hanno accompagnato la condizione della domestica, in termini di orario di lavoro e di disponibilità. Tuttavia, intende anche far risaltare l’enorme contributo che questa figura ha fornito più direttamente allo sviluppo della vita familiare e indirettamente alla vita sociale, proprio attraverso un’attività che, pur essendo professionale, non era e non poteva essere regolata da precise norme lavorative. «La situazione della domestica all’interno della casa aveva un pizzico di schiavitù e uno di maternità, perché non era una relazione puramente lavorativa. Quando è stato impostato in termini lavorativi, il servizio domestico è scomparso, perché non era questo né poteva esserlo»200.
L’attività domestica mette sempre in discussione, in un certo senso, i parametri abituali con cui la modernità ha giudicato il valore del lavoro e questo aspetto riguarda direttamente la donna. È la distinzione, tema che successivamente sarà caro alla filosofia femminista, tra attività finalizzate alla produzione e attività finalizzate alla cura – tra cui il lavoro domestico – che dopo l’avvento della società industriale 199 «La crisis del servicio doméstico ha destruido formas y posibilidades de compañía, ha introducido en las sociedades actuales uno de sus factores más graves y de más hondas consecuencias: la soledad». Ivi, pp. 43-44. 200 «Esta situación de la criada dentro de la casa tenía una punta de esclavitud y otra punta de maternidad, porque no era una relación puramente laboral. Cuando se ha planteado en términos laborales, el servicio doméstico ha desaparecido, porque no era eso ni podía serlo». Ivi, p. 43.
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non sono state incluse tra i lavori propriamente detti. Ciò ha prodotto l’errata convinzione che sia lavoro solo ed esclusivamente un’attività salariata, orientata a produrre beni materiali.
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«Se si considera lavoro soltanto la produzione di beni economici, cosa succede alle donne? Le donne – si dice – salvo le operaie, non lavorano. Non lavorano? Non so se ci sia qualcuno che lavori più delle donne, che abbia lavorato più delle donne nella storia universale. […] La casa ha comportato sempre un certo governo e un problema di amministrazione, una funzione complessa e faticosa»201.
Si tratta di un compito, quello della cura della casa, che risponde a un’attitudine femminile all’ospitalità (la mujer es hospitalaria)202, che va di pari passo con la capacità di raccoglimento e di intimità (ensimismamiento). Per questo motivo, la casa, anche quando è condivisa con i familiari, è sempre della donna, le appartiene a pieno titolo203. Tuttavia è importante non interpretare la dimensione domestica come se fosse un ambito esclusivamente privato, che pertanto escluderebbe la donna dall’influire sulla vita pubblica. Riferendosi alla storia occidentale, Marías osserva che il mondo domestico, affidato alla cura della donna, era il “mondo di tutti”, che comprendeva l’educazione dei figli, la cultura umanistica, la musica, la conversazione204. D’altra parte, la diffusione della concezione salariata del lavoro ha dato luogo al paradosso della differente considerazione assegnata a un’identica attività svolta dalla donna, a seconda che sia svolta dentro o fuori casa: «Se una donna si prende cura dei figli degli altri, ad esempio, in un asilo o come balia, lo si considera un lavoro; se sono suoi, no. Se una donna cucina per gente sconosciuta in un hotel o in un ristorante, è 201 «Si se considera como trabajo sólo la producción de bienes económicos, ¿qué pasa con las mujeres? Las mujeres – se dice – salvo las obreras, no trabajan. ¿No trabajan? Yo no sé si hay alguien que trabaje más que las mujeres, que haya trabajado más que las mujeres en toda la historia universal. […] La casa suponía cierto gobierno y un problema de administración, una función compleja y esforzada». Ivi, pp. 50-51. 202 Cfr. La mujer y su sombra, cit., p. 173. 203 Cfr. Tratado de lo mejor. La moral y las formas de vida, Alianza Editorial, Madrid 1995, p. 174. 204 Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., p. 71.
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una cuoca professionista; ma se cucina perché mangino marito, figli e lei stessa, questo non è considerato lavoro. Se lava i piatti in un ristorante o i pavimenti di un ufficio, di un ospedale o di una scuola, è una lavoratrice; se lava il corridoio di casa sua, no. Non si comprende il perché. Pongo questi esempi perché la qualità del lavoro è la stessa. […] Si considera lavoro o non lavoro la stessa occupazione. Se si fa in casa non è lavoro, se si fa fuori, per persone sconosciute, sì lo è. Non sembra ragionevole»205.
C’è dunque da intendersi sul concetto di lavoro e sulla nozione stessa di professionalità. La nozione di lavoro ha subito una evidente trasformazione in quanto vincolata al fattore economico, rappresentato dal salario. Questa concezione ha creato una serie di problemi per il lavoro della donna. La pretesa “liberazione” femminile è passata attraverso l’esercizio di un’occupazione salariata fuori casa, ma ha comportato, contemporaneamente, la delega ad altre donne del lavoro della casa o della cura dei figli piccoli. Con sorprendente anticipazione, Marías osserva che la “liberazione” di alcune donne ha, in questo modo, prodotto la “schiavitù” di altre206. Le implicazioni di questo fenomeno saranno analizzate ampiamente da una certa letteratura sociologica e filosofica recente. Basta pensare alle riflessioni di Eva Kittay sul “trapianto di cuore globale”207 e di Arlie Russell Hochschild sulla commercializzazione della vita intima208. 205 «Si una mujer cuida niños ajenos, por ejemplo, en una guardería, o como niñera, eso es trabajo; si son suyos, no. Si una mujer guisa para personas desconocidas que comen en un hotel o en un restaurante, es una cocinera profesional; pero si guisa para que coman su marido, sus hijos y ella misma, eso no es trabajo. Si friega los platos de un restaurante, o los pisos de una oficina, un hospital o un colegio, es una trabajadora; si friega el pasillo de su casa, no. No se ve bien por qué. Tomo estos ejemplos porque la cualidad del trabajo es la misma […] Se considera trabajo o no trabajo la misma ocupación. Si se hace en casa no es trabajo, si se hace fuera, para personas desconocidas, sí lo es. Esto no parece razonable». Ivi, pp. 53-54. 206 Cfr. ibidem. 207 E.F. Kittay, Love’s Labor. Essays on Women, Equality and Dependency, Routledge, New York-London 1999; trad. ital. La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Vita e Pensiero, Milano 2010. Con questa espressione la Kittay allude all’imponente migrazione di donne, che lasciano le loro famiglie nel proprio Paese, per andare a prendersi cura di altre famiglie. 208 Cfr. A. Russell Hochschild, The Commercialization of Intimate Life: Notes from Home and Work, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2003; trad. ital.
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Occorre inoltre evitare una concezione totalizzante del lavoro, come se esaurisse l’intera realtà della persona. È questo il motivo per cui spesso si cade nell’errore di considerare la donna meno professionale dell’uomo, in quanto si trova quasi sempre nella situazione di dover conciliare il lavoro con la cura della casa e dei familiari. Anche in questo caso, la problematica storica concreta riconduce a un livello di riflessione più generale sulla nozione stessa di lavoro. L’uomo si realizza nel e con il lavoro, ma proprio in quanto in un certo senso lo domina e non ne è dominato. Farsi assorbire interamente dal lavoro impoverisce la ricchezza dell’esistenza e provoca una certa “meccanizzazione della vita”, una “mineralizzazione dell’umano” che la donna rispetto all’uomo è meno disposta ad accettare, in quanto più capace di mantenere il contatto con la vita concreta e autentica209. Sono proprio le caratteristiche specifiche della donna a rappresentare un contributo insostituibile per la vita sociale e professionale. Marías le riassume così210: un’intimità più profonda, che si manifesta nel fenomeno del pudore, come protezione della propria interiorità; la capacità di raccogliersi in se stessa (ensimismamiento); di stabilità e sedentarietà; capacità di attesa; maggiore capacità di accettazione ospitale della realtà – «dal bambino collocato nell’interiorità del suo corpo fino al mondo esterno trasformato in “casa”»211 – che tuttavia non è passivo conformismo. È importante riconoscere che le due forme di ragione vitale, maschile e femminile, sono valide e complementari, ma presentano entrambe dei rischi. La donna è più capace di previsione, perché conosce meglio il mondo, ha una maggiore esperienza della vita concreta e pertanto è maggiormente in grado di cogliere nel giusto (acertar). Ma corre anche il rischio di un’eccessiva sicurezza in se stessa, che può renderla petulante e aggressiva. Il problema che Marías evidenzia Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, il Mulino, Bologna 2006. Per la Russell Hochschild, la nostra società rischia di trasformare in servizi a pagamento tutti quei lavori di cura un tempo realizzati in famiglia soprattutto dalla donna, con il risultato della scomparsa della gratuità e dell’impoverimento degli affetti. 209 Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., p. 82. 210 Cfr. ivi, pp. 166-176. 211 «Desde el niño alojado en la interioridad de su cuerpo hasta el mundo exterior transformado en “casa”». Ivi, p. 170.
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è l’incertezza della donna “emancipata” a trovare il suo giusto posto. Ha accettato forme di lavoro preesistenti, tipicamente maschili e vi si è adattata, ma senza modificarle, senza tradurle nella sua installazione. D’altra parte avendo conservato dei legami con il suo mondo precedente, spesso si sente divisa interiormente, tendendo a sopravvalutare le nuove conquiste e a disprezzare la condizione precedente. È la donna stessa a pagare le conseguenze di questo processo di adattamento: da un lato rischia di negare il valore di un passato che invece possedeva una sua indubitabile ricchezza; dall’altro, essendo entrata nel mondo generale non a partire dal suo mondo, ma negandolo, si è accontentata di essere stata ammessa in un ambito maschile, ma senza trasformarlo. Il suo compito non era quello di renderlo neutro, ma di farlo diventare maschile e femminile, in modo che rispecchiasse la ricchezza della realtà della vita212. Il rischio da cui guardarsi, in molte delle rivendicazioni di uguaglianza, è dunque la produzione dell’effetto contrario, ossia la defemminizzazione della società e la mascolinizzazione del mondo. Queste trasformazioni hanno prodotto un innegabile cambiamento nella modalità di relazione tra i due sessi. Marías mette in luce, tra l’altro, quella che definisce “crisi della galanteria”. La galanteria era l’atteggiamento abituale dell’uomo cortese nei confronti della donna, nelle epoche in cui le relazioni tra i due sessi erano poco frequenti e la prossimità scarsa. Si trattava di un atteggiamento amabile, forse spesso paternalistico e condiscendente, dove era indubbiamente più facile confondere l’interesse sessuato con l’elemento sessuale o amoroso213. Facendosi più frequenti gli scambi e i contatti tra uomo e donna, la galanteria è progressivamente scomparsa, ma senza essere sostituita da un’altra modalità relazionale, con il risultato di una neutralità che, non valorizzando la specificità né maschile né femminile, in fin dei conti si trasforma nell’incapacità di trattare la donna come donna e in un’esclusione della sua femminilità214. Osserva Marías:
212
Cfr. ivi, p. 175. Cfr. La educación sentimental, cit., p. 227. 214 Cfr. ivi, p. 210. 213
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«Prima la donna non entrava in alcuni posti della società, perché era donna; ora le si permette di entrare purché lasci alla porta la sua condizione di donna ed entri come una realtà neutra, “livellata”. Prima era una esclusione singolare, individuale; ora può entrare, con la condizione che sopprima ciò che ha di femminile (o almeno di metterlo tra parentesi). […] Altre volte, dietro l’apparenza del livellamento, si insinua un altro artificio inquietante: si afferma la differenza, ma in forma di separazione. Separati ma uguali: questa è la formula a cui ricorrono i movimenti femministi»215.
Trattando della corporeità femminile, Marías riecheggia le considerazioni di Ortega mettendo in luce come l’uomo e la donna abbiano un differente rapporto con la propria “installazione corporea”216. La donna dipende di più dal suo corpo, in cui è, in un certo senso, immersa, da cui è maggiormente condizionata, per cui non vi sono aspetti della sua vita che siano neutri rispetto al corpo, come invece avviene per l’uomo. La biografia della donna è maggiormente corporea rispetto a quella dell’uomo. Ciò sottolinea con maggior forza il carattere personale del suo corpo, che esprime sempre femminilità e non soltanto per i caratteri sessuali. Si pensi alla fenomenologia del seno femminile, parte anatomica che, pur non avendo un riferimento diretto alla sessualità, ha un carattere marcatamente sessuato, tanto da rappresentare uno dei maggiori attributi della femminilità e da diventare una delle principali zone erogene del corpo della donna. Allo stesso tempo, il carattere vettoriale dell’umano si riflette nell’inseparabilità tra la dimensione biologica e il significato biografico, personale: vi è una sorta di teleologia nella struttura corporea, che va al di là della semplice funzione biologica. 215 «Antes la mujer no entraba en algunos lugares de la sociedad, porque era mujer; ahora se la deja entrar con tal de que deje en la puerta su condición de mujer y entre como una realidad neutra, “nivelada”. Antes era una exclusión singular, individual; ahora puede ingresar, con la condición de que suprima lo que tiene de mujer (o al menos ponerlo entre paréntesis). […] Otras veces, bajo la especie de nivelación, se desliza otro artificio inquietante: se afirma la diferencia, pero en forma de separación. Separados pero iguales: es la fórmula a que se acogen los movimientos feministas». Ivi, pp. 122123. 216 Cfr. ivi, pp. 142-154.
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L’intera struttura somatica della donna è finalizzata non alla relazione con il maschio, ma alla funzione materna. Siccome la dimensione personale è tutt’uno con quella funzionale, il seno femminile non è solo un organo dell’allattamento come per gli altri mammiferi, ma assume una valenza personale e simbolica: anche per la sua posizione, significa protezione del bambino, comporta accoglienza, permette lo scambio di sguardi217. Questa relazione faccia a faccia la si ritrova anche nella modalità del rapporto sessuale, il cui carattere personale è evidente anche dalla posizione degli organi genitali. La modernità ha prodotto un innegabile cambiamento nella percezione della bellezza femminile, anche con aspetti negativi, come lo spostamento dell’asse della bellezza dal volto al corpo. Marías osserva che anche la cosmesi ha subito una trasformazione, passando dall’essere al servizio della natura, per cui doveva rendersi impercettibile, a una sua visibilità, manifestata anche dal gesto di truccarsi in pubblico. Questo fenomeno ha una dimensione antropologicamente interessante, in quanto attesta la non naturalità del volto della donna, che nel ritocco e nell’abbellimento tende a rafforzare e reinventare l’espressione della propria femminilità218. «Entro certi limiti, la donna è “responsabile” della sua bellezza, ossia, di quello che fa con ciò che le è stato dato. È un progetto vitale legato intrinsecamente alla corporeità, ma che non si identifica né si confonde con essa […]. La bellezza è “data”, ma anche si “fa”»219.
In questa prospettiva, il progressivo decadimento della bellezza, soprattutto di quella del volto, secondo il filosofo ha originato un fenomeno inquietante, definito il cinismo del sesso, quell’atteggiamento per cui l’attrazione sessuale non poggia più sul fascino personale, ma si giustifica da sola senza rimandare ad altro, divenendo auto217
Cfr. ivi, p. 144. Cfr. ivi, p. 150. 219 «Dentro de ciertos límites, la mujer es “responsable” de su belleza, quiero decir, de lo que hace con lo que para ella le es dado. Es un proyecto vital ligado intrínsecamente a la corporeidad, pero no se identifica ni confunde con ella […]. La belleza es “dada” pero se “hace”». La mujer y su sombra, cit., p. 103. 218
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referenziale220. L’osservazione si riferisce indubbiamente all’epoca del primo femminismo, che ha sferrato una polemica aperta contro il “mito della bellezza”221. Oggi lo scenario è cambiato e la cura dell’apparenza è divenuta una sorta di rifugio per un io inconsistente oppure un’ulteriore merce da comprare e vendere nella società dei consumi. D’altra parte, appare ancora attuale il richiamo di Marías a non separare la dimensione esteriore del corpo dal suo significato simbolico, che esclude ogni anonimato e invita invece alla relazione personale. L’educazione alla bellezza è, per il filosofo, parte integrante di un’autentica educazione sentimentale, non solo per quanto riguarda la capacità di percepirla e di apprezzarla, ma anche per l’uso stesso che si intende farne. Le tecniche per conservare o accrescere la bellezza del corpo e il peso che essa assume nei progetti personali sono aspetti che modificano notevolmente l’esistenza personale e la stessa storia della cultura222. Poiché il corpo è sempre personale e non esiste avulso dalla persona, anche la bellezza, per essere umana, non può risiedere nella semplice perfezione delle membra, ma è legata sempre alle forme di vita. In caso contrario, sarebbe disumana. Questo è il motivo per cui la bellezza del volto ha priorità su quella del resto del corpo. Il volto ha un carattere di promessa, esprime non solo il corpo ma l’intera persona, mentre il corpo è “il corpo di un volto”, ha minore individualità ed è più intercambiabile223. La preferenza accordata all’attrattiva del corpo o, al contrario, a quella del volto comporta una diversa modalità di rapportarsi all’altro, più anonima e indifferenziata nel primo caso, più personale e individualizzante nel secondo. Esiste una chiara differenza tra la bellezza maschile e quella femminile, da ricondurre al fatto che in essa si esprime un progetto di vita che è differente tra i due sessi. Ciò comporta che la bellezza abbia un 220
Cfr. La mujer en el siglo XX, cit., p. 152. Si pensi al noto saggio, piuttosto ideologico, di N. Wolf, The Beauty Myth: How Images of Beauty Are Used Against Women, William Morrow and Company, New York 1991; trad. ital. Il mito della bellezza, Mondadori, Milano 1991. 222 Cfr. La educación sentimental, cit., p. 244. 223 Cfr. ivi, p. 245. 221
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carattere programmatico, come annuncio e riflesso di una particolare forma di vita224. È importante rilevare che la “crisi di lirismo”, la trivializzazione del linguaggio e dei gesti amorosi già messa in luce nel capitolo precedente, colpisce la donna in modo più grave rispetto all’uomo, proprio per la sua maggiore propensione alla narrazione della vita sentimentale: la donna è per natura romanziera (novelera), incline al racconto di sé e più sensibile all’uso della parola. «L’amore consiste fondamentalmente nel dirsi di ciascuno all’altro, forma radicale del “darsi” personalmente […] L’amore consiste principalmente nel parlare e il declino della conversazione lo danneggia profondamente. C’è bisogno di qualcosa che è esistita solo in alcune epoche: un linguaggio amoroso. L’amore ha usato sempre – o quasi sempre – la seduzione attraverso la parola, principalmente da parte dell’uomo. La parola porta alla scoperta di un mondo illuminato dal riflesso dell’amore, il che suole essere un potente veicolo della sua realizzazione»225.
Il carattere dinamico e vulnerabile della corporeità si mostra in modo evidente nella diversa caratterizzazione delle età della vita226. La traiettoria vitale maschile presenta una maggiore omogeneità, mentre nella donna c’è una cesura più netta, costituita dalla fase della fecondità, che se biologicamente non ha subito mutamenti, biograficamente si è invece abbreviata. Un tempo la precocità della maternità rendeva più lungo questo periodo, mentre oggi il ritardo nel diventare madri lo riduce a una frazione di gran lunga meno consistente. D’altra 224
Cfr. ivi, p. 248. «El amor consiste fundamentalmente en decirse cada uno al otro, forma radical de “darse” personalmente […] El amor consiste muy principalmente en hablar, y el declive de la conversación lo afecta profundamente. Hace falta lo que sólo en algunas épocas existe: un lenguaje amoroso. El amor ha usado siempre – o casi siempre – la seducción por la palabra, principalmente por parte del hombre. La palabra lleva al descubrimiento de un mundo iluminado por el reflejo del amor, y esto suele ser un poderoso vehículo de su realización». La mujer y su sombra, cit., p. 19; cfr. anche La mujer en el siglo XX, cit., p. 233. 226 Cfr. La mujer en el siglo XX, pp. 197-205. 225
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parte, un tempo la donna passava dall’infanzia alla maturità quasi direttamente, oggi la giovinezza si prolunga indefinitamente, ma senza coincidere necessariamente con la maternità. La vecchiaia vera e propria arriva più tardi, ma oggi in modo meno favorevole del passato, perché le forme sociali di vita non prevedono che si invecchi. Per questo motivo, si giunge impreparati alla vecchiaia, che è considerata solo come il tempo della perdita ed è caratterizzata soprattutto dalla solitudine, forse per la donna ancor più che per l’uomo. La riduzione del nucleo familiare, la maggiore mobilità lavorativa, l’occupazione femminile fuori casa fa sì che il più delle volte la donna trascorra il periodo della sua vecchiaia, spesso abbastanza lungo, in totale solitudine. In relazione all’uomo, mentre in passato la donna era meno longeva, per cui vi era un gran numero di “uomini soli”, oggi non è più così. Questa prolungata convivenza tra i due sessi è un elemento estremamente positivo, che forse potrebbe produrre un effetto importante: riconciliare la donna con il tempo, considerato spesso come il grande nemico. «La donna quasi mai si è rassegnata a non avere vent’anni; il resto della sua vita è in genere una sorda protesta piena di rancore contro questa ingiustizia: questo ha fatto sì che non cercasse la peculiarità di ciascuna età della vita, la sua attrattiva e il suo valore»227.
Occorre pertanto che sia l’uomo che la donna rinnovino una sorta di “immaginazione reciproca”, ossia la capacità di percepirsi per quello che si è e per quello che si può ancora diventare in ciascuna delle fasi della propria vita, in modo da conservare l’entusiasmo per la bellezza e l’impegno nel progetto. In questo modo, il prolungamento della vita biologica, potrà essere completato dall’intensificazione della vita biografica228. 227
«La mujer no se ha resignado casi nunca a no tener veinte años; el resto de su vida ha solido ser una sorda protesta rencorosa contra esa injusticia, lo cual ha llevado a no buscar la sustantividad de cada edad, su atractivo y valor». Ivi, p. 205. 228 Cfr. La educación sentimental, cit., p. 252.
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Conclusioni
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DUE ANTROPOLOGIE A CONFRONTO
Alla persona appartengono in ugual misura la presenza e la latenza, afferma Julián Marías1. Non si può negare nei due filosofi di cui ci siamo occupati lo sforzo di esaminare a fondo questo carattere problematico della persona e in particolare il significato e il ruolo della corporeità. La loro riflessione si colloca nella linea di pensiero inaugurata da Husserl, e ancora prima da Schopenhauer, proseguita anche da Marcel e Merleau-Ponty, che ha rivolto la sua attenzione al corpo proprio, nei suoi vissuti, come condizione di vitalità e centro di esperienza. D’altra parte, il loro contributo presenta caratteri di originalità, in primo luogo per l’ampiezza della prospettiva d’indagine. La corporeità è infatti indagata nelle sue diverse implicazioni, non solo come come condizione di essere al mondo, ma anche nella sua dimensione sessuata, nella valenza espressiva, nell’essenziale vulnerabilità e temporalità, nelle dinamiche del riconoscimento reciproco. La carne, termine amato da Ortega che ne ha sottolineato la carica simbolica e l’espressività, rivela e nasconde, rende possibile l’agire e vi oppone resistenza, è energia vitale e páthos della fatica, unisce e separa. Il merito dei due filosofi è aver condotto la loro analisi muovendosi sempre sul piano esistenziale, a livello dell’esperienza quotidiana, attraverso un metodo che privilegia la narrazione piuttosto che l’argomentazione, sfidando il rischio della mancanza di rigore e dell’assenza di sistematicità. Il nodo problematico più consistente è quello di conciliare la stori1
Cfr. J. Marías, Persona, cit., p. 62.
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cità con la permanenza o, per dirla in termini ricoeuriani, l’ipseità con la medesimezza, in una parola collocare l’antropologia all’interno di una metafisica, per evitare le derive dello storicismo e del vitalismo. È rispetto a una nozione di natura umana, che si può parlare di dignità e di significato del corpo, riconoscendogli un valore non semplicemente strumentale, all’interno di una concezione teleologica di vita umana. In questa prospettiva la proposta di Marías appare più coerente di quella del suo maestro. Nonostante i punti di contatto e la sua dichiarata filiazione rispetto a Ortega, sono evidenti anche le profonde differenze che da lui lo separano. Per Ortega non esiste una natura umana da cui partire e dunque una perfezione umana a cui giungere che si possa definire a priori. Nel suo sforzo di valorizzare il dinamismo della vita, egli finisce per far consistere l’essere essenzialmente nel fare e nel farsi2. L’uomo è “un pellegrino dell’essere”, che vivendo forma se stesso; non ha natura, ma storia: «storia, è il modo di essere di un ente che è costitutivamente, radicalmente, mobilità e cambiamento […] L’uomo non può essere identificato. È un Arsenio Lupin metafisico»3. “Natura” è per Ortega sinonimo di immutabilità, pertanto egli la giudica in radicale opposizione alla libertà. L’uomo sarebbe libero «perché, non possedendo un essere già dato e perpetuo, non ha altro rimedio che andarselo a cercare. E questo – ciò che sarà in ogni futuro immediato o remoto – deve sceglierlo e deciderlo egli stesso»4. Pur nella valorizzazione dell’espressività del corpo, della sua centralità nell’incontro con l’altro, della simbolica del gesto e del vestito, 2
Cfr. M. Rovira, Ortega desde el humanismo clásico, EUNSA, Pamplona 2002, p. 58. 3 «Historia, es el modo de ser de un ente que es constitutivamente, radicalmente, movilidad y cambio […] Al hombre no se le puede identificar. Es un Arsenio Lupin metafisico». Sobre la razón histórica, Obras completas, cit., vol. XII, p. 237. Si tratta di un corso di 5 lezioni impartito nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Buenos Aires nei mesi di settembre e ottobre 1940, seguito da un corso tenuto nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Lisbona, nel novembre e dicembre 1944. 4 «Porque, no poseyendo un ser dado y perpetuo, no tiene más remedio que írselo buscando. Y esto – lo que va a ser en todo futuro inmediato o remoto – tiene que elegirlo y decidirlo él mismo». J. Ortega y Gasset, Vives (1940), Obras completas, cit., vol. V, p. 495.
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in Ortega non troviamo una definizione chiara del vincolo strutturale tra corpo e io, per cui la sua proposta antropologica rimane incerta e spesso ambigua negli esiti. Nella sua radicalizzazione della vita come compito, come un “da farsi” (un quehacer) l’uomo ha esistenza, ma non essenza. In questo modo, il corporeo non riesce ad assumere un valore intrinseco sul piano ontologico e pertanto non diventa una condizione significativa sul piano morale. Se risulta chiaro che il corpo non è un semplice strumento dell’anima e che non è neppure un valore assoluto, non è altrettanto chiaro in che rapporto siano il bene naturale del corpo e il bene morale della persona, in una parola, la natura e la libertà. Non basta affermare che la vita biologica sia una condizione necessaria, seppure non sufficiente, dell’esistenza umana: occorre chiarire in che modo attraverso di essa si può esprimere la vocazione della persona a perseguire liberamente il bene. La radicalizzazione orteghiana della libertà, intesa come capacità di progettare se stessi non chiarisce adeguatamente questo aspetto, come appare dalla seguente osservazione: «Alla domanda “Cosa sono io?” innanzitutto occorre rispondere che io non sono una cosa corpo, né la quasicosa anima, né la supercosa che risulta dal tentativo dell’unione di questi. Io non sono in assoluto una cosa, ma sono una persona. […] E cos’è una persona? È l’io. Chi è questo io? È un qualcosa che risulta essere un qualcuno. […] la consistenza dell’io è sommamente strana, perché possiede la strana consistenza di essere futurizione»5.
Al pari di Ortega, anche Julián Marías respinge l’ontologia di stampo essenzialista e nel tentativo di elaborare un’antropologia in prima persona intende superare l’impostazione che deduce le proprietà della vita dalla sostanza uomo. La domanda antropologica da cui partire per 5 «A la pregunta “¿Qué soy yo?” lo primero que es forzoso contestar es que yo no soy la cosa cuerpo, ni la quasicosa alma, ni la supercosa que resulta del intento de la unión de aquéllas. Yo no soy en absoluto una cosa, sino que soy una persona. […] ¿Y qué es una persona? Es el yo. ¿Quién es ese yo? Es un algo que resulta ser un alguien. […] la consistencia del yo es sumamente extraña, porque posee la extraña consistencia de ser futurición». J. Ortega y Gasset, Sobre la razón histórica, Obras completas, cit., vol. XII, pp. 211-212.
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Marías è rappresentata non da “chi è l’uomo?”, ma da “chi sono io?”, per poi poter indagare la consistenza e le proprietà di questo “io” che sono – e non dell’io in generale – e di tutto ciò che è “mio”, nel senso che concorre a definirmi. Anch’egli è critico nei confronti dell’idea di sostanza, ma la sua critica è rivolta alla sostanza cartesiana, autosufficiente e autonoma o a quella hegeliana, sovraindividuale. Tuttavia, è consapevole che la concezione orteghiana vada integrata e collocata all’interno di una metafisica, per evitare la deriva dello storicismo assoluto. Con questo scopo egli elabora la sua visione della realtà della vita strutturata in tre livelli: la struttura analitica, l’insieme dei requisiti universali della vita, costituisce la metafisica come teoria generale della vita; la struttura empirica, ossia l’uomo, conosciuto attraverso l’esperienza, il cui carattere permanente è studiato dall’antropologia; la realizzazione storico-sociale della vita, che è la forma effettiva in cui si sviluppa la struttura empirica, ossia la biografia6. Biografia, struttura empirica, teoria generale della vita sono gli elementi che consentono di passare dal singolare all’universale e viceversa. Le installazioni della struttura empirica – la corporeità, la sensibilità, la condizione sessuata, la condizione amorosa – sono le forme stabili ma dinamiche in cui la vita umana si realizza, in un’unità inscindibile tra biologia e biografia. Considerato nella sua corporeità l’uomo, dunque, non è solo natura, ma neppure semplicemente cultura. È innegabile che in vari passaggi della produzione di Marías la questione della natura umana appaia un punto non del tutto risolto. Se da un lato egli respinge lo storicismo orteghiano, nella sua considerazione dell’uomo come un essere che “ha da farsi”, pura storia e afferma che l’uomo “non è natura, ma ha natura” (no es naturaleza, pero tiene naturaleza)7, tuttavia prende le distanze anche da un’idea “cosificante” di natura, intesa come qualcosa di statico e di già dato. Il suo timore è l’applicazione all’uomo di una concezione naturalistica di natura, che egli ritiene alla base di molti equivoci nella storia del pensiero, mentre è importante cogliere la polivalenza di questo termine, distinguendo tra natura in generale e natura umana, e in quest’ul6 7
Cfr. J. Marías, La educación sentimental, cit., p. 15. Id., Antropología metafísica, cit., p. 77.
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tima tra ciò che è dinamico e storico e ciò che resta stabile8. Occorre prestare attenzione alla differenza tra immutabilità e stabilità: immutabile è ciò che non ammette cambiamento, mentre stabile è ciò che può comunque svilupparsi ed evolvere pur conservando la sua forma: io sono me stesso ma mai lo stesso9. Ad esempio, respingendo la pretesa uguaglianza tra i sessi, giustificata da alcuni in base alla “natura”, Marías prende le distanze dall’“inganno della natura” (la trampa de la naturaleza), cioè dall’intendere la natura solo in senso biologico, per cui “naturale” sarebbe “ciò che è dato dalla natura”, ossia l’insieme delle caratterisiche psicofisiche: «Basta forse che la natura abbia dotato l’uomo di un sistema sessuale maschile e la donna di una altro femminile? Bastano queste strutture biologiche o psichiche perché ne consegua una relazione tra loro? Basta forse la natura? È l’equivoco del concetto aristotelico di natura»10.
Il filosofo intende difendere l’unità tra la natura e la persona: ciò che è naturale è anche personale. Per questo la relazione tra l’uomo e la donna non è solo una differenza anatomo-psicologica, ma è anche biografica, è la scoperta di un altro mondo su cui ci si affaccia «con meraviglia e quasi abbagliati» (con asombro y deslumbramiento)11. Più volte Marías ha dichiarato come la nozione di “persona” fosse centrale nel suo itinerario speculativo12 e come fosse necessario fon8
Id., Tratado de lo mejor. La moral y las formas de vida, pp. 17-18; trad. ital. Piccolo trattato del bene e del meglio: la morale e le forme della vita, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. Si veda anche: El tema del hombre, cit., p. 24. 9 Persona, cit., p. 63. 10«¿Es que basta con que la naturaleza haya dotado al hombre de un sistema sexual masculino y a la mujer de otro femenino? ¿Es que basta con esas estructuras biológicas o psíquicas para que se siga una relación entre ellos? ¿Basta con la naturaleza? Es el equívoco del concepto aristotélico de naturaleza». J. Marías, La mujer en el siglo XX, p. 124. 11 Ivi, p. 124. 12 «Todos mis libros han sido exploraciones de la realidad de la persona». Id., Persona, Prólogo, cit., p. 10.
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dare “una nuova ontologia”13 per comprendere chi sia davvero l’essere personale. Vi sono passaggi in cui egli chiaramente respinge una concezione radicalmente attualista dell’uomo, affermando che la persona è una realtà distinta dai suoi atti: questi sono suoi in quanto ne è l’origine e in questi atti essa realizza se stessa. Tuttavia, vi è una sorta di apriorismo dell’io, per cui “nella persona è, paradossalmente ‘presente’ il futuro”14. L’io non è una cosa né una sostanza statica e inerte, ma un qualcuno diveniente, tuttavia egli diviene a partire da una natura: «la struttura progettuale non [è] dell’“io”, ma di me e questo può far perdere di vista che io mi progetto, che i progetti sgorgano o emergono da un nucleo che, pur essendo esso stesso progettuale, non si identifica con i suoi progetti»15. Né cosa gettata nel mondo né io chiuso in se stesso, né organismo biologico né sostanza pensante: l’arcano della persona, della persona incarnata, si rende trasparente poco a poco e solo dopo un lungo percorso speculativo. Ma la fedeltà alla filosofia come “visione responsabile” – secondo l’espressione di Marías – invita a non accontentarsi di schemi riduzionistici e a conservare un atteggiamento di stupore. Se è il corpo a renderci presente la persona, è anche vero che occorre la pazienza di decifrarne il linguaggio, per comprendere quel significato che rimanda oltre il corpo.
13
Persona, cit., p. 136. Ivi, pp. 136-137. 15 «La estructura proyectiva, no del “yo”, sino de mí, y esto puede hacer perder de vista que yo me proyecto, que los proyectos brotan o emergen de un núcleo que, aún siendo él mismo proyectivo, no se identifica con sus proyectos». Persona, cit., p. 134. 14
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CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLA VITA E DELLE OPERE DI JOSÉ ORTEGA Y GASSET
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9 maggio 1883 1891-1897
1902
1905-1907
1907-8
1910
1913 1914 1915 1916
Nasce a Madrid. Suo padre dirige il quotidiano “El Imparcial”. Studia presso il Collegio dei Gesuiti di San Estanislao de Miraflores del Palo (Málaga), ma in questo periodo perde la fede, anche per l’influenza della lettura di Renan. Laureatosi in filosofia, inizia a collaborare come giornalista con “El Imparcial”, “El Sol” e “La Voz”. Segue corsi di filosofia presso le Università di Lipsia, di Marburgo e di Berlino, dove è allievo dei neo-kantiani H. Cohen e P. Natorp. Partecipa alla fondazione della rivista «Faro». È nominato Professore di psicologia, logica ed etica nella Escuela Superior del Magisterio di Madrid. Polemizza con Maetzu riguardo al cosiddetto “problema de España” e con Maura y Gamazo sulla questione del liberalismo spagnolo. Vince la cattedra di Metafisica presso l’Università Centrale di Madrid, rimasta vacante dopo la morte di Salmerón. Pubblica le Meditaciones del Quijote. Fonda la Liga de Educación Política. Fonda con Azorín e E. D’Ors la rivista «España. Semanario de la vida nacional». Primo viaggio in Argentina con suo padre, con 179
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1920 1923 1928
1929
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1930 1931 1936
1938
1945 1949
1951
1955
18 ottobre 1955
lo scopo di ricevere la cattedra della Institución Cultural Española nell’Università di Buenos Aires. Pubblica il primo volume di El Espectador. Publica España invertebrada Fonda la «Revista de Occidente». Secondo viaggio in Argentina, dove tiene un corso nella Facoltà di Filosofia e Lettere di Buenos Aires. Si oppone agli arresti di studenti ordinati da Primo de Rivera e rinuncia alla cattedra. Pubblica La rebelión de las masas. Fonda assieme a Pérez de Ayala e G. Marañón la Agrupación al Servicio de la República. Allo scoppio della guerra civile, parte in esilio volontario, recandosi prima a Parigi, poi in Olanda, nel 1939 in Argentina, fino a stabilirsi a Lisbona dal 1942. Tiene una serie di conferenze nelle università di diverse città europee: Rotterdam, Delft, Amsterdam e L’Aia. Ritorna in Spagna e fonda a Madrid, assieme a Julián Marías, l’Instituto de Humanidades. Viaggia negli Stati Uniti, invitato dall’Università di Aspen (Colorado), per celebrare il centenario di Goethe. Viaggia in Germania, dove tiene una conferenza nell’Università Libera di Berlino intitolata Europa meditatio quaedam. Invitato da Keyserling, partecipa al Colloquio di Darmstadt (Darmstäder Gesprächen) con Martin Heidegger, dove tiene la conferenza El mito del hombre allende la técnica. A maggio, viaggia in Italia dove tiene la sua ultima conferenza presso la Fondazione Cini di Venezia, dal titolo Il Medioevo e l’ idea di nazione. Muore a Madrid.
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CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLA VITA E DELLE OPERE DI JULIÁN MARÍAS
17 giugno 1914 1919 1931
1932-1933 1935
1936
15 maggio 1939
Nasce a Valladolid, ultimo di tre fratelli. Si trasferisce con la famiglia a Madrid. Si iscrive alla Facultad de Filosofía y Letras dell’Università di Madrid, mentre il 14 aprile del 1931, conclusasi la dittatura di Primo de Rivera, si dichiara decaduta la monarchia e si proclama la Repubblica. Segue i corsi di Ortega y Gasset, di Zubiri, Gaos, García Morente. Ottiene la laurea in Filosofia. La sua intenzione di proseguire con il dottorato è resa impossibile dallo scoppio della guerra civile, a seguito della rivolta provocata dall’assassinio di José Calvo Sotelo. Allo scoppio della guerra civile, si arruola nell’esercito repubblicano. Esilio di Ortega in Portogallo fino al 1945. Terminata la guerra civile, Marías, accusato di collaborazione con Besteiro1, è imprigionato per tre mesi. Liberato, non può insegnare all’università per il veto alla docenza opposto a Ortega dal regime.
1 Julián Besteiro, dal 1912 docente di Logica presso la Facoltà di Filosofia dell’Uni-
versità di Madrid, pur mantenendo posizioni moderate fu un dirigente del Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e ricoprì una carica politica durante la Repubblica. Con l’avvento del regime di Franco, fu tra i docenti epurati dall’Università e, accusato di politica antispagnola, condannato a trent’anni di carcere. Morirà nel carcere di Carmona (Siviglia), il 27 settembre del 1940.
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14 agosto 1941
Sposa Dolores Franco, collega di università, con la quale inizia un lungo sodalizio affettivo e intellettuale durato fino alla morte di lei, nel 1977. 1941 Pubblica il suo primo saggio, Historia de la Filosofía, che segna la tappa iniziale del progetto di una rinascita intellettuale della Spagna2. 1941 Inizia il dottorato sotto la guida di Zubiri, svolgendo una tesi su La filosofía del padre A. Gratry. La restauración de la Metafísica en el problema de Dios y de la persona. 13 gennaio 1942 Viene convocata la seduta per la discussione della tesi di dottorato, che per motivi ideologici non viene approvata. Nel 1951, presenterà di nuovo la stessa tesi, che otterrà la qualifica di Eccellente. 1943 Pubblica il saggio su Miguel De Unamuno, indicandolo come uno dei suoi maestri, pur non avendo mai assistito alle sue lezioni. 1945 Inizia una stretta collaborazione con Ortega, ritornato a Madrid dall’esilio. 1947 Pubblica Introducción a la filosofía. 1948 Ortega si avvale della sua collaborazione per creare l’Instituto de Humanidades, dove Marías tiene un corso sulla “teoria delle generazioni”3. 1951 È invitato a Lima e negli Stati Uniti come visiting professor; seguiranno altri viaggi in diverse università europee e sudamericane. 2 Poco prima di essere imprigionato, nel maggio del 1939, aveva ricevuto una lettera da Ortega, esiliato a Lisbona, che lo incitava al compito di ricostruire la Spagna. La reazione di Marías fu entusiasta: «Presi sul serio i suoi consigli: riedificare la Spagna, risollevare di nuovo la propria vita». J. Marías, Una vida presente. Memorias 1 (19141951), Alianza editorial, Madrid 1989, p. 281. 3 Risale a Ortega la formulazione del “metodo storico delle generazioni”, fondato sulla tesi che la storia si compone di generazioni, ciascuna con un’unità culturale propria e specifica. Per comprendere un’epoca storica, occorre, pertanto, studiarla nella prospettiva della generazione che la caratterizza, analizzandone rivendicazioni e ideali. Cfr. J.L. Abellán, Historia crítica del pensamiento español. De la Gran Guerra a la guerra civil española, vol. 5/III, Espasa Calpe, Madrid 1988, pp. 204-205.
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1955
Pubblica La estructura social, che riflette l’interesse per la natura storica delle società. Ottobre 1955 Morte di Ortega. 1960 Pubblica Ortega. Circunstancia y vocación. 1964 È nominato membro della Real Academia Española. 1970 Pubblica Antropología metafísica. 1975 Con la morte di Francisco Franco e il cambiamento politico, inizia un periodo in cui partecipa attivamente alla vita pubblica, mentre scrive numerosi saggi. 1977 È nominato senatore e partecipa alla formulazione della Costituzione Spagnola, ma declina l’incarico dopo l’approvazione del testo. 1979 Anche a causa del dolore per la scomparsa della moglie, si avvicina alla questione di Dio e della religione e pubblica Problemas del cristianismo. 1980-1996 Inizia un periodo dedicato a saggi centrati sulla realtà della persona e sui diversi aspetti della vita umana: La mujer en el siglo XX (1980); Breve tratado de la ilusión (1984); La mujer y su sombra (1987); La felicidad humana (1987); La educación sentimental (1992); Mapa del mundo personal (1993); Tratado de lo mejor. La moral y las formas de vida (1995); Persona (1996). 1982 È nominato membro del Pontificio Consiglio per la Cultura. 1990 È nominato membro della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. 15 dicembre 2005 Muore a Madrid all’età di 91 anni.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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1. Opere di José Ortega y Gasset (i numeri romani si riferiscono ai volumi: J. Ortega y Gasset, Obras completas, Revista de Occidente, Madrid 1963-1964) Adán en el Paraíso, I, pp. 474-493. Tres cuadros del vino, II, pp. 50-58. Meditaciones del Quijote, I, pp. 309-400. Leyendo el “Adolfo”, libro de amor, II, pp. 25-28. Ensayo de estética a manera de prólogo, VI, pp. 247-264. Estética en el tranvía, II, pp. 33-39. El alma como excentricidad, II, pp. 471-472. Para la cultura del amor, II, pp. 141-144. Divagación ante el retrato de la marquesa de Santillana, II, pp. 687694. Meditación del marco, II, pp. 307-313. Verdad y perspectiva, II, pp. 15-21. Vitalidad, alma, espíritu, II, pp. 451-480. De Francesca a Beatrice, III, pp. 317-336. El silencio, gran Brahamán, II, pp. 625-633. Sobre la expresión, fenómeno cósmico, II, pp. 577-594.
185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Nota sobre el “amor cortés”, III, pp. 443-445. La percepción del prójimo, VI, pp. 153-163. Pidiendo un Goethe desde dentro, IV, pp. 395-420. Estudios sobre el amor, V, pp. 561-626. Prólogo a “Teoría de la expresión” de Karl Bühler, VII, pp. 35-37. El hombre y la gente, VII, pp. 69-271.
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¿Qué es filosofía?, VII, pp. 273-438.
2.
Opere di Julián Marías (i numeri romani si riferiscono ai volumi: J. Marías, Obras, Revista de Occidente, Madrid 1982)
Miguel de Unanuno, V, pp. 2-135. Introducción a la filosofía, II, pp. 1-366. Una psicología del español, in Ensayos de convivencia, III, pp. 5361. El tema del hombre (1952), Espasa Calpe, Madrid 19868. La psiquiatría vista desde la filosofía, IV, pp. 362-377. Realidad y ser en la filosofía española, V, pp. 519-529. Idea de la metafísica, II, pp. 371-413. La teoría de la vida social en Ortega, V, pp. 447-458. Ortega. Circunstancia y vocación, Alianza Editorial, Madrid 1983. La estructura corpórea de la vida humana, in Nuevos Ensayos de filosofía, VIII, pp. 602-618. Antropología metafísica, Revista de Occidente, Madrid 1970; Alianza editorial, Madrid 1983 e 1995. 186 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Las tendencias actuales del saber y el horizonte de la filosofía, in Nuevos Ensayos de filosofía, VIII, pp. 516-519. Una vision antropológica de la obesidad y la delgadez, in La justicia social y otras justicias, Espasa Calpe, Madrid 1979, pp. 113-120. La mujer en el siglo XX, Alianza Editorial, Madrid 1980. Breve tratado de la ilusión, Alianza Editorial, Madrid 1982. Ortega. Las trayectorias, Alianza Editorial, Madrid 1983.
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España intelegible. Razón histórica de las Españas, Alianza Editorial, Madrid 1985. La mujer y su sombra, Alianza Editorial, Madrid 1986. La felicidad humana, Alianza Editorial, Madrid 1987. Una vida presente. Memorias 1, 2, 3, Alianza Editorial, Madrid 19881989. La educación sentimental, Alianza Editorial, Madrid 1992. Mapa del mundo personal, Alianza Editorial, Madrid 1993. Tratado de lo mejor. La moral y las formas de vida, Alianza Editorial, Madrid 1995. Persona, Alianza Editorial, Madrid 1996. Enamoramiento: la persona que se convierte en proyecto: http:// www.hottopos.com/mirand12/jms5enam.htm.
3.
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2012
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