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Italian Pages 498 [1053] Year 2016
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Core Curriculum Malattie del sistema nervoso
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NOTA La medicina è una scienza in perenne evoluzione. L’ampliamento delle nostre conoscenze dovuto a nuove ricerche e a sempre maggiore esperienza clinica porta come conseguenza alla necessità di continue modifiche nelle terapie farmacologiche e nel trattamento del paziente. Gli autori, i curatori e l’editore di quest’opera hanno posto ogni attenzione per garantire l’accuratezza dei dosaggi citati e il loro accordo con gli standard generalmente accettati al momento della pubblicazione. Tenendo, pero, in considerazione la possibilité di errore umano e i continui sviluppi della scienza medica, gli autori, i curatori, l’editore e tutti coloro in qualche modo coinvolti nella preparazione o pubblicazione di quest’opera non possono garantire che le informazioni ivi contenute siano accurate o complete in ogni loro parte; essi, inoltre, non possono essere ritenuti responsabili di eventuali errori od omissioni o dei risultati ottenuti dall’utilizzo di tali informazioni. I lettori dovranno quindi verificare le informazioni presso altre fonti. In particolare dovranno verificare le informazioni specifiche che accompagnano il prodotto farmaceutico che intendono somministrare per assicurarsi che non siano intervenute modificazioni nelle dosi raccomandate, né nelle controindicazioni alla sua somministrazione; tale verifica è particolarmente importante nel caso di farmaci di recente introduzione o utilizzati raramente. I lettori dovranno inoltre consultare i loro laboratori per i valori normali.
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Programme Manager: Luciana Dambra Product Developer: Chiara Daelli Produzione: Donatella Giuliani Redazione: Lorenza Dainese Fotocomposizione: Centrofotocomposizione Dorigo, Padova Grafica di copertina: Elisabetta Del Zoppo ISBN: 9788838694011
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INDICE
AUTORI PREFAZIONE INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLE MALATTIE NEUROLOGICHE. IL METODO NEUROLOGICO
C. Ferrarese L’EVOLUZIONE DELLA NEUROLOGIA LA NEUROLOGIA NELLA MEDICINA ODIERNA PARTE I SEMEIOTICA NEUROLOGICA 1 LE NUOVE POTENZIALITÀ DIAGNOSTICHE G. Bogliun, F. Da Re, G. Gelosa, M. Grimaldi, M. Patassini, L. Tremolizzo DIAGNOSTICA NEURORADIOLOGICA MEDICINA NUCLEARE DIAGNOSTICA NEUROFISIOLOGICA DIAGNOSTICA LIQUORALE LE FRONTIERE NEUROBIOLOGICHE
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BIBLIOGRAFIA 2 FISIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA DEI DISTURBI MOTORI C. Ferrarese, L. Tremolizzo RICHIAMI DI ANATOMO-FISIOLOGIA DEL SISTEMA MOTORIO SEMEIOTICA DELLA MOTILITÀ BIBLIOGRAFIA 3 FISIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA DELLA SENSIBILITÀ S. Fermi, I. Appollonio DEFINIZIONI E TERMINOLOGIA LE VIE DELLA SENSIBILITÀ IL TALAMO E LE AREE SENSITIVE CORTICALI ESAME DELLE SENSIBILITÀ SINDROMI SENSITIVE TOPOGRAFICHE BIBLIOGRAFIA 4 NEUROPSICOLOGIA E DEFICIT DELLE FUNZIONI COGNITIVE V. Isella, P. Nichelli LINGUAGGIO: LE AFASIE E I DISTURBI DEL LINGUAGGIO SCRITTO MEMORIA E DEFICIT MNESICI I DEFICIT MNESICI NELLE DEMENZE E NELLE AMNESIE FOCALI FUNZIONI PRASSICHE: LE APRASSIE RICONOSCIMENTO E IDENTIFICAZIONE DI OGGETTI E VOLTI: LE AGNOSIE FUNZIONI FRONTALI: ATTENZIONE, FUNZIONI ESECUTIVE E ASPETTI AFFETTIVOCOMPORTAMENTALI
DISTURBI SPAZIALI E FENOMENI CORRELATI L’ESAME NEUROPSICOLOGICO: INDICAZIONI, STRUMENTI E INTERPRETAZIONE BIBLIOGRAFIA
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5 FISIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA DEI NERVI CRANICI. SINDROMI ALTERNE E MIDOLLARI
C. Ferrarese, G. Gelosa ORGANIZZAZIONE MORFOFUNZIONALE DEI NERVI CRANICI SINDROMI DEL TRONCO ENCEFALICO (SINDROMI ALTERNE) SINDROMI MIDOLLARI BIBLIOGRAFIA 6 FLSIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA DELLE FUNZIONI VEGETATIVE. LE SINCOPI P. Cortelli FLSIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA DELLE FUNZIONI VEGETATIVE SINCOPI BIBLIOGRAFIA PARTE II MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE 7 COMA, ALTERAZIONI DELLA COSCIENZA E SONNO M.G. Marciani, F. Placidi IL COMA IL SONNO BIBLIOGRAFIA 8 EPILESSIA A. Romigi, M.G. Marciani INTRODUZIONE CRISI EPILETTICHE CLASSIFICAZIONE DELL’EPILESSIA STATO DI MALE EPILETTICO DIAGNOSI E DIAGNOSI DIFFERENZIALE
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STATEGIE TERAPEUTICHE BIBLIOGRAFIA 9 CEFALEE E ALGIE CRANIOFACCIALI L. Fumagalli, P Santoro INTRODUZIONE CEFALEE PRIMARIE NEVRALGIE CRANICHE: NEVRALGIA DEL TRIGEMINO CEFALEE PARTICOLARI: EMICRANIA OFTALMOPLEGICA E SINDROME DI TOLOSAHUNT CEFALEE SECONDARIE BIBLIOGRAFIA 10 TRAUMI CRANICI E SPINALI E.P. Sganzerla, C. Lucarini, A. Vimercati TRAUMI CRANICI TRAUMI SPINALI BIBLIOGRAFIA 11 PATOLOGIA RADICOLOMIDOLLARE DI INTERESSE NEUROCHIRURGICO E.P. Sganzerla, P. Guerra INTRODUZIONE PATOLOGIA DEGENERATIVA LESIONI INFIAMMATORIE LESIONI EMORRAGICHE TUMORI SPINALI CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA 12
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INFEZIONI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE M.L. Fusco, I. Appollonio MENINGITI ENCEFALITI ASCESSO CEREBRALE PATOLOGIE NEUROLOGICHE IN CORSO DI HIV, RELATIVE INFEZIONI OPPORTuNISTICHE E NEOPLASIE
INFEZIONI DEL MIDOLLO SPINALE ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI TRASMISSIBILI BIBLIOGRAFIA 13 MALATTIE DEMIELINIZZANTI G. Cavalletti, D. Curro, G. Mancardi, B. Frigeni INTRODUZIONE SCLEROSI MULTIPLA NEUROMIELITE OTTICA (MALATTIA DI DEVIC) ENCEFALOMIELITE ACUTA DISSEMINATA BIBLIOGRAFIA 14 MALATTIE CEREBROVASCOLARI S. Beretta, M. Brioschi, G.B. Pappadà, C. Ferrarese INTRODUZIONE ED EPIDEMIOLOGIA ICTUS ISCHEMICO ATTACCHI ISCHEMICI TRANSITORI (TIA) TROMBOSI VENOSE CEREBRALI EMORRAGIA CEREBRALE INTRAPARENCHIMALE PRIMARIA EMORRAGIA CEREBRALE INTRAPARENCHIMALE SECONDARIA E MALFORMAZIONI VASCOLARI
EMORRAGIA SUBARACNOIDEA DA ROTTURA DI ANEURISMA CEREBRALE RLABILITAZIONE POST-ICTUS CEREBRALE
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BIBLIOGRAFIA 15 NEOPLASIE INTRACRANICHE E.P. Sganzerla, C. Giussani INTRODUZIONE EPIDEMIOLOGIA PECULIARITÀ DEI TUMORI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE SLNTOMATOLOGIA CLINICA TUMORI EXTRA- E INTRA-ASSIALI PRINCIPI DL TRATTAMENTO BIBLIOGRAFIA 16 MALATTIE NEURODEGENERATIVE: NUOVA FRONTIERA DL RICERCA C. Ferrarese, L. Tremolizzo AGGREGATI PROTEICI: VERSO UNA NUOVA CLASSIFICAZIONE DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
I MECCANISMI CATABOLICI: PROTEASOMA E LISOSOMA IL RUOLO DELL’INFIAMMAZIONE BIBLIOGRAFIA 17 DEMENZE V. Isella, P. Nichelli DEFINIZIONE, CRITERI DIAGNOSTICI E CLASSIFICAZIONE DEMENZE DL ORIGINE NEURODEGENERATIVA DEMENZE VASCOLARI DEMENZE REVERSIBILI ALTRE DEMENZE BIBLIOGRAFIA 18
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MALATTIE EXTRAPIRAMIDALI L. Brighina, R. Piolti, G. Stefanoni, E. Saracchi INTRODUZIONE MALATTIA DI PARKINSON E PARKINSONISMI SLNDROMI COREICHE SINDROMI DISTONICHE TREMORE ESSENZIALE BIBLIOGRAFIA 19 MALATTIE DEL MOTONEURONE L. Tremolizzo, C. Ferrarese SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA MALATTIE DEL PRIMO MOTONEURONE MALATTIE DEL SECONDO MOTONEURONE BIBLIOGRAFIA 20 ATASSIE A. Federico, E. Pretegiani INTRODUZIONE ATASSIE EREDITARIE ATASSIE SPORADICHE ATASSIE ACQUISITE BIBLIOGRAFIA 21 MALATTIE NEUROMETABOLICHE A. Federico, S. Palmeri INTRODUZIONE APPPROCCIO CLINICO DISORDINI DEL METABOLISMO DEGLI AMINOACIDI
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DISORDINI DEL TRASPORTO DEGLI AMINOACIDI ACIDURIE ORGANICHE DISORDINI DEL CICLO DELL’UREA ENCEFALOMIOPATIE MITOCONDRIALI MALATTIE LISOSOMIALI MALATTIE DEL METABOLISMO DEI GLICOSFINGOLIPIDI MALATTIE PEROSSISOMIALI DLSTURBI DEL METABOLISMO DEI METALLI MALATTIE DA DEFICIT DI LIPOPROTEINE GLICOGENOSI BIBLIOGRAFIA PARTE III MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO E DEI MUSCOLI 22 MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO E. Susani, G. Cavaletti, A. Toscano INTRODUZIONE APPROCCIO DIAGNOSTICO CLASSIFICAZIONE DELLE PATOLOGIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO GANGLIONOPATIE PLESSOPATIE PATOLOGIE DEI TRONCHI NERVOSI BIBLIOGRAFIA 23 MIOPATIE G. Cavaletti, G. Meola, B. Frigeni MIOPATIE EREDITARIE MIOPATIE MITOCONDRIALI MIOPATIE DA ACCUMULO METABOLICO
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MIOPATIE ACQUISITE BIBLIOGRAFIA 24 PATOLOGIE DELLA GIUNZIONE NEUROMUSCOLARE P. Alberti, G. Cavaletti, B. Frigeni INTRODUZIONE MIASTENIA GRAVIS SINDROMI MIASTENICHE BIBLIOGRAFIA PARTE IV NEUROLOGIA, MEDICINA INTERNA E URGENZE NEUROLOGICHE 25 COMPLICANZE NEUROLOGICHE DI MALATTIE INTERNISTICHE J.C. Di Francesco, I. Appollonio INTRODUZIONE MALATTIE CARDIACHE MALATTIE POLMONARI MALATTIE GASTROINTESTINALI MALATTIE EPATICHE MALATTIE RENALI SINDROMI NEUROLOGICHE PARANEOPLASTICHE MALATTIE REUMATICHE E DEL TESSUTO CONNETTIVO MALATTIE EMATOLOGICHE BIBLIOGRAFIA 26 URGENZE NEUROLOGICHE G. Stefanoni, I. Appollonio CEFALEA ACUTA DEFICIT SENSITIVO-MOTORI
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VERTIGINE ACUTA IPOVISUS E DIPLOPIA ALTERAZIONI IN ATTO DELLO STATO DI COSCIENZA BIBLIOGRAFIA INDICE ANALITICO TAVOLE A COLORI
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AUTORI
Carlo Ferrarese Professore Ordinario di Neurologia Dipartimento di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Milano-Bicocca Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano Direttore della Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Ildebrando Appollonio Professore Associato di Neurologia Dipartimento di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Guido Cavaletti Professore Ordinario di Anatomia Umana Dipartimento di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica
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AO San Gerardo, Monza Pietro Cortelli Professore Ordinario di Neurologia Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie Alma Mater Studiorum - Università di Bologna IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche Antonio Federico Professore Ordinario di Neurologia Università degli Studi di Siena Direttore UOC Clinica Neurologica e Malattie NeuroMetaboliche Chairman Scientific Committee European Accademy of Neurology Gianluigi Mancardi Professore Ordinario di Neurologia Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica e Scienze Materno-Infantili Università degli Studi di Genova Direttore della Clinica Neurologica Maria Grazia Marciani Professore Ordinario di Neurofisiopatologia Dipartimento di Neuroscienze Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Giovanni Meola Professore Ordinario di Neurologia Università degli Studi di Milano Direttore UOC Neurologia - Stroke Unit IRCCS Policlinico, S. Donato Paolo Nichelli Professore Ordinario di Neurologia
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Dipartimento di Scienze Biomediche Metaboliche e Neuroscienze Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Erik P. Sganzerla Professore Associato di Neurochirurgia Dipartimento di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Milano-Bicocca Direttore Clinica Neurochirurgica AO San Gerardo, Monza Antonio Toscano Professore Ordinario di Neurologia Università degli Studi di Messina Responsabile Centro Regionale Malattie Neuromuscolari AOU Policlinico G. Martino, Messina Hanno inoltre collaborato: Paola Alberti Specializzando in Neurologia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Simone Beretta Neurologo Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Laura Brighina Neurologo Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza
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Monica Brioschi Neurologo Dipartimento Neuroscienze AO Niguarda Cé Granda, Milano Graziella Bogliun Neurologo e Neurofisiologo Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Daniela Currò Dottoranda di Ricerca in Neuroscienze Cliniche e Sperimentali Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica e Scienze Materno-Infantili Università degli Studi di Genova Fulvio Da Re Specializzando in Neurologia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Jacopo C. Di Francesco Neurologo Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Silvia Fermi Neurologo UO Neurologia Ospedale Maggiore, Lodi Maria Letizia Fusco Neurologo
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Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Lorenzo Fumagalli Neurologo Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Giorgio Gelosa Neurologo Dipartimento di Neuroscienze AO Niguarda Cé Granda, Milano Carlo Giussani Professore Associato in Neurochirurgia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurochirurgica AO San Gerardo, Monza Marco Grimaldi Neuroradiologo Responsabile Servizio di Neuroradiologia Humanitas Research Hospital Rozzano (MI) Paolo Guerra Neurochirurgo Clinica Neurochirurgica AO San Gerardo, Monza Valeria Isella Ricercatore in Neurologia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza
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Silvia Palmeri già Ricercatore in Neurologia, già Professore Aggregato (in pensione) Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neurochirurgiche e del Comportamento Università degli Studi di Siena Giovanni B. Pappadà già Neurochirurgo (in pensione) Clinica Neurochirurgica AO San Gerardo, Monza Mirko Patassini Neuroradiologo Università degli Studi di Milano-Bicocca Neuroradiologia AO San Gerardo, Monza Roberto Piolti Neurologo Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Fabio Placidi Ricercatore, Servizio di Neurofisiopatologia Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Elena Pretegiani Neurologo Dottore di Ricerca in Scienze Neurologiche Applicate Dipartimento di Scienze Neurologiche, Neurochirurgiche e del Comportamento Università degli Studi di Siena Andrea Romigi Dirigente Medico, Neurologo
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Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Patrizia Santoro Neurologo Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Giovanni Stefanoni Specializzando in Neurologia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Emanuela Susani Neurologo SC Neurologia e Stroke Unit AO Niguarda Cà Granda, Milano Lucio Tremolizzo Ricercatore in Neurologia Università degli Studi di Milano-Bicocca Clinica Neurologica AO San Gerardo, Monza Alberto Vimercati Neurochirurgo Clinica Neurochirurgica AO San Gerardo, Monza
Hanno collaborato alla prima edizione: Barbara Frigeni Neurologo UO Neurologia
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Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo Enrico Saracchi Neurologo AO Bolognini Seriate (BG) Ringraziamenti dell’Editore L’editore desidera ringraziare I docenti che hanno partecipato alla review e che con le loro preziose indicazioni hanno contribuito alla realizzazione della seconda edizione di Core Curriculum Malattie del sistema nervoso: Vincenzo Di Lazzaro, Università Campus Bio-Medico di Roma Antonio Gambardella, Università degli Studi Magna Grœcia di Catanzaro Maria Teresa Giordana, Università degli Studi di Torino Paolo Girlanda, Università degli Studi di Messina Vincenzo La Bella, Università degli Studi di Palermo Francesco Luigi Le Pira, Università degli Studi di Catania Francesco Lolli, Università degli Studi di Firenze Alessandra Lugaresi, Università degli Studi Gabriele D’Annunzio di ChietiPescara Carmine Marini, Università degli Studi dell’Aquila Mariarosa Anna Beatrice Melone, Seconda Università degli Studi di Napoli Roberto Monastero, Università degli Studi di Palermo Alberto Priori, Università degli Studi di Milano
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Leandro Provinciali, Università Politecnica delle Marche Giorgio Sandrini, Università degli Studi di Pavia Elio Scarpini, Università degli Studi di Milano Mauro Silvestrini, Università Politecnica delle Marche
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PREFAZIONE
La prima edizione del Manuale di Neurologia dedicato agli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia è nata per la necessità di creare un testo pratico, che contenesse gli elementi che orientano il medico di fronte a un problema neurologico, per poterlo riconoscere, per valutarne l’importanza in termini di urgenza, di approcci diagnostici, terapeutici e di prognosi. Nel contempo è stata colta la dinamicité della disciplina, che negli ultimi anni è andata incontro a una profonda evoluzione, legata ai progressi delle neuroscienze di base, delle metodiche di imaging e all’utilizzo di nuovl farmaci e di nuove procedure interventistiche. Negli anni più recenti l’approccio diagnostico e terapeutico è cambiato per molte malattie, per cui a breve distanza dalla prima edizione, che ha avuto un grande successo tra gli studenti dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia italiani, si è resa necessaria una revisione integrale di molti capitoli. A titolo esemplificativo, sono state descritte le nuove potenzialité diagnostiche della TAC perfusionale, della RMN, dei nuovi traccianti per la medicina nucleare, che molto recentemente sono stati introdotti anche nella pratica clinica. L’approccio allo studio dei disturbi cognitivi è stato integrato sia nella parte di semeiotica sia in quella clinica, lo studio del sonno e dei disturbi epilettici è stato aggiornato alla luce delle nuove conoscenze, sono state riportate le nuove classificazioni delle sindromi epilettiche, delle cefalee e
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della sclerosi multipla, con ampia descrizione dei nuovi farmaci disponibili. Nella terapia dell’ictus acuto è stata inserita la trombectomia meccanica, che si è dimostrata efficace in vari trial nei primi mesi del 2015 e che sta rapidamente diffondendosi nella pratica clinica, mentre sono state introdotte le nuove tecniche di neuronavigazione per le terapie chirurgiche delle neoplasie cerebrali. Sono state descritte le nuove scoperte genetiche nel campo della sclerosi laterale amiotrofica e della demenza frontotemporale, che hanno portato a ipotizzare nuovi meccanismi patogenetici, e le nuove scoperte nell’ambito delle patologie neuromuscolari. Infine, è stato aggiunto un nuovo capitolo dedicato alle urgenze neurologiche, data l’importanza del loro riconoscimento e tempestivo trattamento da parte di qualsiasi medico, corredato di utili algoritmi diagnostici-decisionali. Rimane sostanzialmente inalterato il “taglio” originale del testo, che è pratico e didattico, con un approccio allo studio delle singole patologie essenzialmente clinico, con un’attenzione particolare ai criteri diagnostici, a flow-charts diagnostico-terapeutiche, alla diagnosi differenziale. Le potenzialità terapeutiche mediche e chirurgiche vengono opportunamente illustrate e discusse, anche alla luce dei più recenti trial e della evidencebased medicine. Come tutti i testi della collana “Core Curriculum”, ogni capitolo è corredato da utili sottolineature: nei Key points sono sintetizzati i punti essenziali di ciascun capitolo, nei Focus on i richiami ad approfondimenti e nei Non dimenticare che... vengono posti in evidenza messaggi e concetti importanti. Alla fine di ciascun capitolo sono riportate alcune voci bibliografiche essenziali per ulteriori approfondimenti. Nella revisione di molti capitoli sono stati coinvolti nuovi curatori, tra i maggiori esperti nell’ambito nazionale dei diversi campi, e nuovi collaboratori che lavorano attivamente sia in ambito clinico sia di ricerca nei rispettivi ambiti. Tale nuova edizione risulta quindi il frutto di una collaborazione delle più prestigiose sedi della Neurologia Italiana, in tutto il territorio nazionale. Ringrazio tutti gli autori e l’editore per l’impegno e l’entusiasmo profuso per creare questo nuovo e moderno manuale di Neurologia, che ci auguriamo possa aiutare gli studenti ad apprendere nella maniera più corretta ed efficace tale complessa disciplina, che sta evolvendo rapidamente negli ultimi anni.
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Carlo Ferrarese
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Guida alla lettura
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLE MALATTIE NEUROLOGICHE. IL METODO NEUROLOGICO C. Ferrarese
L’EVOLUZIONE DELLA NEUROLOGIA La nascita della Neurologia come disciplina separata dalla Medicina generale è tradizionalmente legata all’opera di Jean Martin Charcot (1825-1893), grande clinico parigino, che nel 1882 ottenne la prima Cattedra di Malattie Nervose e Mentali alla Salpêtrière di Parigi. Non fu questo solo un atto formale, ma il risultato della sintesi operata da Charcot fra i cardini del metodo anatomoclinico e le osservazioni personali sui malati, che testimoniava il sorgere di un nuovo spazio disciplinare scientifico, individuato da un proprio metodo e linguaggio. Ancora oggi, dopo 130 anni, il metodo scientifico neurologico individuato da Charcot è il cardine del ragionamento del neurologo, che sulla base di un’accurata indagine anamnestica e della ricerca di segni specifici attraverso l’esame neurologico ipotizza la sede di lesione e successivamente la possibile eziopatogenesi. Nessuna disciplina medica ha sperimentato uno sviluppo di nuove conoscenze e di nuove metodologie come la neurologia, che si è arricchita di potenzialità diagnostiche e terapeutiche e sta attualmente facendo passi
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fondamentali per la comprensione dei meccanismi alla base di molte malattie. Tuttavia, nonostante le attuali metodiche diagnostiche ci consentano di documentare lesioni strutturali del sistema nervoso e di indagare marcatori molecolari di processi patologici, alla base della diagnosi di una patologia neurologica rimangono un’accurata anamnesi e l’esame obiettivo, che poi guideranno il clinico nella scelta degli esami più adeguati al caso specifico.
LA NEUROLOGIA NELLA MEDICINA ODIERNA Le malattie neurologiche sono una parte fondamentale della medicina moderna e costituiscono una sfida oltre che un problema sanitario, umano e sociale, data la grande preponderanza di patologie invalidanti, croniche o degenerative, tipiche dell’età più avanzata e in crescita per il progressivo invecchiamento della popolazione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha calcolato che le patologie neurologiche costituiscono la principale causa di invalidità e di perdita di vita attiva (DALY, disability-adjusted life year), mentre una recente analisi sul ruolo del neurologo e sull’impatto delle patologie neurologiche acute in Italia ha dimostrato che le patologie neurologiche seguono solo a quelle cardiologiche come richieste specialistiche nel Pronto Soccorso, con le patologie cerebrovascolari al primo posto, seguite delle cefalee e dalle perdite di coscienza. Un rapido inquadramento diagnostico di una patologia a verosimile origine neurologica puo spesso salvare la vita al paziente, anche grazie alle terapie oggi disponibili. Nel setting di Pronto Soccorso sono inoltre rapidamente effettuabili indagini di imaging, che vanno pero sempre guidate da un corretto inquadramento clinico. Proprio grazie alle nuove potenzialità diagnostiche e terapeutiche, negli ultimi anni si è evidenziata l’opportunità di intervenire con maggiore efficacia e tempestività di fronte a quadri neurologici acuti, nei quali un adeguato trattamento puo salvare la vita al paziente. Sono cosí sorte unità intensive dedicate di neurorianimazione e subintensive quali le stroke-unit, in linea con la riorganizzazione delle degenze ospedaliere in base alle intensità di cure. Sta anche cambiando la caratterizzazione, e quindi la formazione, del neurologo odierno, che non è solo un fine studioso di patologie complesse e per certi aspetti ancora da chiarire, ma anche un medico “di frontiera” che opera nel contesto di situazioni di emergenza medica, con un bagaglio
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sempre più ricco di procedure diagnostiche e terapeutiche.
L’approccio al paziente neurologico La diagnosi neurologica assume connotati peculiari rispetto alle altre discipline mediche. Il primo obiettivo è quello di definire una possibile localizzazione anatomica della lesione responsabile dei sintomi e dei segni rilevati nel paziente, prima di ipotizzare la natura o la possibile eziologia della malattia. La localizzazione anatomica infatti restringe il campo delle possibili eziologie e puo evitare errori diagnostici. Sintomi e segni vanno quindi interpretati in termini fisiopatologici, per configurare un quadro sindromico particolare collegato a un preciso quadro lesionale. Va a questo punto tenuta presente la distinzione tra sintomi e segni negativi, legati cioè direttamente alla perdita di funzione dell’area danneggiata (per esempio, deficit sensitivo, deficit stenico, disturbo del linguaggio), e sintomi e segni positivi, dovuti all’iperfunzione di un’area che non è più controllata o inibita da un’altra area a funzione inibitoria, che risulta lesionata (per esempio, comparsa di iperreflessia o ipertono, o di riflessi patologici o movimenti involontari).
L’anamnesi neurologica Il corretto approccio al paziente con un problema neurologico inizia con un’accurata indagine anamnestica, svolta direttamente con il paziente e confermata dai familiari o persone che hanno seguito il paziente nel corso della patologia. L’accurata anamnesi deve già porre alcune ipotesi su una possibile localizzazione della lesione e sulla sua natura, in base alla distribuzione dei sintomi, alla loro modalità di comparsa, al loro decorso temporale, alle circostanze in cui si sono verificati. Vanno quindi colti e approfonditi i seguenti aspetti. 1. Localizzazione dei sintomi. La topografia dei sintomi riferiti dal paziente va definita accuratamente poiché già la localizzazione corporea orienta sulla sede lesionale, diversa, per esempio, se un deficit sensitivo o motorio
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è limitato a un segmento (lesione probabilmente periferica) o a un emisoma (lesione probabilmente centrale). 2. Interpretazione della natura dei sintomi descritti. Spesso i pazienti riferiscono con termini vaghi o imprecisi i loro sintomi, o forniscono direttamente proprie interpretazioni personali. Va invece precisata bene la natura dei sintomi riferiti, per esempio se si tratta di un vero deficit di forza o di sensibilità, oppure di parestesie e di che tipo, se quanto riferito genericamente come “vertigini” indica una vera sensazione rotatoria oppure un’instabilità posturale o una sensazione prelipotimica. 3. Decorso temporale della sintomatologia. Il momento preciso di comparsa, la modalità di esordio (acuta, subacuta), nonché la velocità di progressione dei sintomi e la loro evoluzione temporale vanno accuratamente precisati, poiché sono indizi precisi sulla possibile natura della patologia. 4. Approfondire l’anamnesi familiare. Poiché molte malattie neurologiche riconoscono una precisa causa genetica o una predisposizione familiare è fondamentale precisare accuratamente l’anamnesi familiare. 5. Riscontro dell’anamnesi con l’intervista di parenti o conoscenti. Spesso la patologia neurologica del paziente (deficit mnesici, alterato stato di coscienza o deficit cognitivi, sovra- o sottostima dei deficit per quadri depressivi o alterate funzioni mentali) condiziona una non realistica percezione della sintomatologia, che va quindi richiesta alle persone che vivono a stretto contatto col paziente. 6. Patologie mediche concomitanti. Molte patologie sistemiche predispongono o sono accompagnate da manifestazioni neurologiche, per cui un’accurata anamnesi medica generale è di fondamentale importanza. 7. Esposizione a sostanze tossiche o farmaci. Molti tossici ambientali, farmaci, sostanze di abuso (alcol, tabacco, droghe) predispongono o direttamente determinano varie patologie neurologiche, e quindi vanno indagati, spesso cercando di vincere la reticenza dei pazienti. Va infine sottolineato che il tipo di racconto del paziente (preciso o lacunoso, diretto o tortuoso, con alterazioni di memoria o del linguaggio, con connotazioni depressive o ipocondriache) spesso fornisce utili elementi per un corretto inquadramento diagnostico, e quindi va accuratamente osservato e riportato.
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L’esame obiettivo neurologico L’esame obiettivo va sempre orientato da una precedente accurata anamnesi, poiché spesso è volto a confermare o chiarire le impressioni e le ipotesi rilevate con questa. Benché appaia spesso complesso e misterioso, è basato su semplici tecniche che documentano precise funzioni neurologiche, la cui padronanza è fondamentale per qualsiasi medico, per lo meno per orientare su una problematica neurologica che poi sarà approfondita dallo specialista. Solo l’esperienza clinica aiuterà ad apprezzare sottili differenze tra un esame normale o patologico, mentre segni evidenti sono facili da cogliere (FIG. 1).
FIGURA 1 Passaggi fondamentali nella diagnosi delle malattie neurologiche. Fonte: Ropper A.H., Brown R.H., Adams e Victor - Principi di neurologia, 8a ed., McGraw-Hill, Milano, 2006. Puô essere utile seguire sempre lo stesso schema nella successione di funzioni da esaminare, per esempio le funzioni mentali, l’orientamento, il linguaggio e le altre funzioni simboliche, i nervi cranici, le funzioni motorie, sensitive, la stazione eretta e la deambulazione. Poiché le manovre semiologiche sono basate su semplificazioni e standardizzazioni atte a valutare il corretto funzionamento di un apparato, queste verranno descritte nei rispettivi capitoli insieme a un richiamo di fisiopatologia delle varie aree (VEDI FOCUS ON: L’ESAME OBIETTIVO NEUROLOGICO, IN OUESTA PAGINA).
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FOCUS ON L’ESAME OBIETTIVO NEUROLOGICO L’esame obiettivo neurologico (EON) rappresenta, insieme all’anamnesi, il fondamento dell’approccio del neurologo alla problematica clinica del suo paziente: mediante esso è possibile, infatti, localizzare la/le lesione/i e guidare cosi la scelta degli esami strumentali necessari a confermare la diagnosi. Più specificamente, l’esame obiettivo neurologico prevede la valutazione di: 1. funzioni cognitive superiori (VEDI CAP. 4); 2. nervi cranici (VEDI CAP. 5); 3. motilità (comprensivo di tono, forza, riflessi, coordinazione) (VEDI CAP. 2); 4. sensibilità (VEDI CAP. 3); 5. stazione eretta e marcia (VEDI CAP. 2). Una corretta esecuzione delle manovre semeiologiche necessarie alla valutazione di queste funzioni prevede un continuo perfezionamento nel loro utilizzo mediante l’assidua pratica clinica. Il martelletto neurologico rappresenta lo strumento indispensabile per lo studio dei riflessi ed è assurto a vero e proprio simbolo che contraddistingue la figura del neurologo oltre che delle varie Scuole Neurologiche nazionali mediante lo sviluppo di svariati modelli. Spesso, infine, l’armamentario del neurologo si completa, tra gli altri strumenti, con una pila (riflessi pupillari), uno spillo (spesso presente nel manico dei martelletti) e un diapason (sensibilità). Sviluppato e perfezionato in un’epoca in cui il sistema nervoso centrale rappresentava una sorta di black box accessibile solo post-mortem, l’EON continua a rivestire un ruolo di primo piano anche nell’epoca delle moderne neuroimmagini.
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PARTE I SEMEIOTICA NEUROLOGICA
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1 LE NUOVE POTENZIALITÀ DIAGNOSTICHE G. Bogliun, F. Da Re, G. Gelosa, M. Grimaldi, M. Patassini, L. Tremolizzo
KEY POINTS Le nuove potenzialità diagnostiche neuroradiologiche hanno radicalmente modificato l’iter diagnostico delle malattie neurologiche. La medicina nucleare ha permesso nuove modalità di indagine, che dalla ricerca stanno attualmente diffondendosi anche nella pratica clinica. La classica diagnostica neurofisiologica rimane fondamentale per lo studio di disfunzioni dell’eccitabilità corticale e per lo studio delle malattie del sistema nervoso periferico e delle patologie muscolari. La diagnostica liquorale è fondamentale per la diagnosi e la terapia delle malattie infettive, infiammatorie, autoimmuni, e più recentemente è stata proposta per la diagnosi precoce e differenziale di quadri di decadimento cognitivo. Le ricerche di genetica, epigenetica, biologia molecolare hanno fatto luce sulle basi biologiche di molte malattie del sistema nervoso.
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DIAGNOSTICA NEURORADIOLOGICA L’evoluzione tecnológica che ha caratterizzato le metodiche di acquisizione di immagini negli ultimi due decenni ha profondamente modificato il ruolo della neuroradiologia nel percorso diagnostico-assistenziale e terapeutico delle malattie del sistema nervoso. Tale evoluzione sia per la tomografia computerizzata (TC) sia per la risonanza magnetica nucleare (RM) puô essere ricondotta alla capacità delle macchine di acquisire un numero sempre maggiore di informazioni e di farlo sempre più rapidamente con conseguente incremento di risoluzione spaziale e temporale, dove per risoluzione spaziale si intende la produzione di immagini sempre più dettagliate di organi e apparati, con progresso quindi della diagnostica morfologica, e per risoluzione temporale la capacità di esplorare gli organi in tempi cosí rapidi, dell’ordine di millisecondi, da poterne apprezzare le modificazioni nel corso del funzionamento, pertanto realizzando gli studi cosiddetti funzionali. Scopo di questo capitolo non è una trattazione sistematica, per la quale si rimanda ai singoli argomenti, ma fornire un panorama orientativo degli strumenti attualmente a disposizione della diagnostica neuroradiologica, con particolare riferimento alle tecnologie di più recente introduzione.
Tomografia computerizzata Com’è noto la TC è la rappresentazione densitometrica di una sezione di tessuto attraversata da un fascio di radiazioni che subisce un’attenuazione dell’energia trasportata relativamente alle strutture con cui interagisce. Le informazioni digitali cosí ottenute sono costituite dalle cosiddette unità Hounsfield che rappresentano la traduzione numerica della densità dei singoli elementi di tessuto esplorato. Lo sviluppo della tecnologia multidetettore (MDTC), che rappresenta la modalità attuale di acquisizione delle immagini, consente di acquisire più sezioni di tessuto contemporaneamente durante il movimento del lettino su cui è posizionato il paziente; il risultato è l’acquisizione di un volume di informazioni sostenuto da più sezioni adiacenti, il cui numero dipende dalla quantità di detettori, cioè di sorgenti radiogene, impiegati. I software applicativi consentono successivamente di poter elaborare
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queste informazioni numeriche secondo una serie di possibilità: la più importante novità è la possibilità di visualizzare l’informazione anatomica non più esclusivamente su piani assiali, ma in qualsiasi piano dello spazio, ottenendo pertanto ricostruzioni multiplanari con risoluzione spaziale pressoché sovrapponibile a quella di acquisizione. Ancora, è possibile elaborare l’informazione per poter rappresentare solo determinate densità e quindi ottenere suggestive immagini tridimensionali di strutture omogenee come segmenti scheletrici, e in particolare delle strutture craniche, e vasi, la cui densità viene potenziata e differenziata con l’utilizzo del mezzo di contrasto. Dal punto di vista clinico la TC mantiene un ruolo centrale nel percorso di diagnosi neuroradiologica quale strumento semplice, economico e facilmente disponibile in particolare nelle situazioni di urgenza, data la rapidità esecutiva, nel primo inquadramento di molte patologie neurologiche soprattutto vascolari e degenerative, nel follow-up in corso di terapie e interventi chirurgici; da sottolineare inoltre l’impiego della TC come metodica elettiva nello studio di distretti di prevalente struttura ossea come la rocca petrosa e le cavità timpaniche, il massiccio facciale e nello studio della patologia del rachide, sia degenerativa che meta-traumatica o neoplastica. La TC è indicazione di prima istanza dopo insorgenza ictale di sintomi focali neurologici, in particolare per la capacità di riconoscimento del sanguinamento in fase acuta la cui distribuzione ed entità ne possono suggerire l’eziologia, ricordando che l’ictus ischemico non emorragico puô non essere riconoscibile nelle prime ore successive l’esordio clinico. La TC rappresenta il primo bilancio lesionale nella patologia traumatica per le conseguenze sia encefaliche che ossee del massiccio facciale e della colonna vertebrale; consente infine una rapida e precisa valutazione delle cavità liquorali, in particolare dell’aspetto e delle dimensioni dei ventricoli intracranici con il rapido riconoscimento dei quadri caratterizzati da disturbo della dinamica di circolazione del liquor quali l’idrocefalo o l’esclusione ostruttiva di cavità a opera di espansi endocranici o ematomi; in tal senso la TC è la metodica utilizzata anche nel follow-up postoperatorio e nel semplice controllo evolutivo di lesioni già tipizzate. La somministrazione di mezzo di contrasto (mdc) iodato per via endovenosa, oltre che per il riconoscimento della neovascolarizzazione neoplastica e del danno di barriera, è alla base degli studi angio-TC, il cui impiego attualmente è sempre più numeroso in sovrapposizione e spesso in
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alternativa con gli studi angiografici tradizionali: le indicazioni più significative in campo neuroradiologico sono il bilancio lesionale delle lesioni parietali degli assi arteriosi cervicali, con immagini sulle quali è possibile la valutazione oggettiva delle stenosi in termini quantitativi, qualitativi e anche tridimensionali, e lo studio di pervietà e morfologia delle arterie e dei principali seni venosi intracranici; anche per queste tecniche i vantaggi rispetto a quelle tradizionali sono la semplicità, la rapidità e la scarsa invasività d’impiego, con limiti che riguardano l’assenza della fase dinamica che registra i tempi e le direzioni di flusso. Di recente introduzione la TC-perfusionale rappresenta un’applicazione di imaging funzionale che descrive la distribuzione del flusso sanguigno negli organi parenchimatosi, nello specifico dell’encefalo, basato sulla capacità della procedura di determinare in ogni singolo volume di tessuto esaminato le modificazioni di densità durante il rapido passaggio di un tracciante iodato a densità nota. In pratica l’indagine TC viene eseguita ripetutamente e rapidamente in corrispondenza delle stesse sezioni di tessuto cerebrale durante la somministrazione di mdc per via endovenosa; successivamente un software dedicato è in grado di fornire mappe che descrivono le modificazioni della densità rispetto al tempo, fornendo quindi informazioni sulla perfusione cerebrale (CBF, cerebral blood flow), sulle dimensioni del letto vascolare (CBV, cerebral blood vessel) e sul tempo impiegato dal tracciante ad attraversare il letto vascolare (MTT, mean transit time e TTP, time to peak). Per un approfondimento, VEDI FOCUS ON: TC PERFUSIONALE, PAG. 9.
Risonanza magnética nucleare La RM è la metodica di imaging che attualmente riveste un ruolo centrale nell’iter diagnostico di molte malattie neurologiche; le principali caratteristiche che ne determinano l’importanza sono la capacità di precisa rappresentazione morfologica delle strutture nervose e la possibilità di fornire un gran numero di informazioni circa la composizione e le caratteristiche chimico-fisiche dei tessuti esplorati: tali rilievi possono essere interpretati per definire sede e costituzione di rilievi fisiologici e patologici contribuendo a volte in modo determinante alla formulazione della diagnosi.
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FOCUS ON TC PERFUSIONALE La TC perfusionale ha oggi assunto un ruolo fondamentale nella gestione del paziente con ictus acuto. Recentemente sono stati pubblicati diversi lavori, il capostipite dei quali è stato uno studio multicentrico condotto in Olanda (MR CLEAN, 2015), che hanno globalmente dimostrato l’efficacia del trattamento endovascolare di trombectomia meccanica, spesso in associazione a trombolisi endovenosa, nei pazienti colpiti da ictus acuto. Gli studi hanno altresi dimostrato che si ottengono dei buoni risultati da questo trattamento, solo nei casi in cui sia stata effettuata una adeguata selezione dei pazienti. In quest’ottica la TC perfusionale è divenuta un metodica d’indagine essenziale. Infatti attraverso questo esame, ampiamente diffuso e di rapida esecuzione, è possibile calcolare, in rapporti percentuali, quelle che sono le aree cerebrali ancora salvabili (penombra ischemica) e quelle che sono ormai irrimediabilmente compromesse (core infartuale); questo calcolo, che puo essere ottenuto anche tramite dei software completamente automatizzati (EXTEND-IA 2015), ci permette di individuare quindi i pazienti che beneficeranno del trattamento. In particolare nei casi in cui la penombra ischemica è notevolmente maggiore del core infartuale, le possibilité di recuperare tessuto cerebrale sono significativamente maggiori e quindi si ha indicazione al trattamento. Il principale vantaggio dell’applicazione dello studio perfusionale in questo tipo di patologia è che è possibile superare il rigido limite della finestra temporale, imposto in passato, a seguito dell’insorgenza del sintomo neurologico; infatti con questa indagine il parametro temporale diviene subalterno alla presenza di circoli di compenso validi che possano comunque garantire una adeguata perfusione del tessuto cerebrale colpito durante le fasi di sofferenza ischemica. Una volta verificata la presenza dei suddetti circoli possiamo quindi essere ragionevolmente sicuri che disostruendo il vaso, tramite trombolisi e.v. oppure mediante trombectomia intra-arteriosa, oppure mediante la
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combinazione delle due metodiche, sarà possibile recuperare il territorio vascolare sofferente, revitalizzando cosí il relativo tessuto nervoso. In questa ottica è inoltre possibile valutare l’indicazione al trattamento anche quando l’insorgenza dei sintomi non è databile con certezza, come nel caso degli ictus al risveglio che in passato erano esclusi a priori da qualsiasi opzione terapeutica. Infine, la TC perfusionale puo essere utilizzata anche nella valutazione emodinamica del flusso cerebrale in altre situazioni di emergenza, come l’emorragia subaracnoidea, e nella discriminazione dei tessuti neoplastici.
Le immagini di RM sono ottenute, come peraltro tutte le immagini radiologiche, rilevando le interazioni tra la somministrazione di una nota radiazione energetica e la materia, interazioni che sono successivamente quantificate attraverso un opportuno sistema rilevatore. Nel caso della RM l’energia viene somministrata attraverso impulsi di radiofrequenza che agiscono sul tessuto preventivamente sottoposto a un potente campo magnetico che condiziona il rigido allineamento di tutte le componenti caratterizzate da carica elettrica che lo compongono. Tra le tecniche innovative recentemente introdotte negli studi clinici di RM assumono importanza crescente gli studi di diffusione (DWI), il tensore di diffusione (DTI), la spettroscopia (MRS) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI).
DWI La DWI (diffusion weight imaging) è una tecnica in grado di fornire nei distretti in esame informazioni sui valori assoluti (ADC, analog digital converter) di diffusività molecolare, una misura cioè del grado di libertà di movimento delle molecole all’interno delle cellule: di grande importanza è il riconoscimento della riduzione di diffusività molecolare nel rigonfiamento cellulare che si manifesta quale prima alterazione neuropatologica nell’ischemia cerebrale, in relazione al danno di scambio ionico a livello delle membrane cellulari, consentendo alla metodica la capacità di distinguere le lesioni in fase acuta e iperacuta anche prima che si manifestino sulle immagini tradizionali, a pochi minuti dall’insorgenza del quadro clinico.
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La diffusività molecolare si incrementa nell’edema vasogenico e si riduce in quello citotossico, aumentando ancora anche nelle situazioni di ipercellularità quali le neoplasie.
DTI Gli studi di DTI (diffusion tensor imaging) aggiungono alla possibilità di valutare il movimento molecolare intracellulare l’informazione relativa alla direzione del movimento stesso: le immagini che si ottengono, particolarmente suggestive se poi trattate con algoritmi di ricostruzione tridimensionale, riflettono le direzioni preferenziali che sono naturalmente orientate secondo il flusso assonale, in grado quindi di fornire informazioni sui grandi fasci assonali sia centrifughi e centripeti, come ad esempio lemnischi e fasci piramidali, sia di associazione interemisferica. L’utilità della metodica è pertanto correlata alla possibilità di identificare la posizione e di studiare l’integrità dei fasci assonali sia nei confronti di malattie diffuse sia nelle adiacenze di lesioni intrassiali, nonché di fornire la possibilità di rappresentare in vivo le molteplici connessioni intra- e interemisferiche tra le diverse aree cerebrali.
Spettroscopia in risonanza magnitica La spettroscopia in risonanza magnetica (MRS, magnetic resonance spectroscopy) è una tecnica di imaging che consente di verificare e quantificare la presenza di specifici metaboliti in volumi di tessuti selezionati dall’operatore all’interno dell’organo sottoposto all’indagine. La tecnica si basa sulla possibilità di discriminare la risposta di molecole differenti per composizione chimica a impulsi di radiofrequenza predeterminati; allo stato dell’arte in ambito encefalico utilizza il protone idrogeno come target della risposta, data la disponibilità e la quantità preponderante rispetto agli altri composti (1H-MRS). Cosí la quantità di protoni idrogeno e la loro posizione in relazione alla conformazione molecolare del composto a cui appartengono condizionano una risposta agli impulsi di radiofrequenza che consente di identificare all’interno del volume bersaglio differenti molecole. Nello studio dei tumori, peraltro combinandosi con la capacità di localizzazione spaziale della risonanza magnetica convenzionale, la
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spettroscopia fornisce importanti indicazioni diagnostiche, essendo ormai noto che il rapporto colina/NAA è un utile parametro prognostico poiché in tutti i tipi di neoplasia la colina risulta aumentata per l’alterato catabolismo di membrana, mentre il NAA, indice di densità neuronale, è tanto più ridotto quanto più il tumore è infiltrante. Su tali parametri la 1H-MRS facilita la diagnosi differenziale tra lesioni proliferative e lesioni non neoplastiche; in tal senso offre anche la possibilità di riconoscere e differenziare le recidive di malattia rispetto alle gliosi dopo trattamento radiante. Altro importante campo di applicazione della tecnica spettroscopica riguarda le lesioni cerebrali ipossiche o ischemiche dove si osserva l’aumento del lattato, metabolita normalmente non rilevabile, che incrementa parallelamente all’utilizzo della via energetica anaerobica intracellulare, e rende la 1H-MRS molto sensibile nella diagnosi di questo tipo di lesioni soprattutto nell’ambito della patologia neonatale. Ancora, l’utilizzo della spettroscopia per caratterizzare il pattern metabolico di malattie infettive, infiammatorie e demielinizzanti a livello del sistema nervoso centrale (SNC) contribuisce alla diagnosi differenziale di queste malattie; molti gli studi nell’ambito dei disordini metabolici e attualmente vi è un interesse crescente per lo studio del metabolismo anche in corso di malattie neurodegenerative e dopo traumi cerebrali.
Risonanza magnetica funzionale La risonanza magnetica funzionale propriamente detta, o fMRI (functional magnetic resonance imaging), è una metodica che consente di riconoscere le aree cerebrali attivate durante l’esecuzione di un compito. Si basa sul cosiddetto effetto BOLD (blood oxygenation level-dependent) che si riferisce al fisiologico incremento del consumo di ossigeno e alla vasodilatazione locale dei territori cerebrali attivati durante l’esercizio di una funzione specifica rispetto alle aree circostanti. Grazie al differente segnale prodotto dalla desossiemoglobina rispetto alla ossiemoglobina, il rapido campionamento successivo che la macchina opera sul cervello consente di rappresentare una mappa cerebrale della presenza dei due componenti durante l’esercizio proposto, identificando pertanto le aree funzionalmente attive rispetto alle circostanti. Di particolare rilievo clinico la possibilità di identificare in tal modo le
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aree eloquenti, in particolare motorie, sensitive e del linguaggio, nelle fasi di planning di interventi chirurgici al fine di evitarne un coinvolgimento intraoperatorio. La più interessante applicazione della metodica, sia in campo clinico che di ricerca, è perô la possibilità di esplorare attraverso opportuni paradigmi di indagine che sono elaborati con logica multidisciplinare in collaborazione con i neuropsicologi, anche le funzioni cerebrali cognitive, in tal modo contribuendo allo studio della localizzazione e delle complesse interazioni che si realizzano nel cervello durante l’esecuzione di funzioni semplici e complesse sia nella sfera della percezione e del movimento sia nella sfera del comportamento. Per un approfondimento, VEDI FOCUS ON: RESTING-STATE, IN OUESTA PAGINA.
MEDICINA NUCLEARE La medicina nucleare permette lo studio in vivo e non invasivo dell’attività metabolica di un determinato tessuto. Le apparecchiature PET (positron emission tomography) e SPECT (single photon emission computed tomography) che vengono utilizzate a tale scopo sono costituite da cristalli a scintillazione che, mediante acquisizioni tomografiche, consentono la visualizzazione della fissazione di un radionuclide all’interno dell’organismo. I radionuclidi sono traccianti radioattivi caratterizzati da un nuclide instabile che decade nel tempo emettendo energia sotto forma di radiazioni. Il radionuclide per eccellenza utilizzato per la SPECT è il tecnezio-99m: esso emette radiazioni gamma con energia di 140 KeV e ha un’emivita di circa 6 ore, compatibile con la durata degli esami clinici e abbastanza breve per consentire una limitata irradiazione del paziente. Altri radionuclidi SPECT gamma-emittenti sono il gallio-67, l’indio-111, lo iodio-123 e -131, il tallio201. I radionuclidi a emissione di positroni, utilizzati per studi con metodica PET, sono il fluoro-18, l’ossigeno-15, l’azoto-13 e il carbonio-11. Essi decadono in tempi relativamente brevi e necessitano per la loro produzione di un ciclotrone.
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RESTING-STATE L’attivazione neuronale compito-specifica è responsabile di un aumento del consumo di ossigeno pari in media al 5% circa; il metabolismo neuronale a riposo giustificherebbe, di conseguenza, il restante consumo metabolico: pertanto la principale attività neuronale si esplica a riposo. La presenza di un’attività cerebrale a riposo è ormai dimostrata con tecniche di RM in tutti gli stati di coscienza, nell’anestesia profonda e nel sonno, oltre che in primati e in ratti. L’attività oscillatoria cerebrale è stata osservata anche in studi di magnetoencefalografia, oltre che in studi funzionali con PET. Il segnale che si registrerebbe in risonanza magnetica come consumo di ossigeno potrebbe essere proprio dovuto ai potenziali d’azione locali (LFP, local field potentials). Sulla scorta di queste osservazioni, la più recente applicazione della tecnica BOLD è costituita dal cosiddetto resting-state. La progressiva e sempre migliore definizione temporale e spaziale del segnale BOLD ha, infatti, permesso di identificarne anche le più ridotte oscillazioni (circa 0,01-0,1 Hz) conseguenti al consumo di ossigeno neuronale. Sebbene al momento la sua funzione e organizzazione siano ancora solo parzialmente comprese, il resting-state ci permette di visualizzare l’attività cerebrale predominante a riposo. In questo ambito, il concetto di “connessione funzionale”, già noto negli anni ’80 in ambito neurofisiologico, è stato definito per la prima volta da Biswal (nel 1997) come “dipendenza temporale tra eventi neurofisiologici distanti”. In altre parole, il termine connettività descrive il pattern di attivazione neuronale di aree anatomicamente separate ma funzionalmente correlate. Questi Autori hanno, infatti, osservato come la corteccia sensorimotoria di ciascun emisfero, in condizioni di riposo, non solo non sia silente ma presenti un’elevata correlazione reciproca del segnale BOLD. Questo suggerisce un continuo scambio di informazioni tra queste aree omologhe anche in condizioni di riposo. Analoghi pattern di attivazione corticale erano stati, in precedenza, osservati in PET. I vantaggi dell’utilizzo della RM rispetto alla PET nella pratica clinica sono innumerevoli, a partire dalla maggiore
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risoluzione spaziale, dall’assenza di un tracciante specifico e dalla minor invasività. Attualmente, i vantaggi dell’acquisizione in resting-state sono, innanzitutto, la possibilità di studiare più network contemporaneamente, a differenza degli studi compito-specifici che visualizzano aree singole, evidenziando le relazioni tra sistemi differenti in condizioni di riposo. Inoltre è possibile effettuare studi in tutti gli stati di coscienza, anche su pazienti poco o non collaboranti, come nel coma, negli stati vegetativi o nel sonno. I principali network individuati in condizioni di riposo sono i seguenti: • sensorimotorio: comprende entrambe le aree motorie e sensitive primarie e l’area supplementare motoria; • visivo: localizzato a livello dell’area visiva occipitale e occipitotemporale; • uditivo: racchiude il giro temporale superiore e postcentrale e l’insula; • linguistico (o temporo-parietale): interessa il giro frontale inferiore, temporale mediale e superiore e il giro angolare; • esecutivo: coinvolge il giro frontale mediale, superiore e il giro del cingolo anteriore; • mnesico fronto-parietale destro e sinistro: solitamente speculari, questi due sistemi si localizzano a livello del giro frontale inferiore e mediale, precuneo, del giro angolare e parietale inferiore; • cortico-talamico; • DMN (default mode network): uno dei maggiori network identificati a riposo. Le aree che compongono il DMN sono la corteccia cingolata anteriore e posteriore, il precuneo, le regioni prefrontali mediali, parietali laterali e inferiori, il lobo temporale mediale incluso l’ippocampo. Il nodo precuneo/cingolo posteriore, in particolare, sembrerebbe essere il centro del sistema, prendendo connessioni dirette con tutte le altre componenti. La caratteristica specifica di questo network è la sua attivazione durante il riposo e la deattivazione durante l’esecuzione di un qualsivoglia compito, specialmente coinvolgente la memoria di lavoro o le funzioni visuospaziali. Alcuni studi, tuttavia, hanno
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osservato un’attività del precuneo, struttura principale del network, durante l’esecuzione di compiti che richiedano l’utilizzo della working memory, suggerendo anche una sua funzione nella facilitazione di tali processi. La deattivazione del DMN, inoltre, sarebbe tanto maggiore quanto più aumenta la difficoltà del compito. La sua funzione è, al momento, ancora sconosciuta, sebbene la sua attivazione durante il riposo suggerisca un ruolo specifico nell’integrazione di processi emozionali e cognitivi, il controllo del mondo esterno, la coscienza e il cosiddetto wandering mentale, cioè il lasciare libera la mente di vagare a piacere. Queste caratteristiche rendono il DMN potenzialmente coinvolto nell’invecchiamento cerebrale normale cosï come nelle patologie psichiatriche e neurologiche degenerative. Studi sull’invecchiamento cerebrale fisiologico, infatti, hanno osservato una ridotta capacité di deattivazione del DMN, in particolare del cingolo posteriore. La persistenza dell’attività dei sistemi di resting-state inibirebbe le funzioni cognitive, rendendo i processi di working memory più lenti e meno efficienti. Il cingolo posteriore, inoltre, sarebbe coinvolto nel pensiero autobiografico e nella progettazione del futuro; una persistenza della sua attivazione potrebbe spiegare la ridotta capacité, nell’anziano, di eseguire compiti per una incapacité a ridistribuire le risorse attenzionali da processi autoreferenziali a compiti rivolti all’esterno. Infine, in corso di patologie degenerative, quali la malattia di Alzheimer o il deterioramento cognitivo lieve, la sua attività risulta ulteriormente ridotta, suggerendo un possibile ruolo nelle funzioni cognitive superiori.
L’analisi delle immagini SPECT/PET puô avvalersi di diverse metodiche: la più utilizzata in ambito clinico è l’analisi qualitativa, tramite visual inspection, ormai sempre più associata a un’analisi semiquantitativa, che permette il calcolo della concentrazione del radiofarmaco in determinate regioni (ROI, regions of interest) selezionate dall’operatore, rispetto ad aree di riferimento in cui il legame è aspecifico. L’impiego di tecniche quantitative di analisi di immagini, definite come voxel-by-voxel, cioè basate su un’analisi statistica di tutti i voxels dell’immagine, consente invece di ottenere una mappa statistica in cui è
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possibile identificare dove e in che misura si modifichino i valori di binding del tracciante. In neurologia la SPECT e la PET possono essere utilizzate per la diagnosi precoce, la diagnosi differenziale, la valutazione della progressione di malattia e per la valutazione dell’efficacia terapeutica di farmaci sintomatici o potenzialmente neuroprotettivi. Con questo tipo di esami si possono misurare in vivo parametri funzionali cerebrali (per esempio, il flusso cerebrale, il metabolismo dell’ossigeno e del glucosio, alcuni sistemi di neurotrasmissione), ottenendo dati fondamentali sulle alterazioni della funzionalità cerebrale e permettendo studi recettoriali neurotrasmettitoriali in alcune malattie neurologiche quali l’Alzheimer e altre demenze, il morbo di Parkinson e i parkinsonismi, la patologia cerebrovascolare, l’epilessia e la sclerosi multipla. Una più recente applicazione della PET prevede l’utilizzo di traccianti in grado di legare specificamente la beta-amiloide a livello cerebrale, evidenziandone eventuali accumuli patologici, tanto più suggestivi per la diagnosi di malattia di Alzheimer (o di demenza a corpi di Lewy, poiché anch’essa presenta accumuli simili), quanto più il soggetto è giovane. Questa metodica, già messa a punto nel 2002 con la scoperta del Pittsburgh Compound B (PIB), era di fatto poco applicabile nella pratica clinica data la breve emivita del [11C] a cui il tracciante era legato, problema risolto con la scoperta negli ultimi anni di traccianti (quali il florbetapir, il florbetaben e il flutemetamolo) leganti il 18F, dotato di un’emivita di circa 2 ore. Negli ultimi anni inoltre sono stati iniziati studi sperimentali su traccianti specifici per la proteina tau. Per le altre applicazioni delle tecniche di SPECT e PET nella diagnostica clinica della demenza di Alzheimer e della malattia di Parkinson, si rimanda ai rispettivi capitoli di questo libro (Capp. 17 e 18). In questa sede merita un approfondimento l’applicazione di queste tecniche in un ambito di ricerca scientifica, in particolare verranno trattate tre patologie in cui la medicina nucleare ha al momento un ruolo minoritario rispetto ad altre metodiche diagnostiche, ma che in futuro potrebbe trovare ampi margini di applicazione: • epilessia: l’applicazione diagnostica di PET e SPECT nell’epilessia viene attualmente riservata in alcuni centri d’eccellenza per lo studio di alcune forme farmacoresistenti di epilessia parziale (semplici o complesse) che abbiano un’indicazione al trattamento chirurgico. Poiché le crisi epilettiche sono associate a un incremento del metabolismo del glucosio e del flusso
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cerebrale, la SPECT e la PET in fase critica mostrano aumentati valori di uptake nella sede d’esordio delle crisi: un esempio puô essere lo studio SPECT con HMPAO che, durante il periodo critico, è particolarmente utile in soggetti con RM normale o con alterazioni strutturali ma con anomalie epilettiformi all’EEG non chiaramente localizzatorie. Anche la FDG-PET in fase ictale permette di individuare un incrementato metabolismo glucidico nel focus epilettogeno. In fase interictale l’anomalia caratteristica è rappresentata dall’ipometabolismo, il cui valore localizzatorio rispetto all’area epilettogena è ben stabilito per alcune forme di epilessie, come le epilessie del lobo temporale, in cui la FDG-PET è positiva in più dell’85% dei casi. Con la PET sono possibili anche altre applicazioni, per esempio la valutazione del consumo d’ossigeno e della distribuzione di recettori come quelli delle benzodiazepine (11C-flumazenil PET), dei peptidi oppioidi e dei recettori muscarinici; • malattia cerebrovascolare: attualmente l’obiettivo principale dell’imaging funzionale nell’ictus ischemico è l’identificazione dell’estensione della penombra ischemica, un’area di ipoperfusione in cui il tessuto è ancora vitale e che puô trarre beneficio da un tempestivo approccio terapeutico con farmaci trombolitici. La PET infatti permette di evidenziare un deficit di metabolismo (FDG), di perfusione (15O2-H2O) e di consumo di ossigeno (15O2) cerebrale in pazienti colpiti da ictus ischemico, al fine di delineare le alterazioni nel territorio colpito. Il tracciante 11C-flumazenil puô essere considerato inoltre un marker di integrità neuronale in quanto lega i recettori GABAergici, ampiamente distribuiti nei neuroni corticali della sostanza grigia. In fase acuta l’area di penombra ischemica viene identificata tramite un mismatch tra deficit di perfusione, valutato con 15O2H2O, e danno neuronale, espresso da un deficit di captazione del flumazenil. Inoltre nell’area di penombra si assiste a un’aumentata estrazione di ossigeno, che puô essere valutata tramite inalazione di 15O2 e confrontata con il deficit di perfusione. Una migliore definizione diagnostica dei soggetti colpiti da ictus potrà permettere in futuro una più accurata selezione delle opzioni terapeutiche di fase acuta, con un miglior outcome in termini di sopravvivenza e disabilità; • sclerosi multipla: nonostante la RM sia di fondamentale importanza per la diagnosi, il follow-up e lo studio della fisiopatologia della sclerosi multipla, la PET permette di esplorarne rilevanti aspetti di neuroinfiammazione,
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degenerazione e riparazione del danno tissutale, con il vantaggio di poter dare una valutazione funzionale in vivo del carico lesionale. Nel processo infiammatorio in cui cellule T attivate e monociti entrano nel sistema nervoso centrale, un ruolo di prim’ordine è svolto dalla microglia iperattivata, che determina una produzione di fattori citotossici che amplificano il danno neuronale. Il tracciante PET 11CPK11195, marcatore della microglia attivata, mostra, in pazienti affetti da sclerosi multipla, un pattern di binding sovrapponibile alle lesioni strutturalmente definite in RM, con, in particolare, elevati valori di uptake nelle lesioni infiammatorie attive. Inoltre è stata dimostrata una maggiore captazione anche nella sostanza bianca risultata normale in RM, a sottolineare come vi sia un processo diffuso di iperattivazione infiammatoria, che si instaura precocemente nel decorso della malattia e che è indipendente dalle recidive. In definitiva, l’emergere di nuovi approcci metodologici e di nuovi target molecolari per l’imaging funzionale in vivo suggerisce che queste metodiche potranno avere un ruolo sempre maggiore nella comprensione della fisiopatologia delle malattie neurologiche, nella loro diagnosi precoce e nella migliore comprensione del ruolo funzionale di alcuni sistemi di neurotrasmissione. Lo sviluppo di nuovi traccianti più selettivi per alcuni sottotipi recettoriali o per alterazioni neuropatologiche specifiche, assieme a nuove tecnologie (tomografi PET a elevata risoluzione) consentirà un ulteriore sviluppo dell’imaging molecolare nell’ambito delle neuroscienze.
DIAGNOSTICA NEUROFISIOLOGICA Elettroencefalogramma L’elettroencefalografia è la registrazione dell’attività elettrica spontanea della corteccia cerebrale, generata prevalentemente dai neuroni corticali. La tecnica è stata inventata da Hans Berger nel 1929, il quale scoprí che vi era una differenza di potenziale elettrico tra aghi infissi nello scalpo e tra due piccoli dischi di metallo (elettrodi) posti a contatto della cute sgrassata del cuoio capelluto. L’elettroencefalografo puô essere un apparecchio analogico oppure digitale e fornisce una traccia registrata su carta termica o millimetrata,
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oppure su monitor. La rappresentazione grafica della registrazione è l’elettroencefalogramma (EEG): la registrazione viene fatta da paia di elettrodi in combinazione tra loro (montaggi), che registrano a livello di diverse aree dell’encefalo. Gli elettrodi vengono applicati sullo scalpo secondo il posizionamento standard chiamato “Sistema Internazionale 10-20”, proposto per la prima volta nel 1949 dall’International Federation of Societies for EEG and Clinical Neurophysiology: 10% oppure 20% si riferisce al 100% della distanza tra punti di repere cranici, precisamente nasion (attaccatura superiore del naso), inion (protuberanza occipitale) e le aree preauricolari immediatamente anteriori al trago dell’orecchio. Le misurazioni sono fatte dal nasion all’inion nella direzione anteroposteriore, tra i punti preauricolari nella direzione traversa. L’EEG standard consiste in 20 minuti di registrazione, in stato di riposo e in veglia. L’attivazione da parte della iperventilazione (Hp) e della stimolazione luminosa intermittente (SLI) durante la registrazione in veglia permette di evidenziare un’eventuale attività anormale che puô non essere presente durante la registrazione a riposo: la Hp puô indurre anomalie epilettiche, la SLI puô attivare risposte evocate sulle regioni cerebrali posteriori, in caso di lesioni occipitali unilaterali si possono osservare una risposta di trascinamento asimmetrica, oppure anomalie epilettiche. L’EEG in corso di sonno puô evidenziare anomalie della serie comiziale, non evidenti durante il tracciato in veglia (per un approfondimento, VEDI FOCUS ON: I RITMI EEG, PAG. 15).
Indicazioni all’esame EEG L’EEG è un esame di facile esecuzione, non invasivo, facilmente ripetibile. Tra le principali categorie che richiedono la valutazione dell’EEG vanno considerati gli episodi critici, le compromissioni della coscienza, le modificazioni cognitive, gli studi sul sonno, il monitoraggio in sala operatoria, l’accertamento di morte cerebrale. Un episodio critico puô essere espressione di crisi epilettica, di attacco ischemico transitorio, di episodio sincopale o infine di disturbo psicogeno. Le compromissioni della coscienza possono derivare da un’ampia varietà di disturbi traumatici, epilettici, infettivi o metabolici. Le modificazioni
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cognitive possono essere dovute a malattie degenerative, disturbi metabolici, infezioni del sistema nervoso centrale, tumori cerebrali, disturbi psichiatrici. Nei disturbi del sonno permette di discriminare tra vari tipi di patologie come le apnee notturne, l’epilessia notturna, le dissonnie (insonnia, ipersonnia, narcolessia) e le parasonnie (bruxismo, enuresi notturna, pavor nocturnus, sonnambulismo). L’utilizzo in sala operatoria riguarda l’intervento di tromboendoarteriectomia per monitorare l’attività elettrica durante il clampaggio dell’arteria carotide. Nei pazienti in coma viene utilizzato per accertare lo stato di morte cerebrale, caratterizzato dal tracciato piatto (attività elettrica cerebrale inferiore ai 2 μV, per la durata di almeno 30 minuti), che deve comunque essere confermata anche dalla valutazione dei riflessi del tronco cerebrale. I principali tipi di anomalie dell’EEG sono: • anomalie epilettiformi (punte, onde puntute, complessi punta-onda); • onde lente: si possono avere rallentamento del ritmo di fondo o rallentamenti theta o delta focali; • asimmetrie: riduzione o aumento dell’ampiezza del tracciato in un emisfero rispetto alla regione omologa sull’altro emisfero; • soppressione dell’attività elettrica, cioè riduzione o attenuazione o perdita dell’attività EEG durante la registrazione.
FOCUS ON I RITMI EEG L’attività ritmica dell’EEG è costituita da oscillazioni sincronizzate che riflettono l’attività elettrica generata dalla somma di potenziali elettrici pre- e postsinaptici (PPS), costituiti sia da potenziali postsinaptici eccitatori (PPSE) sia da potenziali postsinaptici inibitori (PPSI), generati a livello di numerose sinapsi di neuroni corticali (organizzati con orientamento perpendicolare alla superficie della corteccia cerebrale), di potenziali dendritici e probabilmente anche di potenziali della neuroglia (cellule di sostegno). Quindi l’attività
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registrata all’EEG consiste di continue onde ritmiche o aritmiche oscillanti che variano per aspetto, frequenza e ampiezza. Vi sono quattro gamme di frequenze basali (FIG. F1.1): 1. ritmo alfa, distinto in alfa lento (8-9 Hz), alfa intermedio (9-11,5 Hz) e alfa rapido (11,5-13 Hz); ha un’ampiezza media di 30 pV (1545 pV), viene registrato a occhi chiusi in un soggetto sveglio, soprattutto tra gli elettrodi occipitali e parietali (EEG sincronizzato): se si invita il soggetto ad aprire gli occhi, l’attività alfa scompare ed è sostituita da un’attività di basso voltaggio, più rapida (desincronizzazione). Il ritmo alfa è presente in condizioni di veglia e di riposo mentale. È assente nel sonno, fatta eccezione per lo stadio REM; 2. ritmo beta, distinto in beta lento (13,5-18 Hz) e beta rapido (18,530 Hz); ha un voltaggio medio di 20 μV (8-30 μV). È dominante in un soggetto a occhi aperti, ma anche in stati di allerta e nel sonno REM; 3. ritmo theta, distinto in theta lento (4-6 Hz) e theta rapido (6-7 Hz); ha un voltaggio medio di 10 μV. È dominante nel neonato e durante la sonnolenza; in altre circostanze è la conseguenza di un disturbo lieve o moderato della funzione cerebrale; 4. ritmo delta, dominante nel neonato e durante il sonno non-REM. Puo comparire in corso di anestesia generale, altrimenti nell’adulto riflette un disturbo moderato o grave della funzione cerebrale. Durante il sonno l’EEG presenta fusi e onde al vertice (onde “V”). I fusi del sonno sono onde di 10-14 Hz, sinusoidali, presenti nelle regioni frontali e parietali. Le onde al vertice sono onde aguzze di discreta o elevata ampiezza che si osservano sulle regioni frontali e parietali. Sia i fusi del sonno che le onde al vertice sono presenti durante i livelli leggeri e moderati del sonno, mentre durante il sonno profondo compaiono onde delta diffuse.
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FIGURA F1.1 Reazione di arresto in EEG normale.
Infine le anomalie EEG possono essere focali o generalizzate. Quelle focali indicano un disturbo localizzato della funzione cerebrale, spesso dovuto a una lesione focale, quelle generalizzate si manifestano con alterazioni diffuse dell’attività elettrica.
NON DIMENTICARE CHE... L’EEG è un esame essenziale nella valutazione di pazienti con sospette crisi comiziali, sintomi neurologici transitori, episodi critici o confusionali, disturbi cognitivi e anche con lesioni acute del sistema
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nervoso centrale. È un complemento dell’esame neurologico, valuta quelle funzioni cerebrali che non sono accessibili all’esame clinico, integra gli esami neuroradiologici fornendo indicazioni di alterazioni fisiologiche che non sono identificate negli studi di neuroimmagine. Quindi l’EEG puo aiutare a determinare il tipo, la distribuzione e la gravité di un disturbo funzionale cerebrale.
Potenziali evocati sensoriali I potenziali evocati (PE) si originano in seguito alla stimolazione di un organo sensoriale (per esempio, cute, occhio, orecchio) con uno stimolo elettrico (impulsi elettrici applicati alla cute), visivo (flash, immagini strutturate fisse, immagini strutturate alternanti, pattern reversal), acustico (click, burst). Grazie ai PE puô essere studiato il percorso dello stimolo dalla periferia al sistema nervoso centrale, quindi rappresentano un’importante indagine neurofisiologica per studiare le condizioni funzionali delle principali vie sensoriali. Vengono stimate le ampiezze e le latenze delle risposte evocate, quindi viene esaminata l’integrità delle vie di conduzione nervose periferiche e centrali. Il parametro più importante è la latenza (tempo che intercorre) tra stimolo e potenziale registrato a livello del cuoio capelluto. I PE sono distinti in base alla latenza, ovvero alla finestra temporale in cui vengono registrati: • componenti precoci (≤ 20 ms), relativi alle vie nervose e al tronco encefalico; • componenti intermedie (20-200 ms) relativi alle aree corticali; • componenti lente (fino oltre 300 ms) relativi a processi corticali cognitivi. Questa distinzione ha un’importanza pratica: uno stesso stimolo puô evocare tutti e tre i tipi di risposta in successione. Per focalizzare un potenziale particolare si adottano diversi accorgimenti tecnici, quali tipo di stimolo, posizione degli elettrodi, numero di ripetizioni dello stimolo, cadenza delle ripetizioni, amplificazione, banda amplificata. L’esame non è invasivo e non produce effetti collaterali.
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I PE, come l’elettroencefalogramma (EEG), vengono registrati o con elettrodi di superficie o meglio con sottili aghi monouso posti sullo scalpo, e normalmente non sono riconoscibili in quanto hanno un voltaggio molto basso e sono mascherati dall’attività elettroencefalografica: con una particolare tecnica (ripetizione degli stimoli e sovrapposizione elettronica o averaging dei singoli tracciati ottenuti) si riesce a filtrare il segnale dei PE dal tracciato EEG. In relazione all’organo sensoriale stimolato si possono ottenere: • potenziali evocati somatosensoriali (PESS) da arto superiore e da arto inferiore; • potenziali evocati visivi (PEV); • potenziali evocati acustici (PEA).
Potenziali evocati somatosensoriali (PESS) Le definizioni usate per i potenziali sono la combinazione di una lettera N, indicativa di un potenziale negativo, e P, indicativa di potenziale positivo, seguite da un numero che rappresenta la latenza media del potenziale in millisecondi. PESS ARTO SUPERIORE. Solitamente viene stimolato il nervo mediano o il nervo ulnare a livello del polso e vengono posti degli elettrodi di registrazione a livello del punto di Erb (nella fossa sopraclavicolare a livello del midollo cervicale - C6, C7 - e a livello del cuoio capelluto). PESS ARTO INFERIORE. Solitamente viene stimolato il nervo tibiale posteriore o peroneo profondo alla caviglia, con registrazione al rachide lombare e al cuoio capelluto. INDICAZIONI. Sono utili nell’individuare o confermare lesioni che coinvolgono le vie propriocettive e somatosensoriali del midollo spinale, del tronco, della corteccia cerebrale, e sono particolarmente sensibili nella valutazione di sospette malattie demielinizzanti e mielopatie. Nella valutazione dei pazienti in coma possono aiutare a definire la prognosi, mentre in sala operatoria possono essere utilizzati per monitorare pazienti sottoposti a chirurgia del rachide o del midollo.
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Potenziali evocati visivi (PEV) Sono esami non invasivi che forniscono una valutazione sensibile e quantitativa della funzione visiva: studiano il nervo ottico e la corteccia visiva occipitale con elettrodi posizionati sul cuoio capelluto (Cz, Oz, e GND) mentre il paziente fissa, a una distanza di circa 100 cm, prima con un occhio e poi con l’altro, un punto posto al centro di un video raffigurante una scacchiera (pattern reversal) i cui quadranti cambiano alternativamente colore da bianco a nero; in alternativa si possono utilizzare degli occhiali per stimolare direttamente l’occhio interessato. La stimolazione visiva monoculare induce un’onda a polarità positiva (definita P100), con una latenza media di circa 100 ms, generata dalla corteccia visiva; l’ampiezza di P100 è massima nella regione mediooccipitale. La più comune alterazione dei PEV è un aumento della latenza di P100 dal lato della lesione della via visiva anteriore, cioè conduttiva. I PEV sono utili nella valutazione di neurite ottica, neurite retrobulbare, nella neuropatia ottica ischemica anteriore, nell’ambliopia tossica, nel deficit di B12, nell’atrofia ottica di Leber e nei tumori che comprimono il nervo ottico.
Potenziali evocati acustici (PEA) Sono potenziali uditivi del tronco encefalico che valutano il decorso del nervo acustico fino al tronco encefalico. Si registrano da elettrodi al lobo dell’orecchio con elettrodo di riferimento al vertice del capo ed elettrodo di terra frontale. Lo stimolo viene dato tramite cuffia ed è un “burst” (tono breve) o un “click” (impulso), ipsilaterale o controlaterale. I potenziali più importanti dal punto di vista clinico sono quelli a breve latenza (entro 10 ms) relativi alla risposta dei nuclei nervosi presenti nel tronco cerebrale. Si distinguono sette onde significative denominate, I, II, III, IV, V, VI e VII, di cui sono importanti le latenze, soprattutto delle prime cinque. L’identificazione dell’onda I è importante per distinguere un deficit di conduzione uditiva periferico da uno centrale. Per le cinque onde positive sono state identificate le strutture anatomiche che corrispondono alla regione
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dell’attivazione uditiva, dal nervo acustico alle vie talamocorticali. I PEA sono anormali nei pazienti con tumori dell’angolo pontocerebellare, tumori del tronco cerebrale, infarti del tronco cerebrale, malattie demielinizzanti, leucodistrofie.
Potenziali corticali cognitivi (o evento-relati) I potenziali corticali cognitivi registrano l’attività corticale evocata da uno stimolo con un significato cognitivo. Per studiare questo fenomeno sono state ideate diverse tecniche, ma generalmente si usa una tecnica odd-ball di stimolazione uditiva, dove uno stimolo standard o frequente è sostituito a intervalli variabili da uno stimolo di tono diverso, definito stimolo odd-ball. Il soggetto viene istruito a prestare attenzione e a contare gli stimoli odd-ball. L’onda che si ottiene viene indicata come P300, con latenza di circa 300 ms e ampiezza di circa 10 mV, ha una distribuzione bilaterale, medioparietale. Non si puô identificare un singolo generatore in quanto l’onda probabilmente riflette l’attività in multiple aree dell’encefalo. È ancora dibattuto il suo significato a livello cognitivo, ma potrebbe essere il correlato elettrofisiologico dell’attenzione selettiva. Risulta anormale in quelle malattie in cui l’elaborazione corticale è compromessa: in tutti i tipi di demenza l’ampiezza è diminuita e la latenza prolungata. Puô essere alterata anche nelle encefalopatie metaboliche e nelle intossicazioni.
Potenziali evocati motori (PEM) II termine PEM viene utilizzato per descrivere i potenziali dal muscolo indotti mediante stimolazione della corteccia cerebrale motoria del sistema nervoso centrale: possono esaminare l’intera via motoria dalla corteccia cerebrale, attraverso il midollo spinale, sino ai neuroni motori e quindi il muscolo. Si possono ottenere stimolando il midollo spinale o gli emisferi cerebrali con stimoli magnetici o elettrici, che attivano il tessuto cerebrale. L’applicazione clinica dei PEM è parallela all’applicazione dei PE. Le principali indicazioni ricadono in due aree: 1. identificazione del rallentamento della conduzio ne dell’impulso nelle malattie demielinizzanti;
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2. monitoraggio intraoperatorio delle vie motorie. La scelta del muscolo è determinata dal problema clinico, per esempio per monitorare interventi sul midollo spinale (come un intervento per ernia cervicale) si utilizzano registrazioni per i muscoli innervati da singole radici, come C6, C7 e C8. Attualmente le applicazioni dei PEM sono piuttosto limitate, anche perché l’equipaggiamento necessario per la stimolazione elettrica o magnetica non è ampiamente disponibile e solo pochi laboratori hanno dati normativi affidabili. Inoltre la variabilità della risposta solleva spesso timori sull’affidabilità delle risposte per l’interpretazione clinica. A livello clinico sono utili soprattutto nei casi di patologie demielinizzanti. Trovano anche impiego nella diagnosi differenziale tra affezioni del sistema motorio e malattie funzionali o psichiatriche.
Elettromiografia ed elettroneurografia L’elettromiografia (EMG) e l’elettroneurografia (ENG) sono metodiche neurofisiologiche che vengono utilizzate per dare informazioni sulla funzionalità dei nervi periferici e dei muscoli scheletrici. Quindi EMG e ENG sono un importante mezzo diagnostico per inquadrare malattie neurologiche del sistema nervoso periferico (SNP) riguardanti patologie a carico delle radici nervose, dei plessi nervosi, dei nervi periferici, della placca neuromuscolare e dei muscoli scheletrici. Gli esami elettrodiagnostici: • quantificano la gravità con misure riproducibili per un successivo monitoraggio; • caratterizzano il tipo di patologia, per esempio differenziano le neuropatie demielinizzanti da quelle assonali; • determinano la precisa localizzazione di una lesione, per esempio aiutano a identificare la compressione dell’aponeurosi del muscolo flessore ulnare del carpo come causa di neuropatia del nervo ulnare; • aiutano nella determinazione dello stadio della malattia, della velocità di progressione e della prognosi. In pazienti non collaboranti, per esempio pazienti in coma o affetti da
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demenza o malattie psichiatriche, possono fornire informazioni non altrimenti reperibili. Infine possono essere usati per identificare patologie subcliniche quando un’anomalia è al di sotto della soglia per essere identificata clinicamente. Le indagini neurofisiologiche devono essere precedute da un inquadramento anamnestico e clinico del paziente, comprensivo degli accertamenti di laboratorio e strumentali già eseguiti. Il neurofisiologo elettromiografista decide, sulla base dei dati forniti dal paziente e della sua sintomatologia clinica, un protocollo di esame per arrivare alla diagnosi corretta valutando il minor numero possibile di nervi e muscoli per ridurre al minimo il disagio del test. Non esiste quindi una sequenza fissa o prestabilita di misurazioni. L’esame prevede due fasi: 1. ENG con eventuale studio delle risposte tardive H e F e stimolazione ripetitiva (in caso di sospetto di patologia della placca neuromuscolare); 2. EMG. Le due tecniche (ENG ed EMG) si eseguono in successione e sono complementari per la diagnosi.
ENG (o studio della conduzione nervosa), risposte tardive H ed F, stimolazione ripetitiva ELETTRONEUROGRAFIA (ENG). È una metodica che consente di eseguire la valutazione funzionale dei tronchi nervosi attraverso la stimolazione elettrica e la registrazione di superficie: misura la velocità di conduzione motoria (VCM) e sensitiva (VCS) con scosse elettriche applicate in uno o più punti lungo il decorso del nervo. L’effetto dello stimolo elettrico è la comparsa di potenziali di azione motori (MAP) o sensitivi (SAP) dei quali si calcolano la latenza e l’ampiezza. È necessario che l’esame avvenga in condizioni il più possibile standardizzate, in modo particolare va mantenuta costante la temperatura del segmento analizzato. La stimolazione del nervo, chiamata anche stimolazione di superficie, è transcutanea: quando si stimola un nervo si nota che la risposta che si evoca aumenta di ampiezza e si riduce di latenza con l’aumentare dell’intensità dello stimolo. Ciô avviene perché l’aumento della stimolazione recluta un sempre maggior numero di fibre nervose all’interno
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del nervo. Si parla di stimolazione sopramassimale quando ulteriori incrementi di stimolazione non provocano aumenti di ampiezza della risposta evocata. La derivazione delle risposte evocate motorie e sensitive puô avvenire sia con ago-elettrodi concentrici che con elettrodi di superficie; questi ultimi sono quelli più utilizzati negli esami di routine in quanto incruenti. Le risposte evocate hanno delle caratteristiche peculiari: • la velocità di conduzione motoria e sensitiva: si misura in metri al secondo (m/s); • la latenza: rappresenta il tempo intercorrente tra la presentazione dello stimolo e l’inizio della risposta; si misura in millisecondi (ms); • l’ampiezza: rappresenta la differenza di potenziale compresa tra un picco e la linea isoelettrica o tra un picco e l’altro; si misura in milliVolt (mV) per le risposte motorie e in microVolt (pV) per le risposte sensitive; • la forma: è caratterizzata dal numero delle fasi del potenziale (si chiama comunemente fase ogni attraversamento della linea di base da parte del segnale); • la durata: rappresenta il tempo compreso tra l’inizio della risposta e il ritorno del segnale alla linea isoelettrica; si misura in millisecondi (ms). RIFLESSO H. Cosi denominato dal cognome del suo scopritore, Hoffman, è caratterizzato dalla comparsa di una risposta muscolare tardiva (intorno ai 30 ms) in seguito a stimolazione elettrica delle fibre afferenti di grosso calibro. È evocabile nella maggior parte dei muscoli ad azione antigravitaria. Dal punto di vista funzionale il riflesso H è sovrapponibile a un riflesso miotattico, perciô sostenuto da un arco riflesso scomponibile in: fuso neuromuscolare (apparato recettoriale), fibre propriocettive di tipo Ia (branca afferente), centro spinale, motoneuroni alfa (branca efferente), muscolo (effettore). Solitamente si valuta il rapporto H/M ottenuto dividendo l’ampiezza massima del riflesso H per l’ampiezza massima della risposta M ottenuta dallo stesso muscolo. La sua riduzione è solitamente correlata a un danno assonale. Puô essere molto utile per valutare i tratti prossimali delle fibre in assenza di lesioni nervose distali. RISPOSTA F. Anche la risposta F è una risposta muscolare tardiva, in quanto è registrabile 20-40 ms dopo la presentazione della risposta M. È il risultato di
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un eccitamento antidromico dei motoneuroni: l’impulso percorre antidromicamente la fibra nervosa eccitata dalla stimolazione e, arrivato a livello del corno anteriore del midollo, determina l’eccitamento delle fibre motorie, che si propaga distalmente e a livello del muscolo viene generata l’onda F. Compare quasi esclusivamente per stimolazioni di intensità elevata. La sua latenza è tanto maggiore quanto più distale è il punto di stimolazione: viene utilizzata prevalentemente per studiare le risposte evocate da stimolazioni di distretti nervosi distali. STIMOLAZIONE RIPETITIVA. La stimolazione ripetitiva sopramassimale di un nervo motore periferico in un soggetto normale induce una serie di MAP con ampiezza e area identici. Nei disturbi della trasmissione neuromuscolare (placca neuromuscolare) l’area e l’ampiezza delle risposte evocate consecutive possono cambiare con la stimolazione ripetitiva. Si puô avere un incremento o un decremento del CMAP: un decremento puô manifestarsi con frequenze di stimolazione rapide o lente ed è misurato come percentuale del cambiamento (pertanto la riduzione di ampiezza da 10 a 9 mV è un decremento del 10%). Un decremento con basse frequenze di stimolazione (3-5 Hz) è solitamente dovuto a una malattia della giunzione neuromuscolare.
Elettromiografia L’EMG è un’indagine invasiva: viene utilizzato un agoelettrodo, solitamente monouso, che viene inserito in un muscolo e registra l’attività delle fibre muscolari in diverse condizioni: a riposo, durante una contrazione volontaria e progressiva fino al massimo sforzo, e durante una contrazione media sostenuta. Generalmente non vengono utilizzati stimoli elettrici, ma quando si registra attraverso l’ago e si stimola il nervo a distanza si puô considerare una variante dell’ENG. L’analisi puô essere effettuata su qualsiasi muscolo, solitamente i più studiati sono i muscoli degli arti. Nel soggetto normale, dal muscolo a riposo non viene registrata alcuna attività bioelettrica, mentre durante la contrazione massimale si deve osservare il progressivo reclutamento di potenziali di unità motoria (PUM) sino al raggiungimento del quadro di “interferenza”, dove i singoli PUM non sono più riconoscibili l’uno dall’altro. In caso di sofferenza mielica, l’EMG è di scarso aiuto, potendosi
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evidenziare solo una riduzione del reclutamento delle unità motorie allo sforzo volontario massimo. Nelle neuropatie assonali l’EMG ha invece un’importanza fondamentale, permettendo di evidenziare segni di denervazione nei distretti muscolari innervati dalle fibre lese. I principali tipi di attività di denervazione registrabili nel muscolo a riposo sono l’attività di fibrillazione e le onde aguzze positive. L’attività di fibrillazione si verifica quando la fibra muscolare perde la connessione con la fibra nervosa e si ha quindi un fenomeno di ipersensibilità da denervazione: si verifica un tentativo di compensare la perdita di innervazione abbassando la soglia di eccitabilità, quindi la fibra muscolare diventa stimolabile anche per livelli di energia molto bassi. La presenza di fibrillazione non è patognomonica di sofferenza neurogena, in quanto si evidenzia anche in casi di sofferenza miogena, come per esempio nella polimiosite. Le onde aguzze positive sono sempre espressione di denervazione e compaiono nel muscolo a riposo: morfologicamente sono facili da riconoscere, hanno un caratteristico inizio brusco positivo seguito da una fase lenta. L’EMG trova applicazione in diversi quadri clinici: • nella diagnosi differenziale del danno neurogeno dal danno miogeno (valutando i tre momenti dell’esame - a riposo, dopo sforzo muscolare progressivo e dopo sforzo muscolare massimale - e studiando la morfologia dei potenziali di unità motoria) o dal danno della placca neuromuscolare. Consente Tidentificazione della causa di un’atrofia muscolare, distinguendo l’affezione primaria del muscolo da quella secondaria al danno del nervo (o della radice). Permette di distinguere il deficit di forza secondario a una miopatia da quello determinato da un’affezione della placca neuromuscolare (miastenia); • nella patologia dei motoneuroni inferiori (spinali e bulbari, come nella sclerosi laterale amiotrofica); • nella patologia neuropatica assonale, a completamento dell’ENG, per dare un grading nella compromissione delle radici e dei nervi periferici (radicolopatie spondilogene, neuropatie assonali, neuropatie traumatiche o compressive); • nel grading della compromissione funzionale del nervo: dalla neuroprassia, alla assonotmesi, fino alle forme più gravi di neurotmesi, in cui vi è la
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sezione completa del nervo con allontanamento dei due capi; • nella patologia a carico dei muscoli (miopatie, distrofia muscolare, polimiosite, miotonie). Alcuni quadri EMG sono descritti nel FOCUS ON: QUADRI ELETTROMIOGRAFICI, PAG. 21.
NON DIMENTICARE CHE... Di fronte a un paziente con una probabile malattia dei nervi periferici, delle radici nervose, dei muscoli o della giunzione neuromuscolare, un approccio corretto prevede innanzitutto di indirizzare il paziente al neurologo in quanto un’attenta valutazione semeiologica permetterà di: • riconoscere i sintomi e i segni suggestivi di sofferenza nervosa tronculare o radicolare, muscolare o della placca motrice; • programmare il percorso diagnostico più appropriato (esami ematochimici, esami radiologici, ENG/EMG, rachicentesi, biopsia nervosa o muscolare); • intraprendere provvedimenti terapeutici adeguati. Nella pratica clinica quotidiana ENG/EMG sono esami che vanno eseguiti d’urgenza solo in poche condizioni, come nel sospetto di poliradiculonevrite acuta (sindrome di Guillain-Barrè) o cronica o di crisi miastenica. In tutti gli altri casi è sempre un complemento alla clinica. Una volta accertato il danno nervoso o muscolare mediante ENG ed EMG, il follow-up è lasciato all’osservazione clinica e solo in casi selezionati è utile monitorare strumentalmente il paziente.
DIAGNOSTICA LIQUORALE
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L’esame del liquor cefalorachidiano è uno degli esami strumentali più importanti eseguiti direttamente dal neurologo. È un’indagine preziosa nella diagnosi differenziale di numerose patologie di tipo infettivo, infiammatorio, tumorale e vascolare. Pur essendo un esame che ha dietro le spalle più di cent’anni, si fanno avanti periodicamente nuove prospettive: per esempio, negli ultimi anni sono state proposte nuove applicazioni per la diagnosi delle malattie neurodegenerative (VEDI OLTRE). L’esame del liquor viene programmato di routine nei reparti di neurologia, ma spesso viene eseguito anche in un setting di urgenza, per la diagnosi, per esempio, di una meningite o di un’emorragia subaracnoidea.
Il liquor cefalorachidiano e la barriera ematoencefalica Il liquor cefalorachidiano viene prodotto dai plessi corioidei dei ventricoli laterali, circolando poi attraverso i forami di Monro nel terzo ventricolo e poi nel quarto attraverso l’acquedotto del Silvio. Da qui la fuoriuscita attraverso i forami di Luschka e Magendie, per circolare nello spazio subaracnoideo e giungere fino al sito di riassorbimento: le granulazioni aracnoidee del Pacchioni della convessità. Lo spazio liquorale risulta separato dal sangue a opera della barriera ematoencefalica (BEE), una struttura altamente specializzata che impedisce la libera diffusione dei soluti tra i due compartimenti. La BEE è un’unità anatomofunzionale costituita dall’unione serrata dell’endotelio dei capillari cerebrali, le cosiddette tight junction, rinforzata dai pedicelli degli astrociti limitrofi. La BEE impedisce la libera diffusione dei soluti idrofili e di elevato peso molecolare, il cui trasporto attraverso la barriera è regolato attentamente da meccanismi specifici. Dunque, l’integrità della BEE è di fondamentale importanza poiché garantisce un’adeguata omeostasi del SNC; una disfunzione di tale struttura si osserva in numerose malattie neurologiche (per esempio, la sclerosi multipla).
FOCUS ON
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QUADRI ELETTROMIOGRAFICI Aspetti EMG nella sofferenza primitiva del muscolo (miopatie, distrofie) • A riposo: potenziali di fibrillazione e onde aguzze positive di piccola ampiezza. In presenza di fenomeno miotonico si registrano scariche miotoniche (sono potenziali ad alta frequenza di scarica in sequenze più o meno prolungate, di frequenza e ampiezza molto variabili, anche nel contesto della stessa scarica. Caratteristico è il rumore dell’aereo in picchiata. Si registrano sia spontaneamente che dopo stimolazione meccanica del muscolo). • Per sforzo muscolare volontario: PUM di breve durata, di ampiezza ridotta, reclutati precocemente, cioè si registra un quadro di interferenza che si contrappone a una contrazione muscolare clinicamente povera. Nelle fasi avanzate di miopatia questo aspetto puo essere di difficile rilevamento e addirittura non è infrequente l’osservazione di quadri poveri con PUM normali o addirittura di ampiezza superiore. Aspetti EMG nelle neuropatie La sofferenza muscolare dovuta a interessamento (per ischemia, compressione, stiramento, intrappolamento ecc.) delle radici, del plesso o del nervo presenta identici quadri EMG. Differiscono ovviamente solo per quanto attiene alla distribuzione radicolare, plessica o tronculare a seconda dei casi. Quindi si puo fare diagnosi di livello a condizione che vengano esaminati determinati muscoli in relazione al problema clinico-diagnostico. • A riposo: potenziali di fibrillazione, onde aguzze positive, la cui precocità e quantità di comparsa sono in dipendenza della acuzie della noxa, della sua gravità e del numero di fibre interessate. • Per sforzo volontario: si registra una riduzione più o meno marcata del reclutamento di PUM, in relazione al numero delle fibre nervose che conservano la conducibilità. I PUM possono avere parametri morfologici quanto mai vari: accanto a quelli normali si possono registrare PUM polifasici, irregolari o di ampiezza ridotta. Se inizia il processo di rigenerazione delle fibre nervose lese si osserverà di pari passo la scomparsa dei potenziali di fibrillazione e la comparsa
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di potenziali di reinnervazione, che sono polifasici e di ampiezza ridotta; se si instaurano dei processi di reinnervazione compensatoria (collateral branching) si hanno PUM giganti, di elevata ampiezza (questo aspetto è tipico e frequente nelle croniche denervazioni parziali). I segni EMG della reinnervazione possono precedere quelli clinici di circa due mesi.
Le funzioni del liquor sono di primaria importanza e comprendono quella di fornire sostegno e protezione al SNC, di permettere l’eliminazione dei prodotti di catabolismo tissutale e di garantire il trasporto di sostanze nel contesto del SNC (per esempio, ormoni), in primis.
Puntura lombare: indicazioni e tecnica La puntura lombare viene eseguita per molteplici scopi, quali il prelievo di un campione di liquor per la diagnostica, la misurazione della pressione liquorale e l’immissione di farmaci nello spazio subaracnoideo. Nei quadri di incrementata pressione intratecale, o di ipertensione endocranica, specie se legati alla presenza di lesioni occupanti spazio in fossa posteriore, è possibile che la sottrazione del liquor precipiti un’ernia cerebrale, potenzialmente fatale. Per tale motivo, la puntura lombare è spesso preceduta da una valutazione cerebrale di imaging o del fundus oculare, che permettono di stimare il rischio di ipertensione endocranica. Analogamente, le coagulopatie gravi e le infezioni in sede di puntura rappresentano una controindicazione all’esecuzione dell’esame, per il rischio, rispettivamente, di emorragie o infezioni. Le applicazioni diagnostiche sono molteplici; a scopo esemplificativo possiamo ricordare tra le altre: le meningoencefaliti (ricerca diretta dell’organismo responsabile nel liquor e conta cellulare), l’emorragia subaracnoidea (aspetto ematico o xantocromico, vedi oltre), la sclerosi multipla (ricerca delle bande oligoclonali), le poliradicolonevriti infiammatorie (dissociazione albumino-citologica), la malattia di CreutzfeldtJakob (dosaggio della proteina tau e 14-3-3) ecc. La puntura viene eseguita in posizione seduta o di decubito laterale, avendo cura di far flettere al paziente le gambe e la testa in modo tale da
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rendere il più possibile pervio lo spazio tra le vertebre lombari. Si effettua la puntura al di sotto del bordo inferiore di L2, dove termina il midollo spinale nell’adulto. Il punto viene classicamente scelto utilizzando come repere le creste iliache del paziente. L’ago, lungo circa 8 cm, è munito di mandrino e viene inserito con una leggera angolatura verso l’alto, in modo tale da penetrare nello spazio tra una vertebra e l’altra. Il passaggio nello spazio subaracnoideo è spesso avvertito dall’esaminatore a seguito della perforazione dei legamenti e della dura; la rimozione del mandrino farà a questo punto fuoriuscire il liquor che puô venir raccolto nelle provette sterili (circa 4-8 ml).
Esame del liquor I primi elementi che vengono valutati sul liquor, direttamente al momento della raccolta da parte dell’operatore, sono pressione, aspetto e colore. La pressione viene valutata prima di estrarre il liquor, applicando un apposito manometro. La pressione normale a livello lombare in decubito laterale oscilla tra 60 e 200 mmH2O. Nell’ipertensione endocranica tali valori aumentano sino a 300 mmH2O od oltre ed è consigliabile limitare al massimo il prelievo per evitare ernie cerebrali. È possibile anche osservare rari quadri da ipotensione liquorale, per esempio per un blocco midollare a monte. A seguito dell’estrazione si puô osservare che il liquor normale è limpido e incolore (“acqua di roccia”). In patologia, invece, l’aspetto puô intorbidirsi per la presenza di cellule, fino a diventare purulento nelle meningiti batteriche caratterizzate dalla presenza di migliaia di polimorfonucleati, e possono apprezzarsi un colore giallognolo e paglierino e una certa viscosità in caso di aumento delle proteine (per esempio, nella meningite tubercolare). L’aspetto ematico è invece legato alla presenza di eritrociti, normalmente assenti. Se non si tratta di una contaminazione legata alla puntura accidentale di un vaso (la raccolta viene effettuata classicamente su tre provette proprio per valutare se man mano il campione si ripulisce) puô essere espressione di un’emorragia. In questo caso, anche dopo la centrifugazione del campione è possibile osservare un aspetto giallastro (xantocromia) che indica la presenza degli eritrociti da ore, con lisi e conseguente liberazione di pigmento emoglobinico. L’esame liquorale standard include inoltre la misurazione del glucosio (glucorrachia, valori normali 40-70 mg/dl), delle proteine totali
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(protidorrachia, valori normali 15-45 mg/dl) e delle cellule presenti (citometria, valori normali 60 mmHg e pH 60 minuti). Questi sintomi, di solito, iniziano e finiscono prima dell’insorgere del dolore emicranico, sebbene raramente possano anche accompagnare la cefalea. Può anche manifestarsi l’aura emicranica senza successiva cefalea: in tal caso si parla di aura sine emicrania. Tra le forme più
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comuni di aura ci sono l’aura visiva con fenomeni visivi positivi (spettri di fortificazione o scotomi scintillanti) e negativi (emianopsia laterale omonima completa o parziale o visione a tunnel). Vi è poi l’aura sensitiva caratterizzata da disturbi della sensibilità (per esempio, parestesie, disestesie o anestesia) definiti a marcia in quanto progrediscono in un certo distretto corporeo. L’aura motoria, più rara, consiste invece in ipostenia (paresi a carico di un arto superiore o inferiore della durata di pochi minuti). Infine si osservano disturbi del linguaggio come afasia espressiva o di comprensione nel 20% dei pazienti con emicrania con aura.
Fisiopatologia Le cause dell’emicrania sono tuttora ignote e la fisiopatologia non è stata completamente chiarita. Recentemente vari studi concordano sull’esistenza di una predisposizione genetica dato che più del 50% dei pazienti ha una storia familiare di emicrania. Sono state proposte quattro teorie principali per spiegare la fisiopatogenesi dell’emicrania: • teoria periferica o vascolare: ipotizza che la causa del dolore pulsante dipenda da un alterato meccanismo di costrizione-dilatazione dei vasi cerebrali; • teoria trigemino vascolare: il dolore emicranico dipende da una forma di infiammazione neurogena sterile causata dal rilascio di sostanza P, CGRP e neurochinina da parte delle fibre C trigeminali a seguito di una stimolazione patologica antidromica. Questi neuropeptidi inducono un edema tissutale e uno stato infiammatorio sia della dura madre che nei tessuti extracranici (FIG. 9.1);
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FIGURA 9.1 Fisiopatogenesi dell’emicrania: sistema trigemino-vascolare. • teoria centrale: si ipotizza che una disfunzione dei canali del calcio cellulari, un difetto energetico mitocondriale o una riduzione dei livelli plasmatici di magnesio possano indurre un’alterata eccitabilità neuronale con conseguente alterazione della risposta dolorifica centrale (riduzione della soglia dolorifica negli emicranici); • teoria unificante: si pensa che l’emicrania rappresenti una successione di eventi a esordio occipitale, consistenti in una scarica elettrica che tende a diffondersi in altre regioni cerebrali fra cui il tronco encefalico e il sistema trigemino-vascolare. Questi eventi, che dipendono a loro volta sia da fattori genetici che ambientali, provocano processi biochimici che inducono alterazioni piastriniche, modificazioni del diametro vasale e rilascio di sostanze algogene.
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FOCUS ON CRITERI DIAGNOSTICI ICHD-III (VERSIONE BETA) PER L’EMICRANIA a. Almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri b e d. b. Durata degli attacchi dalle 4 alle 72 ore (senza trattamento o con trattamento inefficace). c. La cefalea presenta almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. unilateralità; 2. dolore pulsante 3. intensità media o severa (riduce o impedisce le comuni attività giornaliere); 4. aggravamento indotto da attività fisiche quotidiane (salire le scale ecc.), d. La cefalea è accompagnata da almeno uno dei seguenti sintomi: 1. nausea e/o vomito; 2. fonoe fotofobia. e. L’anamnesi e l’esame obiettivo generale e neurologico non suggeriscono la presenza di una condizione in grado di determinare una cefalea sintomatica oppure, in caso di dubbio, questa è esclusa con appropriate indagini.
Studi di RM funzionale e di PET hanno inoltre evidenziato come l’aura emicranica possa essere spiegata da una fenomeno definito cortical spreading depression (CSD). La CSD è un evento neurovascolare caratterizzato da un’onda di depolarizzazione neuronale e gliale che si propaga anteriormente lungo la corteccia cerebrale alla velocità di 3-5 mm/minuto, partendo dai lobi occipitali. Generalmente si associa a un importante incremento del flusso cerebrale transitorio a cui fa seguito una ipoperfusione (detta oligoemia) più prolungata. Queste alterazioni di flusso ematico seguono parallelamente l’onda di depolarizzazione condirezione occipitofrontale causando così le manifestazioni neurologiche tipiche dell’aura emicranica. La CSD può a sua volta attivare le vie trigeminovascolari omolaterali di cui sopra con conseguente infiammazione sterile e dolore. Attualmente, gli eventi
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molecolari in grado di innescare la CSD non sono noti, ma si ipotizza una ipereccitabilità neuronale.
Trattamento La terapia dell’emicrania si suddivide in terapia sintomatica e terapia di profilassi (VEDI FOCUS ON: EMICRANIA: ASPETTATIVE E OBIETTIVI TERAPEUTICI, PAG. 159). La terapia sintomatica prevede l’istruzione del paziente sulla corretta modalità di assunzione del farmaco in merito al giusto dosaggio e alla giusta via di somministrazione in caso di nausea e/o vomito (vie alternative a quella orale: rettale, spray nasale, parenterale). Dev’essere consigliato di usare preferibilmente farmaci contenenti un solo principio attivo e di adottare misure supplementari (riposo a letto in ambiente buio, evitare rumori ecc.). In genere non andrebbero prescritti analgesici derivati da oppioidi in quanto possono causare dipendenza, overuse di sintomatici e possono inoltre favorire la trasformazione di un’emicrania episodica in emicrania cornica. In particolare vanno evitati anche i farmaci contenenti associazioni con barbiturici. In acuto vengono utilizzate le categorie farmaceutiche qui di seguito descritte:
FOCUS ON EMICRANIA: ASPETTATIVE E OBIETTIVI TERAPEUTICI Principi generali 1. Per almeno 2 mesi monitorare mediante l’uso di un apposito diario, frequenza, intensità, durata delle crisi, nonché intensità dei sintomi di accompagnamento e consumo di analgesici e altri farmaci (tipo, numero, tempi e via di somministrazione). È anche raccomandabile annotare l’intervento di fattori e/o situazioni scatenanti/favorevoli. 2. Valutare l’effetto terapeutico considerando la riduzione del grado di disabilità.
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Aspettative e obiettivi 1. Elevata efficacia sul sintomo dolore e sui sintomi associati. 2. Ottimale controllo delle recidive. 3. Ottima tollerabilità. 4. Facilità d’assunzione. 5. Ripetitività dell’assunzione. 6. Possibilità di riprendere rapidamente le comuni attività quotidiane. 7. Basso costo e concessione del farmaco da parte del SSN. 8. Buona qualità di vita non più condizionata da attacchi, invalidanti, lunghi e refrattari alla terapia.
1. triptani agonisti dei recettori 5HT 1B-1D: sono farmaci di prima scelta per la terapia sintomatica dell’attacco di emicrania, in pazienti con crisi totalmente disabilitanti (grado 3) in trattamento o meno con farmaci di profilassi. Questi farmaci sono anche indicati in pazienti con crisi parzialmente disabilitanti (grado 2) nei quali i farmaci analgesici siano controindicati o risultino inefficaci: — sumatriptan: cpr 50-100 mg, supp 25 mg, fiale 6 mg sc, spray nasale; — zolmitriptan: cpr 2,5 mg (anche in forma liofilizzata); — rizatriptan: cpr 5-10 mg (anche in forma liofilizzata); — naratriptan: non in commercio in Italia; — eletriptan: cpr 40 mg; — almotriptan: cpr 12,5 mg; 2. analgesici e FANS: sono farmaci per il trattamento sintomatico di crisi emicraniche di lieve o moderata intensità (grado 1-2) e farmaci alternativi per il trattamento di crisi emicraniche di intensità forte se controindicati i triptani: — acido acetilsalicilico: cpr 325-500 mg; supp 500-1000 mg; fiale 5001000 mg; — indometacina: cpr 25-50 mg; supp 50-100 mg; fiale 50 mg; — naprossene: cpr 250-500-750 mg; supp 250-500 mg; fiale 500 mg; cpr e supp 550 mg; — ibuprofene: cpr 200-400-600 mg; supp 600 mg; — diclofenac: cpr 50-75-100 mg; supp 100 mg; fiale 75 mg;
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— nimesulide: bustine o cpr 100 mg; — paracetamolo: cpr 500 mg; supp 500-1000 mg; 3. antiemetici: vengono utilizzati quando i farmaci analgesici e i triptani sono inefficaci per nausea e vomito. Possono essere impiegati da soli per crisi emicraniche di grado 1 e di breve durata, caratterizzate da nausea e vomito: — metoclopramide: fiale 10 mg; cpr 10 mg; — domperidone: cpr 10 mg; supp 30 mg; — proclorperazina: cpr 5 mg; supp 10 mg. La terapia di profilassi a lungo termine è indicata quando il paziente presenta più di due crisi parzialmente o totalmente disabilitanti al mese della durata complessiva di almeno quattro giorni. I cicli di profilassi variano da 3 a 12 mesi o più a seconda del farmaco usato e della risposta terapeutica. Categorie farmaceutiche usate per la profilassi sono: 1. antidepressivi triciclici: in caso di comorbilità con depressione, ansia e/o insonnia, e in caso l’emicrania si associ a una cefalea tensiva. È consigliabile utilizzare dosi crescenti prima di raggiungere la dose di mantenimento, per ridurre gli effetti indesiderati e migliorare la tolleranza: — amitriptilina: cpr 10 e 25 mg, gtt (1 gtt = 2 mg); 2. beta-bloccanti: farmaci di prima scelta assoluta in caso di ipertensione e/o tachicardia. Evitare in caso di depressione, asma, bradicardia, nei soggetti anziani e nei diabetici. È consigliabile utilizzare dosi crescenti prima di raggiungere la dose di mantenimento per ridurre gli effetti indesiderati e migliorare la tolleranza; anche la sospensione va attuata gradualmente, per evitare fenomeni rebound: — propanololo: cpr 40-80 mg; — atenololo: cpr 100 mg; — metoprololo: cpr 100 mg; forma retard cpr 200 mg; 3. antagonisti serotoninergici: — pizotifene: cpr 0,5 mg; 4. calcioantagonisti: la cinnarizina è farmaco di prima scelta in presenza di ansia e/o insonnia (evitare in età presenile e in caso di obesità, depressione anche familiare o solo anamnestica, parkinsonismo). Il verapamil è da utilizzare in presenza di depressione, ipertensione, tachicardia. Evitare l’associazione con beta-bloccanti: — flunarizina: cpr 5-10 mg;
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— cinnarizina: cpr 25-50-75 mg; — verapamil: cpr 80 mg; forma retard cpr 120 mg; cpr 240 mg; 5. inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI): da utilizzare in caso di comorbilità con sindromi depressive lievi-moderate: — fluoxetina: cpr 20 mg; — fluvoxamina: cpr 50-100 mg; — paroxetina: cpr 20 mg; — sertralina: cpr 50 mg; 6. antiepilettici: negli ultimi anni gli antiepilettici sono stati considerati farmaci molto promettenti nella prevenzione dell’emicrania e di altre forme di cefalea: — acido valproico: 500-1000 mg; — topiramato: 50-100 mg; — lamotrigina: 25-100 mg.
Cefalea tensiva Epidemiologia La cefalea di tipo tensivo è la più diffusa ed eterogenea delle cefalee primarie. Rappresenta dal 20 al 60% di tutte le cefalee con una prevalenza nella popolazione generale europea stimata intorno al 62%. L’età d’esordio varia tra i 20 e i 50 anni con un’età media d’insorgenza intorno ai 30 anni. Colpisce prevalentemente il sesso femminile (65-77% dei pazienti affetti). Si suddivide in cefalea tensiva episodica (12-180 gg/anno) e cronica (>180 gg/anno) (VEDI FOCUS ON: CRITERI DIAGNOSTICI ICHD-III (VERSIONE BETA) PER LA CEFALEA DI TIPO TENSIVO, IN QUESTA PAGINA).
FOCUS ON CRITERI DIAGNOSTICI ICHD-III (VERSIONE BETA) PER LA CEFALEA DI TIPO TENSIVO
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a. Almeno 10 episodi di cefalea che soddisfino i criteri b e d. Per la cefalea di tipo episodico infrequente: la cefalea è presente per meno di 12 giorni/anno (meno di 1 giorno/mese). Per la cefalea di tipo episodico frequente: la cefalea è presente per più di 12 giorni/mese per almeno 3 mesi). b. La cefalea dura da 30 minuti a 7 giorni. Il dolore presenta almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. qualità gravativa-costrittiva (non pulsante); 2. intensità lieve o media (può ostacolare, ma non impedire del tutto la normale attività quotidiana); 3. sede bilaterale; non è aggravata da attività fisiche routinarie. d. Si verificano entrambe le seguenti condizioni: 1. nausea o vomito assenti (può essere presente anoressia); 2. possono presentarsi, ma non contemporaneamente, fonofobia e fotofobia. e. Non attribuibile ad altra malattia.
Quadro clinico La cefalea tensiva è caratterizzata da un dolore spesso bilaterale (75-90% dei casi) a sede frontale e occipitale (classica cefalea “a casco”). L’intensità è tipicamente lieve-moderata, tale da non impedire le normali attività quotidiane. La durata della cefalea è compresa tra i 30 minuti e i 7 giorni nelle forme episodiche o può essere continua nelle forme croniche. Generalmente è un dolore di tipo gravativo/compressivo in assenza di sintomi associati (raramente viene riportata la nausea soprattutto nelle forme croniche). Per un approfondimento, VEDI FOCUS ON: CEFALEA CRONICA QUOTIDIANA, IN QUESTA PAGINA.
Fisiopatologia I meccanismi che portano alla cefalea tensiva sono noti solo in parte. Oltre alla contrazione dei muscoli paracervicali viene a tutt’oggi ipotizzata una genesi multifattoriale che comprende meccanismi sia periferici che centrali.
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A favore delle teorie periferiche esistono la dolorabilità miofasciale dei muscoli striati paracervicali, delle fasce e delle inserzioni tendinee alla palpazione e studi elettromiografici che documentano un aumento della contrazione muscolare dei muscoli pericranici. A conferma delle teorie centrali, vari studi hanno rilevato una riduzione della soglia del dolore a stimoli di diversa natura (per esempio, tattili o termici) che dipenderebbe da un’alterazione di meccanismi a livello sovraspinale (sensitizzazione centrale). A conclusione si pensa quindi che un aumentato stimolo nocicettivo periferico prolungato (dovuto per esempio a posture viziate, anomalie di masticazione o traumi) sviluppi una sensitizzazione centrale nei neuroni del corno dorsale dei nuclei trigeminali. L’aumentata stimolazione afferente al talamo e alla corteccia porta poi al ridotto controllo inibitorio della trasmissione dolorosa anche a livello sovraspinale.
FOCUS ON CEFALEA CRONICA QUOTIDIANA • Definizione ed epidemiologia. In questa categoria sono comprese tutte quelle forme di cefalea che presentano una frequenza quasi quotidiana per periodi prolungati (mesi o anni) senza intervalli liberi. Sono distinte in forme croniche primitive ab initio e in forme a secondaria generalizzazione (a partenza da emicranie o cefalee tensive episodiche). La prevalenza di questo disturbo varia tra 2 e 5% della popolazione generale ed è nettamente più frequente nel sesso femminile. Generalmente la trasformazione da forme episodiche a croniche avviene tra la terza e la quarta decade di vita. • Clinica. La clinica è molto eterogenea: una delle caratteristiche comuni a tutte le cefalee croniche è infatti la progressiva perdita della specificità del dolore originario. Tra i principali fattori che predispongono la cronicizzazione di una cefalea vi è l’overuse di analgesici, inteso come assunzione di farmaci frequente e regolare
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durante un mese (consumo maggiore a 10 gg/mese per tre mesi per i triplani e maggiore a 15 gg/mese per tre mesi per i FANS). Vi sono poi fattori biologici e comportamentali e la comorbilità con patologie psichiatriche. • Terapia. Vengono utilizzati vari farmaci di profilassi: antidepressivi, ansiolitici, anticonvulsivanti, agonisti e antagonisti serotoninergici, beta-bloccanti, calcioantagonisti e miorilssanti. L’obiettivo consiste nel ridurre la frequenza e l’intensità del dolore, nel ridurre l’assunzione di sintomatici e nel rendere più efficace l’azione dei sintomatici stessi. Di recente introduzione sono anche alcuni neurolettici atipici e la tossina botulinica di tipo A e B. Per le forme croniche associate a overuse, la corretta terapia consiste nel ricovero ospedaliero di 1-2 settimane per una disuassuefazione e un wash out da analgesici. In regime ospedaliero, la sostanza abusata va sospesa bruscamente, sottoponendo il paziente a terapia idrica associata a benzodiazepine e sintomatici differenti per via endovenosa, al fine di coprire la comparsa eventuale di una cefalea rebound. Nel caso in cui il sintomatico abusato contenga un oppioide, deve essere intrapresa anche adeguata copertura antiepilettica per la possibilità di crisi comiziali da sospensione. Nel frattempo va intrapreso un trattamento di profilassi a scelta tra quelli menzionati in base alle comorbilità del paziente.
Trattamento La terapia della cefalea tensiva si distingue in terapia acuta (intesa a interrompere l’attacco doloroso e a ridurre nell’immediato i sintomi) e di profilassi (mirata a prevenire e diminuire la frequenza degli attacchi). La terapia d’attacco prevede l’utilizzo di FANS i cui principali effetti collaterali comuni a questa categoria sono a carico dell’apparato gastroenterico (in particolare dolore epigastrico e ulcera). Sono quindi controindicati nei pazienti con ulcera gastroduodenale, in trattamento anticoagulante e con diatesi emorragica: • acido acetilsalicilico: è il farmaco più diffuso con buona efficacia; dose consigliata: tra 0,5 e 2 g/die;
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• ketoprofene: buona efficacia a dosaggi 50-150 mg/die per os o 100 mg/die im o ev; • ibuprofene: efficacia tra i 200 e 800 mg/die; è caratterizzato da una buona tolleranza gastrica; • naprossene: particolarmente indicato per attacchi di lunga durata (emivita di 14 ore); dose consigliata: 550 mg/die; • paracetamolo: dose tra 500-1000 mg/die. I prodotti di associazione usati sono: codeina o caffeina associati al paracetamolo, e proclorperazina e caffeina con indometacina. La terapia di profilassi è indicata nei pazienti con frequenza di attacchi superiore a due alla settimana, nei casi con una durata dell’attacco superiore a 3-4 ore in media, nei casi in cui la gravità dell’attacco possa portare a un abuso di sintomatici o a una importante disabilità quotidiana. I farmaci utilizzati sono: • antidepressivi triciclici: l’amitriptilina è il farmaco di prima scelta a dosaggi variabili (inizialmente 5-10 mg/die fino a 50-75 mg/die). I risultati solitamente si manifestano dopo la seconda settimana di trattamento. Tra gli effetti collaterali più comuni: secchezza delle fauci, sonnolenza, aumento ponderale. Controindicata in soggetti con glaucoma ad angolo chiuso, ritenzione urinaria e disturbi del ritmo cardiaco; • SSRI (inibitori selettivi del reuptake della serotonina): fluvoxamina, fluoxetina, paroxetina e citalopram, escitalopram. Sono da considerare in particolar modo se la cefalea si associa a stato depressivo; • miorilassanti: benzodiazepine e tizanidina hanno un’azione miorilassante a livello centrale. Le benzodiazepine (diazepam, clorazepam, clordiazepossido) sono utilizzate in caso di comorbilità con stati ansiosi. La tizanidina può causare lieve epatotossicità, sonnolenza e stato confusionale; • altri farmaci come la tiocolchicoside hanno un effetto miorilassante periferico. Tra le terapie non farmacologiche il biofeedback è la tecnica con maggior efficacia. Si citano inoltre il training autogeno, l’agopuntura, la massoterapia, le TENS, lo stretching.
Cefalea a grappolo 340
Epidemiologia La cefalea a grappolo fa parte di un gruppo di cefalee denominate trigeminal autonomic cephalgias (TAC), in cui il dolore si associa a un interessamento del sistema vegetativo oculofacciale. La prevalenza varia dallo 0,09 allo 0,3% della popolazione generale in Europa; prevalentemente il sesso maschile è maggiormente colpito con un rapporto M:F = 3/4:1. L’età media di insorgenza è 20-30 anni e si suddivide nella forma episodica o cronica.
Quadro clinico La cefalea a grappolo è caratterizzata da attacchi di dolore concentrati in periodi attivi detti appunto “grappoli” che ricorrono con una frequenza variabile da uno ogni due anni a due all’anno. I grappoli hanno una loro periodicità (generalmente ai cambi di stagione) e la durata media di ciascun grappolo varia da uno a due mesi nella forma episodica. Esiste poi una forma cronica in cui il grappolo può durare anche un anno con dei periodi di remissione inferiori ai 30 giorni. La cefalea è caratterizzata da un dolore estremamente grave di tipo trafittivo, lancinante, a pugnalata, con un’intensità elevata (sono stati riportati anche casi di suicidio a causa del dolore). Il dolore è sempre unilaterale e la sede più frequente è la regione oculare. I sintomi di accompagnamento comprendono lacrimazione, rinorrea e congestione nasale, ptosi e miosi ispilaterali, edema e arrossamento perioculare. La durata dell’attacco è compresa tra 15 e 180 minuti e la frequenza può variare da un attacco ogni due giorni fino a otto attacchi al giorno. L’orario d’esordio dell’attacco è tendenzialmente fisso. Ci sono inoltre fattori scatenanti quali l’assunzione di alcol, di trinitrina e/o istamina e lo stress psicofisico. La diagnosi è su base clinica e anamnestica con appropriato supporto neuroradiologico per escludere cause di cefalea secondaria (VEDI FOCUS ON: CRITERI DIAGNOSTICI ICHD-III (VERSIONE BETA) PER LA CEFALEA A GRAPPOLO, IN QUESTA PAGINA).
Fisiopatologia La teoria più accreditata è quella neurovascolare. È stato ipotizzato un
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processo flogistico a carico del seno cavernoso e delle sue vene tributarie ed efferenti con conseguente “ingorgo vascolare” e compressione delle fibre simpatiche nella parete del seno cavernoso stesso. Il dolore sembra abbia origine dallo stiramento delle fibre algogene a livello dei vasi coinvolti (compreso il tratto intracavernoso della carotide interna), mediato dall’attivazione del nervo trigemino (riflesso trigeminovascolare). La conferma dell’attivazione delle fibre trigeminali è data anche da un incremento del CGRP (calcitonin-gene-related peptide) nel sangue venoso refluo della giugulare del lato affetto. Contemporaneamente vi è un incremento del VIP (vasoactive intestinal peptide) che viene rilasciato dalle terminazioni parasimpatiche del VII nervo cranico (questo spiega i fenomeni autonomici oculonasali omolaterali). Sembra infine che la ritmicità e la periodicità delle crisi dolorose sia imputabile a un coinvolgimento dell’ipotalamo nel ruolo di “orologio biologico”: l’attività ipotalamica darebbe origine allo stimolo che conduce all’attivazione del riflesso trigeminovascolare.
Trattamento Si divide in terapia farmacologia suddivisa a sua volta in sintomatica, profilattica e chirurgica. La terapia medica d’attacco consiste nell’utilizzo di sumatriptan 6 mg sottocute; vi è poi l’ossigenoterapia (inalazione di 7-10 l/min per 15 minuti circa) e l’indometacina (50-100 mg fiale im o supposte). La terapia di profilassi deve concentrarsi esclusivamente nel periodo del grappolo. Si avvale come prima scelta di calcioantagonisti come il verapamil (240-360 mg/die), a seguire il litio carbonato (più efficace nelle forme croniche) con un dosaggio medio di 900 mg/die e mantenendo valori plasmatici di 0,4-0,8 mEq/l. Vengono inoltre utilizzati cicli di corticosteroidi (50-60 mg/die per 3 giorni scalando la dose di 10 mg/die ogni 2-3 giorni) e altri antiepilettici come acido valproico e topiramato.
FOCUS ON
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CRITERI DIAGNOSTICI ICHD-III (VERSIONE BETA) PER LA CEFALEA A GRAPPOLO
a. Almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri b e d. b. Dolore di intensità severa, unilaterale, in sede orbitaria, sovraorbitaria e/o temporale, della durata da 15 a 180 minuti (senza trattamento). c. La cefalea è associata ad almeno uno dei seguenti segni: 1. iniezione congiuntivale; 2. lacrimazione; 3. ostruzione nasale; 4. rinorrea; 5. sudorazione della fronte e della faccia; 6. miosi; 7. ptosi palpebrale; 8. edema palpebrale. d. La frequenza degli attacchi è compresa tra un attacco ogni 2 giorni e 8 attacchi al giorno. e. Si verifica una delle seguenti condizioni: 1. la storia clinica, l’esame obiettivo e/o neurologico escludono i disturbi elencati nei gruppi 5-11; 2. la storia clinica, l’esame obiettivo e/o neurologico suggeriscono uno di tali disturbi, che non è tuttavia confermato da indagini strumentali adeguate; 3. il disturbo è presente, ma l’attacco emicranico non si presenta la prima volta in stretta relazione temporale al disturbo stesso.
La terapia chirurgica viene utilizzata nelle forme croniche o farmacoresistenti. Consiste nella deep brain stimulation, ovvero una stimolazione inibitoria per via stereotassica della regione ipotalamica che durante una crisi risulta attivata (visualizzata tramite metodica PET).
NEVRALGIE CRANICHE: NEVRALGIA DEL TRIGEMINO
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KEY POINTS La nevralgia del trigemino è una patologia rara. Il dolore trafittivo e urente si presenta con frequenti attacchi della durata di pochi minuti ciascuno. La sede colpita corrisponde al territorio di innervazione delle tre branche trigeminali. La malattia può peggiorare progressivamente fino a portare a deficit sensitivi permanenti. Spesso la causa di questa nevralgia consiste in un conflitto neurovascolare. La terapia può essere sia medica che chirurgica.
Epidemiologia La malattia del trigemino, pur essendo la più comune delle algie facciali, è considerata una malattia rara dato che ha un’incidenza di 3-5 nuovi casi per 100 000 abitanti per anno e una prevalenza di 15,5 casi per 100 000. L’esordio è generalmente oltre i 50 anni e le donne sono più colpite rispetto agli uomini con un rapporto F:M di 2:1.
Quadro clinico L’attacco nevralgico è caratterizzato tipicamente da un dolore superficiale, urente, tipo scossa elettrica, di intensità severa. La sede è limitata al territorio di distribuzione delle tre branche trigeminali (le branche mascellare e mandibolare sono coinvolte più frequentemente di quella oftalmica) ed è unilaterale. L’esordio è improvviso e i singoli attacchi, che durano da meno di un secondo a due minuti circa, si possono ripetere in salve. Il dolore può essere scatenato da fattori trigger (per esempio, stimolazione cutanea a livello del volto). Il decorso della malattia è spesso intermittente con fasi di remissione spontanea. Nel tempo, tuttavia, la malattia peggiora progressivamente fino alla comparsa di deficit sensitivi permanenti nei territori colpiti (per esempio, ipoestesie o disestesie urenti).
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Fisiopatologia Esplorando la fossa cranica posteriore con adeguate tecniche di neuroimaging, è stato riscontrato nella maggior parte dei casi un conflitto neurovascolare tra la radice sensitiva del trigemino e un’arteria o una vena tortuosa o ectasica. Nel punto di contatto è stata inoltre dimostrata un’area di demielinizzazione del nervo. In concomitanza è stata anche dimostrata una patogenesi centrale che consiste in un’anomala facilitazione della trasmissione nocicettiva centrale.
Trattamento Il trattamento della nevralgia del trigemino prevede sia la terapia medica che la terapia chirurgica. Spesso si ricorre a quest’ultima nelle fasi tardive della malattia, quando i farmaci non hanno più effetto. Per il trattamento medico VEDI TABELLA 9.1. TABELLA 9.1 Farmaci usati nella terapia medica della nevralgia del trigeminoa
aUtilizzati
come terapie alternative: lamotrigina, topiramato, acido valproico e clonazepam. Le terapie chirurgiche si suddividono in tre gruppi: 1. tecniche percutanee: comprendono la termolisi a radiofrequenza, la rizolisi con glicerolo e la compressione con palloncino; mirano a produrre un danno selettivo a livello del ganglio di Gasser o della radice trigeminale;
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2. decompressione microvascolare: trattamento causale e non sintomatico con bassa incidenza di recidive, indicata nei casi in cui è visibile il conflitto neurovascolare; 3. radiochirurgia stereotassica: prevede la somministrazione di un’alta dose di radiazioni in un’area selettiva indicata responsabile della trasmissione dolorosa.
CEFALEE PARTICOLARI: EMICRANIA OFTALMOPLEGICA E SINDROME DI TOLOSA-HUNT KEY POINTS L’emicrania oftalmoplegica è una forma di emicrania molto rara associata a deficit dell’oculomozione. Generalmente è responsiva alla terapia steroidea. Per la diagnosi devono essere escluse tutte le patologie della fossa posteriore, parasellari e della fessura orbitaria. La sindrome di Tolosa-Hunt è un’oftalmoplegia dolorosa che può essere causata da processi infiammatori a carico del seno cavernoso o a livello del tratto intracavernoso della carotide. L’emicrania oftalmoplegica è una condizione molto rara caratterizzata da un attacco di cefalea dalle caratteristiche emicraniche associata a una paresi di uno o più nervi oculomotori. Il dolore può durare fino a una settimana con intensità severa ed è unilaterale. L’oftalmoplegia può comparire anche quattro giorni dopo l’esordio della cefalea ed è ipsilaterale al dolore, completa o parziale. Appropriate indagini devono escludere lesioni parasellari, della fessura orbitaria e della fossa posteriore. Questa forma di emicrania risponde generalmente alla terapia steroidea. Anche la sindrome di Tolosa-Hunt (STH) è un’affezione molto rara con età d’esordio tra i 20 e 60 anni, senza differenze significative tra maschi e femmine. Caratterizzata da dolore acuto, trafittivo in sede retro o periorbitaria, della durata di giorni o settimane se non trattato, associato o seguito da oftalmoplegia. Il nervo più colpito (80% dei casi) è l’oculomotore,
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a seguire l’abducente (15,5%); altri nervi che possono essere coinvolti in misura minore sono il V e il VII nervo cranico a indicare l’estensione del processo al seno cavernoso. Anche la STH risponde bene alla terapia steroidea: prednisone 50-100 mg/die per os per 7 giorni. Uno dei criteri per la diagnosi di questa cefalea è appunto la scomparsa del dolore e della paresi entro 72 ore dall’inizio di un adeguato trattamento steroideo. Ai fini diagnostici, attualmente si ricorre alla RM encefalo con mezzo di contrasto che permette di evidenziare i casi sintomatici per alterazioni a carico del seno cavernoso (stati infiammatori) o a livello del tratto intracavernoso della carotide (irregolarità del calibro vasale di natura artritica, aterosclerotica).
CEFALEE SECONDARIE KEY POINTS Il corretto inquadramento di una cefalea secondaria è fondamentale per una corretta terapia. Le cefalee secondarie, a livello clinico, possono mimare completamente una cefalea primaria. Qualsiasi cefalea necessita di un’anamnesi approfondita, un esame obiettivo generale e neurologico e un eventuale completamento diagnostico strumentale adeguato al fine di escludere patologie sottostanti. Una mancata risposta a più terapie sintomatiche e di profilassi deve fare sospettare una cefalea secondaria. Sono affezioni in cui la cefalea rappresenta un sintomo attribuibile a una ben precisa noxa patogena. La ICHD-III (versione beta) ha individuato sette diversi raggruppamenti (numerati da 5 a 11) di disturbi cefalalgici. Spesso la diagnosi di queste entità risulta difficoltosa in quanto possono mimare il quadro tipico di una cefalea primaria o perché il dolore manca di caratteristiche cliniche ben definite (VEDI FOCUS ON: CAMPANELLI D’ALLARME PER LA DIAGNOSI DELLE CEFALEE SECONDARIE, IN QUESTA
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PAGINA).
La cefalea dev’essere comunque classificata come secondaria quando vi sia una stretta associazione temporale tra l’insorgenza del dolore cefalico e il riscontro di una lesione organica. La cefalea può rappresentare il sintomo d’esordio di una patologia organica severa e pertanto il suo corretto inquadramento è fondamentale per un successivo efficace trattamento. La prevalenza delle cefalee secondarie varia notevolmente a seconda del sottogruppo. Tra le numerose cefalee secondarie descritte all’interno della classificazione ICHD-III (versione beta) quelle di più comune riscontro nella pratica clinica sono: 1. cefalee associate a malattie cerebrovascolari; 2. cefalee associate a disturbi infettivi del SNC; 3. cefalee associate a neoplasie; 4. cefalee associate a disturbi della circolazione liquorale. CEFALEE ASSOCIATE A MALATTIE CEREBROVASCOLARI. Nell’ambito delle affezioni vascolari, la cefalea si associa comunemente all’emorragia intraparenchimale (fino al 60% dei pazienti con sanguinamenti occipitali o cerebellari) o a emorragia subaracnoidea (ESA), dove si manifesta con caratteristiche talmente intense e acute da essere definita “a rombo di tuono” (thunderclup headache). In entrambe queste patologie, il dolore cefalico si associa frequentemente a nausea, vomito e rialzo dei valori pressori, nonché ai sintomi neurologici dovuti al danno parenchimale della regione cerebrale coinvolta. Più raramente la cefalea è espressione di un ictus ischemico o di un attacco ischemico transitorio (TIA). In questi casi la cefalea è più frequente se vengono colpite le regioni del territorio vertebrobasilare o se l’eziologia è embolica. La cefalea viene inoltre riportata in associazione a malformazioni vascolari (aneurismi non rotti, MAV, fistole arterovenose durali e angiomi cavernosi) e in arteriti del sistema nervoso centrale, tra cui la più nota è l’arterite temporale di Horton (o “arterite a cellule giganti”). In quest’ultima, la cefalea è presente nel 70% dei pazienti affetti e costituisce il sintomo d’esordio in circa un terzo dei casi. Il dolore purtroppo non ha caratteristiche patognomoniche se non quello di rappresentare un sintomo nuovo in pazienti anziani senza storia di cefalea. I pazienti affetti possono presentare tempie
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dolenti e dure alla palpazione e fenomeni come la claudicatio mandibolare e/o della lingua a causa di un’ischemia dei muscoli in tali territori. Vi sono poi cefalee attribuite a patologie dell’arteria carotide o vertebrale. Tra queste, comune è il dolore associato a dissecazione arteriosa, che si presenta come sintomo d’esordio nel 33-86% dei casi. In genere è un dolore unilaterale, persistente e severo e può estendersi a diverse parti del capo (70%), del collo (20%) o della faccia (10%). In caso di infarto cerebrale da dissecazione, alla cefalea fanno poi seguito sintomi e segni neurologici causati dal danno ischemico.
FOCUS ON CAMPANELLI D’ALLARME PER LA DIAGNOSI DELLE CEFALEE SECONDARIE
• Insorgenza recente. • Esordio dopo i 40 anni. • Inspiegabile peggioramento di una cefalea preesistente. • Sede unilaterale fissa. • Associazione con vomito profuso (in assenza di pregressa diagnosi di emicrania). • Decorso progressivo. • Associazione con sforzo fisico. • Associazione con stato confusionale, perdita di coscienza, convulsioni. • Presenza di segni neurologici.
La cefalea è anche il sintomo più frequente (80-90% dei casi) della trombosi venosa cerebrale (TVC): in questo caso il dolore è dovuto all’ipertensione endocranica secondaria all’alterato riassorbimento liquorale e all’aumento intracranico della pressione venosa. La cefalea non ha caratteristiche specifiche: il grado di severità è variabile e la sede è diffusa; l’esordio può
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essere acuto, subacuto o presentare un andamento cronico. Per tutte queste forme di cefalea, i criteri diagnostici ICHD-III (versione beta) prevedono la dimostrazione mediante tecniche di neuroimaging delle patologie primarie vascolari sottostanti. CEFALEE ASSOCIATE A DISTURBI INFETTIVI DEL SNC. Nelle patologie infettive intracraniche, la cefalea rappresenta il sintomo principale per il quale il paziente giunge all’osservazione. Tendenzialmente il dolore è associato a stati infettivi e viene descritto come diffuso, bilaterale o unilaterale, con esordio acuto e con intensità ingravescente; il pattern temporale di tale cefalea non è patognomonico. Il sintomo doloroso può essere accompagnato o meno da nausea, fonoe fotofobia e spesso si verifica in un paziente febbrile. La concomitante presenza di segni e/o sintomi neurologici, compresa un’alterazione dello stato di coscienza, può dare un importante contributo al sospetto diagnostico. Nella meningite batterica acuta due segni fondamentali che accompagnano la cefalea sono nella quasi totalità dei casi la febbre e la rigidità nucale; spesso il dolore si irradia anche al collo. CEFALEE ASSOCIATE A NEOPLASIE. La cefalea è presente in circa il 50% dei pazienti affetti da tumori cerebrali (sia primitivi sia metastatici). Solo nell’8% dei casi, tuttavia, il dolore cefalico rappresenta l’unico sintomo d’esordio della patologia. I tumori che maggiormente danno cefalea sono quelli localizzati a livello delle strutture del basicranio (per la compromissione precoce della dinamica liquorale), quelli a rapida crescita e quelli che provocano precocemente una dislocazione controlaterale delle strutture della linea mediana. Caratteristica tipica della cefalea è un dolore costrittivo, di intensità severa, più grave al mattino o dopo esecuzione di manovra di Valsalva, associato a nausea e vomito. La sede più interessata (68% dei casi) è quella bifrontale (in particolar modo nei tumori sovratentoriali). L’andamento temporale del dolore è intermittente nell’arco della giornata e la risposta ai comuni analgesici è riportata solo nel 42% dei soggetti. Nel caso in cui non vi sia una compromissione della dinamica liquorale, la cefalea può essere più lieve e si associa meno frequentemente ai sintomi di accompagnamento. Tra i criteri diagnostici della ICHD-III (versione beta) vi è la presenza di
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una lesione cerebrale evidenziata con neuroimaging adeguato e il riscontro di una stretta relazione temporale tra la comparsa della cefalea e lo sviluppo della neoplasia. La cefalea inoltre deve migliorare entro 7 giorni dalla rimozione o dalla riduzione della massa tumorale. CEFALEE ASSOCIATE A DISTURBI DELLA CIRCOLAZIONE LIQUORALE. Si osservano due forme: l’ipertensione e l’ipotensione liquorale. L’ipertensione liquorale (>200 mmH2O nei soggetti normopeso e >250 mmH2O negli obesi) può essere: • idiopatica (detta anche pseudotumor cerebri); • secondaria a idrocefalo; • secondaria a intossicazioni, alterazioni metaboliche o ormonali. La cefalea è presente nel 94% dei soggetti affetti da ipertensione liquorale. I sintomi associati più descritti sono: alterazioni transitorie del visus (68%), acufeni pulsanti (58%), fotopsie (54%), dolore retrooculare (44%). Sono riportati più raramente anche diplopia, perdita del visus e dolore retrobulbare nei movimenti oculari. Il dolore non ha caratteristiche tipiche. I criteri della ICHD-III (versione beta) prevedono una cefalea ad andamento progressivo con almeno uno dei seguenti parametri: 1. presentazione quotidiana; 2. dolore diffuso non pulsante; 3. peggioramento con la tosse e con gli sforzi fisici. Per la diagnosi inoltre è richiesta la scomparsa della cefalea a 72 ore dal ripristino di una normale pressione liquorale. L’ipotensione liquorale ( H. influenzae > bacilli Gram-negativi > L. monocytogenes), e dall’aver già assunto o meno una terapia antibiotica. Oltre alla colorazione di Gram possono essere allestiti altri test diagnostici rapidi che evidenziano specifici antigeni capsulari batterici come test di agglutinazione al lattice. L’esame colturale del liquor, infine, risulta positivo nella maggior parte dei casi di meningite batterica. TABELLA 12.3 Diagnosi differenziale delle meningiti in base all’esame del liquido cefalorachidiano
Le meningiti batteriche acute in ospiti immunocompromessi e in pazienti pretrattati con antibiotici possono presentare quadri liquorali molto dissimili da quello classico delle meningiti purulente. Nelle meningiti virali, all’esame standard, il liquor appare limpido e incolore; la pressione solitamente è aumentata; la glicorrachia è normale e la conta cellulare è pari a 50-500 elementi/mm3, con netta prevalenza dei linfociti rispetto ai polimorfonucleati. La proteinorrachia è normale o solo lievemente aumentata. L’isolamento del virus avviene tramite PCR (polymerase chain reaction), test che permette di evidenziare la presenza di RNA/DNA virale sia nel siero che nel liquor, oltre al dosaggio anticorpale specifico. La determinazione sierica degli anticorpi è poco utile per i virus a elevato tasso di sieroprevalenza nella popolazione generale (HSV, VZV, EBV, CMV). Le colture liquorali sono positive nel 20-70% dei pazienti. Oltre che dal liquor, alcuni virus possono essere isolati anche da tamponi faringei, feci, sangue e urine. Utilizzando le varie tecniche diagnostiche, si riesce a identificare una causa virale specifica nel 75-90% dei casi di
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meningite virale. Nelle meningiti sierose atipiche, di solito a esordio subacuto, di origine batterica, fungina o protozoaria, la cellularità è variabile a seconda della fase di malattia, ma è rappresentata in prevalenza da elementi mononucleati. La glicorrachia, ridotta anche se non azzerata, consente di differenziare queste forme dalle meningiti virali, con cui possono avere in comune il tipo di cellularità; la proteinorrachia è nettamente aumentata, anche se meno che nelle meningiti batteriche. Per quanto riguarda le indagini di neuroimaging, né la TC (tomografia computerizzata) né la RM (risonanza magnetica) dell’encefalo sono diagnostiche per le meningiti acute, soprattutto per quelle scevre da complicanze. In RM è spesso possibile osservare un enhancement delle meningi dopo somministrazione di gadolinio, ma questo non è specifico, in quanto si può osservare in qualsiasi patologia del SNC associata ad aumento della permeabilità della BEE. Le indagini neuroradiologiche possono essere molto utili, d’altro canto, per evidenziare la presenza di eventuali soluzioni di continuo del cranio o del massiccio facciale che possono costituire i tramiti di ingresso degli agenti patogeni.
Principi di terapia e profilassi La meningite rappresenta una grave patologia infettiva, ad andamento rapidamente progressivo e ingravescente, con severi disturbi a carico del SNC. Per tale motivo, nel caso di sospetta meningite batterica acuta, l’inizio della terapia antibatterica, che in una prima fase è necessariamente di tipo empirico, deve essere effettuata senza indugio, previa esecuzione della rachicentesi e delle emocolture. In linea generale, gli obiettivi da perseguire sono due: 1. eradicazione dell’agente batterico infettante; 2. controllo delle eventuali complicanze a livello del SNC e sistemiche. La terapia empirica prevede l’uso di antibiotici in grado di contrastare gli agenti patogeni più verosimilmente responsabili nello specifico caso (tenendo conto di: età, immunocompetenza, provenienza, modalità di esordio). Solitamente si utilizzano antibiotici ad ampio spettro d’azione per via endovenosa al massimo dosaggio consentito, soprattutto in considerazione
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del fatto che solo una piccola quota di farmaco (3-15%) raggiunge il compartimento liquorale. La terapia empirica attuale della meningite purulenta viene di solito scelta tra le seguenti opzioni: • neonati fino a 4 settimane di vita: ampicillina +cefotaxime o ampicillina+aminoglicoside; • lattanti 1-3 mesi di vita: ampicillina+cefalosporina di terza generazione (ceftriaxone o cefotaxime); • soggetti compresi tra i 3 mesi e fino ai 18 anni: cefalosporina di terza generazione o ampicillina+cloramfenicolo; • adulti fino ai 50 anni: cefalosporina di terza generazione; • adulti oltre i 50 anni: cefalosporina di terza generazione+ampicillina; • pazienti immunocompromessi: vancomicina+ampicillina+ceftazidime; • soggetti con storia di trauma cranico, intervento neurochirurgico e/o shunt liquorale: ceftazidime+vancomicina. Nella TABELLA 12.4 viene riportata la terapia antibiotica delle infezioni batteriche del SNC in base all’agente eziologico. La durata del trattamento dipende dall’eziologia: almeno 7 giorni nelle meningiti da meningococco ed Haemophilus, 14 giorni nelle infezioni da pneumococco, 21 giorni in caso di Listeria, streptococco, stafilococco ed enterobacteriacee. Studi recenti hanno inoltre dimostrato l’efficacia dell’uso di corticosteroidi ad alto dosaggio nei casi di meningite pneumococcica (desametasone fino a 10 mg per via endovenosa ogni 6 ore per 4 giorni), in concomitanza della prima dose di antibiotico, con una riduzione di mortalità del 10%. Nei casi di meningite meningococcica la profilassi è raccomandata per i soggetti ad “alto rischio” (ovvero contatto diretto, personale medico e paramedico, conviventi), da effettuarsi entro 24-48 ore dall’ultimo contatto con il caso. Il farmaco di scelta è la rifampicina con il seguente schema: 10 mg/kg (max 600 mg) ogni 12 ore per 2 giorni per os. Altri farmaci utilizzabili sono il ceftriaxone (250 mg im in un’unica somministrazione per gli adulti) e la ciprofloxacina (500 mg in dose singola per os). Nella pratica clinica, il trattamento delle meningiti virali è solamente di supporto, e comprende l’uso di analgesici, antipiretici e antiemetici; attualmente solo nelle forme causate da herpes virus è dimostrata l’efficacia
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dell’utilizzo di agenti antivirali (aciclovir, famciclovir, valaciclovir, ganciclovir, foscarnet). L’aciclovir viene però spesso utilizzato in modo empirico anche nelle meningiti virali.
Complicanze e prognosi Tra le complicanze è opportuno distinguere quelle precoci da quelle tardive. Tra le prime si annoverano: • l’ipertensione endocranica, che può portare a stupor e coma e che, se non trattata tempestivamente con manovre di deliquorazione e/o derivazione liquorale, può condurre a erniazione delle strutture cerebrali; • le crisi comiziali focali o generalizzate (33% dei casi); • l’empiema subdurale (presente in un terzo dei pazienti, più comunemente associato a H. influenzae e a S. pneumoniae); • shock e coagulazione intravascolare disseminata (nei casi di meningite meningococcica); • ischemia arteriosa o infarto venoso cerebrale (per vasculite o infiltrazione della parete arteriosa da parte di cellule infiammatorie, con ispessimento intimale o tromboflebite dei seni venosi intracranici); • l’encefalite (costituisce una costante nelle infezioni da Legionella, Mycoplasma, Listeria e Treponema). TABELLA 12.4 Terapia antibiotica delle meningiti batteriche in relazione all’eziologia
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Tra le complicanze tardive, bisogna ricordare innanzitutto l’idrocefalo ostruttivo, legato alla formazione di coaguli di fibrina a livello dei forami di comunicazione dei vari comparti liquorali; questi impediscono il normale transito del liquor che va ad accumularsi a monte del punto di ostruzione, conducendo all’aumento della pressione intracranica. Si possono avere, anche se con minore frequenza, emorragie cerebrali e formazione di ascessi intracerebrali. Nell’era pre-antibiotica, le meningiti acute conducevano invariabilmente ad exitus e i rari casi che sopravvivevano erano portatori di gravi sequele neurologiche. Attualmente la prognosi delle meningiti acute è notevolmente migliorata; essa resta però severa per le forme che manifestano precocemente: stato di coma (mortalità >50%), crisi epilettiche e segni di ipertensione endocranica. La prognosi è potenzialmente infausta, inoltre, nei pazienti di età pediatrica e di età superiore agli 80 anni, nel caso di ritardo nell’inizio del trattamento mirato, nei casi di marcata ipoglicorrachia e/o di elevata proteinorrachia. Le sequele di una meningite acuta sono costituite, essenzialmente, da alterazione delle funzioni cognitive, deficit mnesici ed epilessia secondaria.
Meningiti croniche Le meningiti croniche sono caratterizzate da una presentazione subacuta/cronica dei sintomi e segni della sindrome meningea che si associa ad alterazioni liquorali. Quando la sintomatologia e le alterazioni liquorali
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persistono per almeno 4 settimane, si può parlare in maniera appropriata di meningite cronica. La più frequente è la forma tubercolare; seguono la neurosifilide e la neuroborreliosi.
Meningite tubercolare La tubercolosi (TBC) del SNC è una manifestazione non frequente. È una malattia che può colpire anche soggetti immunocompetenti, ma in ospiti immunocompromessi si manifesta con maggior frequenza e decorso più severo. La TBC cerebrale, solitamente, si manifesta come meningite tubercolare (TBC-M); meno comunemente, insorge sotto forma di encefalite tubercolare, tubercoloma cerebrale o ascesso cerebrale tubercolare. Da un punto di vista fisiopatologico, si ha inizialmente la formazione di piccoli focolai tubercolari a livello dell’encefalo, del midollo spinale e delle meningi. La rottura di un follicolo della pia madre determina la liberazione, nello spazio subaracnoideo, di bacilli e sostanze antigeniche, all’origine di una reazione di ipersensibilità. Questa conduce molto rapidamente a un’aracnoidite proliferativa e a un essudato meningeo che abitualmente nasce e si manifesta soprattutto a livello delle strutture della fossa cranica posteriore. L’essudato meningeo causa una vasculite dei vasi di piccolo e medio calibro che culmina nell’occlusione di arterie cerebrali e, di conseguenza, in infarti. La vasculite interessa principalmente le arterie del basicranio (arteria carotide interna, tratto prossimale dell’arteria cerebrale media, vasi perforanti dei gangli della base e della capsula interna). In corso di meningite tubercolare vi è, inoltre, un disturbo della circolazione liquorale per anomalie di riassorbimento del liquor dai villi aracnoidei e blocco del transito del liquor a livello dell’acquedotto del Silvio e del IV ventricolo. L’infezione meningea si sviluppa usualmente in modo subacuto, preceduta per alcune settimane da sintomi aspecifici e, spesso, da un episodio febbrile banale. Nel bambino, la febbre si associa a sintomi quali irritabilità, sonnolenza, inedia, mentre nell’adulto predomina la cefalea. Gradualmente il quadro neurologico diviene sempre più evidente ed evolve con la comparsa di segni meningei, peraltro talvolta molto sfumati, disturbi della coscienza, segni di ipertensione endocranica, crisi comiziali, segni neurologici focali. L’interessamento dei nervi cranici è abbastanza frequente, in quanto l’essudato si raccoglie prevalentemente in sede basale (in ordine decrescente di frequenza sono interessati i seguenti nervi cranici: VI, III, IV, VII, II, VIII,
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X, XI, XII). La diagnosi può non essere agevole: l’intradermoreazione tubercolinica è poco attendibile e quasi sempre negativa per le forme primarie, mentre può essere positiva per le forme post-primarie (da riaccensione di un focolaio endogeno). L’esame del liquor evidenzia pleiocitosi linfocitaria (la conta dei globuli bianchi è solitamente compresa tra 60-300 elementi/mm3 e negli stadi iniziali vi può essere una prevalenza di polimorfonucleati); vi è, inoltre, iperproteinorrachia (oltre 1 g/l nei casi di blocco spinale della circolazione liquorale). La glicorrachia può essere normale o ridotta, ma non è mai azzerata. La colorazione di Gram è negativa, mentre la colorazione di ZiehlNielsen può mettere in evidenza la presenza di bacilli alcool-acido resistenti nel sedimento liquorale. La conferma diagnostica deriva dall’esame colturale (che può comunque risultare anch’esso negativo fino al 40% dei casi) e dalla PCR. Oltre il 50% dei pazienti con TBC-M mostra i segni di pregressa TBC polmonare alla radiografia del torace e in circa il 10% dei casi è dimostrabile la presenza di una TBC miliare. La TC dell’encefalo può evidenziare idrocefalo, infarti cerebrali, potenziamento contrastografico intraparenchimale, aree di edema o veri e propri tubercolomi. Il quadro clinico è aspecifico, ma si differenzia da quello delle meningiti virali per la maggiore gravità ed estensione dell’interessamento neurologico, e da quello delle meningiti batteriche purulente per l’esordio subacuto e la maggiore frequenza di ipertensione endocranica. La diagnosi differenziale è più difficile nel caso di soggetto immunocompromesso. La prognosi della meningite tubercolare rimane estremamente delicata; la percentuale di pazienti che presentano sequele neurologiche gravi a lungo termine è stimata intorno al 25% e la letalità è elevata, in modo particolare nei pazienti con AIDS. Accanto alla TBC-M, è possibile avere manifestazioni tubercolari con interessamento parenchimale del SNC, ovvero il tubercoloma cerebrale e l’ascesso tubercolare. TUBERCOLOMA. Si forma a partire da una reazione flogistica intorno al bacillo tubercolare pervenuto nel parenchima cerebrale per via ematogena. Si costituiscono diversi tubercoli di piccole dimensioni, circondati da tessuto cerebrale edematoso che, successivamente, si fondono per formare una lesione spesso lobulata più grande, con necrosi caseosa centrale, circondata
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da una capsula. Progressivamente, la periferia diventa fibrosa e l’infiltrato infiammatorio scompare gradualmente con la costituzione di calcificazioni alla periferia della zona necrotica. Nei due terzi dei pazienti si riscontrano tubercolomi multipli e nel 10% essi coesistono con la TBC-M. Localizzazioni più frequenti: il tubercoloma emisferico è più frequente negli adulti ed è tollerato per molto tempo prima di manifestarsi con crisi convulsive o con una sindrome deficitaria emiplegica; il tubercoloma cerebellare si manifesta con idrocefalo e segni di ipertensione endocranica ed è tipico di neonati e bambini; il tubercoloma del tronco cerebrale costituisce il 3-8% di tutti i tubercolomi e si può manifestare con cefalea, paralisi oculomotoria, emiplegia, atassia, sindromi alterne, alterazione dello stato di coscienza (per sofferenza della formazione reticolare). Rari sono i tubercolomi del chiasma ottico, del talamo e dei gangli della base. Nei casi di tubercoloma cerebrale, l’esame del liquor può non essere significativo ed evidenziare solo una lieve e aspecifica iperproteinorrachia; l’esame colturale risulta quasi sempre negativo. Il gold standard è la biopsia della lesione (identificazione di bacilli alcool-acido resistenti nella coltura di tessuto cerebrale biopsiato), anche se solitamente la diagnosi viene formulata sulla base del sospetto clinico, delle caratteristiche neuroradiologiche e della risposta alla terapia antitubercolare. La diagnosi differenziale va condotta nei confronti di: ascesso da piogeni, processi granulomatosi (micosi, sarcoidosi, infezioni parassitarie come la toxoplasmosi o la neurocisticercosi), lesioni metastatiche, tumore con caratteristiche necrotiche, neoplasie multicentriche primitive (glioma, emangioblastoma), linfoma cerebrale. ASCESSO TUBERCOLARE. L’ascesso tubercolare dell’encefalo (rarissimi sono i casi descritti) si caratterizza per l’assenza di una reazione granulomatosa periferica, probabilmente per insufficienza dei meccanismi immunitari dell’ospite. La tasca purulenta è incostantemente limitata da un bordo simile a quello presente negli ascessi da piogeni. A differenza del materiale caseoso dei tubercolomi, il pus contiene moltissimi bacilli tubercolari.
Neurosifilide La neurosifilide (o neurolue, dal latino lues che significa “contagio”)
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comprende diverse manifestazioni neurologiche e psichiatriche, determinate da Treponema pallidum, appartenente al genere delle spirochete. Il contagio avviene per via venerea, transplacentare o accidentale. La storia naturale della sifilide non trattata include diversi stadi: • incubazione, fino a 90 giorni dopo il contagio; • sifilide primaria, che si manifesta con la comparsa, in corrispondenza della sede di ingresso del Treponema, di un’ulcera indolente denominata sifiloma, che dopo 25-30 giorni regredisce spontaneamente; • sifilide secondaria, 6 settimane dopo il contagio, caratterizzata da una sintomatologia generalizzata simil-influenzale associata a manifestazioni cutaneo-mucose diffuse e linfoadenopatia; • sifilide latente; • sifilide tardiva/terziaria. La sifilide latente è clinicamente asintomatica e viene evidenziata unicamente tramite i test sierologici, in assenza di alterazioni liquorali all’esame standard. La sifilide tardiva o terziaria si manifesta dopo 5-30 anni dal contagio e se ne distinguono tre forme principali: la sifilide tardiva benigna, la sifilide cardiovascolare, la neurosifilide. DIAGNOSI. Esame del liquor: la pleiocitosi liquorale consiste in una linfocitosi di entità variabile (fino a 300 elementi/mm3) e costituisce un segno precoce di fase attiva dell’infezione. La glicorrachia solitamente è normale, mentre le proteine liquorali, e in particolare le immunoglobuline, sono aumentate. Test sierologici: l’infezione luetica produce due tipi di anticorpi: quelli aspecifici non treponemici, e quelli specifici treponemici. Gli anticorpi non treponemici, o reagine, sono immunoglobuline IgG e IgM dirette contro un antigene lipoideo, una combinazione di cardiolipina, lecitina e colesterolo che origina dall’interazione del Treponema con i tessuti dell’ospite. Le reagine sono alla base della reazione di Wasserman (fissazione del complemento) e della VDRL (reazione di flocculazione), il test più comunemente utilizzato. Quest’ultimo ha però sia una limitata sensibilità, soprattutto nelle fasi precoci e tardive, che specificità in quanto false positività della VDRL (dovute al fatto che l’antigene impiegato si trova anche in altri tessuti) si possono riscontrare in corso di gravidanza, neoplasie,
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malattie autoimmuni, infezioni virali. La reattività della VDRL liquorale è ritenuta diagnostica di neurosifilide attiva e il test viene usato per valutare la risposta al trattamento. Falsi positivi della VDRL sono però possibili anche a livello liquorale e derivano dalla contaminazione ematica. I test treponemici specifici individuano gli anticorpi specifici del Treponema pallidum: il test di fluorescenza degli anticorpi treponemici dopo assorbimento (FTA-ABS) rimane positivo per tutta la vita sia a livello sierico che liquorale, per cui la sua presenza nel liquor può indicare diverse condizioni: una neurosifilide in fase attiva, una neurosifilide asintomatica o una neurosifilide trattata. La diagnosi di neurosifilide attiva si basa, quindi, sulla positività di FTA-ABS sierica associata ad almeno una delle seguenti caratteristiche liquorali: • >5 globuli bianchi/mm3; • proteine >50 mg/dl; • positività della VDRL. La neurosifilide può manifestarsi con differenti quadri clinici: • meningite precoce; • neurosifilide asintomatica; • meningite sifilitica acuta; • sifilide meningovascolare; • sifilide parenchimatosa, a sua volta differenziata in paralisi progressiva e tabe dorsale; • sifilide terziaria benigna; • forme atipiche (in corso di HIV). La sifilide meningovascolare si manifesta con segni di sofferenza focale dell’encefalo o del midollo spinale, spesso di tipo transitorio, dopo 5-10 anni dal contagio. L’esordio è improvviso, talvolta preceduto da prodromi aspecifici quali cefalea, vertigini, deficit mnesici, labilità emotiva. Le manifestazioni cliniche più frequenti sono: afasia, emiparesi, crisi comiziali. Gli infarti spinali, generalmente a livello toracico, possono manifestarsi con una grave paraparesi, turbe sfinteriche e anestesia sottolesionale termodolorifica. La diagnosi dipende, oltre che dalla sintomatologia,
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dall’esame del liquor e dalla positività della VDRL. La TC e la RM possono evidenziare lesioni infartuali, mentre l’angiografia dimostra focali restringimenti sia delle piccole che delle grandi arterie. La terapia con penicillina previene l’insorgenza di nuovi episodi vascolari. La paralisi progressiva è causata dall’invasione diretta dell’encefalo da parte di Treponema pallidum, con atrofia frontale e temporale che si sviluppa dopo 15 anni dall’infezione primaria. È caratterizzata da disturbi cognitivi progressivi con perdita di memoria, alterazioni della personalità e del comportamento, fino a una demenza di grado severo; si associano, inoltre, disartria, crisi comiziali, segni piramidali ed extrapiramidali, tremore della lingua e delle estremità degli arti. Caratteristico è l’interessamento pupillare, ovvero il segno di Argyll Robertson, caratterizzato dalla conservazione del riflesso fotomotore in accomodazione, che invece è assente per stimolazione luminosa diretta. La diagnosi si basa sulla positività delle indagini sierologiche e sulle alterazioni liquorali con pleiocitosi, iperproteinorrachia e positività della VDRL. Il trattamento penicillinico può arrestare il processo, ma non determina la regressione della sintomatologia. La tabe dorsale è una manifestazione frequente nei soggetti con neurosifilide (35% dei casi) e si manifesta in genere entro 10 anni dall’infezione primaria. Si tratta di una meningoradicolite causata dalla localizzazione del Treponema a livello dei gangli sensitivi delle radici dorsali, con conseguente degenerazione dei cordoni posteriori del midollo e delle fibre nervose di grosso calibro deputate alla sensibilità epicritica. La sintomatologia è caratterizzata da atassia sensitiva e disestesie estremamente dolorose, con crisi “tabetiche”, ovvero episodi accessuali di dolore, prevalentemente localizzato a livello addominale. Vi possono, inoltre, essere: anomalie pupillari; atrofia ottica, inizialmente unilaterale e successivamente bilaterale con restringimento concentrico del campo visivo fino alla cecità; incontinenza urinaria, alterazione della motilità intestinale, disfunzione sessuale, nel caso di deafferentazione a livello di S2S3; turbe trofiche con le caratteristiche “articolazioni di Charcot”, ovvero artropatie distruttive causate da traumi ripetuti, in rapporto all’alterazione della sensibilità profonda. Il liquor può risultare normale nel 10% dei casi o comunque meno alterato rispetto alle altre forme neuroluetiche. In particolare, la VDRL liquorale può risultare negativa, mentre il test FTAABS risulta positivo sia a livello sierico che liquorale. La terapia antibiotica, soprattutto in presenza di alterazioni liquorali, è in grado di arrestare la progressione, ma le crisi tabetiche e
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l’atassia possono persistere. TRATTAMENTO. La terapia si basa sull’uso di una quantità di antibiotico tale da raggiungere, a livello del liquor e del sistema nervoso centrale, concentrazioni treponemicide; la penicillina è il farmaco di prima scelta per tutte le forme di sifilide e di neurosifilide e non sono a tutt’oggi noti casi di resistenza clinicamente significativa. Lo schema solitamente utilizzato è pari 12-24 milioni U di penicillina G cristallina ogni 24 ore per 14 giorni.
Neuroborreliosi (malattia di Lyme) La neuroborreliosi è una zoonosi trasmessa dalle zecche, causata da una spirocheta Gram-negativa, Borrelia burgdorferi (Bb). La malattia interessa, in stadi differenti, la cute, il sistema nervoso, il cuore e le articolazioni: • stadio 1 (infezione locale precoce): è caratterizzato dall’eritema migrante, che si sviluppa da 3 a 30 giorni dopo la puntura della zecca, che tende a regredire spontaneamente dopo alcune settimane; si possono associare cefalea, rigidità nucale e mialgie, ma l’esame del liquor è solitamente normale; • stadio 2 (infezione disseminata precoce): si sviluppa entro tre mesi dalla comparsa dell’eritema migrante in rapporto alla diffusione per via ematica dell’infezione; è caratterizzato da disturbi cardiaci transitori (pericardite, blocco atrioventricolare, turbe del ritmo), algie muscolari e articolari, interessamento del SNC. Quest’ultimo solitamente si manifesta con meningiti, neuriti craniali, meningoradicoliti linfocitarie; meno frequenti sono le monoe polineuropatie, le plessopatie, le neuropatie da intrappolamento. Nonostante alcune di queste sindromi possano andare incontro a risoluzione spontanea, il 10% dei pazienti sviluppa una malattia cronica meno responsiva al trattamento; • stadio 3 (neuroborreliosi tardiva): si sviluppa nel 70% dei casi non trattati; costituisce, raramente, la prima manifestazione di malattia. Il quadro clinico è caratterizzato da differenti manifestazioni: – acrodermatite cronica atrofizzante; – neuropatia cronica assonale; – meningite cronica, mieloradicolopatia progressiva, encefalomielite;
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– encefalopatia subacuta. Quest’ultima è caratterizzata da turbe della memoria e del comportamento, alterazione del ciclo sonno-veglia, associate a profonda astenia; l’evoluzione, in assenza di un’adeguata terapia, è di tipo progressivo con la comparsa di segni piramidali, cerebellari e franco deterioramento cognitivo. DIAGNOSI. Si basa sulla sintomatologia nei casi tipici, ma in assenza di un’anamnesi suggestiva diventa fondamentale il riscontro di livelli sierici elevati dapprima di IgM e poi di IgG specifiche per Bb. Gli anticorpi specifici per Bb sono riscontrabili anche nel liquor (produzione intratecale); possono essere dimostrati anche diversi anni dopo il trattamento e non rappresentano, pertanto, un indice di attività di malattia. Attualmente, il test maggiormente utilizzato è la PCR, che permette di dosare quantitativamente, sia nel siero che nel liquor, il DNA della spirocheta. Per la valutazione di malattia in fase attiva e per la risposta al trattamento è necessario considerare i parametri citochimici liquorali (pleiocitosi linfocitaria, iperproteinorrachia e glicorrachia normale o ai limiti inferiori della norma). TRATTAMENTO. La neuroborreliosi può essere trattata con successo con antibiotici a largo spettro (penicillina, eritromicina, cefalosporine e tetracicline), soprattutto nelle fasi precoci di malattia; nelle fasi tardive la probabilità di successo terapeutico è decisamente inferiore.
ENCEFALITI KEY POINTS L’encefalite è un’infiammazione acuta del parenchima cerebrale, spesso associata a un coinvolgimento delle meningi. È solitamente causata da virus, più frequentemente herpesvirus, in particolare l’HSV-1. I sintomi neurologici possono essere espressione di una sofferenza cerebrale diffusa e manifestarsi con disturbi della coscienza, crisi comiziali generalizzate, sintomi di ipertensione endocranica, segni di
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irritazione meningea, e/o di una sofferenza cerebrale focale con manifestazioni a carattere irritativo o deficitario. L’iter diagnostico prevede l’esecuzione di rachicentesi, EEG e neuroimaging. L’esame standard del liquor è spesso simile a quello della meningite virale (iperproteinorrachia, pleiocitosi linfocitaria e glicorrachia nella norma). La PCR sul liquor è il test diagnostico più attendibile per le infezioni del SNC causate da virus erpetici ed enterovirus. L’aciclovir è il trattamento antivirale standard pur se con evidenza di efficacia solo per le forme da HSV.
Definizione, dati epidemiologici, classificazione L’encefalite è un’infiammazione del parenchima cerebrale spesso associata a un coinvolgimento leptomeningeo. La classificazione delle encefaliti può basarsi su molteplici parametri (TAB. 12.5). Gli agenti eziologici più frequenti sono i virus, in particolare: HSV (il più comune), VZV, EBV, CMV, HHV-6 e -7 (herpes virus umano), enterovirus, adenovirus, virus influenzali A e B, arbovirus, HIV, virus della rabbia, della parotite, del morbillo e della rosolia. Sono, però, conosciute encefaliti di origine batterica, protozoaria, parassitaria e da spirochete (di cui la forma più importante è la neurosifilide). L’incidenza complessiva è di 3,5-7,4 casi ogni 100 000 abitanti. In termini di patogenesi, si distinguono encefaliti primarie, dovute alla diretta invasione del SNC da parte del patogeno, ed encefaliti secondarie, da causa postinfettiva o postvaccinica, in cui il danno cerebrale è mediato dalla reazione immunitaria innescata dall’infezione sistemica. Il termine encefalite viene infine talora usato in senso lato anche per indicare quadri morbosi in cui non sono implicate cause infettive, per esempio le encefalopatie infiammatorie in corso di malattie autoimmuni o quelle paraneoplastiche.
Patogenesi
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ENCEFALITI PRIMARIE. Le porte di ingresso più frequenti sono la mucosa del tratto gastroenterico, l’apparato respiratorio o la cute. Tutte le infezioni virali del SNC iniziano con la crescita locale del virus in un tessuto non neurale, e si diffondono al parenchima cerebrale se il virus non viene inattivato da anticorpi preesistenti o da cellule fagocitarie. L’invasione successiva dell’encefalo da parte dell’agente infettivo può avvenire attraverso tre vie: per diffusione ematogena, per via neurale, per contiguità. Il passaggio del virus dal torrente ematico all’encefalo può avvenire mediante l’infezione diretta delle cellule endoteliali dei capillari cerebrali, oppure utilizzando meccanismi di trasporto transendoteliale o per veicolazione da parte di cellule ematiche in grado di attraversare la BEE. Nel caso della diffusione neurale i virus raggiungono l’encefalo penetrando nei prolungamenti periferici della cellula nervosa e migrando in senso centripeto (per esempio, virus della rabbia e dell’herpes). I meccanismi di propagazione del virus lungo la via neurale non sono completamente chiariti: si ipotizza siano coinvolti gli spazi perineurali e le cellule di Schwann, anche se si ritiene che il flusso assonale rappresenti, verosimilmente, la modalità più probabile. TABELLA 12.5 Classificazione delle encefaliti
Per diffusione per contiguità si intende l’estensione di un processo infettivo localizzato in zone limitrofe (orecchio medio, mastoidi, seni paranasali); riguarda in particolare le encefaliti granulomatose da miceti e protozoi.
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ENCEFALITI SECONDARIE. La risposta anticorpale contro antigeni virali può portare alla reazione crociata contro alcune strutture del SNC e alla conseguente aggressione autoimmunitaria. Questo processo si verifica nelle forme postinfettive, postesantematiche e postvacciniche (tutte caratterizzate da una sostanziale unitarietà del quadro clinico e neuropatologico). Si tratta di una forma classicamente definita encefalite glio-perivenosa, che si manifesta clinicamente quando la malattia di base è in remissione. In queste forme si verifica un prevalente coinvolgimento della sostanza bianca. Per un approfondimento su questo argomento, VEDI FOCUS ON: ELEMENTI DI BIOLOGIA DEI VIRUS NEUROTROPI, PAG. 216.
Quadro clinico La modalità di presentazione è differente a seconda che l’andamento sia acuto o subacuto/cronico. Nell’encefalite acuta il quadro clinico comprende i seguenti elementi fondamentali: 1. sintomi generali di un processo infiammatorio acuto, ovvero iperpiressia, astenia, mialgie, malessere, associati ad alterazioni di laboratorio (innalzamento degli indici di flogosi); 2. sintomi neurologici, espressione di una sofferenza cerebrale diffusa (disturbi della coscienza, crisi comiziali generalizzate, sintomi di ipertensione endocranica, segni di irritazione meningea) e/o di una sofferenza cerebrale focale a carattere irritativo o deficitario. L’encefalite acuta può, altresì, manifestarsi anche con turbe psichiche o alterazioni della sfera cognitiva; 3. sintomi di sofferenza di altri organi. Nelle encefaliti subacute/croniche l’aspetto fondamentale è in genere rappresentato dal progressivo deterioramento mentale, accompagnato da crisi epilettiche e da deficit neurologici focali. Solitamente sono assenti i segni generali di malattia infettiva acuta.
Iter diagnostico Nel sospetto diagnostico di un’encefalite, le indagini fondamentali da
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effettuare sono: 1. esame del liquor: normalmente dimostra alterazioni all’esame standard, anche se va ricordato che nel 3-5% dei pazienti con encefalite il liquor non è patologico. L’esame chimico-fisico evidenzia: iperproteinorrachia (espressione del danno di barriera), modesta pleiocitosi (10-200 elementi/mm3 con prevalenza di mononucleati). Nel caso la pleiocitosi liquorale sia più marcata, vi è una verosimile compartecipazione delle meningi al processo infiammatorio, ovvero una meningoencefalite. La rachicentesi, inoltre, permette di avere informazioni circa l’agente eziologico dell’encefalite, tramite diverse modalità: (a) isolamento del patogeno (esame colturale), (b) identificazione di un antigene specifico (titolazione anticorpale), (c) dimostrazione della presenza di DNA/RNA virale (PCR); 2. ELETTROENCEFALOGRAMMA (EEG): le alterazioni elettroencefalografiche in corso di encefalite possono essere aspecifiche o patognomoniche. Al primo gruppo appartengono le onde lente (theta e delta) solitamente diffuse; la presenza di epilessia comporta l’associazione di aspetti EEG tipici (punte, onde-puntute, isolate o in brevi sequenze). Le alterazioni patognomoniche sono rappresentate dall’attività periodica focale lenta (encefalite erpetica), caratterizzata dalla presenza di onde lente puntute in sede temporale. Un altro quadro EEG tipico è quello della panencefalite sclerosante subacuta (PESS), con raffiche parossistiche di onde delta difasiche ad insorgenza periodica; 3. NEUROIMAGING: la TC, ma soprattutto la RM dell’encefalo, rivestono un ruolo di fondamentale importanza soprattutto in corso di encefalite erpetica, nella quale il processo infiammatorio determina la formazione di focolai di necrosi tissutale localizzati generalmente nei lobi temporali.
Quadri clinici specifici Encefaliti virali acute ENCEFALITE DA HERPES VIRUS SIMPLEX (HSV). HSV è la causa più comune di encefalite sporadica in Europa e in America del Nord. Nel 90% dei casi si tratta di HSV-1, e solo nel 10% dei casi di HSV-2
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(quest’ultimo si osserva solitamente nei soggetti immunocompromessi e nei neonati, conseguentemente a un’infezione genitale materna). Colpisce tutte le fasce di età; la distribuzione della frequenza ha un andamento di tipo bimodale, con un primo picco a 5-30 anni e un secondo picco dopo i 50 anni. Nel 30% dei casi l’encefalite si instaura nel corso di una prima infezione erpetica, mentre nel 70% dei casi è l’espressione di una reinfezione endogena.
FOCUS ON ELEMENTI DI BIOLOGIA DEI VIRUS NEUROTROPI La prima fase del processo di replicazione del virus è la collisione casuale del virione (= particella virale matura) con un sito recettoriale sulla superficie della cellula ospite, la cui specificità determina la capacità del virus di infettare quel tipo di cellula. Nel caso di virus neurotropi, essa può riguardare i neuroni, le cellule gliali, ependimali e meningee. Da questo momento in poi inizia la replicazione del DNA/RNA virale con la successiva liberazione di nuovi virioni nello spazio extracellulare, attraverso due meccanismi: 1. rottura completa della cellula (lisi), con immediata morte cellulare (tipico dei poliovirus); 2. processo di gemmazione della membrana, che può durare anche a lungo prima di determinare la morte della cellula. In entrambi i casi, comunque, il risultato finale dell’infezione virale è la completa distruzione della cellula, detta infezione litica. Quest’ultima costituisce una delle quattro modalità di relazione fra il virus e la cellula ospite; le altre sono: – infezione latente: alcuni virus, in particolare quelli appartenenti alla famiglia Herpesviridae, possono, dopo aver determinato l’infezione primaria, permanere nello stato di latenza all’interno delle cellule infettate, per riattivarsi in un secondo tempo. HSV rimane latente nei
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gangli trigeminali, sacrali e del sistema nervoso autonomo; VZV nei gangli sensitivi dei nervi cranici e nelle radici dorsali dei nervi spinali; – trasformazione: consiste nella modificazione della cellula infetta da parte del genoma virale, con alterazione del processo di accrescimento della cellula, sino a quadri potenzialmente neoplastici (EBV); – infezione persistente: è una modalità dimostrata solo a livello sperimentale, e consiste nel fatto che il virus sarebbe in grado di sopprimere solo alcune funzioni non essenziali della cellula ospite.
• Patogenesi. Di solito il virus penetra nell’organismo attraverso la mucosa orofaringea, la congiuntiva o la cute abrasa; dopo una prima replicazione in sede locale, penetra nelle terminazioni dei gangli sensitivi, da dove, in modo centripeto, raggiunge il corpo cellulare dei neuroni sensitivi dei gangli (ganglio trigeminale di Gasser per HSV-1, gangli sacrali per HSV2), dove rimane latente. • Neuropatologia. Il quadro è quello di una grave encefalite necrotizzante acuta. Macroscopicamente l’encefalo appare edematoso e congesto, con aree di necrosi emorragica, fino alla colliquazione. Le lesioni cerebrali sono bilaterali ma asimmetriche, e colpiscono le regioni mediali, temporali e frontobasali degli emisferi cerebrali (ippocampo, amigdala, porzione mesiale del lobo temporale, giro cingolato e insula). • Sintomatologia. La presentazione clinica è estremamente variabile: l’esordio può essere fulminante, ma più spesso è insidioso, con una fase prodromica di 4-10 giorni, caratterizzata da cefalea, astenia, malessere, iperpiressia e irritabilità. Successivamente compaiono alterazioni psichiche, allucinazioni, disturbi della memoria. Quando il quadro diventa conclamato, si manifestano i segni di una grave compromissione encefalica: deficit neurologici focali (emiparesi, afasia), crisi comiziali e disturbi della coscienza. • Diagnosi. Le caratteristiche cliniche consentono di porre il sospetto diagnostico, ma nessun aspetto può essere considerato patognomonico. La diagnosi si basa sul neuroimaging (FIG. 12.1): il reperto tipico alla RM consiste in aree di iperintensità, nelle sequenze pesate in T2, nella parte mediale e inferiore dei lobi temporali. Fino a un recente passato, la certezza
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diagnostica poteva essere raggiunta solo con la biopsia cerebrale, con la dimostrazione del virus nel tessuto cerebrale. Attualmente la PCR è divenuta la metodica fondamentale per la diagnosi precoce dell’encefalite da HSV, con una sensibilità del 95% e una specificità del 100%. • Prognosi e terapia. La disponibilità di un trattamento antivirale specifico ha comportato un notevole miglioramento sul piano prognostico: la mortalità è del 25% dei casi, con importanti variazioni in funzione della fascia di età. Sono frequenti le sequele rappresentate soprattutto da: disturbo della memoria a breve termine, alterazioni del comportamento e della personalità, epilessia secondaria. La terapia consiste nella somministrazione di aciclovir 10 mg/kg per via endovenosa tre volte al giorno; il trattamento deve durare almeno 14-21 giorni. In una recente revisione sistematica è stato valutato il ruolo dell’utilizzo dei corticosteroidi in corso di encefalite da HSV-1: osservazioni cliniche e sperimentali sembrano suggerire un beneficio, ma le evidenze attuali non sono ancora sufficienti da rendere l’uso dei corticosteroidi quale standard clinico. ALTRI AGENTI VIRALI. L’encefalite da virus varicella-zoster (VZV) è la complicanza neurologica più frequente della varicella, pur essendo in assoluto molto rara, con un’incidenza stimata intorno allo 0,1% dei casi di varicella. Esistono sia forme primarie che secondarie. In oltre il 50% dei pazienti, si manifesta con prevalente interessamento cerebellare a esordio graduale (atassia, disartria e nistagmo) spesso associato a disturbi della coscienza e cefalea; nei restanti casi si tratta di un quadro diffuso, caratterizzato da esordio improvviso, cefalea, crisi comiziali. La forma cerebellare ha una prognosi migliore di quella diffusa e, in linea generale, le encefaliti da VZV hanno un outcome decisamente migliore rispetto a quelle da HSV, a meno che non si tratti di paziente immunocompromesso. Il trattamento prevede l’uso di aciclovir.
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FIGURA 12.1 Immagine RM coronale T2: si notano le aree di iperintensità a carico di entrambi i lobi temporali, più evidente a destra.
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Il citomegalovirus (CMV) è il principale agente patogeno della vita prenatale; al di fuori di questo periodo, l’infezione da CMV, pur essendo estremamente diffusa, è in genere asintomatica o può determinare una sindrome simil-mononucleosica. Soltanto nei soggetti immunocompromessi, il CMV può dar luogo a un’encefalite, che non è responsiva all’aciclovir (VEDI OLTRE). Il virus di Epstein-Barr (EBV) è l’agente eziologico della mononucleosi infettiva che, in circa il 25% dei casi, durante la fase acuta, può essere accompagnata da alterazioni liquorali, anche se vere e proprie complicanze neurologiche si verificano solo nell’1% dei casi (solitamente si tratta di una meningoencefalite che si manifesta con atassia cerebellare acuta, a prognosi favorevole).
Encefaliti virali subacute/croniche PESS (PANENCEFALITE SCLEROSANTE SUBACUTA). È l’esito di un’infezione morbillosa cronica. Il fattore di rischio più importante è aver contratto il morbillo in età precoce (entro un anno di vita). Il picco di incidenza è all’età di 8-10 anni, con una latenza media di circa 7 anni rispetto alla pregressa malattia esantematica; il rischio di PESS dopo l’infezione da virus del morbillo è pari a 5-9 casi su 1 milione. L’esordio clinico è insidioso: compaiono dapprima labilità emotiva, alterazioni del comportamento e calo del rendimento scolastico; successivamente compaiono le mioclonie, spesso ripetitive e scatenate da stimoli sensitivo-sensoriali, e segni piramidoextrapiramidali. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da una diffusa infiltrazione infiammatoria con lesioni che interessano la corteccia cerebrale e la sostanza bianca di entrambi gli emisferi e del tronco cerebrale, con risparmio del cervelletto. Nel citoplasma e nel nucleo dei neuroni e delle cellule gliali si trovano inclusioni eosinofile, che rappresentano il marker istologico della malattia. La diagnosi è supportata dalla clinica, dal quadro EEG e dai dati liquorali, con dimostrazione di elevati livelli di IgG antigene-specifiche. Il decorso, a prognosi infausta, va da poche settimane a due anni. PANENCEFALITE PROGRESSIVA. Di questo quadro è responsabile il virus della rosolia, per riattivazione dell’infezione contratta durante la vita intrauterina.
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Dal punto di vista clinico, si presenta come la PESS, ma con minor evidenza di mioclonie e di un quadro EEG tipico. In pratica, alla sindrome della rosolia congenita, dopo un periodo variabile da 8 a 19 anni, si associa un progressivo deterioramento neurologico. Sono assenti, all’esame istopatologico, i corpi inclusi. PML (LEUCOENCEFALOPATIA MULTIFOCALE PROGRESSIVA). È una rara e pressoché fatale forma di encefalite ad andamento subacuto, determinata da un’infezione virale opportunistica nell’ospite con compromissione immunitaria. L’agente causale è un papovavirus denominato virus JC (JCV, dalle iniziali del nome del paziente da cui fu isolato per la prima volta). Il JCV è ubiquitario, a giudicare dalla presenza di anticorpi specifici in oltre il 70% della popolazione generale adulta. Attualmente si ritiene che il virus rimanga latente fino a quando non si verifica uno stato di immunodepressione che ne permette la replicazione attiva (VEDI OLTRE). L’esordio, spesso insidioso, è caratterizzato da modificazioni della personalità e decadimento cognitivo, che si sviluppano nell’arco di alcune settimane. Si associano deficit neurologici focali come emiparesi, disturbi del visus, alterazioni campimetriche, cecità corticale, afasia e atassia. Dal punto di vista neuropatologico, il quadro è caratterizzato dalla presenza di multipli focolai di demielinizzazione nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali, del cervelletto e del tronco, che tendono ad accrescersi e a divenire confluenti; in una fase iniziale, la zona prediletta è la giunzione tra la sostanza bianca e la grigia, nelle regioni posteriori dell’encefalo. Nella maggior parte dei casi, l’exitus avviene dopo 3-6 mesi dall’esordio dei sintomi.
Encefaliti da altri agenti patogeni La neurocisticercosi è legata all’infestazione dallo stadio larvale o intermedio della Taenia solium, e rappresenta un’importante causa di malattia neurologica nei Paesi in via di sviluppo. L’ospite umano si infetta ingerendo le uova del parassita, che si schiudono nel tubo digerente, liberando gli embrioni che possono andare a localizzarsi in tutti i tessuti, con maggior predilezione per i muscoli e per il parenchima cerebrale. Le manifestazioni cerebrali sono legate all’incistamento del parassita e alla calcificazione delle
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larve nel tessuto cerebrale; le cisti solitamente sono localizzate negli spazi subaracnoidei e nella corteccia cerebrale. I disturbi più frequenti sono le crisi comiziali parziali, anche se è possibile che si sviluppi un quadro di meningoencefalite subacuta. Un altro importante gruppo di encefaliti sono quelle trasmesse da artropodi, ovvero le antropozoonosi. Per un approfondimento su questo argomento, VEDI FOCUS ON: ANTROPOZOONOSI, PAG. 220.
ASCESSO CEREBRALE KEY POINTS L’ascesso cerebrale è un processo suppurativo focale del parenchima cerebrale; i microrganismi patogeni più frequentemente in gioco sono gli streptococchi, i Bacteroides e le Enterobacteriaceae. Il quadro clinico dell’ascesso cerebrale è tipicamente caratterizzato da segni e/o sintomi riconducibili alla presenza di una lesione occupante spazio. Solitamente il sintomo d’esordio è la cefalea cui possono associarsi segni neurologici focali, iperpiressia, segni di ipertensione endocranica e crisi comiziali. L’iter diagnostico prevede come tappa fondamentale l’esecuzione di esami di neuroimaging, ovvero TC e/o RM dell’encefalo. La diagnosi differenziale va condotta nei confronti di neoplasie primitive o secondarie del SNC; è utile, in caso di dubbio diagnostico, eseguire la biopsia/exeresi della lesione.
Eziopatogenesi L’ascesso cerebrale è un processo suppurativo focale del parenchima cerebrale. Le modalità di presentazione clinica e le caratteristiche radiologiche possono essere estremamente varie e rendere difficile la diagnosi differenziale con altre lesioni occupanti spazio del parenchima cerebrale.
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I microrganismi patogeni sono numerosi, ma quelli più frequenti sono gli streptococchi (60-70%), i Bacteroides (20-40%) e le Enterobacteriaceae. Meno frequenti sono gli stafilococchi e i miceti; inferiore all’1% la frequenza di ascessi cerebrali causati da protozoi ed elminti, N. meningitidis e H. influenzae. Nel 30-60% dei casi vi è un’origine polimicrobica. La varietà dei microrganismi patogeni è destinata ad aumentare parallelamente alla frequenza degli stati di depressione del sistema immunitario (in rapporto con farmaci o malattie tipo AIDS). Tali condizioni, infatti, rendono il parenchima cerebrale più suscettibile a infezioni da parte di agenti non patogeni in condizioni di normalità immunologica. Gli ascessi encefalici si instaurano per impianto diretto dei germi, per estensione di focolai di infezione vicini (otiti medie e mastoiditi, sinusiti paranasali, trauma cranico, infezione chirurgica), o per diffusione ematogena (per endocardite batterica acuta, con produzione di ascessi multipli, cardiopatie congenite, ascesso polmonare, empiema polmonare e bronchiectasie). In alcuni casi l’origine è criptogenetica, ovvero non sono riconoscibili i foci di infezione.
Neuropatologia Dal punto di vista anatomopatologico, l’evoluzione di un ascesso cerebrale avviene classicamente in tre fasi, ovvero: 1. la fase precoce del processo infiammatorio-infettivo non capsulato (da alcuni denominato “cerebrite”), 1°-3° giorno; 2. la fase tardiva di tale processo, 4°-9° giorno; 3. la fase precoce di formazione della capsula, dal 14° giorno in poi. Nella fase iniziale prevale l’edema della sostanza bianca circostante il focolaio infettivo; in seguito il centro del processo infiammatorio va incontro a necrosi e aumenta di dimensioni; inizia quindi a formarsi la capsula con la comparsa di fibroblasti e di vasi neoformati alla periferia, associata ad astrocitosi reattiva ed edema circostante. La terza fase corrisponde allo sviluppo della capsula; infine avviene la maturità della capsula con ispessimento e aumento dell’astrocitosi reattiva. Nella maggior parte dei casi, il processo di incapsulamento e fibrosi si completa in circa tre settimane; in seguito la capsula aumenta ulteriormente di spessore al ritmo di circa 1 mm al mese.
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FOCUS ON ANTROPOZOONOSI Comprendono un vasto gruppo di encefaliti che hanno in comune le modalità di trasmissione da un soggetto all’altro, attraverso zanzare o zecche; gli agenti eziologici sono attualmente classificati in famiglie (Togaviridae, Flaviviridae, Reoviridae, Bunyaviridae). Il serbatoio del virus è rappresentato sia da vertebrati colpiti dall’infezione che da artropodi in cui il virus si moltiplica attivamente nelle ghiandole salivari senza dare malattia. A differenza delle encefaliti fin qui descritte, che sono sporadiche, le encefaliti trasmesse da artropodi sono endemiche o addirittura epidemiche, con distribuzione geografica ben precisa. In Italia solo alcuni virus sono endemici: – i virus delle encefaliti da zecche nella variante centro-europea nel Nord Est dell’Italia (Tick-borne encephalitides, TBE), sostenuta da Flavivirus, e – il virus Toscana nell’Italia Centrale (Phlebovirus della famiglia Bunyaviridae). In entrambi i casi il periodo di incubazione è di 14 giorni; solitamente si presentano come meningoencefaliti di tipo sieroso con prognosi benigna (letalità 0,5-5%); la complicanza più frequente per le forme a prognosi severa è la cosiddetta “sindrome post-encefalitica” caratterizzata da astenia, cefalea, deficit mnesici, atassia e tremore. Su scala mondiale è importante citare la febbre West Nile (West Nile Fever), malattia provocata dal virus West Nile della famiglia dei Flaviviridae isolato per la prima volta nel 1937 in Uganda. Questo virus è diffuso in Africa, Asia occidentale, Europa, Australia e America.
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I serbatoi sono gli uccelli selvatici e le zanzare (più frequentemente del tipo Culex), le cui punture sono il principale mezzo di trasmissione all’uomo. Altri mezzi di infezione documentati, anche se molto più rari, sono i trapianti di organi, le emotrasfusioni e la trasmissione madre-feto in gravidanza. Il periodo di incubazione dal momento della puntura della zanzara infetta varia fra 2 e 14 giorni, ma può essere anche di 21 giorni nei soggetti con deficit a carico del sistema immunitario. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo. Fra i casi sintomatici, circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, cefalea, nausea, vomito, linfoadenomegalia, in particolare nell’età pediatrica e giovane adulta. Negli anziani e nei soggetti defedati, invece, la sintomatologia può essere severa: iperpiressia, intensa cefalea, astenia, tremori, alterazione dello stato di coscienza, crisi comiziali fino al coma. Nei casi più gravi (circa 1/1000) il virus può causare un’encefalite letale.
Le sedi cerebrali più frequentemente interessate sono il lobo frontale, quello parietale e il cervelletto.
Quadro clinico e diagnosi Il quadro clinico dell’ascesso cerebrale è tipicamente caratterizzato da segni e/o sintomi riconducibili alla presenza di una lesione occupante spazio. Generalmente, il sintomo d’esordio è la cefalea cui possono associarsi segni neurologici focali, iperpiressia, segni di ipertensione endocranica e crisi comiziali. Rara è la presenza di rigor nucalis, che può evidenziarsi nel caso vi sia coinvolgimento delle leptomeningi per contiguità. L’ascesso cerebrale deve essere sempre tenuto presente nella diagnostica differenziale dei pazienti che si presentano acutamente con ipertensione endocranica, crisi epilettiche, deficit neurologici focali a esordio improvviso, anche quando il contesto sembrerebbe indirizzare in prima battuta verso meningiti, encefaliti o neoplasie cerebrali. L’iter diagnostico prevede come tappa fondamentale l’esecuzione di esami di neuroimaging, ovvero TC e/o RM dell’encefalo. La TC encefalo deve
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essere condotta anche allo scopo di ottenere informazioni riguardanti eventuali anomalie a carico dei seni paranasali e/o delle mastoidi e rocche petrose. Il quadro TC è variabile a seconda dello stadio di malattia: nello stadio precoce (primi 10 giorni) è visibile un’area ipodensa eventualmente circondata da edema, senza modificazioni di segnale dopo introduzione di mezzo di contrasto (m.d.c.); solo nelle fasi successive, che corrispondono alla formazione della capsula, si ha la caratteristica immagine ad anello, solitamente già visibile senza m.d.c., ma più evidente dopo m.d.c. La RM, nelle sequenze pesate in T1, evidenzia una zona centrale marcatamente ipointensa, ovvero il focolaio necrotico, circondata da un’area isointensa o lievemente iperintensa, la capsula, circondata da edema (FIG. 12.2). La RM è più sensibile della TC soprattutto nell’evidenziare le fasi iniziali di cerebrite e l’edema. Nei casi in cui né la TC né la RM consentano di dirimere il dubbio di formazione ascessuale iniziale, può essere utile la scintigrafia con leucociti marcati (sensibilità 85-95%). Non esistono aspetti di imaging patognomonici di ascesso cerebrale, dato che quadri simili sono suggestivi di neoplasie, granulomi, encefaliti necrotizzanti e talora anche di infarti cerebrali. Al tempo stesso è necessario condurre altresì approfondimenti diagnostici volti alla ricerca dei focolai di infezione; è quindi indicata almeno l’esecuzione di emocolture, di radiografie del torace e, nel sospetto di endocardite infettiva, di ecocardiogramma transtoracico. Gli esami di laboratorio indicano spesso la presenza di una leucocitosi neutrofila e incremento degli indici di flogosi (VES e PCR). Solitamente non è indicata l’esecuzione della puntura lombare, in quanto i rischi della procedura non sono compensati dal suo basso valore diagnostico.
Terapia e prognosi La maggior parte degli ascessi cerebrali richiede un drenaggio chirurgico terapeutico che consente anche di individuare con certezza l’agente causale e quindi l’esecuzione di una terapia antibiotica mirata.
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FIGURA 12.2 Immagine RM pesata in T1 con gadolinio. Presenza di massa tondeggiante in sede frontale sinistra, con un core ipointenso a contenuto liquido, e un cercine iperintenso gadolinio-positivo, ovvero la capsula. Per quanto riguarda la terapia antibiotica, nei casi in cui questa sia empirica è necessario utilizzare un farmaco battericida al dosaggio più elevato consentito diretto contro il patogeno causale presunto; altra caratteristica fondamentale è la capacità del farmaco di raggiungere il
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focolaio di infezione attraverso la barriera ematoencefalica. L’associazione più frequentemente impiegata come terapia empirica comprende l’uso di penicillina o cefalosporine di terza generazione (cefotaxime o ceftriaxone) associate a metronidazolo. Nel caso si sospetti un’infezione da stafilococchi si utilizza oxacillina o, nel caso di una forma meticillino-resistente, vancomicina. La terapia antibiotica potrà, ovviamente, essere modificata non appena divengano disponibili i dati microbiologici, e deve avere una durata di almeno 4-6 settimane. In aggiunta alla terapia causale, è raccomandato l’impiego di desametasone nei casi di documentata ipertensione endocranica. La terapia medica può rivelarsi efficace da sola, ovvero in assenza di un approccio chirurgico, nel caso l’ascesso abbia un diametro inferiore ai 3 cm e/o sia ancora in fase di cerebrite (cioè nella fase “non-capsulata”). Per quanto riguarda la prognosi, la mortalità si aggira ancora attorno al 25% dei casi. L’incidenza delle sequele, nonostante l’avvento della terapia antibiotica, raggiunge fino il 70% dei casi; sono costituite da comizialità, ritardo mentale e deficit neurologici focali. I fattori prognostici negativi sono le età estreme della vita, la coesistenza di lesioni multiple, la localizzazione di lesioni ascessuali in strutture cerebrali profonde.
PATOLOGIE NEUROLOGICHE IN CORSO DI HIV, RELATIVE INFEZIONI OPPORTUNISTICHE E NEOPLASIE
KEY POINTS In corso di HIV si possono manifestare complicanze sia primarie che secondarie del SNC. Le complicanze primarie sono l’encefalopatia HIV-correlata (ovvero HIV-associated dementia), la mielopatia vacuolare, la neuropatia e la miopatia HIV-correlate. Al gruppo delle complicanze secondarie appartengono le infezioni opportunistiche e le neoplasie cerebrali (linfomi). Dopo l’introduzione della terapia combinata HAART (terapie
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antiretrovirali aggressive), si è assistito a un’importante riduzione delle complicanze sia primarie che secondarie. La sindrome IRIS è, invece, una complicanza della terapia antiretrovirale legata alla ricostituzione del sistema immunitario. Sono trascorsi ormai più di 30 anni dall’inizio della diffusione dell’HIV/AIDS, ma, nonostante sia apparso evidente fin da subito il frequente coinvolgimento del SNC da parte di infezioni opportunistiche, solo in tempi successivi è stato dimostrato che i pazienti affetti da HIV sviluppano complicanze neurologiche, non solo secondarie ma anche primarie, come demenza, mielopatie e neuropatie. L’HIV è un virus neuroinvasivo (già negli stadi iniziali di malattia), neurovirulento (responsabile di neuropatie, miopatie, mielopatie ed encefalopatie), ma non particolarmente neurotropico. Con l’introduzione dal 1997 di terapie antiretrovirali aggressive (HAART, highly active antiretroviral treatment), l’incidenza delle infezioni opportunistiche è drasticamente diminuita così come le complicanze HIVcorrelate; i pazienti possono però presentare problematiche legate agli effetti collaterali di tali farmaci come le neuropatie e la sindrome metabolica da ricostituzione immunitaria che predispone a eventi cerebrovascolari. Come prevedibile dalla condizione di immunodeficienza, la presentazione clinica delle complicanze neurologiche in corso di HIV può avere caratteristiche atipiche. Per esempio, solo un terzo dei pazienti con meningite criptococcica sviluppa i classici segni e sintomi di meningismo. Altra condizione frequente è la presenza di infezioni duplici a carico del SNC (per esempio, la coesistenza di meningite da Cryptococcus neoformans e Mycobacterium tuberculosis). Al momento della sieroconversione, nel 70% dei casi sono presenti sintomi simil-influenzali; nel 10% dei casi vi è l’associazione con sindromi neurologiche: meningoencefaliti asettiche, encefalomielite acuta disseminata (ADEM, acute disseminated encephalomyelitis), mielite trasversa, polimiosite, neurite brachiale o sindrome della cauda equina. È stato anche descritto un quadro tipo sindrome di Guillain-Barrè in corso di sieroconversione e durante la fase asintomatica dell’infezione da HIV, anche se l’esame del liquor nei pazienti HIV-positivi dimostra la presenza di marcata pleiocitosi. Una polineuropatia sensitivomotoria simmetrica distale è
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invece una caratteristica delle fasi più avanzate della malattia. Dopo la fase asintomatica, segue lo stadio di malattia un tempo definito ARC (AIDS related complex). Dal punto di vista neurologico durante questa fase si possono manifestare: mononeuriti multiple, iniziale encefalopatia HIV-correlata, polineuropatia sensitivo-motoria simmetrica distale, infezioni opportunistiche, tumori (linfoma) cerebrali. Nella fase di AIDS conclamato, oltre alle manifestazioni neurologiche già descritte, si può avere un progressivo peggioramento dell’encefalopatia HIV-correlata fino a un quadro di demenza conclamata e anche una mielopatia vacuolare. Le miopatie sono manifestazioni neurologiche possibili in qualunque stadio di malattia.
Infezioni opportunistiche più frequenti e linfomi in corso di HIV INFEZIONE DA CMV. Il citomegalovirus è un herpesvirus molto diffuso; la sua riattivazione, però, si verifica solamente nei soggetti immunodepressi, quando la conta dei CD4 è inferiore a 50 cellule/mm3. I quadri neurologici più importanti sono: a. l’encefalite, con i reperti tipici delle encefaliti virali; si presenta come un’encefalopatia rapidamente ingravescente con deficit focali, frequente caratteristico coinvolgimento del tronco encefalico; b. la retinite emorragico-essudativa; c. la radicolopatia lombosacrale, che si manifesta con dolore al rachide, ipostenia artuale e disfunzione sfinterica. L’esame del liquor evidenzia iperproteinorrachia, pleiocitosi neutrofila e ipoglicorrachia (gli ultimi due sono aspetti inusuali per le infezioni virali). È possibile identificare il DNA virale tramite PCR su liquor. L’imaging rivela la presenza di lesioni ipodense che non subiscono modificazione di segnale dopo somministrazione di m.d.c., con quadro simile alla leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML). INFEZIONE DA TOXOPLASMA. È una delle più frequenti e gravi malattie opportunistiche. La sua frequenza autoptica nei casi di pazienti con AIDS è del 10-30% e rappresenta la causa più frequente di lesioni solide nel SNC dei
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soggetti HIV-positivi. Consegue, quasi sempre, alla riattivazione di una infezione preesistente quando la conta dei linfociti scende sotto le 100-200 cellule/mm3. Le lesioni cerebrali da Toxoplasma sono generalmente multiple e consistono in focolai di encefalite necrotica non purulenta. La presentazione clinica comprende: cefalea, stato confusionale, crisi comiziali e sintomi neurologici focali, disturbi del movimento (coreoatetosi, distonie, emiparkinsonismo), disturbi psichiatrici. La ricerca di anticorpi anti-Toxoplasma, perlomeno nei casi con disfunzione immunitaria severa, non è affidabile; esistono, infatti, casi autoptici di neurotoxoplasmosi con sierologia negativa e, d’altro canto, una positività sierologica per Toxoplasma non consente di escludere che le lesioni cerebrali siano di altra natura. Alla TC e alla RM dell’encefalo le lesioni appaiono compatte e caratterizzate da edema e cospicua accentuazione, dopo contrasto, di un anello perilesionale. La sede delle lesioni può essere non solo cortico-sottocorticale, ma anche nei nuclei della base, nel cervelletto e nel tronco. È pratica diffusa, attualmente, intraprendere una terapia empirica antiToxoplasma in tutti i pazienti HIV-positivi con una bassa conta di CD4 e con lesione cerebrale evidente al neuroimaging. PML (LEUCOENCEFALOPATIA MULTIFOCALE PROGRESSIVA). Causata dalla riattivazione del virus JC (vedi sopra), l’incidenza di questa complicanza si è ridotta dopo l’introduzione della HAART. Dato che il maggior fattore di predisposizione per lo sviluppo di PML è l’alterazione dell’immunità cellulo-mediata, prima dell’epidemia di AIDS questa condizione veniva raramente riscontrata nei pazienti con malattie linfoproliferative, sarcoidosi e in trattamento immunosoppressivo (nei quali prevale l’alterazione dell’immunità immuno-mediata). La presentazione clinica è caratterizzata da deficit neurologici focali con andamento progressivo come emiparesi, emianopsia o atassia, ai quali spesso si accompagnano disturbi della sfera cognitiva fino alla demenza. La TC può dimostrare tenue ipodensità della sostanza bianca che non si modifica dopo contrasto, e la RM rivela plurime, tenui e mal delimitate aree di alterato segnale, ipointense in T1 e iperintense in T2, sparse nella sostanza bianca degli emisferi senza edema perilesionale né modificazione del segnale dopo somministrazione di gadolinio. La PCR su liquor può evidenziare la presenza
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di materiale genetico del virus JC, ma in un terzo dei casi il test risulta negativo. In questi casi, la biopsia cerebrale è l’unico esame in grado di confermare la diagnosi in vivo e dimostra diffusa demielinizzazione della sostanza bianca, astrocitosi e inclusioni eosinofile negli oligodendrociti costituite dal virus JC. Nel passato la PML era sostanzialmente appannaggio dei soli soggetti HIV-positivi. Negli ultimi anni sono stati documentati molteplici casi di PML in pazienti immunocompetenti ma in trattamento immunomodulante con farmaci biologici, quali gli anticorpi monoclonali. Tra tutti, il natalizumab (anticorpo monoclonale diretto verso l’alfa-integrina sulla barriera ematoencefalica), utilizzato nei pazienti affetti da sclerosi multipla a elevata attività di malattia, conta, solo in Italia, oltre 320 casi. MENINGITE CRIPTOCOCCICA. Cryptococcus neoformans, un micete saprofita ubiquitario nell’ambiente, è il terzo agente infettivo in ordine di frequenza, dopo lo stesso HIV e il Toxoplasma, come causa di complicanze neurologiche nell’AIDS, colpendo tra il 5 e il 10% dei casi. Il quadro clinico è rappresentato dalla meningite; la classica sindrome meningea è però assente o frusta nel 60% dei casi. L’esame del liquor dimostra ipertensione liquorale, modesta pleiocitosi mononucleata, iperproteinorrachia e ipoglicorrachia. La diagnosi viene definita attraverso l’identificazione delle ife nel liquor tramite l’inchiostro di china (sensibilità del 90%). LINFOMA PRIMITIVO. Il linfoma primitivo cerebrale è raro e colpisce prevalentemente i soggetti immunodepressi; nei casi con infezione da HIV esso è dieci volte più frequente rispetto ad altre condizioni di immunodepressione e compare all’incirca nel 2% dei soggetti con AIDS (la prevalenza risulta più elevata nei pazienti in età pediatrica). Dal punto di vista istologico, si tratta di un linfoma non-Hodgkin (NH) a cellule B di grado elevato, a sede parenchimale; esso infiltra solo raramente le meningi e questa caratteristica lo distingue dal linfoma sistemico NH a cellule B che può invece causare una meningite linfomatosa. Nel linfoma primitivo del SNC in corso di AIDS si ipotizza un ruolo patogenetico per EBV; questa considerazione deriva dal fatto che è stato evidenziato DNA virale di EBV incorporato all’interno delle cellule neoplastiche. Clinicamente, vi possono essere cefalea, sintomi neurologici focali, crisi comiziali e alterazione dello stato di coscienza. Il neuroimaging dimostra la
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presenza di una lesione singola (più raramente multicentrica) nella sostanza bianca encefalica, cerebellare e del tronco, con rilevante effetto massa ed edema perilesionale e contrasto ad anello; la diagnosi differenziale va condotta con le lesioni da Toxoplasma. In questi casi risulta dirimente la biopsia cerebrale della lesione. La prognosi è infausta con una sopravvivenza media di circa 2 mesi.
Complicanze neurologiche del SNC correlate all’azione diretta di HIV ENCEFALOPATIA HIV-CORRELATA (had, HIV-ASSOCIATED DEMENTIA). Tale condizione è causata direttamente dal virus e comprende un complesso cognitivo-motorio associato all’HIV (un tempo definito AIDS-dementia complex). Prima dell’introduzione dell’HAART, nel 5% dei casi la demenza da HIV costituiva la condizione clinica che conduceva alla diagnosi di HIV e nel complesso essa coinvolgeva oltre il 15% dei pazienti con AIDS con una sopravvivenza di 12 mesi circa; attualmente l’incidenza si è ridotta del 50%. Il virus penetra precocemente all’interno del SNC, come può essere confermato dalla presenza di: • sintomi neurologici già nella fase della sieroconversione; • anomalie liquorali nei pazienti asintomatici ancora immunocompetenti; • HIV-DNA nel tessuto cerebrale di pazienti asintomatici deceduti per altra causa. Il meccanismo di ingresso del virus all’interno del SNC è tuttora oggetto di dibattito, dato che la barriera ematoencefalica (BEE) dovrebbe fungere da barriera sia fisica che meccanica. La teoria al momento più accreditata prevede un sistema a tipo “cavallo di Troia” che promuove l’ingresso del virus per via ematica tramite monociti infetti che passano la BEE. Questo passaggio comporta l’attivazione, nel SNC, di macrofagi e di astrociti e, in alcuni pazienti, di cellule giganti multinucleate (risultato della fusione di macrofagi infettati). I macrofagi infetti e attivati rilasciano potenti tossine di derivazione virale (tat e proteina gp120) o cellulare (citochine proinfiammatorie, ossido nitrico, fattore di attivazione piastrinico, acido quinolinico, proteasi degradanti la matrice). A loro volta, queste tossine stimolano la produzione e il rilascio di citochine e chemochine da parte degli
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astrociti, alterano l’uptake dei neurotrasmettitori, fra cui quelli eccitotossici come il glutammato, e inducono il rilascio di eccitotossine. L’insieme di questi prodotti determina, a cascata, morte neuronale pur se l’HIV non infetta, dunque, direttamente i neuroni. I fattori di rischio per lo sviluppo di HAD sono: bassa conta dei CD4, età avanzata, anemia, presenza di sintomi sistemici, sesso femminile. Esistono quadri clinici lievi, caratterizzati da deficit cognitivi e motori minori, che nella maggior parte dei casi costituiscono però il preludio di manifestazioni più severe. La valutazione della gravità viene operata attraverso l’utilizzo di una scala specifica (MSK, Memorial Sloan Kettering, dal nome dell’Istituto di New York dove è stata elaborata), che distingue e integra i disturbi neuropsicologici o delle funzioni superiori (ovvero l’encefalopatia) dai disturbi motori (ossia la mielopatia vacuolare): • stadio 0 = normale; • stadio 1 = disturbi neuropsicologici evidenziabili tramite test psicometrici; disturbi motori assenti; • stadio 2 = disturbi neuropsicologici di entità maggiore rispetto allo stadio 1; il paziente deambula con aiuto; • stadio 3 = la compromissione cognitiva è ancora più marcata e il paziente non è più in grado di deambulare; • stadio 4 = demenza di grado severo, afasia, paraparesi/plegia, incontinenza sfinterica. L’esame liquorale non evidenzia specifiche alterazioni citochimiche, ma la rachicentesi è necessaria al fine di escludere altre condizioni cliniche come neurosifilide, PML e infezioni da CMV. La carica virale liquorale correla con la gravità della demenza; ne consegue che la riduzione della carica virale liquorale deve essere un obiettivo prioritario nel trattamento dell’HIV, soprattutto nel deterioramento cognitivo di modesta entità. Il quadro neuropatologico è quello di un’encefalite, con una localizzazione preferenziale nel passaggio sostanza bianca-sostanza grigia, suggerendo così una diffusione ematogena. Il marker peculiare è rappresentato dalla presenza di noduli microgliali risultanti dalla fusione di macrofagi normali con macrofagi che hanno incorporato il virus. È possibile riscontrare altre localizzazioni a livello dei gangli della base, del tronco encefalo e della sostanza bianca profonda. Un ulteriore aspetto rilevante può
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essere costituito da una leucoencefalopatia con zone di rarefazione neuronale, rinvenibile soprattutto nelle aree ippocampali, nei lobi temporali e nei lobi frontali. MIELOPATIA VACUOLARE. Colpisce il 10% dei pazienti con AIDS e solitamente concomita alla HAD. Questa condizione clinica è caratterizzata da paraparesi spastica progressiva, disturbi sfinterici e atassia sensitiva (per interessamento delle colonne posteriori del midollo spinale, in particolare del tratto toracico), senza evidenza di livelli sensitivi tatto-puntori. La rachicentesi è mandatoria al fine di escludere altre forme virali da herpes zoster, herpes simplex e CMV; in queste ultime condizioni solitamente, però, l’andamento clinico è più acuto. Il quadro anatomopatologico dimostra la degenerazione vacuolare della sostanza bianca midollare, simile a quella riscontrabile in corso di mielopatia da deficit da viamina B12 (aspetto quindi aspecifico per l’AIDS, descritto in altre forme di immunodeficienza e in corso di neoplasia). La RM dimostra aree di alterato segnale nelle sequenze pesate in T2 della sostanza bianca midollare, ma in taluni casi può risultare normale.
INFEZIONI DEL MIDOLLO SPINALE Le infezioni del midollo spinale comprendono le mieliti trasverse acute infettive, la poliomielite acuta con la sindrome post-polio, l’ascesso spinale epidurale e le mielopatie associate a infezione da retrovirus (HIV e HTLV-I). La mielopatia vacuolare da HIV è già stata descritta nel paragrafo precedente dedicato alle patologie neurologiche in corso di HIV. La descrizione dell’ascesso spinale epidurale e della mielopatia da virus HTLV-I (definita in passato paraparesi spastica tropicale), entrambe condizioni assai rare, esula dagli scopi del presente volume. Mieliti trasverse acute infettive Le mieliti trasverse acute infettive sono di origine quasi esclusivamente virale (herpes zoster, herpes simplex 1 e 2, virus di Epstein-Barr, CMV); la loro comparsa è spesso favorita dall’esistenza di una immunodepressione. Le cause batteriche e micobatteriche sono assai meno comuni; quasi tutte le specie patogene possono essere in tal caso responsabili, inclusi Listeria, Borrelia e Treponema; il Mycoplasma sembra essere un agente spesso
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sottovalutato. Il quadro clinico è di solito quello di una sindrome midollare trasversa (vedi cap. 6) il cui sintomo d’esordio è spesso un dolore localizzato al collo o alla schiena, seguito da una variabile combinazione di parestesie, perdita di sensibilità con livello sensitivo, ipostenia motoria (parao tetraparesi) e disturbi sfinterici a decorso ingravescente nel giro di ore o giorni e di severità assai variabile (da casi incompleti con solo lieve compromissione della sensibilità a casi paradigmatici per una sezione midollare completa). Talvolta, l’aspetto clinico è quello di una forma ascendente in senso disto-prossimale che ricorda una sindrome di Guillain-Barré, ma il coinvolgimento del tronco, associato alla presenza di un netto livello midollare è in tali casi indicativo di un processo patologico sottostante di natura mielopatica. La risonanza magnetica del midollo con contrasto è l’esame di elezione, da eseguire in urgenza, in quanto permette di distinguere, nell’ambito di una mielite acuta, le forme compressive, che pongono spesso una indicazione chirurgica di decompressione altrettanto urgente, da quelle lesionali intramidollari non compressive, fra cui rientrano le forme infettive; essa permette, inoltre, di verificare l’eventuale presenza di ulteriori lesioni midollari, clinicamente silenti. Nella diagnosi differenziale di una mielite trasversa acuta infettiva vanno poi considerate tutte le forme immunomediate: demielinizzanti (sclerosi multipla, neuromielite ottica), parainfettive (a cui si assimilano quelle postvacciniche), considerate come l’espressione midollare esclusiva di una encefalomielite acuta disseminata (ADEM) (vedi cap. 13), oppure legate a malattie infiammatorie sistemiche (LES, sindrome di Sjögren, sindromi connettivali miste e malattia di Behçet) o legate a vasculiti sistemiche dei piccoli vasi (panarterite nodosa). L’evidenza nel liquor del DNA virale o di altro agente responsabile permette di porre diagnosi di mielite trasversa acuta infettiva. Nelle forme immunomediate, l’esame del liquor mostra una pleiocitosi linfocitaria variabile, con o senza iperproteinorrachia e presenza o meno di bande oligoclonali. Dal punto di vista sia diagnostico che prognostico è importante sottolineare che le mieliti immunomediate, a differenza di quelle infettive quasi sempre monofasiche (con l’eccezione dell’herpes simplex 2), causano spesso episodi ricorrenti di mielite, sintomatici o meno; l’herpes simplex 2 può determinare anch’esso una mielite ricorrente della regione midollare sacrale, ma associata in tal caso a eruzioni vescicolari dei genitali.
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Le mieliti trasverse acute infettive pongono l’indicazione a istituire precocemente un trattamento antivirale specifico per via endovenosa, in alcuni casi anche senza attendere la conferma degli esami di laboratorio. Il farmaco di scelta per le mieliti causate da herpes zoster, simplex ed EBV è l’aciclovir (10 mg/kg 3/die per 10-15 giorni). I farmaci più efficaci in caso di mielite da CMV sono il ganciclovir (5 mg/kg 2/die) associato al foscarnet (60 mg/kg 3/die) o il cidofovir (5 mg/kg a settimana per 2 settimane). Per le forme infettive non virali il trattamento è guidato dal’antibiogramma.
Poliomielite acuta e sindrome post-polio KEY POINTS I poliovirus hanno un selettivo tropismo per il secondo motoneurone di tipo alfa. Il quadro clinico è caratterizzato da paralisi flaccida acuta, spesso asimmetrica e con esiti permanenti. La sindrome post-polio è anche definita “atrofia muscolare progressiva post-poliomielite”. È una malattia a esordio insidioso e decorso lentamente progressivo che si instaura in pazienti con esiti stabilizzati di polio, generalmente 30-40 anni dopo la malattia acuta. La poliomielite anteriore acuta è un’infezione causata dai poliovirus, ovvero piccoli virus a RNA del gruppo degli enterovirus che fanno parte della famiglia dei Picornavirus. La caratteristica di questi virus è quella di avere un particolare tropismo per i neuroni motori delle corna anteriori del midollo spinale e del troncoencefalo, in particolare per quelli di maggiori dimensioni, quali gli alfa-motoneuroni presenti nei rigonfiamenti cervicale e lombosacrale. Il virus porta a morte dei neuroni stessi con conseguente paralisi di tipo periferico delle unità motorie coinvolte. L’ingresso del poliovirus nel sistema nervoso avviene a livello di un’unica localizzazione, dalla quale si propaga utilizzando un meccanismo di trasporto assonale rapido. Il quadro clinico è caratterizzato da paralisi flaccida, spesso asimmetrica, con interessamento prevalente degli arti inferiori e dei muscoli
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prossimali. La paralisi bulbare (10-15% dei casi) è più comune nei giovani adulti e i muscoli cranici più frequentemente coinvolti sono quelli della deglutizione per l’interessamento del nucleo ambiguo; gli altri rischi legati all’interessamento bulbare sono i disturbi della respirazione e del controllo vasomotorio. Il tasso di mortalità della poliomielite acuta paralitica è compreso tra il 5 e il 10%; se il paziente sopravvive alla fase acuta, la paralisi respiratoria e della deglutizione generalmente regrediscono spontaneamente; solo in una piccola parte di questi pazienti è necessaria un’assistenza respiratoria a lungo termine. La maggior parte delle guarigioni avviene però con esiti permanenti a livello degli arti colpiti, a carattere più o meno invalidante. La sindrome post-polio è caratterizzata da un deterioramento tardivo (dopo diverse decadi) delle condizioni neurologiche (ipostenia, facile affaticabilità e dolori muscoloscheletrici) in un soggetto con pregresso episodio di poliomielite paralitica. Se a questo corteo di sintomi, prevalentemente soggettivi, si associa un’atrofia muscolare, si parla più specificamente di “atrofia muscolare progressiva post-polio”, malattia a esordio insidioso e decorso lentamente progressivo che si instaura in pazienti con esiti stabilizzati di poliomielite, generalmente 30-40 anni dopo la malattia acuta. La sindrome post-polio consiste, quindi, in un peggioramento del deficit di forza dei muscoli colpiti dalla pregressa polio e nella comparsa di ipostenia anche a carico di altri muscoli, apparentemente indenni. Non esiste ancora una spiegazione ben definita della eziopatogenesi di questa condizione; l’ipotesi al momento più accreditata tende a considerare questa malattia legata ai processi di invecchiamento dei neuroni motori coinvolti dalla poliomielite, nonostante i fenomeni di reinnervazione compensatoria. La diagnosi differenziale va condotta nei confronti della sclerosi laterale amiotrofica, in cui, a differenza della sindrome post-polio, sono presenti anche segni di sofferenza del primo motoneurone.
ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI TRASMISSIBILI KEY POINTS
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La malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ) è la forma più comune di encefalopatia spongiforme trasmissibile umana: esistono forme sporadiche, familiari e iatrogene da trasmissione accidentale. Una nuova variante della MCJ deriva dall’esposizione dell’uomo all’agente della BSE (bovine spongiform encephalopathy). I criteri diagnostici per sospettare una MCJ sporadica comprendono una demenza rapidamente progressiva con almeno due caratteristiche cliniche tra mioclono, disturbi visivi o cerebellari, segni piramidali o extrapiramidali e mutismo acinetico. La diagnosi clinica è suffragata dal riscontro di caratteristiche alterazioni EEG, rappresentate da onde trifasiche bilaterali e sincrone, ad andamento pseudoritmico, e dalla presenza nel liquor della proteina 14.3.3 (marker di distruzione neuronale). La RM dell’encefalo dimostra una caratteristica iperintensità di segnale del putamen nelle sequenza pesate in T2. Nel 1922 Spielmeyer descriveva una rara patologia degenerativa del sistema nervoso centrale a esito fatale, caratterizzata da demenza rapidamente progressiva e segni neurologici focali (l’eponimo deriva dai nomi dei due medici, Creutzfeldt e Jakob, che riconobbero i primi casi). La malattia di Creutzfeldt-Jakob (mcJ) è la forma più comune di encefalopatia spongiforme trasmissibile umana. Nel gruppo delle encefalopatie spongiformi (ES) trasmissibili rientrano: 1. la MCJ; 2. la sindrome di Gerstmann-Straussler-Scheinker; 3. l’insonnia fatale familiare (FFI); 4. il kuru; 5. la nuova variante di MCJ. Esistono anche forme animali di MCJ. Gli ovini sono stati riconosciuti come i primi depositari di questo agente infettante, che nella pecora si manifesta come scrapie, patologia neurologica letale caratterizzata da atassia e turbe della sensibilità, con tendenza dell’animale a grattarsi (to scrape) fino a provocarsi ferite cutanee. Nella prima metà degli anni ’90 la BSE (encefalopatia spongiforme bovina o “malattia della mucca pazza”) venne
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riconosciuta in bovini nutriti con cibo ottenuto dalla macerazione di ossa di ovini infetti da scrapie. Le ES hanno in comune il meccanismo patogenetico basato sull’alterazione di una proteina chiamata prione (acronimo di proteinaceous infection particle) che, assumendo particolari conformazioni chimicofisiche, determina degenerazione neuronale. Le ES sono trasmissibili a vari animali da laboratorio dopo un’incubazione che può durare mesi o anni. Nel 1981 Prusiner osservò che la frazione infettante di tessuto cerebrale di scrapie corrispondeva a una proteina, il prione, e propose questa proteina come agente trasmissibile delle ES; suggerì quindi il nuovo termine “malattie da prioni”. La proteina prionica (denominata PrP scrapie o PrP resistente) è la forma alterata di una normale proteina glicosilata di membrana chiamata PrP cellulare, particolarmente espressa nei neuroni e codificata da un gene localizzato sul cromosoma 20; è una proteina della membrana sinaptica, coinvolta nella trasmissione gabaergica. Esistono differenti polimorfismi del gene della PrP, in particolare polimorfismi di triplette del codone 129. La mutazione di PrP in PrPR implica un cambiamento della conformazione della struttura secondaria da alfa-elica a beta-sheet, che la rende resistente all’attività delle proteasi. La presenza di PrPR è esclusiva e tipica delle ES e il suo riscontro nel tessuto cerebrale è anche l’unico strumento di diagnosi certa post-mortem. La modificazione conformazionale della PrP è l’evento centrale delle malattie da prioni ed è casuale nelle forme sporadiche, mentre è indotta dall’interazione con PrPR esogena nelle forme iatrogene o trasmesse, oppure è la conseguenza dell’instabilità strutturale della proteina mutata nelle forme familiari geneticamente determinate. In particolare, sono state avanzate due ipotesi: una è la teoria del “template” (ovvero dello stampo), secondo cui la proteina patologica funziona da stampo sul turnover della proteina normale e fa sì che PrP vada incontro a modificazioni conformazionali; l’altra teoria è quella del “seeding” per cui la PrPR va incontro a cristallizzazione reclutando progressivamente proteine endogene formando precipitati di proteina patologica. La conversione è favorita dall’omologia di sequenza aminoacidica della PrPR e di quella cellulare; questo fatto giustifica la predisposizione (nelle forme sporadiche e iatrogene) determinata da un comune polimorfismo metionina/valina al codone 129 del gene di PrP: il 90% dei pazienti affetti è omozigote per questo locus contro il 55% della popolazione normale.
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Della MCJ si conoscono una forma sporadica (85% dei casi di tutte le malattie prioniche umane), una forma familiare (legata a specifiche mutazioni) e una forma iatrogena da trasmissione accidentale. Le MCJ hanno come caratteristiche generali delle peculiarità: sono le uniche patologie trasmissibili che riconoscono sia una forma sporadica che una forma familiare; hanno una lunghissima incubazione (fino a più di 40 anni) seguita da un decorso rapido, progressivo e fatale.
Quadro clinico e diagnosi MCJ sporadica La MCJ sporadica ha un’incidenza costante di circa 1 caso per milione/anno e l’età media di insorgenza è 60 anni. È caratterizzata da una breve fase prodromica aspecifica (calo ponderale, astenia), mentre l’esordio della malattia è nel 50% dei casi costituito da deterioramento mentale, ovvero turbe della sfera cognitiva e/o psichiatrica, nel 40% da segni neurologici focali, nel 10% da entrambi. I segni neurologici focali comprendono nistagmo, atassia della marcia, disturbi vestibolari, alterazioni della motilità oculare estrinseca, disturbi visivi corticali (agnosie visive e allucinazioni visive). Nelle fasi successive il decadimento cognitivo diviene rapidamente ingravescente (demenza conclamata, con tumultuoso coinvolgimento di molteplici domini cognitivi: mnesici, linguistici, prassici, gnosici e visuospaziali) con profilo complessivo spesso non Alzheimer (tipo sindrome cortico-basale o afasia progressiva o demenza a corpi di Lewy) e compaiono mioclonie segmentarie e massive, distonie e, talvolta, arto alieno. Nelle fasi terminali, oltre al peggioramento dei sintomi sopraccitati, compaiono crisi comiziali, anomalie autonomiche, mutismo acinetico, rigidità decorticata, coma. Nel 5% dei casi l’esordio può essere improvviso, mimando neoplasia/vasculopatia cerebrale. Nel 10% dei casi la malattia inizia con una sindrome cerebellare seguita da demenza (variante di Oppenheimer). In un altro 5-10% dei casi si ha un coinvolgimento preponderante delle regioni cerebrali posteriori, con turbe della percezione visiva e delle funzioni visuospaziali all’esordio (variante cosiddetta di Heidehain). Il decorso medio è di 4-5 mesi e l’80% dei casi va incontro a decesso entro un anno dall’esordio; il 5% dei casi con un esordio
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motorio ha una sopravvivenza superiore ai 2 anni. I criteri diagnostici per sospettare una MCJ sporadica comprendono la presenza di una demenza rapidamente progressiva con almeno due delle seguenti caratteristiche cliniche: 1. mioclono; 2. disturbi visivi o cerebellari; 3. segni piramidali o extrapiramidali; 4. mutismo acinetico. La diagnosi è suffragata dal riscontro di caratteristiche alterazioni periodiche all’EEG, rappresentate da onde trifasiche bilaterali e sincrone, ad andamento pseudoritmico (85% dei casi) e dalla presenza nel liquor della proteina 14.3.3 (peptide di origine neuronale rilevabile in oltre il 90% dei casi, marker di distruzione neuronale, assente nelle altre demenze degenerative) e di proteina tau notevolmente aumentata. La RM dell’encefalo dimostra iperintensità di segnale nelle sequenze pesate in T2 del putamen (85% dei casi). Dal punto di vista neuropatologico, il reperto saliente – da cui deriva la definizione di “encefalopatia spongiforme” – è la presenza di vacuoli intraneuronali, che macroscopicamente si traduce in un aspetto a spugna della corteccia cerebrale e cerebellare; si associano rarefazione neuronale e gliosi, soprattutto a livello della corteccia cerebrale, dello striato, del talamo e del cervelletto. La diagnosi di certezza rimane ancora solo autoptica, attraverso lo studio immunocitochimico e biochimico. L’analisi con immunoblotting dimostra la PrP resistente alla proteasi K.
MCJ familiare Le forme familiari di MCJ (FCJ) costituiscono il 10-15% di tutte le ES trasmissibili; a differenza della forma sporadica, quella familiare è difficilmente trasmissibile agli animali da laboratorio. Le FCJ sono costantemente associate ad alterazione del gene della PrP: la mutazione puntiforme al codone 200 è l’alterazione più comune e corrisponde a un quadro clinico e patologico sovrapponibile alla forma sporadica (EEG tipico e 14.3.3 positiva nel liquor). Mutazioni più rare avvengono a carico di altri codoni. In caso di mutazione a livello del codone 178 in associazione con
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valina in 129, si configura un quadro di malattia caratterizzato da esordio più precoce (45 anni), durata media di due anni e assenza di EEG periodico. Se invece l’associazione è con metionina in 129, si è di fronte alla FFI (o malattia di Lugaresi), caratterizzata da insonnia, turbe disautonomiche (iperidrosi e ipertermia), tremore, mioclono e alterazioni ormonali. Nella FFI la proteina prionica si deposita prevalentemente a livello del talamo. La sindrome di Gerstmann-Straussler-Scheinker (GSS) si manifesta solo in forma familiare ed è sempre legata a mutazioni del gene PrP (più frequente è a livello del codone 102); la comparsa avviene di solito intorno ai 50 anni con atassia cerebellare, cui si associano demenza, mioclono, sindrome pseudobulbare. La durata media di malattia è di circa 5 anni, l’EEG non è tipico e la 14.3.3 nel liquor è rilevabile solo in una piccola quota di pazienti; la diagnosi necessita pertanto specificamente dell’analisi genetica del gene PrP.
MCJ iatrogena La forma iatrogena di MCJ è caratterizzata da un quadro clinico omogeneo se la malattia insorge dopo infezione per via periferica (per esempio, da ormone della crescita estratto da ipofisi di soggetti deceduti per MCJ) e si manifesta clinicamente con atassia della marcia, disturbi visivi, deterioramento cognitivo e mioclonie; l’EEG solitamente non è tipico. Nei casi per inoculazione diretta dell’agente infettivo nel SNC (strumenti NCH, elettrodi EEG stereotassici contaminati da una precedente esposizione), la sintomatologia è simile a quella della MCJ sporadica con prevalenza del deterioramento mentale sulla sintomatologia cerebellare.
Nuova variante della MCJ (vMCJ) È opportuno riservare un paragrafo anche alla nuova variante della MCJ (vMCJ), derivante dall’esposizione dell’uomo all’agente della BSE (bovine spongiform encephalopathy). La nuova variante è stata identificata nel 1996, quando in Gran Bretagna si sono avuti i primi casi provocati dal consumo di carne di bovini affetti da BSE. Fino al settembre 2010 sono stati identificati poco più di 200 casi di questa nuova variante, quasi tutti in territorio europeo, in particolare in Gran Bretagna, e due soli in Italia. La vMCJ è caratterizzata da un esordio più precoce (30 anni), da una durata di malattia più lunga (>1
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anno) e da particolari sintomi all’esordio: alterazione dell’umore e del comportamento, modificazioni della personalità, parestesie e disestesie agli arti inferiori. Successivamente si sviluppa una sindrome cerebellare, seguita da mioclonie e da un rapido deterioramento cognitivo, senza la comparsa dei tipici periodismi all’EEG. La 14.3.3 è positiva solo in una piccola quota di pazienti; la RM dell’encefalo dimostra iperintensità bilaterale nelle sequenze pesate in T2 a livello del pulvinar. L’aspetto caratteristico, dal punto di vista neuropatologico, è la presenza di placche compatte di amiloide costituite da PrPR, circondate da un alone di spongiosi (cosiddetti kuru-bodies), che si ritrovano in gran numero nella corteccia cerebrale, nel cervelletto e nel talamo. È possibile rilevare la presenza di PrPR anche nella biopsia delle tonsille palatine. La PrPR è prevalentemente glicosilata, e ha quindi caratteristiche diverse e distinguibili dalla MCJ sporadica e dalle altre malattie umane da prioni (TAB. 12.6). Le medesime caratteristiche di PrPR si riscontrano nella BSE, identificata nel 1986 ed esplosa epidemicamente in Gran Bretagna negli anni Novanta. L’identità della PrPR e la riproduzione nei primati di un quadro patologico e biologico sovrapponibile alla nuova variante con l’inoculazione di omogenato di encefalo bovino patologico, suggeriscono che questa nuova forma di malattia origini dalla contaminazione con materiale bovino affetto. A sostegno di una sorgente extracerebrale dell’infezione, nei casi della nuova variante di MCJ, sta il fatto che la PrPR risulta rilevabile anche in sedi del sistema reticoloendoteliale come le tonsille e la milza. TABELLA 12.6 Principali elementi differenziali tra forma classica e nuova variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob
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Il kuru è stato per molti anni endemico nella popolazione Fore delle isole orientali della Nuova Guinea, ma è attualmente scomparso a seguito della cessazione dei riti cannibalici che prevedevano di cibarsi dell’encefalo dei familiari defunti. Si trattava di una patologia caratterizzata da un’età media d’esordio attorno ai 30 anni, con una sintomatologia dominata da una sindrome cerebellare seguita, tardivamente, da demenza. Il decorso della malattia era di circa un anno; l’alterazione cerebrale più rilevante era la formazione di placche compatte di amiloide, denominate placche tipo-kuru (o kuru-bodies), nello strato delle cellule del Purkinje della corteccia cerebellare.
NON DIMENTICARE CHE… • Nelle meningiti acute l’iter diagnostico prevede, fondamentalmente, l’esecuzione della puntura lombare, previa TC dell’encefalo per escludere la presenza di lesioni espansive cerebrali, in quanto durante la procedura di deliquorazione, potrebbero verificarsi erniazioni del parenchima cerebrale. • I parametri liquorali da considerare in urgenza sono: colore, pressione, conta degli elementi cellulari, citomorfologico, proteinorrachia e glicorrachia. Questi permettono di differenziare le
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forme a liquor torbido (più probabilmente di origine batterica) da quelle a liquor limpido (di origine virale). • Nel caso di persistenza oltre le 4 settimane di alterazioni liquorali e sintomatologia neurologica tipica, bisogna escludere la presenza di meningite cronica. • In caso di sintomi neurologici focali e di crisi generalizzate all’esordio è importante escludere la presenza di una patologia infettiva del SNC, prima fra tutte l’encefalite. • In caso di riscontro di lesione occupante spazio nel parenchima cerebrale, vanno escluse le neoplasie primitive e secondarie del SNC, eventualmente tramite la biopsia del tessuto cerebrale interessato.
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13 MALATTIE DEMIELINIZZANTI G. Cavaletti, D. Currò, G. Mancardi, G. Frigeni
KEY POINTS Le malattie demielinizzanti del sistema nervoso centrale costituiscono un ampio capitolo di patologie che differiscono per andamento clinico e manifestazioni sintomatologiche, ma condividono nella massima parte dei casi il meccanismo patogenetico legato a una sofferenza immunomediata della guaina mielinica. Tutte le aree cerebrali possono essere colpite, anche se nell’ambito delle singole malattie si riconoscono distribuzioni tipiche delle lesioni. Il decorso può essere monofasico o recidivante, in alcuni casi anche molto grave. Il trattamento si basa sull’uso di farmaci ad attività immunomodulante o immunosoppressiva.
INTRODUZIONE Le malattie demielinizzanti comprendono un gruppo di patologie che colpiscono l’encefalo e il midollo spinale e sono caratterizzate da una
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sofferenza primitiva e predominante della guaina mielinica, definita con il termine demielinizzazione, in prima ipotesi secondaria a un processo patologico infiammatorio di natura autoimmune. Le patologie che corrispondono a tale definizione sono la sclerosi multipla (SM), la neuromielite ottica (NMO) o malattia di Devic, l’encefalomielite acuta disseminata (ADEM, acute disseminated encephalomyelitis) e le encefaliti emorragiche necrotizzanti acute e subacute e forme rare e maligne quali la sclerosi concentrica di Balò, la malattia di Marburg e la malattia di Schilder. In questo capitolo verranno prese in considerazione nel dettaglio la sclerosi multipla, l’encefalomielite acuta disseminata e la neuromielite ottica di Devic.
SCLEROSI MULTIPLA Definizione La sclerosi multipla (SM) è la più frequente malattia demielinizzante ed è sicuramente quella con il maggior impatto sociale per la sua diffusione, la tendenza a colpire la popolazione di giovane età e la sua cronicità. La malattia colpisce diverse aree di sostanza bianca del sistema nervoso centrale (SNC) con il caratteristico processo di demielinizzazione e la successiva cicatrizzazione gliale (per un approfondimento sugli aspetti fisiopatologici di questa malattia, VEDI FOCUS ON: ASPETTI FISIOPATOLOGICI DELLA SCLEROSI MULTIPLA, PAG. 235). Le sedi colpite da questo processo patologico sono estremamente variabili, anche se è possibile identificare un caratteristico interessamento della sostanza bianca periventricolare, del midollo spinale, del tronco encefalico, del cervelletto e dei nervi ottici. Le manifestazioni cliniche sono di conseguenza estremamente eterogenee, a seconda delle aree colpite e dell’estensione dei focolai di demielinizzazione. Classicamente la SM si caratterizza nella sua forma più comune per il ricorrere di attacchi clinici che all’inizio tendono a regredire completamente, ma che con il passare del tempo esitano in un accumulo di danno e di conseguente disabilità. Tale tipo di decorso tende a divenire, dopo circa 10-
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20 anni di malattia, progressivo, con scomparsa delle ricadute e lenta progressione della disabilità neurologica. Esistono inoltre varianti cliniche con decorso cronico progressivo ab initio. Il decorso della SM è imprevedibile e la malattia può manifestasi con una gravità che varia da forme definite “benigne” a forme estremamente aggressive e rapidamente evolutive fin dall’esordio.
KEY POINTS Definizione. La sclerosi multipla è una patologia demielinizzante che colpisce diverse aree di sostanza bianca dell’encefalo e del midollo spinale ed è caratterizzata nella sua forma più comune (recidivanteremittente) dal ricorrere di attacchi clinici che nelle fasi iniziali di malattia tendono a regredire completamente ma che con il passare del tempo esitano in accumulo di disabilità. Esistono varianti cliniche con decorso cronico progressivo. Epidemiologia. Età d’esordio fra i 20-40 anni; rapporto femmine/maschi 2:1; prevalenza variabile a seconda delle diverse aree geografiche e di fattori razziali. In Italia il tasso di prevalenza della malattia è di circa 50-80 casi/100 000 (alto rischio). Patogenesi. Ancora da chiarire. Si ipotizza che un fattore ambientale (infezione virale) scateni una risposta autoimmunitaria umorale e cellulo-mediata in individui geneticamente predisposti mediante un meccanismo di “mimetismo molecolare”. Diagnosi. Interessamento focale ricorrente del sistema nervoso centrale. Integrazione fra anamnesi, esame obiettivo neurologico e dati strumentali (riscontro di bande oligoclonali nel liquor, lesioni iperintense in T2 alla RMN e alterazione dei potenziali evocati). Clinica. Segni e sintomi d’esordio: perdita di forza e/o di sensibilità a un arto, neurite ottica retrobulbare, mielite trasversa, oftalmoplegia
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internucleare. Segni e sintomi della fase avanzata: deficit stenici e sensitivi, spasticità, turbe della coordinazione, disturbi sfinterici, deficit visivi, alterazioni cognitive/comportamentali. Terapia. Trattamento delle ricadute: metilprednisolone 1000 mg/die ev per 3-5 giorni. Prevenzione delle ricadute e rallentamento della progressione: immunomodulanti (copolimero, interferone ß, dimetilfumarato, teriflunomide, fingolimod)¸ immunosoppressori (azatioprina, mitoxantrone, ciclofosfamide) e anticorpi monoclonali (natalizumab, alemtuzumab). Prognosi. Estremamente variabile. Non incide significativamente sull’aspettativa di vita ma ha notevole impatto sulla qualità della vita. La SM è considerata una patologia autoimmune e si ritiene che un evento scatenante, ancora misconosciuto, sia in grado di innescare una risposta alterata del sistema immunitario contro antigeni mielinici in individui geneticamente predisposti. L’evoluzione delle metodiche diagnostiche, con particolare riferimento alla risonanza magnetica nucleare (RMN), hanno permesso di anticipare la diagnosi, grazie alla possibilità di identificare aree di demielinizzazione clinicamente silenti. Lo sviluppo, soprattutto negli ultimi anni, di farmaci immunomodulanti e immunosoppressori ha modificato la storia naturale della malattia.
Epidemiologia La SM ha una curva di età d’esordio unimodale in quanto circa due terzi dei casi d’esordio si collocano fra i 20 e i 40 anni d’età, con un picco di incidenza attorno ai 30 anni. È rara la manifestazione della patologia in età prepuberale e in età adulta (50-60 anni). Come molte altre patologie autoimmuni la SM è più frequente nel sesso femminile, con un rapporto femmine/maschi 2:1 (variabile fra 1,4 e 3,1). L’Italia è considerata un Paese a rischio medio-alto per lo sviluppo della SM con una tasso di prevalenza della malattia di circa 50-80 casi/100 000, seppur con differenze importanti fra le diverse regioni (in Sardegna la
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prevalenza sale fino a 210 casi su 100 000). Esiste una correlazione tra incidenza di malattia e distribuzione geografica. La SM infatti diventa più frequente passando dall’equatore a latitudini maggiori in entrambi gli emisferi, per tornare nuovamente a decrescere oltre i 60 gradi di latitudine sia a Nord che a Sud. Questi dati suggeriscono l’importanza di fattori geografici/ambientali nell’aumento del rischio di sviluppo della malattia. Tale ipotesi è supportata anche da altre considerazioni, come per esempio dal fatto che la malattia è più frequente nel mondo occidentale e nelle aree urbane rispetto a quelle rurali. Studi di migrazioni di popoli hanno documentato che soggetti che si spostano da zone con un determinato rischio di sviluppo di malattia tendono ad acquisire il rischio dell’area geografica in cui si sono trasferiti se questo avviene prima dei 15 anni, piuttosto che a mantenere lo stesso rischio dell’area da cui provengono se la migrazione avviene dopo i 15 anni d’età, come se esistesse una sorta di influenza ambientale in grado di agire nei primi anni di vita e di favorire lo sviluppo della malattia. Un ulteriore dato a supporto dell’importanza ambientale nella predisposizione alla malattia è fornito da segnalazioni di “epidemie” di SM verificatesi nelle Isole Faroer a seguito dell’invasione da parte di truppe britanniche nella seconda Guerra Mondiale, così come in Groenlandia, in Sardegna, nelle isole Orkney e Shetland.
FOCUS ON ASPETTI FISIOPATOLOGICI DELLA SCLEROSI MULTIPLA Il processo di demielinizzazione si traduce dal punto di vista fisiopatologico nella perdita della conduzione elettrica saltatoria da un nodo di Ranvier al successivo con conseguente rallentamento della trasmissione degli impulsi, fino al blocco completo della trasmissione nervosa. Alcuni segni e sintomi caratteristici della SM possono essere spiegati da queste alterazioni fisiopatologiche. Le lesioni acute sono caratterizzate da un blocco di conduzione che in
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realtà è più funzionale che anatomico e questo spiega la rapida regressione dei sintomi nel giro di pochi giorni nelle fasi iniziali della malattia, verosimile conseguenza della riduzione dell’edema e dell’infiltrato infiammatorio, dell’utilizzo di vie anatomiche alternative e del tentativo di rimielinizzazione. Con il passare del tempo e il cronicizzarsi delle lesioni la componente infiammatoria si riduce e predomina l’aspetto gliotico cicatriziale, con danno permanente a carico dell’assone, responsabile di conseguenza dello stabilizzarsi e del cronicizzarsi del danno neurologico. Un altro fenomeno fisiopatologico che spiega alcuni aspetti caratteristici della SM è che le fibre demielinizzate e successivamente rimielinizzate sono estremamente sensibili ai cambiamenti di temperatura (incrementi di temperatura anche minima possono rallentare o addirittura bloccare la conduzione nervosa), metabolici (in particolare l’iperventilazione) o meccanici. Questa suscettibilità delle fibre a determinate condizioni ambientali è alla base di una serie di fenomeni transitori quali l’offuscamento visivo monolaterale (fenomeno di Uhthoff) o la comparsa di parestesie o ipoestesie a un arto a seguito dell’esposizione a calore o conseguenti a esercizio fisico, oppure la comparsa di una sensazione di scarica elettrica lungo la colonna vertebrale o agli arti inferiori provocata da movimenti di flessoestensione del capo (segno di Lhermitte). I sintomi parossistici sono sintomi neurologici a comparsa improvvisa che durano pochi minuti e possono manifestarsi come crisi dolorose (per esempio, la nevralgia trigeminale), disestesie agli arti, crisi di disartria e atassia, spasmi muscolari. La genesi di tali disturbi non è ben chiara anche se alcuni Autori la attribuiscono a fenomeni di trasmissione tra neuroni demielinizzati adiacenti. La caratteristica brevità di tali fenomeni e il loro essere scatenati da agenti esterni permette una facile differenzazione rispetto alle riacutizzazioni della malattia.
I diversi tassi di prevalenza non sono però spiegati esclusivamente da cause ambientali, ma risentono anche dell’influenza di fattori genetici, in particolare dell’associazione con particolari aplotipi del sistema maggiore di istocompatibilità (HLA) coinvolti nella cascata della risposta immunitaria.
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Questo giustificherebbe l’osservazione che determinati gruppi razziali che vivono in zone ad alto rischio conservano un rischio di malattia relativamente basso o come ad esempio il fatto che la Gran Bretagna ha tassi di malattia elevati (85/100 000) mentre il Giappone, che si colloca alla stessa latitudine, ha tassi di malattia molto bassi (1,4/100 000).
Eziopatogenesi I reali meccanismi patogenetici della SM restano ancora da chiarire. Si pensa che fattori genetici, ambientali e immunologici concorrano nell’instaurare e nel mantenere una risposta autoimmune aberrante. In particolare l’ipotesi più accreditata è che un fattore ambientale quale un’infezione virale possa scatenare una risposta autoimmunitaria umorale e cellulo-mediata in individui geneticamente predisposti mediante un meccanismo di “mimetismo molecolare”, ossia mediante l’esistenza di epitopi comuni tra il virus e la mielina del SNC, che diventa così erroneo bersaglio delle cellule autoreattive.
Fattori ambientali L’aumentato rischio di sviluppare SM in determinate aree geografiche e in determinati contesti sociali ha suggerito la presenza di fattori ambientali implicati nella patogenesi della malattia. In particolare numerosi agenti infettivi sono stati chiamati in causa in questi anni, in particolare il virus del morbillo, l’HTLV1, l’herpers virus 6, il virus di Epstein Barr e recentemente Chlamidya pneumoniae, ma per nessuno di essi è stato dimostrato un chiaro nesso di causalità.
Fattori genetici La maggiore incidenza della malattia in determinate etnie suggerisce un ruolo dei fattori genetici nella malattia. Tale ipotesi è supportata anche da studi epidemiologici che dimostrano un aumentato rischio fra i parenti di primo grado di sviluppare la malattia e studi su gemelli che hanno documentato tassi di concordanza del 20-25% nei gemelli omozigoti rispetto al 2-5% riscontrato nei gemelli dizigoti. Tale ereditarietà non è legata a un singolo gene, ma si tratta più probabilmente di un’eredità poligenica legata a molteplici loci che portano a un aumentato rischio di sviluppo di malattia.
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Il più importante determinante genetico finora identificato nella SM è il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC, major histocompatibility complex) sul cromosoma 6 che codifica per gli antigeni di istocompatibilità del sistema HLA, implicati nella presentazione di peptidi antigenici ai linfociti T, in particolare la regione di classe II dell’MHC e più frequentemente l’allele DR2 (DRB1*1501) e il suo corrispondente aplotipo.
Fattori immunologici L’ipotesi che la SM sia una malattia autoimmune deriva da correlazioni con i modelli animali di encefalite allergica sperimentale (EAE), da studi sul sistema autoimmunitario di pazienti affetti e dalla risposta della malattia a trattamenti immunomodulanti e immunosoppressori. L’EAE è una malattia immunitaria del SNC caratterizzata da demielinizzazione e gliosi che può essere indotta in specie animali geneticamente predisposte mediante l’immunizzazione con la proteina basica della mielina (PBM) o con regioni peptidiche immunodominanti di PBM. La demielinizzazione presente nell’EAE sembra necessitare dell’azione sinergica di anticorpi e di cellule T sensibilizzate contro antigeni mielinici. Anche nell’uomo sono stati ritrovati nel sangue, nel liquor e talvolta anche nelle placche di demielinizzazione di pazienti affetti da SM linfociti T autoreattivi contro la PBM. L’esistenza anche di una risposta autoimmune umorale nell’uomo è testimoniata dal riscontro di autoanticorpi diretti contro antigeni mielinici, come la glicoproteina oligodendrocitica della mielina (MOG) nel siero, e dalle caratteristiche bande oligoclonali (ossia elevate concentrazioni di anticorpi oligoclonali che derivano dall’espansione di un gruppo selezionato di plasmacellule) nel liquor dei pazienti affetti da SM. L’ipotesi patogenetica della SM potrebbe essere spiegata nel seguente modo: linfociti T CD4+ circolanti nel sangue periferico vengono attivati da un patogeno esterno, verosimilmente un agente virale. Conseguenza di questa attivazione è l’espressione sulla superficie dei linfociti di molecole in grado di legare i recettori delle cellule endoteliali e il loro successivo attraversamento della barriera ematoencefalica (BEE). I linfociti T attivati e migrati nel SNC riconoscono erroneamente come patogeni frammenti di autoantigeni-mielinici presentati da macrofagi e microglia, a causa del meccanismo di mimetismo molecolare per cui la mielina sembrerebbe condividere alcuni epitopi di determinati virus, con conseguente
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innesco della risposta immunitaria, aumento della permeabilità della BEE, richiamo di altri linfociti e attivazione di altre cellule come linfociti T CD8+ ad azione citotossica, linfociti B, microglia e astrociti. La conseguente produzione di citochine, ossido nitrico, radicali liberi, proteasi, complemento, autoanticorpi contro la guaina mielinica è responsabile del danno mielinico e del successivo danno assonale sia a carico degli oligodendrociti e più tardivamente a carico dei neuroni. L’espandersi e il mantenersi o meno di tale processo sarà conseguenza del prevalere o meno della risposta antinfiammatoria sostenuta dai linfociti T helper 2 (produttori di TGF-ß, interleuchina 4 e 10) o degli stimoli proinfiammatori prodotti da linfociti T helper 1, macrofagi e microglia (produttori di INF-γ, TNF-α, IL2 e TNF-β).
Anatomia patologica Macroscopicamente la superficie esterna dell’encefalo appare solitamente normale a eccezione dei casi di malattia di lunga data ove si possono notare segni di atrofia con ampliamento dei solchi corticali e dilatazione dei ventricoli laterali e del terzo ventricolo. Generalmente anche il midollo spinale appare macroscopicamente normale o in alcuni casi lievemente rigonfio con la pia aracnoide ispessita. Il taglio dell’encefalo e del midollo spinale mette in luce le lesioni caratteristiche della SM, ossia le placche, lesioni più rosee e di minor consistenza rispetto al tessuto circostante se più recenti, o grigiastre e di consistenza aumentata se più vecchie, nel contesto principalmente della sostanza bianca e dovute alla perdita di mielina, ben delimitate rispetto al tessuto circostante. Le dimensioni delle lesioni possono variare da pochi millimetri a diversi centimetri: a livello encefalico possono avere le dimensioni di una capocchia di spillo fino a estese aree di demielinizzazione interessanti un intero emisfero cerebrale, così come a livello del midollo spinale si possono riscontrare piccole aree di demielinizzazione a livello dei cordoni posteriori e laterali o alterazioni patologiche della mielina che coinvolgono un’intera sezione trasversa. La localizzazione delle lesioni è caratteristica e le aree di demielinizzazione coinvolgono più frequentemente la sostanza bianca periventricolare, i nervi ottici e il chiasma ottico, il corpo calloso, il tronco encefalico, il cervelletto e il midollo spinale, soprattutto nel tratto cervicale.
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Dal punto di vita istologico le lesioni sono caratterizzate da una distruzione variabile della mielina con un minor danno a carico degli assoni, proliferazione delle cellule gliali e alterazioni capillari. Le caratteristiche istologiche delle placche variano a seconda del loro tempo di insorgenza. Nelle placche acute si ha un incremento marcato della cellularità e della componente infiammatoria con presenza di numerosi macrofagi, astrociti, linfociti T e B e plasmacellule responsabili della distruzione della guaina mielinica. Con il passare del tempo la risposta cellulare infiammatoria al centro della placca si riduce e si ha invece proliferazione degli astrociti che formano intrecci fibrillari nel tentativo di riparare la lesione. Ai bordi della lesione che si espande in senso centrifugo è ancora attivo il processo di degradazione della mielina, sostenuto da un alto numero di macrofagi, linfociti e plasmacellule. Quando le placche diventano inattive la demielinizzazione diventa prominente, con marcata perdita oligodendrogliale e gliosi massiva. Questa fase è caratterizzata da ipocellularità e da una risposta infiammatoria assai scarsa. È stato recentemente dimostrato che la perdita assonale non è caratteristica peculiare solo delle lesioni di vecchia data, ma interessa anche le placche acute ed è causata anche in questo caso dal processo di infiammazione. A livello delle placche di SM può avvenire un fenomeno di rimielinizzazione aberrante e incompleta, responsabile delle “placche ombra”, verosimilmente sostenuto da una proliferazione oligodendrocitaria nelle fasi più precoci del danno. Qualora il processo patologico sia particolarmente destruente si può avere interessamento non solo della mielina e dell’assone, ma anche dei tessuti di sostegno e dei capillari, che dà origine a lesioni cavitate.
Quadri clinici La SM si caratterizza per la sua assoluta imprevedibilità nella modalità d’esordio, nel numero, nella gravità e nella frequenza delle ricadute, nel suo decorso e nel grado di aggressività e di conseguente disabilità. Nella SM qualunque sintomo che sia espressione di interessamento focale del sistema nervoso centrale può essere virtualmente una manifestazione della malattia, pur essendoci un interessamento preferenziale di alcune aree del SNC (nervo ottico, tronco encefalico, colonne posteriori e laterali del midollo spinale) e di conseguenza segni e sintomi più spesso correlati alla
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malattia. Alcuni di questi sono più frequenti come modalità d’esordio, come per esempio la perdita di forza e/o di sensibilità a un arto, la neurite ottica retrobulbare, la mielite trasversa, l’atassia cerebellare o l’interessamento del tronco encefalico (nistagmo, vertigine, diplopia, oftalmoplegia internucleare). Con il passare del tempo, il ricorrere degli episodi clinici e il conseguente accumulo di disabilità si instaura un corteo di segni e sintomi che sono pressoché sempre presenti nelle fasi avanzate di malattia, quali i deficit stenici e sensitivi, la spasticità, le turbe della coordinazione, i disturbi sfinterici, i deficit visivi e le alterazioni cognitive e comportamentali. L’esordio della malattia è più frequentemente monosintomatico, ma possono esserci anche dei casi a esordio polisintomatico. I segni e sintomi nelle prime fasi di malattia tendono a insorgere gradualmente, nell’arco di minuti od ore (40% dei casi) o in alcuni giorni (30% dei casi). In circa il 20% dei casi l’esordio è più insidioso e può protrarsi nell’arco di settimane con manifestazioni intermittenti, mentre in circa il 10% può manifestarsi nell’arco di mesi con un’evoluzione graduale; rarissimo è l’esordio ictale. Un’accurata anamnesi all’esordio dei sintomi frequentemente rivela episodi occorsi nel passato, quali per esempio parestesie o disturbi del visus, a cui il paziente non aveva dato peso ma che erano verosimili manifestazioni iniziali della malattia.
Nervo ottico La neurite ottica retrobulbare (NORB) è il sintomo d’esordio della malattia in circa il 25% dei pazienti. Si manifesta come una perdita dell’acuità visiva che di solito si concretizza nell’arco di alcuni giorni e può essere di entità variabile. Solitamente è preceduta e accompagnata da dolore alla mobilizzazione e alla compressione del globo oculare e può associarsi a discromatopsia, che si manifesta come una riduzione dell’intensità della percezione dei colori (in particolare il rosso e il verde). La NORB è più frequentemente monolaterale e può recidivare. L’esame del campo visivo documenta la presenza di uno scotoma che è più frequentemente centrocecale in quanto coinvolge l’area maculare e la macchia cieca, mentre all’esame del fundus oculi la papilla appare solitamente normale o lievemente edematosa (papillite) qualora vi sia un coinvolgimento della testa del nervo ottico. Negli stadi più avanzati l’esame
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del fondo dell’occhio può documentare una papilla pallida e atrofica. Lo studio dei potenziali evocati visivi spesso documenta un incremento della latenza delle risposte corticali allo stimolo visivo, segno di interessamento patologico del nervo ottico che può anche essere stato clinicamente silente. Il recupero dell’acuità visiva avviene in circa due settimane e in un terzo dei pazienti è completo, mentre nella maggior parte degli altri casi il miglioramento è comunque significativo. Il rischio di evoluzione di una NORB in SM conclamata è di circa il 50% dopo 10 anni (la maggior parte dei casi entro 5 anni) ed è maggiore nei pazienti che hanno una RM positiva al momento della diagnosi.
Vie di senso Sintomo comune d’esordio della malattia è la sensazione di “intorpidimento” o formicolio a una parte del corpo. La sede di questi disturbi è estremamente variabile con interessamento di un emivolto, di un braccio o una gamba dello stesso lato in caso di lesioni sovramidollari, oppure coinvolgimento di entrambi gli arti superiori o inferiori, a “cintura” o a sella in caso di lesioni midollari. Con l’avanzare della malattia sono frequenti le sensazioni parestesiche e disestesiche alle estremità acrali, a cui si può associare ipoestesia. Le sensibilità profonde, in particolare la vibratoria agli arti inferiori, sono spesso alterate nei quadri di malattia conclamata.
Vie di moto Anche una ipostenia può manifestarsi come sintomo d’esordio ed è pressoché costante nella evoluzione successiva della malattia. Può manifestarsi come una monoparesi, un’emiparesi o una paraparesi a seconda della sede anatomica interessata dalla lesione. All’ipostenia si associano gli altri segni di interessamento del sistema piramidale, in particolare l’iperreflessia che può arrivare fino al clono, soprattutto a livello achilleo, la riduzione o la scomparsa dei riflessi addominali e il segno di Babinski. L’ipertono spastico è frequente nelle fasi avanzate di malattia.
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Tronco encefalico La diplopia è frequente manifestazione della SM e può essere isolata o parte di una sintomatologia più complessa come quella tipica della oftalmoplegia internucleare, causata da una lesione demielinizzante a livello del fascicolo longitudinale mediale. Altre cause di diplopia possono essere placche di demielinizzazione che interessano i nervi oculomotori nel loro tratto intrabulbare. Il nistagmo è frequente e può essere dissociato, orizzontale o rotatorio, fasico o tonico, e si manifesta spesso insieme a segni e sintomi cerebellari. La nevralgia trigeminale in soggetti giovani, soprattutto in associazione a ipoestesia, può essere sintomo d’esordio di una SM. Il coinvolgimento del VII nervo cranico nel suo tratto pontino si manifesta come una paralisi periferica del facciale, mentre ipoacusia, acufeni e vertigini soggettive indicano l’interessamento delle vie cocleari e vestibolari.
Cervelletto Il nistagmo, l’atassia della marcia, il tremore e l’incoordinazione ai quattro arti e la disartria o “parola scandita” sono segni e sintomi cerebellari che si manifestano comunemente negli stadi più avanzati di malattia. Sono estremamente invalidanti e di notevole impatto sulla qualità della vita del paziente, data anche la loro scarsa responsività ai trattamenti sintomatici. Raramente questo corteo sintomatologico si manifesta come modalità d’esordio della malattia, ma qualora avvenga è considerato un indice prognostico sfavorevole.
Midollo spinale Il midollo spinale è un’altra della sedi preferenziali di localizzazione di malattia e il suo interessamento è piuttosto frequente anche come quadro d’esordio. Clinicamente il coinvolgimento del midollo spinale si manifesta come una paraparesi anche asimmetrica che evolve nell’arco di alcuni giorni, a cui si possono associare un livello sensitivo, la riduzione o scomparsa dei riflessi addominali, un’iperreflessia osteotendinea, il segno di Babinski e le disfunzioni sfinteriche. Il segno di Lhermitte indica una lesione a livello dei cordoni posteriori del
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midollo spinale cervicale. L’atassia della marcia può essere causata dalla perdita delle sensibilità profonde a livello dei cordoni posteriori del midollo spinale ed è frequente negli stadi avanzati di malattia, mentre è spesso la modalità d’esordio in donne anziane ove si associa a ipostenia e ha un andamento ingravescente.
Funzioni vescicali e sessuali I disturbi urinari sono comuni e possono manifestarsi come minzione imperiosa a cui si associa incontinenza, o come difficoltà nell’iniziare la minzione con incompleto svuotamento vescicale e necessità negli stadi più gravi di ricorrere a cateterismi intermittenti. Spesso vi può essere l’associazione di entrambi i quadri clinici. L’urgenza o l’incontinenza fecale sono rare, mentre è frequente la stipsi. Le disfunzioni della sfera sessuale si manifestano come riduzione o perdita della libido e nell’uomo anche come disfunzioni erettili fino all’impotenza.
Funzioni cognitive Contrariamente a quanto si riteneva in passato, le funzioni cognitive, in particolare la memoria visuospaziale, la capacità di calcolo e l’attenzione, possono essere alterate già nelle fasi iniziali della malattia. Una franca demenza di tipo sottocorticale si può manifestare solo negli stadi avanzati di malattia. La depressione si associa spesso alla SM ed è di solito di tipo secondario, legata cioè alla consapevolezza dei pazienti di essere affetti da una malattia cronica invalidante. Può essere anche presente un quadro di euforia ingiustificato e discrepante rispetto ai deficit neurologici presenti e sono stati descritti casi di manifestazioni psicotiche anche come raro sintomo d’esordio di malattia.
Altri sintomi Una condizione di marcata astenia sproporzionata all’impegno fisico svolto è presente nella gran parte dei pazienti già dall’esordio della malattia ed è un sintomo invalidante e difficilmente risolvibile (fatigue nella terminologia anglosassone). Può associarsi a condizioni di malessere sistemico, come per
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esempio la febbre, o alle ricadute cliniche della malattia, ma è frequentemente presente anche in condizioni di benessere generale e al di fuori delle recidive. Abbiamo già citato i sintomi parossistici come la nevralgia trigeminale, le crisi di atassia disartria, gli spasmi dolorosi che si caratterizzano per la loro brevità. Rare sono le crisi epilettiche generalizzate o parziali.
NON DIMENTICARE CHE… La SM è una malattia estremamente polimorfa come manifestazioni cliniche e come decorso. Potenzialmente qualunque area del SNC può essere colpita dal processo di demielinizzazione e dare origine a uno specifico e diverso segno o sintomo di malattia. Tuttavia esistono delle aree del SNC che sono colpite preferenzialmente, soprattutto come prima manifestazione di SM. Le più frequenti modalità d’esordio sono: il deficit stenico o sensitivo di un arto, la neurite ottica retrobulbare (ipovisus e dolore alla mobilizzazione del globo oculare), la mielite trasversa (paraparesi, deficit sensitivo, riduzione o scomparsa dei riflessi addominali, iperreflessia osteotendinea, segno di Babinski e disfunzioni sfinteriche), l’atassia cerebellare o il coinvolgimento del troncoencefalo (nistagmo, vertigine, diplopia, oftalmoplegia internucleare).
Esami bioumorali e strumentali Liquido cefalorachidiano L’esame del liquido cefalorachidiano è un aspetto importante nel processo diagnostico della SM. La cellularità e la conta proteica sono nella maggior parte dei casi normali, anche se in un terzo dei pazienti può essere riscontrata una modesta pleiocitosi (di solito inferiore a 50 elementi/mm³) e una lieve
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iperproteinorrachia. In circa due terzi dei pazienti vi è un aumento della percentuale di immunoglobuline gamma, solitamente IgG, rispetto alle proteine totali liquorali, indicativo di un’aumentata sintesi intratecale. Il rapporto tra la concentrazione delle IgG liquorali e sieriche e la concentrazione di albumina liquorale e sierica prende il nome di indice di Link ed è spesso patologico nella SM. Il dato liquorale più sensibile e più frequentemente alterato in caso di SM è il riscontro all’isoelectrofocusing di bande oligoclonali (BO) di IgG prodotte da cloni di plasmacellule che proliferano in maniera abnorme nel SNC dei pazienti affetti, indice di una risposta autoimmune umorale aberrante. Un incremento di BO all’elettroforesi liquorale (di solito maggiore o uguale a due) rispetto all’elettroforesi sierica è presente in circa il 95% dei casi di SM. Un incremento delle BO liquorali può essere presente anche in altre patologie infiammatorie del SNC come l’infezione da HIV, la lue e la panencefalite sclerosante subacuta, condizioni tuttavia di solito facilmente distinguibili clinicamente dalla SM.
Potenziali evocati La metodica neurofisiologica di registrazione a livello corticale delle risposte evocate da stimoli provenienti dalla periferia (visivi, uditivi e sensitivi) può essere di aiuto nell’evidenziare la presenza di lesioni che non si sono manifestate clinicamente, dimostrando così la disseminazione spaziale della malattia. La demielinizzazione si esprime dal punto di vista neurofisiologico come un aumento della latenza delle risposte agli stimoli, mentre l’ampiezza è solitamente conservata. I potenziali evocati visivi, ossia la registrazione delle risposte evocate corticali a stimoli visivi tipo flash o pattern reversal, sono spesso alterati in pazienti che non hanno avuto segni o sintomi di interessamento del nervo ottico. I potenziali evocati somatosensoriali e uditivi sono meno sensibili nel dimostrare lesioni clinicamente silenti, ma confermano la presenza di un coinvolgimento clinico delle vie di senso o del tronco encefalico. I potenziali evocati motori con stimolazione magnetica possono essere utili per indagare l’integrità del fascio piramidale.
Risonanza magnetica nucleare
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La risonanza magnetica nucleare è l’indagine strumentale di elezione non solo per la diagnosi ma anche per il follow-up della malattia. Questa metodica permette infatti di identificare la comparsa di lesioni che possono essere state clinicamente silenti, da un lato documentando più precocemente di quanto possa avvenire clinicamente la disseminazione delle lesioni nel tempo e dall’altro permettendo di monitorare in maniera più sensibile l’evoluzione della malattia e l’eventuale l’efficacia o meno di un trattamento terapeutico (per un approfondimento sulle nuove applicazioni della RM nella SM, VEDI FOCUS ON: NUOVE APPLICAZIONI DELLA RM NELLA SCLEROSI MULTIPLA, PAG. 241). Una percentuale molto elevata di pazienti (80-90%) mostra radiologicamente multiple lesioni a carico della sostanza bianca dell’encefalo e del midollo spinale. La dimensione delle lesioni cerebrali è frequentemente maggiore ai 6 mm di diametro e la loro localizzazione è caratteristica, con distribuzione preferenziale a livello periventricolare (parte posteriore dei ventricoli laterali e centro semiovale) e a livello del corpo calloso, ove appaiono nelle sequenze sagittali come immagini ovalari che si estendono in senso centrifugo. Le immagini pesate in T2 permettono il chiaro riconoscimento delle placche che appaiono come lesioni iperintense (il cosiddetto “carico lesionale”) e le sequenze FLAIR migliorano la capacità di identificare le lesioni, soprattutto quelle a localizzazione periventricolare (FIG. 13.1). Le immagini pesate in T1 sono poco sensibili nell’identificare le placche di demielinizzazione, ma in queste sequenze possono comparire aree ipointense chiamate black holes, indicative di lesioni caratterizzate da necrosi tissutale che sono andate incontro a cavitazione. La somministrazione di un mezzo di contrasto paramagnetico, il gadolinio (Gd), permette di identificare le lesioni “attive”, ossia le placche ove vi è infiammazione acuta e quindi maggior permeabilità della BEE (FIG. 13.2). La somministrazione della tripla dose di Gd o l’acquisizione tardiva delle sequenze dopo somministrazione del mezzo di contrasto aumenta le sensibilità nell’identificare placche attive. Diversi studi clinici hanno permesso di mettere in relazione il carico lesionale alla RM al momento della diagnosi con la probabilità di evoluzione in malattia clinicamente definita e la disabilità a 10 anni, così come l’atrofia del corpo calloso e il numero di lesioni correlano con i deficit cognitivi.
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FIGURA 13.1 Immagine assiale FLAIR (fluid attenuated inversion recovery) T2-pesata ove è stata soppressa l’iperintensità di segnale del liquor cefalorachidiano e sono ben riconoscibili anche a livello periventricolare le aree di demielinizzazione che appaiono come lesioni iperintense.
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FIGURA 13.2 Stesso caso della figura 13.1: immagine assiale T1-pesata ottenuta dopo somministrazione endovenosa di gadolinio ove sono riconoscibili le aree di demielinizzazione in fase attiva che appaiono come lesioni iperintense che captano il mezzo di contrasto, indice di danno della barriera ematoencefalica.
FOCUS ON NUOVE APPLICAZIONI DELLA RM NELLA SCLEROSI MULTIPLA
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Le informazioni fornite dalle immagini di RM pesate in T2 non permettono di differenziare le varie componenti della placca, ossia la componente infiammatoria ed edematosa dalla demielinizzazione o dall’eventuale danno assonale con successiva gliosi. A tale scopo sono state sviluppate nuove metodiche quali il magnetization transfer (MT) che misura lo scambio di magnetizzazione tra protoni liberi e legati alle macromolecole. Le modificazioni dei pool di protoni liberi e legati modificano l’MT e il rapporto tra intensità di segnale delle immagini ottenute (MTR). La componente acquosa legata all’infiammazione e all’edema, aumentando il numero di protoni liberi, fa ridurre l’MTR e tale riduzione è ancor più marcata in presenza di danno parenchimale (demielinizzazione, danno assonale o gliosi). L’MTR permette pertanto una differenziazione strutturale della composizione delle lesioni. Lo studio dei metaboliti tissutali mediante la RM spettroscopica permette invece di studiare le modificazioni biochimiche tissutali del parenchima cerebrale. In particolare una riduzione dell’Nacetilaspartato, presente esclusivamente nei neuroni, è indicatore di danno assonale, così come l’incremento della colina, componente dei fosfolipidi di membrana, è indice di danno a carico della guaina mielinica.
Diagnosi La diagnosi di SM si basa, per quanto riguarda le classiche forme recidivantiremittenti, sulla presenza di alterazioni focali coinvolgenti diverse aree del SNC e sul loro ricorrere nel tempo, ossia sull’identificazione di “lesioni disseminate nel tempo e nello spazio”. Una corretta diagnosi è possibile mediante l’integrazione fra anamnesi (età d’esordio, modalità d’insorgenza ed evoluzione degli attacchi clinici, sedi coinvolte, decorso della malattia per ricadute o progressivo da almeno un anno, presenza di eventuali manifestazioni pregresse misconosciute nella storia clinica del paziente), esame obiettivo neurologico e dati strumentali (esame liquorale, RM e potenziali evocati), oltre che con l’esclusione di altre condizioni patologiche che possono entrare in diagnosi differenziale con la SM. I criteri diagnostici di una SM recidivante-remittente clinicamente definita
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prevedono la presenza di almeno due attacchi clinici, che durano ognuno più di 24 ore e che si distanziano l’uno dall’altro di almeno un mese, e la presenza di almeno due segni di coinvolgimento della sostanza bianca in sedi anatomiche distinte. Almeno uno dei due segni deve essere documentato dall’esame neurologico, mentre l’altro può essere fornito dai test paraclinici (RM o potenziali evocati). Anche i dati forniti dall’esame liquorale possono supportare la diagnosi di SM definita (TAB. 13.1).
Diagnosi differenziale Quando la malattia si manifesta in giovane età con sintomi recidivantiremittenti e un quadro radiologico e liquorale compatibile la corretta diagnosi di SM è relativamente semplice. Tuttavia alcune condizioni patologiche particolari entrano in diagnosi differenziale con un esordio di SM. TABELLA 13.1 Criteri diagnostici per la SM (McDonald, 2010)*
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Presentazione clinica Requisiti supplementari per la diagnosi L’encefalomielite acuta disseminata (ADEM) è una malattia demielinizzante postinfettiva o postvaccinica caratterizzata da lesioni diffuse della sostanza bianca del SNC, ma il dato anamnestico di una recente infezione o di somministrazione di un vaccino, il decorso monofasico e la frequente associazione a febbre e alterazioni della coscienza sono gli aspetti peculiari di questa malattia che ne facilitano la diagnosi differenziale rispetto a un attacco di SM. Le più comuni malattie infettive caratterizzate da coinvolgimento plurifocale del SNC e presenza di BO nel liquor sono l’infezione da HIV, la neurolue e la malattia di Lyme, ma la ricerca sierologica degli agenti patogeni permette una corretta diagnosi differenziale. In particolare il coinvolgimento del SNC in corso di malattia di Lyme può mimare una SM in quanto predilige i nervi cranici, il midollo spinale e il cervelletto; tuttavia la presenza delle eruzioni cutanee tipiche e la ricerca degli anticorpi anti-Borrelia burgdorferi sia su siero che su liquor consentono di chiarire il quadro. Anche la leucoencefalopatia progressiva multifocale (PML, progressive multifocal
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leukoencephalopathy) può dare alterazioni radiologiche e manifestazioni cliniche che possono entrare in diagnosi differenziale con la SM, ma l’anamnesi positiva per un quadro di immunodeficienza e la presenza di alterazioni delle funzioni cognitive dovrebbero orientare verso la ricerca del virus JC. Sempre tra gli agenti infettivi va ricordato il virus HTLV1 responsabile della paraparesi spastica tropicale che ha un andamento simile alle forme progressive di SM con interessamento prevalentemente midollare. Le malattie autoimmuni che danno un coinvolgimento plurifocale del SNC con un andamento clinico recidivante sono il lupus eritematoso sistemico, la sindrome di Sjögren, la malattia di Beçhet, la sarcoidosi, le vasculiti isolate del SNC o sistemiche, ma solitamente il coinvolgimento di altri organi e l’alterazione agli esami bioumorali permettono una corretta diagnosi differenziale. Il processo di diagnosi può essere più complicato nei rari casi in cui queste malattie esordiscono con un coinvolgimento del SNC che precede l’interessamento degli altri organi. La vasculopatia cerebrale causata da infarti multipli a genesi cardioembolica è responsabile di lesioni cerebrali multiple, così come infarti sottocorticali e leucoencefalopatia caratteristici dell’arteriopatia cerebrale autosomica dominante (CADASIL, cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy), ma la corretta integrazione di anamnesi, evoluzione clinica e dati strumentali permette la diagnosi differenziale. A livello cerebrale e midollare malformazioni arterovenose o persino neoplasie (per esempio in linfomi che possono dare anche una positività delle BO o gliomi) possono mimare la presenza di aree di demielinizzazione e frequentemente in questi casi solo il follow-up radiologico consente di chiarire la diagnosi o al contrario placche demielinizzanti possono avere l’aspetto radiologico di neoplasie, le cosiddette placche tumor like (FIG. 13.3). Quando la SM si manifesta con un quadro midollare di paraparesi spastica a decorso cronico-progressivo le patologie che entrano in diagnosi differenziale con una forma cronico-progressiva di SM sono la spondilosi cervicale, ove la combinazione di RM ed elettromiografia chiariscono il quadro, la sclerosi associata a deficit di B12, l’adrenoleucodistrofia a esordio clinico tardivo (che può manifestarsi con una sintomatologia evocativa di un danno midollare di questo tipo nelle donne eterozigoti ed è diagnosticabile mediante il dosaggio degli acidi grassi a catena lunga), la sclerosi laterale
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primaria. Devono inoltre essere escluse mediante RM malformazioni vascolari o neoplasie midollari e malformazioni della cerniera atlo-occipitale (TAB. 13.2).
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FIGURA 13.3 Immagine assiale FLAIR (fluid attenuated inversion recovery) T2-pesata ove è evidente un’estesa lesione con cercine iperintenso ed effetto compressivo con shift delle strutture della linea mediana che rappresenta una placca di demielinizzazione tumor like. TABELLA 13.2 Sclerosi multipla: diagnosi differenziale • Encefalomielite acuta disseminata (ADEM) • Sindrome da anticorpi antifosfolipidi • Malattia di Behçet • Arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti subcorticali e
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leucoencefalopatia (CADASIL) • Leucodistrofie congenite (adrenoleucodistrofia, leucodistrofia metacromatica) • Infezione da virus dell’immunodeficienza (HIV) • Neuropatia ottica ischemica (arteritica e non arteritica) • Malattia di Lyme • Encefalopatia mitocondriale con acidosi lattica e ictus (MELAS) • Neoplasie (linfomi, gliomi, meningiomi) • Sarcoidosi • Sindrome di Sjögren • Ictus e malattie cerebrovascolari ischemiche • Sifilide • Lupus eritematoso sistemico e collagenopatie vascolari correlate • Paraparesi spastica tropicale (infezione da HTLV I⁄II) • Malformazioni vascolari (specialmente fistole AV spinali) • Vasculiti (primitive del SNC o altre) • Deficit di vitamina B12
Decorso Le osservazioni sul decorso della SM hanno permesso di distinguere quattro forme cliniche di manifestazione di malattia: recidivante-remittente (SMRR), secondariamente progressiva (SMSP), primariamente progressiva (SMPP) e progressiva recidivante (SMPR). Tale classificazione è ancora ampiamente utilizzata, sebbene ne sia stata recentemente effettuata una revisione che sostanzialmente prevede tra le forme di SM l’introduzione della sindrome demielinizzante clinicamente isolata (CIS, clinically isolated syndrome), intesa come il primo episodio neurologico di malattia che ancora non soddisfi i criteri di SM clinicamente definita. Le forme SP, PP e PR vengono riunite sotto il termine di forme progressive, distinguendo forme progressive non
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attive e attive in caso di presenza di ricadute di malattia o riscontro di attività infiammatoria alla RM encefalica.
Forma recidivante-remittente (SMRR) È la forma più frequente e interessa l’85% dei pazienti. È caratterizzata dal ricorrere di ricadute che si manifestano nell’arco di almeno 24 ore o in alcuni giorni e tendono a regredire nell’arco di settimane o mesi, con un recupero funzionale che nelle prime fasi di malattia tende a essere completo. Con l’aumentare del numero di ricadute o in casi di attacchi clinici gravi il recupero può essere solo parziale e si ha l’accumulo del danno e la conseguente disabilità clinica. Tra un attacco e l’altro i pazienti sono neurologicamente stabili. La seconda ricaduta clinica può avvenire dopo pochi mesi o addirittura dopo molti anni, ma circa la metà dei pazienti recidiva entro due anni dall’esordio di malattia, con un tasso medio di ricaduta di 0,3/0,4 per anno. Circa il 10-15% di questi pazienti ha una forma di SM definita “benigna” ove il numero di attacchi è basso e la disabilità clinica anche a molti anni dall’esordio della malattia può essere assente o lieve.
Forma secondariamente progressiva (SMSP) Dopo 10 anni dall’esordio il 50% dei pazienti con una SMRR evolve verso una forma secondariamente progressiva e questo si verifica nella quasi totalità dei casi dopo 25 anni, tanto che queste due forme cliniche tendono a essere considerate come gli estremi temporali della stessa malattia. Nella SMSP il deterioramento neurologico diventa progressivo in assenza di attacchi acuti, anche se in alcuni casi tale decorso può associarsi ancora a ricadute (SM secondariamente progressiva con ricadute).
Forma primariamente progressiva (SMPP) In circa il 10% dei casi il peggioramento clinico è costante e progressivo fin dall’esordio. In questi casi l’età d’insorgenza è maggiore (attorno ai 40 anni) e il quadro clinico è solitamente caratterizzato da una paraparesi spastica ingravescente. Caratteristica di questa forma clinica è la stabilità del quadro neuroradiologico (spesso con un carico lesionale molto scarso), la pressoché
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assente risposta alla terapia e la prognosi sfavorevole con un più rapido accumulo di disabilità.
Forma progressiva recidivante (SMPR) Circa il 5% dei pazienti ha fin dall’esordio un progressivo deterioramento delle funzioni neurologiche come nella SMPP, a cui però si possono associare occasionalmente anche attacchi acuti.
Prognosi La prognosi della malattia è estremamente variabile. In generale si può affermare che la SM, pur non incidendo significativamente sull’aspettativa di vita, determina un notevole impatto sulla qualità della vita, se si considera che a 10 anni dall’esordio almeno il 30-40% dei pazienti deambula con appoggio, mentre circa il 10% perde totalmente la capacità di camminare. Indicatori generali di una prognosi migliore sono il sesso femminile, un’età d’esordio inferiore ai 35 anni e una modalità d’esordio con sintomi sensitivi o NORB, un minor numero di ricadute nei primi anni di malattia e una bassa disabilità a 5 anni dalla diagnosi. Per contro, indicatori prognostici sfavorevoli sono il sesso maschile, un esordio in età più avanzata con modalità polisintomatica e interessamento cerebellare o piramidale, una elevata frequenza di ricadute e un maggior accumulo di disabilità già nei primi anni di malattia. La morte causata direttamente dalla malattia è rara e la sopravvivenza media è di oltre 35 anni dall’esordio. La causa più frequente di morte secondaria alla malattia è l’insufficienza respiratoria seguita dalle complicanze infettive polmonari, cutanee e urinarie con sepsi diffusa.
Trattamento Negli ultimi anni numerosi trial clinici hanno valutato l’azione di svariati trattamenti farmacologici (fra cui antinfiammatori, immunomodulanti e immunosoppressori) e alcuni di questi si sono dimostrati in parte efficaci nel modificare la storia naturale della malattia, soprattutto nelle fasi iniziali ove predominano l’aspetto infiammatorio e le ricadute cliniche. Più difficile resta invece trovare trattamenti validi nell’arrestare in maniera significativa la
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progressione della disabilità. La terapia della SM può essere suddivisa in tre grossi capitoli: il trattamento delle ricadute, la prevenzione delle ricadute e il rallentamento della progressione, il trattamento delle complicanze.
Trattamento delle ricadute La somministrazione di corticosteroidi per via endovenosa ad alto dosaggio (metilprednisolone 1000 mg/die) per 3-5 giorni è il trattamento attualmente indicato in caso di ricaduta clinica di malattia per attenuare la gravità della fase infiammatoria acuta. Tale trattamento è efficace nell’accorciare i tempi di recupero clinico, senza influenzare tuttavia l’esito della ricaduta, e non è in grado di modificare la storia naturale di malattia né di prevenire ulteriori ricadute. Il trattamento delle recidive con terapia steroidea per via orale non è solitamente indicato come prima scelta, ma viene utilizzato nelle ricadute cliniche particolarmente invalidanti, quando al trattamento steroideo per via endovenosa si fa seguire un periodo di circa due settimane di terapia steroidea orale (prednisone 60-80 mg/die), con graduale riduzione del dosaggio fino alla sospensione. Gli effetti collaterali dati dalla terapia steroidea ad alto dosaggio sono limitati dalla brevità del trattamento e consistono più frequentemente in insonnia, depressione o sintomi maniacali che regrediscono al termine o dopo pochi giorni dalla sospensione del trattamento. Nell’eventualità di ricadute invalidanti, con scarso recupero dopo la terapia steroidea, può essere considerata la terapia plasmaferetica, abitualmente 4-5 sedute a giorni alterni.
Prevenzione delle ricadute e rallentamento della progressione I farmaci che hanno dimostrato efficacia nel ridurre le recidive e nel ritardare l’evoluzione e la progressione della malattia appartengono alle due grandi classi degli immunomodulanti e degli immunosoppressori. I farmaci immunomodulanti utilizzati nella terapia della SM sono l’interferone ß di classe 1 (IFN-ß), il glatiramer acetato, il dimetilfumarato e il teriflunomide, che hanno indicazione all’utilizzo nelle forme di SM con ricadute (SMRR e SMSP con recidive). Entrambe queste classi di farmaci hanno dimostrato uguale efficacia nel ridurre il numero di ricadute cliniche, che si attestano attorno al 40% in meno rispetto ai pazienti trattati con
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placebo, e nel ridurre l’attività di malattia valutata mediante RM così come il carico lesionale globale. Queste osservazioni supportano l’ipotesi che l’azione di questi farmaci si esplica soprattutto nella fase di malattia caratterizzata dalle ricadute, quando predomina l’aspetto infiammatoriodemielinizzante, mentre non sono altrettanto efficaci nelle forme progressive, ossia quando si è già instaurato il danno assonale. Tali considerazioni suggeriscono l’utilità di un precoce inizio del trattamento immunomodulante nei pazienti con SM. Le proprietà immunomodulanti dell’IFN-ß sarebbero legate alla sua capacità di ridurre la migrazione di cellule infiammatorie nel SNC, di inibire la proliferazione dei linfociti T e la produzione delle citochine proinfiammatorie, di favorire quella di citochine regolatrici e di ridurre l’espressione di molecole MHC sulle cellule presentanti l’antigene. Il glatiramer acetato è costituito da una miscela di quattro aminoacidi in grado di legarsi con le molecole DR del MHC, spostando la PBM legata, e inducendo così una risposta T-suppressor antigene-specifica e quindi antinfiammatoria Th2. Il dimetilfumarato è un derivato dell’acido fumarico con molteplici funzioni: esercita un’azione citoprotettiva mediante l’attivazione del gene NRF2, coinvolto nella risposta cellulare allo stress ossidativo, sopprime la trascrizione di geni proinfiammatori mediante l’inibizione del fattore nucleare K e infine il suo metabolita attivo agisce come agonista dei recettori nicotinici. Questi effetti citoprotettivi e antinfiammatori sarebbero responsabili di un rallentamento del processo di demielinizzazione e conseguente neurodegenerazione. Teriflunomide è il metabolita attivo di leflunomide in grado di inibire in maniera selettiva e reversibile la diidroorotato deidrogenasi, enzima mitocondriale indispensabile per la sintesi de novo delle pirimidine, necessarie per la rapida replicazione di linfociti B e T. Studi immunologici suggeriscono inoltre che sia in grado di indurre uno shift della risposta immunitaria verso un fenotipo di tipo Th2 con caratteristiche antiinfiammatorie. I farmaci immunomodulanti sono ad oggi il trattamento di prima scelta nella maggior parte dei casi di SMRR, ma si deve considerare la necessità di un cambio di terapia qualora il numero degli attacchi si mantenga elevato o in caso di disabilità progressiva (per un approfondimento sulle modalità di somministrazione e sugli effetti collaterali dei farmaci immunomodulanti, VEDI FOCUS ON: DOSAGGIO, MODALITÀ DI SOMMINISTRAZIONE ED EFFETTI COLLATERALI DEI FARMACI IMMUNOMODULANTI, PAG. 247).
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Per le forme più aggressive di SM la cui attività di malattia non sia adeguatamente controllata dai farmaci sopraccitati, esistono tre farmaci di seconda linea approvati: natalizumab, fingolimod e alemtuzumab: • natalizumab è un anticorpo monoclonale che si lega alla subunità 4 delle integrine, espresse sulla superficie linfocitaria, impedendo così l’interazione con i rispettivi ligandi a livello endoteliale e riducendo la migrazione delle cellule infiammatorie attraverso la BEE del 40% circa. L’utilizzo di tale efficace farmaco, in grado di ridurre del 68% il tasso di ricadute e del 92% lo sviluppo di nuove lesioni captanti contrasto alla RM, è limitato dalla possibile insorgenza di leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), infezione opportunistica del SNC causata dalla riattivazione del poliomavirus JC, gravemente disabilitante e talora fatale; • fingolimod è un analogo sintetico della sfingosina-1-fosfato che agisce come potente agonista di quattro dei cinque recettori della sfingosina, che svolgono un ruolo fondamentale nella fuoriuscita dei linfociti dal timo e dagli organi linfoidi secondari. L’occupazione di questi recettori porta alla loro internalizzazione con conseguente impossibilità per i linfociti di lasciare gli organi linfoidi per raggiungere gli organi target del processo infiammatorio, riducendo del 54% il tasso annuale di ricadute (ARR); • alemtuzumab è un anticorpo monoclonale che lega la glicoproteina CD52 espressa sulla superficie di linfociti B e T, cellule NK, monociti, macrofagi e alcuni granulociti. Questo legame induce deplezione delle cellule target mediante meccanismi di citotossicità complemento-dipendente e citotossicità cellulare Ab-mediata. Rispetto alla terapia con interferone appare in grado di ridurre il tasso di ricadute e la progressione della disabilità, essendo però il suo utilizzo complicato soprattutto dalla possibile insorgenza di malattie autoimmuni secondarie, anche molti anni dopo la sospensione della terapia.
Trattamento delle complicanze La sensazione di affaticamento può essere lievemente attenuata dall’utilizzo dell’amantadina (200 mg/die) o del modafinil (200-400 mg/die). La spasticità può essere migliorata dalla fisioterapia, mentre sul versante farmacologico possono essere utilizzati il diazepam (4-20 mg/die), la tinazidina (12-18 mg/die), il dantrolene (25-100 mg/die) e il baclofen (10-75 mg/die). Nei casi
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più gravi può essere presa in considerazione la pompa intratecale al baclofen o l’iniezione locale di tossina botulinica in determinati gruppi muscolari. I sintomi parossistici, come la nevralgia trigeminale, gli spasmi dolorosi, le disestesie, rispondono agli antiepilettici come la carbamazepina (400-1200 mg/die) o il pregabalin (75-300 mg/die) oppure agli antidepressivi triciclici come l’amitriptilina (30-50 mg/die). Il tremore è scarsamente responsivo ai trattamenti farmacologici. Tentativi terapeutici possono essere fatti con il clonazepam (1,5-20 mg/die), il primidone (50-250 mg/die) o il propranololo (40-200 mg/die).
FOCUS ON DOSAGGIO, MODALITà DI SOMMINISTRAZIONE ED EFFETTI COLLATERALI DEI FARMACI IMMUNOMODULANTI
Sia per il glatiramer acetato che per l’IFN-ß la modalità di somministrazione è iniettiva. In particolare l’IFNß1a viene somministrato per via intramuscolare una volta alla settimana alla dose di 30 µg oppure sottocute tre volte a settimana al dosaggio di 22 o 44 µg, mentre l’IFN-ß1b si somministra sottocute a giorni alterni al dosaggio di 250 µg. Anche il copolimero ha una modalità di somministrazione sottocute che è però quotidiana, con un dosaggio di 20 mg/die. Gli effetti collaterali dell’IFN-ß sono caratterizzati da una sintomatologia simil-influenzale nelle ore successive al trattamento, che è tuttavia ben controllata da farmaci antinfiammatori non steroidei e che tende ad attenuarsi o scomparire del tutto con il passare del tempo. L’INF-ß può inoltre causare alterazioni della funzionalità epatica e tiroidea e una lieve linfopenia agli esami ematochimici, che però sono raramente causa di sospensione del trattamento. Circa il 15% dei pazienti che assumono glatiramer acetato riferisce una transitoria sensazione di costrizione toracica e dispnea dopo l’iniezione, che però non si associa a segni di necrosi miocardica. Entrambi i trattamenti possono dare reazioni locali (arrossamento, indurimento e raramente
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necrosi) nel sito di iniezione. I due nuovi farmaci di prima linea, dimetilfumarato e teriflunomide, sono invece farmaci orali. Teriflunomide va assunto una volta al giorno al dosaggio di 14 mg; tra i principali effetti collaterali del farmaco la tossicità epatica, che rende necessario uno stretto monitoraggio degli indici di funzionalità epatica nei primi sei mesi di terapia, e la teratogenicità. Vista la possibile persistenza del farmaco nel sangue fino a due anni dopo l’ultima assunzione, è necessario effettuare, nelle donne che sospendono il farmaco per desiderio di gravidanza, una procedura di eliminazione con successivo controllo dei livelli ematici del farmaco. Dimetilfumarato va assunto al dosaggio di 240 mg due volte al giorno, a stomaco pieno. Nel 30% circa dei pazienti trattati può comparire, dopo l’assunzione, un flushing al volto e nel 25% disturbi gastrointestinali quali nausea, vomito, dolore addominale e diarrea; tali effetti tendono a ridursi spontaneamente nel tempo. Fingolimod, terapia orale di seconda linea, va assunto una volta al giorno al dosaggio di 0,5 mg. La prescrizione di tale terapia va preceduta da un controllo della sieropositività per VZV e, in caso contrario, eventuale vaccinazione, al fine di prevenire la possibile insorgenza di una prima infezione da VZV in corso di terapia, con il rischio di sviluppare un’encefalite. In considerazione degli effetti bradicardizzanti del farmaco, sono inoltre necessari un controllo elettrocardiografico preliminare e il monitoraggio continuo di sei ore in occasione della prima assunzione del farmaco. Nel monitoraggio della terapia è necessario eseguire periodici controlli di emocromo e funzionalità epatica e una valutazione oculistica per eventuale diagnosi precoce di edema maculare. I farmaci immunosopressori aspecifici che sono attualmente utilizzati nella SM sono l’azatioprina, la ciclofosfamide e il mitoxantrone: • l’azatioprina è un farmaco che agisce inibendo la sintesi degli acidi nucleici nelle cellule a elevato metabolismo come i linfociti. Viene utilizzata al dosaggio di 2-3 mg/kg/die soprattutto nella SMSP, anche se un recente lavoro ne ha dimostrato la non inferiorità rispetto a interferone nel trattamento della SMRR. L’utilizzo del farmaco è a tutt’oggi giustificato dal suo basso costo, dalla possibilità di
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somministrarlo per via orale e dal suo discreto profilo di tollerabilità; • la ciclofosfamide è un farmaco ad azione citotossica e immunosoppressiva, utilizzato nel tentativo di stabilizzare la malattia nelle forme di SM particolarmente aggressive e scarsamente responsive ai trattamenti immunomodulanti. La somministrazione è solitamente per via endovenosa sotto forma di bolo mensile al dosaggio di 800-1000 mg/m². Tuttavia la scarsa maneggevolezza, gli effetti collaterali anche importanti (cistite emorragica, alopecia, aumentato rischio di sviluppo di neoplasie soprattutto a livello vescicale) e la disponibilità di nuovi trattamenti ne fanno un farmaco di seconda scelta anche nelle forme più gravi di SM; • il mitoxantrone (MTX) è un antracenedione con attività antineoplastica che trova indicazione nelle forme di SMSP o SMRR caratterizzate da un elevato numero di ricadute e da un accumulo di disabilità importante fra un attacco e il successivo nonostante l’utilizzo di trattamenti immunomodulanti. La dose è di 12 mg/m² ogni tre mesi, con una durata massima di terapia di 2-3 anni, non superando la dose cumulativa di 140 mg/m². Questo farmaco ha però degli effetti collaterali importanti fra cui cardiotossicità e amenorrea (in circa il 40% dei casi, spesso irreversibile) ed è stato recentemente dimostrato un elevato rischio di sviluppare una forma di leucemia acuta. Per tale motivo l’utilizzo del MTX nella SM si sta negli ultimi anni riducendo, anche grazie alla disponibilità di nuovi trattamenti. Negli ultimi anni l’immunoterapia selettiva si basa sullo studio e l’utilizzo di farmaci, come per esempio gli anticorpi monoclonali, il cui meccanismo d’azione consiste nel bloccare in maniera selettiva l’azione di alcuni sottotipi di cellule che prendono parte al meccanismo autoimmune aberrante responsabile della SM. Il natalizumab è l’anticorpo monoclonale attualmente indicato e maggiormente utilizzato nella terapia delle forme più aggressive di SM. Il suo meccanismo d’azione consiste nel legarsi alla molecola d’adesione 1 integrina espressa sulla superficie dei linfociti T attivati, impedendone il legame alle cellule endoteliali e la loro successiva migrazione attraverso la BEE all’interno del SNC: • il natalizumab viene somministrato mensilmente per via endovenosa al dosaggio di 300 mg. Oltre alla possibile insorgenza, sebbene non frequente, di reazioni allergiche al farmaco, il suo
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utilizzo è limitato, come precedentemente esposto, dal rischio di sviluppo di PML. L’esperienza clinica ha individuato nei pazienti trattati per più di 24 mesi, precedentemente sottoposti a terapie immunosoppressive e con titolo anticorpale anti-JCV elevato, i soggetti a più elevato rischio di sviluppare tale complicanza e nei quali va pertanto valutata la sospensione della terapia; • l’alemtuzumab viene somministrato per via endovenosa al dosaggio di 12 mg al giorno per 5 giorni consecutivi e, dopo un anno, per tre giorni. Frequenti sono le reazioni all’infusione correlate al massivo rilascio di citochine che si manifestano con sintomatologia similinfluenzale, cefalea e rash, ma il principale evento avverso è sicuramente costituito dallo sviluppo di malattie autoimmuni secondarie: tiroiditi autoimmuni nel 36% dei casi e, complicanze ben più preoccupanti, porpora trombotica trombocitopenica e nefropatie autoimmuni nell’1% dei casi. Tali complicanze, che si manifestano a lungo termine, rendono necessario uno stretto follow-up degli esami ematochimici fino a 5 anni di distanza dall’ultima somministrazione del farmaco.
I sintomi urinari causati dalla iperreflessia del muscolo detrusore della vescica possono esser controllati con l’ossibutina (5-15 mg/die) o la propantelina (10-15 mg/die). Al contrario in caso di ritenzione urinaria con un ristagno maggiore ai 200 cc di urina sono indicati i cateterismi intermittenti.
NEUROMIELITE OTTICA (MALATTIA DI DEVIC) KEY POINTS Definizione. Patologia caratterizzata dal ricorrere di attacchi distinti di neurite ottica e mielite. Patogenesi. Nella maggior parte dei casi idiopatica.
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Diagnosi. RM midollo: rigonfiamento captante gadolinio che si estende per tre o più segmenti; RM encefalo: solitamente nella norma; nel liquor assenza delle bande oligoclonali; nel siero presenza di autoanticorpi che si legano al canale proteico acquaporina 4. Clinica. Neurite ottica mono e bilaterale preceduta o seguita da una mielite; gli attacchi possono anche essere ricorrenti e sono di estrema gravità clinica. Terapia. Trattamento della fase acuta: metilprednisolone 1000 mg/die ev per 35 giorni ed eventualmente plasmaferesi. Prevenzione delle ricadute: tentativi con la ciclofosfamide. La neuromielite ottica (NMO) o malattia di Devic è una patologia caratterizzata dal ricorrere di attacchi distinti di neurite ottica e mielite. Tende a essere considerata una variante della SM, anche se i rapporti tra le due malattie non sono a oggi ben definiti. In alcuni pazienti la neuromielite ottica si associa ad altre malattie autoimmuni, mentre in altri l’esordio avviene in concomitanza a un’infezione virale acuta, anche se nella maggior parte dei casi la malattia è idiopatica. Il quadro clinico è caratterizzato dall’interessamento preferenziale dei nervi ottici e del midollo spinale, con la comparsa acuta o subacuta di un marcato ipovisus o addirittura di una cecità interessante uno o entrambi gli occhi, preceduta o seguita variabilmente nell’arco di alcune settimane, mesi o anni, da una mielite trasversa o ascendente. Gli attacchi possono essere isolati o ricorrenti e tendono a lasciare esiti maggiormente invalidanti rispetto a quelli della SM. Le caratteristiche radiologiche che differenziano la NMO dalla SM classica sono la normalità del quadro encefalico alla RM anche dopo anni dall’esordio della malattia, mentre a livello del midollo spinale si può identificare un’area di focale rigonfiamento e necrosi captante gadolinio che si estende per tre o più segmenti. A un esame istopatologico le lesioni sono caratterizzate da necrosi e cavitazione più che da demielinizzazione, con interessamento sia della sostanza bianca che della sostanza grigia, marcato ispessimento dei vasi e mancanza di infiltrato infiammatorio.
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Le bande oligoclonali e l’incremento delle IgG sono assenti nella malattia di Devic, ma nel siero di alcuni pazienti affetti si possono rinvenire autoanticorpi che si legano al canale proteico specifico per il trasporto dell’acqua chiamato acquaporina 4 presente nei pedicelli degli astrociti in corrispondenza della BEE, il cui ruolo nella patogenesi della malattia non è noto. Gli attacchi acuti di NMO vengono trattati con alte dosi di glucocorticoidi come le recidive di SM (VEDI SOPRA) ed empiricamente anche con la plasmaferesi. Farmaci immunosoppressori quali ciclofosfamide, azatioprina e micofenolato mofetile sono utilizzati per prevenire la comparsa di ricadute di malattia con risultati variabili. Il farmaco che attualmente ha dato i migliori risultati in termini di efficacia è l’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab, somministrato inizialmente al dosaggio di 1000 mg, due infusioni a distanza di 15 giorni, o 375 mg/m2 una volta alla settimana per 4 settimane, seguito da terapia di mantenimento con 375 mg/m2 ogni sei mesi o sulla base della ripopolazione linfocitaria.
ENCEFALOMIELITE ACUTA DISSEMINATA KEY POINTS Definizione. Malattia demielinizzante acuta monofasica che coinvolge encefalo e/o midollo spinale. Patogenesi. Forme postvacciniche e postinfettive (fenomeno del mimetismo molecolare) e idiopatiche. Diagnosi. Correlazione anamnestica con vaccino o infezione virale; RM encefalo e midollo spinale: plurime aree di demielinizzazione captanti simultaneamente gadolinio; liquor: iperproteinorrachia, pleiocitosi, presenza di bande oligoclonali. Clinica. Manifestazioni cliniche nell’arco di ore o giorni. Forma encefalica:
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febbre, cefalea, meningismo, stato confusionale, stupor e coma, emiparesi, mioclono, atassia, movimenti coreo-atetosici, crisi epilettiche; forma midollare: paraparesi e disturbi sfinterici. Terapia. Metilprednisolone 1000 mg/die ev per almeno 5 giorni, eventualmente seguito da plasmaferesi o immunoglobuline ev. L’encefalomielite acuta disseminata (ADEM) è una malattia demielinizzante acuta a decorso monofasico che si caratterizza per la presenza di piccoli e numerosi focolai di infiammazione perivenulari e di demielinizzazione, coinvolgenti simultaneamente o separatamente encefalo e midollo spinale. L’ADEM può scatenarsi dopo un’immunizzazione (forma postvaccinica) o dopo un’infezione di solito virale (forma postinfettiva), anche se talvolta tali condizioni non sono riconoscibili nella storia clinica del paziente (forme idiopatiche). La forma postvaccinica è una complicanza della somministrazione del vaccino per il vaiolo, la rabbia, il morbillo, la rosolia, la pertosse, la difterite e l’influenza. La forma postinfettiva si manifesta più frequentemente dopo le malattie esantematiche infantili, in misura maggiore dopo l’infezione da virus del morbillo e da virus della varicella-zoster, più raramente dopo infezioni da virus della rosolia, parotite, influenza, mononucleosi e infezioni da Mycoplasma pneumoniae. Dal punto di vista patogenetico l’ADEM si caratterizza per la risposta autoimmune ad antigeni mielinici, in particolare alla PBM, verosimilmente spiegata anche in questo caso dal fenomeno del mimetismo molecolare (VEDI SOPRA). Nelle forme postinfettive le manifestazioni cliniche compaiono durante la fase di risoluzione dell’esantema mentre nelle forme postvacciniche l’esordio è dopo 2-4 settimane dalla somministrazione del vaccino. Nelle forme più gravi il quadro clinico si manifesta acutamente e si concretizza in poche ore o giorni. Nella forma encefalica predominano febbre, cefalea, meningismo, stato confusionale che può evolvere in stupor e coma. Possono associarsi emiparesi, mioclono, atassia e movimenti coreoatetosici; le crisi epilettiche sono frequenti. Il coinvolgimento del midollo spinale si manifesta con paraparesi e disturbi sfinterici. La correlazione anamnestica con una infezione virale o la
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somministrazione di un vaccino facilita la diagnosi. Il liquor documenta una pleiocitosi (fino a 200 elementi/mmc) e una modesta iperproteinorrachia (50150 mg/dl) e possono essere presenti le BO. La RM encefalo e midollo mostra plurime aree di alterato segnale nella sostanza bianca che captano simultaneamente gadolinio nelle sequenze T1. La diagnosi differenziale si pone con le encefaliti virali e con la SM, ove però è raro il coinvolgimento simultaneo clinico e radiologico di numerose aree di sostanza bianca, la pleiocitosi liquorale è minore e non si hanno solitamente febbre e alterazioni dello stato di coscienza. Inoltre nell’ADEM il decorso è solitamente monofasico e spesso è una patologia pediatrica. Il quadro clinico migliora nell’arco di settimane, ma si possono avere casi di cronicizzazione del quadro ed esiti neurologici anche gravi. Nei bambini si possono avere come esiti un’epilessia secondaria e disturbi del comportamento e dell’apprendimento. La mortalità è elevata e si attesta attorno al 10-25% dei casi. La terapia prevede l’utilizzo di dosi elevate di corticosteroidi per via endovenosa come nelle recidive di SM (VEDI SOPRA) e nei casi più gravi il successivo utilizzo di immunoglobuline per via endovenosa o la plasmaferesi.
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(Suppl 2): S23, 2007.
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14 MALATTIE CEREBROVASCOLARI S. Beretta, M. Brioschi, G.B. Pappadà, C. Ferrarese
KEY POINTS Definizione. L’ictus cerebrale comprende un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate dalla comparsa acuta di sintomi e segni neurologici causati dall’occlusione oppure dalla rottura di una vaso arterioso o venoso cerebrale. Incidenza. Malattie frequenti, con incidenza di 200 000 nuovi casi ogni anno in Italia (1,5-4 casi/1000 abitanti/anno); la prevalenza aumenta sopra i 65 anni di età. Eziologia. Occlusione vascolare per ictus ischemico, attacco ischemico transitorio e trombosi venosa cerebrale; rottura della parete vascolare per emorragia intracerebrale primaria, emorragia intracerebrale associata a malformazioni vascolari, emorragia subaracnoidea da aneurisma cerebrale. Diagnosi.
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L’anamnesi e l’esame obiettivo evidenziano un deficit neurologico a esordio improvviso. Le neuroimmagini (TC, RM, con sequenze angiografiche) mostrano la lesione ischemica o emorragica e la sede di occlusione o di rottura vascolare; a seconda del sottotipo di ictus, utili un ecocolor-Doppler dei tronchi sovra-aortici ed esami strumentali cardiaci (ECG, ECG Holter, ecocardiogramma). Difficoltà diagnostiche. L’attacco ischemico transitorio (TIA) è frequentemente confuso con altre condizioni a genesi non cerebrovascolare; le trombosi venose cerebrali e l’emorragia subaracnoidea di lieve entità possono essere diagnosticate tardivamente se il principale sintomo di presentazione è la cefalea. Terapia della fase acuta. Trombolisi sistemica con rtPA o associata a trombectomia meccanica endovascolare per l’ictus ischemico; terapia anticoagulante per le trombosi venose cerebrali; intervento neurochirurgico associato a terapia intensiva neurorianimatoria per casi selezionati di emorragie intracerebrali. Terapia di prevenzione secondaria. Terapia antiaggregante, statine e antipertensivi per ictus ischemico o TIA; terapia anticoagulante solo se la genesi dell’ictus ischemico o TIA è cardioembolica; endoarterectomia o stenting carotideo per stenosi carotidee sintomatiche; terapia anticoagulante per trombosi venose cerebrali; terapia chirurgica o endovascolare per malformazioni vascolari o aneurismi cerebrali.
INTRODUZIONE ED EPIDEMIOLOGIA Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’ictus cerebrale (in inglese stroke) è “l’improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale e/o globale delle funzioni cerebrali, di durata superiore alle 24 ore o a esito infausto, non attribuibile ad altra causa apparente se non a una vasculopatia cerebrale”. La stessa definizione, nel caso il disturbo abbia una durata inferiore alle 24 ore, identifica un attacco ischemico transitorio (TIA, transient ischemic attak; VEDI OLTRE).
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L’ictus cerebrale è in assoluto la malattia neurologica più frequente. La sua gravità clinica varia notevolmente e si passa da forme con disturbi completamente reversibili a forme con alto tasso di mortalità o gravi esiti neurologici permanenti. L’ictus è un’emergenza medica e deve essere prontamente diagnosticato e trattato in un ospedale per l’elevato rischio di disabilità e di morte che esso comporta. La perdita improvvisa delle funzioni cerebrali può essere conseguente a un evento ischemico o a un’emorragia. Nel primo caso si parla di ictus ischemico, nel secondo di ictus emorragico. L’ischemia può essere causata da una trombosi a carico di un’arteria cerebrale, da un evento embolico, da una trombosi venosa o da un’ipoperfusione sistemica. L’emorragia, invece, può essere localizzata nel parenchima (emorragia intraparenchimale) o negli spazi tra il rivestimento piale dell’encefalo e le altre meningi (emorragia subaracnoidea). L’ictus cerebrale rappresenta attualmente la seconda causa di morte a livello mondiale e la terza causa di morte nei Paesi industrializzati, dopo le malattie cardiovascolari e i tumori. Entro l’anno 2020 la mortalità per ictus sarà duplicata a causa dell’aumento dei soggetti anziani e della persistenza dell’abitudine al fumo di sigaretta. L’ictus rappresenta anche la prima causa di disabilità nell’anziano con un rilevante impatto individuale, familiare e sociosanitario. L’incidenza dell’ictus, come la sua prevalenza, aumenta esponenzialmente con l’aumentare dell’età, raggiungendo il massimo negli ultraottantacinquenni. Il tasso grezzo di incidenza, sulla popolazione globale di tutte le età, varia da 1,5 a 4,0 per 1000 per anno. L’incidenza nei soggetti di età inferiore ai 45 anni è di circa 10 per 100 000 abitanti/anno. L’incidenza nella popolazione di età compresa tra 65 e 85 anni è pari a circa 8,5 per 1000 per anno. Negli anziani di oltre 85 anni l’incidenza è di circa il 20-35 per 1000 per anno, con alta preponderanza di ictus ischemici e prognosi peggiore in termini di mortalità rispetto ai soggetti più giovani. La prevalenza aumenta in relazione all’età, raggiungendo valori di circa 57 per 100 abitanti nei soggetti di età superiore a 65 anni. I dati relativi alla mortalità risentono molto del livello assistenziale, dell’affidabilità della certificazione di morte, della struttura della popolazione studiata. In tutti gli studi, comunque, la prevalenza e la mortalità aumentano
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al crescere dell’età. Ogni anno si calcolano circa 200 000 nuovi casi di ictus cerebrale in Italia, di cui una minoranza (circa il 20%) decede nel primo mese successivo all’evento. La mortalità precoce a 30 giorni è più alta nelle emorragie subaracnoidee (35%) e in quelle intraparenchimali (48%) rispetto agli ictus ischemici (20%). Nel 35% dei pazienti colpiti da ictus, globalmente considerati, residuano una severa disabilità e una marcata limitazione nelle attività della vita quotidiana. Di tutti i casi incidenti, per l’80% dei casi si tratta di un primo evento, mentre per il 20% si tratta di una recidiva di ictus cerebrale. Con lo sviluppo delle stroke unit e con il miglioramento generale dell’assistenza ai soggetti con patologie acute e gravi come l’ictus, il tasso di mortalità per ictus è in progressivo calo dal 1970 in avanti. Sono in controtendenza a questo trend favorevole i Paesi in via di sviluppo in cui, verosimilmente, il livello assistenziale non è cambiato negli ultimi decenni. Questi dati sembrano indicare la maggiore importanza della disponibilità di risorse economiche e sanitarie per fronteggiare la fase acuta dell’ictus rispetto alla cura e al mantenimento dei pazienti con patologia cronica stabilizzata. Per quanto riguarda la frequenza e la mortalità delle varie tipologie di ictus, i dati italiani più affidabili sono riassunti nella TABELLA 14.1. Per quanto riguarda il sesso, mentre sia gli infarti ischemici cerebrali che le emorragie intraparenchimali sono più frequenti nei maschi, l’emorragia subaracnoidea prevale nelle donne. Le forme trombotiche riguardanti il circolo venoso sono relativamente rare, rappresentando circa lo 0,5-1,5% di tutti gli eventi cerebrovascolari, a seconda degli studi disponibili. La trombosi venosa cerebrale è una condizione più frequente nelle donne, soprattutto in età giovanile, associandosi spesso a gravidanza, puerperio, coagulopatie e uso di contraccettivi orali. Le indicazioni riportate in questo capitolo, riguardanti la diagnosi e il trattamento delle malattie cerebrovascolari, sono in accordo con le linee guida italiane SPREAD (www.iso-spread.it). TABELLA 14.1 Tipologie di ictus cerebrale con relativa frequenza e mortalità
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ICTUS ISCHEMICO Fisiopatologia L’evento comune a tutti gli ictus ischemici è la transitoria o permanente riduzione del flusso sanguigno cerebrale conseguente all’occlusione di un’arteria cerebrale. Lo sviluppo della lesione ischemica è direttamente dipendente dalla severità della riduzione del flusso ematico e dalla durata di tale riduzione. Il danno cerebrale che consegue l’ischemia si sviluppa da una complessa serie di eventi fisiopatologici che evolvono nel tempo e nello spazio. A seguito di una riduzione del flusso ematico anche l’apporto dei substrati energetici diminuisce improvvisamente. Il tessuto non è più in grado di produrre abbastanza energia per mantenere il gradiente ionico e questo porterà a sua volta alla perdita del potenziale di membrana. Neuroni e glia andranno quindi incontro a depolarizzazione con attivazione dei canali del calcio voltaggio-dipendenti presinaptici e somatodendritici con rilascio di aminoacidi eccitatori nello spazio extracellulare. Anche il re-uptake degli aminoacidi eccitatori è un processo energia-dipendente e verrà anch’esso compromesso durante l’ischemia; si avrà quindi un ulteriore accumulo di glutammato extracellulare con iperstimolazione dei suoi diversi recettori. In particolare, l’attivazione dei recettori NMDA contribuisce all’aumento del calcio citoplasmatico, mentre l’attivazione dei recettori AMPA/kainato contribuisce all’ingresso di Na+ e Ca++ nei neuroni attraverso canali ionici, con conseguente squilibrio
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elettrolitico intracellulare e sviluppo di un edema citotossico. Un altro possibile effetto dell’incremento dei livelli di Ca++ intracellulare è legato alla sua funzione di secondo messaggero, con attivazione di enzimi proteolitici in grado di degradare sia le proteine citoscheletriche che le proteine della matrice extracellulare. Le alterazioni emodinamiche, metaboliche e ioniche non sono distribuite omogeneamente nel territorio ischemico. Se consideriamo l’area ipoperfusa possiamo individuare una zona centrale, che prende il nome di core ischemico; in questa zona il flusso cerebrale è inferiore al 20%. Già alcuni minuti dopo l’inizio dell’ischemia, in questa zona si sviluppa una depolarizzazione anossica permanente; le cellule del core ischemico vengono rapidamente distrutte da processi lipolitici e proteolitici. Tra il core, danneggiato letalmente, e il tessuto normale vi è la cosiddetta area di penombra ischemica, una regione che presenta un flusso ematico e un metabolismo energetico parzialmente mantenuto. Dopo un certo lasso di tempo e in assenza di riperfusione, l’area di penombra progredisce a tessuto infartuato a causa del protrarsi di meccanismi di eccitotossicità o di altri fenomeni secondari, quali le depressioni periinfartuali, lo stress ossidativo, la disfunzione mitocondriale, l’infiammazione postischemica e l’apoptosi. L’obiettivo principale della terapia trombolitica e, quando disponibile, neuroprotettiva, è il salvataggio dell’area di penombra ischemica.
Sottotipi di ictus ed eziologia L’ictus ischemico (acute ischemic stroke in lingua inglese) è definito come un disturbo cerebrovascolare acuto causato dall’occlusione improvvisa di un’arteria cerebrale con conseguente ischemia del territorio cerebrale da essa irrorato. Uno schema della circolazione arteriosa cerebrale è riportato nella FIGURA 14.1. L’ictus ischemico è una malattia molto eterogenea, la cui classificazione può essere definita in base alla gravità globale dei sintomi neurologici, all’eziologia oppure alla sede della lesione ischemica. Un primo semplice criterio di classificazione è la suddivisione, nell’ambito dell’ictus ischemico, in ictus minore (minor stroke) e ictus maggiore (major stroke). Il principale difetto di tale suddivisione risiede nel fatto che separa gli ictus “lievi” da quelli “gravi” indipendentemente dalla loro eziologia e dalla loro sede. Occorre peraltro considerare che si tratta di
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una suddivisione molto pratica, soprattutto al fine di separare i soggetti che sopravvivono a un ictus con esiti nulli o comunque non gravemente invalidanti, rispetto a quelli che rimangono invece disabili. Un secondo criterio di classificazione è in base alla diagnosi di causa. La corretta identificazione della causa di un ictus ischemico (e di un TIA) ha un significato importante sia per la prognosi che per la terapia e pertanto ogni sforzo deve essere impiegato in tal senso. Tuttavia, la diagnosi di causa è sempre probabilistica e in alcuni casi possono essere presenti più di una causa possibile. Inoltre è importante sottolineare che in circa il 20-30% dei casi di ictus ischemico (soprattutto nei pazienti più giovani) non è possibile identificare una causa probabile, nemmeno dopo aver completato tutti gli accertamenti diagnostici. Le cause note di ictus ischemico, riunite in tre gruppi in base alla loro frequenza, sono riportate nella TABELLA 14.2.
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FIGURA 14.1 Circolazione cerebrale intracranica ed extracranica. Fonte: da Hauser S.L. et al., Harrison Neurologia clinica, Milano: McGraw-Hill, 2007. Nella pratica clinica e nella ricerca sull’ictus ischemico, viene spesso utilizzata una classificazione semplificata dei sottotipi di ictus ischemico (chiamata classificazione TOAST dall’acronimo dello studio clinico Trial of Org 10172 in Acute Stroke Treatment), in rapporto al loro meccanismo eziopatogenetico, come mostrato nella TABELLA 14.3.
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L’aterosclerosi rappresenta una delle cause più comuni di ictus ischemico, soprattutto nell’età avanzata, e condivide la stessa patogenesi e i fattori di rischio della malattia aterosclerotica in altre sedi (cuore, rene, arti inferiori). Le manifestazioni dell’aterosclerosi a livello delle arterie cerebrali si possono dividere in due processi patogenetici, ovvero la formazione di placche aterosclerotiche delle grandi arterie cerebrali e la lipoialinosi delle piccole arterie cerebrali. Le placche aterosclerotiche si localizzano principalmente a livello dell’origine dell’arteria carotide interna, all’origine dell’arteria vertebrale, nella parte terminale intracranica delle arterie carotidi e vertebrali, nell’arteria basilare e all’origine dell’arteria cerebrale media. Le placche aterosclerotiche, in particolare se sono “instabili” (ovvero a prevalente contenuto lipidico, con la presenza di emorragie intraplacca, oppure con una sottile capsula fibrosa) e in misura proporzionale alla percentuale di stenosi, possono andare incontro a rottura dando origine a un processo trombotico locale oppure a un embolo artero-arterioso che occlude un’arteria cerebrale più a valle. TABELLA 14.2 Elenco delle cause note di ictus ischemico Cause più comuni • Vasculopatia aterosclerotica dei grandi vasi cervicali e cerebrali • Malattia dei piccoli vasi cerebrali (ictus lacunare) • Cardioembolia (fibrillazione atriale, protesi valvolari cardiache, cardiomiopatia dilatativa, pervietà del forame ovale, placche dell’arco aortico, trombo stratificato nel ventricolo sinistro postinfarto miocardico, sindrome bradi-tachi, mixoma atriale) Cause meno comuni • Dissezione arteriosa carotidea, vertebrale, basilare (a genesi traumatica oppure non traumatica) • Patologia ematologica (deficit di proteina C, deficit di proteina S, deficit di antitrombina III, resistenza alla proteina C attivata con mutazione del fattore V di Leiden, mutazione della protrombina, aumento del fattore VIII, iperomocisteinemia con mutazione del gene MTHFR, sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi, porpora trombotica trombocitopenica, coagulazione intravascolare disseminata, malattie mieloproliferative)
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• Ictus emicranico • Contraccettivi orali • Sostanze da abuso (cocaina, crack, amfetamine, marijuana ecc.) • Embolia grassa o gassosa Cause rare • Vasculiti (arterite a cellule giganti, arterite di Takayasu, lupus eritematoso sistemico, sindrome di Sneddon, poliarterite nodosa, sindrome di Churg-Strauss, granulomatosi di Wegener, artrite reumatoide, sindrome di Sjögren, malattia di Behçet, policondrite recidivante, sclerodermia, sarcoidosi, arterite isolata del sistema nervoso centrale, malattia di Bürger) • Vasculopatie non infiammatorie (sindrome di Ehlers-Danlos, sindrome di Marfan, displasia fibromuscolare, malattia di Moya-Moya) • Malattie genetiche (CADASIL [Cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leucoencephalopathy], malattia di Fabry, anemia falciforme, MELAS [Mithochondrial myopathy, encephalopathy, lactic acidosis, and stroke], omocistinuria) TABELLA 14.3 Classificazione TOAST su base fisiopatologica dei sottotipi dell’ictus ischemico • Aterosclerosi dei vasi di grosso calibro • Cardioembolia (possibile/probabile) • Occlusione dei piccoli vasi • Ictus da cause diverse • Ictus da cause non determinate La lipoialinosi delle piccole arterie cerebrali, fortemente associata all’ipertensione arteriosa e al diabete mellito, è caratterizzata dalla progressiva degenerazione e ispessimento della parete vasale, associata a una maggiore tortuosità del vaso, che può arrivare fino a un’occlusione completa del lume oppure alla formazione di microaneurismi (questi ultimi responsabili delle emorragie cerebrali su base ipertensiva; VEDI OLTRE). Un ictus dei piccoli vasi cerebrali produce la cosiddetta “lacuna ischemica”,
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ovvero una piccola lesione solitamente nella sostanza bianca cerebrale, nei gangli della base o nel ponte, che può esprimersi con una “sindrome lacunare” (VEDI OLTRE) oppure anche essere clinicamente silente. La dissezione arteriosa è una causa significativa di ictus nella popolazione giovanile (VEDI FOCUS ON: ICTUS IN ETà GIOVANILE, PAG. 257) e può interessare le arterie carotidi, le arterie vertebrali oppure l’arteria basilare. Per dissezione arteriosa si intende la formazione di uno “strappo” nella tonaca intima della parete arteriosa, con progressiva entrata di sangue che separa la tonaca intima dalla tonaca media, dividendo il lume del vaso in due, un “vero lume” in cui persiste un flusso ematico ma che generalmente è molto stenotico, e un “falso lume” che si può organizzare in un “ematoma intramurale”. La stenosi dell’arteria colpita e la formazione di una trombosi a valle sono i meccanismi fisiopatologici dell’ictus ischemico associato a dissezione arteriosa. La causa cardioembolica di ictus è molto frequente e consiste nella formazione di un coagulo nell’atrio sinistro o nel ventricolo sinistro che viene improvvisamente trasportato dal flusso ematico a occludere un’arteria cerebrale. Tra le cause più frequenti di cardioembolismo ci sono la fibrillazione atriale, le protesi valvolari cardiache e la cardiomiopatia dilatativa; cause più rare sono la pervietà del forame ovale (che rappresenta una significativa causa di ictus ischemico nel giovane) (VEDI FOCUS ON: ICTUS IN ETÀ GIOVANILE, PAG. 257), le placche dell’arco aortico, un trombo stratificato nel ventricolo sinistro postinfarto miocardico, la formazione di trombi in auricola sinistra in corso di aritmie atriali quali la sindrome braditachi, il mixoma atriale. Tra i disturbi ematologici che possono causare un ictus ischemico ci sono gli stati di ipercoagulabilità (deficit di proteina C, deficit di proteina S, deficit di antitrombina III, resistenza alla proteina C attivata con mutazione del fattore V di Leiden, mutazione della protrombina, aumento del fattore VIII, iperomocisteinemia con mutazione del gene MTHFR), la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (lupus anticoagulante, anticardiolipina), la porpora trombotica trombocitopenica, la coagulazione intravascolare disseminata, le malattie mieloproliferative (trombocitemia essenziale, policitemia vera). Tra le sostanze da abuso, la cocaina e il suo derivato crack possono causare un ictus ischemico o anche emorragico dovuto principalmente alle crisi ipertensive associate all’iperstimolazione simpatica. Il meccanismo principale implicato nell’ictus ischemico associato alle amfetamine (e al loro
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derivato ecstasy) e alla marijuana sembra invece un vasospasmo arterioso transitorio di durata variabile. Infine l’ictus cerebrale, sia ischemico che emorragico, può complicare raramente il periodo della gravidanza e il postpartum. Nella TABELLA 14.4 vengono riassunti i maggiori fattori di rischio coinvolti nei più comuni tipi di ictus ischemico.
NON DIMENTICARE CHE… Il rischio di ictus ischemico ed emorragico è aumentato nelle 6 settimane successive al parto, ma non durante la gravidanza (tranne che le trombosi venose cerebrali, per le quali sia la gravidanza che il puerperio sono ritenuti periodi a rischio). La frequenza di ictus è di circa 26/100 000 gravidanze. Fra i fattori di rischio per ictus un particolare ruolo assumono l’età, l’obesità, il fumo, l’ipertensione e il taglio cesareo. Altri fattori di rischio sono la preeclampsia e l’eclampsia. Le giovani con storia di ictus ischemico hanno un basso rischio di recidiva durante una successiva gravidanza e ancora è il puerperio il periodo a maggior rischio. Una storia di ictus non viene dunque considerata una controindicazione assoluta a una successiva gravidanza. Un fattore di rischio che appare influenzare la prognosi in una successiva gravidanza sembra essere la coesistenza di alterazioni trombofiliche anche se viene eseguita una corretta profilassi antitrombotica. Un’emorragia cerebrale (subaracnoidea oppure intraparenchimale) nel periodo di gravidanza è un evento raro con un’incidenza dello 0,05% di tutte le gravidanze, tuttavia è responsabile del 5-12% delle morti materne. La causa più frequente di emorragia cerebrale in gravidanza è l’eclampsia. I sintomi neurologici di emorragia cerebrale in eclampsia sono: cefalea violenta, alterazioni dello stato di vigilanza e coscienza, crisi epilettiche. Esclusa l’eclampsia, la causa è dovuta alla rottura di un aneurisma in circa il 70% dei casi e di una MAV nel restante 30%. Nelle ultime fasi della gestazione si registra un incremento delle possibilità di rottura sia di un aneurisma che di una MAV.
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La TC può essere effettuata previa adozione di sistemi di schermatura del feto. La RM non presenta pericolo di esposizione del feto a radiazioni ionizzanti, tuttavia necessitano maggiori dati sull’assenza di teratogenicità dei mezzi di contrasto paramagnetici. L’angiografia può essere effettuata con apposita schermatura del feto e gli attuali mezzi di contrasto iodati presentano un rischio assai basso per il feto; prima, durante e dopo l’esame si deve provvedere a un’adeguata idratazione della madre. Gli antipertensivi vanno usati con cautela, i diuretici osmotici vanno evitati poiché possono causare deidratazione della madre e del feto, i calcioantagonisti hanno un potenziale effetto teratogenico. Il trattamento di un aneurisma rotto in gravidanza consiste nell’esclusione chirurgica o endovascolare prima possibile. Il trattamento di una MAV che non presenta particolari problemi di risanguinamento precoce può essere differito. In caso di paziente gravida che ha presentato un’emorragia da rottura di MAV, il parto per via naturale non presenta, secondo molti autori, maggior rischio di recidiva dell’emorragia rispetto al cesareo.
FOCUS ON ICTUS IN ETà GIOVANILE La definizione di ictus ischemico giovanile include pazienti con età compresa fra i 18 e i 50 anni. Le differenze rispetto alla popolazione più anziana sono sia in termini di causa dell’ictus ischemico sia in termini di prognosi. In età giovanile il tasso di fatalità a 30 giorni è inferiore a quello riscontabile nei soggetti di età superiore, pari a circa il 10%. Anche la prognosi funzionale a lungo termine è generalmente più favorevole, considerato che circa il 50% dei pazienti è in grado di riprendere un’attività lavorativa, mentre in circa il 20% dei casi residua una
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significativa disabilità. Nell’ictus giovanile, la classificazione è sostanzialmente assimilabile a quella delle fasce di età più avanzate, pur con significative differenze. La malattia aterosclerotica ha ruolo minore, se non per i pazienti di età tra i 45 e i 50 anni. Una causa comune in questa fascia di età di stenosi/occlusione dei grandi vasi è la dissezione arteriosa, che può colpire più frequentemente le arterie carotidi, e più raramente le arterie vertebrali e l’arteria basilare. La più comune causa cardioembolica in età giovanile è la pervietà del forame ovale pervio, in particolare se di grandi dimensioni e associato a un setto interatriale aneurismatico. Le cosiddette “cause rare” sono in realtà più frequenti nei pazienti in età giovanile, in particolare i disturbi ematologici, le vasculopatie infiammatorie e le malattie genetiche. Nonostante la ricerca estensiva di una causa, questa non viene riconosciuta nel 25-30% dei pazienti con ictus ischemico giovanile con gli attuali mezzi diagnostici.
TABELLA 14.4 Fattori di rischio nei più comuni tipi di ictus ischemico Ictus aterotrombotico • Ipertensione arteriosa • Ipercolesterolemia • Diabete • Fumo Ictus cardioembolico • Fibrillazione atriale • Protesi valvolare cardiaca • Cardiopatia ischemica • Scompenso cardiaco Ictus lacunare • Ipertensione arteriosa • Diabete
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Caratteristiche cliniche Le caratteristiche cliniche di un ictus ischemico sono molto variabili sia per sintomi e segni sia per gravità, essendo una diretta espressione della sede della lesione ischemica e della sua estensione. La conoscenza dell’anatomia funzionale del cervello è quindi indispensabile per un ragionamento clinico di fronte a un paziente con ictus (così come con molte altre patologie neurologiche). Per esempio, una o più lacune ischemiche potrebbero non avere alcun correlato clinico e quindi essere clinicamente “asintomatiche” se vengono coinvolti solo pochi millimetri di sostanza bianca in un centro semiovale. Viceversa, se una lacuna ischemica va a colpire la capsula interna, oppure il tegmento pontino, potrebbe dare origine a significativi sintomi e segni neurologici. Due “schemi mentali” di inquadramento clinico dell’ictus ischemico possono essere utili nella pratica clinica. Tuttavia è bene ricordare che entrambi sono delle semplificazioni, utili a scopo didattico e di ricerca, e di fronte al paziente bisogna fare riferimento alla conoscenza della neurologia nel suo insieme. Il primo schema è basato sulle stroke syndromes utilizzate nello studio OCSP (Oxfordshire Community Stroke Project), suddivise in sindromi lacunari, del circolo posteriore, complete del circolo anteriore e parziali del circolo anteriore, come riportato nella TABELLA 14.5. Il secondo schema fa invece riferimento ai territori arteriosi cerebrali e suddivide i sintomi e segni sulla base delle principali arterie coinvolte, come mostrato nella TABELLA 14.6.
Diagnosi L’elemento anamnestico più importante per una diagnosi di ictus ischemico è l’esordio improvviso dei sintomi neurologici, e questo deve essere esplicitamente chiesto al paziente o ai familiari. È molto importante inoltre accertarsi dell’ora esatta di esordio dei sintomi, essendo la terapia dell’ictus ischemico fortemente tempodipendente (VEDI OLTRE). Infatti le manifestazioni cliniche di un ictus ischemico sono molto variabili e dipendono esclusivamente dalla sede e dall’estensione della lesione ischemica, non essendo quindi specifiche per una eziologia vascolare del disturbo.
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I principali disturbi neurologici che, sulla sola base dei sintomi e segni, possono mimare un ictus ischemico sono: • una emorragia cerebrale, la quale è indistinguibile dal punto di vista clinico da un ictus ischemico e necessita di una TC encefalo urgente per discriminare le due forme; • un episodio che va incontro a una spontanea rapida risoluzione, ovvero un attacco ischemico transitorio (TIA) o un disturbo neurologico in diagnosi differenziale con un TIA (VEDI OLTRE). • una “lesione occupante spazio” (un tumore cerebrale oppure un ematoma sottodurale cronico), oppure una malattia demielinizzante, le quali si distinguono da un ictus per una insorgenza subacuta o progressiva dei sintomi; • una vertigine periferica, spesso difficilmente distinguibile solo sulla base dei sintomi da una vertigine causata da una lesione ischemica emisferica cerebellare o del tronco encefalico; • l’emiparesi ipoglicemica, che è un evento raro caratterizzato da segni motori focali associati a una significativa compromissione dello stato di coscienza. I sintomi in genere regrediscono prontamente con la somministrazione endovenosa di soluzione glucosata; • una conversione isterica, che è un evento raro ed è una diagnosi di esclusione, dopo aver dimostrato l’assenza di lesioni cerebrali alla RM encefalo (che è più sensibile della TC per ricercare lesioni di piccole dimensioni) e l’assenza di altre diagnosi alternative, a fronte della persistenza dei sintomi. TABELLA 14.5 Stroke syndromes secondo la classificazione OCSP
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TABELLA 14.6 Segni e sintomi principali riferibili ai diversi territori arteriosi cerebrali
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L’ictus ischemico è un’emergenza medica. L’importanza dell’inquadramento clinico precoce non è esclusivamente connessa alla possibilità di intraprendere una terapia trombolitica o endovascolare (e neuroprotettiva, quando sarà disponibile), ma anche alla necessità di attuare una prevenzione precoce di un eventuale deterioramento del quadro neurologico, e delle complicanze neurologiche e internistiche. Tutte le procedure cliniche devono essere effettuate il più rapidamente possibile per consentire la gestione ottimale del paziente o, quando possibile, il trattamento trombolitico entro i limiti temporali che identificano la finestra terapeutica (VEDI OLTRE). Le procedure cliniche devono essere effettuate da neurologi specializzati nella gestione dell’ictus o, in assenza di questi, da personale medico addestrato. La diagnostica strumentale nella valutazione dell’ictus in fase acuta riveste un ruolo fondamentale per un corretto inquadramento sia nosografico che terapeutico.
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La TC encefalo in Pronto Soccorso rappresenta la metodica di riferimento per la diagnosi di ictus ischemico perché facilmente eseguibile e ampiamente disponibile. La lesione ischemica cerebrale inizia a essere visibile alla TC encefalo solo dopo 12-24 ore dall’esordio dei sintomi, mentre lo sviluppo dell’edema citotossico appare chiaramente riconoscibile a 48-96 ore. Il mezzo di contrasto non è indicato in fase acuta, a meno che esistano dei dubbi di diagnosi differenziale, per esempio nei confronti di un processo flogistico o di un tumore. L’utilizzo della TC encefalo in urgenza, quindi, ha lo scopo di escludere l’evenienza di una emorragia o di una lesione occupante spazio, confermando indirettamente il sospetto clinico di ictus ischemico. È tuttavia necessario ripetere una seconda TC encefalo (oppure una RM encefalo, che risulta più sensibile della TC nel caso di lesioni ischemiche di piccole dimensioni oppure situate in fossa cranica posteriore) a distanza di 48-96 ore per poter visualizzare la sede e l’estensione della lesione ischemica cerebrale e accertare definitivamente la diagnosi, come mostrato nella Figura 14.2a-b.
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FIGURA 14.2 Metodiche diagnostiche nell’ictus ischemico. In alto: immagini TC encefalo dello stesso paziente con ictus ischemico acuto. (A) L’immagine eseguita a un’ora dall’esordio dai sintomi non evidenzia lesioni. (B) L’esame ripetuto dopo tre giorni mostra un’estesa lesione ischemica nel territorio dell’arteria cerebrale media di sinistra, con presenza di edema cerebrale, compressione del sistema ventricolare e modesto shift della linea mediana. In basso: (C)
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immagine angio-TC del circolo di Willis, che dimostra l’occlusione dell’arteria cerebrale media di sinistra all’origine; (D) immagine angio-TC dei vasi extracranici che mostra una stenosi carotidea emodinamicamente significativa. In urgenza, per casi selezionati, è possibile effettuare un’angio-TC encefalo per documentare il sito di occlusione arteriosa, e una TC perfusionale, che permette di visualizzare le aree cerebrali ipoperfuse (VEDI FIG. 14.2C-D). Entrambe queste metodiche prevedono l’uso di significative quantità di mezzo di contrasto iodato e di radiazioni ionizzanti e il loro uso in urgenza è giustificato nei pazienti candidabili a una terapia acuta di ricanalizzazione con rtPA e.v. e/o trombectomia meccanica endovascolare. L’utilizzo in urgenza della RM encefalo con sequenze di diffusione (DWI; indicatore precoce di danno tissutale) e di perfusione (PWI; indicatore delle aree cerebrali ipoperfuse) è attualmente limitato all’ambito della ricerca, ma appare promettente per identificare le aree di penombra ischemica, che mostrano una discrepanza (mismatch) tra aree che risultano ipoperfuse (alle sequenze PWI) in assenza di danno tissutale (negative alle sequenze DWI). Per quanto riguarda la diagnosi di causa, gli accertamenti diagnostici strumentali utili sono: • l’ecocolor-Doppler dei tronchi sovraortici (TSA): rappresenta una metodica semplice, a basso costo, riproducibile, non invasiva, in grado di documentare con sufficiente accuratezza in pazienti con ictus anche acuto una patologia stenosante od occlusiva a carico dell’arteria carotide interna e delle arterie vertebrali nel tratto extracranico. Un esame eco-Doppler precoce può identificare un’eventuale dissecazione della carotide o dell’arteria vertebrale; • l’angio-RM encefalo (senza gadolinio per lo studio dei vasi intracranici, con gadolinio per lo studio dei tronchi sopraortici) e l’angio-TC encefalo (con infusione rapida di mezzo di contrasto iodato): rappresentano le metodiche radiologiche utilizzate per lo studio dei tronchi sopraortici e delle arterie intracraniche, anche se presentano ancora alcune limitazioni rispetto all’angiografia tradizionale; • l’ecocolor-Doppler transcranico: è in grado di valutare, con un grado di affidabilità molto operatore-dipendente, i parametri di flusso delle principali arterie intracraniche. Questo esame viene anche utilizzato,
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tramite l’iniezione di microbolle a livello di una vena periferica, per dimostrare la presenza della pervietà del forame ovale, che viene confermata se viene registrato il passaggio di microbolle a livello del circolo cerebrale attraverso lo shunt cardiaco destro-sinistro; • l’angiografia cerebrale tradizionale: viene eseguita tramite inserimento di un catetere in arteria femorale. Non è, per quanto rari, priva di rischi, stimabili a circa l’1% (allergia al mezzo di contrasto, emorragia in sede di puntura femorale, lesione del nervo femorale, formazione di pseudoaneurisma o trombosi dell’arteria femorale, embolia cerebrale piastrino-fibrinica oppure gassosa intraprocedurale) ed è attuabile in strutture altamente qualificate. Viene attualmente eseguita solo se le immagini Doppler e angio-TC/angio-RM danno dei risultati non soddisfacenti oppure in previsione di procedure interventistiche chirurgiche o endovascolari. L’angiografia cerebrale resta attualmente il gold standard per la visualizzazione della circolazione cerebrale, in quanto è l’unica in grado di mostrare contemporaneamente il circolo arterioso, il circolo venoso e i circoli collaterali di compenso, oltre a delineare con precisione le lesioni vascolari quali le placche aterosclerotiche, gli aneurismi e le malformazioni arterovenose; • gli accertamenti cardiologici con grado di approfondimento variabile in base al rischio di una genesi cardioembolica dell’ictus ischemico. In tutti i pazienti è indicato un elettrocardiogramma. Nei pazienti con sospetto cardioembolismo e nei pazienti con un deficit di grado moderato o severo, è indicato un monitoraggio continuo dell’ECG tramite monitor per almeno le prime 48 ore. In pazienti selezionati, è utile un ecocardiogramma transtoracico, un ECG Holter oppure un ecocardiogramma transesofageo (quest’ultimo per la ricerca del forame ovale pervio associato ad aneurisma del setto interatriale, trombi in auricola sinistra, placche dell’arco aortico).
Trattamento Trattamento specifico della fase acuta: trombolisi sistemica, terapie endovascolari ed endoarterectomia in urgenza La prima e più studiata terapia che si è dimostrata efficace nella fase acuta dell’ictus ischemico è la somministrazione endovenosa del farmaco
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trombolitico alteplase, un attivatore tissutale del plasminogeno (rtPA e.v.), entro 4.5 ore dall’esordio dei sintomi, in assenza di controindicazioni (VEDI FOCUS ON: CONTROINDICAZIONI ALLA SOMMINISTRAZIONE DI RTPA EV, PAG. 262), alla dose di 0,9 mg/kg fino a un massimo di 90 mg (10% infuso in bolo, il rimanente in 60 minuti). A partire dalla seconda metà degli anni ‘90 si sono accumulati dati su oltre 130 000 pazienti trattati, permettendo di valutare sia l’efficacia che i rischi di tale terapia (per un approfondimento, si rinvia al sito www.sitsinternational.org nella sezione “SITS publications”). La terapia con rtPA e.v., secondo i criteri sopraelencati, riduce la mortalità precoce (circa il 10% a 3 mesi) e migliora l’indipendenza funzionale (circa il 50% dei pazienti è privo di disabilità significativa a 3 mesi). Il numero di pazienti che è necessario trattare per avere un outcome favorevole (NNT, number needed to treat) per l’rtPA nell’ictus ischemico è uguale a 3, indice di una terapia molto efficace. D’altro canto, il principale e molto temuto rischio associato alla terapia con rtPA è l’emorragia intracranica, che si sviluppa in circa il 5-7% dei pazienti trattati ed è di gravità variabile da un moderato infarcimento emorragico della lesione ischemica (con associato peggioramento all’esame neurologico) fino a una estesa emorragia con esito letale (quest’ultima eventualità si verifica in circa l’1% dei casi). I fattori di rischio per lo sviluppo di una emorragia intracranica associata a rtPA sono una violazione del protocollo di inclusione, una estesa lesione ischemica, un trattamento tardivo, ipertensione non controllata, elevati valori glicemici.
FOCUS ON CONTROINDICAZIONI ALLA SOMMINISTRAZIONE DI RTPA EV Controindicazioni generali sulla base dell’anamnesi: • diatesi emorragica nota; • pazienti in terapia anticoagulante orale con INR >1.7; • sanguinamento in atto o recente grave;
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• storia di emorragia intracranica; • emorragia subaracnoidea sospetta (anche se TC normale); • storia di patologie del sistema nervoso centrale (neoplasia, aneurisma, intervento neurochirurgico); • retinopatia emorragica, malformazione artero-venosa; • recenti (10 mm alla TC con compressione del peduncolo cerebrale; • volume dell’area infartuata: 10 all’esordio con successivo deterioramento clinico; • coinvolgimento del tronco assente alla TC; • distorsione del IV ventricolo. Nel caso si riscontri dilatazione ventricolare, considerare come possibilità di trattamento la sola derivazione ventricolare esterna. Va comunque sottolineato che, allo stato attuale, l’efficacia dell’emicraniectomia decompressiva rimane ancora dibattuta.
Tra le complicanze internistiche dell’ictus ischemico, le più frequenti sono le infezioni, l’insufficienza respiratoria, le aritmie cardiache e le trombosi venose profonde (TVP). Le infezioni polmonari e delle vie urinarie sono molto frequenti nei pazienti con ictus, spesso allettati, con catetere vescicale e talvolta con problemi di disfagia e scarso riflesso della tosse. La presenza di infezioni va quindi prontamente ricercata, l’ipertermia va trattata vigorosamente con paracetamolo per via orale o endovenosa, l’utilizzo degli antibiotici deve essere iniziato per via empirica e poi proseguito sulla base degli esami colturali. Nel caso di insufficienza respiratoria, è indispensabile garantire un’adeguata saturazione dell’ossigeno, utilizzando eventualmente una ossigenoterapia di vario grado, fino all’assistenza respiratoria rianimatoria. Le aritmie cardiache in corso di ictus ischemico sono soprattutto tachiaritmie, in particolare la fibrillazione atriale. L’obiettivo in questo caso è il mantenimento della frequenza cardiaca sotto valori accettabili, con il coinvolgimento del consulente cardiologo, senza mirare immediatamente alla cardioversione farmacologica, in quanto il rientro in ritmo sinusale potrebbe scatenare nuove cardioembolie. Per questo motivo è in generale preferibile posticipare il ripristino del ritmo a distanza di tempo, quando il paziente sarà neurologicamente stabile e in prevenzione con una terapia anticoagulante orale. Le TVP, con successivo rischio di tromboembolia polmonare, si sviluppano frequentemente nei pazienti allettati con un arto inferiore paretico o plegico. Per tale motivo è indicato di routine l’uso di eparina a basso peso molecolare a dose profilattica. L’uso di calze elastiche compressive oppure di
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compressione meccanica intermittente è da considerare nel caso di pazienti con controindicazioni agli anticoagulanti a bassa dose.
Terapia medica di prevenzione cerebrovascolare secondaria La terapia di prevenzione secondaria dell’ictus ischemico dipende dalla diagnosi di causa. Nei casi dovuti ad aterosclerosi dei grossi vasi, malattia dei piccoli vasi e ictus da causa non determinata è indicata la terapia antiaggregante: aspirina 300 mg al giorno per circa una settimana, poi proseguita alla dose di 100 mg al giorno, rappresenta la prima scelta. Nei pazienti a maggiore rischio cardiovascolare, è possibile utilizzare l’associazione aspirina 25 mg + dipiridamolo RM 200 mg, 2 volte al giorno, che risulta lievemente più efficace della sola aspirina; in caso di allergia o intolleranza all’aspirina, è possibile utilizzare clopidogrel 75 mg al giorno. Nel caso di stenosi sintomatica delle arterie carotidi, va considerata la possibilità chirurgica dell’endoarterectomia o dello stenting carotideo (VEDI OLTRE). La terapia endovascolare con posizionamento di stenting può essere effettuata, in casi selezionati e da neurointerventisti esperti, anche per stenosi significative delle arterie vertebrali all’origine o nel tratto intracranico dell’arteria cerebrale media o dell’arteria basilare. Il controllo dei fattori di rischio vascolare è fondamentale nella prevenzione primaria e secondaria dell’ictus ischemico dovuto sia ad aterosclerosi dei grossi vasi che a malattia dei piccoli vasi. In particolare il trattamento dell’ipertensione arteriosa deve essere perseguito secondo gli usuali criteri utilizzando i numerosi farmaci disponibili (in particolare ACEinibitori, sartani e calcioantagonisti), così come quello del diabete. L’utilizzo di statine riduce il rischio di un nuovo evento ischemico cerebrale ed è particolarmente indicato in presenza di malattia aterosclerotica, per la quale i valori target di colesterolo LDL sono 5%), si rileva che il beneficio della chirurgia è direttamente proporzionale alla percentuale di stenosi, secondo quanto segue: • stenosi dallo 0 al 49%: maggior beneficio dalla terapia medica; • stenosi dal 50 al 69%: relativo maggior beneficio dalla terapia chirurgica;
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• stenosi >70%: netto maggior beneficio dalla terapia chirurgica. È stato dimostrato inoltre che l’intervallo di stenosi in cui maggiore è il beneficio della TEA è quello tra l’80 e il 90%, e che nell’ambito delle stenosi moderate (ovvero dal 50 al 69%) il beneficio della chirurgia si rafforza nei pazienti di età >75 anni e in presenza di ulcerazioni sulla superficie della placca (le quali rendono la placca più “instabile” e a rischio di generare nuovi eventi ischemici). Le analisi post hoc hanno inoltre dimostrato che il beneficio della chirurgia si mantiene costante negli anni. Le raccomandazioni emerse in base a questi studi sono da considerarsi evidenze di grado elevato. L’eco-Doppler dei tronchi sovraortici è l’esame di screening in un paziente sintomatico. Qualora si dimostri una stenosi carotidea >50%, prima di porre un’indicazione chirurgica, il paziente andrà sottoposto ad approfondimento diagnostico mediante indagini angio-TC o angio-RM, le quali hanno attualmente sostituito l’angiografia convenzionale. Si valuta inoltre la composizione della placca all’eco-Doppler (omogenea, disomogenea, con emorragia intraplacca o ulcerazioni) e il circolo intracranico (poligono di Willis, presenza di aneurismi sacculari non rotti, stenosi tandem dei vasi intracranici) utilizzando l’angio-TC o l’angio-RM. Prima della chirurgia è indispensabile una valutazione cardiologica/anestesiologica che valuti la presenza eventuale di importanti comorbidità sistemiche. L’intervento di endoarteriectomia può essere effettuato sia in anestesia loco-regionale che generale senza che, allo stato attuale, sia stata dimostrata la superiorità di uno rispetto all’altro. In caso di anestesia generale si adotta un sistema di monitoraggio della funzione cerebrale allo scopo di evidenziare un’eventuale intolleranza al clampaggio dell’asse carotideo. Tra i vari monitoraggi proposti il gold standard è rappresentato dall’elettroencefalogramma (EEG). Una volta esposta la biforcazione carotidea, si procede al clampaggio dell’arteria carotide esterna, dell’arteria tiroidea superiore, dell’arteria carotide comune e infine dell’arteria carotide interna distalmente alla fine della placca. Se l’EEG rimane invariato, si pratica un’incisione lineare del vaso e si asporta quindi la placca. Qualora l’EEG dimostri segni di intolleranza al clampaggio si inserisce uno shunt tra arteria carotide comune e arteria carotide interna che permette di condurre a termine l’intervento in sicurezza. Le complicanze ischemiche cerebrali che, come detto in precedenza, non devono assommare a più del 5%, possono derivare da intolleranza al
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clampaggio, trombosi acuta postoperatoria dell’arteria carotide interna o da partenza di emboli nella fase di declampaggio. È bene effettuare un controllo mediante ecocolor-Doppler prima della chiusura dell’incisione. Complicanze minori possono derivare da lesioni del nervo ipoglosso e del nervo ricorrente. Ristenosi precoci entro tre mesi dalla chirurgia possono derivare da iperplasia cicatriziale della parete del vaso e sono presenti in percentuale variabile dal 2 al 5% nelle varie casistiche; tale ultima evenienza occorre con maggiore frequenza nelle donne di età non avanzata. Un capitolo più controverso invece è rappresentato dall’indicazione al trattamento chirurgico delle stenosi cosiddette asintomatiche, ossia diagnosticate all’ecocolor-Doppler effettuato in corso di screening per altre patologie. Sono al momento disponibili solo raccomandazioni di grado intermedio. Nella pratica clinica è adottabile la seguente condotta purchè il paziente non presenti comorbidità importanti e abbia un’aspettativa di vita >5 anni: nelle stenosi del 60-70% con presenza di ulcerazione della parete, nelle stenosi >80%, nelle stenosi significative bilaterali oppure controlaterali a un’occlusione, programmazione di interventi che comportino instabilità emodinamica (esempio tipico quelli in circolazione extracorporea). Di fondamentale importanza, in caso di stenosi asintomatica, è il riconoscimento delle “placche instabili”, ossia di quelle lesioni ateromasiche disomogenee in cui la capsula fibrosa è sottile e a rischio di rompersi portando il core lipidico a contatto con il flusso ematico e generando una trombosi o una tromboembolia. Il perfezionamento delle metodiche ecocolor-Doppler, dell’angio-TC e della RM ha fornito risultati incoraggianti in tal senso anche se non ancora del tutto validati.
Terapia endovascolare: lo stenting carotideo Il trattamento mediante stenting di una stenosi conseguente alla presenza di una placca ateromasica è stato inizialmente applicato alle arterie coronarie. In breve, mediante navigazione endovascolare, si rilascia sulla placca uno stent che dilata la stenosi e “schiaccia” la placca trasferendone il materiale nelle tonache vascolari più esterne. Lo stent è costituito da un cilindro a maglie metalliche in nitinolo (una lega di nichel e titanio) che una volta rilasciato si autoespande esercitando una discreta forza radiale sul lume del vaso: nelle settimane successive al suo posizionamento, le maglie vengono endotelizzate. L’utilizzo dello stenting
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nel distretto carotideo è stato frenato dalla pericolosità di fenomeni embolici legati alla manovra di posizionamento. Studi randomizzati (SPACE, EVA3S, CREST) non hanno dimostrato che lo stenting sia in grado di fornire risultati simili a quelli dell’endoarteriectomia carotidea. È invece sufficientemente dimostrato che lo stenting garantisce migliori risultati della chirurgia nei pazienti con gravi comorbidità (per esempio, frazione di eiezione cardiaca assai compromessa), ristenosi cicatriziali precoci, stenosi postattiniche, biforcazione carotidea a C2 difficilmente aggredibile chirurgicamente. Inoltre, lo stenting è proponibile in caso di occlusione della carotide controlaterale, in quanto in questi casi è statisticamente più significativa la possibilità di intolleranza al clampaggio. Lo stenting è pure adottabile in caso di stenosi non superiore all’85% condizionata da una placca fibrocalcifica, ossia poco prona a sfaldarsi a seguito di manovre endovascolari.
ATTACCHI ISCHEMICI TRANSITORI (TIA) Definizione, caratteristiche cliniche e diagnosi Sulla base della definizione indicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’attacco ischemico transitorio (TIA, transient ischemic attack) è caratterizzato dalla improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale cerebrale o visivo, attribuibile a insufficiente apporto di sangue, di durata inferiore alle 24 ore. Recentemente è stata proposta una nuova definizione del concetto di TIA. Il presupposto di tale definizione è basato sul fatto che il limite di 24 ore di durata per il TIA è un limite arbitrario e che la maggior parte dei TIA risolve entro un’ora dall’esordio dei sintomi. Inoltre, la tomografia computerizzata (TC) e la risonanza magnetica (RM) hanno mostrato che non tutti i TIA sono equivalenti da un punto di vista della lesione, associandosi ad alcuni la presenza di danno tissutale. La probabilità che in un paziente con TIA sia presente alle neuroimmagini una lesione congrua con la sintomatologia è direttamente proporzionale alla durata della sintomatologia. Secondo la nuova definizione sono da classificare come TIA solo quegli episodi di disfunzione neurologica da ischemia cerebrale o retinica con durata in genere inferiore a un’ora e senza evidenza di danno cerebrale permanente. Il possibile limite di tale definizione risiede nel fatto che la categoria
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diagnostica cui attribuire il paziente dipende all’accuratezza degli esami effettuati. Un problema comune nella pratica clinica, spesso all’origine di errori diagnostici e terapeutici, è la diagnosi differenziale dei TIA. Il primo obiettivo da porsi nella diagnosi di TIA è verificare la presenza di almeno un sintomo focale a esordio acuto, quale un deficit motorio o sensitivo lateralizzato (arto superiore, arto inferiore e rima orale; può essere interessato l’intero emisoma oppure solo alcune parti in varie combinazioni), un disturbo del linguaggio (afasia, disartria) oppure un sintomo riferibile a un deficit dei nervi cranici (amaurosi, diplopia, deviazione della rima orale o della lingua, disfagia). È importante ricordare che la presenza isolata di sintomi di disfunzione cerebrale diffusa quali la perdita di coscienza, le vertigini, l’astenia generalizzata, lo stato confusionale o l’incontinenza sfinterica, non è sufficiente per porre una diagnosi di TIA. Lo stesso vale per l’amnesia globale transitoria (improvvisa perdita della memoria anterograda e spesso anche retrograda, isolata e reversibile) e i drop attacks (improvvise cadute a terra non accompagnate da altri disturbi come perdita o sospensione di coscienza): anche se entrambe queste condizioni vengono spesso trattate nei capitoli di patologia cerebrovascolare, esse non si accompagnano a un maggior rischio di un evento ischemico cerebrale rispetto alla popolazione generale e per tale ragione vanno tenute distinte dal TIA. Fino al 25% dei TIA o degli ictus esordisce con cefalea, d’altro canto l’emicrania con aura si può presentare anche senza cefalea. Un aiuto per la diagnosi differenziale fra queste due condizioni è costituito dal fatto che la cefalea frequentemente si accompagna a sintomi positivi, spesso visivi, come gli scotomi scintillanti e i fosfeni; inoltre nel TIA il deficit neurologico raggiunge il picco in secondi o minuti, mentre nell’emicrania il picco viene raggiunto in circa mezz’ora e il deficit può variare d’intensità e di sede. Per quanto riguarda le crisi epilettiche, una minoranza di ictus o TIA può esordire con una crisi epilettica sintomatica acuta scatenata dal disturbo ischemico, d’altro canto una crisi epilettica può essere seguita da una fase postcritica caratterizzata da un deficit motorio transitorio su base puramente “elettrofisiopatologica” e non ischemica (questo fenomeno viene denominato “paralisi di Todd”). Pur se in alcuni casi la diagnosi differenziale tra crisi epilettiche e TIA può rappresentare una sfida anche per un neurologo esperto, un aiuto nella diagnosi differenziale è la presenza nell’epilessia di sintomi
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positivi (clonie, mioclono, crisi toniche, automatismi ecc.), anche se la sola presenza di sintomi negativi (come l’afasia o la paralisi di Todd) è possibile nell’epilessia. In questi casi, l’esecuzione di un EEG durante l’episodio oppure nelle immediate ore successive può essere molto utile nel dimostrare un’attività epilettiforme focale. Altre situazioni che possono mimare i TIA o l’ictus sono l’ematoma sottodurale cronico, i tumori cerebrali e l’ipoglicemia (emiparesi ipoglicemica). Per quanto riguarda la diagnosi differenziale dei disturbi visivi monooculari, il TIA è caratterizzato classicamente dalla amaurosi fugace, ovvero dalla perdita improvvisa e completa (raramente incompleta) del visus in un occhio, non accompagnata da dolore, della durata variabile da secondi a diversi minuti. Tale disturbo è riconducibile a un embolo che va ad occludere l’arteria centrale della retina (oppure uno dei suoi rami principali), nella maggior parte dei casi a partire dall’arteria carotide interna omolaterale, oppure in una minoranza dei casi a genesi cardioembolica. Altre cause possono produrre un deficit visivo monoculare, tuttavia solitamente hanno delle caratteristiche cliniche diverse, quali una presentazione più graduale oppure sono accompagnate da dolore o determinano un deficit solo parziale del visus. Per una diagnosi differenziale completa è fondamentale l’acquisizione di una TC o di una RM dell’encefalo che consentono di escludere l’ematoma sottodurale cronico o altri tipi di lesione espansiva intracranica. Sia la diagnosi di TIA che quella di ictus sono diagnosi cliniche e non necessitano del dato di neuroimmagine che può non essere rivelatore, tuttavia una TC o una RM vanno effettuate sempre per la diagnosi differenziale con altre patologie che possono mimare il TIA o l’ictus. In effetti, la diagnosi di TIA, a differenza di quella di ictus, non è semplice dato che solo il 50% dei TIA diagnosticati da medici di Medicina Generale oppure di Pronto Soccorso viene confermato dallo specialista neurologo.
NON DIMENTICARE CHE… Sintomi non accettabili per la diagnosi di TIA se presenti in modo
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isolato: • perdita di coscienza; • sensazione d’instabilità; • astenia generalizzata; • confusione mentale; • perdita o calo del visus bilaterale associati a ridotto livello di coscienza; • incontinenza di feci e urine; • vertigine; • perdita dell’equilibrio; • acufeni; • sintomi sensitivi confinati a una parte di un arto o al volto; • scotomi scintillanti; • amnesia; • drop attack. Condizioni cliniche che possono simulare un TIA: • disfunzioni cerebrali focali: emicrania, epilessia; • lesioni cerebrali strutturali: tumori cerebrali, ematoma sottodurale cronico, malformazione arterovenosa cerebrale; • altre cause non vascolari: ipoglicemia, malattia di Ménière, sclerosi multipla, conversione isterica; • nei pazienti con sintomi transitori monoculari: arterite a cellule giganti, ipertensione maligna, glaucoma, papilledema, altre patologie oculari non vascolari.
Stratificazione del rischio e trattamento Nei casi con diagnosi confermata di TIA è oggetto di dibattito se i pazienti che giungono all’osservazione in Pronto Soccorso debbano essere ricoverati o possano essere seguiti ambulatorialmente. L’opportunità di un ricovero sarebbe motivata dal fatto che circa il 10% dei pazienti con un TIA va incontro a un ictus ischemico nella prima settimana; d’altro canto il 90% dei pazienti con un TIA non presenterà un evento ischemico così precoce e
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quindi potrebbe essere sottoposto ad accertamenti ambulatoriali rapidi senza la necessità di un ricovero ospedaliero. A partire dal 2005, alcuni studiosi hanno costruito e validato, attraverso un importante studio di popolazione nell’Oxfordshire, un modello per poter identificare i pazienti con TIA a maggior rischio di recidiva precoce. Tale modello è stato poi validato in una seconda popolazione e in una casistica ospedaliera di pazienti con TIA. Il risultato è stato l’elaborazione di un punteggio di 6 punti (denominato ABCD score), basato su quattro variabili: età (age), pressione arteriosa (blood pressure) nel momento dell’osservazione in Pronto Soccorso, gravità del deficit neurologico (clinical deficit) e durata dei sintomi (duration). Una più recente elaborazione di questo punteggio (denominato ABCD2 score) ha introdotto una quinta variabile, la presenza di diabete in anamnesi. Tale punteggio permette di stimare in modo piuttosto attendibile la probabilità di un ictus dopo un TIA, sia in termini di rischio precoce che di severità dell’evento ischemico. Alla luce degli studi sopraccitati, il TIA deve essere considerato come un’emergenza medica ed essere valutato sempre con urgenza e con attenzione alla stregua di una “angina instabile” cerebrale. Sulla base dell’anamnesi, dell’esame obiettivo e di accertamenti diagnostici semplici quali la glicemia, l’ECG e la TC encefalobasale, è possibile identificare i pazienti a maggior rischio e intervenire con un ricovero o la programmazione di un follow-up ambulatoriale. Per i pazienti con TIA a basso rischio di recidiva ischemica, i quali possono essere dirottati verso accertamenti di tipo ambulatoriale, è comunque indicato un percorso preferenziale (fast track) affinché accedano rapidamente a esami diagnostici mirati, quali un ecocolor-Doppler dei tronchi sovraaortici, una seconda TC encefalo di controllo (oppure una RM encefalo, specialmente nel caso di un coinvolgimento del circolo posteriore, in quanto la fossa cranica posteriore presenta una scarsa visibilità alla TC), eventuali accertamenti cardiologici (ecocardiogramma transtoracico, ECG Holter) e infine la possibilità di una rivalutazione neurologica nel breve termine (entro massimo 2 settimane), una volta eseguiti questi accertamenti. Dal punto di vista del trattamento, le indicazioni alla terapia di prevenzione secondaria del TIA sono le stesse dell’ictus ischemico. In particolare, la terapia di prima linea è quella antiaggregante piastrinica con aspirina (da sola oppure associata a dipidiramolo) oppure clopidogrel (nel caso di allergia o intolleranza gastrica all’aspirina), da iniziare subito anche nel caso di
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diagnosi ancora dubbia e mentre si eseguono gli accertamenti diagnostici indicati. Nel caso di riscontro di una causa cardioembolica, vi è l’indicazione alla terapia anticoagulante a lungo termine. Nel caso di riscontro di una stenosi carotidea sintomatica, vi è l’indicazione alla chirurgia tradizionale oppure endovascolare. Inoltre, come per l’ictus ischemico, è molto importante il trattamento dei fattori di rischio, in particolare l’ipertensione arteriosa, il fumo e l’ipercolesterolemia. Nei casi in cui la diagnosi di TIA non venga confermata, per il riscontro di un’altra patologia alla base dei sintomi, la terapia antiaggregante deve essere chiaramente sospesa.
NON DIMENTICARE CHE… PUNTEGGIO ABCD2 NELLA STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO DEI TIA
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La somma dei punteggi delle singole variabili (che per la gravità clinica può essere uguale a 3, se presente sia un disturbo di linguaggio che un deficit motorio) è associata a un rischio di ictus ischemico entro 48 ore pari a: • per punteggi da 0 a 3: soggetti a basso rischio (rischio di ictus a 2 giorni = 1% circa); • per punteggi 4 o 5: soggetti a rischio moderato (rischio a 2 giorni = 4% circa); • per punteggi 6: soggetti ad alto rischio (rischio a 2 giorni = 8% circa). Fonte: da Johnston et al., 2007
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TROMBOSI VENOSE CEREBRALI Eziologia La trombosi venosa cerebrale (TVC) è una malattia cerebrovascolare caratterizzata dalla trombosi parziale o completa di uno o più seni venosi e/o vene cerebrali. La TVC è una causa rara di ictus (circa 1% degli stroke). Il 75% delle TVC negli adulti colpisce le donne a causa della presenza di fattori di rischio quali la gravidanza, il puerperio e l’uso di contraccettivi orali. Per quanto riguarda la localizzazione anatomica, il seno sagittale superiore (SSS) è quello più colpito (62%), seguito dal seno trasverso (41,2-44,7%), dal seno retto (18%) e dal seno cavernoso (1,3%). Il SSS e il seno trasverso sono colpiti insieme nel 30% dei casi. La presenza di un fattore causale è riscontrabile nell’85% dei casi (TAB. 14.7), nel restante 15% non è possibile identificare una causa sottostante. Più di un fattore causale è invece riconoscibile nel 44% dei casi. Stati protrombotici, sia genetici che acquisiti, costituiscono una delle cause più importanti di TVC: i più comuni sono il deficit di proteina C, S e di antitrombina III; meno comuni sono la mutazione del fattore V di Leiden, della protrombina e del gene dell’MTHFR. Tra i fattori acquisiti sono presenti: la gravidanza, il puerperio, l’uso di contraccettivi orali, la sindrome nefritica, l’iperomocisteinemia, la sindrome da anticorpi antifosfolipidi, le neoplasie e le malattie infiammatorie (per esempio, malattie infiammatorie croniche intestinali, granulomatosi di Wegener, sindrome di Behçet, sarcoidosi) o ematologiche. Altre cause sono costituite da diffusione di infezioni a livello del massiccio facciale e da manovre che possono alterare la circolazione venosa cerebrale come la puntura lombare, la disidratazione, l’insufficienza cardiaca, le anomalie di scarico venoso, i traumi cranici, l’occlusione di cateteri venosi centrali e gli interventi neurochirurgici.
Fisiopatologia e caratteristiche cliniche Esistono due distinti meccanismi lesionali che spesso coesistono nello stesso paziente:
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1. ischemia venosa: la trombosi delle vene cerebrali porta a un incremento della pressione venosa, cui conseguono due effetti: la rottura della barriera ematoencefalica con sviluppo di edema vasogenico e la sofferenza ischemica del tessuto (se la pressione venosa supera la pressione di perfusione). A causa della stasi ematica, gli infarti venosi sono spesso emorragici; 2. ipertensione endocranica: la trombosi dei seni venosi (in particolare del SSS) e il conseguente aumento della pressione venosa provocano un aumento della pressione intracranica, ulteriormente aumentata dal difficoltoso riassorbimento del liquor dallo spazio subaracnoideo alla circolazione venosa cerebrale attraverso le granulazioni del Pacchioni. La presentazione clinica delle TVC è assai variabile. Per questo il tempo medio tra l’esordio dei sintomi e la diagnosi è di circa 7 giorni. Sono riconoscibili quattro principali sindromi cliniche: • ipertensione endocranica isolata: il sintomo cardine è la cefalea, presente nel 90% circa dei pazienti con TVC. È presente all’esordio nel 70% dei casi; nel 30% è l’unico sintomo della malattia. Il dolore non presenta caratteristiche specifiche; più spesso è a esordio acuto o subacuto, continuo, di intensità severa, non localizzato e aggravato da manovre che aumentano la pressione intracranica. Più raramente si può avere una cefalea tipo “a rombo di tuono” o similemicrania con aura. Altri sintomi di ipertensione endocranica sono: il vomito, il papilledema (fino al 45% dei casi), alterazioni del visus e paralisi del VI nervo cranico; • segni focali secondari a danno parenchimale (50% dei pazienti): i più frequenti sono mono o emiparesi, paraparesi, afasia, deficit neuropsicologici. I deficit sensitivi sono più rari. Crisi comiziali sono presenti nel 40% dei pazienti, nella maggior parte dei casi sono parziali; • encefalopatia subacuta: si verifica in pazienti anziani o molto giovani con comorbidità. Spesso sono concomitanti trombosi venose in altri distretti o embolia polmonare e la TVC interessa più seni venosi e le vene cerebrali profonde. Si caratterizza per un’alterazione dello stato di coscienza fino al coma e per la presenza di segni neurologici multifocali. La mortalità è elevata; • sindrome del seno cavernoso: è spesso settica, secondaria a infezioni del massiccio facciale . Si manifesta con chemosi, esoftalmo, oftalmoplegia
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dolorosa e algia/ipoestesia nel territorio del V nervo cranico. TABELLA 14.7 Eziologia e fattori di rischio (%) per trombosi venose cerebrali (TVC)
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Diagnostica per immagini TC ENCEFALO SENZA MEZZO DI CONTRASTO. Visualizza le lesioni parenchimali (infarti venosi ischemici ed emorragici, edema cerebrali). Esistono segni diretti di TVC visibili alla TAC basale: • segno della corda: è la visualizzazione in una vena cerebrale corticale del trombo iperdenso; • segno del triangolo denso: indica la presenza del trombo nella parte posteriore del SSS; è normale nel 10-20% dei casi. TC ENCEFALO CON MEZZO DI CONTRASTO. Il “segno del delta vuoto” è dato dalla opacizzazione delle pareti del SSS (per la presenza di una rete venosa collaterale) in contrasto con la bassa densità nel lume trombizzato. RM ENCEFALO. È più sensibile e precoce della TC nel mostrare il danno parenchimale. Inoltre permette di visualizzare direttamente il trombo che, nella fase subacuta, è iperintenso in T1 e T2.
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ANGIO-TC EANGIO-RM CON STUDIO DEL CIRCOLO VENOSO. Visualizzano direttamente l’assenza di flusso nel seno venoso interessato (FIG. 14.3).
FIGURA 14.3 Trombosi del seno sagittale superiore dimostrata con studio angio-RM venosa. ANGIOGRAFIA CEREBRALE TRADIZIONALE. È un esame invasivo, come già discusso, ed è riservato ai casi in cui la diagnosi rimane dubbia.
Trattamento della fase acuta e postacuta La terapia d’elezione delle TVC in fase acuta è costituita dalla somministrazione di eparina endovena oppure di eparine a basso peso
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molecolare sottocute, a dosi scoagulanti. La presenza di infarto emorragico non è una controindicazione al suo utilizzo. La terapia viene poi sostituita con anticoagulanti orali che vanno proseguiti per 3 mesi (in caso di fattori di rischio transitori), 6-12 mesi (se TVC idiopatiche o con moderati fattori di rischio trombofilici) o a lungo termine (in caso di trombofilia severa o di associazione di più fattori trombofilici). L’uso della terapia trombolitica (sistemica o locale) deve essere riservato a casi selezionati con deterioramento neurologico rapido, che non rispondono alla terapia anticoagulante e in assenza di vasto infarcimento emorragico. In caso di TVC e concomitante processo settico è necessario associare una terapia antibiotica. Oltre a questo va impostata una terapia delle complicanze delle TVC quali l’epilessia e l’ipertensione intracranica. La mortalità in fase ospedaliera è di circa il 5,5%. La causa principale di decesso è l’erniazione transtentoriale secondaria alla presenza di vaste emorragie intracraniche. Esiti neurologici, di variabile gravità, sono riportati nella maggior parte dei casi. Possibili complicanze a distanza sono la formazione di una fistola durale arterovenosa e lo sviluppo di epilessia secondaria. Il rischio di ricorrenza è globalmente di circa il 2-3%.
EMORRAGIA CEREBRALE INTRAPARENCHIMALE PRIMARIA Eziologia e fattori di rischio L’emorragia cerebrale intraparenchimale è uno stravaso ematico nel parenchima cerebrale con possibile estensione allo spazio subaracnoideo ed endoventricolare. È chiamata anche emorragia cerebrale “spontanea” o “ipertensiva”, per distinguerla dalle emorragie secondarie che riconoscono una causa sottostante (per esempio, rottura di aneurisma, malformazione arterovenosa, angioma cavernoso, neoplasia). È responsabile di circa il 15% degli ictus. Il meccanismo più comune è dato dalla rottura di arteriole perforanti a livello dei microaneurismi di Charcot-Bouchard (piccole dilatazioni vasali) o di aree di necrosi fibrinoide (ispessimento della parete vasale con fenomeni degenerativi di ialinizzazione). Entrambe queste
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alterazioni vascolari sono di frequente riscontro in pazienti con ipertensione arteriosa. In realtà, nonostante la frequente associazione riscontrata tra questi aneurismi e la presenza di emorragie cerebrali, nonché la loro frequente localizzazione a livello delle piccole arteriole perforanti, non è mai stato possibile osservare una diretta relazione anatomopatologica tra rottura di microaneurisma ed emorragia cerebrale. Le localizzazioni più frequenti sono: il corpo striato in particolare a livello del putamen (34%), la sostanza bianca centrale emisferica (24%) in particolare nella zona temporo-parieto-occipitale, il talamo (20%), il ponte (6%), il cervelletto (7%) e il caudato (5%). Le emorragie cerebrali localizzate a livello delle strutture profonde (nucleo lenticolare, talamo e capsula interna) vengono definite in “sede tipica” e sono più spesso a eziologia ipertensiva. Le emorragie lobari, definite in “sede atipica”, nei pazienti anziani sono invece più spesso dovute ad angiopatia amiloide (VEDI FOCUS ON: ANGIOPATIA AMILOIDE CEREBRALE [ACC], PAG. 274), mentre nei pazienti più giovani deve essere esclusa una causa secondaria dell’emorragia, in particolare una malformazione arterovenosa cerebrale (VEDI OLTRE). Oltre all’ipertensione arteriosa, all’età e all’angiopatia amiloide, altri fattori di rischio sono costituiti dalla razza non caucasica, dall’abuso di alcol, dalla terapia con antiaggreganti o anticoagulanti e dalla terapia trombolitica.
Fisiopatologia e caratteristiche cliniche La presenza di emorragia porta a un aumento del volume intracranico e secondariamente a un aumento di pressione intracranica regionale in sede di ematoma. Questo comporta una diminuzione del flusso cerebrale regionale direttamente proporzionale all’entità dell’aumento della pressione intracranica. Lo sviluppo di ischemia periematoma è responsabile dello sviluppo di edema prima citotossico e poi vasogenico, cui consegue ulteriore aumento della pressione intracranica, con innesco di un circolo vizioso. Se la pressione intracranica regionale raggiunge i valori della pressione arteriosa regionale si ha un arresto di circolo cerebrale locale che, nel caso di lesioni di vaste dimensioni, può portare alla morte cerebrale.
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FOCUS ON ANGIOPATIA AMILOIDE CEREBRALE (AAC) • L’ACC è caratterizzata dalla presenza di depositi di amiloide nella parete di arterie e arteriole e meno spesso di capillari e nelle vene del sistema nervoso centrale (SNC). • L’amiloide è un prodotto che si crea in presenza di una modificazione nella conformazione della proteina. Questa alterazione porta alla formazione di aggregati e fibrille insolubili costituiti in gran parte da proteine con conformazione a beta-foglietto. Esistono più di 20 proteine o loro prodotti catalitici che possono formare le fibrille di amiloide, ma solo una piccola parte di queste è in grado di depositare all’interno del SNC. • L’ACC è caratterizzata da emorragie cerebrali a carattere ricorrente e con localizzazione lobare. Può portare anche a ischemie e demenza. • Può essere familiare o sporadica. • Le forme familiari sono associate alle mutazioni della proteina precursore dell’amiloide (APP), della transtiretina e della cistatina C. • La forma sporadica più frequente è caratterizzata dalla presenza di depositi di amiloide beta, la proteina coinvolta anche nella patogenesi della malattia di Alzheimer, patologia a cui può essere associata. Fattori di rischio noti per lo sviluppo di questa forma sono l’età e la presenza di alleli 4 dell’apolipoproteina E. È responsabile di un terzo circa dei sanguinamenti cerebrali nelle persone anziane. • Il quadro radiologico caratteristico è costituito dalla presenza di multiple microemorragie corticali visibili nelle sequenze fluidattenuating inversion recovery e T2 gradient-echo, sensibili ai depositi di emosiderina. • Nell’ultima revisione dei criteri diagnostici non è più indispensabile il dato autoptico per formulare la diagnosi.
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Nel caso di ematomi cerebellari con compressione del 4° ventricolo o dell’acquedotto di Silvio, oppure nel caso di svuotamento endoventricolare dell’ematoma con conseguente ostacolo alla circolazione liquorale, ci può essere la formazione di un idrocefalo ostruttivo. La presentazione clinica più frequente è costituita dall’insorgenza di un deficit neurologico focale (che varia a seconda della localizzazione della lesione, come nell’ictus ischemico) a esordio improvviso e che progredisce nel giro di minuti o ore con l’allargamento dell’ematoma. Non è mai possibile distinguere con certezza un ictus ischemico da uno emorragico sulla sola base della presentazione clinica. Tuttavia ci sono alcuni segni e sintomi osservati con maggior frequenza nelle emorragie intracerebrali: ipertensione acuta, vomito, grave cefalea, rigor nucalis (quando è presente sangue subaracnoideo), crisi comiziali (osservabili nei primi giorni nel 10% dei casi). Talvolta l’emorragia compare mentre il paziente vive una situazione di stress fisico o emotivo (rabbia, paura, attività fisica intensa, attività sessuale) o dopo l’assunzione di sostanze simpaticomimetiche (farmaci, cocaina). Queste situazioni possono portare a una crisi ipertensiva che agisce come evento scatenante inducendo la rottura di vasi resi fragili da una preesistente ipertensione arteriosa cronica.
Diagnosi Nessun criterio clinico permette di differenziare con sicurezza una emorragia da una ischemia cerebrale. Al fine di ottenere una diagnosi differenziale è quindi necessario ricorrere all’ausilio delle indagini strumentali. La TC senza mezzo di contrasto eseguita in urgenza ha una sensibilità e specificità vicina al 100% ed è l’esame di riferimento. L’emorragia appare come una lesione iperdensa che può comprimere e distorcere il parenchima circostante, come mostrato nella Figura 14.4. Nei giorni successivi compare l’edema perilesionale che si presenta ipodenso alla TC encefalo. Man mano che il sangue si riassorbe l’emorragia diventa dapprima isodensa e poi ipodensa. Elementi che possono far sospettare la presenza di una emorragia secondaria sono: l’aspetto disomogeneo della raccolta ematica, la presenza di lesioni multiple, il coinvolgimento della corteccia e la presenza di edema già nelle prime ore dall’esordio. In questi casi è necessario ricorrere a indagini diagnostiche di secondo livello quali la RM encefalo e l’angiografia cerebrale.
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FIGURA 14.4 (A) TC encefalo senza mezzo di contrasto raffigurante il quadro tipico di una emorragia intraparenchimale in sede tipica, nei nuclei della base. (B) TC encefalo senza mezzo di contrasto che mostra un’estesa emorragia lobare in sede temporo-occipitale. Al contrario nei pazienti anziani e ipertesi con emorragia localizzata a livello dei nuclei della base o del talamo e nei quali la TC non suggerisca la presenza di lesioni strutturali non sono indicati ulteriori accertamenti diagnostici. La TC permette anche di misurare il diametro massimo e/o il volume dell’ematoma. La misurazione del volume dell’ematoma ha un’implicazione pratica terapeutica nella determinazione dell’indicazione chirurgica (VEDI FOCUS ON: INDICAZIONI ALL’INTERVENTO CHIRURGICO IN CASO DI EMORRAGIA INTRAPARENCHIMALE, IN QUESTA PAGINA).
FOCUS ON
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INDICAZIONI ALL’INTERVENTO CHIRURGICO IN CASO DI EMORRAGIA INTRAPARENCHIMALE
Il trattamento chirurgico degli ematomi intracerebrali spontanei permane controverso. Non esistono, infatti, allo stato attuale, raccomandazioni con grado di evidenza elevato. È comunque possibile adottare nelle pratica clinica le seguenti raccomandazioni: • l’intervento è indicato in caso di ematoma cerebellare di diametro >3 cm causa di deterioramento clinico, compressione del IV ventricolo o idrocefalo. Molto più incerta l’indicazione nel caso le condizioni cliniche di esordio siano già gravemente compromesse (Glasgow Coma Scale 3 cm, situati a non più di 1 cm di profondità dalla superficie corticale e condizionanti deficit neurologici congrui con la lesione; • nel caso di ematoma endoventricolare esteso, associato a idrocefalo e deterioramento neurologico, è possibile considerare un intervento di evacuazione endoscopica; • il timing precoce dell’intervento (intervento d’urgenza) non influenza né l’outcome né la mortalità, se non per gli ematomi cerebellari; • l’intervento chirurgico non è indicato, per ragioni di inefficacia sull’outcome, nel caso di ematoma a sede tipica e nel caso di qualsiasi ematoma che determini un grave stato di coma (con assenza dei riflessi del tronco encefalico).
La RM cerebrale con eventuale completamento con mezzo di contrasto o angio-RM andrebbe eseguita quando si sospetta la presenza di una emorragia secondaria (per esempio, neoplasie, malformazioni vascolari). Talvolta è necessario ripetere l’esame a distanza di settimane o mesi per evidenziare la lesione una volta che si è riassorbito il sangue. La RM è l’esame di scelta per individuare gli angiomi cavernosi che spesso sono malformazioni vascolari “chiuse” non evidenziate dall’angiografia cerebrale; si presentano con un tipico aspetto disomogeneo a “sale e pepe”, segno di sanguinamenti avvenuti in più tempi. In caso di angiopatia amiloide cerebrale la RM permette di
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evidenziare i residui emosiderinici che si presentano come multiple alterazioni puntiformi di segnale (chiamate microbleeds) visibili nelle sequenze T2 gradient-echo. L’angiografia cerebrale tradizionale è indicata nel caso di ematomi in sede atipica e nel sospetto di malformazioni vascolari (aneurismi, malformazioni arterovenose, fistole durali) per le quali rimane l’esame gold standard. La scelta della tempistica dell’esecuzione dipende dalla gravità clinica del paziente e dalla presenza o meno di indicazione chirurgica.
Trattamento della fase acuta e postacuta Anche nei pazienti con emorragia cerebrale è stata dimostrata l’efficacia del ricovero in una Stroke Unit con una significativa riduzione della mortalità, della disabilità e dell’istituzionalizzazione. Rispetto all’ictus ischemico, alcune complicanze acute sono più frequenti e più gravi nell’emorragia intraparenchimale, per cui la terapia tenderà a essere più aggressiva. TERAPIA ANTIPERTENSIVA. Nella fase acuta è frequente il riscontro di elevati valori pressori, sia perché un picco ipertensivo può essere la causa dell’emorragia, sia perché l’aumento della pressione intracranica porta a un aumento secondario della pressione sistemica. Se da un lato l’abbassamento dei valori pressori ha lo scopo di limitare il rischio di risanguinamento, dall’altro un’elevata pressione sistemica comporta una maggiore pressione di perfusione e quindi una migliore vascolarizzazione delle aree periematoma compresse e ischemiche. Tenendo conto di queste osservazioni le linee guida propongono il trattamento dell’ipertensione arteriosa mediante l’uso di farmaci per via endovenosa solo se la pressione sistolica è >180 mmHg o la pressione arteriosa media è >130 mmHg . TERAPIA DELL’IPERTENSIONE ENDOCRANICA. Sono indicate le seguenti opzioni: • diuretici osmotici (mannitolo, glicerolo) somministrati per via endovenosa: sono i farmaci di prima scelta da utilizzare quando compaiono i segni clinici di ipertensione endocranica. Il loro uso non è invece indicato a lungo termine. L’obiettivo è quello di mantenere valori di osmolarità plasmatica più elevati della norma, ma comunque non superiori a 310
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mOsm/l. Possibili effetti collaterali sono costituiti da: squilibri elettrolitici, insufficienza renale da iperosmolarità ed emolisi in caso di terapia con glicerolo; • diuretici dell’ansa, con somministrazione endovenosa di furosemide; • iperventilazione: è una misura di emergenza, che si basa sul fatto che l’ipocapnia indotta dall’iperventilazione causa una vasocostrizione cerebrale con conseguente riduzione della pressione intracranica già dopo pochi minuti; • misure rianimatorie: in particolare la sedazione farmacologica con propofol o barbiturici, che riducono il metabolismo e quindi il flusso cerebrale, con associata riduzione della pressione intracranica. ULTERIORI MISURE TERAPEUTICHE. Non è indicato l’uso dei corticosteroidi endovena, in quanto i loro effetti collaterali (ipertensione, iperglicemia, suscettibilità alle infezioni) sono superiori agli eventuali benefici sull’edema cerebrale. Nei pazienti con emorragia cerebrale durante trattamento anticoagulante orale, al fine di ridurre il rischio di espansione dell’ematoma o risanguinamento, è necessaria una rapida correzione dell’emostasi che si ottiene somministrando vitamina K endovena (5-10 mg) associata a complessi protrombinici (ad azione ricoagulante molto rapida, circa 15 minuti) oppure a plasma fresco congelato (ad azione ricoagulante più lenta, circa 6 ore). L’uso dei complessi protrombinici o del plasma fresco congelato dipende dall’INR del paziente all’esordio, dalle dimensioni dell’ematoma e dal rischio di complicanze ischemiche associato a una rapida ricoagulazione. Nel caso di pazienti che assumono eparina per via endovenosa, l’antidoto è il solfato di protamina. Per i pazienti a cui è stata somministrata terapia fibrinolitica con rtPA è indicata la somministrazione di concentrati piastrinici o crioprecipitati. Nel caso di sviluppo di idrocefalo, particolarmente frequente per ematomi con inondamento ventricolare oppure per ematomi cerebellari che schiacciano il IV ventricolo, è possibile inserire una derivazione ventricolare esterna per decomprimere il sistema ventricolare. Per quanto riguarda la terapia delle crisi epilettiche, non è indicata una terapia antiepilettica di profilassi, bensì una terapia tempestiva in caso si verifichino una crisi epilettica o uno stato di male epilettico, come già indicato nel paragrafo sull’ictus ischemico.
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Come già accennato, la prognosi dell’emorragia cerebrale è in generale più grave rispetto all’ictus ischemico, con una mortalità a 30 giorni del 50%. I fattori prognostici negativi sono: l’età, lo stato di coscienza, la pressione arteriosa, la presenza di diabete mellito, il volume dell’ematoma, la presenza di inondamento ventricolare e lo sviluppo di idrocefalo. La terapia di prevenzione secondaria di un’emorragia cerebrale intraparenchimale primaria si basa essenzialmente sul controllo dei fattori di rischio, in particolare l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito. L’uso di antiaggreganti e di anticoagulanti deve essere ridotto al minimo, ma non è controindicato se sussistono delle chiare indicazioni (per esempio, cardiologiche) a patto che venga ripreso ad almeno 2-4 settimane di distanza dell’evento emorragico. La prevenzione delle trombosi venose profonde viene preferibilmente effettuata mediante posizionamento di gambali pneumatici a compressione intermittente, che si sono dimostrati efficaci in modo paragonabile agli anticoagulanti a bassa dose e inoltre risultano più sicuri in questa popolazione di pazienti.
EMORRAGIA CEREBRALE INTRAPARENCHIMALE SECONDARIA A MALFORMAZIONI VASCOLARI Si tratta di lesioni congenite, con tendenza ad accrescersi nel tempo ma non neoplastiche. Esistono diversi tipi di malformazioni vascolari, ovvero gli angiomi arterovenosi, gli angiomi cavernosi, le fistole arterovenose durali e gli angiomi venosi.
Angiomi arterovenosi (o malformazioni arterovenose, MAV) Le MAV sono costituite da una o più arterie dilatate che confluiscono in un cosiddetto “nidus” arteriolare drenato da una o più vene dilatate in cui scorre sangue arterioso; nel contesto della malformazione non vi è né letto capillare intermedio né parenchima cerebrale funzionante (FIG. 14.5). Sono più rare degli aneurismi sacculari, con una prevalenza stimata di circa lo 0,2%. I vasi dell’angioma vanno incontro a degenerazione ialina e calcificazione, sulla parete possono formarsi aneurismi provocati dall’aumentato stress emodinamico, alla periferia del nidus il parenchima cerebrale reagisce con gliosi e iperemia capillare. L’emorragia
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intraparenchimale o subaracnoidea da rottura di una MAV colpisce pazienti di età nettamente più giovane rispetto ai casi di rottura di aneurisma sacculare o ematoma intraparenchimale spontaneo. Il tasso di sanguinamento di una MAV è di circa il 4% per anno e, in caso di rottura, il risanguinamento è inusuale tranne che nei casi in cui siano presenti grosse dilatazioni aneurismatiche a livello delle vene di scarico. Le MAV di piccole dimensioni sono generalmente ad alto flusso e presentano maggiori possibilità di rottura rispetto a quelle di grosse dimensioni che hanno un basso flusso e andamento più indolente.
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FIGURA 14.5 Immagini di MAV in sede temporale sinistra eseguite mediante RM encefalo (A) e angiografia cerebrale transcatetere (B). L’emorragia intraparenchimale, con i conseguenti deficit neurologici legati alla sua sede, è la modalità di presentazione di una MAV nel 50% dei casi; l’evento emorragico comporta una mortalità o morbilità grave nel 30% dei casi. Altri modi di presentazione possono essere: crisi epilettiche in circa il 20% dei casi, deficit neurologici conseguenti a ischemia cronica da furto ematico della MAV a danno del parenchima circostante, idrocefalo, ipertensione endocranica da ingorgo del sistema venoso di deflusso. La diagnosi si ottiene mediante angio-TC encefalo con ricostruzione tridimensionale oppure RM encefalo con angio-RM intracranica: in questo secondo caso i vasi dilatati appaiono come vuoti di segnale nelle sequenze parenchimali e l’esame è anche più preciso nell’evidenziare le aree di sofferenza parenchimale e i depositi di emosiderina limitrofi alla MAV. Il gold standard è l’angiografia, perché ogni arteria che alimenta la MAV può essere studiata in maniera selettiva con l’utilizzo di microcateteri, evidenziando i vari compartimenti della malformazione. Il trattamento delle MAV deve considerare le complicanze che implica e i benefici nel prevenire il risanguinamento. Le difficoltà di asportazione di
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una MAV sono legate: alle dimensioni del nidus, alla localizzazione in aree eloquenti del parenchima, alla presenza di scarichi venosi profondi. A ognuno di questi aspetti si attribuisce un punteggio e secondo la scala di Spetzler-Martin si ottiene una gradazione della difficoltà di trattamento da 1 a 5. In ogni caso alcune MAV, per sede o soprattutto per dimensioni, sono considerate chirurgicamente non asportabili (grado 6 della scala di SpetzlerMartin). Oltre all’asportazione microchirurgica esistono altre due opzioni di trattamento. Una è l’embolizzazione endovascolare del nidus ottenuta mediante posizionamento di microcateteri nelle arterie afferenti alla MAV e iniezioni di colle biologiche che il flusso ematico guida nel nidus fino a occluderlo. Può essere effettuata in sedute successive trattando gradatamente i vari compartimenti della MAV. L’occlusione ottenuta va verificata nel tempo in quanto la MAV può reclutare altre vie di alimentazione. Spesso le metodiche endovascolari e la chirurgia non sono alternative, ma complementari l’una all’altra. Terza opzione è la radiochirurgia stereotassica mediante acceleratore lineare o gamma-knife. Questa tecnica eroga alte dosi di radiazioni estremamente focalizzate sul nidus che provocano un’arterite attinica con conseguente occlusione. È applicabile soltanto se il nidus non ha dimensioni superiori a circa 3 cm di diametro e richiede per essere efficace un lungo lasso di tempo in cui il paziente non è protetto dalla possibilità di sanguinamento.
Angiomi cavernosi (o cavernomi) Sono agglomerati compatti di capillari sinusoidali senza vere e proprie arterie afferenti e senza tessuto cerebrale nel loro contesto. La parete dei sinusoidi non contiene elastina né cellule muscolari lisce, presenta degenerazione ialina ed è ispessita. Un vallo gliotico con depositi emosiderinici delimita il cavernoma dal parenchima. Generalmente localizzati negli emisferi, possono tuttavia essere presenti ovunque nell’ambito dell’encefalo. La prevalenza nella popolazione è di circa lo 0,2%. Sono multipli nel 50% dei casi. Esiste una variante sporadica e una ereditaria legata a trasmissione autosomica dominante a diverso grado di penetranza. Dati non conclusivi ne fanno sospettare una maggiore incidenza nelle popolazioni ispaniche. Si manifestano nel 60% dei casi con crisi epilettiche e nel 20% con emorragie intraparenchimali; spesso sono reperti incidentali. Raramente le
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emorragie sono gravi, con una percentuale di recidiva di emorragia del 5% circa per anno. I cavernomi che non hanno mai sanguinato vanno incontro a rottura nello 0,5% dei casi per anno. Il trattamento è chirurgico. È indicato quando si sia già verificata una emorragia o, in caso di esordio con crisi o incidentale, se la sede fa prevedere una bassa incidenza di complicanze postchirurgiche.
Fistole arterovenose durali Sono malformazioni alimentate da rami arteriosi meningei o provenienti dalla carotide esterna (per esempio, arteria occipitale). Tali afferenze convergono in prossimità di un seno venoso durale, generalmente al passaggio tra il seno trasverso e il seno sigmoide. Il piccolo nidus è situato infatti nella parete del seno. Il drenaggio venoso avviene nel seno stesso o tramite scarichi corticali degli emisferi. Sono ritenute lesioni acquisite, rappresentando in alcuni casi l’esito di un ostacolato deflusso venoso causato dall’occlusione del seno implicato. È stato infatti dimostrato che una fistola durale può essere generata dopo una tromboflebite del seno sigmoide secondaria a infezioni dell’orecchio. La sintomatologia può consistere in cefalea, tinnito pulsante, soffio occipitale o emorragia intraparenchimale da rottura degli scarichi venosi encefalici reclutati dalla malformazione. Possono essere localizzate anche a livello spinale, in questo caso l’arteria afferente è quella radicolare, il nidus è nella guaina durale della radice, una vena midollare dilatata funge da drenaggio. In questa localizzazione la sintomatologia è legata agli effetti compressivi sul midollo da parte della vena dilatata. Il trattamento può essere chirurgico ove non possibile l’occlusione per via endovascolare con tecnica simile a quella usata per le MAV.
Angiomi venosi (o anomalie di scarico venoso) Sono costituiti da un caput medusae di vene normali convergenti in un tronco di maggior calibro e rappresentano il drenaggio fisiologico dell’area in cui sono localizzate; vi è parenchima cerebrale normale nel contesto. Nella maggior parte dei casi sono reperti occasionali, sporadicamente possono provocare crisi epilettiche e in casi eccezionali emorragia. Osservazioni recenti hanno dimostrato la possibilità di trombosi spontanea dell’angioma venoso con conseguente sintomatologia emorragica o infarcimento dell’area
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di parenchima drenata dalle vene andate incontro a trombosi.
EMORRAGIA SUBARACNOIDEA DA ROTTURA DI ANEURISMA CEREBRALE Definizione e tipi di aneurisma cerebrale Per emorragia subaracnoidea (ESA) si intende lo presenza di sangue negli spazi subaracnoidei della base del cranio (cisterne) o nei solchi della convessità degli emisferi. La causa più frequente di ESA negli spazi cisternali della base (FIG. 14.6) è la rottura di un aneurisma, mentre la causa più frequente di ESA nei solchi corticali è un trauma cranico (vedi cap. 10). Gli aneurismi interessanti i vasi cerebrali possono essere di tipo sacculare (o “a bacca”), fusiforme o micotico: • aneurismi sacculari (o “a bacca”): la rottura di un aneurisma sacculare rappresenta l’80% delle cause di ESA spontanea nelle cisterne della base. Sono costituiti da una dilatazione grossolanamente sferica situata a livello dei vasi principali del poligono di Willis (FIG. 14.7). Le sedi più frequenti sono l’arteria comunicante anteriore, la giunzione tra l’apice dell’arteria carotide e l’arteria comunicante posteriore e la biforcazione dell’arteria cerebrale media; • aneurismi aterosclerotici: si tratta di aneurismi cosiddetti fusiformi o bulbosi, causati dalla degenerazione ateromasica delle pareti del vaso simile a quella riscontrata in altri distretti corporei (per esempio, l’aorta addominale). Sono particolarmente frequenti a livello dell’arteria basilare. Raramente vanno incontro a rotture; • aneurismi micotici: sono causati da dilatazione della parete del vaso conseguente a necrosi successiva alla deposizione di emboli settici provenienti da un focolaio infettivo, per esempio a livello delle valvole cardiache. Hanno la caratteristica di essere localizzati distalmente, ossia su vasi corticali, invece che sui vasi basali del poligono di Willis.
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FIGURA 14.6 (A) Immagine TC senza mezzo di contrasto eseguita a distanza di un’ora dall’esordio dei sintomi, che mostra un’estesa emorragia subaracnoidea nelle cisterne della base e nelle scissure silviane, per la rottura di un aneurisma dell’arteria basilare. (B) Immagine di ricostruzione tridimensionale angio-TC che mostra un aneurisma sacculare non rotto (indicato dalla freccia) dell’arteria comunicante anteriore.
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FIGURA 14.7 Sedi di localizzazione degli aneurismi sacculari. Le dimensioni dei cerchi sono proporzionali alla frequenza degli aneurismi in tali sedi. Fonte: da Hauser S.L. et al., Harrison Neurologia Clinica. Milano: McGraw-Hill, 2007. Per un ulteriore approfondimento, VEDI FOCUS ON: EMORRAGIA SUBARACNOIDEA “SINE MATERIA”, IN QUESTA PAGINA.
FOCUS ON EMORRAGIA SUBARACNOIDEA “SINE MATERIA” Nell’emorragia subaracnoidea “sine materia” lo studio angio-TC e/angiografia convenzionale sono negativi per la presenza di aneurismi endocranici o malformazioni vascolari di altra natura. È un’evenienza che si verifica nel 5% circa dei casi È causata da aneurismi di piccole dimensioni che dopo la fissurazione vanno incontro a guarigione spontanea. Colpisce pazienti generalmente giovani, non ipertesi, in buone condizioni cliniche (grado moderato nella scala Hunt e Hess o WFNS).
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L’esame TC evidenzia una modesta quantità di sangue subaracnoideo localizzato in una cisterna perimesencefalica. Per la diagnosi è attualmente sufficiente un’angio-TC purché ovviamente tecnicamente perfetta con visualizzazione della comunicante anteriore e di entrambe le arterie cerebellari posteroinferiori e che escluda la presenza di vasospasmo. Dal punto di vista terapeutico in caso di emorragia perimesencefalica non si ritiene attualmente indicato ripetere l’esame o effettuare un’angiografia convenzionale. Qualora invece la quantità di sangue sia maggiore, è opportuno ricorrere allo studio angiografico convenzionale.
Manifestazioni cliniche dell’ESA da rottura di aneurisma sacculare La prevalenza nella popolazione di un’ESA da rottura di aneurisma è di circa 10 casi/100 000 abitanti nel mondo occidentale. Il 10% dei pazienti muore prima ancora dell’arrivo in ospedale per la gravità dell’emorragia. Se non si procede all’esclusione dal circolo dell’aneurisma si verifica un risanguinamento nel 15-20% dei casi. Un altro 14% va incontro a mortalità/morbilità grave per il fenomeno del vasospasmo tardivo. Il risultato del trattamento può essere considerato buono solo in un terzo dei casi. La fascia di età più colpita è quella tra i 55-60 anni di età. In circa il 20% dei casi nello stesso paziente si rinvengono più aneurismi, e in questo caso si parla di aneurismi multipli. Si tratta quindi di una malattia grave e invalidante che colpisce persone giovani in precedenza sane. Fattori di rischio per l’insorgenza di ESA sono l’ipertensione arteriosa, il fumo di sigaretta e l’assunzione di cocaina. Gli aneurismi sono classificabili in base alle dimensioni della sacca (piccoli: diametro 25 mm) e alla sede situata in corrispondenza di biforcazioni. Gli aneurismi sacculari sono lesioni acquisite. I vasi endocranici si differenziano da quelli sistemici per l’assenza di avventizia e della membrana elastica esterna. Istologicamente gli aneurismi sacculari si caratterizzano per
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una brusca interruzione della membrana elastica interna e della tunica media in corrispondenza dell’ostio della sacca. La parete della sacca è parzialmente endotelizzata e per lo più costituita da collagene con isolati fibroblasti e, a volte, trombi laminari. L’ipotesi al momento più accreditata sull’eziologia ipotizza che nei siti in cui lo stress emodinamico è particolarmente elevato (per esempio, dove i vasi si biforcano o cambiano direzione) la membrana elastica possa andare incontro a frammentazione e dare origine a un aneurisma sacculare. La maggiore incidenza di aneurismi in pazienti affetti da disturbi del connettivo, costituente della lamina elastica interna, quali rene policistico, malattia di Ehlers-Danlos e displasia fibromuscolare supporta questa teoria. Il sintomo principale dell’emorragia subaracnoidea è una cefalea di severa entità, a esordio improvviso e che insorge in pieno benessere. Il paziente cefalalgico noto la descrive come di caratteristiche ed entità diverse dagli attacchi occorsi in precedenza. Può presentarsi anche come primo episodio di cefalea cosiddetta “a rombo di tuono”. L’attacco di cefalea può essere scatenato da sforzi fisici o come cosiddetta cefalea postcoitale, ma nel 30% dei casi si verifica durante il sonno. Nel 40% dei casi si riscontrano le cosiddette cefalee di allarme di entità minore rispetto a quella che condurrà alla diagnosi. I sintomi più frequenti consistono in: • perdita di coscienza più o meno prolungata conseguente a temporaneo arresto di circolo causato dal brusco aumento della pressione intracranica legato alla fuoriuscita del sangue dalla sacca fissurata; • sindrome meningea (rigidità nucale, segni di Kernig e Brudzinski, posizione “a cane di fucile”), che si instaura dopo qualche ora dall’esordio, legata all’irritazione radicolare causata da diffusione del sangue negli spazi subaracnoidei midollari e conseguente contrattura reattiva della muscolatura nucale. La vigilanza può essere compromessa in misura variabile fino allo stato di coma e alla necessità di intubazione e ventilazione meccanica. L’esame del fondo oculare può rivelare la presenza di emovitreo causato da diffusione del sangue cisternale lungo le guaine aracnoidee dei nervi ottici fino a raggiungere il globo oculare. Possono essere inoltre associati deficit neurologici focali legati alla localizzazione dell’aneurisma: tipica è l’improvvisa insorgenza di ptosi palpebrale dovuta a compressione del III
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nervo cranico esercitata da un aneurisma del territorio della comunicante posteriore. La gravità clinica in fase acuta si correla con quello che sarà il successivo decorso e i risultati a distanza del trattamento. Sono quindi in uso due scale di gravità dell’ESA, quella di Hunt e Hess e quella della World Federation of Neurosurgical Surgeons (WFNS), le quali esprimono 5 gradi di compromissione che hanno dimostrato di ben correlarsi all’outcome (TAB. 14.8). Il sospetto clinico di ESA va confermato con esami diagnostici in urgenza. La puntura lombare mostra un liquor cerebrospinale ematico a circa 4-5 ore dall’evento; la rachicentesi è stata quindi in passato il sistema classico di conferma diagnostica. L’avvento della TC encefalo ha reso superflua questa manovra, che attualmente viene effettuata solo nei casi in cui la TC risulti negativa per la presenza di sangue cisternale, ma sussiste un forte sospetto clinico di ESA. In una TC di base vanno valutate la sede e la quantità di sangue presenti, l’eventuale presenza di dilatazione ventricolare (idrocefalo), la concomitanza di sangue nel parenchima o subdurale e infine la presenza di danno parenchimale da ischemia precoce. La TC perfusionale è in grado di documentare le eventuali alterazioni di flusso ematico cerebrale che possono essere presenti sia in fase acuta che nei giorni successivi. L’angio-TC intracranica invece è in grado di fornire una diagnosi precisa di sede e morfologia dell’aneurisma. Entrambe queste ultime due metodiche, per la rapidità e semplicità di esecuzione e l’altissima specificità, hanno attualmente soppiantato altre metodiche di studio del flusso cerebrale e soprattutto l’angiografia convenzionale. La RM encefalo ha scarso valore diagnostico entro le prime 24 ore soprattutto in caso di piccoli spandimenti ematici poiché i prodotti di degradazione (metaemoglobina) sono presenti in quantità troppo limitata. L’esame è invece dirimente nel diagnosticare anche piccole emorragie a 4-7 giorni dall’episodio. L’angio-RM fornisce buone immagini del circolo cerebrale ma ha sensibilità e specificità inferiori all’angio-TC. L’angiografia cerebrale selettiva è l’esame gold standard diagnostico per lo studio degli aneurismi cerebrali, ma come già detto è un esame invasivo e complesso ed è attualmente riservato alle precedure terapeutiche endovascolari piuttosto che alla diagnostica in urgenza. TABELLA 14.8 Scale di gravità dell’ESA
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Tra le complicanze dell’ESA è molto frequente una iponatriemia conseguente a perdita di sodio urinario e ad aumento della diuresi. I meccanismi implicati possono essere due: un’aumentata secrezione di ormone antidiuretico a seguito di sofferenza ipotalamica (sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico), e in questo caso l’iponatriemia è conseguente a emodiluizione da ipervolemia, oppure a un’aumentata secrezione dell’ormone natriuretico atriale che può provocare natriuresi e conseguente ipovolemia. Le crisi epilettiche e lo stato di male epilettico, specialmente quello di tipo non convulsivo, sono una evenienza frequente nell’ESA di grado severo. Il monitoraggio EEG continuo (cEEG) in terapia intensiva risulta molto utile sia per la diagnosi che per la verifica della risposta alla terapia antiepilettica in questi pazienti. Si possono verificare anche aritmie e alterazione dell’ECG, indistinguibili da quelle verificabili nell’infarto miocardico. La causa è attribuita a ischemia ipotalamica con conseguente aumentata increzione di catecolamine. In alcuni casi si riscontra un’ipocinesia miocardica all’ecocardiogramma senza concomitante infarto miocardico. Il meccanismo invocato è lo stesso delle aritmie e delle alterazioni ECG.
Trattamento dell’ESA da rottura di aneurisma sacculare Il trattamento dell’ESA ha due obiettivi principali: la prevenzione del risanguinamento precoce che si verifica in più del 20% dei casi entro il 15° giorno dal primo episodio e le conseguenze ischemiche del vasospasmo
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tardivo. Il risanguinamento si previene mediante l’esclusione della sacca dell’aneurisma dal circolo, che va quindi effettuata il più precocemente possibile. L’esclusione della sacca si può ottenere chirurgicamente mediante l’apposizione di una clip con tecnica microchirurgica a livello della base della sacca, il cosiddetto colletto. Negli ultimi anni si è sempre più diffusa una metodica endovascolare alternativa detta coiling (dall’inglese coil ossia spirale) consistente nel far navigare un microcatetere endovascolare fino all’interno della sacca. Attraverso il microcatetere vengono quindi rilasciate delle esilissime spirali in quantità adeguata a occludere completamente la sacca. Lo sviluppo tecnologico raggiunto per quanto riguarda i materiali impiegati e l’esperienza acquisita rendono tale metodica efficace e affidabile purché il colletto (passaggio tra il vaso e l’aneurisma) sia di piccole dimensioni e quindi in grado di ritenere all’interno della sacca le spirali inserite. L’unico studio randomizzato che compara le due metodiche ha dimostrato una leggera percentuale di migliore outcome mediante coiling nei casi meno compromessi. Sono comunque necessari altri dati e attualmente entrambe le metodiche sono, in casi selezionati, adottabili. Per vasospasmo si intende il restringimento marcato e persistente del lume di un’arteria. A livello dei vasi cerebrali del poligono di Willis, la causa in assoluto più frequente è l’ESA, ma può comunque verificarsi anche dopo un trauma cranico e in corso di stato pre-eclamptico. Il vasospasmo post-ESA insorge 6-7 giorni dopo l’episodio iniziale, occorre nel 20-30% dei casi, è responsabile del 7% della mortalità post-ESA. Mentre il risanguinamento viene eliminato mediante protocolli di esclusione ultraprecoce della sacca, il trattamento del vasospasmo permane problematico. Il fumo attivo di sigaretta ne aumenta la possibilità di insorgenza. I responsabili del vasospasmo sono i prodotti di degradazione del sangue fuoriuscito dall’aneurisma che ristagnano nelle cisterne della base a contatto con i vasi cerebrali. Morfologicamente si riscontrano: infiltrazione di linfociti e plasmacellule nell’avventizia, necrosi muscolare nella tonaca media, frammentazione della lamina elastica, proliferazione endoteliale e di cellule muscolari lisce nell’intima (ispessimento intimale progressivo). L’insorgenza di vasospasmo provoca una diminuzione di flusso e quindi un’ischemia cerebrale. Clinicamente si assiste a diminuzione della vigilanza e all’instaurarsi di deficit neurologici. La diagnosi è confermata da studi perfusionali (TC perfusionale); la RM può
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inoltre dimostrare più precocemente della TC le aree di sofferenza ischemica. Il doppler transcranico con lo studio delle velocità di flusso, specie a livello delle arterie cerebrale media e anteriore, è di grande utilità nella diagnosi e nel monitoraggio dell’andamento del vasospasmo. Il mantenimento di un’adeguata volemia e natriemia previene potenziali danni irreversibili causati dal vasospasmo. I calcioantagonisti inibiscono l’afflusso di calcio nelle cellule muscolari lisce e limitano la contrazione vascolare: per tale motivo, supportata da evidenze cliniche di grado intermedio, la somministrazione orale di nimodipina (60 mg ogni 4 ore) è entrata nel trattamento di routine di questi pazienti. I calcioantagonisti hanno pure dimostrato un’azione efficace, anche se temporanea, se iniettati a livello intraarterioso selettivo intracranico mediante microcateteri. L’utilizzo di statine, che sembrano migliorare la funzione endoteliale, ha dato risultati incoraggianti che comunque necessitano di ulteriori approfondimenti. L’angioplastica per via endovascolare (dilatazione del vaso mediante microcateteri che terminano con un palloncino) si è dimostrata efficace e di effetto più duraturo rispetto all’iniezione di calcioantagonisti a livello dei vasi del Willis. È però applicabile solo ai vasi di maggior calibro e comporta la possibilità di complicanze maggiori come rottura o dissezione del vaso trattato (per un approfondimento su questo argomento, VEDI FOCUS ON: IL PROBLEMA DEGLI ANEURISMI NON ROTTI, PAG. 284).
RIABILITAZIONE POST-ICTUS CEREBRALE Il presupposto fisiopatologico del miglioramento clinico post-ictus si basa sul concetto di plasticità neuronale. Studi neurofisiologici e di neuroimaging hanno mostrato che le reti neuronali delle funzioni cerebrali colpite (motorie, sensitive, linguistiche o cognitive) hanno la capacità di riorganizzarsi ed estendersi alle zone circostanti non lese. Questo processo inizia precocemente dopo l’ictus e perdura per mesi. Il compito della neuroriabilitazione è quello di favorire e velocizzare questo processo, attraverso l’uso di stimoli sensoriali esterni. Se le condizioni cliniche generali del paziente sono stabili è quindi fondamentale l’inizio precoce della riabilitazione, già nei primi giorni dopo l’evento cerebrovascolare, attraverso l’attivazione di un team multidisciplinare specializzato (fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, terapisti
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occupazionali e cognitivi, oltre che neurologi e infermieri). La condizione di immobilità che si realizza nella fase acuta dell’evento può indurre a complicanze internistiche e a danni strutturali o funzionali in grado di compromettere le possibilità di recupero (per esempio, trombosi venose profonde, complicanze respiratorie per alterata meccanica, contratture muscolari, periartrite scapoloomerale).
FOCUS ON IL PROBLEMA DEGLI ANEURISMI NON ROTTI La diffusione di esami non invasivi quali angio-TC e angio-RM, effettuati in corso di altri sospetti diagnostici, ha portato a un netto aumento delle diagnosi dei cosiddetti aneurismi sacculari incidentali, cioè di aneurismi che non sono ancora andati incontro a rottura. La prevalenza nella popolazione di aneurismi non rotti non è ancora del tutto accertata; a secondo dei dati della letteratura varia dall’1% al 10%. Il rischio annuo di rottura di un aneurisma non rotto è stimabile in circa l’1% per anno. Qualora un aneurisma non rotto vada incontro a rottura nel follow-up, tale evento comporta la stessa grave mortalitàmorbilità procurata dalla rottura di un aneurisma non diagnosticato in precedenza. Gli aneurismi non rotti con diametro della sacca >10 mm vanno più facilmente incontro a rottura. Il trattamento di questi aneurismi può essere chirurgico oppure endovascolare mediante coiling, come previsto per gli aneurismi “sintomatici”. L’indicazione è però particolarmente delicata. Il trattamento va proposto solo a determinate condizioni, ovvero: assenza di comorbidità importanti, aspettativa di vita superiore ai 10 anni, diametro dell’aneurisma >10 mm, incremento relativo del diametro della sacca aneurismatica nelle neuroimmagini di follow-up.
All’inizio è necessario stilare un progetto riabilitativo che comprenda tutti
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i programmi specifici dedicati al recupero delle singole funzioni compromesse dal danno cerebrovascolare. I programmi devono essere aggiornati secondo l’evoluzione clinica funzionale mediante l’uso di scale validate come il Barthel Index e la Functional Independence Measure (FIM), che devono essere somministrate all’inizio e poi durante il follow-up. Fondamentale in questo processo è anche l’educazione dei familiari e dei caregivers. FUNZIONE MOTORIA. Nelle fasi precoci, per prevenire le lussazioni (in particolare di spalla), è indicato il corretto posizionamento dell’arto plegico impiegando supporti morbidi e la mobilizzazione passiva evitando manovre di trazione. Successivamente, sono indicate tecniche di integrazione sensitivo-motoria, protocolli intensivi e/o approcci rieducativi compitospecifici; ultimamente sembrano promettenti l’uso della motor imagery e l’integrazione di strumenti robotici. Altre tecniche come l’agopuntura e la stimolazione elettrica transcutanea (TENS) possono essere considerate in casi particolari per il controllo di sindromi dolorose. Nel trattamento focale della spasticità di un arto è indicato l’uso di antispastici orali o, se inefficaci, l’impiego della tossina botulinica. La maggior parte dei pazienti emiplegici recupera, almeno parzialmente, la capacità di deambulare in un periodo di circa 3-6 mesi; un fattore limitante è costituito dalla compresenza di anosognosia e alterazione delle sensibilità profonde. Spesso è necessario l’uso di ortesi o ausili. FUNZIONE LINGUISTICA (AFASIA E DISARTRIA). Il trattamento dell’afasia richiede il coinvolgimento di un logopedista ed è mirato al recupero della capacità di comunicazione globale, di comunicazione linguistica, di lettura, di scrittura e di calcolo, oltre che a promuovere strategie di compenso atte a superare i disordini di comunicazione e ad addestrare i familiari alle modalità più valide di comunicazione. In presenza di disartria è indicata una valutazione foniatrica e logopedica finalizzata a migliorare l’intelligibilità o, ove ciò non sia possibile, all’utilizzo di tecniche di comunicazione alternativa. FUNZIONI COGNITIVE. Il deficit dell’orientamento spaziale e dell’attenzione comporta un peggioramento degli esiti funzionali. Il trattamento dell’emiinattenzione è mirato a migliorare le capacità di esplorazione sensoriale sia
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per lo spazio personale che peri-personale mediante il potenziamento del livello attentivo generale e l’uso di metodiche selettive di addestramento all’esplorazione visuomotoria. Il trattamento dell’aprassia è mirato a favorire l’autonomia quotidiana mediante strategie di compenso o di reintegrazione del gesto secondo i modelli neurofisiologici più condivisi. In presenza di disturbi di memoria è indicato il ricorso ad ausili (agende, orologi) che facilitino le attività della vita quotidiana. Le evidenze a sostegno di programmi strutturati di riabilitazione cognitiva sono tuttavia limitate. DISFAGIA. È indicato l’uso di nutrizione entrale per sondino nasogastrico o gastrostomia percutanea per prevenire la malnutrizione o possibili polmoniti ab ingestis. INCONTINENZA URINARIA. Nei soggetti con incontinenza vescicale persistente è indicata una valutazione clinico-funzionale specialistica, comprensiva di esame urodinamico, in previsione di una rieducazione alla minzione volontaria. DISTURBI DELL’UMORE. Il 30% dei pazienti sviluppa una sindrome depressiva. In questi casi è opportuno iniziare precocemente un trattamento farmacologico antidepressivo, anche per ridurne l’impatto sfavorevole sull’attività riabilitativa. I farmaci di prima linea, in questa circostanza, sono gli SSRI sertralina (50-100 mg/die) e citalopram (10-20 mg/die), i quali non mostrano significative interazioni farmacologiche o effetti cardiovascolari. FOLLOW-UP. Dopo la fase acuta in una Stroke Unit, la cura del paziente con ictus può proseguire in una struttura specializzata per la riabilitazione, tenendo conto dell’età, delle comorbidità e delle aspettative a lungo termine del soggetto. Prima del rientro a domicilio è indicato realizzare gli opportuni adattamenti ambientali. Inoltre, per un completo reinserimento sociale, il paziente dovrebbe disporre di una consulenza in merito alle varie possibilità di reinserimento professionale.
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15 NEOPLASIE INTRACRANICHE E.P. Sganzerla, C. Giussani
KEY POINTS I tumori cerebrali rappresentano l’1,3% di tutte le neoplasie. Ci sono moltissimi istotipi primari, di cui i più frequenti di origine neuroectodermica. Le metastasi cerebrali rappresentano il 50% dei tumori cerebrali. L’istotipo, la prevalenza di sede e l’aggressività sono correlati all’età. La sintomatologia è legata all’eventuale ipertensione endocranica e allo sviluppo di deficit neurologici focali funzionali alla sede o di sintomi irritativi epilettici. Il ruolo della Neuroradiologia è fondamentale nella diagnosi, nel planning chirurgico e nel follow-up. L’asportazione di tumori intrinseci non può seguire i classici criteri di radicalità oncologica. Il brain mapping e la chirurgia a paziente sveglio aiutano nel massimizzare la resezione salvaguardando le funzioni neurologiche. La CHT e la radioterapia convenzionale e stereotassica hanno un ruolo nel trattamento delle lesioni più aggressive e/o non asportabili
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INTRODUZIONE Una moltitudine di mutazioni genetiche cellulari con attivazione di geni protooncogeni che promuovono la crescita e la proliferazione cellulare, ovvero inattivazione di geni soppressori che modulano e inibiscono la proliferazione e la crescita cellulare, possono provocare lo sviluppo di tumori praticamente da tutti i tessuti endocranici, i cui principali oncotipi sono descritti nella classificazione della WHO (World Health Organization) (TAB. 15.1). TABELLA 15.1 Classificazione WHO dei tumori cerebrali • Tumori della serie gliale • Tumori di origine meningea • Tumori che originano dalla guaina del nervo a livello centrale e periferico: schwannomi • Tumori di origine vascolare • Tumori disembriogenetici • Tumori misti • Adenomi ipofisari • Craniofaringioma • Tumori a cellule germinali • Metastasi Fonte: da Louis D.N. et al., 2007. Il sistema di grading della WHO è peculiare rispetto alle classificazioni di altre neoplasie solide in quanto non è unicamente un grading istologico bensì un grading di malignità che contempla quattro differenti livelli attraverso un ampio ventaglio di istotipi. Il grado istologico è definito dalla presenza o meno di alcune caratteristiche istologiche quali: atipie, mitosi, proliferazione endoteliale e necrosi. Tanto maggiore è la presenza di tali caratteristiche, tanto maggiore sarà la loro malignità biologica e tanto peggiore la prognosi (assenza = grado I; presenza di 3 o 4 criteri = grado III/IV) con un impatto sulla sopravvivenza: dal grado I, in cui la resezione radicale è curativa, fino al
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grado IV, in cui la recidiva e la mortalità entro i 12-18 mesi dalla prima diagnosi si attestano attorno al 90% indipendentemente dall’istotipo iniziale.
EPIDEMIOLOGIA I tumori cerebrali rappresentano l’1,3% di tutti i tumori. L’incidenza è variabile ed è funzione dell’area geografica considerata senza che le differenze osservate siano legate a differenze nei sistemi sanitari e nella raccolta epidemiologica indicando di fatto il ruolo di fattori genetici/geografici: 10/100 000 abitanti/anno negli Stati Uniti rispetto a 34/100 000 in Giappone. Il sesso maschile è il più colpito, tranne che nel caso dei meningiomi dove prevale il sesso femminile. Va sottolineato che è stata riconosciuta un’incidenza variabile per età con particolari istotipi (per esempio, PNET [primitive neuroepithelial tumors], ependimomi, germ cell tumors) e sedi (fossa posteriore, linea mediana, vie ottiche, diencefalo), prevalenti in età pediatrica, in cui sono secondi solo alle neoplasie della serie ematica (22% dei tumori maligni e 40-50% dei tumori maligni solidi con’un incidenza di 2-5/100 000), e tumori primitivi a elevata malignità (glioblastomi, WHO IV) che presentano un progressivo aumento dell’incidenza nelle ultime decadi di vita. Alcuni oncotipi sono inoltre particolarmente frequenti (gliomi, meningiomi) mentre molti altri sono di osservazione sporadica (germ cell tumors, dysembryoplastic neuroepithelial tumors, neurocitomi, gangliogliomi). In assoluto prevalgono nell’adulto le lesioni secondarie (metastasi cerebrali) rappresentando più del 50% dei tumori cerebrali con sedi d’origine prevalenti a livello polmonare e mammario.
PECULIARITÀ DEI TUMORI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE Le caratteristiche anatomo-funzionali peculiari del distretto endocranico e del parenchima cerebrale – che, a differenza di altri organi parenchimatosi (per esempio, il fegato) composti da unità funzionali identiche, è costituito da un complesso insieme di unità funzionali discrete e differenti tra loro
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interconnesse da fibre associative – e la presenza della barriera ematoencefalica pongono limiti al trattamento dei tumori endocranici che condizionano il significato clinico dei classici concetti di benignità/malignità istologica. Pertanto, se non è possibile rispettare criteri di radicalità oncologica nei tumori con caratteristiche istologiche di malignità (asportazione della massa tumorale assieme ad ampio margine di tessuto non infiltrato), altrettanto in alcuni casi non è possibile asportare radicalmente tumori con caratteristiche istologiche di benignità qualora in sedi non aggredibili chirurgicamente o nel rispetto della funzione (malignità clinica). La presenza della barriera ematoencefalica condiziona inoltre l’efficacia dei farmaci antitumorali.
SINTOMATOLOGIA CLINICA I principali gruppi di sintomi, spesso uniti in un quadro sindromico, sono riferibili a: • sintomi focali legati alla disfunzione di aree funzionali discrete (TAB. 15.2); TABELLA 15.2 Sintomi focali con relative sindromi
• crisi comiziali a esordio focale o rapidamente generalizzate legate all’azione irritativa peritumorale (65% dei gliomi, 30% dei meningiomi); • progressivo aumento della pressione endocranica sino alla sindrome da ipertensione endocranica conclamata dovuta alla presenza di volumi patologici endocranici aggiunti con progressivo esaurimento dei meccanismi di compenso volumetrico. Fondamentale il precoce riconoscimento della sindrome da ipertensione endocranica conclamata in quanto può preludere a un rapido deterioramento clinico con erniazione
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delle strutture cerebrali attraverso le naturali strettoie contenute nella scatola cranica, costituite dalla falce cerebrale, dal tentorio e dal forame magno (FIG. 15.1), fino allo sviluppo di un quadro di coma/arresto cardiorespiratorio qualora il paziente si trovi nell’area critica della curva pressione/volume (FIG. 15.2) in cui a modesti ulteriori incrementi volumetrici si associa un aumento esponenziale e rapido della pressione endocranica.
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FIGURA 15.1 Esempio di ernia transtentoriale dell’uncus temporale destro con deformazione del tronco cerebrale e scomparsa delle cisterne della base.
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FIGURA 15.2 Grafico della curva pressione-volume che dimostra come un aumento di volume intracranico possa essere inizialmente compensato efficacemente mantenendo la pressione intracranica (ICP) entro valori fisiologici. Avvenuto il superamento dei meccanismi di compenso, minimi aumenti di volume determinano importanti aumenti di ICP stabilendo un quadro di ipertensione endocranica (area critica colorata). È utile sottolineare l’importanza del riconoscimento precoce di un eventuale tumore cerebrale in età pediatrica in cui tuttora l’indice di sospetto è basso con frequenti errori e/o ritardi diagnostici.
Quando sospettare un tumore cerebrale in età pediatrica
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Fino alla chiusura della fontanella, attorno all’anno di età, è possibile un prolungato compenso dell’aumento progressivo della pressione intracranica con l’espansione cranica con diastasi delle suture e aumento della circonferenza cranica. In tale periodo di età il quadro clinico può essere caratterizzato da una fontanella tesa, irritabilità, vomito ripetuto, nistagmo e posizione del capo cerimoniosa mimante un torcicollo (in caso di tumore della fossa posteriore). Importante è notare che nell’infante come nei bambini più grandi la presenza di una neoplasia cerebrale può determinare una sintomatologia assolutamente aspecifica spesso riferita a problematiche gastroenteriche (vomito ripetuto, calo ponderale ecc.) con conseguenze catastrofiche nel caso di ritardi diagnostici. Inoltre nei bambini anche al di sopra di un anno frequentemente non vi è la presenza di segni di lato con deficit motori anche nel caso di voluminose lesioni sovratentoriali (FIG.15.3).
FIGURA 15.3 RM-T2 encefalo che mostra una voluminosa lesione fontoparietale sinistra (PNET) determinante un minimo effetto massa in un bambino di 5 anni di età senza deficit neurologici focali e con storia di cefalea ingravescente.
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È necessario sottoporre con urgenza un bambino a un esame del fundus oculi e a una TC-encefalo quando la raccolta anamnestica documenta il perdurare di sintomi aspecifici. Infatti la cefalea, che è uno dei sintomi principalmente riferiti in caso di aumento della pressione intracranica nei tumori cerebrali, può essere riportata solo da bambini più grandi.
Quando sospettare un tumore del SNC nell’adulto Nell’adulto la sintomatologia clinica è generalmente meno aspecifica e dipende dalla sede, dalle dimensioni e dalla velocità di crescita del tumore e dall’eventuale sviluppo di un edema cerebrale peritumorale di tipo vasogenico con incremento della pressione intracranica. In particolare, è importante sottolineare che un tumore a lento accrescimento, come un meningioma, può raggiungere notevoli dimensioni senza determinare una sintomatologia franca. Lesioni a lento accrescimento con interessamento dei lobi frontali possono per esempio determinare sintomatologie di tipo psichiatrico con disforie/apatie o sintomi depressivi misconosciuti per anni. È inoltre sempre necessario indagare da un punto di vista neuroradiologico l’insorgenza di un’epilessia parziale in età adulta. Infatti, l’epilessia dei tumori cerebrali rappresenta il 30% di tutte le epilessie ed è il sintomo d’esordio nel 20-40% dei tumori primitivi cerebrali. Considerando inoltre tutti gli istotipi la prevalenza dell’epilessia supera il 60%. In caso di gliomi di basso grado la prevalenza di epilessia arriva fino al 60-85% dei casi.
TUMORI EXTRAE INTRA-ASSIALI Da un punto di vista pratico è utile distinguere i tumori intra-assiali (del parenchima cerebrale) dai tumori extra-assiali (che comprimono secondariamente il parenchima ma originano da strutture extraparenchimali). Considerando a parte le metastasi, i principali istotipi intra-assiali sono nell’adulto i gliomi cerebrali, e nel giovane adulto e nel bambino i PNET e gli ependimomi. I principali istotipi extraassiali sono i meningiomi, gli adenomi dell’ipofisi e gli schwannomi. La suddivisione in extra ed intra-assiali comporta durante il planning terapeutico l’assegnazione del tumore a un possibile istotipo (per esempio,
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meningiomi extra-assiali e gliomi intra-assiali) con implicazioni di tipo anatomochirurgico e neurooncologico. L’asportazione di una lesione extra-assiale, come nel caso di un tumore che origina dalle meningi e secondariamente comprime/distorce il parenchima cerebrale, i nervi cranici e le strutture vascolari, richiede il rispetto di piani di clivaggio naturali come l’aracnoide, e quindi delle strutture vascolonervose, e la scelta di approcci chirurgici che sfruttino eventuali corridoi naturali (solchi, scissure e spazi cisternali aracnoidei della base del cranio) (FIG. 15.4A-B) o che favoriscano l’accesso a tali corridoi naturali attraverso la complessa rimozione di segmenti ossei della base del cranio (approcci al basicranio) (FIG. 15.4C-D). La natura dei tumori extraassiali permette inoltre una chirurgia con maggiori caratteri di radicalità oncologica.
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FIGURA 15.4 (A) RM-T1 sagittale con gadolinio di un meningioma sovrasellare. (B) Immagine microchirurgica di un meningioma parasellare ( ) e dei suoi rapporti con la carotide intracranica ( ) e il nervo ottico ( ) tra cui si configura un corridoio naturale di aggressione chirurgica. (C) RM-T1 sagittale con gadolinio di un meningioma del margine posteriore del forame occipitale con effetto massa sul tronco cerebrale. (D) Immagine intraoperatoria del posizionamento di un paziente sottoposto ad approccio retrosigmoideo per uno schwannoma vestibolare destro. Viceversa, la chirurgia dei tumori intra-assiali, per il coinvolgimento primario in quanto punto di origine, e secondario a causa della tendenza alla diffusione/invasione delle strutture cortico-sottocorticali, non permette un tipo di chirurgia con criteri di radicalità oncologica (margine resettivo privo
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di malattia) bensì solo una radicalità neuroradiologica sulla base di RM postoperatoria con gadolinio. La nozione di una localizzazione extra-assiale e ancor più intraassiale di un tumore cerebrale deve inoltre essere completata a scopo terapeutico da informazioni circa l’eloquenza della sede della lesione: aree sensitivomotorie primarie e secondarie, aree del linguaggio e aree associative.
Gliomi a basso grado di malignità Gli astrocitomi a basso grado di malignità rappresentano un gruppo eterogeneo di neoplasie primitive cerebrali che originano dalla trasformazione neoplastica della glia. Essi sono rappresentati dai gliomi di I e II grado della clasificazione WHO e includono istotipi profondamente diversi con prognosi differenti. La linea cellulare gliale è rappresentata da astrociti, oligodendrociti e cellule ependimali, da cui originano astrocitomi, oligodendrogliomi, tumori misti ed ependimomi. Caratteristica principale dei gliomi di basso grado è l’elevata tendenza all’infiltrazione/diffusione che avviene attraverso i fasci di sostanza bianca. In funzione della connotazione istopatologica e della diffusività si parla di gliomi di basso grado indolenti (astrocitoma pilocitico I, a cellule giganti subependimale II e xantoastrocitoma pleomorfo) e più aggressivi nel tempo con tendenza all’evoluzione maligna (gliomi diffusi di II grado). L’incidenza è di circa 2,4 casi/100 000 in età pediatrica e 0,8/100 000 nell’adulto. Sono più frequenti nelle facomatosi (neurofibromatosi tipo I), mentre nella sclerosi tuberosa possono presentarsi astrocitomi a cellule giganti subependimali. L’età mediana alla diagnosi è di circa 35 anni (tumore del giovane adulto) e di circa 25 per gli astrocitomi pilocitici giovanili. I gliomi diffusi hanno la tendenza a localizzarsi in aree corticali eloquenti (80%). Nell’arco degli anni i tumori gliali benigni diffusi tendono a differenziarsi in lesioni ad alto grado di malignità con crescita rapida ed eventualmente fatale. Clinicamente i gliomi classificati WHO II si manifestano nella maggior parte dei casi con un’epilessia. La prognosi di sopravvivenza, influenzata dalla sede, dal trattamento e dalla presentazione clinica, varia dal 99% a 10 anni nel caso del glioma pilocitico, al 65-80% a 5 anni (oligodendroglioma e
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gliomi misti di II grado), e al 20-45% a 10 anni (astrocitoma). I fattori prognostici sono riassunti nella classificazione della University of California San Francisco nella TABELLA 15.3. TABELLA 15.3 Fattori prognostici per i gliomi di basso grado diffusi
Radiologicamente i gliomi diffusi di basso grado appaiono come lesioni ipodense in TC e iperintense nelle sequenze RM T2-pesate con un modesto effetto massa rispetto al volume della lesione e con edema scarso-assente (FIG. 15.5A). Le sequenze FLAIR aiutano nella determinazione del grado di diffusione della lesione lungo le fibre di sostanza bianca. Le tecniche di spettroscopia in RM attraverso l’analisi della rappresentazione di metaboliti cellulari aiutano nella differenziazione del grado istologico e anche dell’istotipo qualora le immagini anatomiche di RM non siano caratteristiche. Le tecniche di trattografia che ricostruiscono in 3D le fibre di sostanza bianca in RM (FIG. 15.5B) descrivono il rapporto tra il tumore e i fasci di fibre sia sensitivo-motorie che associative permettendo un planning chirurgico adeguato, mentre la RM funzionale permette di mappare le aree motorie e cognitive corticali (FIG. 15.5C). Infine la RM è lo strumento essenziale nella determinazione della risposta dei gliomi al trattamento oncologico e nella definizione della estensione della resezione chirurgica.
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FIGURA 15.5 (A) RM-T2 assiale di un glioma di basso grado frontale destro. (B) RM-T1 assiale con trattografia (area punteggiata) delle fibre motorie sottocorticali che sono dislocate rispetto a un glioma parietale destro. (C) RM funzionale con immagini di attivazione (area punteggiata) delle aree motorie corticali rispetto alla neoplasia dell’immagine (A). (D) RM-T1 assiale con gadolinio che mostra un glioblastoma frontale sinistro e il suo effetto massa sul parenchima circostante. (E) RM-T1 sagittale con gadolinio che mostra una metastasi frontale con ipointensità peritumorale cortico-sottocorticale riferibile all’edema. (F) RM-T1 assiale con gadolinio (a destra) e corrispettiva TC ossea di un meningioma coinvolgente il tetto orbitario destro.
Gliomi ad alto grado di malignità
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I gliomi di alto grado sono secondo la classificazione WHO di III e di IV grado e comprendono sia gli istotipi astrocitari/oligodendrogliali che i PNET e gli ependimomi. In particolare il glioblastoma multiforme (WHO IV) e l’astrocitoma anaplastico (WHO III) rappresentano insieme circa il 30% delle neoplasie cerebrali primitive e il 60% dei gliomi. Il glioblastoma viene classificato in de novo in presenza di mancata identificazione di una neoplasia gliale che funga da precursore, e secondari se trattasi di evoluzione maligna di un glioma di II grado. Quello che tuttavia potrebbe sembrare solo un bias osservazionale legato alla mancata diagnosi di un glioma di basso grado precursore o a una sua indolente evoluzione è in contrasto con la presenza di rilevanti differenze biomolecolari e genetiche nei due tipi di glioblastoma senza differenze istopatologiche. La trasformazione maligna rispetto ai gliomi di basso grado contempla la perdita di eterozigosi del cromosoma 10 e l’attivazione della proteina TP53 con blocco dell’apoptosi cellulare. Viceversa, l’amplificazione dell’EGF (epidermal growth factor) che agisce sul controllo della replicazione cellulare è presente nei gliomi de novo ed è spesso assente nei secondari. La sopravvivenza media dell’astrocitoma anaplastico dalla prima diagnosi è di 4 anni e del glioblastoma di 14-18 mesi. Questo istotipo di glioma maligno, pur essendo il più frequente, è il tumore cerebrale nei confronti del quale sono stati ottenuti i risultati oncologici più deludenti dato che la sopravvivenza media si è di poco modificata rispetto agli anni ’20. Radiologicamente i gliomi di alto grado appaiono sia in TC che in RM come lesioni edemigene, irregolari cortico-sottocorticali captanti disomogeneamente mezzo di contrasto ed esprimenti un importante effetto massa (FIG. 15.5D). Le tecniche di RM-DWI (diffusion weighted imaging) che descrivono la diffusione libera di molecole d’acqua permettono di differenziare tali tumori e le metastasi cerebrali (che possono condividere aspetti cistici con captazione di mezzo di contrasto a cercine) da lesioni ascessuali.
Metastasi cerebrali Le metastasi cerebrali si osservano nel 20-40% dei pazienti affetti da tumore e sono sintomatiche nel 60-75% dei casi. Le metastasi cerebrali sono diagnosticate più spesso in pazienti con neoplasia nota (presentazione
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metacrona nel 50% dei casi), meno frequentemente (fino al 30%) contemporaneamente alla diagnosi del tumore primitivo (presentazione sincrona) o prima della sua scoperta (presentazione precoce nel 20% dei casi). I sintomi di esordio più comuni sono: cefalea (40-50%), deficit neurologici focali (30-40%) e crisi epilettiche (15-20%). Una minoranza di pazienti presenta un esordio acuto (strokelike), in genere legato a un’emorragia intratumorale (più spesso nelle lesioni da melanoma, coriocarcinoma e carcinoma renale). I tumori primitivi che più frequentemente danno metastasi cerebrali sono in ordine: i tumori polmonari, mammari e i melanomi. Meno frequente è l’origine sottodiaframmatica del tumore primitivo. L’80% delle lesioni si verifica negli emisferi cerebrali, il 15% nel cervelletto e il 5% nel tronco encefalico. Approssimativamente l’80% dei pazienti ha una storia di cancro sistemico e il 70% presenta metastasi cerebrali multiple. Radiologicamente le metastasi appaiono come lesioni corticosottocorticali generalmente più regolari rispetto a un glioblastoma e captanti mezzo di contrasto a cercine (FIG. 15.5E). Importante sottolineare la tendenza a determinare un’imponente reazione edemigena di tipo vasogenico rispetto al volume del tumore. Le metastasi cerebrali, pur essendo lesioni intra-assiali, dato il loro sviluppo all’interno del parenchima, non contengono elementi cellulari parenchimali e pertanto si comportano come un corpo estraneo con relativa reazione infiammatoria (VEDI FOCUS ON: RADIOCHIRURGIA STEREOTASSICA, PAG. 295).
Meningiomi Questo tumore prende origine dalle cellule dell’aracnoide, uno dei tre rivestimenti meningei del sistema nervoso centrale. Il meningioma è un tumore extraassiale, ovvero occupa spazio all’interno della scatola cranica o del canale della colonna vertebrale, ma non invade il tessuto nervoso che viene però dislocato e compresso dalla massa in crescita. Sono tumori a lento accrescimento. Il meningioma è un tumore frequente e rappresenta circa il 20% dei tumori cerebrali. È più rappresentato nel sesso femminile. È un tumore dell’età adulta, con un picco di incidenza attorno ai 45 anni. Solo l’1,5% si presenta in età pediatrica nella neurofibromatosi di tipo I.
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Le sedi più frequenti sono: parasagittali (20,8%), convessità (15,2%), parasellari (12,8%), ala sfenoidale (11,9%), pavimento olfattorio (9,8%) e falce (8%). Nell’8% dei casi sono multipli, spesso in associazione a una neurofibromatosi di tipo II. Possono determinare una reazione iperostosante e presentare calcificazioni al proprio interno. Gli istotipi più frequenti sono il meningoteliomatoso, il fibroso e il transizionale. L’1,7% dei meningiomi è di natura maligna e più frequente nei pazienti giovani. Un istotipo potenzialmente precursore di una evoluzione maligna è il meningioma atipico. Radiologicamente la RM con sequenze T1 con gadolinio, T2 (con esaltazione del segnale liquorale) e la TC sono gli esami di scelta per valutare il rapporto tra tumore e parenchima (eventuale piano di clivaggio) e il coinvolgimento delle strutture ossee adiacenti (FIG. 15.5F). L’esecuzione di uno studio vascolare (angioRM, angio-TC o angiografia digitale) si può rendere necessario per valutare la pervietà di strutture vascolari venose (meningiomi parasagittali) o la sede rispetto al meningioma di quelle arteriose (circolo di Willis nei meningiomi parasellari: dislocazione/distorsione/encasement) per il planning chirurgico.
PRINCIPI DI TRATTAMENTO I principi di trattamento dei tumori cerebrali variano a seconda dell’istotipo in funzione della sede e dell’età e delle condizioni generali del paziente. Il primo approccio è la valutazione della possibilità di una asportazione chirurgica che deve essere il più radicale possibile. Tuttavia il criterio di radicalità oncologica (margini resettivi liberi da tumore) a livello del sistema nervoso non è sempre attuabile per le gravi conseguenze funzionali che ne deriverebbero. Lo scopo della chirurgia è solitamente duplice: riduzione dell’effetto massa del tumore sulle strutture circostanti con controllo della sintomatologia da ipertensione endocranica/focale/epilettica e diagnosi istopatologica. A parte i gliomi classificati WHO I, nei restanti istotipi e gradi la resezione radicale di un glioma può essere tale solo dal punto di vista radiologico su RM con mezzo di contrasto eseguita entro 24-48 ore dall’intervento. Infatti la diffusione di cellule neo plastiche oltre la barriera tissutale edematosa è già presente. Data la frequente localizzazione dei gliomi
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in aree eloquenti, specialmente di gliomi a basso grado di malignità, la resezione di tali lesioni è spesso subtotale. Negli ultimi anni la chirurgia a paziente sveglio con un mappaggio cortico-sottocorticale elettrofisiologico delle funzioni sensitivo-motorie e cognitive ha permesso di rendere la chirurgia delle lesioni intra-assiali più sicura migliorando i risultati sia oncologici che funzionali (VEDI FOCUS ON: MAPPAGGIO DELLE FUNZIONI CEREBRALI, IN QUESTA PAGINA). La sede eloquente e quindi la frequente subtotalità della resezione sono motivo di discussione circa l’impatto della chirurgia dei gliomi di grado II sulla sopravvivenza del paziente e sulla sua reale necessità. Così pure il ruolo della chemio e radioterapia nei gliomi di basso grado in associazione o meno alla chirurgia è molto contro-verso. Viceversa, la resezione dei gliomi di alto grado è necessaria data la rapida crescita per poter garantire uno spazio chemio e radioterapeutico.
FOCUS ON MAPPAGGIO DELLE FUNZIONI CEREBRALI La chirurgia dei gliomi in area eloquente si avvale delle tecniche di mappaggio delle funzioni cerebrali durante interventi a paziente sveglio se vi è un interessamento delle aree cognitive, o a paziente addormentato ma non curarizzato se vi è un interessamento di aree motorie. Questa tecnica prevede di risvegliare il paziente una volta esposta la corteccia cerebrale e di mappare le aree cognitive (linguaggio, calcolo, lettura ecc.) e/o motorie determinando delle interferenze elettriche a livello del network cortico-sottocorticale con l’applicazione di una corrente bipolare. Il corollario clinico delle interferenze (per esempio, arresto del linguaggio, elicitazione di movimenti involontari vs attivazione subclinica di placche neuromuscolari visualizzabile con un monitoraggio EMG dell’emisoma controlaterale) implica un ruolo funzionale dell’area corticale o sottocorticale stimolata che permette di risparmiarla durante l’asportazione chirurgica.
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FOCUS ON RADIOCHIRURGIA STEREOTASSICA La radiochirurgia stereotassica è stata introdotta, circa 50 anni fa, dal neurochirurgo svedese Leksell. È una modalità di trattamento dei tumori (ma anche di malformazioni vascolari) tramite irradiazione, con sistemi di planning 3D computerizzati, che viene integrata nel piano terapeutico neurochirurgico come alternativa alla chirurgia stessa quando il rischio chirurgico di danno funzionale è elevato (per esempio, schwannomi di piccole dimensioni, metastasi cerebrali multiple) o come strumento sinergico (per esempio, tendenza accrescitiva di residui di meningiomi della base in asportazioni subtotali). La tecnica di radiochirurgia stereotassica permette di indirizzare attraverso corridoi anatomici che rispettano strutture essenziali e in una singola frazione (da cui il termine radio-“chirurgia”) una dose elevata di radiazioni ionizzanti direttamente sul bersaglio (si ricorda che esiste anche la radioterapia stereotassica frazionata [FSR] applicata in 2-3 sedute). La radiochirurgia ha lo scopo di limitare il danno ai tessuti limitrofi. Esiste un limite dimensionale delle lesioni trattabili (≤3 cm di diametro) che l’evoluzione tecnologica sta progressivamente superando. L’apparecchio più utilizzato è il Gamma Knife, cioè un bisturi a raggi gamma. Oltre al Gamma Knife è disponibile anche un sistema che avvalendosi di un acceleratore lineare impiega un apparecchio di collimazione multilamellare dinamico, mentre le più recenti evoluzioni hanno introdotto la radioterapia robotica con Cyber Knife. La stessa radiochirurgia, per quanto apparentemente meno invasiva della chirurgia a cielo aperto, può essere tuttavia gravata da complicanze legate alla radionecrosi dei tessuti adiacenti al volume bersaglio.
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FOCUS ON IMAGING INTRAOPERATORIO La necessità di massimalizzare la resezione dei tumori intrinseci determinando il minor danno funzionale ha guidato nell’ultimo decennio lo sviluppo di tecnologie di imaging intraoperatorio atte al riconoscimento della lesione rispetto al tessuto sano con possibile fusione di immagini trattografiche e funzionali. Fra tutte la più importante è la neuronavigazione che permette di identificare sullo studio RMN/TC preoperatorio la localizzazione vistuale della neoplasia nei tre piani dello spazio che vengono interpolati con un sistema stereotassico di riferimento cartesiano nello spazio reale (il cranio del paziente fissato stabilmente al piano del tavolo operatorio). In tal modo è quindi possibile stabilire una corrispondenza millimetrica tra l’immagine di RMN visualizzata sull’apparecchiatura e la localizzazione esatta delle strutture cerebrali esposte chirurgicamente. Il suo limite, ovvero l’assenza di immagini real time dovuta alla navigazione su immagini preoperatorie e lo spostamento dei reperi anatomici che avviene all’apertura della dura madre, ha favorito la ricerca di tecnologie intraoperatorie che permettessero di fotografare la neoplasia e i suoi rapporti durante le fasi della resezione. In particolare la RMN intraoperatoria offre una qualità di imaging eccellente a fronte tuttavia di ovvi costi sanitari elevati che ne precludono la diffusione e la standardizzazione dei centri neurochirurgici. Questo limite ha determinato lo sviluppo di una tecnica meno costosa e tradizionalmente utilizzata nella radiologia diagnostica convenzionale come l’ecografia. L’ecografia del parenchima cerebrale permette lo studio real time del tumore associato a possibili studi Doppler e contrastografici con qualità di immagine sempre più prossima a quelle della RMN grazie a una implementazione dei software e delle sonde in uso (FIG. F15.1).
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FIGURA F15.1 (a) Sequenza assiale T2-pesata preoperatoria che mostra la presenza di lesione espansiva frontale sinistra (freccia) determinante effetto compressivo sulle strutture della linea mediana, in particolare sul ventricolo laterale omolaterale che appare distorto. (b) L’ecografia intraoperatoria eseguita prima dell’apertura durale conferma il quadro RM con la distorsione del ventricolo sinistro. (c) La sequenza coronale in FLAIR preoperatoria evidenzia la presenza di modesta quota di edema perilesionale. (d) Dopo resezione del tumore si osserva iniziale espansione del sistema ventricolare e riduzione dell’effetto massa.
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Il trattamento delle metastasi cerebrali è condizionato alla stadiazione del tumore primitivo e dal margine terapeutico. Il trattamento delle lesioni extra-assiali (meningiomi, schwannomi ecc.) si basa sul principio di massima radicalità chirurgica nel rispetto delle strutture vascolo-nervose dati il limitato coinvolgimento delle strutture parenchimali e il globale lento atteggiamento accrescitivo. La chemioterapia ha un ruolo solo per le lesioni maligne. La radioterapia convenzionale o stereotassica (VEDI FOCUS ON: RADIOCHIRURGIA STEREOTASSICA, PAG. 295) è utilizzata come strumento di controllo della crescita di lesioni non aggredibili chirurgicamente o di residui tumorali non asportabili, con evidenza di crescita. Nel complesso l’evoluzione di nuove tecniche di imaging pre e intraoperatorio e l’implementazione di tecniche di monitoraggio neurofisiologico renderanno sempre più sicura dal punto di vista della preservazione delle funzioni neurologiche e più radicale dal punto di vista dell’impatto neuro-oncologico la chirurgia dei tumori cerebrali (VEDI FOCUS ON: IMAGING INTRAOPERATORIO, PAG. 295).
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16 MALATTIE NEURODEGENERATIVE: NUOVA FRONTIERA DI RICERCA C. Ferrarese, L. Tremolizzo
KEY POINTS Lo studio degli aggregati proteici che contraddistinguono le varie malattie neurodegenerative ha portato all’identificazione di diverse proteine coinvolte specificamente in questi processi: sulla base di questo principio è stato possibile proporre una vera e propria classificazione delle malattie neurodegenerative. La beta-amiloide, prodotto proteolitico dell’APP, secreto dai neuroni, si accumula a livello extracellulare nelle placche senili, le lesioni caratteristiche della malattia di Alzheimer. La proteina tau iperfosforilata caratterizza i gomitoli neurofibrillari che contraddistinguono le taupatie, un gruppo eterogeneo di patologie, ulteriormente suddivise in funzione delle isoforme di tau accumulate. L’alfa-sinucleina si deposita, nella malattia di Parkinson, in aggregati
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intracellulari noti come corpi di Lewy, che sono presenti nei neuroni colpiti dal processo degenerativo. Le cellule tentano di degradare le proteine disfunzionanti grazie all’azione di due principali sistemi catabolici: il sistema ubiquitinaproteasoma per le proteine a breve emivita, e il sistema lisosomaautofagia per le proteine a più lunga emivita. L’infiammazione amplifica e mantiene i meccanismi di danno neuronale legati alla disfunzione proteica; strategie volte a interferire con tale processo potrebbero portare a nuove terapie per le malattie neurodegenerative.
AGGREGATI PROTEICI: VERSO UNA NUOVA CLASSIFICAZIONE DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE Le malattie neurodegenerative, come la malattia di Alzheimer e di Parkinson, la corea di Huntington, la sclerosi laterale amiotrofica o le malattie prioniche, sono caratterizzate da meccanismi fisiopatologici comuni che includono l’aggregazione proteica e la formazione di corpi inclusi evidenziabili dal punto di vista neuropatologico. I corpi inclusi vengono osservati nei neuroni superstiti nelle aree coinvolte dal processo degenerativo, ma il loro contenuto varia a seconda della specifica malattia (TAB. 16.1). In funzione del quadro neuropatologico si identificano diverse proteine coinvolte, tra cui betaamiloide, tau, alfa-sinucleina, proteina prionica, TDP-43. La presenza di tali proteine identifica dei gruppi neuropatologici a cui far afferire le principali malattie neurodegenerative (TAB. 16.2). Tale classificazione non si limita a rispecchiare unicamente le diversità degli inclusi riscontrati a livello neuropatologico, ma permette anche di definire i diversi pathways molecolari coinvolti, suggerendo così distinti bersagli verso cui dirigere gli sforzi terapeutici presenti e futuri. TABELLA 16.1 Principali malattie neurodegenerative e corrispondenti accumuli proteici
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TABELLA 16.2 Suddivisione delle principali malattie degenerative dal punto di vista neuropatologico
In questo capitolo vengono approfonditi più nel dettaglio i meccanismi implicati nella produzione e deposizione di tre dei principali “attori” del processo neurodegenerativo: beta-amiloide, tau e alfa-sinucleina.
Beta-amiloide Le tipiche lesioni che permettono la diagnosi di malattia di Alzheimer dal punto di vista neuropatologico sono le placche senili e i grovigli
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neurofibrillari (di cui si parlerà oltre nel paragrafo dedicato alla proteina tau). Le placche sono rappresentate da aggregati di materiale amiloide, tipicamente congofilo (birifrangenza verde alla luce polarizzata), circondati da neuriti distrofici: il principale costituente di tali ammassi è rappresentato dal peptide beta-amiloide che, a causa della struttura secondaria prevalentemente a foglietto beta, risulta essere insolubile e resistente all’azione delle proteasi. La beta-amiloide presenta un potenziale di aggregazione estremamente elevato che la porta a formare strutture oligomeriche, che oggigiorno si pensa possano giocare il ruolo maggiormente lesivo nei confronti dei meccanismi omeostatici neuronali. L’ulteriore aggregazione degli oligomeri porta alla formazione delle pre-fibrille, e quindi, infine, delle fibrille che si depositano nelle placche senili. Una delle principali ipotesi fisiopatologiche della malattia di Alzheimer prevede che la beta-amiloide giochi un ruolo di centralità, generando tutte le altre alterazioni che caratterizzano tale malattia. Un importante passo avanti nella comprensione della patogenesi della malattia di Alzheimer si è avuto a seguito dell’osservazione che nei soggetti portatori della sindrome di Down (trisomia 21) si veniva a configurare un quadro di demenza a esordio precoce, che all’esame neuropatologico presentava le alterazioni caratteristiche della malattia di Alzheimer. Un ulteriore indizio di un potenziale ruolo patogenetico del cromosoma 21 è scaturito dall’osservazione di una sua alterazione in alcuni casi familiari della malattia a esordio precoce: il gene mutato codifica per la proteina precursore dell’amiloide (APP, amyloid precursor protein). Si tratta di una proteina transmembranaria che viene normalmente tagliata in modo prevalentemente non amiloidogenico mediante un pathway che vede coinvolta l’attività enzimatica alfasecretasica (verosimilmente ascrivibile alla proteina ADAM10); nel morbo di Alzheimer si ha un incremento del taglio enzimatico secondo una modalità anomala, a opera della beta e gammasecretasi, che porta alla produzione e all’accumulo del frammento betaamiloide. Nuovi studi di genetica, sempre in pazienti con morbo di Alzheimer familiare a esordio precoce, hanno permesso di indicare nel 50% circa dei casi il coinvolgimento di un gene localizzato sul cromosoma 14. Tale gene codifica per la presenilina 1 (PS1), una proteina transmembrana per la quale si è ipotizzato un ruolo di modulazione del processo di taglio secretasico dell’APP. Successivamente è stata evidenziata una mutazione analoga a carico di un gene localizzato sul cromosoma 1, che codifica per una proteina appartenente allo stesso gruppo, denominata presenilina 2 (PS2).
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Nonostante queste osservazioni, la patogenesi della malattia di Alzheimer rimane, ad oggi, in gran parte da chiarire. In particolare è discusso quale possa essere il contributo dei fattori genetici (il più importante fattore di rischio per le forme sporadiche è rappresentato dalla presenza dell’allele epsilon 4 della apolipoproteina E, il cui gene è localizzato sul cromosoma 19) e quale quello dei fattori ambientali (tossine, metalli pesanti, stress), che potrebbero ostacolare la degradazione del peptide beta-amiloide, piuttosto che favorirne la produzione.
Proteina tau Indubbiamente tra tutti i gruppi neuropatologici, quello delle taupatie presenta la numerosità maggiore (includendo, oltre ai quadri segnalati nella TABELLA 16.2, anche forme più rare, come la demenza pugilistica o la panencefalite sclerosante subacuta). Inoltre è degno di nota il fatto che nella classificazione neuropatologica di Braak della malattia neurodegenerativa più frequente, la demenza di Alzheimer, la quantità e la distribuzione dei gomitoli neurofibrillari (le lesioni tipicamente caratterizzate dalla presenza di proteina tau iperfosforilata e aggregata nei filamenti elicoidali appaiati), ma non quelle delle placche amiloidee, correlano con la suddivisione nei diversi stadi di malattia. La proteina tau è codificata da un gene che si estende per un centinaio di chilobasi circa sul cromosoma 17 (in posizione 17q21). Il trascritto primario contiene 16 esoni di cui tre (gli esoni numero 2, 3 e 10) vanno incontro a uno splicing alternativo, grazie al quale sono possibili sei differenti isoforme, caratterizzate da struttura e peso molecolare diversi. Dati riguardo alla differenza esistente tra le varie taupatie emergono dall’analisi del materiale proveniente dal cervello di tali pazienti, mediante la metodica del Western blot (tecnica di separazione elettroforetica delle proteine, seguita dall’identificazione mediante anticorpi dei target d’interesse), permettendo la suddivisione in quattro sottogruppi patologici. La caratteristica chiave che distingue le diverse isoforme e ne determina il potenziale patologico consiste nel numero delle ripetizioni nella zona carbossi-terminale, in quanto il loro ruolo sarebbe quello di determinare la stabilità del legame con i microtubuli: tre isoforme presentano 3 domini di legame per i microtubuli (isoforme 3R), mentre le altre tre presentano 4 domini (isoforme 4R). In fisiologia, il rapporto tra le isoforme 4R e quelle 3R è all’incirca uguale a uno: tale valore
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è molto importante in quanto si ritiene che una sua alterazione possa portare alla formazione delle lesioni neurofibrillari. L’aggregazione viene inoltre notevolmente intensificata aggiungendo alcune grandi molecole cariche negativamente, come solfo-glicosaminoglicani (eparan solfato, condroitin solfato, dermatan solfato) o acidi nucleici (RNA), tutte sostanze che sono state riscontrate in associazione con le lesioni neurofibrillari nel cervello dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer.
Alfa-sinucleina La presenza di depositi intracellulari caratteristici è un aspetto imprescindibile per la diagnosi autoptica della malattia di Parkinson: si tratta dei corpi di Lewy, inclusi intracitoplasmatici fibrillari costituiti da aggregati di diverse proteine, tra cui la più importante è l’alfa-sinucleina, una proteina presente in modo ubiquitario, formata da 140 aminoacidi e codificata dal gene SNCA. La struttura tridimensionale dell’alfasinucleina è costituita da un eptamero ripetuto, la cui estremità N-terminale è in grado di formare un dimero anfipatico costituito da alfa-eliche; ha un core idrofobico e un terminale carbossilico. Risulta localizzata prevalentemente a livello della membrana cellulare e la forma di membrana è in equilibrio con la componente citoplasmatica. Il ruolo patogenetico della proteina è noto dalla dimostrazione di forme familiari di malattia di Parkinson legate a mutazioni puntiformi o moltiplicazioni a carico del gene SNCA (quadri PARK1 e PARK4), che causerebbero un’acquisizione di funzione tossica da parte della proteina stessa. Il tentativo di comprendere i meccanismi alla base del danno mediato dall’alfa-sinucleina e della formazione dei corpi di Lewy ha portato a identificare diverse alterazioni a vari livelli della funzionalità cellulare: è stata osservata una minor affinità della proteina per i lipidi di membrana in alcune forme mutate di SNCA, con un conseguente aumento dei livelli citoplasmatici e la formazione di aggregati; complessi tossici non degradabili sono stati associati ad alterazioni del sistema ubiquitinaproteasoma (VEDI OLTRE) e del sistema autofagico; altri meccanismi comprendono un’alterata funzionalità mitocondriale, un aumento dello stress ossidativo, eccitotossicità e apoptosi.
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I MECCANISMI CATABOLICI: PROTEASOMA E LISOSOMA La cellula possiede una serie di sistemi in grado di degradare le proteine e gli organelli disfunzionanti o invecchiati in modo da garantire il mantenimento dell’omeostasi. Il sistema ubiquitina-proteasoma (UPS) è uno dei due principali sistemi implicati in questo turnover, insieme a quello autofagico, mediato principalmente dai lisosomi. Il proteasoma è un complesso multiproteico citoplasmatico (non fornito cioè di membrana delimitante) che è in grado, attraverso l’attività coordinata di varie subunità, di catabolizzare vari target polipeptidici. All’interno del proteasoma vengono veicolate solo le proteine a breve emivita che sono state sottoposte all’ubiquitinazione, ovvero al legame con l’ubiquitina, un peptide di 76 aminoacidi che funge da segnale per la degradazione. Il fatto che la maggior parte degli accumuli che caratterizzano le varie malattie neurodegenerative siano positivi per proteine ubiquitinate (beta-amiloide, tau, TDP-43, alfa-sinucleina) ha portato a ipotizzare che alla base di queste patologie potesse esserci una compromissione del sistema di proteolisi svolto dall’UPS. Anche la dimostrazione che mutazioni in alcuni dei geni coinvolti in questo sistema, come ad esempio la parkina, possano essere responsabili di fenocopie, più o meno precise, di malattie degenerative idiopatiche (in quest’ultimo caso, malattia di Parkinson), ha portato a pensare che gli aggregati proteici non più adeguatamente catabolizzati dall’UPS possano portare a morte le cellule. In parte analoga a quella proteasomica è la funzione del sistema autofagico-lisosomiale (ALP), rappresentata da tre processi: la macroautofagia, l’autofagia mediata da chaperonine (CMA) e la meno studiata microautofagia. Tali attività sono distinte in base alla modalità con la quale i substrati raggiungono il lume dei lisosomi, organelli vescicolari dove risiedono diverse attività enzimatiche idrolitiche, attive a pH bassi, deputate alla degradazione sia di organelli che di proteine a lunga emivita invecchiate o disfunzionanti. Nel processo macroautofagico si forma una struttura nota come autofagosoma, in cui i bersagli da degradare vengono circondati da una membrana derivante dal reticolo endoplasmatico cellulare. La successiva fusione con i lisosomi permette di degradare il contenuto dell’autofagosoma. Nella CMA, invece, gli specifici bersagli proteici da degradare (per esempio
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l’alfa-sinucleina) possiedono un motivo aminoacidico di riconoscimento KFERQ che permette che vengano complessati alla proteina Hsc70 per poi essere importati all’interno dei lisosomi in un processo mediato dalla proteina LAMP-2A. È ben noto che la deficienza di numerose attività enzimatiche associate al sistema lisosomiale viene considerata responsabile di svariate malattie eredodegenerative da accumulo che interessano anche il sistema nervoso, tra cui ricordiamo, per esempio, le mucopolisaccaridosi o le sfingolipidosi (VEDI CAP. 21). Si ipotizza inoltre che possa esserci una disfunzione dell’attività autofagica nelle malattie neurodegenerative “classiche” e, in particolare, nella malattia di Parkinson. A ulteriore conferma di queste ipotesi, è stato dimostrato che il gene della glucocerebrosidasi, mutato nella malattia di Gaucher (una sfingolipidosi da accumulo lisosomiale), sembrerebbe essere un vero e proprio gene di suscettibilità implicato nella patogenesi della malattia di Parkinson.
IL RUOLO DELL’INFIAMMAZIONE Nonostante le prime descrizioni delle malattie degenerative fossero focalizzate proprio sull’assenza di chiare evidenze di infiammazione in corso, quest’ultimo processo è venuto ad assumere sempre più importanza negli ultimi anni, venendo riconosciuto non solo come presente, ma addirittura come uno dei principali fattori che amplificano e mantengono la sofferenza cellulare in queste malattie, interagendo strettamente con effettori finali di danno, quali apoptosi, eccitotossicità e stress ossidativo (a tale proposito VEDI CAP. 1). Il sistema nervoso centrale limita attivamente l’ingresso al suo interno degli elementi del sistema immune attraverso l’esistenza della barriera ematoencefalica, una struttura di primaria importanza per la regolazione omeostatica neuronale: tale fenomeno, che prende il nome di privilegio immunitario del sistema nervoso centrale, fu scoperto intorno alla metà del XX secolo dal premio Nobel Sir Peter Medawar. Chiaramente, nonostante questo privilegio immunitario, sia l’immunità innata che quella adattativa si verificano nel sistema nervoso centrale. Le cellule microgliali sono macrofagi residenti che formano la prima linea di difesa del sistema dell’immunità innata, regolando attentamente la composizione del microambiente che circonda i neuroni e le cellule gliali. In
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condizioni di danno tissutale la microglia assume un fenotipo attivato che promuove e mantiene la risposta infiammatoria volta al contenimento e alla riparazione del danno iniziale. Nella maggior parte dei casi tale processo risulta limitato e svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi tissutale e della risposta alle infezioni. La persistenza dello stimolo infiammatorio, o l’incapacità dei meccanismi attivati di risolvere il danno, fa sì che la risposta infiammatoria si protragga nel tempo, essendo essa stessa fonte di danno per le cellule del sistema nervoso centrale. Negli ultimi anni si è dimostrato in maniera sempre più convincente come gli aggregati proteici che caratterizzano le malattie neurodegenerative si comportino come veri e propri induttori endogeni del danno infiammatorio che, a sua volta, viene amplificato grazie alla produzione di citochine e chemochine da parte della microglia e dei leucociti periferici. Le citochine, a loro volta, non solo sono in grado di amplificare e modulare la risposta del sistema immune, ma anche di modificare specifiche funzioni omeostatiche neuronali e astrocitarie: valga come esempio quello dell’inibizione della ricaptazione del glutammato extracellulare a opera del TNF-alfa, con conseguente eccitotossicità. Inoltre, le citochine pro-infiammatorie (TNFalfa, IL-6 e IL-1) sono anche in grado di attivare nei neuroni una serie di protein chinasi (GSK3beta, CDK5, Ab1) e fosfatasi (PP1), che portano alla formazione di aggregati proteici, come, per esempio, quelli composti da proteina tau iperfosforilata nella malattia di Alzheimer. Tra gli effettori finali del danno vanno invece sicuramente ricordati meccanismi quali l’incremento della sintesi dell’ossido nitrico tramite induzione delle iNOS o la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) da parte del sistema della NADPH ossidasi, entrambi importanti meccanismi di difesa antibatterica ed entrambi in grado di partecipare al mantenimento del danno collaterale del parenchima cerebrale. Lo stress ossidativo, a sua volta, amplifica e perpetua la risposta infiammatoria, per esempio mediante la formazione dei prodotti avanzati di glicazione finale (AGE) e la stimolazione dei recettori associati (RAGE), con produzione e rilascio di citochine proinfiammatorie e ulteriori ROS. Tenendo conto dell’incremento continuo delle evidenze relative al ruolo dell’infiammazione nella patogenesi delle malattie neurodegenerative, non stupisce, dunque, che sia stato proposto l’utilizzo dei farmaci antinfiammatori per la prevenzione o per mitigare il fenotipo di tali malattie. Alcune evidenze indicano, per esempio, un potenziale ruolo protettivo per i FANS sullo sviluppo della malattia di Alzheimer.
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Un altro capitolo è poi quello dell’utilizzo di strategie immunitarie per arrestare il processo degenerativo. Un esempio classico è quello dell’immunoterapia attiva (vaccino) o passiva (anticorpi) nei confronti della proteina beta-amiloide, che si deposita nelle placche senili caratteristiche della malattia di Alzheimer. Diversi studi clinici randomizzati hanno testato proprio questa ipotesi, con un recente spostamento dell’attenzione nei confronti dell’immunoterapia passiva, a causa degli importanti effetti collaterali osservati nei primi trial con il vaccino. Anche la possibilità di monitorare in periferia (per esempio, mediante la misurazione di citochine) il grado di coinvolgimento del sistema immune e l’entità della risposta infiammatoria risulta di potenziale interesse per il clinico, per poter definire con più precisione quali pazienti possano trarre beneficio da un trattamento mirato ad arrestare tali fenomeni. Per un approfondimento su questo argomento, VEDI FOCUS ON: LA MODULAZIONE DELLA RISPOSTA IMMUNE COME NUOVO TARGET TERAPEUTICO, PAG. 302).
FOCUS ON LA MODULAZIONE DELLA RISPOSTA IMMUNE COME NUOVO TARGET TERAPEUTICO
In considerazione del ruolo della risposta infiammatoria e del coinvolgimento del sistema immunitario nelle malattie neurodegenerative, si comprende come modulare la risposta immune endogena potrebbe rappresentare un potenziale meccanismo terapeutico su cui far leva. Per esempio, la recente ipotesi di poter trattare la malattia di Alzheimer mediante l’infusione endovenosa di immunoglobuline rientra proprio in questa linea di pensiero, in quanto tali preparazioni anticorpali contengono inevitabilmente una miscela policlonale di anticorpi anti-beta-amiloide che potrebbe reagire in maggior misura nei confronti delle specie oligomeriche e variamente modificate (per esempio ossidate) di questa proteina, considerate dai
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più come le maggiormente tossiche dal punto di vista fisiopatologico. Tale strategia potrebbe, al contrario di quelle basate sulla somministrazione di anticorpi monoclonali diretti nei confronti della beta-amiloide, ipoteticamente evitare di compromettere quelle che sono le funzioni “fisiologiche” della beta-amiloide, contribuendo, allo stesso tempo, a tenerne sotto controllo l’aggregazione. Studi mirati alla misurazione della risposta immune adattativa endogena, sia prima che dopo modulazione farmacologica, potrebbero, dunque, mettere in luce nuove potenziali strategie di trattamento per queste malattie incurabili.
NON DIMENTICARE CHE... Nelle malattie neurodegenerative, a prescindere dal fenotipo clinico che il paziente presenta, esiste un fenotipo neuropatologico da aggregati proteici che non sempre è univoco. L’identificazione di tale neuropatologia e dei meccanismi di base implicati nella sua genesi rappresenta al momento la sfida verso cui i ricercatori sono orientati nel tentativo di trovare strumenti per una diagnosi precoce e terapie più efficaci per queste malattie.
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Alzheimer patients: correlation with disease severity, Neurobiol Aging, 24:909-914, 2003.
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17 DEMENZE V. Isella, P. Nichelli
KEY POINTS La demenza è caratterizzata da un declino progressivo delle funzioni cognitive che compromette l’autonomia del paziente nelle attività quotidiane. Può avere varia genesi: la forma più frequente è la malattia di Alzheimer, di origine neurodegenerativa. La demenza vascolare deriva invece dalla perdita di tessuto cerebrale secondaria a eventi cerebrovascolari, clinicamente conclamati o silenti. Con la sola eccezione di alcune condizioni secondarie a idrocefalo normoteso o a patologie internistiche (in genere di tipo carenziale o disendocrino), le demenze non sono reversibili. La terapia delle forme neurodegenerative è sintomatica e ne rallenta l’evoluzione clinica; quella delle forme vascolari è profilattica al ripetersi degli eventi cerebrovascolari e può arrestarne la progressione.
DEFINIZIONE, CRITERI DIAGNOSTICI E CLASSIFICAZIONE
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Il termine demenza deriva dal latino dementia (senza mente) e trasmette, anche nella radice della parola, il significato di disturbo mentale acquisito, centrato su un deficit cognitivo globale. Nella più recente revisione, il Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali dell’American Psychiatric Association (DSM-5) ha sostituito Il termine “demenza” con la dizione “disturbo neurocognitivo maggiore” e ne ha fornito una definizione focalizzata soprattutto sulla disabilità del paziente, superando i criteri precedenti che apparivano eccessivamente orientati dalle caratteristiche cliniche della malattia di Alzheimer (TAB. 17.1). TABELLA 17.1 Criteri per la diagnosi di Disturbo Neurocognitivo Maggiore secondo il Manuale Diagnostico delle Malattie Mentali (DSM-5) dell’American Psychiatric Association
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Il concetto di demenza (e quello di “disturbo neurocognitivo maggiore”) si distingue da quelli di “oligofrenia” o “insufficienza mentale” che fanno riferimento a uno sviluppo difettoso delle funzioni cognitive e da quello di “confusione mentale” o “delirium” che si riferisce a un deterioramento acuto, potenzialmente reversibile delle funzioni cognitive (VEDI FOCUS ON: DELIRIUM, CAP. 4 PAG. 70). Sono state descritte diverse forme di demenza, distinte sulla base del profilo clinico o dell’origine eziopatogenetica (TAB. 17.2). La forma più frequente è rappresentata dalla demenza di Alzheimer, seguita da quella vascolare e da quella cosiddetta “mista” (neurodegenerativa e vascolare). TABELLA 17.2 Classificazione eziopatogenetica delle principali cause di
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demenza
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Nel loro insieme, le diverse forme di demenza hanno in Italia, nella popolazione tra i 65 e gli 84 anni, una prevalenza del 6,4% e un’incidenza del 12,5% per 1000 abitanti/anno, con un incremento progressivo con l’età, e una
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maggiore prevalenza nel sesso femminile.
DEMENZE DI ORIGINE NEURODEGENERATIVA In questo gruppo di patologie è compresa una serie di condizioni sottese da morte progressiva dei neuroni cerebrali conseguente alla presenza di depositi anomali di materiale proteico (da cui la recente definizione, per questo gruppo di patologie, di “malattie da accumulo”), e accomunate da esordio insidioso, andamento lentamente ingravescente e irreversibile, senza possibilità di trattamento eziologico. Clinicamente esse possono presentarsi con compromissione quasi isolata, o comunque nettamente prevalente, delle funzioni superiori, oppure con la concomitanza di deficit cognitivi e di disturbi del sistema motorio o di altri sistemi neurologici. Nel presente capitolo verranno trattate le principali forme di demenza neurodegenerativa, fatta eccezione per le demenze precedute da disturbi del movimento, trattate nel capitolo sulle patologie extrapiramidali.
Malattia di Alzheimer La malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer’s disease) è la principale demenza di origine neurodegenerativa, oltre che la più frequente causa di disturbo neurocognitivo maggiore in assoluto, rappresentando circa il 60% di tutti i casi di demenza.
KEY POINTS La malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer’s disease) è in assoluto la causa più frequente di demenza. Consegue alla formazione di depositi extracellulari di beta-amiloide (A beta) anomala, in quanto insolubile (placche senili), e di depositi intraneuronali di proteina tau (grovigli neurofibrillari) che poi innescano una serie di processi neurotossici il cui esito finale è quello di una degenerazione dei neuroni corticali (apoptosi). Un ulteriore elemento patogenetico importante è poi la deplezione di
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acetilcolina a livello corticale, conseguente a degenerazione neuronale a livello del nucleo di Meynert, che contiene neuroni colinergici a proiezione cerebrale diffusa. L’AD esordisce in genere oltre i 65 anni di età, e la sua incidenza tende ad aumentare con l’età. La presentazione più classica dell’AD consiste nella comparsa insidiosa di deficit della memoria episodica anterograda, cui segue il declino progressivo delle altre funzioni cognitive. I test neuropsicologici permettono di identificare e quantificare tali deficit cognitivi. Le neuroimmagini possono mostrare atrofia ippocampale (all’esordio), o diffusa, e ipoperfusione/ipometabolismo inizialmente temporoparietali, poi anch’essi diffusi. L’esame – tuttora eseguito solo in casi selezionati – mostra un livello ridotto di beta-amiloide e un aumento della proteina Tau. La terapia farmacologica dell’AD utilizza gli inibitori dell’anticolinesterasi, che aumentano la disponibilità intersinaptica di acetilcolina, e la memantina, che agisce contro l’eccitotossicità da glutammato. Terapie eziologiche, dirette in particolare contro la via amiloidogenica, sono attualmente in fase di sperimentazione clinica. Nella popolazione italiana di età compresa tra i 65 e gli 84 anni ha un’incidenza pari al 6,6% per 1000 abitanti per anno, e una prevalenza del 4,4%, che tende ad aumentare con l’età, passando dal 2-3% tra i 65 e i 69 anni, all’8% circa tra gli 80 e gli 84 anni. È prevalente nel sesso femminile rispetto a quello maschile. È generalmente sporadica (i casi di natura familiare rappresentano meno del 5%).
Eziopatogenesi, genetica e neuropatologia L’articolazione dei meccanismi eziopatogenetici che portano alla prematura morte neuronale nell’AD non è nota. La teoria patogenetica più accreditata per l’AD è quella che chiama in causa la proteina cerebrale beta-amiloide (VEDI CAP. 16 dedicato ai meccanismi fisiopatogenetici delle malattie neurodegenerative; nello stesso capitolo sono pure trattati gli aspetti genetici della malattia).
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Oltre alle placche di amiloide, l’elemento neuropatologico distintivo dell’AD è rappresentato dai grovigli neurofibrillari, accumuli intraneuronali di proteina tau in forma anomala, iperfosforilata. La proteina tau è costituente dei neurofilamenti responsabili del trasporto assonale e pertanto questo processo determina la morte neuronale. Il depauperamento neuronale che ne consegue determina un’atrofia cerebrale inizialmente localizzata a livello ippocampale e periippocampale, e poi diffusa anche in sede parietale e frontale. A causa delle alterazioni strutturali descritte, nell’AD si verifica la deplezione di acetilcolina cerebrale, neurotrasmettitore legato direttamente al funzionamento dei circuiti della memoria e di altre capacità cognitive. In particolare, ciò avviene a livello del nucleo basale di Meynert, le cui proiezioni colinergiche raggiungono diffusamente la corteccia cerebrale, l’ippocampo, l’amigdala, il talamo e il troncoencefalo. Proprio la degenerazione del nucleo di Meynert spiega l’importante diminuzione (pari al 60-70%) della concentrazione di acetilcolina a livello corticale nel cervello del paziente alzheimeriano.
Quadro clinico L’esordio della malattia è rappresentato, in genere, dalla comparsa insidiosa di un deficit della memoria episodica, con incapacità ad apprendere e rievocare nuove informazioni (amnesia anterograda), mentre la rievocazione degli eventi più lontani nel tempo e la memoria semantica (vocabolario, conoscenze generali sul mondo, riconoscimento di oggetti e volti noti) sono ancora risparmiate. Integra appare anche la memoria implicita in tutti i suoi aspetti, che declina solo in fase moderato-avanzata di malattia. Le attività della vita quotidiana non risultano all’inizio della malattia significativamente compromesse. Questa fase subclinica della malattia, detta di “decadimento cognitivo lieve” (MCI, mild cognitive impairment), ha ricevuto recentemente grande attenzione (VEDI FOCUS ON: IL DETERIORAMENTO COGNITIVO LIEVE [MCI, MILD COGNITIVE IMPAIRMENT], PAG. 306). Con il progredire della malattia compaiono disorientamento temporale (il disorientamento spaziale è più tardivo rispetto a quello temporale) e turbe di linguaggio, principalmente caratterizzate da un vocabolario ridotto, con frequenti anomie. Anche alcune capacità prassiche (come quella costruttiva),
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il pensiero astratto e la critica iniziano a essere compromesse. Tali deficit cognitivi vengono a interferire con lo svolgimento delle attività quotidiane, inizialmente quelle più impegnative dal punto di vista intellettivo, quali la gestione del denaro o il ricordare appuntamenti e impegni. Questo segna il passaggio alla fase di demenza clinica vera e propria, di grado lieve. Estremamente frequenti sono, in questo stadio, le alterazioni affettivocomportamentali: il paziente può reagire alla comparsa dei deficit cognitivi con deflessione del tono dell’umore, irritabilità, apatia. Tali disturbi possono però avere anche un’origine organica, correlata alla neurodegenerazione a livello del sistema limbico e della corteccia frontale. Nello stadio intermedio di malattia, oltre ad avere sempre più difficoltà a formare nuove tracce mnesiche, i pazienti iniziano a presentare gradualmente un’amnesia retrograda, cioè una perdita delle tracce mnesiche acquisite e consolidate in epoca premorbosa. La memoria per gli avvenimenti remoti, in particolare quelli autobiografici, risulta progressivamente compromessa a partire da quelli più prossimi all’inizio della malattia, per cui i pazienti iniziano a vivere in un passato via via più lontano. I difetti nella comunicazione verbale, sia orale che scritta, diventano sempre più evidenti, con interessamento anche della capacità di comprensione, fino a una vera e propria afasia. Compaiono anche difficoltà nel riconoscere i volti di persone note (prosopoagnosia), gli oggetti comuni (agnosia visiva) e nell’utilizzarli in maniera corretta e, più in generale, nel compiere gesti più o meno complessi (aprassia). L’insieme di afasia, agnosia e aprassia configura la cosiddetta sindrome alogica. In tempi variabili compaiono poi alcuni difetti della cognizione spaziale, come il disorientamento topografico, anche su percorsi o in ambienti noti, e difficoltà di calcolo, ragionamento, pianificazione. La perdita della consapevolezza di malattia (anosognosia) è di regola presente nelle fasi avanzate, ma talvolta si osserva fin dall’esordio dei sintomi.
FOCUS ON IL DETERIORAMENTO COGNITIVO LIEVE (MCI, MILD COGNITIVE IMPAIRMENT)
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Il mild cognitive impairment (MCI) o, secondo la dizione introdotta dal DSM-5, il Disturbo Neurocognitivo Minore, è definito dalla presenza di una compromissione cognitiva di grado lieve, non interferente con l’autonomia funzionale e dunque non classificabile come demenza, a carattere progressivo. I relativi criteri diagnostici di MCI sono riportati nella tabella f17.1. L’MCI rappresenta una condizione ad alto rischio di evoluzione a demenza, con un tasso di conversione del 12-15% annuo, contro quello del 2% della popolazione generale di pari età, ed è per questo di elevato interesse sia clinico che di ricerca, in relazione allo sviluppo di terapie neuroprotettive. A 10 anni, il tasso cumulativo di conversione è pari al 50-60% a indicare che per una quota di soggetti la condizione di MCI rimane stabile nel tempo, potendo – in alcuni casi – anche fare ritorno alla normalità cognitiva. Nonostante le discrepanze derivanti da differenze metodologiche, in generale gli studi epidemiologici riferiscono una prevalenza dell’MCI pari al 15% circa nella popolazione oltre i 70 anni, e una incidenza annua di 50-75 nuovi casi ogni 1000 individui oltre i 60 anni di età. Clinicamente se ne distinguono diverse forme, in base alla presenza o meno di un deficit della memoria, e alla compromissione di uno solo o di più domini cognitivi; ciascuna di esse può poi evolvere in forme differenti di demenza neurodegenerativa (Alzheimer, corpi di Lewy, demenze frontotemporali e così via). Le manifestazioni cliniche possono o meno associarsi ad alterazioni di laboratorio (liquorali) o strumentali (imaging morfologico e funzionale) che in genere ricalcano qualitativamente quelle riscontrabili in fase di demenza franca, pur essendo meno spiccate in termini quantitativi. Molti sforzi di ricerca sono attualmente diretti a stabilire se tra tali reperti vi siano predittori clinici o strumentali di conversione a demenza. Al momento, sono stati identificati come elementi indicativi di evoluzione un deficit cognitivo lieve ma plurisettoriale, l’omozigosi per l’allele 4 dell’apolipoproteina E, ridotti livelli di A-beta liquorale, la presenza di atrofia temporale mesiale in risonanza magnetica, e l’ipometabolismo del cingolo posteriore o delle regioni parieto-temporali in PET con fluorodesossiglucosio. La presenza di uno o più di tali indicatori strumentali in un soggetto affetto da MCI aumenta il rischio di
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evoluzione in demenza a 5-10 anni fino all’80-90%. Per quanto riguarda l’approccio terapeutico, per il momento gli studi clinici condotti con anticolinesterasici e memantina sono risultati sostanzialmente negativi, per cui non vi è indicazione formale all’utilizzo di tali farmaci nell’MCI clinicamente definito. Tuttavia, di fronte a pazienti in cui il deficit di memoria è particolarmente evidente o sono presenti altri elementi che suggeriscono un’incipiente malattia di Alzheimer, è giustificato un tentativo terapeutico con donepezil. Non sono peraltro stati condotti studi clinici mirati su soggetti con MCI e biomarker positivi. TABELLA F17.1 Criteri per la diagnosi di mild cognitive impairment 1. Presenza di un declino cognitivo riferito dal soggetto stesso e/o da un informatore associato a compromissione oggettiva ai test neuropsicologici; e/o 2. Evidenza di un declino a test neuropsicologici seriali 3. Attività di base della vita quotidiana preservate/compromissione minima nelle attività strumentali complesse 4. Assenza di demenza (non risponde ai criteri per la diagnosi di demenza del DSM-5)
A questo progressivo deterioramento cognitivo si accompagna in modo parallelo una crescente compromissione dell’indipendenza nello svolgimento delle attività della vita quotidiana (cura delle finanze, dell’ambiente domestico e così via), fino a coinvolgere anche quelle più elementari, legate alla cura di sé. Infine si verifica spesso un peggioramento del quadro neuropsichiatrico, con comparsa di aggressività, attività motoria aberrante, allucinazioni e deliri. L’esacerbazione dei comportamenti disturbanti si ha frequentemente nelle prime ore della sera (sundowning), quando il paziente diventa più confuso e irrequieto, presumibilmente in relazione al venir meno di punti di riferimento spaziali e temporali anche in relazione alla scarsa illuminazione. In questo
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stadio cominciano a comparire anche alterazioni neurologiche franche, soprattutto di tipo extrapiramidale, con rallentamento motorio, difficoltà nella marcia e rischio di cadute, oltre a incontinenza sfinterica. Proprio i sintomi neuropsichiatrici e quelli neurologici dominano il quadro in fase avanzata di malattia, quando ormai tutte le capacità cognitive sono severamente compromesse e il paziente è completamente dipendente dal caregiver poiché non è più in grado di eseguire anche i compiti più semplici senza assistenza. In fase terminale i pazienti divengono incapaci di deambulare, sono incontinenti, disfagici, possono presentare mioclonie, talvolta epilessia con crisi generalizzate, rigidità motoria progressiva, fino a un quadro di tetraparesi in flessione. Il decesso avviene di solito per patologie intercorrenti, in particolare infezioni delle vie respiratorie (spesso ab ingestis) o urinarie, o a partenza da ulcere da decubito. La sopravvivenza media dal momento della diagnosi di demenza varia fra 3 e 8 anni, in relazione all’età del paziente al momento della diagnosi. Presentazioni cliniche meno frequenti, ma tuttavia descritte in pazienti con conferma autoptica di malattia di Alzheimer, sono quelle appartenenti allo spettro delle afasie progressive, in particolare la variante logopenica, e alla sindrome corticobasale. Una presentazione atipica è anche quella dell’atrofia corticale posteriore o sindrome di Benson, che esordisce in genere in età presenile ed è caratterizzata da risparmio iniziale della memoria, preminenti turbe dell’ambito visuospaziale e altri segni di disfunzione parieto-occipitale, talvolta con deficit di tipo agnosico visivo, o addirittura campimetrici, su base degenerativa. In questi casi vi è evidenza, alle neuroimmagini morfologiche e funzionali, di atrofia e/o ipofunzionamento in corrispondenza delle regioni cerebrali posteriori.
NON DIMENTICARE CHE… Per definire le turbe mnesiche che si osservano nei pazienti con esordio di demenza di Alzheimer non è corretto parlare di “deficit di memoria a breve termine”. Si tratta più propriamente di compromissione della memoria a lungo termine, per eventi recenti (mentre i ricordi remoti sono preservati fino alla fase moderata di
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malattia).
Diagnosi La diagnosi di AD definita richiede l’esame istopatologico, che molto raramente si effettua in vita. Nella pratica clinica la diagnosi si basa sull’applicazione dei criteri elencati nella TABELLA 17.3. Si deve sospettare una AD in tutti gli adulti anziani che mostrano un lento e progressivo declino nella memoria e in almeno un altro dominio cognitivo tale da determinare un significativo deficit nel lavoro o nelle attività della vita quotidiana. I criteri più recenti, che incorporano anche biomarker strumentali e biologici, ma al momento utilizzati solo in ambito di ricerca, sono riportati in forma sintetica in TABELLA 17.4. TABELLA 17.3 Criteri per la diagnosi di demenza di Alzheimer (AD) probabile del NIA-AA (National Institute of Aging – Alzheimer Association, 2011)
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TABELLA 17.4 Criteri di ricerca per la diagnosi di demenza di Alzheimer
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L’esecuzione dell’esame obiettivo generale e neurologico e di alcuni accertamenti di routine comprendenti elettrocardiogramma, radiografia del torace ed esami ematochimici, è raccomandata per escludere cause internistiche di decadimento cognitivo (tra le indagini bioumorali, in
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particolare, vanno eseguiti il dosaggio di vitamina B12 e folati, la funzionalità tiroidea e la sierologia per la lue). Una valutazione formale delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, linguaggio, prassie, abilità visuospaziali, funzioni esecutive e così via) può essere eseguita tramite una batteria di test neuropsicologici tarati sulla popolazione generale e validati nelle diverse forme di demenza. Per lo screening, vengono in genere impiegati test di livello cognitivo globale, per esempio il Mini Mental State Examination (VEDI CAP. 4). L’esame del liquor cerebrospinale, che per il momento viene prescritto solo in casi selezionati per il dosaggio di beta-amiloide, tau e fosfo-tau, può confermare il sospetto diagnostico ed essere utile soprattutto nei casi a esordio precoce o atipico (VEDI CAP. 16). Ridotti livelli di beta-amiloide e concomitanti, elevati livelli di tau e fosfo-tau si sono dimostrati relativamente sensibili e specifici per l’AD. La TC o la RM dell’encefalo consentono di operare una diagnosi differenziale tra le demenze primarie neurodegenerative e i casi di decadimento cognitivo secondari a patologie cerebrali strutturali (vascolari, infettive, neoplastiche ecc.), e possono mostrare atrofia inizialmente ippocampale (soprattutto nelle sezioni coronali di RM), e poi diffusa, con ampliamento esteso dei solchi corticali e dei ventricoli. Le neuroimmagini morfologiche possono essere integrate con SPECT di flusso o PET con 18fluorodesossiglucosio (18FDG), che possono evidenziare precocemente ipoperfusione/ipometabolismo corticali, inizialmente a livello del cingolo posteriore e dei lobi parietale e temporale, e poi diffusamente. Ancora sperimentale è l’utilizzo di nuovi traccianti PET come l’11C-PIB (Pittsburgh Compound-B) e il 18F-Florbetapir, che consentono di evidenziare in vivo i depositi di amiloide nella corteccia associativa parietotemporale e frontale, anche in fase preclinica.
NON DIMENTICARE CHE… Il Mini Mental State Examination (MMSE) viene utilizzato correntemente come test di screening per il decadimento cognitivo, ma è stato elaborato tenendo in considerazione la presentazione
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clinica classica della malattia di Alzheimer, per cui va applicato e interpretato con cautela per altre forme di demenza. I pazienti con demenza frontale o malattia a corpi di Lewy, per esempio, possono ottenere un punteggio relativamente elevato all’MMSE anche in fase moderata di malattia.
Terapia I farmaci attualmente disponibili per il trattamento dei sintomi cognitivi dell’AD sono rappresentati dagli anticolinesterasici (donepezil, rivastigmina e galantamina), indicati per la fase lieve-moderata, e dalla memantina, riservata agli stadi moderatoavanzati. Essi consentono di rallentare la progressione della malattia, perlomeno in due terzi dei pazienti, pur non determinandone l’arresto. Gli inibitori delle acetilcolinesterasi permettono, inibendo il catabolismo dell’acetilcolina, di aumentarne la disponibilità a livello sinaptico. Sull’eccitotossicità da glutammato agisce, invece, la memantina, un analogo dell’amantadina che si lega al canale ionico associato al recettore NMDA del glutammato, determinandone la chiusura; questo impedisce l’ingresso intracellulare di calcio, bloccando i processi neurotossici che ne seguono. Accanto ai farmaci per i deficit cognitivi, nel paziente con AD è spesso necessario intervenire anche sull’umore (con antidepressivi e/o ansiolitici) e sulle manifestazioni neuropsichiatriche. Gli antipsicotici, soprattutto quelli atipici, meno gravati da effetti collaterali extrapiramidali e cardiocircolatori, vengono somministrati ai pazienti agitati, aggressivi o che presentano deliri e allucinazioni. Un supporto terapeutico può essere fornito, infine, perlomeno in fase iniziale di malattia, da interventi non farmacologici di riabilitazione neurocognitiva. Per quanto riguarda i trattamenti sperimentali, gli sforzi per l’identificazione di una terapia causale si stanno concentrando su vari elementi e fasi dei processi patogenetici che sottendono la neurodegenerazione. Particolarmente promettente appare l’immunoterapia, che agisce attraverso la stimolazione del sistema immunitario affinché si attivi contro la beta-amiloide (immunizzazione attiva), o attraverso la somministrazione di anticorpi antiamiloide preformati che promuovano
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l’eliminazione dell’amiloide o ne impediscano la deposizione in placche (immunizzazione passiva). Altri principi sperimentali sono rappresentati da: inibitori e modulatori delle betae gamma-secretasi, agenti antiaggregazione, beta-sheet breakers (che “rompono” la conformazione da foglietti beta dell’amiloide), inibitori della fosforilazione della proteina tau.
NON DIMENTICARE CHE… I farmaci anticolinesterasici sono controindicati nei pazienti con turbe della conduzione cardiaca, broncopatia ostruttiva, insufficienza epatica o ulcera gastroduodenale.
Demenze frontotemporali KEY POINTS Le demenze frontotemporali comprendono tre forme di decadimento cognitivo su base neurodegenerativa, tutte sottese dall’accumulo di proteina tau. Più recentemente sono state descritte anche forme frontotemporali caratterizzate da inclusioni tau-negative. Esordiscono in genere in età più precoce rispetto all’AD, intorno ai 60 anni. Il quadro clinico della forma comportamentale è dominato, sin dall’esordio, da alterazioni dell’umore e della condotta, associate a deficit delle funzioni esecutive. Il locus della degenerazione è rappresentato dalla corteccia prefrontale. Sempre frontale, ma a sede opercolare, è il substrato dell’afasia progressiva non fluente, che si manifesta con riduzione e agrammatismo dell’eloquio, fino al mutacismo. Nella demenza semantica, invece, sono prevalentemente coinvolte le regioni temporali (anteriori), con conseguente compromissione della
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memoria semantica, cioè l’insieme delle conoscenze per persone, luoghi, oggetti e concetti. In tutte tre le forme la memoria episodica appare relativamente risparmiata. Il neuroimaging mostra alterazioni morfologiche e funzionali relativamente focali, a livello frontale e/o temporale anteriore. Al momento non esiste trattamento di provata efficacia per le manifestazioni cognitive; sulle turbe neuropsichiatriche si interviene con farmaci eutimizzanti o neurolettici. Il gruppo delle demenze frontotemporali comprende tre forme di decadimento cognitivo ingravescente correlate a neurodegenerazione preponderante delle regioni frontali e/o temporali dell’encefalo: la demenza frontale propriamente detta, o comportamentale, l’afasia non fluente progressiva e la demenza semantica. Queste forme di demenza rappresentano circa il 5-10% di tutte le demenze, e in età presenile hanno una prevalenza paragonabile a quella della malattia di Alzheimer. In genere, infatti, esordiscono entro i 65 anni di età, con una prevalenza nel sesso maschile. Il decorso è più rapido e la sopravvivenza più breve (in media intorno ai 6-8 anni per la demenza comportamentale, agli 8-10 anni per le altre due forme) rispetto a quanto osservabile nell’Alzheimer.
Eziopatogenesi, genetica e neuropatologia Dal punto di vista eziopatogenetico le demenze frontotemporali sono considerate taupatie, malattie da accumulo di proteina tau iperfosforilata. La tau fisiologica, costituente dei microtubuli intraneuronali, in forma anomala tende a formare aggregati insolubili neurotossici e/o induce la formazione di microtubuli instabili, con conseguente alterazione del trasporto assonale e degenerazione cellulare (VEDI CAP. 16). Le inclusioni intraneuronali di proteina tau sono considerate il principale marker neuropatologico di queste forme di demenza. Costituiscono i cosiddetti corpi di Pick, argirofili, tondeggianti, localizzati in cellule rigonfie, chiamate anch’esse di Pick. Vi si associano depauperamento neuronale e gliosi in sede frontale e/o temporale, con corrispondente reperto macroscopico di atrofia in queste stesse sedi.
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In alcuni casi si riscontrano invece inclusioni taunegative, che possono essere composte da ubiquitina, da TAR DNA-binding protein 43 (TDP-43), o dalla cosiddetta protein fused in sarcoma (FUS). La TDP-43, presente nel cervello sano a livello nucleare come regolatore della trascrizione e dello splicing (montaggio) del DNA, si ritrova in forma patologica in condizioni di iperfosforilazione e traslocata a livello citoplasmatico, dove forma aggregati neurotossici. La FUS, anch’essa proteina regolatrice dell’espressione genica, e implicata nello sviluppo del sarcoma e di alcune neoplasie ematologiche, forma inclusi analoghi a quelli della TDP-43. In genere la sua presenza si associa a quadri a esordio in età giovane-adulta, con turbe comportamentali severe e concomitanza di atrofia a livello del caudato. Più del 40% dei pazienti con demenza frontotemporale, in particolare quelli con la variante comportamentale della malattia, riferisce un precedente familiare. Le forme familiari hanno trasmissione autosomica dominante e le relative mutazioni sono nella maggior parte dei casi a carico del gene per la proteina tau MAPT (microtubule-associated protein tau), o di quello per la progranulina, entrambi localizzati sul cromosoma 17. Le forme da mutazione della MAPT (tau-positive), che determinano la produzione di proteina iperaggregante, esordiscono in genere entro i 60 anni d’età e sono caratterizzate da estrema variabilità fenotipica, potendosi presentare con tutti e tre i quadri delle demenze frontotemporali, o come demenze associate a parkinsonismo (DCB e PSP). Le forme da mutazione della progranulina (tau-negative), proteina della corteccia cerebellare e cerebrale implicata nella sopravvivenza e crescita neuronale, sono caratterizzate da carenza della proteina o sintesi di proteina inefficiente, che si traduce in una deplezione di fattori neurotrofici e di riparazione del danno neuronale, predisponendo alla neurodegenerazione. Dal punto di vista clinico sono caratterizzate da età d’esordio molto variabile e da un maggiore coinvolgimento delle regioni parietali e delle funzioni mnesiche, per cui risulta più difficoltosa la loro differenziazione rispetto alla demenza di Alzheimer. Particolarmente frequenti sono anche turbe extrapiramidali, allucinazioni e deliri. Gli studi di neuroimaging hanno mostrato che i pazienti con mutazione della progranulina hanno un’atrofia fronto-parieto-temporale asimmetrica, e quelli con mutazione della MAPT un’atrofia temporale e orbito-frontale relativamente simmetrica. Un altro gruppo di pazienti presenta una mutazione in una regione non codificante del cromosoma 9 (gene C9ORF72). Questo pattern di atrofia non
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è stato ancora studiato in dettaglio.
Quadro clinico La variante comportamentale della demenza frontale è sottesa da prevalente coinvolgimento della corteccia prefrontale (dorsolaterale, mesiale e orbitaria) e si presenta all’esordio con alterazioni della sfera neuropsichiatrica, che tendono a dominare il quadro anche nelle fasi successive di malattia, mentre le funzioni mnesiche sono relativamente risparmiate. Il paziente si può presentare apatico e depresso (in genere quando è coinvolta prevalentemente la corteccia mesiale), o subeuforico e disinibito (per prevalente coinvolgimento orbitofrontale), con condotta sociale inopportuna, puerilità, tendenza al motteggio. Mostra deficit dell’attenzione e delle abilità esecutive: programmazione, shifting, ragionamento, capacità di critica e giudizio. Sono molto frequenti anche inconsapevolezza del proprio stato mutato (anosognosia), modifiche delle abitudini alimentari (con preferenza spiccata per i cibi dolci), incontinenza sfinterica precoce e turbe extrapiramidali di tipo rigido-acinetico. L’afasia non fluente progressiva si manifesta con progressiva riduzione dell’eloquio spontaneo, che diviene sempre più scarno e “telegrafico”, fino al mutismo completo, e che è caratterizzato da errori grammaticali e fonemici. La comprensione è sostanzialmente intatta. Si associa quasi invariabilmente aprassia bucco-facciale, e dalla valutazione neuropsicologica possono emergere deficit cognitivi dell’ambito esecutivo. L’area cerebrale colpita è quella opercolare, nel piede della terza circonvoluzione frontale di sinistra, e la corteccia circostante. La demenza semantica è caratterizzata da prevalente coinvolgimento delle regioni anteriori e dei poli temporali e si manifesta con progressiva degradazione delle conoscenze generali e dei concetti (memoria semantica). L’esordio è in genere rappresentato da un disturbo dell’eloquio di tipo fluente (in particolare per coinvolgimento del lobo temporale sinistro), grammaticalmente corretto ma caratterizzato da anomie, parafasie semantiche, circonlocuzioni e anche da deficit di comprensione di singole parole. Si associa poi un disturbo multimodale di riconoscimento degli oggetti e dei volti (in particolare per coinvolgimento del lobo temporale destro). Solo successivamente si ha una generalizzazione della compromissione ad altri ambiti, quali quello della memoria episodica e delle
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funzioni esecutive. Concomitano in genere anche turbe, ingravescenti, della sfera affettivo-comportamentale. Recentemente alle due afasie progressive è stata aggiunta l’afasia logopenica, che in circa il 50% dei casi è sostenuta da taupatia, mentre nel restante 50% è una presentazione atipica di malattia di Alzheimer. Il locus della neurodegenerazione è in questo caso in corrispondenza dell’area perisilviana e parietale inferiore sinistra, e il disturbo del linguaggio appare secondario a un deficit primitivo della memoria a breve termine verbale. Questo determina compromissione della comprensione e della ripetizione di frasi, mentre la comprensione di parole singole è intatta. L’eloquio è rallentato, interrotto da pause per la ricerca dei vocaboli, e ricco di parafasie fonemiche. Sono integri gli aspetti grammaticali e semantici. Un’altra possibile presentazione clinica delle demenze frontotemporali è quella che vede la comparsa di deficit cognitivi (che nella maggior parte dei casi configurano una variante comportamentale) nel contesto di una malattia del motoneurone. Ciò riguarda circa il 50% dei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), in particolare quelli con forma bulbare. Dal punto di vista neuropatologico, le demenze frontotemporali associate a SLA familiare sono spesso caratterizzate da inclusioni tau-negative (positive per TDP-43 o FUS).
NON DIMENTICARE CHE… Nel descrivere il quadro clinico della demenza semantica non è corretto parlare di “agnosia” visiva. Quest’ultima, infatti, è per definizione un deficit di accesso alle rappresentazioni di oggetti e volti, attraverso un unico canale sensoriale. Nel caso del paziente con demenza temporale, invece, l’incapacità a identificare gli stimoli visivi dipende da una perdita dei relativi concetti, che si rende evidente innanzitutto e maggiormente nell’ambito visivo. Ne consegue che, a differenza dell’agnosico visivo, il paziente con demenza semantica non denomina l’oggetto anche quando gli è presentato per via tattile o per via uditiva e non è in grado di descriverne le caratteristiche funzionali.
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Diagnosi Per la diagnosi di demenza frontotemporale sono disponibili dei criteri standardizzati che definiscono le caratteristiche sintomatologiche e strumentali delle tre forme. Le neuroimmagini (RM, SPECT di flusso, PET con FDG) appaiono particolarmente informative, mostrando alterazioni morfologiche e funzionali relativamente focali a livello frontale e/o temporale anteriore (FIG. 17.1). Un basso valore del rapporto tau/betaamiloide nel liquor rispetto all’AD (derivante da livelli di tau normali o solo di poco aumentati associati a normali livelli di betaamiloide e di fosfo-tau liquorali) sarebbe anch’esso indicativo di taupatia.
FIGURA 17.1 Demenza frontotemporale. RM in sezione coronale di un paziente con demenza frontotemporale a prevalente espressione frontale (a sinistra) e di un paziente con demenza frontotemporale a prevalente espressione temporale (a destra). Nel paziente con demenza frontotemporale a prevalenza frontale è presente un’atrofia preminente dei giri frontali (frecce bianche), soprattutto a livello della regione frontale destra; è possibile anche notare l’assottigliamento del corpo calloso al di sopra dei ventricoli laterali. Questo paziente presentava un quadro clinico dominato da disinibizione e comportamenti antisociali. Nel paziente con demenza frontotemporale a prevalenza temporale è presente una grave atrofia del lobo temporale sinistro
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(frecce vuote) e dell’amigdala (punta di freccia bianca); clinicamente questo paziente presentava afasia progressiva. (Per gentile concessione di H. Rosen e G. Schauer, University of California, San Francisco.)
NON DIMENTICARE CHE… L’esame obiettivo neurologico del paziente con sospetta demenza frontotemporale deve prevedere la ricerca di segni di liberazione frontale quali quello di prensione, del muso e della glabella e il palmo-mentoniero.
Terapia A tutt’oggi non esiste un trattamento farmacologico di provata efficacia per i deficit cognitivi riscontrati nelle demenze frontotemporali. Per gli inibitori dell’acetilcolinesterasi infatti, non vi sono evidenze di efficacia e sicurezza; alcuni trial clinici indicano, anzi, un peggioramento delle turbe neuropsichiatriche in risposta all’utilizzo di anticolinesterasici. I trial clinici con la memantina sono tuttora in corso. Le alterazioni neuropsichiatriche, tipiche, in particolare, della forma comportamentale, richiedono in genere l’utilizzo di farmaci antidepressivi serotoninergici per la variante apatica, degli stabilizzatori del tono dell’umore e dei neurolettici per la variante disinibita.
Demenze associate a Parkinson e parkinsonismi Le sindromi parkinsoniane di origine neurodegenerativa sono rappresentate dalla malattia a corpi di Lewy (LBD, Lewy body dementia), una sinucleinopatia, dalla degenerazione corticobasale (DCB) e dalla paralisi sopranucleare progressiva (PSP), entrambe taupatie.
KEY POINTS
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Tra le demenze neurodegenerative figurano anche le demenze associate a parkinsonismo, le cui forme principali sono la demenza a corpi di Lewy (LBD), la degenerazione corticobasale (DCB) e la paralisi sopranucleare progressiva (PSP). In queste tre patologie, ai deficit cognitivi si associa una sindrome extrapiramidale progressiva, rigido-acinetica, poco responsiva alla levodopa. DCB e PSP vengono trattate nel capitolo sulle malattie extrapiramidali. La LBD è dovuta all’accumulo di alfasinucleina a livello dei corpi di Lewy, riscontrabili sia nel tronco encefalico che nella neocorteccia. Nella LBD si rilevano deficit visuospaziali ed esecutivi, allucinazioni, fluttuazioni della vigilanza, disturbo del sonno REM, ipersensibilità ai neurolettici, sincopi. La SPECT con 123I-ioflupano evidenzia la degenerazione del sistema dopaminergico a livello dei nuclei della base. L’anticolinesterasico rivastigmina ha dimostrato una discreta efficacia nel trattamento dei deficit cognitivi e di alcuni aspetti neuropsichiatrici della LBD. Mentre il fenotipo clinico della PSP è pressoché sempre sostenuto da una taupatia, quello della DCB è sostenuto, con eguale frequenza, anche da una amiloidopatia a tipo Alzheimer, per cui oggi si preferisce utilizzare la definizione clinica di sindrome corticobasale. A queste si aggiunge l’atrofia multisistemica, il cui quadro clinico è però dominato dalle turbe motorie, mentre i deficit cognitivi, dell’ambito esecutivofrontale, sono in genere lievi e poco progressivi e non evolvono in genere a demenza franca (VEDI CAP. 18). Clinicamente, tutte queste forme sono caratterizzate dalla presenza di turbe extrapiramidali e deficit cognitivi a esordio insidioso e decorso progressivo, cui si associano sintomi e segni neurologici e neuropsicologici variabili da forma a forma. Il parkinsonismo è in genere scarsamente responsivo alla levodopa, raramente tremorigeno, e simmetrico (con la sola eccezione della DCB, che in genere si manifesta con un’emisindrome extrapiramidale).
Demenza a corpi di Lewy La demenza a corpi di Lewy (LBD) rappresenta il 10-15% dei casi di
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demenza neurodegenerativa che giungono all’esame autoptico, per cui è la più frequente forma di demenza degenerativa dopo la malattia di Alzheimer. Ad essa viene oggi considerata del tutto sovrapponibile, sia dal punto di vista neuropatologico che clinico, la demenza associata alla malattia di Parkinson. L’unico elemento differenziale è costituito dall’intervallo temporale che separa la comparsa dei sintomi cognitivi da quelli extrapiramidali. Tale periodo è stato formalizzato nella cosiddetta one year rule, secondo la quale viene posta una diagnosi di malattia a corpi di Lewy ove i deficit cognitivi si sviluppino prima, in modo concomitante o entro 12 mesi dall’insorgenza di quelli extrapiramidali; in caso di insorgenza oltre l’anno, si pone diagnosi di demenza associata a malattia di Parkinson. Dal punto di vista patogenetico, la LBD è una sinucleinopatia, caratterizzata dalla presenza di inclusi neuronali eosinofili intracitoplasmatici (i corpi di Lewy) costituiti prevalentemente da alfasinucleina e considerati responsabili dell’innesco del processo di neurodegenerazione. Essi sono localizzati non soltanto a livello troncoencefalico (sostanza nera, locus coeruleus, nucleo dorsale del vago), ma soprattutto in sede corticale, in particolare nella neocorteccia frontale e parieto-occipitale. Accanto alla demenza a corpi di Lewy pura esiste anche una variante nella quale i corpi di Lewy coesistono con le alterazioni neuropatologiche tipiche della malattia di Alzheimer (cosiddetta variante a corpi di Lewy della demenza di Alzheimer). Clinicamente, la LBD si presenta sostanzialmente con deficit cognitivi dell’ambito esecutivo e visuospaziale (con un risparmio relativo delle funzioni mnesiche), associati a parkinsonismo rigido-acinetico. Ulteriori manifestazioni tipiche sono le allucinazioni (in genere visive, ben strutturate), le fluttuazioni della vigilanza e delle abilità cognitive, le cadute, le alterazioni autonomiche con predisposizione alle sincopi, il disturbo comportamentale del sonno REM, l’ipersensibilità ai neurolettici (intesa come la comparsa di eventi avversi, in particolare extrapiramidali, in seguito all’assunzione di basse dosi di antipsicotici tipici o, anche se in minor misura, atipici). Per la diagnosi sono disponibili criteri standar-dizzati, nei quali vengono presi in considerazione elementi sia clinici che strumentali. Tra questi, in particolare, è considerata a elevato potere diagnostico la SPECT con [123I]FP-CIT, ligando dei trasportatori della dopamina (DAT). I DAT sono presenti nelle terminazioni presinaptiche dei neuroni dopaminergici nigrostriatali; una riduzione della captazione del relativo ligando nello striato
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è considerata un indice di degenerazione a livello di tale circuito, ed è riscontrabile sia nella LBD che in altre patologie del sistema extrapiramidale. Altri accertamenti di neuroimaging, quali la RM o la SPECT/PET dell’encefalo, mostrano, nella maggior parte dei casi, alterazioni morfologiche e funzionali delle regioni temporooccipitali. Infine, recentemente si sta rivelando promettente la scintigrafia cardiaca con 123IMIBG, analogo della noradrenalina, che fornisce indicazioni sull’integrità del sistema simpatico postgangliare cardiaco: nella LBD si osserva, analogamente al Parkinson, un ridotto uptake del tracciante per disfunzione autonomica postgangliare. Per quanto riguarda la terapia, vi sono evidenze a supporto di una discreta efficacia degli anticolinesterasici, in particolare della rivastigmina, senza peggioramenti delle manifestazioni extrapiramidali. Sono inoltre in corso trial clinici volti a valutare la possibile efficacia della nemantina, con dati preliminari promettenti. La terapia delle manifestazioni psicotiche è particolarmente complessa, soprattutto in relazione al parkinsonismo e all’ipersensibilità da neurolettici, e privilegia in genere gli antipsicotici atipici, in particolare la quetiapina e la clozapina. La risposta alla levodopa dei deficit motori è discreta, maggiore rispetto a quella degli altri parkinsonismi, pur se limitata dal fatto che risulta spesso difficile raggiungere dosaggi elevati per la precoce comparsa di effetti collaterali neuropsichiatrici.
NON DIMENTICARE CHE… Oltre a essere una delle manifestazioni cliniche della demenza a corpi di Lewy, il disturbo del sonno REM rappresenta anche un prodromo aspecifico di diverse patologie neurodegenerative, di cui può precedere l’esordio anche di decenni. I disturbi comportamentali del sonno REM rispondono spesso a basse dosi di melatonina (3-15 mg) o di clonazepam (0,25-1,5 mg) prima di coricarsi. Nei pazienti con deficit cognitivo si preferisce la melatonina per i minori effetti collaterali.
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DEMENZE VASCOLARI KEY POINTS Le demenze su base vascolare sono al secondo posto in termini di frequenza, subito dopo la malattia di Alzheimer. Se ne distinguono diverse tipologie, sulla base della natura (ischemica, emorragica o da ipoperfusione) e della distribuzione (diffusa, corticale o sottocorticale, o focale) del danno vascolare. Per la diagnosi è necessaria l’evidenza clinica e neuroradiologica di malattia cerebrovascolare, temporalmente correlata alla comparsa dei deficit cognitivi. La forma principale è la cosiddetta demenza vascolare sottocorticale, che si manifesta con relativa integrità della memoria e compromissione prevalente delle funzioni esecutive e della velocità di processamento mentale, associata a stato depressivo, turbe motorie e incontinenza sfinterica precoci. Il trattamento consiste sostanzialmente nella prevenzione di ulteriori insulti vascolari. Le demenze vascolari rappresentano la forma di demenza più frequente dopo la malattia di Alzheimer, con un’incidenza, nella popolazione italiana tra i 65 e gli 84 anni, pari a 3,3 casi ogni 1000 persone/anno, e una prevalenza che tende ad aumentare con l’età, arrivando quasi al 5% nella popolazione oltre gli 80 anni. Vi è una maggiore rappresentazione del sesso maschile, perlomeno fino all’età medio-avanzata, mentre nei grandi anziani la discrepanza si riduce o inverte. I casi familiari sono rari, quasi esclusivamente limitati alla cosiddetta CADASIL (cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy). Dal punto di vista patogenetico, i deficit cognitivi e neurologici possono conseguire a perdita di tessuto cerebrale più o meno estesa, oppure a insufficiente perfusione cronica del parenchima cerebrale per modificazioni strutturali dei piccoli vasi, come nel caso della leucoaraiosi. Sono state descritte diverse forme di demenza vascolare, elencate in
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TABELLA 17.5, che differiscono tra loro sulla base del meccanismo con cui la sofferenza circolatoria determina i deficit neurologici e neuropsicologici, e sulla base della presentazione clinica e neuroradiologica. TABELLA 17.5 Principali forme di demenza vascolare 1. Multinfartuale • Vascolare sottocorticale 2. Vascolare sottocorticale • Emorragica 3. Da ipoperfusione • Mista (per concomitanza di malattia di Alzheimer) 4. Ereditaria (CADASIL)
La forma più frequente è quella sottocorticale, il cui profilo clinico è caratterizzato dall’associazione di deficit cognitivi, sindrome depressiva con importante componente apatica, incontinenza sfinterica e turbe motorie precoci (in particolare parkinsonismo, alterazioni della marcia e cadute). Le turbe cognitive sono prevalentemente dell’ambito frontale e attentivo, legate a disfunzione dei circuiti frontostriatali da danno vascolare sottocorticale, associate a rallentamento ideo-percettivo. La memoria è proporzionalmente meno compromessa. Il decorso mima quello progressivo dell’AD, a differenza di quanto avviene in altre forme vascolari, in cui a fasi di stabilizzazione si alterna la comparsa di deficit neurologici, in occasione di nuovi accidenti vascolari (andamento a gradini). Le lesioni sono multiple, a distribuzione nei nuclei della base e nella sostanza bianca sottocorticale (FIG. 17.2).
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FIGURA 17.2 Malattia diffusa della sostanza bianca. RM assiale pesata in T2 e condotta a livello dei ventricoli laterali. Sono presenti aree multiple di iperintensità a livello della sostanza bianca periventricolare e della corona radiata. Sebbene possa essere rilevato anche in individui senza alterazioni cognitive, questo
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quadro è più evidente nei pazienti con demenza di origine vascolare. La forma da lesione strategica è quella multinfartuale, nella quale il danno vascolare è prevalentemente a sede corticale; ha un profilo cognitivo variabile, in base alle regioni cerebrali coinvolte. Più peculiare e specifico è il quadro clinico della CADASIL, patologia geneticamente determinata a trasmissione autosomica dominante. I pazienti affetti da CADASIL hanno in genere una storia decennale di emicrania con aura, depressione, ictus in età giovaneadulta e demenza progressiva a esordio precoce, ed evidenza al neuroimaging di lesioni ischemiche multiple prevalentemente sottocorticali coinvolgenti anche sedi assai specifiche come la capsula esterna e la sostanza bianca dei poli temporali. Per la diagnosi di demenza vascolare è possibile far riferimento ai criteri dell’NINDS-AIREN, che sostanzialmente la definiscono come la concomitanza di una demenza, secondo i criteri del DSM-5 (VEDI TAB. 17.1), e di una cerebrovasculopatia (evidente clinicamente e/o neuroradiologicamente), tra le quali sussista una correlazione temporale, intesa come insorgenza del disturbo cognitivo entro tre mesi da un ictus, o come storia di esordio improvviso e andamento a gradini. Gli accertamenti neuroradiologici (TC o RM encefalo) permettono di confermare la presenza di una cerebrovasculopatia e di orientare verso una tipologia di demenza vascolare rispetto a un’altra, a seconda della distribuzione delle lesioni. Più difficile la diagnosi nel caso della forma sottocorticale e in genere basata sulla correlazione longitudinale fra dato clinico-psicometrico e quello di neuroimaging. Un’ulteriore, importante fase dell’inquadramento diagnostico è poi quella della valutazione dei fattori di rischio vascolare, da quelli più comuni (ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito, cardiopatie) a quelli più infrequenti (quali le patologie della coagulazione). La prognosi è legata alla prevenzione di ulteriori insulti ischemici o emorragici cerebrali, ma appare in genere peggiore, in termini di aspettativa di vita, rispetto a quella dell’AD, proprio in relazione ai decessi per eventi vascolari. Il trattamento consiste, infatti, sostanzialmente nella profilassi secondaria per nuovi eventi cerebrovascolari, clinicamente conclamati o silenti, mentre gli anticolinesterasici e la memantina hanno dimostrato un beneficio minimo sulla compromissione cognitiva, comunque non tale da raccomandarne l’utilizzo. Un caso particolare è quello dell’angiopatia cerebrale amiloide, nella
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quale si associano, solitamente in una persona di età superiore ai 60 anni, emorragie cerebrali in sede atipica (lobari o iuxtacorticali), con alterazioni diffuse della sostanza bianca e spesso con una malattia di Alzheimer.
NON DIMENTICARE CHE… Va tenuto presente che una demenza vascolare, soprattutto nella sua forma sottocorticale, può svilupparsi sulla base di insulti cerebrali ripetuti clinicamente silenti, dunque anche in pazienti che non abbiano mai presentato eventi vascolari significativi.
DEMENZE REVERSIBILI KEY POINTS Tra le forme di demenza cosiddetta “reversibile” figurano alcune condizioni secondarie a patologie internistiche e l’idrocefalo normoteso (IN). Le principali forme internistiche sono quelle associate a carenza di vitamina B12 e folati (e alla iperomocisteinemia spesso associata) e a disfunzioni tiroidee. L’IN è un disturbo della dinamica liquorale più tipico dell’età avanzata, che si manifesta clinicamente con una triade comprendente deficit della sfera mnesica e attentivo-esecutiva, disturbo della marcia con caratteristiche parkinsoniane e incontinenza sfinterica. Neuroradiologicamente si osserva una dilatazione dei ventricoli, non associata a dilatazione consensuale dei solchi corticali. Il trattamento è chirurgico e consiste nel drenaggio del liquor in eccesso attraverso una derivazione ventricolo-peritoneale.
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Idrocefalo normoteso L’idrocefalo normoteso (IN) è un disturbo della dinamica liquorale che si accompagna a deficit della sfera cognitiva, rappresentando meno del 2% di tutte le demenze, ed è una delle poche forme di demenza trattabile. È una condizione tipica dell’età avanzata (in particolare a partire dall’ottava decade) e prevalente nel sesso maschile. Consiste in un aumento del contenuto liquorale che, fino all’avvento delle tecniche di monitoraggio della pressione intracranica, era ritenuto non essere accompagnato da aumento della pressione intracranica (da cui il termine “normoteso”), mentre in realtà si associa a fasi di incrementi pressori transitori, prevalentemente notturni. Dal punto di vista eziopatogenetico se ne distinguono una forma secondaria a pregresse patologie cerebrali di varia natura (traumatica, infettiva, emorragica ecc.), che danneggerebbero il riassorbimento liquorale a livello delle granulazioni del Pacchioni, e una forma idiopatica per la quale si ipotizza un disturbo primario della compliance del sistema venoso cerebrale; ciò si ripercuoterebbe sia sul riassorbimento aracnoideo del liquor, che sul suo deflusso attraverso l’acquedotto di Silvio. L’edema interstiziale della sostanza bianca periventricolare conseguente all’aumento del liquor provocherebbe alterazioni metaboliche e di perfusione ematica, e dunque disfunzione dei fasci prefrontali, dei nuclei della base e del troncoencefalo. Clinicamente l’IN si manifesta con una triade a decorso progressivo (detta triade di Hakim dal nome dell’Autore che ne fece la prima descrizione) comprendente deficit cognitivi, disturbo della marcia e incontinenza urinaria. Le manifestazioni della sfera cognitiva sono prevalentemente, ma non solo, dell’ambito mnesico, comprendendo anche rallentamento ideo-percettivo e deficit attentivi ed esecutivo-frontali, in genere non di grado severo. Il disturbo della deambulazione, che avrebbe una genesi, almeno parzialmente, aprassica, si associa a un elevato rischio di cadute e ha caratteristiche similparkinsoniane. L’incontinenza urinaria franca può essere preceduta da aumentata frequenza o urgenza minzionale, ed è sostenuta da ipertono del detrusore della vescica. La diagnosi si basa, oltre che sulla caratteristica triade clinica (che tuttavia non sempre è presente nella sua forma completa, in fase iniziale di malattia i deficit cognitivi possono essere scarsi o assenti), sulle indagini neuroradiologiche. Alla TC o alla RM encefalo il reperto più tipico è quello
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di una dilatazione di vario grado dei ventricoli laterali, con un arrotondamento delle corna frontali che dà luogo al cosiddetto “segno di Mickey Mouse” (FIG. 17.3), non accompagnata da una proporzionale dilatazione dei solchi corticali. Possono concomitare segni di riassorbimento transependimale del liquor. In RM è possibile talvolta osservare anche una perdita di segnale (flow void) in T2, correlata a un’accelerazione del flusso liquorale attraverso l’acquedotto di Silvio o il IV ventricolo. La conferma diagnostica si ottiene poi tramite studio della dinamica liquorale in risonanza magnetica, che misura il volume di liquor di passaggio attraverso l’acquedotto. Inoltre, in previsione del trattamento chirurgico viene in genere effettuato un monitoraggio prolungato della pressione intracranica, tramite posizionamento di un catetere intraliquorale a livello lombare per 24 ore. Talvolta, allo scopo di ottenere un dato predittivo dell’outcome dell’eventuale trattamento chirurgico viene eseguita la puntura lombare evacuativa (tap test): un evidente miglioramento di almeno uno dei sintomi nelle ore o giorni successivi alla sottrazione di un minimo di 30 ml di liquor è un fattore prognostico positivo rispetto ai benefici della derivazione.
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FIGURA 17.3 Idrocefalo normoteso. La RM assiale pesata in T2 mostra dilatazione dei ventricoli laterali in assenza di atrofia corticale generalizzata. Questo paziente
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è stato successivamente sottoposto con successo a shunt ventricoloperitoneale. La diagnosi differenziale si pone soprattutto rispetto alla malattia di Parkinson, per il disturbo della marcia e le cadute, e alla demenza di Alzheimer, per gli aspetti di compromissione cognitiva lentamente ingravescente e di dilatazione delle cavità ventricolari all’imaging, che in questo caso è su base atrofica (ex vacuo). L’elemento differenziale è rappresentato dal reperto concomitante di ampliamento dei solchi per atrofia corticale nel caso dell’Alzheimer. Il trattamento elettivo è di tipo chirurgico. Diuretici osmotici (come l’acetazolamide) vengono utilizzati solo quando vi siano controindicazioni alla chirurgia, o in attesa dell’intervento. Questo consiste nel drenaggio del liquido in eccesso dagli spazi liquorali alla cavità atriale o peritoneale, dove viene riassorbito attraverso un catetere a permanenza (derivazione ventricolo-atriale o ventricolo-peritoneale). La percentuale di pazienti che presenta un miglioramento clinico è relativamente elevata, intorno al 60%. Le possibili complicanze comprendono lo sviluppo di ematomi intracranici in relazione a un eventuale iperdrenaggio, e una infezione del sistema di derivazione. Un’alternativa chirurgica più sicura, ma ancora in fase di valutazione, è la ventricolostomia (tra III ventricolo e spazi cisternali prepontini) per via endoscopica.
Demenze associate a patologie internistiche Alcune patologie dismetaboliche, disendocrine, carenziali o di altro ambito internistico si possono associare a una compromissione delle funzioni cognitive, che può talvolta configurare una vera e propria demenza. Molte di queste condizioni meritano particolare attenzione in quanto esempi di decadimento cognitivo (potenzialmente) reversibile in seguito al trattamento della patologia di base. Le tipologie principali sono riportate nella TABELLA 17.6. Tra di esse sono particolarmente rilevanti, clinicamente, quelle conseguenti a carenza di vitamina B12 e folati, distiroidismi e sindrome di WernickeKorsakoff (per la descrizione VEDI CAPITOLO 25). TABELLA 17.6 Principali patologie internistiche possibile causa di
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compromissione cognitiva Patologie disendocrine • Ipoe ipertiroidismo (compresa l’encefalopatia di Hashimoto) • Ipoe iperparatiroidismo Stati carenziali • Deficit di vitamina B12 e folati (e iperomocisteinemia) • Pellagra • Malattia di Whipple Da sostanze • Alcolismo: – sindrome di Wernicke-Korsakoff – malattia di Marchiafava-Bignami • Farmaci: – anticolinergici, antipsicotici, anticonvulsivanti, interferone, antiblastici, immunosoppressori, steroidi • Droghe: – eroina, cocaina, oppioidi • Tossici ambientali: – ossido di carbonio – metalli pesanti Da insufficienza d’organo • Epatica • Respiratoria (ipossiemia cronica, ipercapnia) • Cardiaca • Renale (e trattamento dialitico) Patologie disimmuni • Connettiviti Patologie dismetaboliche • Malattie metaboliche ereditarie • Malattia di Wilson • Porfiria
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Una carenza di vitamina B12 e folati può prodursi nell’ambito di un’anemia perniciosa, per ridotto introito alimentare o per sindromi da malassorbimento. In circa un terzo dei casi si accompagna a compromissione delle funzioni cognitive, in particolare dell’ambito attentivo-mnesico ed esecutivo, e dell’umore, soprattutto in senso depressivo. Possono o meno concomitare anemia megaloblastica e altri disturbi neurologici (polineuropatia, sclerosi combinata). Inoltre, l’incremento dei livelli plasmatici di omocisteina che spesso si associa alla carenza di B12 e folati è considerato un fattore di rischio per lo sviluppo di demenza su base sia degenerativa (malattia di Alzheimer) che vascolare, attraverso il potenziamento di diversi meccanismi di danno neuronale: ipoperfusione cerebrale, eccitotossicità da glutammato, stress ossidativo, tossicità da amiloide, apoptosi. La diagnosi di declino cognitivo da deficit vitaminico viene in genere posta ove vi siano segni, clinici o di laboratorio, di carenza di tali fattori, in assenza di cause alternative. Per quanto riguarda il trattamento, le evidenze sperimentali raccolte fino ad ora non dimostrano con certezza un’efficacia della supplementazione vitaminica sui deficit della sfera neuropsicologica. Per ciò che concerne le patologie tiroidee, sia l’ipoche l’ipertiroidismo, e anche la tiroidite di Hashimoto, mostrano implicazioni neurocognitive. Il meccanismo attraverso il quale gli ormoni tiroidei agiscono sulla funzionalità cerebrale non è ancora del tutto noto, ma si ipotizza che essi giochino un ruolo nella neurogenesi, in particolare a livello delle cellule ippocampali, e nella regolazione della trasmissione sinaptica serotoninergica e noradrenergica. L’ipotiroidismo provoca raramente un quadro di compromissione cognitiva globale suggestivo di una vera e propria demenza, ma può associarsi a deficit lieve di alcune specifiche funzioni neuropsicologiche, in particolare la memoria a breve e lungo termine, le funzioni esecutive e soprattutto la velocità di processamento mentale. Costante, inoltre, nei pazienti con carenza di FT3 e FT4, la presenza di deflessione del tono dell’umore. Il trattamento sostitutivo è in genere efficace sulle manifestazioni neuropsicologiche, anche se le evidenze non sono univoche. L’ipertiroidismo sarebbe associato a deficit cognitivi dell’ambito
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attentivo-mnesico ed esecutivofrontale, ma in maniera meno consistente, mentre piuttosto costanti sarebbero le alterazioni affettive, rappresentate da ansia, irritabilità, labilità emotiva. La tiroidite di Hashimoto può provocare una vera e propria encefalopatia, che si manifesta più frequentemente in associazione a ipotiroidismo o eutiroidismo, ma può talvolta manifestarsi in corso di tireotossicosi. Alcuni ipotetici meccanismi patogenetici sono una crossreazione tra antigeni tiroidei e neuronali (considerata, però, poco probabile), un danno vasculitico, o un effetto neurotossico della tireotropina. Il quadro clinico è dominato da decadimento cognitivo rapido, turbe psichiatriche, mioclono, crisi epilettiche, e anche episodi simil-stroke. Tra gli esami di laboratorio, fondamentale per la diagnosi è la presenza di autoanticorpi diretti contro diversi costituenti tiroidei. Dal punto di vista strumentale, il reperto più caratteristico è rappresentato da evidenza all’EEG di anomalie diffuse, mentre la risonanza magnetica e la SPECT di flusso cerebrali possono risultare normali, o mostrare, rispettivamente, anomalie aspecifiche della sostanza bianca e ipoperfusione frontale o diffusa. L’encefalopatia di Hashimoto rappresenta, con il suo quadro di rapido decadimento cognitivo e mioclonie, una delle principali diagnosi differenziali della malattia di CreutzfeldtJakob. Il trattamento consiste nella soministrazione di steroidi, che sono in genere efficaci, spesso con regressione completa dei sintomi.
NON DIMENTICARE CHE… Il trattamento dell’iperomocisteinemia prevede la supplementazione con acido folico e vitamine del complesso B. Va instaurato non solo per intervenire sui deficit cognitivi, ma anche per prevenire eventi trombotici cerebrali e periferici, cui il paziente è esposto in relazione all’ipercoagulabilità conseguente agli elevati livelli di omocisteina.
ALTRE DEMENZE
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Le demenze associate ad agenti infettivi (HIV, sifilide, prioni) sono trattate nel CAPITOLO 12 dedicato alle infezioni del sistema nervoso centrale, e quelle paraneoplastiche (encefalite limbica) nel CAPITOLO 25 dedicato alle complicanze neurologiche delle malattie internistiche.
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18 MALATTIE EXTRAPIRAMIDALI L. Brighina, R. Piolti, G. Stefanoni, E. Saracchi
KEY POINTS La valutazione semeiologica, intesa come analisi obiettiva del disturbo del movimento, rappresenta il cardine del processo di diagnosi eziologica. L’età di insorgenza, l’ordine temporale di comparsa dei diversi sintomi, l’eventuale progressione di gravità e la sua rapidità sono dati anamnestici essenziali per circoscrivere la diagnosi differenziale. Nonostante la loro rarità, le forme familiari di malattia di Parkinson offrono importanti informazioni sui meccanismi eziopatogenetici della malattia. Il clinico deve sapersi orientare circa l’eziologia di un quadro clinico di parkinsonismo sulla base della presenza o assenza di precisi segni “atipici”, non presenti nella malattia di Parkinson. Il trattamento farmacologico della malattia di Parkinson deve essere pianificato in modo da ridurre le complicanze tardive legate alla terapia con L-dopa. La corea di Huntington è una patologia degenerativa ereditaria, clinicamente caratterizzata, nella fase conclamata, da una classica triade sintomatologica: discinesie coreiche, demenza, turbe
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psichiatriche. La diagnosi è sospettatta in base al quadro clinico e da una storia familiare congrua con l’ereditarietà autosomica dominante della malattia. La conferma diagnostica è data dal test genetico. distonie si distinguono in forme generalizzate e focali. Il tremore essenziale è il disturbo del movimento più frequente; è una patologia benigna, priva di evolutività e spesso responsiva a terapia farmacologiche sintomatiche. Tuttavia rappresenta un fattore di rischio per il successivo sviluppo di malattia di Parkinson.
INTRODUZIONE Le malattie del sistema extrapiramidale sono un gruppo di patologie caratterizzate clinicamente dalla compromissione dell’attività motoria senza diretto coinvolgimento della forza o delle funzioni cerebellari. Derivano dalla disfunzione dei gangli della base, nuclei di sostanza grigia posti nella porzione ventromediale degli emisferi cerebrali, comprendenti lo striato (n. caudato e putamen), il globo pallido, il nucleo subtalamico e la sostanza nera (per un approfondimento su connessioni e fisiologia si rimanda al CAPITOLO 2). Queste malattie comprendono uno spettro fenotipico ai cui opposti si trovano forme acinetico-ipertoniche (in cui prevale la riduzione del movimento accompagnata da aumento del tono muscolare) e forme ipercinetiche (dominate dalla comparsa di movimenti involontari patologici).
MALATTIA DI PARKINSON E PARKINSONISMI Malattia di Parkinson La malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa a decorso progressivo cronico, definita clinicamente dall’associazione di tremore, rigidità e bradicinesia e caratterizzata dal coinvolgimento della pars compacta della sostanza nera. È stata descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1818 e rappresenta una delle più frequenti malattie neurologiche dell’età medio-
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avanzata.
Epidemiologia L’esordio avviene mediamente tra i 50 e i 60 anni d’età. È possibile un esordio precoce di malattia tra i 20 e i 40 anni nel 5-10% dei pazienti; in forme più rare, a esordio giovanile, i sintomi compaiono prima dei 20 anni. Si calcola che nei Paesi industrializzati la prevalenza nella popolazione generale sia di 120-180 casi per 100 000 individui, mentre l’incidenza si aggira intorno agli 8-18 nuovi casi su 100 000 persone all’anno. La frequenza aumenta con il progredire dell’età. La malattia colpisce entrambi i sessi (con una lieve preponderanza per il sesso maschile) ed è ubiquitariamente diffusa.
Eziologia L’eziologia della malattia è sconosciuta. La dimostrazione del possibile ruolo di agenti esogeni nella patogenesi è derivata dalla scoperta occasionale di una sostanza selettivamente tossica sui neuroni dopaminergici, l’MPTP (1-metil 4-fenil 1,2,3,6-tetraidropiridina), composto secondario che si forma durante la sintesi della meperidina (eroina sintetica) che può causare un’intossicazione acuta con sintomi parkinsoniani. Il metabolita attivo dell’MPTP, MPP+, esercita un’inibizione sul complesso I della catena respiratoria mitocondriale dei neuroni con deficit energetico cellulare e produzione di radicali liberi dell’ossigeno. Dati epidemiologici hanno identificato un insieme di sostanze strutturalmente simili all’MPTP contenute in insetticidi ed erbicidi il cui uso rappresenta un fattore di rischio per la malattia senza tuttavia costituire uno specifico agente eziologico tossico. L’importanza dei fattori causali genetici è testimoniata dall’identificazione di diverse mutazioni responsabili dei cosiddetti parkinsonismi monogenici, i quali rappresentano circa il 5% di tutti i casi di malattia di Parkinson e manifestano un fenotipo clinico e un quadro patologico talora differente rispetto alla forma classica. La malattia è dunque nella maggior parte dei casi sporadica, verosimilmente dovuta all’interazione tra fattori ambientali in grado di esercitare un’azione tossica sulle cellule dopaminergiche e una predisposizione geneticamente determinata. Il prevalente coinvolgimento dei neuroni dopaminergici della sostanza
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nera può essere spiegato dall’aumentata suscettibilità di queste cellule al danno ossidativo: il catabolismo della dopamina infatti è in grado di generare radicali liberi (mediante processi enzimatici o autocatalitici) e di indurre pertanto un meccanismo di stress ossidativo. Come in molte altre patologie neurodegenerative, anche nella malattia di Parkinson l’accumulo di aggregati proteici riveste un ruolo patogenetico determinante: la disfunzione dei sistemi di degradazione delle proteine endogene (proteasoma e autofagia) riscontrata in modelli in vitro e in vivo di malattia può giustificare il caratteristico aumento dei livelli di alfa-sinucleina cellulare con struttura alterata (misfolding proteico) fino all’assemblaggio di aggregati oligomerici tossici e infine alla deposizione di questi nei corpi di Lewy. Per un approfondimento sull’eziologia di questa malattia, VEDI FOCUS ON: GENETICA DELLA MALATTIA DI PARKINSON, PAG. 323.
Neuropatologia I fenomeni degenerativi tipici della malattia di Parkinson riguardano prevalentemente la sostanza nera mesencefalica, che già all’osservazione macroscopica appare assottigliata e pallida. Le alterazioni istopatologiche sono localizzate specificamente nella pars compacta, dove si riscontra una rarefazione neuronale a carico dei neuroni pigmentati, gliosi e rilascio del pigmento melaninico. I neuroni superstiti presentano caratteristiche inclusioni citoplasmatiche ialine denominate corpi di Lewy nella cui composizione spiccano i polimeri di alfa-sinucleina, proteina a localizzazione presinaptica, mitocondriale e citoplasmatica, la cui precisa funzione non è del tutto nota. Secondo le osservazioni di Braak, il quadro degenerativo presenta una distribuzione non ristretta alla sola sostanza nera: la progressione infatti prevede un’estensione in senso caudorostrale con iniziale interessamento del bulbo olfattorio, successivamente di altre strutture del tronco quali il nucleo motore dorsale del vago, il locus coeruleus e il nucleo del rafe, quindi della sostanza nera, dell’amigdala e infine delle strutture corticali (corteccia temporale, sostanza innominata, nucleo basale di Meynert e aree prefrontali). Numerosi studi hanno identificato la principale alterazione biochimica della malattia di Parkinson nella deplezione della dopamina striatale, fenomeno che insieme al depauperamento neuronale correla con la gravità della sintomatologia clinica. È possibile identificare una fase preclinica di
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durata variabile (verosimilmente inferiore ai 7 anni), in cui un aumentato turnover dopaminergico e un’ipersensibilità recettoriale esercitano un compenso ancora adeguato. La malattia entra nella fase clinicamente evidente quando il numero dei neuroni dopaminergici e il contenuto di dopamina striatale scendono al di sotto di un livello critico (70-80% rispetto al normale).
FOCUS ON GENETICA DELLA MALATTIA DI PARKINSON L’utilizzo di tecniche di genetica molecolare ha permesso negli ultimi anni l’identificazione di alcune forme rare di malattia di Parkinson a trasmissione familiare, e molte delle mutazioni evidenziate hanno consentito di aumentare la comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della malattia sporadica. Tra i parkinsonismi monogenici si identificano forme a trasmissione autosomica dominante (AD) e recessiva (AR): • nel gruppo a trasmissione AD si riconoscono la forma dovuta a mutazione nel locus PARK8 (gene LRRK2, che codifica per la proteina dardarina), il parkinsonismo monogenico più frequente; e quella dovuta a mutazione (locus PARK1) o a triplicazione (PARK4) del gene SNCA, che codifica per l’alfasinucleina. PARK1 è stata la prima forma familiare identificata, caratterizzata clinicamente da esordio precoce e decorso aggressivo; • nel gruppo di forme AR si riconoscono quella da mutazione a carico di PARK2 (gene parkina), caratterizzata da esordio precoce e spiccata risposta alla L-dopa; PARK5 (gene UCHL-1), PARK6 (gene PINK1), PARK7 (gene DJ1) e PARK9 (gene ATP13A2). Inoltre si è osservato che specifiche varianti alleliche di alcuni geni risultano associate a un aumentato rischio di sviluppare la malattia sporadica: in particolare tale associazione è stata osservata per specifici
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alleli dei geni polimorfici SNCA, PARK2, MAPT (codificante la proteina tau) e GBA (codificante la glucocerebrosidasi).
Queste alterazioni biochimiche implicano una compromissione del sistema dopaminergico a livello delle proiezioni nigrostriatali (ma anche mesocorticali e mesolimbiche) con alterazione dell’equilibrio di inibizione ed eccitazione nei gangli della base mediante le vie diretta e indiretta e conseguente silenziamento della stimolazione talamocorticale che sostiene l’attività corticale deputata alla programmazione e all’esecuzione dell’attività motoria. Oltre al deficit neurotrasmettitoriale dopaminergico, si osserva anche una relativa iperfunzione dei neuroni colinergici striatali (dovuta all’alterazione del normale equilibrio neurotrasmettitoriale tra dopamina e acetilcolina), e inoltre una riduzione del tono noradrenergico, serotoninergico e GABAergico.
Quadro clinico e decorso L’esordio della malattia è insidioso, con una sintomatologia che comprende uno o più dei seguenti sintomi cardinali e tende a essere unilaterale e asimmetrica, per poi estendersi fino a una distribuzione generalizzata: • il tremore parkinsoniano si manifesta a riposo, presenta una frequenza di 4-6 Hz e si localizza soprattutto nelle fasi iniziali della malattia alle estremità distali degli arti (in particolar modo alle mani, realizzando movimenti descritti come “contare monete”). Scompare durante l’esecuzione di movimenti volontari e può essere influenzato da circostanze esterne (esacerbato dallo stress emotivo e mentale). Rappresenta il sintomo d’esordio nel 60% dei casi; • la rigidità extrapiramidale (plastica) consiste nell’aumento del tono muscolare apprezzato dall’esaminatore come resistenza continua, omogeneamente distribuita e costante al movimento passivo. Il muscolo passivamente disteso conserva la posizione assunta (flexibilitas cerea o rigidità a tubo di piombo). Inoltre durante la mobilizzazione passiva possono essere apprezzati al polso e al gomito piccoli e regolari cedimenti dell’ipertono dovuti alla sovrapposizione di un tremore subclinico (fenomeno della troclea). Nelle fasi avanzate di malattia tende a prevalere
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una rigidità assiale in flessione conferendo il particolare atteggiamento posturale definito “camptocormico”; • con il termine acinesia ci si riferisce alla riduzione globale della motilità spontanea (per esempio, la caratteristica povertà nella gestualità e nella mimica) e associata (per esempio, la riduzione o abolizione delle sincinesie pendolari nella deambulazione), mentre per bradicinesia si intende la lentezza e la faticabilità nell’esecuzione dei movimenti volontari. Tali disturbi possono essere evidenziati clinicamente facendo compiere al paziente movimenti rapidi alternati (come aprire e chiudere il pugno, pronare e supinare l’avambraccio), evidenziando in tal modo la riduzione e alterazione nel movimento. La deambulazione avviene lentamente e a piccoli passi, con difficoltà specie nell’avvio della marcia (start hesitation) che può proseguire con una progressiva accelerazione (festinatio) dovuta a compromissione dei riflessi posturali. I cambi di direzione o i passaggi ristretti possono comportare blocco del cammino (freezing). Si osserva una riduzione della mimica facciale con rarità dell’ammiccamento; il linguaggio è caratterizzato da voce ipofonica, disartria e compromissione della prosodia. Altro aspetto caratteristico è la riduzione della grafia (micrografia). Con l’evoluzione della patologia compare anche un progressivo deterioramento dei meccanismi riflessi di fissazione posturale, responsabile dell’instabilità posturale tipica della fase avanzata con frequenti cadute. Tale disturbo è evidenziabile mediante il pull test, prova in cui l’esaminatore si posiziona alle spalle del paziente e lo spinge bruscamente indietro, valutandone la capacità di mantenere la stazione eretta anche con piccoli movimenti di compenso. Oltre alla sintomatologia motoria sopra descritta, nella malattia di Parkinson si osserva l’interessamento di una serie di domini non motori: • disfunzione vegetativa: ipotensione ortostatica, scialorrea, disturbi della minzione con incontinenza, stipsi, turbe della termoregolazione, disfunzione erettile; • disturbi del sonno: REM behaviour disorder (caratterizzato da comportamenti motori complessi durante il sonno REM associati a perdita della fisiologica atonia), incubi, sogni vividi, sindrome delle gambe senza
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riposo; • turbe psichiche: depressione con apatia, abulia e inerzia; allucinazioni visive; • deficit cognitivi frontali: compromissione visuospaziale, alterazione della fluenza verbale, deficit di attenzione, fino alla demenza sottocorticale. La malattia presenta uno spettro fenotipico eterogeneo e sulla base della sintomatologia prevalente e dell’evoluzione possono essere individuate due distinte forme: 1. una forma tremorigena, dominata clinicamente dal tremore, caratterizzata da insorgenza più precoce ed evoluzione clinica più lenta e meno invalidante; 2. una forma rigido-acinetica, dominata clinicamente da grave rigidità e acinesia con evoluzione più rapida, invalidante, frequenti turbe posturali e dell’andatura. Prima dell’avvento della L-dopa, l’evoluzione della malattia era caratterizzata da una sopravvivenza inferiore ai 10 anni, con una mortalità tre volte superiore a quella della popolazione non affetta (dovuta a complicanze vascolari o polmonari). L’introduzione della terapia dopaminergica ha prolungato l’aspettativa di vita, che rimane lievemente inferiore a quella dei soggetti sani di pari età.
Diagnosi Sebbene la diagnosi di certezza possa essere solo autoptica, elevati livelli di accuratezza diagnostica vengono raggiunti anche in vivo tramite applicazione di specifici criteri (Criteri di Gelb, 1999), che richiedono la presenza di almeno due dei tre sintomi cardinali e la responsività al trattamento farmacologico con L-dopa, oltre all’esclusione di forme che entrano in diagnosi differenziale con la malattia di Parkinson (tremore essenziale, parkinsonismi atipici e sintomatici). In particolare la mancata risposta al trattamento dopaminergico, la comparsa precoce di disturbi cognitivi, autonomici, di instabilità posturale con cadute, di segni cerebellari, piramidali o di turbe dell’oculomozione orientano verso altre patologie. La diagnosi può essere suffragata dai risultati ottenuti con le tecniche di
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neuroimaging (la TC e la RM dell’encefalo risultano negative, al contrario dei parkinsonismi) e di medicina nucleare (VEDI FOCUS ON: MEDICINA NUCLEARE E MALATTIA DI PARKINSON, PAG. 325).
FOCUS ON MEDICINA NUCLEARE E MALATTIA DI PARKINSON PET e SPECT permettono di identificare la disfunzione dopaminergica presinaptica in fase precoce, addirittura preclinica, e di misurare in vivo la progressione nel tempo della patologia. A tal scopo si utilizzano traccianti PET come la 18F-fluorodopa, che viene captata dai neuroni della sostanza nigra, trasformata in dopamina e immagazzinata nelle vescicole di trasporto presinaptiche; la 11Ctetrabenazina, marcatore del trasportatore della dopamina all’interno delle vescicole (VMAT2); i ligandi del trasportatore della dopamina (DAT, dopamine transporter) indicatori del re-uptake della dopamina rilasciata nello spazio sinaptico (11C-FE-CIT, 18F-FP-CIT e altri). Con la SPECT è possibile solo lo studio dei siti di reuptake della dopamina nello striato, tuttavia la facile disponibilità del tracciante 123I-FP-CIT e la sua praticità di utilizzo ne hanno permesso l’ampia diffusione in ambito clinico: una riduzione asimmetrica di captazione a livello putaminale aiuta nella diagnosi precoce di malattia di Parkinson, correla con velocità di progressione e gravità di malattia e permette inoltre la diagnosi differenziale tra malattia di Parkinson e altre patologie (tremore essenziale, parkinsonismo iatrogeno e vascolare, distonia doparesponsiva). Lo studio dopaminergico postsinaptico è importante invece per la diagnosi differenziale tra malattia di Parkinson e parkinsonismi atipici, come atrofia multisistemica, paralisi sopranucleare progressiva e degenerazione corticobasale. Mentre infatti nella prima la quantità di recettori della dopamina a livello postsinaptico è normale o addirittura aumentata (up-regulation), soprattutto in fase iniziale, nelle forme
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atipiche essa risulta ridotta. La scintigrafia miocardica con un analogo della noradrenalina, la metaiodo-benzilguanidina (123I-MIBG), è impiegata per lo studio dell’innervazione simpatica cardiaca che risulta precocemente compromessa nella malattia di Parkinson ed è al contrario integra nell’atrofia multisistemica; pertanto tale tecnica può essere utilizzata per eseguire tale diagnosi differenziale già nelle prime fasi di malattia.
Diagnosi differenziale Una sintomatologia extrapiramidale analoga a quella del morbo di Parkinson viene osservata in numerosi quadri clinici, espressione sintomatica di eziologie diverse: • parkinsonismo vascolare: lesioni ischemiche a carico dei nuclei della base in un contesto di encefalopatia vascolare possono determinare l’insorgenza di un quadro extrapiramidale progressivo rigido-acinetico, con prevalente interessamento degli arti inferiori (lower body parkinsonism); è frequente l’associazione con segni piramidali, pseudobulbari e note di decadimento cognitivo; la risposta alla terapia dopaminergica è scarsa o assente; • parkinsonismo iatrogeno: i farmaci tipicamente responsabili della comparsa di un parkinsonismo sono i neurolettici tipici, in particolare fenotiazine e butirrofenoni (in relazione alla loro capacità di occupare i recettori dopaminergici post-sinaptici D2 bloccandone l’attività); tale effetto collaterale compare nel 15% dei pazienti in trattamento cronico, in maniera non dose-correlata ma influenzata dalla suscettibilità individuale (il rischio aumenta nell’età avanzata e nel sesso femminile). Il quadro clinico, prevalentemente rigido-acinetico, ha esordio subacuto (entro tre mesi dall’inizio della terapia), con distribuzione bilaterale e frequente associazione con discinesie bucco-linguo-facciali. Il parkinsonismo scompare generalmente entro alcune settimane dalla sospensione della terapia; in alcuni soggetti esso però può durare a lungo o risultare irreversibile. Altri farmaci responsabili di un parkinsonismo iatrogeno sono sulpiride e altre benzamidi sostituite, litio, metoclopramide, calcioantagonisti (flunarizina e cinarizina) e alfametildopa; • parkinsonismo da tossici: l’intossicazione cronica da manganese,
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monossido di carbonio o idrocarburi può produrre quadri extrapiramidali rigido-acinetici; • possono determinare segni parkinsoniani prevalentemente asimmetrici anche patologie neoplastiche della linea mediana o dei gangli della base (parkinsonismo tumorale) e traumi cranici ripetuti e protratti (parkinsonismo post-traumatico); • legato a epoche passate, il parkinsonismo post-encefalitico si presentava in maniera concomitante o successiva a un’infezione virale, associato a turbe dell’oculomozione, coreo-atetosi, alterazioni vegetative e psichiche. Le forme che entrano in diagnosi differenziale con il morbo di Parkinson comprendono inoltre i cosiddetti “parkinsonismi atipici” (VEDI OLTRE). Altre malattie che entrano in diagnosi differenziale con la malattia di Parkinson sono: • malattia a corpi di Lewy: patologia caratterizzata da degenerazione neuronale diffusa con presenza dei corpi di Lewy sia a livello dei nuclei della base che della corteccia; il quadro clinico comprende declino cognitivo con risparmio della memoria in fase iniziale, fluttuazione della cognitività e della vigilanza, allucinazioni visive e deliri, parkinsonismo rigido-acinetico spontaneo o iatrogeno (vi è una caratteristica ipersensibilità ai neurolettici); • idrocefalo normoteso, caratterizzato da disturbo della deambulazione, incontinenza urinaria e decadimento cognitivo (deficit di memoria, attenzione e bradifrenia). La RM dell’encefalo, eventualmente con studio del flusso liquorale, esame di scelta, permette di osservare oltre alla dilatazione del sistema ventricolare con risparmio dei solchi corticali della convessità, l’incremento del contenuto idrico periventricolare generalmente attribuito a ridotto assorbimento liquorale transpendimale; • malattia di Wilson: patologia ereditaria autosomica recessiva caratterizzata da degenerazione cerebrale ed epatica per accumulo di rame. Ai segni parkinsoniani si aggiungono coreo-atetosi, distonia, disartria, tremore cinetico e posturale, disturbi psichiatrici e decadimento cognitivo. I segni d’interessamento epatico compaiono attorno ai 10-13 anni d’età, mentre l’esordio neurologico e psichiatrico avviene attorno ai 20 anni. Il riscontro degli anelli corneali di Kayser-Fleischer, di livelli alti di rame (sierico e urinario) e bassi di ceruloplasmina sierica consentono la diagnosi;
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• in presenza di un quadro clinico prevalentemente tremorigeno occorre considerare nella diagnosi differenziale il tremore essenziale.
Parkinsonismi atipici Sono un gruppo di malattie neurodegenerative caratterizzate clinicamente da associazione di parkinsonismo con altri segni neurologici specifici, evoluzione rapida e assenza pressoché completa di responsività alla terapia dopaminergica. ATROFIA MULTISISTEMICA. Rientrano sotto questo nome affezioni con vario pattern di degenerazione accomunate dalla presenza di segni extrapiramidali, disautonomici, cerebellari e piramidali. Dal punto di vista neuropatologico rientra insieme alla malattia di Parkinson e alla malattia a corpi di Lewy nel gruppo delle sinucleinopatie: si osserva la presenza di inclusioni citoplasmatiche oligodendrogliali (proteine acide fibrillari) e dei corpi di Lewy. Nell’ambito della patologia vengono classicamente riconosciute alcune varianti: • degenerazione striato-nigrica, in cui predomina un parkinsonismo rigidoacinetico a esordio simmetrico e rapida progressione; • atrofia olivo-ponto-cerebellare, in cui predomina la compromissione cerebellare (atassia, dismetria, tremore d’azione); • sindrome di Shy-Drager, in cui predomina la compromissione del sistema autonomico (ipotensione ortostatica, anidrosi, incontinenza urinaria). Più recentemente è stato proposto di definire due sole categorie nell’ampio spettro clinico della malattia: un polo in cui prevalgono le manifestazioni extrapiramidali (MSA-P) e un polo in cui invece sono preponderanti i segni cerebellari (MSA-C). Tale designazione col tempo potrà modificarsi arricchendosi degli elementi tipici della polarità opposta. L’esordio avviene intorno alla quinta decade di vita e la durata di malattia è di circa 10 anni. Vi può essere una risposta alla terapia con L-dopa, che col tempo si esaurisce o non è comunque stabile. Supportano la diagnosi il riscontro alla RM encefalo di un’ipointensità bilaterale in T2 a livello dei nuclei della base (dovuta a depositi di ferro) e un assottigliamento del
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peduncolo cerebellare medio; la presenza di denervazione della muscolatura sfinterica all’EMG del piano perineale; l’assenza di denervazione simpatica cardiaca (riscontrata al contrario nella malattia di Parkinson) alla scintigrafia miocardica con MIBG. PARALISI SOPRANUCLEARE PROGRESSIVA. È una malattia degenerativa progressiva del gruppo delle taupatie, nella quale sono interessate, oltre alla sostanza nera e allo striato, anche alcune strutture grige del mesencefalo (collicolo superiore, area pretettale, grigio periacqueduttale) con assottigliamento tegmentale. A livello microscopico si osservano rarefazione neuronale, degenerazione neurofibrillare, filamenti taupositivi e gliosi. Clinicamente si manifesta con oftalmoplegia sopranucleare (con paralisi dello sguardo dapprima verso l’alto, poi anche verso il basso e infine completa), quadro extrapiramidale con spiccata rigidità assiale del collo e del rachide in estensione, instabilità posturale precoce con frequenti cadute, segni pseudobulbari e decadimento cognitivo sottocorticale. L’età d’esordio si aggira intorno ai 60 anni, il decorso è ingravescente e porta al decesso in circa 6 anni. Non vi è responsività alla terapia dopaminergica. La RM dell’encefalo evidenzia atrofia del tronco (in particolare del tegmento mesencefalico) con allargamento del III ventricolo e della cisterna interpeduncolare. DEGENERAZIONE CORTICOBASALE. È anch’essa un’affezione degenerativa del gruppo delle taupatie caratterizzata da un’atrofia asimmetrica dei lobi frontali e parietali, associata a degenerazione e depigmentazione della sostanza nera, variabile compromissione di altre strutture sottocorticali e inclusioni taupositive. Il quadro clinico è una sindrome rigido-acinetica asimmetrica con frequente distonia artuale, associata a segni precoci di compromissione corticale (aprassia dapprima segmentale poi generalizzata, deficit delle sensibilità discriminative, disturbi del linguaggio e segni piramidali); possono essere inoltre presenti mioclonie focali, alterazioni dell’oculomozione e segno della mano aliena (in cui una mano, come se fosse estranea, esegue gesti finalizzati o non finalizzati involontari). La progressione è rapida e conduce all’exitus in 5 anni; come negli altri parkinsonismi atipici, non si ha responsività alla L-dopa. Le indagini neuroradiologiche documentano l’ingravescente processo di atrofia corticale frontoparietale asimmetrica, con cui correlano i reperti di
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tipo funzionale (PET e SPECT di flusso).
Trattamento della malattia di Parkinson L’approccio al paziente affetto da malattia di Parkinson varia nelle diverse fasi di malattia. Allo stato attuale le evidenze sicure riguardano la sola terapia sintomatica e il miglior modo di impiegare i vari farmaci antiparkinsoniani è ancora oggetto di controversie; non esistono infatti al momento affidabili terapie neuroprotettive o neurorestaurative. Il clinico deve basarsi sul proprio giudizio per determinare quando iniziare una terapia tenendo in particolare conto l’età del paziente e le sue esigenze. Obiettivo della terapia consiste nel miglior controllo possibile dei sintomi con il minimo degli effetti collaterali: in pazienti giovani e con lunga aspettativa di vita prevale la tendenza a ridurre il rischio di complicanze motorie della terapia; viceversa, nei pazienti più anziani e con deterioramento cognitivo, predomina l’esigenza di ridurre gli effetti collaterali soprattutto psichiatrici. In fase precoce, considerando che la terapia farmacologica è sintomatica non agendo sulle cause di malattia, non è richiesto in genere trattamento; è importante piuttosto informare il paziente e i familiari della natura della malattia, della sua evoluzione, della possibilità di diversi approcci farmacologici. A livello farmacologico l’equilibrio dell’alterata bilancia dopamina/acetilcolina a livello striatale può essere ristabilito mediante farmaci anticolinergici muscarinici, o incrementando la trasmissione dopaminergica mediante L-dopa (precursore della dopamina), con farmaci dopamino-agonisti, o che favoriscono la liberazione di L-dopa dalle fibre nervose superstiti, o che inibiscono la degradazione della dopamina (TAB. 18.1). TABELLA 18.1 Farmaci antiparkinsoniani classificati in base al meccanismo d’azione
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FARMACI ANTICOLINERGICI. Sono stati i primi farmaci impiegati per la malattia di Parkinson e il razionale del loro impiego si fonda sull’ipotesi che oltre alla denervazione dopaminergica vi sia anche un’iperattività colinergica, modificabile con farmaci capaci di antagonizzare i recettori muscarinici. In generale sono meno efficaci dei farmaci dopaminergici e la loro azione si esplica soprattutto su tremore e rigidità, meno sulla bradicinesia; possono anche risultare utili per ridurre alcuni sintomi disautonomici della malattia (scialorrea, incontinenza urinaria). Tra i più usati vi sono il triesifenidile, l’orfenadrina, il bornaprine, il metixene. Gli effetti collaterali più comuni sono xerostomia, stipsi, ritenzione urinaria, turbe dell’accomodazione. Non vanno usati in pazienti con glaucoma, ipertrofia prostatica; nei pazienti più anziani, generalmente con associato deterioramento cognitivo, si possono
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talora verificare effetti confusionali e allucinazioni, per cui questa classe di farmaci va evitata. Gli anticolinergici possono interferire con l’assorbimento della L-dopa per il rallentamento dello svuotamento gastrico. In pratica la terapia con anticolinergici viene limitata a pazienti parkinsoniani giovani con tremore prevalente poco responsivo alla terapia dopaminergica, iniziando con piccole dosi da incrementare gradualmente in relazione a risposta clinica e tollerabilità. AMANTADINA. È un farmaco antivirale del quale è stata casualmente trovata un’attività antiparkinsoniana. Il meccanismo d’azione non è chiaro: sembra stimolare il rilascio di dopamina dalle fibre nervose superstiti e bloccarne il reuptake; agirebbe inoltre sui recettori del glutammato. Il farmaco può essere impiegato nel parkinsonismo lieve da solo per ridurre i sintomi motori; più frequentemente è impiegato in associazione con L-dopa nei pazienti con malattia avanzata per ridurre le discinesie iatrogene. L’efficacia del farmaco tende a diminuire nel tempo. Gli effetti collaterali comprendono livedo reticularis, edemi, disturbi del ritmo cardiaco, disturbi psicotici, insonnia. Il dosaggio è di 100-300 mg/die. LEVODOPA. La L-dopa (L-3-4-diidrossifenilalanina) migliora tutti i principali sintomi del parkinsonismo e in particolare risulta particolarmente utile sulla bradicinesia; a oltre quarant’anni dalla sua introduzione rimane il farmaco più efficace nel ridurre i sintomi parkinsoniani e quando inserita in terapia produce praticamente in tutti i pazienti una risposta efficace e duratura. Il suo uso ha condotto a un significativo aumento di qualità e aspettativa di vita dei pazienti, determinando peraltro la comparsa di nuovi sintomi e una serie di problematiche sconosciute nell’epoca precedente. Dopo somministrazione orale la L-dopa viene assorbita nel tratto prossimale dell’intestino tenue, sfruttando il sistema di trasporto degli aminoacidi a catena ramificata; la concentrazione plasmatica di picco varia tra 0,5 e 2 ore. L’assorbimento del farmaco dipende da vari fattori (velocità di svuotamento gastrico, pH gastrico, tempo di contatto con gli enzimi degradativi del tratto gastrointestinale) e viene ridotto dagli aminoacidi assunti con la dieta (si consiglia pertanto l’assunzione del farmaco lontano dai pasti). La L-dopa viene associata a carbidopa o benserazide, inibitori della dopa-decarbossilasi (enzima che trasforma la L-dopa in dopamina) per limitarne gli effetti periferici (nausea, vomito, ipotensione posturale, aritmie);
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questi inibitori agiscono solo a livello periferico e permettono di ridurre le dosi assunte di L-dopa, aumentandone la quantità disponibile al passaggio attraverso la barriera ematoencefalica. Il passaggio attraverso la barriera ematoencefalica è un processo attivo, sempre mediato dai trasportatori degli aminoacidi aromatici. Nel cervello la L-dopa viene assunta dalle cellule della sostanza nera, decarbossilata a dopamina e in seguito liberata dalle vescicole presinaptiche per andare a stimolare i recettori dopaminergici dei neuroni postsinaptici striatali; la dopamina viene poi in parte ricaptata dai neuroni dopaminergici presinaptici, in parte viene degradata dalle mono-aminoossidasi (MAO) o dalle catecol-O-metil transferasi (COMT). La L-dopa è disponibile in vari dosaggi e formulazioni. All’inizio della malattia in genere il farmaco risulta molto efficace, ma progressivamente, in media dopo 5 anni, la finestra terapeutica tende a restringersi. Uno dei problemi principali del farmaco risiede nella breve emivita (60-90 minuti), con conseguente afflusso pulsatile a livello striatale; questa stimolazione non fisiologica insieme al progredire della malattia contribuirebbe allo sviluppo di fluttuazioni motorie e discinesie. La L-dopa presenta una serie di complicanze sia immediate (nausea e vomito, ipotensione posturale) che tardive: motorie (deterioramento a fine dose o wearing off, fenomeno on-off con alternanza di periodi di motilità conservata e di blocco motorio, freezing caratterizzato da improvviso peggioramento della bradicinesia), discinesie, complicanze psichiatriche (allucinazioni, psicosi, ipersessualità), sintomi non motori (sonnolenza, iperidrosi, dolore muscolare). Tra le complicanze tardive motorie si annoverano anche il deterioramento di fine dose, con peggioramento prima dell’assunzione della dose successiva, e il fenomeno on-off, nel quale si verificano a intervalli frequenti brusche e transitorie fluttuazioni di gravità dei sintomi parkinsoniani, senza correlazione con l’orario di somministrazione. Per ridurre queste complicanze si possono variare gli orari e i dosaggi del farmaco, diminuire l’assunzione di proteine della dieta che interferiscono con l’assorbimento della L-dopa, associare alla terapia inibitori delle COMT o delle MAO-B e/o dopamino-agonisti. L’epoca di inizio della terapia è controversa: dopo un certo numero di anni di terapia con L-dopa si osservano fluttuazioni della risposta che possono risultare disabilitanti e di difficile trattamento, soprattutto in terapie con dosaggi elevati; ne consegue l’indicazione generale di impiegare se possibile dosi non superiori in media a 600 mg/die.
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NON DIMENTICARE CHE… La responsività alla L-dopa è uno degli elementi che orienta verso la diagnosi di morbo di Parkinson, anche se è un parametro privo di specificità assoluta. È possibile eseguire anche un test in acuto, valutando il miglioramento clinico rispetto al quadro di base dopo l’assunzione di una dose di circa 3 mg/kg di farmaco.
INIBITORI DELLA CATECOL-O-METILTRANSFERASI (COMT). Agiscono inibendo il catabolismo della L-dopa a 3-O-metildopa, determinandone livelli plasmatici più costanti, riducendo i periodi off e permettendo di ridurne il dosaggio giornaliero. Il loro impiego aumenta l’emivita della L-dopa del 3050% e la concentrazione plasmatica del 25-100%. Il tolcapone risulta più efficace, agendo non solo a livello periferico ma anche centrale, ma è gravato dal rischio di epatotossicità e si rende necessario uno stretto controllo della funzionalità epatica; va assunto in tre somministrazioni al giorno al dosaggio di 300 mg. L’entacapone possiede un miglior rapporto efficacia/sicurezza e viene impiegato alla dose di 200 mg associatao a ogni somministrazione di Ldopa, fino a una dose massima di 2 g/die; provoca un’alterazione del colore delle urine. Effetti collaterali di questa classe di farmaci consistono in diarrea, nausea, ipotensione, discinesie, confusione mentale. INIBITORI DELLE MONOAMINOOSSIDASI TIPO B. SELEGILINA e rasagilina inibiscono la degradazione metabolica della dopamina; sono indicate sia da sole in fase precoce di malattia sia in associazione con L-dopa in fasi più avanzate; vengono somministrate rispettivamente al dosaggio di 10 e 1 mg/die, in genere nelle prime ore della giornata (possono causare insonnia). Per questi farmaci è stata ipotizzata un’azione neuroprotettiva capace di ritardare la progressione della malattia di Parkinson. La rasagilina, a differenza della selegilina, non produce metaboliti di tipo amfetamino-simile; entrambe non causano reazioni a tipo cheese-effect dopo assunzione di tiramina.
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DOPAMINO-AGONISTI. I primi dopamino-agonisti impiegati sono stati i derivati dell’ergot: bromocriptina, lisuride, pergolide, cabergolina. Questi farmaci stimolano direttamente i recettori dopaminergici postsinaptici. Sono state identificate due classi di recettori, D1 e D2, comprendenti vari sottotipi; l’attività sui D2 è ritenuta fondamentale per l’azione antiparkinsoniana, l’azione combinata su D1 e D2 produce effetti più fisiologici. I dopaminoagonisti sono in genere meno efficaci della L-dopa, ma causano in percentuale inferiore complicanze a lungo termine quali le discinesie. Vengono impiegati in monoterapia nelle fasi iniziali e in seguito in associazione con L-dopa, permettendo di ridurne i dosaggi. Gli effetti collaterali sono simili a quelli della L-dopa, ma sono gravati da una maggiore incidenza di effetti collaterali di tipo psichiatrico (allucinazioni, deliri) e cardiovascolari (ipotensione ortostatica, edemi). Controindicazioni relative sono gravi malattie vascolari periferiche, ulcera peptica in fase attiva, infarto miocardico recente. In passato erano stati segnalati con i dopamino-agonisti ergolinici rari casi di fibrosi pericardica, pleurica e retroperitoneale; più recentemente sono stati descritti alcuni casi di fibrosi valvolare cardiaca che impongono un controllo ecocardiografico periodico. I più recenti dopamino-agonisti non ergolinici, ropinirolo e pramipexolo, presentano un miglior profilo di tollerabilità, con efficacia simile a quella degli ergolinici. Gli effetti collaterali di questi ultimi consistono in sonnolenza con rischio di colpi di sonno, nausea, edemi periferici, ipotensione ortostatica, confusione, allucinazioni. Con tutti i dopamino-agonisti la dose attiva va raggiunta lentamente, con un processo di titolazione che può richiedere anche qualche mese.
Trattamento della malattia in fase iniziale Una volta valutato il deficit funzionale, basato su diversi fattori (presenza e localizzazione dei sintomi, percezione soggettiva della disabilità, esigenze funzionali del paziente), la scelta della terapia farmacologica iniziale dipende soprattutto dall’età del paziente, dalle sue condizioni fisiche generali con particolare riferimento a patologie coesistenti, dalle necessità lavorative (FIG. 18.1). Le varie possibilità comprendono:
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FIGURA 18.1 Flow-chart della terapia nella malattia di Parkinson. DBS (deep brain stimulation), stimolazione cerebrale profonda RP, rilascio prolungato. • inibitori delle MAO-B (selegilina, rasagilina): dotati di un effetto inferiore rispetto a L-dopa e dopaminoagonisti; sono di facile somministrazione e non richiedono titolazione; • amantadina o anticolinergici: meno efficaci della L-dopa; gli anticolinergici sono da evitare negli anziani; • dopamino-agonisti: nei soggetti con esordio precoce di malattia sono usati i non-ergolinici, efficaci in monoterapia in fase iniziale e in grado di ridurre il rischio di fluttuazioni motorie. I dopamino-agonisti ergot-derivati non sono indicati come prima scelta per il rischio di fibrosi. Non vi è indicazione all’uso di apomorfina in questa fase; • L-dopa associata a inibitori della decarbossilasi: rappresentano il gold standard del trattamento antiparkinsoniano; l’efficacia nel tempo tende a diminuire per la progressiva riduzione della risposta terapeutica e la
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comparsa di fluttuazioni motorie e discinesie, specie in pazienti con esordio precoce. Si preferisce in genere trattare con L-dopa in monoterapia all’esordio pazienti di oltre 70 anni, con dosaggi medio-bassi (200-600 mg/die); i pazienti anziani sviluppano più facilmente reazioni avverse di tipo neuropsichiatrico piuttosto che fluttuazioni motorie. Non è stato dimostrato alcun vantaggio nell’impiego in fase iniziale dei preparati di Ldopa a rilascio modificato nel ritardare lo sviluppo di complicanze motorie; • associazione precoce di dopamino-agonista e
Trattamento dei pazienti con progressione di malattia in iniziale monoterapia senza fluttuazioni motorie Se il paziente aveva iniziato la terapia con inibitori delle MAO-B, anticolinergici o amantadina e vi è la necessità di associare altri farmaci, si aggiungono L-dopa o dopamino-agonisti (in genere quest’ultimo nel caso di pazienti più giovani, e L-dopa nei pazienti più anziani). Se il paziente era in monoterapia con dopamino-agonista si può aumentare la dose del dopaminoagonista, passare a un altro dopaminoagonista o aggiungere L-dopa. Se il paziente era in monoterapia con L-dopa, si potrà aumentarne la dose o aggiungere un dopamino-agonista.
Trattamento della fase intermedia-avanzata della malattia In questa fase si realizza uno scompenso motorio, legato in parte alla progressione e alla gravità della malattia, caratterizzato da: • inadeguato controllo motorio (peggioramento di bradicinesia, rigidità, tremore); • fluttuazioni motorie: deterioramento di fine dose (wearing-off), acinesia al risveglio, fenomeno on-off, discinesie. Il deterioramento di fine dose consiste nella ridotta risposta terapeutica alle singole dosi di L-dopa, che all’inizio di malattia è di circa 4 ore e tende progressivamente a ridursi; in questo caso le strategie consistono in aumento della dose e/o della frequenza di somministrazione della L-dopa, passaggio a preparazioni a rilascio modificato, associazione di dopamino-agonista o aumento del suo dosaggio qualora già assunto, aggiunta di inibitori MAO-B e
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COMT. Se questi tentativi sono inefficaci, si passa all’impiego di L-dopa dispersibile a più rapido assorbimento in caso di gravi fluttuazioni motorie refrattarie, all’aggiunta di apomorfina sotto forma di boli sottocute o in pompa per infusione continua, alla somministrazione di L-dopa/carbidopa in gel mediante gastrostomia percutanea, alla neurochirurgia funzionale (DBS del nucleo subtalamico). Il fenomeno on-off consiste in fluttuazioni motorie imprevedibili, non correlate alle singole dosi di farmaci, in fase avanzata; in questa condizione si associano spesso discinesie in fase on, che si alternano con fasi di blocco fino all’acinesia completa. Le strategie terapeutiche ripercorrono quelle del deterioramento di fine dose. DISCINESIE. Le discinesie dopa-indotte sono di vario tipo: coreiche (le più frequenti), balliche, distoniche, miocloniche. Vengono suddivise in base al tempo di comparsa e al tempo di somministrazione della L-dopa in discinesie di picco dose, discinesie di inizio e fine dose, distonie di fase off (di cui la più tipica è la distonia dolorosa del piede al risveglio). Le strategie terapeutiche consistono in modificazioni dei trattamenti in corso, in relazione all’ipotesi di un’eccessiva dose di L-dopa all’origine delle discinesie di picco dose e, al contrario, di una stimolazione incompleta dei recettori dopaminergici nelle discinesie e distonie di inizio e fine dose, nell’impiego di sostanze con azione antidiscinetica (amantadina), in trattamenti neurochirurgici (DBS del nucleo subtalamico o del globo pallido interno). Per le distonie di fase off è stato anche suggerito l’impiego della tossina botulinica a livello dei muscoli interessati.
Trattamento chirurgico della malattia di Parkinson La prospettiva chirurgica va considerata quando non vi è più risposta alle terapie farmacologiche o quando i pazienti sviluppano con i farmaci effetti collaterali non tollerabili. Le prime terapie erano di tipo demolitivo (talamotomia soprattutto per il tremore, pallidotomia per le discinesie). Controindicazioni a questo tipo di interventi sono la coesistenza di vasculopatia cerebrale e di deterioramento cognitivo; la frequenza di complicanze con deficit neurologici è del 20% in caso di intervento bilaterale, che va quindi evitato. Negli ultimi anni la terapia ablativa è stata soppiantata da una particolare tecnica, la stimolazione cerebrale profonda (DBS, deep brain stimulation)
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mediante sottili elettrodi stimolatori posizionati in particolari aree cerebrali localizzate con metodica stereotassica (nucleo subtalamico, globo pallido). Questa metodica ha il vantaggio della reversibilità, di una morbilità inferiore, di causare danni cerebrali minimi, di poter essere eseguita bilateralmente. La DBS può migliorare tutti i principali sintomi della malattia di Parkinson e ridurre le discinesie iatrogene; è controindicata in pazienti con deterioramento cognitivo, depressione, parkinsonismi atipici. Gli eventi avversi correlati alla DBS del nucleo subtalamico e del globo pallido più frequentemente osservati sono modifiche dello stato mentale e comportamentale, disartria, aprassia delle palpebre, ballismo. Vanno aggiunte anche le possibili complicanze chirurgiche, quali infezioni ed emorragie.
SINDROMI COREICHE Corea di Huntington La corea di Huntington è una malattia degenerativa ereditaria, caratterizzata dall’associazione di movimenti involontari, alterazioni del comportamento e deterioramento cognitivo progressivo. È una patologia rara, con una prevalenza di 4-10 casi su 100 000 e distribuzione ubiquitaria. Viene trasmessa con modalità autosomica dominante a penetranza completa, il che implica che tutti i soggetti portatori di mutazione svilupperanno il quadro clinico e che ciascun figlio di un soggetto affetto presenta il 50% di probabilità di ereditare la malattia. Il gene responsabile della malattia (IT15) si trova sul braccio corto del cromosoma 4 e codifica per la proteina huntingtina; la mutazione caratteristica corrisponde all’espansione di una sequenza di tre nucleotidi (CAG) nella parte codificante del gene: nei soggetti normali sono presenti fino a 35 ripetizioni, mentre nei soggetti affetti la tripletta è ripetuta da 36 a 141 volte. Il numero di ripetizioni correla inversamente con l’età d’esordio. Inoltre nel corso della gametogenesi paterna si può verificare un’ulteriore espansione del corredo di triplette che vengono poi trasmesse alla progenie: l’aumento intergenerazionale progressivo del numero di triplette rende conto del tipico fenomeno dell’anticipazione dell’età d’esordio che si osserva nelle forme a trasmissione paterna.
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L’espansione di triplette CAG determina a livello proteico un aumento del numero di residui consecutivi di glutamina: questi tratti di poliglutamina inducono l’huntingtina a depositarsi in aggregati nucleari e citoplasmatici, che alterano in maniera irreversibile la normale citoarchitettura. I fenomeni degenerativi interessano prevalentemente lo striato (in particolare il caudato), con depauperamento dei neuroni spinosi medi di proiezione. Si osserva una riduzione del tono GABAergico a livello dei circuiti dei nuclei della base con relativa preponderanza dopaminergica striatale; di conseguenza viene a modificarsi il fisiologico equilibrio tra via diretta e via indiretta, con netta prevalenza della via diretta e conseguente sovrastimolazione del circuito di attivazione talamo-corticale.
Quadro clinico L’età di esordio è variabile, più frequentemente tra i 30 e i 40 anni. L’esordio può interessare la sfera motoria o quella psichica. Le più frequenti manifestazioni psichiatriche della malattia sono le modificazioni della personalità, i disturbi dell’umore e le psicosi. Il tasso di suicidio è circa 5 volte maggiore rispetto alla popolazione generale e anche rispetto alla popolazione ultracinquantenne. I sintomi comportamentali includono irritabilità, aggressività a scoppi intermittenti, apatia. Frequenti sono l’abuso di sostanze (alcolici, caffeina, farmaci e sostanze psicoattive), i disturbi della sfera alimentare, i disturbi della sfera sessuale e i disturbi del sonno. Le manifestazioni motorie si presentano con movimenti coreici a livello della muscolatura facciale (grimaces) e distale degli arti. Inizialmente sono particolarmente evidenti nel cammino o nell’esecuzione di gesti (paracinesie); con l’evoluzione della malattia i movimenti coreici diventano più ampi e continui (coreoatetosi) e possono comprendere anche contrazioni distoniche, compaiono anche a riposo e si estendono fino a una distribuzione generalizzata, compromettendo le abilità manuali, la coordinazione motoria e il mantenimento della stazione eretta. L’interessamento progressivo della muscolatura bulbare determina la comparsa di disartria e disfagia. Precoce inoltre è la compromissione della motilità oculare con rallentamento delle saccadi e anomalie della fissazione. Solitamente al quadro ipercinetico si associa un ipotono muscolare. Accanto alla sintomatologia motoria e psichica col tempo si manifestano i
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segni di un deterioramento cognitivo sottocorticale: alterazione delle funzioni visuospaziali, delle funzioni esecutive, turbe della memoria di rievocazione e dell’attenzione; risultano tipicamente preservate le funzioni simboliche. La durata media di malattia si aggira intorno ai 15 anni con progressiva disabilità motoria e cognitiva e conseguente allettamento; l’exitus interviene generalmente per cause secondarie (per esempio polmoniti ab ingestis). A differenza della forma classica, nella variante giovanile di Westphal (forma a esordio precoce prima dei 20 anni con elevatissimo numero di ripetizioni CAG) predomina un parkinsonismo rigidoacinetico associato a mioclonie, segni piramidali e cerebellari, con evoluzione assai rapida.
NON DIMENTICARE CHE… Nella corea di Huntington i sintomi psichiatrici possono precedere di un certo lasso di tempo le manifestazioni motorie, che all’inizio presentano una distribuzione estremamente limitata e possono sfuggire all’osservazione dell’esaminatore.
Diagnosi La diagnosi di corea di Huntington è suggerita dal riscontro del tipico quadro clinico (associazione di discinesie coreiche e turbe psichiche) con ricorrenza familiare. Essa è confermata dal test genetico, che consiste nell’analisi del numero di ripetizioni CAG tramite PCR, effettuato fornendo un adeguato counseling al probando e ai familiari. Gli studi di neuroimaging (TC e RM dell’encefalo) possono evidenziare un’atrofia del nucleo caudato con scomparsa dell’impronta sul corno frontale dei ventricoli. È stato osservato in studi PET un ipometabolismo striatale del glucosio che può precedere queste alterazioni morfologiche. La diagnosi clinica è relativamente semplice in pazienti con sintomi tipici e storia familiare positiva. È però importante considerare che esistono delle forme clinicamente indistinguibili dalla malattia di Huntington per le quali è
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necessario procedere con analisi biochimiche e genetiche. Le forme genetiche comprendono HDL (Huntington-like disease) 1 e 2, SCA 17 (in cui la corea si può associare a demenza ed epilessia), DPRLA (caratterizzata da coreoatetosi, atassia, mioclono, epilessia e demenza) e neuroacantocitosi (caratterizzata dalla presenza di corea, areflessia, aumento delle CK sieriche e presenza di acantociti nel sangue periferico). Nella diagnosi differenziale vanno considerate alcune forme acquisite di corea: • coree immunomediate: corea di Sydenham (forma infantile che segue di alcuni mesi un’infezione streptococcica, dovuta alla produzione di anticorpi anti-nucleo della base), neurolupus e sindrome da anticorpi antifosfolipide (forme tipiche di giovani donne e con frequente interessamento sistemico associato); • coree iatrogene: in corso di terapia con neurolettici o in occasione della loro sospensione; da L-dopa e farmaci dopamino-agonisti, fenitoina, triciclici, contraccettivi orali; • corea vascolare: tipica di soggetti anziani con lesioni lacunari a carico dello striato fino allo stato cribroso dei nuclei della base; frequentemente la distribuzione è asimmetrica e si associa ad altre manifestazioni neurologiche (sindromi piramidali, deterioramento cognitivo); • coree endocrino-metaboliche: ipertiroidismo, ipo-ipernatriemia, ipoiperglicemia, encefalopatie epatiche e renali.
Trattamento La terapia nella corea di Huntington ha un significato sintomatico, non potendo influenzare l’evoluzione della malattia né la progressione del processo degenerativo. I movimenti coreici disabilitanti possono essere attenuati dall’assunzione di farmaci antidopaminergici: antipsicotici tipici e atipici (aloperidolo, sulpiride) o farmaci determinanti una deplezione dopaminergica presinaptica (tetrabenazina, reserpina). L’impiego dei neurolettici è utile anche per le manifestazioni psichiatriche della malattia, risulta però limitato dalla frequente comparsa di effetti collaterali (sedazione eccessiva, parkinsonismo, acatisia, iperprolattinemia). I sintomi depressivi possono essere attenuati dall’impiego di farmaci antidepressivi (SSRI o triciclici).
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SINDROMI DISTONICHE Per distonia si intende un disturbo del movimento caratterizzato da contrazioni muscolari sostenute e protratte, diffuse o localizzate a specifici gruppi muscolari, responsabili di movimenti ripetitivi per lo più a carattere torsionale o di posture anomale. Ha un carattere aritmico e discontinuo, risulta migliorata dal rilassamento e da opportuni stimoli tattili e peggiorata dallo stress e dell’affatticamento. Le conoscenze sui meccanismi fisiopatologici di questo disturbo del movimento sono scarse. Alla base sembra risiedere un’alterazione del funzionamento dei circuiti dei nuclei della base con iperattività sia della via diretta sia di quella indiretta con comparsa di errori negli output corticali; si verificherebbe in particolare un’alterazione del meccanismo di centersurround che focalizza l’attivazione dei muscoli agonisti silenziando i rispettivi muscoli antagonisti. Recentemente è stata valorizzata l’alterazione dei meccanismi di integrazione sensori-motoria, in particolare in alcune forme di distonia focale. Le sindromi distoniche possono essere classificate in rapporto a: • età d’esordio: infantile (0-12 anni), adolescenziale (13-20 anni), adulta (> ai 20 anni); • distribuzione: focale (una sola regione corporea coinvolta), segmentale (due regioni contigue coinvolte: craniale, assiale, brachiale, crurale), multifocale (due regioni non contigue coinvolte), generalizzata, emidistonia (colpisce un lato del corpo); • eziologia: forme primarie, distonia-plus, forme eredo-degenerative e forme secondarie.
Distonie primarie Nelle distonie primarie i movimenti distonici si verificano come segno neurologico isolato, in assenza di una causa esogena o di una lesione neuropatologica. A seconda della distribuzione si distinguono forme generalizzate e focali. DISTONIA GENERALIZZATA PRIMARIA. Questa forma clinica comprende
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varianti ereditarie a trasmissione autosomica dominante con penetranza ridotta (30-40%); la prevalenza è di 3,4 casi /100 000 soggetti. La mutazione più comunemente osservata coinvolge il locus DYT1 (gene TOR1, codificante per la proteina torsina A). L’esordio avviene in età infantile intorno ai 6-12 anni, con una distonia d’azione localizzata a un arto inferiore (il soggetto inizia a camminare sulle punte con piede equino-varo), cui fa seguito la comparsa di distonie anche a riposo con estensione dapprima alle regioni adiacenti e successivamente a ogni parte del corpo. L’insorgenza di distonia assiale e agli arti inferiori compromette la stazione eretta e la deambulazione, con comparsa di posture anomale. La mutazione nel locus DYT6 provoca forme a esordio più tardivo inizialmente isolato a un arto superiore o alla regione craniocervicale. L’evoluzione clinica è assai variabile (anche in membri della stessa famiglia), ma solitamente dopo 5-10 anni la malattia compromette in maniera assai grave l’autonomia. Le indagini di laboratorio, elettrofisiologiche e di neuroimaging risultano negative e non forniscono informazioni aggiuntive. DISTONIE FOCALI PRIMARIE. Le distonie focali tipicamente esordiscono in età adulta (dopo i 40 anni) e prevalgono nel sesso femminile. Il contributo genetico è ancora poco definito, sebbene un linkage sia stato riconosciuto per il locus DYT7; probabilmente alcuni quadri clinici di distonia focale rappresentano in realtà forme generalizzate fruste. La distribuzione riguarda specifiche aree corporee in maniera isolata (forme focali) o con qualsiasi combinazione (forme multifocali o segmentali): • distonie craniche: blefarospasmo (contrazione involontaria del muscolo orbicolare dell’occhio, che provoca dapprima un’aumentata frequenza dell’ammiccamento, successivamente la chiusura forzata delle palpebre); distonia oromandibolare (smorfie, movimenti di apertura o chiusura della bocca, protrusione della lingua, con impaccio della masticazione e della deglutizione); disfonia spasmodica (distonia della muscolatura laringea con alterazione della fonazione che presenta interruzioni e modificazioni d’intensità); • distonie cervicali: il torcicollo spasmodico si presenta con contrazioni distoniche dei muscoli del collo e deviazione del capo che può avvenire in qualsiasi direzione dello spazio (latero-, retro-, anterocollo) a carattere
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intermittente e irregolare; si può associare a dolore (legato alla contrattura muscolare e a fenomeni artrosici secondari) e a tremore del capo; • distonie degli arti: forme frequentemente d’azione, innescate da specifici movimenti e attività motorie (distonie occupazionali). La forma più nota è quella che coinvolge le mani (crampo dello scrivano), caratterizzata da eccessiva tensione muscolare e da anomale posture della mano che insorgono durante la scrittura. Le distonie focali dell’arto inferiore sono rare nell’adulto e spesso espressione sintomatica di quadri parkinsoniani. Sempre nell’ambito delle forme primarie vanno ricordati i quadri di distonia-plus, forme ereditarie in cui alla distonia si associano altri sintomi neurologici. Sono incluse in questa categoria: • distonie con parkinsonismi: la sindrome di Segawa (DYT5) rappresenta il 5-10% delle distonie a esordio giovanile ed è caratterizzata da distonia degli arti inferiori con caratteristiche fluttuazioni diurne associata a lievi segni parkinsoniani. Tipicamente presenta una drammatica risposta terapeutica al trattamento con L-dopa a bassi dosaggi (100-300 mg/die). Nella distoniaparkinsonismo a rapida insorgenza (DYT12), condizione rara dovuta a mutazione a carico del gene ATP1A3 (autosomica dominante), la distonia si associa a bradicinesia, instabilità posturale, disartria e disfagia con progressione rapida (da alcune ore a settimane). L’esordio si può verificare in età infantile, adolescenziale o adulta e non vi è responsività al trattamento con L-dopa; • distonia mioclonica (DYT11): è caratterizzata dall’associazione di distonia (focale o segmentale) con mioclonie (distribuite in regione cervicale, al tronco e agli arti superiori), e frequenti manifestazioni psichiatriche. L’esordio avviene in età infantile o adolescenziale, anche se vi sono forme a esordio tardivo. La forma familiare, autosomica dominante, si associa frequentemente a mutazioni nel gene SGCE.
NON DIMENTICARE CHE… In considerazione dell’ottima risposta terapeutica a bassi dosaggi di
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L-dopa della sindrome di Segawa (nota anche come DRD, dopamineresponsive dystonia), è opportuno effettuare un tentativo terapeutico con L-dopa in tutti i casi di distonia idiopatica a esordio infantile.
Distonie sintomatiche Circa un terzo delle sindromi distoniche (generalizzate o focali) rappresenta l’espressione sintomatica di condizioni legate a malattie metaboliche o a cause specifiche. In queste forme alla distonia si associano spesso altre manifestazioni neurologiche quali spasticità, segni piramidali, atassia, epilessia, deterioramento cognitivo. Si riconoscono: • forme eredo-degenerative: morbo di Wilson, malattia di HallervordenSpatz, malattia di Fahr, alterazioni del metabolismo proteico (per esempio, omocisteinuria), lipidico (per esempio, gangliosidosi GM1-GM2, leucodistrofie, lipidosi distonica giovanile), sindrome di Lesch-Nyhan, malattie mitocondriali (malattia di Leigh e di Leber) (VEDI CAP. 21); • forme secondarie: da encefalopatie perinatali (anossia e ittero nucleare), infezioni (encefaliti virali, TBC, morbo di Creutzfeldt-Jakob); lesioni cerebrali focali su base ischemica, neoplastica, traumatica, demielinizzante; distonie su base tossico-iatrogena (intossicazioni da manganese, CO; in corso di terapia da neurolettici, metoclopramide, L-dopa, bromocriptina, anticomiziali). Non esiste una specifica classe di farmaci selettivamente efficaci sulla distonia. Gli anticolinergici (per esempio, triesifenidile) dimostrano il migliore effetto antidistonico e rappresentano pertanto i farmaci di prima scelta; il trattamento richiede però l’impiego di dosaggi elevati, con frequente comparsa di effetti collaterali anche gravi (stato confusionale, deficit mnesici, ritenzione urinaria, ipovisus). È necessario pertanto un inizio a basse dosi con progressivo aumento. Altri farmaci con effetto sulla distonia sono il baclofen, agente a meccanismo d’azione gabaergico (i cui effetti collaterali sono sedazione e astenia); farmaci dopaminergici quali la L-dopa e i dopaminoagonisti; neurolettici atipici quali la clozapina (che può causare sedazione, crisi
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comiziali e granulocitopenia grave); la tetrabenazina; le benzodiazepine a lunga emivita come il clonazepam; alcuni farmaci antiepilettici (tra cui specialmente la carbamazepina). Oltre alla terapia farmacologica, un ulteriore provvedimento nella distonia generalizzata è costituito dalle tecniche di neurochirurgia funzionale (procedure chirurgiche lesionali – talamotomia, pallidotomia – e stimolazione cerebrale profonda del globo pallido interno). Per le forme focali risultati ottimi sono stati ottenuti dalla terapia con iniezioni locali di tossina botulinica, che agisce legandosi a livello del terminale presinaptico della placca neuromuscolare, inibendo il rilascio di acetilcolina e provocando una transitoria paralisi muscolare da denervazione chimica.
TREMORE ESSENZIALE Il tremore essenziale è il disturbo del movimento più frequente: presenta infatti una prevalenza compresa tra il 3 e il 5% nella popolazione al di sopra dei 40 anni d’età dei Paesi sviluppati. L’età media di esordio è di 35-40 anni. Si osserva una familiarità in più dell’80% dei casi: la trasmissione è autosomica dominante a penetranza incompleta e sono stati individuati tre loci di suscettibilità per la malattia (EMT1, EMT2 e un locus sul braccio corto del cromosoma 23). L’esordio in età giovanile di tremore essenziale risulta inoltre associato a un aumentato rischio di sviluppare in seguito morbo di Parkinson. I meccanismi fisiopatologici alla base della malattia sono scarsamente conosciuti: è stata postulata una lesione a carico delle strutture che formano il cosiddetto triangolo di Guillain-Mollaret (nucleo rosso, oliva inferiore e cervelletto), circuito oscillatore centrale. Sebbene numerosi dati neuropatologici suggeriscano che il tremore essenziale rientri nel gruppo delle malattie neurodegenerative (depauperamento neuronale e corpi di Lewy nel tronco cerebrale e nel nucleo dentato), altre evidenze ex vivo e funzionali in vivo sembrano smentire tale ipotesi. Il tremore essenziale è tipicamente attitudinale (si manifesta cioè nel mantenimento di una postura, anche se può presentare una componente additiva cinetica e a riposo), ha una frequenza di 4-12 Hz e presenta una distribuzione elettiva alle mani, per lo più bilateralmente, con possibile associazione di tremore al capo (movimenti di assenso o negazione), della
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voce, mandibolare e linguale. Può essere esacerbato dallo stress emotivo e fisico e dal freddo. Con la progressione della malattia ne aumenta l’ampiezza e ne diminuisce la frequenza, con graduale estensione della distribuzione corporea. Spesso i pazienti riportano una spiccata sensibilità all’effetto antitremorigeno dell’alcol, anche a piccole dosi. Sono stati stilati precisi criteri di inclusione e di esclusione che sostengono la diagnosi, che è supportata anche dall’assenza di lesioni cerebrali agli esami di neuroimaging (che escludano lesioni strutturali responsabili) e dalla negatività dell’esame DAT-SCAN (per la differenziazione dal morbo di Parkinson). La diagnosi differenziale comprende la forma tremorigena del morbo di Parkinson (particolarmente insidiosa quando le due forme coesistono o quando il tremore a riposo presenta un’importante componente attitudinale) e le forme di tremore del capo o degli arti che accompagnano la distonia. Una forma particolare da tenere in considerazione è la FXTAS (sindrome di tremore e atassia associata a X fragile), patologia che insorge oltre i 50 anni di età nel 30% dei maschi portatori di premutazione a livello del gene FMR1 (la sintomatologia è rara e sfumata nelle femmine portatrici per il processo di lyonizzazione). Il quadro clinico include progressivo tremore intenzionale e atassia associati a deterioramento cognitivo e la diagnosi definitiva, sostenuta dal riscontro radiologico di lesioni a livello dei peduncoli cerebellari medi o del tronco encefalico, richiede la documentata presenza della premutazione nel gene FMR1. Il trattamento del tremore essenziale si basa sulla somministrazione di farmaci in grado di esercitare un effetto antitremorigeno: la prima scelta è rappresentata dai beta-bloccanti in grado di oltrepassare la barriera ematoencefalica (come il propranololo), laddove non osti la presenza di controindicazioni (pneumopatia ostruttiva, grave scompenso cardiaco, depressione, diabete non controllato). Farmaci di seconda scelta sono antiepilettici come il primidone (i cui effetti collaterali sono nausea, sedazione, vertigini) o il fenobarbital. Un effetto farmacologico antitremorigeno è esercitato anche dalle benzodiazepine, in particolare quelle a lunga emivita come il clonazepam. Le forme di particolare gravità non responsive al trattamento farmacologico possono essere affrontate con il ricorso alla chirurgia stereotassica funzionale e alla stimolazione cerebrale profonda del nucleo
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ventrale-intermedio del talamo.
BIBLIOGRAFIA Colosimo C. La malattia di Parkinson e i disturbi del movimento, Roma: CIC Edizioni Internazionali, 2005. Fazio C., Loeb C., Favale E. Neurologia, Roma: Società Editrice Universo, 2003. Lees A.J., Hardy J., Revesz T. Parkinson’s disease, Lancet, 373:2055-2066, 2009. Louis E.D. Essential tremor: evolving clinicopathological concepts in an era of intensive post-mortem enquiry, Lancet Neurol., 9:613-622, 2010. Sghirlanzoni A. Terapia delle malattie neurologiche, Milano: Springer, 2010. Tarsy D., Simon D.K. Dystonia, N. Engl. J. Med., 355:818-829, 2006. Victor M., Ropper A.H. Adams e Victor. Principi di Neurologia, 8a ed., Milano: McGraw-Hill, 2006. Walker F.O. Huntington’s disease, Lancet, 369:218-228, 2007.
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19 MALATTIE DEL MOTONEURONE L. Tremolizzo, C. Ferrarese
KEY POINTS Le malattie del motoneurone possono colpire il motoneurone inferiore e/o quello superiore. Sono malattie caratterizzate da deficit stenico che domina il quadro in associazione ad altri sintomi derivanti dalla struttura/e specificamente compromessa. La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia caratterizzata da compromissione del primo e del secondo motoneurone. Sono spesso malattie gravi che compromettono la sopravvivenza e/o la qualità di vita del soggetto colpito.
SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA KEY POINTS
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La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia neurodegenerativa del primo e del secondo motoneurone. Nella patogenesi sono coinvolti stress ossidativo e alterazioni del processing dell’RNA messaggero. Ne esistono diversi fenotipi clinici: forma spinale, bulbare, di VulpianBernhardt, pseudopolineuropatica. La gestione clinica prevede un approccio multidisciplinare, che integra diverse figure professionali (neurologo, psicologo, pneumologo, fisiatra, nutrizionista). Le linee guida raccomandano la terapia con riluzolo 100 mg/die. La sclerosi laterale amiotrofica (SLA), descritta da Charcot nel 1869, è una malattia neurodegenerativa caratterizzata dal selettivo coinvolgimento del primo e del secondo motoneurone, con la caratteristica coesistenza di segni di compromissione di entrambe queste strutture, ovvero, nella forma più classica: ipostenia progressiva fino alla tetraplegia, amiotrofia e fascicolazioni associate a iperreflessia osteotendinea. Il nome della malattia deriva proprio dal connubio tra la sclerosi midollare laterale, dovuta alla gliosi cicatriziale, e l’amiotrofia neurogena, che spesso rappresenta uno dei primi segni del processo in corso. Essa è anche nota nel mondo anglosassone come malattia di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore di baseball che ne fu colpito sul finire della prima metà del ‘900. Pur essendo una patologia relativamente rara (incidenza dai registri Europei di malattia: 2,16 per 100 000 persone anno), essa presenta un impatto devastante, sia sull’individuo colpito, a causa della progressiva limitazione funzionale sulla quale le terapie oggigiorno a disposizione non riescono a intervenire efficacemente, che sulla famiglia e i servizi sanitari a causa delle importanti problematiche che emergono nella gestione, nel tentativo di preservare il più a lungo possibile la qualità della vita di questi pazienti. Di recente la SLA è giunta ancor più agli onori della cronaca poiché nel mondo del calcio ha colpito una cinquantina di giocatori (con una prevalenza circa sei volte maggiore rispetto alla popolazione generale), sollevando il dubbio che possano esserci dei fattori predisponenti, ad oggi ancora ignoti. L’esistenza di questi fattori, anche se mai provata al di fuori di ogni ragionevole dubbio, è già stata ipotizzata più volte, in particolare in considerazione dell’esistenza di aree geografiche di incrementata incidenza di
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tale malattia: si ricorda al riguardo la particolare forma di SLA dell’isola di Guam, associata a Parkinson e demenza, e che si pensa possa essere correlata all’assunzione dell’eccitotossina beta-metil amino alanina (BMAA), derivante dal consumo di semi di Cycas circinalis (fadang) da parte delle popolazioni Chamorro.
Eziopatogenesi Nonostante sia passato più di un secolo dalla descrizione originale della malattia, le cause specifiche coinvolte nel processo degenerativo sono ancora ampiamente ignote. Fattori di rischio sono rappresentati dall’età avanzata (età media di insorgenza 60 anni circa), il sesso maschile, l’esposizione a tossici; si ipotizza inoltre che anche i traumi e l’estrema attività fisica possano giocare un ruolo. Oltre alla forma sporadica esistono forme ereditarie che rappresentano circa il 5-10% dei casi totali e si presentano spesso con fenotipi di malattia molto simili a quelli delle forme sporadiche (con un’età di insorgenza tendenzialmente anticipata). I geni a oggi noti per essere coinvolti in forme ereditarie di SLA sono descritti nella TABELLA 19.1. Per un approfondimento su questo argomento, VEDI FOCUS ON: GENETICA DELLA SLA, PAG. 341). TABELLA 19.1 Geni coinvolti nella SLA
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Neuropatologia Alla classica neuropatologia con degenerazione delle corna anteriori midollari e del tratto corticospinale, oltre che dei nuclei dei nervi cranici (XII e ambiguo, più raramente V e VII, normalmente risparmiati gli oculomotori), accompagnata da gliosi reattiva e accumuli intraneuronali (corpi del Bunina e altri), si associa l’evidenza per immunoreattività per ubiquitina e TDP-43. Inoltre, nonostante il concetto di degenerazione delle strutture motoneuronali caratterizzi questa malattia, recentemente si sta facendo sempre più strada l’idea che il processo degenerativo della SLA sia in realtà multisistemico, coinvolgendo altre aree del sistema nervoso centrale. A livello muscolare si osserva il classico quadro dell’amiotrofia neurogena con fibre normali frammiste a fibre in degenerazione e aumento del connettivo. Inoltre, le miofibre denervate possono essere reinnervate da collaterali, in modo da
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acquisire le caratteristiche della nuova unità motoria (fiber type grouping).
FOCUS ON GENETICA DELLA SLA Un vero e proprio passo avanti nella comprensione della patogenesi della SLA si è avuto nel 1993 quando si scoprì che le mutazioni a carico del gene codificante per la superossido dismutasi-1 (SOD1) erano responsabili di quadri di SLA familiare praticamente sovrapponibili, dal punto di vista fenotipico, alla forma sporadica. Tale scoperta portò a investigare il ruolo dell’omeostasi ossidoriduttiva nella fisiopatologia della SLA, con il riscontro di numerose evidenze per un aumentato stress ossidativo (con acquisizione di funzione tossica da parte della proteina mutata, piuttosto che con la sola perdita della funzione dismutasica del superossido). Le specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto (ROS e RNS) sono note per essere in grado, a loro volta, di danneggiare estesamente la cellula a livello di diversi subcompartimenti, modificando proteine, lipidi di membrana e acidi nucleici. Successive evidenze sperimentali hanno poi mostrato la stretta interazione esistente tra il sistema ossido-riduttivo e altri sistemi omeostatici, quali quello mitocondriale (con deficit energetico, produzione ulteriore di radicali liberi a livello della catena respiratoria e induzione dell’apoptosi) e quello glutammatergico (con conseguente eccitotossicità da eccessivo ingresso di calcio). In particolare l’ipotesi eccitotossica ha portato poi allo sviluppo del riluzolo, un composto antiglutammatergico in grado di estendere in maniera modesta la sopravvivenza dei pazienti affetti da SLA. L’eccesso di glutammato sarebbe però “relativo” e legato, più che altro, alla disfunzione energetica che comporta da una parte la depolarizzazione di membrana con perdita del blocco di magnesio a livello del recettore glutammatergico NMDA con aumentato ingresso di calcio, e dall’altra l’inattivazione dei trasportatori extracellulari di
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glutammato (eccitotossicità debole). Il calcio, a sua volta, è in grado di attivare una serie di proteinchinasi in grado di estendere il danno innescando anche il programma apoptotico mitocondriale. I modelli animali più utilizzati nell’ambito della ricerca farmacologica della SLA sono proprio i topi portatori della mutazione G93A a carico della SOD1. Questi topi sviluppano un caratteristico pattern ipostenico e vanno incontro a morte dopo un periodo variabile a seconda del background genetico che li caratterizza. Nonostante l’indubbia importanza di tale modello transgenico, la maggior parte delle molecole dimostratesi efficaci negli studi preclinici hanno dato poi risultati fallimentari nell’uomo, suggerendo che la forma sporadica della malattia umana sia molto più complessa, a prescindere dalle similitudini fenotipiche con il quadro da mutazione di SOD1 nel modello murino. Un altro passo in avanti nella comprensione della patogenesi si è avuto più recentemente dalla scoperta che anche mutazioni a carico del gene codificante per la TDP-43 (TAR DNA binding protein) possono causare quadri di SLA. La funzione di TDP-43 consiste nel regolare la maturazione e la traslocazione dell’RNA messaggero (mRNA), portando per esempio all’alterazione dei livelli di mRNA codificanti per le catene leggere dei neurofilamenti (NFL), con conseguente alterazione del trasporto assonale e dell’omeostasi della neurotrasmissione a livello delle regioni più distanti della cellula nervosa. Un ruolo analogo, di regolazione del metabolismo dell’mRNA, è svolto dalla proteina FUS/TLS (fused in sarcoma/translated in liposarcoma), le cui mutazioni sono state di recente identificate in pazienti affetti da SLA. Negli ultimi anni, infine, è stata identificata una espansione esanucleotidica nel contesto del gene C9ORF72, che aumenterebbe il rischio di sviluppare sia la SLA, sia la demenza frontotemporale e la forma congiunta SLAdemenza (VEDI FOCUS ON: RELAZIONE TRA SLA E DEMENZA, PAG. 345). Sebbene i meccanismi specifici con cui questa espansione porterebbe al danno dei motoneuroni non siano ancora del tutto chiari, la neuropatologia specifica sembrerebbe rimandare a una deposizione di TDP-43.
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Quadro clinico e diagnosi differenziale I criteri clinici per la diagnosi di SLA sono noti come criteri di El Escorial, formulati nel 1994 e rivisti nel 1998. Semplificando, essi prevedono una diagnosi imperniata sulla presenza concomitante di segni di compromissione del primo e del secondo motoneurone, con evidenza di progressione nel tempo. Inoltre, vengono distinti diversi gradi di probabilità decrescente di malattia sulla base del numero di distretti coinvolti (bulbare, cervicale, toracico, lombosacrale): SLA definita, SLA probabile, SLA possibile (TAB. 19.2). TABELLA 19.2 SLA: categorie diagnostiche (modificato, da El EscorialRevised Criteria, 1998)
Nella forma più classica, la cosiddetta forma spinale, il quadro si caratterizza per amiotrofia e fascicolazioni, soprattutto a livello dei muscoli interossei delle mani, dell’eminenza tenar e ipotenar, con iperreflessia osteotendinea diffusa e cloni. Il deficit peggiora sempre di più con conseguente limitazione funzionale in parallelo alla progressione dell’amiotrofia che coinvolge man mano distretti sempre più prossimali. Possono comparire crampi dolorosi, spesso agli arti inferiori. La compromissione del fascio corticospinale si evidenzia in particolare per la comparsa di ipostenia spastica agli arti inferiori con iperreflessia e clono achilleo o rotuleo inesauribile; può essere presente una risposta cutaneoplantare scorretta o un franco segno di Babinski. La compromissione bulbare è in genere più tardiva e questo spiega la sopravvivenza più prolungata di
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questi pazienti rispetto a quelli in cui il quadro esordisce con segni bulbari. La forma bulbare (25-30% dei casi) è tra tutte la più aggressiva, portando rapidamente a disartria, disfagia e dispnea, accompagnate da fascicolazioni linguali ed eventualmente deficit del distretto facciale inferiore e del nervo mandibolare (muscoli masticatori). Anche i muscoli del collo vengono colpiti con conseguente caduta del capo (dropped head). La variante di Patrikios, o pseudopolineuropatica (circa il 5% dei casi), presenta un quadro di compromissione prevalente del secondo motoneurone agli arti inferiori con un decorso più benigno. Inevitabilmente, nelle fasi più tardive della malattia compaiono però i segni di disfunzione del primo motoneurone e del bulbo. Un’ultima variante di SLA, nota come forma di Vulpian-Bernhardt, è caratterizzata da una diplegia brachiale ingravescente (da cui il termine anglosassone di flail arm syndrome) e presenta una progressione di malattia un pò più lenta rispetto alle altre forme. Nella TABELLA 19.3 sono riassunte le caratteristiche delle varie forme di SLA. TABELLA 19.3 Varianti cliniche di SLA
Globalmente, nella SLA la mediana del tempo di sopravvivenza dall’esordio della malattia va da 20 a 48 mesi, ma si stima che il 10-20% dei pazienti presenti dei tempi di sopravvivenza superiori a 10 anni. Le forme bulbari sono quelle che presentano sopravvivenze più limitate, ancor più accentuate tenuto conto che il ritardo medio tra l’esordio dei sintomi e la diagnosi nella SLA è di circa un anno. La morte avviene in genere per ab ingestis o per insufficienza respiratoria. Nella diagnosi differenziale vi sono tutte le altre malattie del motoneurone superiore o inferiore, oltre che i quadri di disfunzione del
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secondo motoneurone su base compressiva, carenziale, tossica ecc. Tra i cosiddetti mimics ci sono la siringomielia, dove però il caratteristico pattern di dissociazione sensitiva rende la diagnosi agevole, o la neuropatia motoria multifocale con o senza blocchi di conduzione; anche il deficit di esosoaminidasi, endocrinopatie e la sindrome postpolio possono dare un quadro che assomiglia alla SLA. Spesso, infatti, si raccomanda la ricerca di alterazioni autoimmuni, ormonali, gammopatia monoclonale; non necessariamente la presenza di valori elevati di CPK o di creatinina esclude la diagnosi. Infine, nella SLA è stata riportata un’associazione con i linfomi e l’infezione da HIV, suggerendo che la disfunzione del sistema immunitario o fattori di tipo virale possano giocare un ruolo nella patogenesi di questa malattia. Uno degli esami diagnostici più importanti è l’esame elettromiografico (EMG) che permette di mettere in evidenza i segni di disfunzione del secondo motoneurone, quali segni di denervazione attiva (onde aguzze positive e potenziali di fibrillazione) e cronica (potenziali di unità motoria ampi e instabili, ridotto pattern di interferenza). La presenza di potenziali di fascicolazione è di grande ausilio per la diagnosi, anche se può essere documentata in altre patologie o, addirittura, in soggetti normali (fascicolazioni benigne). L’esame elettroneurografico risulta spesso nella norma o modestamente alterato sul versante motorio, mentre è per definizione normale sul versante sensitivo; la compromissione sensitiva suggerisce infatti diagnosi alternative. È di fondamentale importanza anche l’esecuzione di un esame di imaging spinale/midollare (di solito RM), per escludere compressioni a livello cervicale che possano dare l’amiotrofia alle mani. La RM dell’encefalo può talora mettere in evidenza delle sottili alterazioni a carico del fascio corticospinale; nel caso della variante bulbare, essa consente di escludere patologie non solo compressive, ma anche intrinseche (in particolare, vascolari o tumorali) a livello del tronco dell’encefalo. Proprio a causa della mancanza di un test diagnostico specifico per la SLA, lo sviluppo di biomarcatori, centrali o periferici, che possano agevolare il processo diagnostico rappresenta uno dei campi di ricerca più attivi in questo ambito. Si rimanda ai FOCUS ON: L’ESAME OBIETTIVO DEL MALATO AFFETTO DA SLA, PAG. 344 e RELAZIONE TRA SLA E DEMENZA, PAG. 345, per un ulteriore approfondimento.
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Terapia e gestione multidisciplinare Nonostante la terapia farmacologica della SLA in senso stretto non sia cambiata in maniera sostanziale, importanti variazioni si sono verificate nella modalità di gestire i pazienti affetti da tale malattia. L’unico farmaco ad oggi indicato per il trattamento della SLA è il riluzolo, un composto antiglutammatergico approvato sin dagli anni ’90 (e che probabilmente presenta altre proprietà non ancora del tutto chiarite), apparentemente in grado di rallentare in maniera modesta la progressione di malattia. La tossicità epatica del riluzolo, associata al senso di fatica che alcuni dei pazienti trattati possono manifestare, e all’apparente mancanza di efficacia del farmaco (in quanto si estrinsecherebbe con una minore rapidità di progressione di malattia, più che con un vero e proprio miglioramento) fanno sì che non tutti i pazienti siano in trattamento con tale composto. In realtà, gli studi ci dimostrano che, al di là del riluzolo, sia la ventilazione non invasiva (NIV) che la gastrostomia percutanea posizionata per via endoscopica (PEG) rappresentano due importanti pilastri del trattamento in grado di estendere la sopravvivenza dei pazienti, anche se non sono sempre utilizzati. Inoltre, non risulta spesso semplice identificare il momento specifico in cui proporre tali ausili, che frequentemente vengono vissuti dal paziente come un’ulteriore limitazione della propria qualità di vita residua, invece che come un modo di incrementarla prolungando anche la sopravvivenza.
FOCUS ON L’ESAME OBIETTIVO DEL MALATO AFFETTO DA SLA L’esame obiettivo del malato affetto da SLA deve inevitabilmente focalizzarsi sulla ricerca di segni di compromissione del primo e del secondo motoneurone, studiando con attenzione i quattro distretti descritti nei criteri diagnostici (bulbare, cervicale, toracico e lombosacrale). L’ipostenia, spesso uno dei sintomi di presentazione, viene in genere valutata sia mediante le manovre di Mingazzini (o manovre analoghe),
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che mediante le prove segmentarie di forza muscolare, utilizzando la scala di valori che va da 0 (plegia) a 5 (normalità). I segni di compromissione del secondo motoneurone da ricercare attivamente sono sicuramente l’amiotrofia (valutare in particolare l’eminenza tenar, ipotenar e i muscoli interossei agli arti superiori) e le fascicolazioni che possono essere messe in evidenza scoprendo il muscolo (freddo) e percuotendolo con il martelletto, soprattutto a livello dei quadricipiti femorali o della muscolatura prossimale agli arti superiori. Il paziente può descrivere crampi, soprattutto agli arti inferiori. La compromissione del primo motoneurone si evidenzia tramite la spasticità e l’iperreflessia osteotendindea, spesso diffusa, con eventuale positività del segno di Babinski e di Hoffmann. In considerazione del possibile coinvolgimento del distretto bulbare è bene includere la valutazione estensiva di quest’ultimo comprendendo, per esempio, anche l’esame della lingua (amiotrofia, fascicolazioni, stenia), dei muscoli masticatori (massetere, temporale, pterigoidei) e della forza a livello del collo (flesso-estensione del capo e sternocleidomastoidei); utile la ricerca del riflesso mandibolare che è spesso vivace in questi soggetti. La sensibilità e la coordinazione (se il deficit stenico non inficia i movimenti necessari a valutarle) sono invece in genere normali. Utile anche la ricerca dei riflessi primitivi (per esempio, palmomentoniero). Tra le scale più utilizzate nella gestione clinica dei pazienti affetti da SLA si ricorda la versione rivista della ALS functional rating scale (ALSFRS-R) che include anche items per valutare la funzione respiratoria e la deglutizione.
Tenuto conto delle problematiche respiratorie e nutrizionistiche e della necessità di prendere decisioni importanti in tal senso, non stupisce la raccomandazione per una gestione multidisciplinare di questi malati, in ambulatori che abbiano a disposizione, oltre alla figura del neurologo, almeno quella dello pneumologo, del nutrizionista, del fisiatra/fisioterapista e dello psicologo, in comunicazione reciproca tra loro, in modo da tracciare una strategia comune di trattamento. Il focus di quest’ultimo deve inoltre comprendere tutta una serie di ausili che possano aumentare la qualità di vita
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di tali pazienti (per esempio i comunicatori), integrando la gestione ambulatoriale con quella territoriale, in modo anche di fornire aiuto al nucleo familiare, spesso sovraccarico di incombenze, con conseguente burnout e sensazione di impotenza. Il ruolo delle associazioni dei malati, come quella italiana (AISLA), è importantissimo per far giungere ovunque la voce dei malati e dei familiari, far conoscere i propri bisogni e per fornire una speranza di trattamento ottimale per tutti coloro che soffrono di tale malattia.
FOCUS ON RELAZIONE TRA SLA E DEMENZA Di recente, uno dei concetti dati per assodati per anni nella SLA, quello di selettività del processo degenerativo, cioè di coinvolgimento dei soli motoneuroni, è andato via via modificandosi, lasciando spazio a una visione di malattia multisistemica, in cui i motoneuroni sono principalmente, ma non esclusivamente, colpiti. Rientra in tale capitolo il recentissimo interesse per la disfunzione delle porzioni più anteriori del lobo frontale che è stata ampiamente documentata in tali pazienti, arrivando a parlare di un vero e proprio continuum tra la SLA e la demenza frontotemporale, e giungendo alla definizione di svariate forme intermedie, anche subcliniche, quali la SLAbi (behavioral impairment) o la SLAci (cognitive impairment). È interessante notare che, nonostante la compromissione cognitiva fosse un criterio di esclusione per la diagnosi nella prima stesura dei criteri, la successiva revisione ha recepito ampiamente tale mutamento, includendo tale possibilità. Difatti, studi recenti calcolano che fino al 40% dei pazienti affetti da SLA sporadica possono presentare una disfunzione, più o meno manifesta, a carico delle funzioni esecutive, con importanti possibili ricadute sulle decisioni relative alle pratiche di fine vita. Uno dei problemi che i ricercatori hanno dovuto affrontare al momento di proporre a tali pazienti le batterie di test neuropsicologici è stato quello della compromissione delle abilità manuali e della
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presenza di disartria, che potevano potenzialmente falsare i risultati. Ad ogni modo, le evidenze di disfunzione frontale nella SLA ci vengono oggigiorno anche dagli studi di neuroimmagini funzionali quali la SPET e la PET.
MALATTIE DEL SECONDO MOTONEURONE KEY POINTS Le malattie degenerative del primo motoneurone comprendono la sclerosi laterale primaria, il neurolatirismo, le paraparesi spastiche ereditarie e la paraparesi spastica tropicale. Il quadro clinico è dominato da ipostenia e spasticità con iperreflessia. Sono quadri molto rari ma che spesso pongono al clinico seri problemi di diagnosi differenziale rispetto ad altre patologie, per esempio di tipo compressivo o carenziale (sclerosi combinata subacuta da deficit di vitamina B12). Includono la sclerosi laterale primaria, il quadro neurotossico noto come latirismo e le paraparesi spastiche ereditarie o infettive.
Sclerosi laterale primaria La sclerosi laterale primaria (PLS, primary lateral sclerosis) è una rara sindrome clinica caratterizzata dal coinvolgimento selettivo del primo motoneurone. Il quadro si presenta come una paresi spastica spinale e bulbare lentamente evolutiva, a esordio nella quinta-sesta decade di vita e con ovvie difficoltà nella diagnosi differenziale rispetto alle forme di SLA con disfunzione predominante del primo motoneurone. Rientra inoltre in diagnosi differenziale con i quadri di paraparesi spastica ereditaria, per i quali è talora possibile eseguire un test genetico di conferma (per esempio, cercando mutazioni nel gene della spastina). Al momento non esistono trattamenti dimostratisi efficaci per questa malattia.
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Neurolatirismo Il neurolatirismo o latirismo consiste in un quadro di paraparesi spastica agli arti inferiori legato all’ingestione di legumi del genere Lathyrus (L. sativus) e della eccitotossina beta-oxalil amino alanina (BOAA) che vi è contenuta. Il quadro è noto sin dai tempi di Ippocrate ed è stato descritto in letteratura da Cantani nel 1873. Le epidemie di neurolatirismo in genere si verificano durante i periodi di carestia, come per esempio è stato durante la guerra civile Spagnola (1936-39), in Cina, Bangladesh e India negli anni ’70 e più recentemente anche in Etiopia. Clinicamente, il latirismo si manifesta sul lungo periodo, a seguito dell’ingestione cronica dei legumi, e procede in maniera irreversibile. Le manifestazioni al di fuori del sistema nervoso centrale sono poco comuni anche se possibili (a livello osseo, per esempio).
Paraparesi spastiche ereditarie La paraparesi spastica ereditaria (HSP, hereditary spastic paraparesis), o sindrome di Strümpell-Lorrain, corrisponde in realtà a un gruppo eterogeneo di malattie geneticamente determinate, caratterizzate da un danno a carico delle vie piramidali, con conseguente paresi spastica, prevalente agli arti inferiori. Ad oggi sono stati identificati oltre 30 loci genetici in associazione a diversi modelli di ereditarietà, anche se il 15-40% dei casi autosomici dominanti a esordio in età adulta e il 10% dei casi apparentemente sporadici sono legati a mutazioni del gene codificante per la spastina (SPG4). La TABELLA 19.4 riassume alcune cause genetiche di HSP. Tali quadri possono essere talora caratterizzati da segni e sintomi neurologici o da alterazioni strumentali aggiuntive rispetto alla compromissione delle sole vie piramidali, quali: assottigliamento del corpo calloso, neuropatia periferica, leucoencefalopatia, atrofia cerebellare, ritardo mentale, cataratta, degenerazione maculare. Gli eventuali test genetici da effettuare vengono guidati dal fenotipo clinico e dall’età di esordio, oltre che dai dati provenienti dagli accertamenti strumentali. TABELLA 19.4 Paraparesi spastiche ereditarie: geni noti
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Paraparesi spastica tropicale Merita una menzione, tra le possibili cause infettive, il quadro della paraparesi spastica tropicale associata all’infezione da virus HTLV-1, spesso presente in coinfezione con il virus HIV, in grado, a sua volta, di dare il quadro della mielopatia vacuolare. La trasmissione avviene per via sessuale ed essa va oggi tenuta presente anche in Italia in relazione ai mutamenti demografici avvenuti nel corso degli ultimi 20 anni.
MALATTIE DEL SECONDO MOTONEURONE KEY POINTS Le malattie degenerative del secondo motoneurone includono le atrofie muscolari spinali e l’atrofia muscolare bulbospinale. Il quadro clinico è dominato dall’amiotrofia e dal deficit stenico; manca l’iperreflessia caratteristica della compromissione del motoneurone superiore. Le neuronopatie con coinvolgimento selettivo del secondo motoneurone sono
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rare e spesso sottendono quadri che evolvono con compromissione anche del primo motoneurone, portando alla fine a una diagnosi di SLA. Tuttavia, ne esistono due forme geneticamente determinate che si caratterizzano per il coinvolgimento esclusivo del secondo motoneurone del distretto spinale o bulbospinale: le atrofie muscolari spinali (SMA) e l’atrofia muscolare spinale e bulbare (SBMA). Anche nel caso di questi pazienti, la gestione si basa su un approccio multidisciplinare, cosa ancor più vera per quelle forme che esordiscono in età infantile.
Atrofie muscolari spinali L’atrofia muscolospinale (SMA, spinal muscular atrophy) rappresenta uno dei quadri genetici più frequenti di mortalità infantile, colpendo un bimbo su circa 6000 nascite. Si tratta di forme ereditarie autosomiche recessive, caratterizzate dalla degenerazione dei motoneuroni spinali con amiotrofia progressiva e che vengono distinte a seconda dell’epoca di esordio in quattro forme: • tipo I o Werdnig-Hoffman, che si manifesta entro i primi mesi di vita; • tipo II o forma intermedia, che compare nei primi anni di vita; • tipo III o Wolfhart-Kugelberg-Welander, a esordio giovanile; • tipo IV, la forma più lieve con esordio in età adulta e risparmio del distretto bulbare. La causa è genetica, dovuta, nella maggior parte dei casi, a una delezione del gene codificante per la proteina di sopravvivenza motoneuronale (SMN1) localizzato sul cromosoma 5q12-13. La funzione di SMN consiste nel regolare la maturazione del mRNA, una funzione di interesse notevole se si pensa agli analoghi nuovi sviluppi nell’ambito della fisiopatologia della SLA (per un approfondimento sul ruolo di TDP-43 e FUS, VEDI FOCUS-ON: GENETICA DELLA SLA, PAG. 341), che presenta molti punti di affinità con la SMA. La SMA ha un esordio tanto più precoce e una velocità di progressione tanto più rapida quanta meno proteina SMN residua viene prodotta (contribuisce alla produzione della proteina anche una seconda copia del gene, SMN2, che può o meno essere presente). Questo fenomeno, molto chiaro, di compenso genico sul fenotipo clinico, è stato studiato in maniera
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molto attenta, poiché lo si considera uno dei punti chiave da poter sfruttare in futuro per modulare il decorso di questa malattia. Tra le altre forme di amiotrofia spinale progressiva non legate alla delezione di SMN1, vi sono l’atrofia muscolare spinale legata al cromosoma X (SMAX2; gene ubiquitin-like modifier activating enzyme-1 o UBE1, sul cromosoma Xp11.23), l’atrofia muscolare spinale con distress respiratorio (SMARD1; gene immunoglobulin µ-binding protein-2, o IGHMBP2, sul cromosoma 11q13.3) e la SMA distale (SMAD1) con predominanza agli arti superiori (nota anche come neuropatia motoria ereditaria di tipo 5; gene codificante per la glicil-tRNA sintetasi, sul cromosoma 7p15).
Atrofia muscolare spinale e bulbare L’atrofia muscolare bulbospinale o sindrome di KennedyAlter-Sung è un quadro eredo-degenerativo che colpisce solo i soggetti di sesso maschile, in quanto associato al cromosoma Xq11-12. Si tratta di una delle prime malattie per cui è stato possibile dimostrare l’accumulo di triplette di glutammina (>35 CAG), in questo caso a livello del gene del recettore per gli androgeni. I sintomi esordiscono piuttosto tardivamente (anche oltre i 40 anni di età) e si manifestano inizialmente con disartria e disfagia. Il pattern ipostenico agli arti in questa sindrome è in genere prossimale, al contrario di quanto spesso accade con le altre malattie del motoneurone, e può comparire più tardivamente. Il quadro è accompagnato da ginecomastia e incrementati livelli serici di CK, spesso con evidenza elettroneurografica di una neuropatia sensitiva ed esami di laboratorio compatibili con diabete mellito. Il decorso è lento e la maggior parte dei pazienti presenta una sopravvivenza a lungo termine, nell’ordine di decadi. Talora i soggetti portatori, di sesso femminile, possono presentare un fenotipo lieve di SBMA con crampi e fascicolazioni.
NON DIMENTICARE CHE... I quadri di compromissione motoneuronale sono caratterizzati da deficit stenico, spesso marcato e ad andamento evolutivo. In associazione ci sono spasticità e iperreflessia nei casi di danno a
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carico del primo motoneurone, piuttosto che amiotrofia e fascicolazioni se a essere compromesso è invece il secondo motoneurone. La malattia più frequente nell’adulto è la sclerosi laterale amiotrofica che presenta segni di compromissione di entrambe queste strutture. L’EMG rappresenta uno degli esami strumentali di scelta per la valutazione di questi pazienti. Un corretto approccio alla gestione e alla terapia in questi casi è spesso operato in centri multispecialistici dedicati specificamente a tali malattie.
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20 ATASSIE A. Federico, E. Pretegiani
KEY POINTS L’atassia è conseguenza di un’alterazione del sistema cerebellare. La sindrome atassica è caratterizzata da: disturbi dell’andatura (marcia a base allargata), disartria (alterazione del linguaggio), dismetria (errore nella misura del movimento), adiadococinesia (difficoltà nell’esecuzione di movimenti alternati), incoordinazione, tremore intenzionale e alterazioni dei movimenti oculari. Le atassie possono essere distinte in forme ereditarie, sporadiche idiopatiche e sporadiche acquisite. Le forme ereditarie si trasmettono in modalità autosomica recessiva o dominante, X-legata e mitocondriale. Le atassie recessive includono diverse sindromi che possono essere suddivise in forme congenite, degenerative, metaboliche e da difetti di riparazione del DNA. Le atassie dominanti comprendono le atassie spinocerebellari (SCA), le atassie episodiche (EA) e l’atrofia dentato-rubro-pallido-luysiana (DPRLA). La principale forma X-legata è l’atassia-tremore associata a X-fragile. L’atassia, infine, è un sintomo frequente di diverse sindromi mitocondriali. Le forme sporadiche idiopatiche includono l’atrofia multisistemica
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(MSA), le atassie sporadiche malformative e le atassie a esordio tardivo con degenerazione cerebellare isolata (LOCA, late-onset cerebellar ataxia). Le atassie acquisite riconoscono cause endogene o esogene e possono essere distinte in atassie da tossici, immunomediate, da deficit vitaminici, da siderosi superficiale, da cause infettive o postinfettive e lesionali.
INTRODUZIONE Il termine “atassia” significa “assenza di ordine” e definisce clinicamente la mancanza di coordinazione. Sotto questa denominazione vengono incluse patologie del sistema nervoso centrale, in cui l’atassia, e in generale la disfunzione del cervelletto, è la manifestazione predominante. Le alterazioni neurologiche dei pazienti affetti da atassia includono disequilibrio, incoordinazione progressiva della marcia e degli arti, disartria, dismetria, tremore e anomalie dei movimenti oculari; tali disturbi sono secondari, nella maggior parte dei casi, ad atrofia del cervelletto spesso evidenziabile alla RM (FIG. 20.1).
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FIGURA 20.1 RM cerebrale di paziente con atrofia cerebellare. La classificazione clinica e la diagnosi differenziale di queste malattie sono estremamente difficili a causa dell’elevata variabilità del loro fenotipo, degli aspetti patogenetici e dell’overlap clinico che possono avere. Sulla base della loro eziologia le atassie possono essere suddivise in: • forme ereditarie;
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• forme sporadiche non ereditarie; • forme sporadiche acquisite da cause non-genetiche endogene o esogene. Le patologie che possono includere sintomi riferibili a disfunzione del sistema cerebellare sono numerose e alcune di queste sono trattate estesamente in altri capitoli. Di seguito vengono illustrate solo le sindromi in cui l’atassia rappresenta una manifestazione prominente e tipica della malattia.
ATASSIE EREDITARIE Atassie autosomiche recessive Atassie degenerative L’atassia di Friedreich è l’atassia autosomica recessiva più frequente e, in generale, anche l’atassia ereditaria più comune, avendo una prevalenza di circa 1 caso su 30 000-50 000 e una frequenza di portatori sani nella popolazione bianca di circa 1 su 85. L’età d’esordio è tipicamente fra i 5 e i 25 anni. Clinicamente l’atassia di Friedreich è caratterizzata da un’atassia degli arti e della marcia a esordio precoce, progressiva, associata a disartria, alterazione della sensibilità vibratoria e propriocettiva, areflessia, anomalie dei movimenti oculari (come instabilità della fissazione per la presenza di intrusioni saccadiche), ipostenia piramidale con segno di Babinski. Cardiomiopatia, diabete, ipoacusia, scoliosi e piede cavo sono di riscontro comune (FIG. 20.2).
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FIGURA 20.2 Atassia di Friedreich. Piede cavo. La malattia è causata da una degenerazione dei neuroni sensitivi dei gangli delle radici posteriori con conseguente degenerazione dei tratti spinocerebellari e successivamente dei tratti piramidali e delle colonne dorsali. È presente una neuropatia periferica sensitivomotoria. A differenza delle forme di atassia spinocerebellari ereditarie dominanti, agli studi di neuroimaging non si osserva atrofia progressiva cerebellare. L’atassia di Friedreich è causata da un’espansione a triplette GAA nel primo introne del gene della frataxina (cr. 9q13). Nei soggetti normali si trovano da 6 a 36 unità, mentre in questi pazienti le ripetizioni sono 90-1300. Anche in questa malattia, come in altre da espansione di triplette, è presente il fenomeno dell’anticipazione, cioè una correlazione inversa fra età d’esordio e numero di triplette ripetute. Raramente la malattia è dovuta a una mutazione puntiforme anziché a espansione di triplette. La frataxina è una proteina mitocondriale, la cui perdita di funzione conduce ad alterazioni della catena respiratoria mitocondriale e del metabolismo del ferro, causando stress ossidativo e danno cellulare. Su questa base patogenetica, viene giustificato l’uso di antiossidanti, quali il coenzima Q10, o il suo analogo idebenone, e la vitamina E. L’atassia spastica di Charlevoix-Saguenay è caratterizzata da disfunzioni cerebellari associate a segni piramidali, quali spasticità e
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iperreflessia, neuropatia periferica sensitivomotoria e amiotrofia. In alcuni pazienti, specie quelli originari del Canada, si possono riscontrare all’esame del fondo oculare fibre mielinizzate. L’esordio avviene solitamente in età infantile precoce (1-5 anni). La RM mostra generalmente atrofia cerebellare vermiana. Il gene mutato, SACS 13q11, codifica per la proteina-chaperone sacsina. L’atassia cerebellare a esordio precoce con riflessi tendinei conservati (EOCARR) si pone in diagnosi differenziale con l’atassia di Friedreich, il cui fenotipo, specie nella variante con riflessi tendinei conservati, è estremamente simile. L’indagine genetica per il gene della frataxina permette di distinguere le due patologie. L’atassia cerebellare da deficit di coenzima Q10 è caratterizzata da atassia a esordio precoce con atrofia cerebellare e riduzione marcata dei livelli di coenzima Q10 nel muscolo. I pazienti solitamente presentano anche crisi epilettiche, ritardo psicomotorio e segni piramidali. Supplementazioni orali con alti dosaggi di coenzima Q10 possono essere utili nel trattamento della malattia.
Atassie congenite La sindrome di Joubert comprende rare patologie autosomiche recessive caratterizzate da assenza del verme cerebellare e presenza del segno del dente molare alla RM (FIG. 20.3). Quest’ultimo, rilevabile agli esami di neuroimaging, è dato da una anomala configurazione dei peduncoli cerebellari superiori che si connettono al cervelletto, al mesencefalo e al talamo. L’esordio più comune è in età infantile con atassia cerebellare, nistagmo, paralisi verticale dello sguardo, ptosi, retinopatia, ritardo mentale, iperpnea o apnea episodica.
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FIGURA 20.3 Sindrome di Joubert. RM encefalo con tipico aspetto del dente molare, anomala configurazione della connessione dei peduncoli cerebellari con il talamo e il mesencefalo.
Atassie metaboliche Le forme metaboliche includono: forme con atassia progressiva, forme con atassia intermittente (per esempio, sindromi con iperammoniemia, aminoacidurie, disordini del metabolismo del piruvato e del lattato) e forme in cui l’atassia rientra come sintomo solitamente minore all’interno del quadro sindromico (per esempio, leucodistrofia metacromatica, adrenoleucodistrofia, malattie da accumulo di sfingomielina). Di seguito vengono riportate le forme più importanti. L’atassia con deficit isolato di vitamina E può presentarsi con un fenotipo clinico simile all’atassia di Friedreich. È piuttosto comune in Africa,
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ma diversi casi sono stati riportati anche in Europa, NordAmerica e Giappone. Come l’atassia di Friedreich, l’esordio è più frequente prima dei 20 anni. Una diminuzione dell’acuità visiva o la degenerazione retinica pigmentosa possono essere un sintomo precoce della malattia. La cardiomiopatia, pur essendo un sintomo comune, lo è meno che nell’atassia di Friedreich. La malattia è dovuta a mutazioni nel gene della proteina trasportatrice dell’alfa-tocoferolo che permette il trasferimento della vitamina E nelle lipoproteine e, di conseguenza, nel SNC. Supplementi di vitamina E possono bloccare la progressione della malattia e migliorare l’atassia cerebellare. La sindrome di Refsum è caratterizzata da atassia cerebellare, neuropatia periferica, ipoacusia neurosensitiva, retinite pigmentosa e anosmia. Sono presenti inoltre ittiosi, insufficienza renale, anomalie scheletriche, miocardiopatia e aritmie. La malattia è dovuta alla mutazione del gene che codifica l’enzima perossisomiale fitanoil-CoA idrossilasi. Anche la sindrome di Refsum esordisce tipicamente prima dei 20 anni, ma può comparire anche più tardivamente. A causa della compromissione della ossidazione alfa degli acidi grassi a catena ramificata, l’acido fitanico, normalmente presente in cibi che rientrano nell’alimentazione quotidiana, quali carne e pesce, si accumula ad alti livelli nel grasso corporeo. Secondo meccanismi non ancora chiariti questo accumulo porta a un danno dei neuroni con fibre mieliniche. Eventi stressanti che possono portare alla rapida mobilitazione di questo acido possono causare un improvviso peggioramento dei sintomi che può mimare una sindrome di Guillain-Barrè. La diagnosi si basa sull’aumento della concentrazione sierica di acido fitanico. L’attività enzimatica della fitanoilCoA idrossilasi può essere determinata nei fibroblasti in coltura. Nei pazienti si può riscontrare inoltre un alto livello di proteine senza pleiocitosi nel liquor cefalorachidiano. L’identificazione rapida della malattia e un’adeguata restrizione dietetica possono fermare la progressione della malattia. In alcuni casi può essere presa in considerazione la plasmaferesi per ridurre rapidamente i livelli di acido fitanico. La xantomatosi cerebrotendinea è dovuta a una mutazione del gene CYP27 sito sul cr. 2 che codifica per l’enzima mitocondriale sterolo 27 idrossilasi. L’enzima fa parte del sistema del citocromo p450 che catalizza le reazioni iniziali della via metabolica di sintesi epatica degli acidi biliari. Il suo deficit provoca l’assenza di acido chenodesossicolico nella bile, un aumento del
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colestanolo nel plasma e nei tessuti e abnorme escrezione urinaria degli acidi biliari. La deposizione di queste sostanze nel SNC, soprattutto nei nuclei dentati cerebellari, è probabilmente responsabile del fenotipo clinico. La malattia ha una diversa prevalenza nei gruppi etnici e può arrivare a 1 su 50 000 nella popolazione bianca. I sintomi neurologici compaiono in genere intorno ai 20 anni di età e includono atassia, segni piramidali ed extrapiramidali, neuropatia periferica sensitivomotoria, epilessia, problemi psichiatrici e demenza. Sintomi associati possono essere cataratta giovanile, aterosclerosi precoce, osteoporosi, diarrea cronica, ma, soprattutto, xantomi tendinei (FIG. 20.4).
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FIGURA 20.4 Xantomatosi cerebrotendinea. Evidenza di xantomi tendinei in vari distretti corporei. La diagnosi si basa sull’alta concentrazione plasmatica di colestanolo e sull’individuazione delle mutazioni del gene della sterolo-27-idrossialsi. Agli esami di neuroimaging si evidenziano atrofia generalizzata cerebrale e cerebellare e lesioni iperintense alla RM, da demielinizzazione, e accumulo di materiale lipidico prevalentemente nel cervelletto. La diagnosi precoce permette il trattamento con acido chenodeossicolico (750 mg/die) che, da solo o associato a statine, permette di abbassare i livelli ematici di colestanolo e prevenire la progressione dei sintomi neurologici. La gangliosidosi GM2 o malattia di Tay-Sachs è causata dalla deficienza dell’enzima beta-esosaminidasi, il cui gene HEXA si trova sul cr. 15q23-24. La forma infantile, in cui si osservano ritardo psicomotorio, epilessia, ipotonia, cecità con presenza di macchia rosso-ciliegia al fondo oculare, è molto grave e la morte avviene solitamente entro il terzo anno di vita. Le forme a esordio più tardivo sono caratterizzate da disfunzione cerebellare, areflessia, ipostenia muscolare prossimale con atrofia e fascicolazioni, problemi psichiatrici e comportamentali. La forma giovanile può includere epilessia, spasticità e demenza. Questi differenti fenotipi derivano da diversi genotipi: nella forma infantile entrambi gli alleli del gene sono inattivi, mentre nelle forme tardive un solo allele è mutato con compromissione più o meno grave della funzione della proteina. La malattia può in taluni casi mimare la sindrome di Friedreich, ma se ne differenzia per la presenza di atrofia cerebellare. Non esistono trattamenti efficaci. Altre malattie metaboliche nelle quali si riscontra atassia (per esempio, l’abetalipoproteinemia, la corea-acantocitosi, l’aceruloplasminemia, la leucodistrofia metacromatica, la malattia di Niemann-Pick di tipo C e la sindrome di Wilson) sono trattate più estesamente in altri capitoli.
Atassie da difetti di riparazione del DNA Nell’atassia-teleangectasia la disfunzione cerebellare inizia intorno ai 2-3 anni di età e mostra un andamento progressivo. L’incidenza della malattia è di circa 1 su 100 000. La malattia è dovuta alla mutazione del gene ATM (cr.
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11q22-23). La perdita di funzione della proteina porta a una instabilità genomica che causa alterazioni del ciclo cellulare e dell’apoptosi. Inizialmente l’atrofia cerebellare può non essere evidenziata agli esami di neuroimaging, ma si manifesta nelle fasi più avanzate. I pazienti mostrano tipicamente teleangectasie cutanee e oculari, particolarmente evidenti a livello delle congiuntive, e aprassia oculomotoria (FIG. 20.5, TAVOLE A COLORI). Coreoatetosi, distonia, mioclonie e tremore intenzionale possono essere rilevati in un numero considerevole di pazienti. I pazienti hanno solitamente un’intelligenza normale. È inoltre presente una immunodeficienza di grado variabile che può esporre i pazienti a un rischio aumentato di sviluppare neoplasie, in particolare i linfomi e le leucemie, e infezioni polmonari. I pazienti presentano solitamente alti livelli di fetoproteina nel sangue, associati a deficit di IgA. La sindrome atassiateleangectasia-like presenta un quadro simile, ma con esordio più tardivo e progressione più lenta. Le atassie con aprassia oculomotoria di tipo 1 e 2 (AOA1 e AOA2) esordiscono in genere intorno ai 7 anni d’età, ma possono presentarsi anche più tardivamente. Nella forma di tipo 1 i pazienti mostrano atassia della marcia e degli arti, neuropatia sensitivo-motoria con coinvolgimento delle colonne dorsali e areflessia, segni extrapiramidali e deficit cognitivo lieve. Particolarmente marcate sono le anomalie dei movimenti oculari con nistagmo, instabilità della fissazione e aprassia oculomotoria. La RM evidenzia atrofia cerebellare con maggiore coinvolgimento del verme. Gli esami di laboratorio mostrano ipoalbuminemia, ipocolesterolemia e normale alfa-fetoproteina. La forma di tipo 1 è dovuta a mutazione del gene dell’aprataxina (APTX cr. 9p13), che ha un ruolo nella riparazione del DNA. La forma di tipo 2 differisce dalla 1 per l’esordio in età adolescenziale e il fenotipo generalmente più mite, la normalità dell’albumina e l’aumento delle concentrazioni sieriche di alfa-fetoproteina. La forma 2 è dovuta alla mutazione del gene della senataxina (SETX cr. q34), e sembra essere la forma più frequente di atassia autosomica recessiva dopo la malattia di Friedreich. L’atassia spinocerebellare con neuropatia assonale (SCAN1) è un disordine dell’età infantile caratterizzato da atassia cerebellare, neuropatia periferica assonale sensitivo-motoria, amiotrofia distale e piede cavo. La patologia è più frequente in Arabia Saudita. Lo xeroderma pigmentosus è una sindrome conseguente a differenti
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genotipi, tutti ereditati con una modalità autosomica recessiva, e implicati nei meccanismi di riparazione del DNA. La malattia comprende diversi sintomi neurologici, tra i quali atassia, coreo-atetosi, spasticità, sordità e ritardo mentale. Tali sintomi sono associati a fotosensibilità della pelle con aumentato rischio di neoplasie cutanee precoci, fotofobia, teleangectasie.
NON DIMENTICARE CHE... L’atassia è comune a diverse sindromi autosomiche recessive. In assenza di informazioni familiari che permettano di identificare la patologia responsabile, la diagnosi può essere molto difficile. L’iter diagnostico, pertanto, dovrà prevedere un’attenta raccolta anamnestica familiare mirata a rilevare l’origine geografica, l’eventuale consanguineità dei genitori e/o la presenza di sintomi nei familiari, e personale, con lo scopo di chiarire età e modalità d’esordio e progressione della malattia. L’esame neurologico accurato permette di evidenziare l’eventuale presenza di sintomi e segni associati all’atassia, spesso molto utili nell’indirizzare il sospetto diagnostico. Studi sierologici (quali, per esempio, lo striscio di sangue periferico, il dosaggio del colesterolo, dell’acido fitanico, dell’alfa-fetoproteina, del lattato) consentono di confermare o escludere alcune patologie. Indagini aggiuntive (cardiologiche, oftalmologiche, neurofisiologiche, audiometriche ecc.) possono essere utili in alcuni casi per una migliore definizione del quadro clinico. La RM permette di evidenziare o meno l’atrofia cerebellare, il coinvolgimento di altre aree cerebrali, la presenza eventuale di lesioni specifiche quali alterazioni della sostanza bianca (leucoencefalopatia), segni di accumulo, segno del dente molare. L’indagine genetica mirata, qualora possibile, infine, consentirà la diagnosi precisa della malattia. In ogni caso, va tenuto in considerazione che l’atassia di Friedreich è l’atassia ereditaria più frequente. Per alcune atassie esistono trattamenti in grado di contrastare l’evoluzione della malattia.
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Atassie autosomiche dominanti Atassie spinocerebellari Le atassie cerebellari autosomiche dominanti (ADCA, autosomal dominant cerebellar ataxia), dette anche atassie spinocerebellari (SCA, spinocerebellar ataxia), sono un gruppo eterogeneo di patologie neurodegenerative ereditarie, nelle quali la manifestazione principale è l’atassia cerebellare progressiva. Il numero di SCA di cui viene identificato il gene responsabile è in continua crescita (TAB. 20.1). La prevalenza dei diversi tipi di SCA varia a seconda dell’etnia e dell’area geografica. Attualmente si ritiene che la SCA3 abbia la maggiore diffusione mondiale. In Italia, tuttavia, la SCA3 è oltremodo rara, mentre i genotipi più frequenti nel nostro Paese sono SCA1 nelle regioni settentrionali e SCA2 in quelle meridionali; la SCA6, relativamente comune in Francia e Germania, sembra essere presente in Italia con frequenza minore rispetto a SCA1 e 2. Alcune di queste patologie sono causate da anomale ripetizioni di nucleotidi. In particolare, sette subtipi (SCA1, SCA2, SCA3, SCA6, SCA7, SCA12 e SCA17) sono causati da espansione di triplette CAG nei rispettivi geni: queste espansioni codificano per ripetizioni di poliglutamine, pertanto sono incluse nei disturbi da espansione di poliglutamine. Come in altre patologie da espansione di triplette, l’età d’esordio è inversamente correlata al numero di ripetizioni delle triplette. Le espansioni più lunghe del normale sono un sistema instabile e tendono a espandersi ulteriormente; questo porta a un esordio più precoce e, conseguentemente, a un fenotipo più grave della malattia nelle generazioni successive, fenomeno conosciuto come “anticipazione”. Tuttavia l’esatta predizione dell’età d’esordio sulla base dei test genetici nel presintomatico non è possibile. TABELLA 20.1 Elenco delle diverse forme di atassia spinocerebellare a ereditarietà autosomica dominante
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Le ADCA sono solitamente distinte in tre gruppi, sulla base del fenotipo clinico: ADCA di tipo I, ADCA di tipo II e ADCA di tipo III. Le ADCA di tipo I sono anche definite SCA “plus”, in quanto l’atassia si associa ad anomalie dei movimenti oculari, segni piramidali ed extrapiramidali, e neuropatia. A questo gruppo appartengono, fra le altre, le SCA1, SCA2, SCA3 e SCA6. Nelle ADCA di tipo II l’atassia è associata a maculopatia: in
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questo gruppo attualmente viene inclusa solo la SCA7, nella quale è presente degenerazione della macula e della retina con perdita precoce della capacità discriminativa dei colori, seguita da perdita dell’acuità visiva e atassia cerebellare progressiva. Le caratteristiche dell’ADCA di tipo I possono essere presenti anche in questo gruppo, ma meno frequentemente. L’ADCA di tipo III si definisce in presenza di atassia cerebellare “pura”, in genere a esordio tardivo, senza altri segni di coinvolgimento multisistemico dopo almeno dieci anni di malattia. L’atassia spinocerebellare di tipo 1 (SCA1) può esordire dalla prima alla settima decade di vita, generalmente però si manifesta fra i 30 e i 40 anni. Il fenotipo è altamente variabile e include sintomi di disfunzione cerebellare, quali atassia della marcia, della stazione eretta e degli arti, disartria e anomalie dell’oculomozione come il nistagmo evocato dalla posizione dello sguardo, pursuit saccadici, alterazione del riflesso oculovestibolare e deficit del nistagmo optocinetico. In fasi avanzate della malattia possono essere presenti un rallentamento delle saccadi e oftalmoparesi, dovuti a un coinvolgimento del ponte nel processo degenerativo. Circa la metà dei pazienti mostra una paralisi sopranucleare dello sguardo o un rallentamento delle saccadi verticali. Segni piramidali (come spasticità, iperreflessia e fenomeno di Babinski) sono comuni, ma possono manifestarsi anche amiotrofia e compromissione sensitiva. Negli ultimi stadi della malattia si sviluppano frequentemente disfagia, ipercinesia coreiforme e paralisi delle corde vocali. Anche la compromissione delle funzioni esecutive può essere presente, in circa il 10% dei pazienti, ma raramente conduce a demenza. L’atassia spinocerebellare di tipo 2 (SCA2) differisce clinicamente dalla forma di tipo 1 per il rallentamento delle saccadi, l’iporeflessia e il tremore più pronunciato. Il senso di vibrazione può essere compromesso mentre la sensibilità discriminativa è in genere normale. In alcuni pazienti, in genere quelli in cui vi è una minore espansione delle triplette, la malattia può presentarsi come un parkinsonismo familiare levodopa-responsivo o un fenotipo SLA-like, senza segni di coinvolgimento cerebellare. L’atassia spinocerebellare di tipo 3 (SCA3), o sindrome di MachadoJoseph, è la più comune al mondo, ma non in Italia. Il fenotipo è estremamente variabile, espandendosi dalla sindrome cerebellare pura al parkinsonismo familiare, alla paraplegia spastica ereditaria e alla neuropatia ereditaria. La sindrome delle gambe senza riposo, levodopa responsiva, è presente in circa il 40% dei pazienti ed è una causa comune di disturbi del
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sonno. Un sintomo frequente ma poco riconosciuto è una compromissione della discriminazione della temperatura sugli arti, tronco e volto. Può essere inoltre presente paralisi dello sguardo verticale o orizzontale. Nella sindrome di Machado-Joseph si osservano, inoltre, pseudoesoftalmo, miochimie faciolinguali e distonia. L’atassia spinocerebellare di tipo 6 (SCA6) è stata descritta come atassia cerebellare pura, con evidenza agli studi di neuroimaging e post-mortem di atrofia limitata al cervelletto. Tuttavia, altre manifestazioni quali neuropatia periferica lieve, distonia, riflessi vivaci e andatura paraparetico-spastica possono essere presenti in alcuni pazienti. Molti soggetti con SCA6 presentano anomalie dell’oculomozione, incluso nistagmo posizionale down beat e alterazione del riflesso oculovestibolare. In oltre il 60% dei casi l’esordio è oltre i 50 anni d’età, inducendo erroneamente a pensare, in casi in cui i genitori siano deceduti prima di manifestare la malattia, a forme di atassia sporadiche. L’atassia spinocerebellare di tipo 7 (SCA7) è la sola a comporre il gruppo delle ADCA di tipo II, in cui l’atassia è associata a degenerazione maculare pigmentosa. Nelle forme a esordio precoce il deficit visivo solitamente anticipa la comparsa di atassia di circa 9 anni, mentre nelle forme tardive l’atassia può precedere di molti anni i disturbi visivi. Il primo segno di coinvolgimento retinico, in genere, è dato da una discromatopsia dell’asse giallo-blu o da una riduzione dell’acuità visiva. L’elettroretinogramma mostra una disfunzione dei coni più severa che dei bastoncelli della retina. Il fenomeno dell’anticipazione è particolarmente marcato in questi pazienti. L’atassia spinocerebellare di tipo 17 (SCA17) ha un fenotipo clinico complesso, con atassia o demenza come sintomo d’esordio. Nel corso della malattia, poi, possono aggiungersi altre manifestazioni quali iperreflessia, acinesia, rallentamento delle saccadi, distonia, epilessia, psicosi paranoide e mutismo. Alcuni pazienti presentano solo sintomi psichiatrici e possono mostrare ipercinesia coreiforme. L’atassia spinocerebellare di tipo 28 (SCA28) è stata identificata in famiglie italiane. La malattia è causata da una mutazione del gene AFG3L2, con conseguente perdita di funzione della proteina da esso codificata e alterazione della respirazione mitocondriale e delle funzioni proteolitiche. L’esordio dei sintomi è precoce, la progressione è lenta e caratterizzata da disartria, atassia, nistagmo, saccadi lente e dismetriche od oftalmoparesi e ptosi.
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Recentemente, è stato riconosciuto un ruolo del cervelletto non solo nel controllo di esecuzioni motorie, ma anche di funzioni cognitive superiori. Di conseguenza, oltre ai noti sintomi motori, associata a degenerazione cerebellare si descrive anche una “sindrome cognitiva cerebellare”, caratterizzata da episodi depressivi, cambiamenti di personalità (inclusa labilità emotiva, disinibizione, apatia, paranoia, infantilismo), così come un decadimento cognitivo più o meno importante.
NON DIMENTICARE CHE... Le atassie spinocerebellari (SCA) possono essere distinte in atassie cerebellari autosomiche dominanti (ADCA) di tipo I, in cui oltre all’atassia si possono associare disturbi aggiuntivi (SCA plus), di tipo II, in cui è presente anche degenerazione retinica, e di tipo III con atrofia cerebellare isolata. I geni responsabili di SCA sono in crescente identificazione, le SCA1 e SCA2 sono le forme più frequenti in Italia. Nelle SCA causate da espansioni di triplette si assiste al fenomeno dell’anticipazione, cioè a una manifestazione più precoce, e generalmente più grave, della malattia nelle generazioni successive. La familiarità e il quadro clinico indirizzano la diagnosi genetica delle SCA. Non esistono terapie specifiche.
Atassie episodiche Attualmente sono state identificate almeno otto forme di atassie episodiche (EA): di queste, due sono le forme principali, EA1 ed EA2, entrambe a ereditarietà autosomica dominante. La manifestazione clinica più evidente nelle atassie episodiche è l’occorrenza di episodi acuti, drammatici, di disfunzione cerebellare, mentre una sfumata disfunzione cerebellare può essere presente in maniera cronica nei periodi intercritici. L’EA1 è causata da una mutazione nel gene KCNA1 che codifica per la subunità alfa del canale per il potassio Kv 1.1. che codifica per la subunità alfa 1A del canale del calcio Cav2.1. Kv1.1 e CAv2.1 appartengono entrambi alla famiglia dei canali
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ionici voltaggio-dipendenti. Nelle atassie episodiche gli episodi clinici acuti e le manifestazioni croniche sarebbero correlati con disfunzioni transitorie o persistenti dei canali ionici. Quasi tutti i soggetti con EA1 presentano neuromiotonia di diversa gravità associata a disfunzione cerebellare episodica che esordisce, tipicamente, nella prima o seconda decade di vita. Gli episodi possono essere indotti da movimenti o cambi di posizione improvvisi, esercizio fisico intenso o stress emotivi. Di solito gli episodi sono brevi, della durata di secondi o minuti, e di gravità variabile e possono essere associati a disartria. La febbre o patologie intercorrenti possono abbassare la soglia di questi pazienti e scatenare un evento che, solitamente, durante tali condizioni è di gravità maggiore del solito. La neuromiotonia, quasi sempre presente, può evidenziarsi alla nascita, causando contratture o deformità posturali degli arti, ma talvolta può manifestarsi in maniera più lieve ed essere identificabile solo come ipertrofia dei muscoli o movimenti fini involontari delle dita. Gli studi di neuroimaging in questi pazienti sono solitamente normali. L’EA2 è più comune della EA1. L’esordio, anche se solitamente avviene nella prima e seconda decade di vita, può verificarsi a qualsiasi età. L’atassia colpisce il tronco, gli arti, la marcia ed è spesso associata a disartria. I pazienti possono riferire anche nausea e vomito. La frequenza degli attacchi, precipitata da vari fattori, può variare da più episodi settimanali a pochi episodi all’anno o cluster nell’arco della vita. I pazienti al di fuori degli episodi possono mostrare segni di disfunzione cerebellare quali disartria, nistagmo e atassia, con andamento progressivamente ingravescente nel corso della malattia. La RM cerebrale può rilevare atrofia cerebellare vermiana o globale. La neuromiotonia non è un sintomo distintivo, mentre possono essere presenti cefalea, distonia, difficoltà di apprendimento e cognitive. L’EA2 e la SCA6 sono patologie alleliche e possono sovrapporsi clinicamente. Infine, i pazienti con EA2 possono talvolta presentare emicrania, talora associata a sintomi motori o sensitivi che possono mimare l’emicrania emiplegica familiare. Sia nell’EA1 che nell’EA2 è stata registrata un’incidenza di epilessia di 10 volte superiore alla popolazione generale. La terapia delle forme di atassia episodica si rivolge principalmente al trattamento della neuromiotonia nelle forme EA1 (in genere con carbamazepina o fenitoina) e alla prevenzione delle crisi epilettiche, facendo attenzione al fatto che alcuni farmaci anticonvulsivanti possono causare
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un’esacerbazione degli episodi atassici anche a dosaggi non terapeutici. Altri farmaci impiegati per il trattamento delle atassie episodiche di tipo 1 e 2 sono l’acetazolamide, che è in grado, probabilmente, di modificare il pH intracellulare e, di conseguenza, il potenziale transmembrana e la 4-aminopiridina, un bloccante del canale del potassio.
NON DIMENTICARE CHE... • La caratteristica principale delle atassie episodiche (EA) è l’occorrenza di episodi acuti di disfunzione cerebellare, mentre nei periodi intercritici la sintomatologia può essere assente o minima. Tale fenomeno, specie all’esordio della malattia, pone queste forme in diagnosi differenziale con le atassie metaboliche. • La diagnosi, su base clinica, è confermata dalla genetica. • Le atossie episodiche sono canalopatie; le forme più frequenti sono la EA1 e la EA2.
Atrofia dentato-rubro-pallido-luysiana L’atrofia dentato-rubro-pallido-luysiana (DPRLA) o malattia di Smith, è più diffusa in Giappone, mentre è piuttosto rara in Europa e negli Stati Uniti. Anche la DPRLA è una patologia da espansione di triplette CAG, che avviene nel gene dell’atrofina-1, di conseguenza la severità del fenotipo varia sulla base del numero di ripetute. Il numero di triplette nei pazienti giapponesi con DPRLA è generalmente maggiore di quello di pazienti con antenati europei, il che spiegherebbe la maggiore suscettibilità della popolazione orientale alla manifestazione della malattia. L’epilessia mioclonica è una caratteristica tipica nei pazienti con ripetizione di espansioni più ampia (>65) ed età d’esordio più precoce ( 100 g/24h) e bassi livelli ematici di ceruloplasmina. Anche l’aumentato contenuto di rame del fegato (> 250 g/g) ha valore diagnostico. La conferma diagnostica si ha con l’esame genetico-molecolare. Il farmaco più usato per il trattamento della malattia è la d-penicillamina. La dose raccomandata è di 0,5 g/die nei bambini sotto i 10 anni e di 1-2 g/die nei più grandi in quattro somministrazioni prima dei pasti. I sintomi sistemici e neurologici migliorano in qualche mese. Alcuni pazienti peggiorano all’inizio del trattamento; questa evenienza può essere evitata raggiungendo il dosaggio standard in maniera graduale. La sospensione improvvisa della terapia può provocare un brusco peggioramento del quadro clinico. Un 25% dei pazienti non è responsivo al farmaco. Gli effetti collaterali del trattamento consistono in possibili glomerulonefriti, reazioni lipoidi, mielosoppressione, anafilassi e una sindrome tipo miastenia gravis. Durante il trattamento è utile l’assunzione di piridossina. Altro farmaco usato in caso di mancata tolleranza alla d-penicillamina è la trientina (500 mg tre volte al giorno). È disponibile anche il tetratiomolibdato, che è un altro chelante del rame. Può essere usato anche lo zinco allo stato elementare (50 mg tre volte al giorno), che compete
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con l’assorbimento del rame nell’intestino.
Malattia di Menkes La sindrome di Menkes (tricopoliodistrofia) è un disordine del metabolismo del rame, trasmesso con carattere X-legato. Il difetto genetico provoca un alterato trasporto del rame a livello della mucosa intestinale. La concentrazione di rame risulta bassa nel cervello, nel fegato e nel sangue, così come la ceruloplasmina. Siccome il rame è un componente di vari metalloenzimi, si hanno effetti negativi in diversi tessuti. L’esordio è in età infantile con ipotermia, ipotonia e crisi epilettiche. Il quadro neurologico progredisce rapidamente con morte nel giro di alcuni anni. Un aspetto caratteristico è la comparsa di capelli poco pigmentati e fragili; se osservati al microscopio appaiono attorcigliati (pili torti) con fratture a intervalli regolari. Sono presenti malformazioni ossee e dei vasi cerebrali. Nel SNC si ha degenerazione corticale. Esistono varianti con quadro neurologico attenuato. La terapia consiste nella somministrazione di rame con la dieta.
MALATTIE DA DEFICIT DI LIPOPROTEINE Abetalipoproteinemia e ipobetalipoproteinemia L’abetalipoproteinemia (sindrome di Bassen Kornzweig) è una malattia autosomica recessiva in cui è assente l’apolipoproteina B; ne conseguono bassissimi livelli plasmatici di colesterolo e trigliceridi e anche di vitamina E e altre vitamine liposolubili. Il gene è stato mappato sul cromosoma 4. Le alterazioni neuropatologiche consistono in una neuropatia demielinizzante e degenerazione di alcuni neuroni spinali e del cervelletto. Il quadro neurologico, che compare nella prima decade di vita, ha le caratteristiche di una sindrome spinocerebellare simile alla malattia di Friedreich, con la quale condivide anche la presenza di piede cavo e scoliosi. I sintomi principali sono malassorbimento e deficit di accrescimento, retinite pigmentosa, atassia, polineuropatia e presenza di acantociti nello striscio di sangue periferico (FIG. 21.13).
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FIGURA 21.13 Abetalipoproteinemia: acantociti nello striscio di sangue periferico. L’ipobetalipoproteinemia presenta un quadro clinico attenuato e ha una trasmissione autosomica dominante. La diagnosi si effettua con l’elettroforesi delle lipoproteine plasmatiche, dosaggio ematico di colesterolo e trigliceridi e ricerca di acantociti. Anche la concentrazione ematica di vitamina E è diminuita. La terapia si basa sulla somministrazione giornaliera di 1-7 g di αtocoferolo. Utile anche l’uso di vitamine A e K.
Malattia di Tangier È una malattia rara, a ereditarietà autosomica recessiva, il cui gene è stato mappato sul cromosoma 9. Le caratteristiche fondamentali sono una polineuropatia e la presenza di tonsille ipertrofiche di colorito giallastro. La colorazione delle tonsille e di altri tessuti è dovuta ad accumulo di esteri del
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colesterolo. Nel siero si osservano una ridotta concentrazione di colesterolo e un deficit di lipoproteine ad alta densità. L’elettroforesi mostra deficit della lipoproteina α. Il sintomo principale è una neuropatia sensitivomotoria a esordio infantile con debolezza distale, iporeflessia e deficit delle sensibilità termica e dolorifica. Sono state osservate forme con esordio in età adulta e decorso cronico. Raramente si possono osservare ptosi, oftalmoplegia ed epatosplenomegalia.
FOCUS ON CONCLUSIONI Oltre 100 anni fa A.E. Garrod scriveva, in una memorabile conferenza pubblicata su Lancet, “…. The factors which confer upon us our predispositions to and immunities from the various mishaps which are spoken of as diseases, are inherent in our very chemical structure; and even in the molecular groupings which confer upon us our individualities, and which went to the making of the chromosomes from which we sprang.” Con il passare degli anni, quelle che erano allora ipotesi sono diventate realtà, con l’identificazione delle basi neurometaboliche e neurogenetiche di molte malattie neurologiche, la cui precoce identificazione può portare per alcune a una terapia capace di prevenire i gravi disturbi neurologici, o per quelle in cui ancora non esistono opportunità terapeutiche, all’applicazione di una corretta procedura preventiva, attraverso il consiglio genetico e la diagnosi prenatale. Il loro studio offre infine una grande opportunità di comprendere gli intimi meccanismi biologici delle normali funzioni del sistema nervoso. Per un aggiornamento continuo e per contattare le strutture che si occupano in particolare di tali malattie rare segnaliamo alcuni siti presenti sul web:
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• NORD http://www.rarediseases.org/ • OMIM http://www.ncbi.nlm.nih.gov/omin/ • Telethon http://www.telethon.it/ • Orphanet (Europa) http://orphanet.infobiogen.fr/ • Istituto Superiore di Sanità http://www.cnmr.iss.it/
GLICOGENOSI Le glicogenosi sono malattie caratterizzate dall’accumulo nei tessuti, in particolare nel muscolo e nel fegato, di glicogeno. Presentano ereditarietà autosomica recessiva eccetto due sottotipi del tipo IX che sono X-legati. I disturbi neuromuscolari insieme ad aumento degli enzimi muscolari, in particolare CPK, sono presenti in tutte le forme, eccetto il tipo I. Le principali caratteristiche cliniche e biochimiche delle glicogenosi sono riportate nella TABELLA 21.7. Per un approfondimento sugli argomenti trattati in questo capitolo, VEDI FOCUS ON: CONCLUSIONI, IN QUESTA PAGINA.
BIBLIOGRAFIA Federico A. Leucoencefalopatie genetiche. Inquadramento clinico patogenetico e descrizione di casi clinici, Roma: CIC Edizioni Internazionali, 2007. Garrod A.E. Inborn errors of metabolism (Croonian Lectures), Lancet, 2:1, 1923. Moser H.W. Neurodystrophies and neurolipidoses, in Vinken P.J., Bruyn G.W., Handbook of clinical neurology, vol 66, Amsterdam: Elsevier, 1997. Scriver C.R. et al. The metabolic and molecular bases of inherited diseases, 7th ed., New York: McGraw-Hill, 1995.
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PARTE III MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO E DEI MUSCOLI
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22 MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO E. Susani, G. Cavaletti, A. Toscano
KEY POINTS Il sistema nervoso periferico può essere affetto da malattie primitive del nervo o nel contesto di patologie di tipo sistemico. La distribuzione del danno configura un quadro di neuronopatia, di sofferenza radicolare, di plessopatia, oppure, se localizzato più distalmente, di mononeuropatie (un solo tronco nervoso coinvolto), mononeuropatie multiple (con interessamento asimmetrico di singoli tronchi nervosi) o polineuropatie simmetriche. Il substrato anatomopatologico più comune nella lesione dei tronchi nervosi è rappresentato da un danno assonale. Il diabete è la causa più frequente di una neuropatia periferica nei Paesi occidentali. La biopsia di nervo viene ormai limitata a casi molto selezionati, mentre l’indagine genetica costituisce attualmente il cardine della diagnostica delle forme ereditarie.
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INTRODUZIONE Definizione Per neuropatia periferica si intende una qualsiasi patologia del nervo periferico, indipendentemente dalla causa.
Premesse anatomiche Il sistema nervoso periferico (SNP) comprende tutti i nervi cranici mielinizzati dalle cellule di Schwann (a esclusione del primo e del secondo paio), le radici spinali con i rispettivi gangli dorsali, i nervi spinali e le loro diramazioni o nervi periferici, i plessi cervicale, brachiale e lombosacrale e infine le ramificazioni periferiche del sistema nervoso vegetativo. Il nervo periferico è un insieme di fasci di fibre nervose avvolte a più livelli da un sistema di guaine connettivali. Possiamo distinguere tre guaine connettivali: l’epinevrio o neurilemma (che circonda l’intero nervo periferico), il perinevrio (che circonda fascicoli di fibre nervose) e l’endonevrio (che circonda le singole fibre nervose).
KEY POINTS Il nervo periferico è un insieme di fasci di fibre nervose avvolte da tre guaine connettivali: l’epinevrio, il perinevrio e l’endonevrio. Le fibre nervose sono costituite dall’assone e dalle cellule di Schwann e il loro trofismo dipende dall’integrità di entrambe le componenti. Le fibre nervose possono essere mieliniche o amieliniche: nelle prime il rapporto tra fibra nervosa e cellula di Schwann è di uno a uno, mentre nelle fibre amieliniche la stessa cellula di Schwann avvolge più fibre nervose. La velocità di conduzione dell’impulso nervoso dipende dal diametro delle fibre nervose e dalla loro mielinizzazione. L’integrità e il buon funzionamento dell’assone dipendono da un adeguato trasporto assonale, retrogrado e anterogrado. Un’alterazione del trasporto assonale si riflette in una sofferenza della
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fibra nervosa. L’irrorazione vascolare del nervo periferico, sia arteriosa che venosa, è organizzata secondo un sistema che prevede la presenza di vasi di calibro maggiore che decorrono nel connettivo epinevriale, definiti vasa nervorum, e vasi più piccoli, le cui pareti sono provviste di giunzioni serrate, che decorrono in sede endonevriale, a formare la barriera ematoneurale. Il corpo cellulare delle fibre nervose è collocato nelle corna anteriori del midollo spinale per le fibre motorie, nel ganglio spinale per le fibre sensitive e nel ganglio del sistema nervoso autonomo per le fibre vegetative. Le fibre nervose sono costituite dall’assone e dal rivestimento di cellule gliali, le cellule di Schwann. Queste cellule stabiliscono una particolare simbiosi con l’assone che circondano: infatti si accrescono e si sviluppano contemporaneamente. Il trofismo della fibra nervosa dipende dall’integrità di entrambe le componenti: un danno della cellula di Schwann a lungo andare si ripercuote sul trofismo dell’assone e viceversa. Le fibre nervose si distinguono in fibre amieliniche e fibre mieliniche. Nelle prime, ogni cellula di Schwann avvolge più assoni, con un esile lembo citoplasmatico, mentre nelle fibre mieliniche ogni cellula di Schwann è dedicata a un solo assone, attorno al quale si arrotola la guaina mielinica a formare uno spesso rivestimento costituito da una serie di lamelle concentriche, la guaina mielinica. Lungo il decorso dell’assone le cellule di Schwann si dispongono longitudinalmente e nel punto di incontro tra due cellule consecutive si trova un piccolo spazio (di circa 1 μm), in cui l’assone è privo di mielina, denominato nodo di Ranvier. Una delle funzioni della guaina mielinica è di accelerare notevolmente la velocità di propagazione dell’impulso nervoso (mediante una conduzione saltatoria tra un nodo di Ranvier e l’altro), per cui, mentre le fibre amieliniche hanno una bassa velocità di conduzione (0,25-2,5 m/s), questa risulta considerevolmente più alta nelle fibre mieliniche, tanto maggiore quanto maggiore è il loro diametro (12-70 m/s). Una seconda importante caratteristica della guaina mielinica è la presenza nel suo contesto di numerose strutture proteiche e glicolipidiche, responsabili del mantenimento della sua struttura ma anche della sua antigenicità, componente importante nella genesi di numerose malattie immunomediate che determinano
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demielinizzazione.
Premesse fisiologiche Le fibre nervose svolgono due funzioni essenziali: • la conduzione dell’impulso nervoso; • il trasporto assonale. La conduzione dell’impulso nervoso avviene mediante la propagazione del potenziale d’azione lungo la fibra nervosa, in modo continuo nelle fibre mieliniche e secondo una modalità saltatoria nelle fibre amieliniche. Il trasporto assonale, invece, è fondamentale per garantire il metabolismo e la sopravvivenza dell’assone e delle terminazioni nervose. Il trofismo dei neuroni e dei loro prolungamenti dendritici e assonali richiede che le macromolecole, che costituiscono le membrane assonali e il citoscheletro, e gli enzimi necessari alla sintesi dei neurotrasmettitori, siano costantemente rinnovati. L’assone può superare anche la lunghezza di un metro e non è in grado di assicurare la biosintesi delle molecole che lo costituiscono in quanto privo di ribosomi. La fonte pressoché esclusiva delle macromolecole assonali è il corpo cellulare del neurone. L’integrità e il buon funzionamento dell’assone derivano quindi da un traffico molecolare a doppio senso: un trasporto assonale anterogrado e un trasporto assonale retrogrado. Il flusso assonale anterogrado, in base alla velocità del trasporto si divide in flusso rapido e lento. Il flusso assonale rapido ha una velocità media di 400 mm/die e veicola proteine e lipidi di membrana, neurotrasmettitori ed enzimi responsabili della sintesi dei neurotrasmettitori. Il flusso assonale lento, invece, veicola la maggior parte delle proteine assonali (80%) a velocità medie tra 1 e 10 mm/die. Assicura il procedere degli elementi costitutivi del citoscheletro assonale, come la tubulina dei microtubuli, le subunità dei neurofilamenti e la miosina. Il flusso assonale retrogrado opera in un range di velocità intermedio tra i due precedenti (200±50 mm/die). È preposto al trasporto dalla periferia al corpo cellulare di componenti macromolecolari per il riciclo e la loro reintegrazione in macromolecole nuove. Inoltre svolgerebbe un ruolo modulatorio determinato da quanto avviene in periferia, attraverso molecole neurotrofiche prodotte dalle strutture bersaglio, come l’NGF (nerve growth
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factor), che influenzano proliferazione, crescita e differenziazione di selezionate popolazioni neuronali, attraverso l’interazione con recettori specifici. Come già ricordato, tra cellula di Schwann e assone esiste un rapporto biunivoco: la cellula di Schwann assicura l’elaborazione di proteine specifiche e fosfolipidi che costituiscono la guaina mielinica; l’assone ha un ruolo trofico sulle cellule di Schwann e garantisce l’integrità della guaina mielinica. Ogni perturbazione del trasporto assonale si riverbera sulle guaine mieliniche, così come le perturbazioni della guaina mielinica a lungo andare si ripercuotono sul trofismo dell’assone, spiegando in tal senso alcuni aspetti neuropatologici alla base di talune neuropatie periferiche.
Degenerazione e rigenerazione delle fibre nervose Da un punto di vista fisiopatologico la fibra nervosa può andare incontro a tre diversi processi degenerativi: 1. degenerazione walleriana: è un fenomeno degenerativo che colpisce sia l’assone che la guaina mielinica, entro 48 ore dalla completa sezione della fibra nervosa, distalmente alla sede di lesione con progressione in senso centrifugo. Immediatamente dopo la transezione si ha un’interruzione della continuità del nervo periferico con perdita della funzione motoria e sensitiva, distribuita nel territorio di innervazione del tronco nervoso interessato. La degenerazione inizia in una porzione distale della fibra nervosa per un’interruzione del trasporto assonale, poi si ripercuote anche a livello centrale sul corpo cellulare; infatti si verificano alterazioni morfologiche del pirenoforo definite come “cromatolisi centrale”. Distalmente alla sede di lesione le cellule di Schwann iniziano a proliferare formando le cosiddette “bande di Bungner”, che costituiscono la base di rigenerazione dell’assone, che inizia già 24 ore dopo la transezione. L’entità della rigenerazione nervosa dipende dall’integrità delle cellule di Schwann e delle guaine del nervo (epinevrio e perinevrio) e dalla distanza della sede di lesione dal corpo cellulare. Le cause di degenerazione walleriana sono tipicamente lesioni traumatiche del nervo, da sezione, compressione o strappamento del nervo; altri possibili meccanismi responsabili sono il danno da radiazione e il danno ischemico; 2. degenerazione distale retrograda: è caratterizzata dalla frammentazione
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della parte distale dell’assone, secondaria a un danno, generalmente metabolico, del corpo cellulare. Tale processo viene anche definito neuropatia dying back (morte a ritroso), per l’andamento distoprossimale del processo patologico. I fenomeni di distruzione assonale sono seguiti successivamente da demielinizzazione secondaria. In questo tipo di degenerazione in primis è alterato il trasporto assonale, come risultato di un’alterazione del corpo cellulare. In questo modo gli elementi nutritivi, di ricambio e del citoscheletro non vengono più veicolati verso la periferia, compromettendo maggiormente l’integrità delle componenti più periferiche dell’assone. Questo tipo di degenerazione clinicamente si presenta con una compromissione della funzione motoria o sensitiva, a distribuzione distale e simmetrica, con andamento lentamente ingravescente e con progressione distoprossimale. Tipiche sono l’ipoestesia a calza e a guanto e l’ipostenia distale. Il recupero è solitamente lento e difficoltoso. Generalmente è secondaria a fattori metabolici o tossici, raramente a patologie eredo-degenerative. È la forma più comune di processo patologico alla base delle neuropatie periferiche; 3. demielinizzazione segmentaria: è dovuta a un danno selettivo delle cellule di Schwann, con conseguente perdita della guaina mielinica in uno o più segmenti tra due nodi di Ranvier. L’assone inizialmente mantiene la sua integrità, poi può subire alterazioni morfologiche secondarie alla demielinizzazione. La rimielinizzazione è caratterizzata da una proliferazione di nuove cellule di Schwann che ricostituiscono progressivamente la mielina nell’arco di alcune settimane. La demielinizzazione segmentaria si manifesta alle indagini neurofisiologiche con marcato rallentamento della velocità di conduzione e una dispersione del potenziale d’azione, ossia con un blocco della conduzione nervosa (FIG. 22.1). Clinicamente si ha una precoce perdita della funzione sensitiva o motoria, ipo-areflessia diffusa e ipotrofia muscolare modesta; talvolta i nervi si ipertrofizzano per la proliferazione delle cellule di Schwann e diventano palpabili. A livello istologico la proliferazione delle cellule di Schwann determina la comparsa di un aspetto particolare dei lembi di citoplasma cellulare che assumono una disposizione concentrica intorno all’assone ipo/demielinizzato (“bulbi di cipolla”). Fra le cause di demielinizzazione segmentaria tipicamente annoveriamo le poliradicoloneuriti infiammatorie acute e croniche e le polineuropatie ereditarie sensitivo-motorie.
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FIGURA 22.1 Differenti modalità di degenerazione della fibra nervosa.
APPROCCIO DIAGNOSTICO Il primo livello del procedimento diagnostico è rappresentato dall’anamnesi e dall’esame obiettivo neurologico, utili per distinguere una neuropatia periferica da un’altra condizione che potrebbe mimare una patologia del sistema nervoso periferico. Per definire in modo adeguato il quadro clinico è necessario l’ausilio degli esami elettrodiagnostici, ossia elettromiografia ed elettroneurografia (VEDI CAP. 1). L’elettroneurografia (ENG) ha un ruolo fondamentale nel confermare la presenza di una sofferenza dei nervi periferici, nel differenziare le mono-, multi o polineuropatie e nel contribuire alla diagnosi eziologica. L’ENG di solito consente di differenziare un quadro di degenerazione assonale da un quadro di demielinizzazione (FIGG. 22.2 e 22.3).
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FIGURA 22.2 Elettroneurografia. Morfologia di un potenziale nervoso sensitivo (sinistra) in confronto con un quadro di assonopatia con decremento dell’ampiezza (destra).
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FIGURA 22.3 Elettroneurografia. Normale morfologia di potenziali nervosi motori (sinistra) confrontati con le modificazioni che si verificano in corso di assonopatia (al centro, diminuzione dell’ampiezza del potenziale) o di demielinizzazione (destra, riduzione della velocità di conduzione con dispersione del potenziale nervoso). Altri elementi che possono essere chiariti dagli esami elettrodiagnostici comprendono: • la definizione della sede del danno, se prossimale (patologia radicolare o plessica) o distale (tronculare); • l’estensione della patologia, se focale o diffusa e simmetrica; • la presenza di sofferenza subclinica in distretti clinicamente indenni. In alcuni casi selezionati si può effettuare una biopsia di nervo per raggiungere una diagnosi eziologica. Abitualmente si esegue il prelievo bioptico da un nervo sensitivo, il nervo surale alla caviglia, da cui spesso residua una ipoestesia superficiale che può essere transitoria o permanente. Vi sono poche indicazioni per utilizzare questa tecnica invasiva, la principale delle quali è una forma di neuropatia multifocale asimmetrica che potrebbe essere sottesa da vasculite, amiloidosi, lebbra, sarcoidosi. La biopsia di nervo è utile anche quando uno o più nervi cutanei risultano ingranditi alla palpazione (patologia infiammatoria versus tumorale). Recentemente nella diagnostica delle polineuropatie sensitive pure, con normalità degli esami
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elettrofisiologici, è stata introdotta la biopsia di cute (FIG. 22.4), eseguita mediante “punch” cutaneo, in genere su regioni distali non glabre degli arti. Questa tecnica prevede la valutazione quantitativa e qualitativa dell’innervazione dell’epidermide, sfruttando la immunoreattività delle fibre nervose intraepidermiche al marcatore protein gene product 9.5. Riveste una discreta utilità nella valutazione delle neuropatie sensitive con interessamento delle piccole fibre mielinizzate, come per esempio nella neuropatia diabetica o nelle neuropatie dolorose (VEDI FOCUS ON: NEUROPATIE DOLOROSE, IN QUESTA PAGINA).
FIGURA 22.4 Biopsia cutanea. Normale rappresentazione delle fibre intraepidermiche colorate con un anticorpo anti-PGP 9.5 (sinistra) con evidente riduzione della densità in un caso di neuropatia diabetica (destra) (per gentile concessione di G. Lauria). Altri esami diagnostici comprendono: • esami bioumorali di routine: emocromo, glicemia basale e dopo carico orale, azotemia, creatininemia, test di funzionalità epatica associati a sierologia per epatite virale, elettroforesi delle proteine sieriche, ormoni tiroidei, VES, test reumatici, esame delle urine eventualmente con ricerca di una proteinuria di Bence-Jones; • esami bioumorali specifici: dosaggio delle immunoglobuline sieriche e immunofissazione, dosaggio anticorpi antigangliosidi o anticomponenti della mielina; • esame del liquor cefalorachidiano: utile per la dimostrazione di una dissociazione albumino-citologica nelle poliradicoloneuropatie infiammatorie demielinizzanti, caratterizzata da un’iperproteinorrachia e
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normale conta cellulare.
FOCUS ON NEUROPATIE DOLOROSE • Il dolore neurogeno è una risposta patologica a uno stimolo non nocicettivo, dovuta a una lesione o disfunzione del sistema nervoso centrale o periferico. Le neuropatie dolorose sono una delle cause periferiche di dolore neurogeno. • Le neuropatie dolorose si caratterizzano per una dissociazione tra entità del dolore ed entità del deficit sensitivo. Nell’area algica, infatti, la sensibilità tatto-puntoria può essere ridotta, aumentata o normale. • Le cause più comuni di neuropatie dolorose di tipo distale simmetrico sono il diabete, l’intolleranza glucidica, le cause iatrogene (chemioterapici) e carenziali (deficit di vitamine del gruppo B).
CLASSIFICAZIONE DELLE PATOLOGIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO Le possibilità di classificazione nosologica delle neuropatie periferiche sono varie: si può utilizzare una classificazione topografica, una classificazione eziologica o una classificazione clinico-strumentale. Per maggiore praticità viene qui proposta una classificazione topografica basata sulle sedi di lesione, secondo la quale si possono identificare: 1. le radicolopatie, le multiradicolopatie e le poliradicolopatie, a seconda che sia interessata rispettivamente una singola radice, più radici contigue o lesioni radicolari diffuse (VEDI CAP. 11);
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2. le patologie del ganglio spinale o ganglionopatie; 3. le plessopatie; 4. le patologie dei tronchi nervosi, a valle dei plessi. Queste ultime a loro volta si classificano in: – mononeuropatie per lesione del singolo tronco nervoso; – mononeuropatie multiple o multineuropatie per un interessamento multifocale simultaneo o successivo di più nervi non contigui e asimmetrici; – polineuropatie per un deficit bilaterale, simmetrico e sincrono di diversi nervi. Inoltre in caso di danno diffuso sia distale che prossimale che coinvolge contemporaneamente oltre al tronco nervoso le radici spinali si parla di poliradicoloneuropatie. Nelle neuropatie periferiche la distribuzione del deficit neurologico periferico fornisce importanti suggerimenti per una diagnosi eziologica. Esiste, infatti, una correlazione tra sede del danno e meccanismo che lo ha determinato, che va sotto il nome di vulnerabilità elettiva topografica, in base alla quale determinati processi fisiopatologici agiscono con maggiore frequenza in specifiche sedi piuttosto che in altre. Nelle radicolopatie, per esempio, come nelle lesioni dei singoli tronchi nervosi, prevale un’eziologia meccanica, su base traumatica o compressiva; nelle mononeuropatie multiple più frequentemente la causa è da ricercarsi in processi vasculitici; nelle polineuropatie, invece, il meccanismo è in genere primitivamente neuronale con eziologie differenti (metabolica, tossica, degenerativa, genetica); infine le poliradicoloneuropatie hanno come meccanismi elettivi quello infiammatorio e disimmune. Per un approfondimento sulla sintomatologia delle neuropatie, VEDI FOCUS ON: SINTOMI E SEGNI DELLE NEUROPATIE, IN QUESTA PAGINA. La diagnostica differenziale delle neuropatie periferiche deve comprendere le patologie del primo e/o secondo motoneurone come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o l’atrofia muscolare spinale (SMA), le miopatie, le patologie della placca neuromuscolare. Non bisogna inoltre dimenticare che sintomi dolorosi o parestesici di una neuropatia periferica possono facilmente entrare nella diagnostica differenziale di malattie di tipo ortopedico o vascolare periferico.
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FOCUS ON SINTOMI E SEGNI DELLE NEUROPATIE 1. Segni motori: – negativi: paresi o paralisi flaccida, atrofia o ipotrofia da denervazione, abolizione dei riflessi osteotendinei; – positivi: fibrillazioni, fascicolazioni e miochimie. 2. Segni sensitivi: – negativi: ipo-anestesia. Possono essere coinvolte sia le sensibilità superficiali (ipoestesia termodolorifica) per un danno delle piccole fibre, sia le sensibilità profonde (atassia sensitiva, ipopallestesia) nel caso di interessamento delle grandi fibre mieliniche; – positivi: parestesie e dolore spontaneo, disestesie, iperalgesia, causalgia. 3. Sintomi vegetativi: alterazioni della motilità pupillare, ipotensione ortostatica, tachicardia a riposo, turbe della sudorazione, impotenza, disfunzioni urogenitali (impotenza erigendi e atonia vescicale) e alterazioni gastrointestinali (vomito postprandiale e diarrea notturna, ulcere cutanee). 4. Turbe trofiche: alterazioni cutanee (cute liscia, sottile, anelastica, ipercheratosica e fragile), muscolari (ipo/atrofia) e ossee.
GANGLIONOPATIE La compromissione dei gangli spinali avviene tipicamente in corso di infezione da herpes zoster. Il virus, dopo essere penetrato nell’organismo e aver determinato come prima manifestazione un’eruzione varicellosa, rimane latente nei gangli sensitivi. In condizioni di relativa immunosoppressione il virus riprende a replicarsi, determinando così la patologia. Il primo sintomo è un intenso dolore di tipo urente a distribuzione metamerica, più frequentemente al tronco. Dopo 3-4 giorni compaiono nello stesso territorio
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delle vescicole contenenti un liquido chiaro e sieroso che può andare incontro a sovrainfezione e diventare purulento. In seguito le vescicole si essiccano formando una crosta da cui, in taluni casi, può risultare una cicatrice indelebile. Generalmente, la sintomatologia è unilaterale e interessa una radice nervosa. I gangli spinali più colpiti sono i dorsali e i lombari, meno i cervicali e sacrali. Le possibili complicanze sono una nevralgia posterpetica, con dolori violenti, subcontinui che persistono per mesi o anni, difficili da trattare. Altre condizioni che possono portare a una ganglionopatia sono cause dismetaboliche (amiloidosi, eccesso di vitamina B6), forme paraneoplastiche, autoimmuni (sindrome di Sjögren), tossiche (antiblastici, soprattutto il cisplatino), ereditarie (morbo di Tangier). In questi casi il coinvolgimento dei gangli della radice dorsale è diffuso, con un interessamento selettivo dei neuroni di maggior calibro, vale a dire quelli delle sensibilità profonde, comportando così una dissociazione simil-tabetica delle sensibilità a distribuzione polineuropatica e abolizione dei riflessi osteotendinei. La forza può essere sostanzialmente conservata; vi può essere un interessamento marcato delle parti prossimali del corpo, come faccia, mucosa orale, cuoio capelluto, tronco e genitali.
PLESSOPATIE I plessi sono un sistema di anastomosi tra contingenti di fibre che originano da radici contigue. Si dividono in plesso cervicale, brachiale e lombosacrale.
Plesso cervicale È costituito dai rami anteriori dei nervi spinali C1C4. I rami sensitivi sono preposti all’innervazione della cute della regione anterolaterale del collo, mentre la principale branca motoria è rappresentata dal nervo frenico, deputato all’innervazione del muscolo diaframma; la sua lesione determina paralisi dell’emidiaframma omolaterale con risalita dello stesso e ipomobilità. Cause di lesione del nervo frenico possono essere traumi, compressioni o patologie infiltrative.
Plesso brachiale
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È costituito da: • un tronco primario superiore: dall’unione dei rami anteriori dei nervi spinali C5 e C6; • un tronco intermedio: dal ramo anteriore del nervo spinale C7; • un tronco primario inferiore: dall’unione dei rami anteriori dei nervi spinali C8 e T1. I tronchi primari a loro volta si dividono in rami posteriori e anteriori. I tre rami posteriori si fondono a formare la corda secondaria posteriore; i primi due rami anteriori formano la corda secondaria laterale; il ramo anteriore del tronco primario inferiore procede indipendentemente a formare la corda secondaria mediale. Il plesso brachiale dà origine a quattro rami terminali lunghi per l’arto superiore: il nervo radiale, il nervo ulnare, il nervo muscolocutaneo e il nervo mediano. Dal plesso brachiale nascono anche rami collaterali brevi per il cingolo scapolare. Sono cause di lesione del plesso brachiale: 1. traumi: il plesso brachiale è maggiormente esposto a traumi per la sua sede relativamente superficiale e per i rapporti con la spalla e il collo. Le cause traumatiche sono per lo più da stiramento diretto per violento spostamento del capo e del collo dalla spalla o per forzato movimento della spalla verso il basso. Questi eventi si verificano più frequentemente nei motociclisti a seguito di incidenti stradali, negli infortuni sul lavoro o nei traumi ostetrici. L’insulto meccanico può essere acuto o progressivo, e singolo o ripetuto nel tempo sotto forma di microtraumatismi, specie nella patologia professionale. Le conseguenze dei traumatismi possono essere diverse a seconda dell’entità del singolo insulto meccanico, della sua durata o anche dal numero dei traumi subiti. La lesione traumatica di un nervo può determinare in ordine di gravità crescente: neuroaprassia, assonotmesi e neurotmesi. La neuroaprassia è un disturbo temporaneo della funzione del nervo; in genere è dovuta a compressioni acute o subacute di lieve entità, con un danno elettivo della componente mielinica, senza alterazioni a carico dell’assone. Dal punto di vista clinico si caratterizza per un danno motorio più marcato rispetto a quello sensitivo,
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compromissione del trofismo muscolare e recupero motorio tra le 2 settimane e i 4 mesi dal trauma, frequenti fenomeni sensitivi irritativi. L’assonotmesi è caratterizzata, invece, da un’interruzione sia della guaina mielinica che dell’assone (degenerazione walleriana), ma con conservazione delle guaine connettivali di sostegno che permettono in tal modo la rigenerazione delle fibre nervose. Il recupero è strettamente dipendente dalla distanza che gli assoni in rigenerazione devono compiere per raggiungere il tessuto bersaglio; procede con una velocità di 1 mm/die: sarà quindi più rapido se la distanza è breve, viceversa più lento se maggiore è il percorso da effettuare. Il terzo livello di gravità è rappresentato dalla neurotmesi, in cui si verifica una completa sezione del nervo. Questo comporta una perdita totale della funzione nervosa e l’impossibilità alla rigenerazione spontanea per un divaricamento tra i due monconi nervosi e per l’interposizione di tessuto cicatriziale. In questi casi è necessaria una sutura chirurgica del moncone; 2. infiltrazione neoplastica: è importante escludere all’origine di una plessopatia brachiale un tumore dell’apice polmonare (sindrome di Pancoast) o un tumore della mammella; 3. sindrome dello stretto (“outlet”) toracico o dello scaleno anteriore: è caratterizzata dalla presenza di una costa cervicale soprannumeraria o di un fascio connettivale che si estende dall’apofisi di C7 alla prima costa che comprimono il plesso brachiale e talvolta l’arteria succlavia. Sintomi caratteristici sono: ipostenia e ipotrofia dei muscoli della mano, soprattutto quelli dell’eminenza tenar, parestesie lungo la superficie mediale dell’arto superiore che cessano con il sollevamento del braccio sopra la testa. Inoltre vi possono essere segni vascolari, come il fenomeno di Raynaud o iposfigmia del polso radiale. Il trattamento è chirurgico e consiste nella risoluzione del difetto anatomico; 4. amiotrofia neuralgica del cingolo scapolare o sindrome di ParsonageTurner: è una neuropatia acuta del plesso brachiale che esordisce con dolori intensi nella regione della spalla che si irradiano all’arto superiore e si protraggono per 1-3 settimane. Quando i dolori iniziano ad attenuarsi compaiono paresi e ipotrofia muscolare. I muscoli sono dolenti alla palpazione e alla mobilizzazione passiva. L’interessamento è unilaterale, ma talvolta possono essere colpite entrambe le braccia in successione. Rari sono, invece, i deficit sensitivi. È una neuropatia idiopatica, la cui causa non è esattamente nota. Spesso compare in seguito a una malattia infettiva
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o a una vaccinazione, per cui è stato ipotizzato alla base un meccanismo immunomediato. Esistono anche forme ereditarie, autosomiche dominanti, caratterizzate da una maggiore tendenza alla recidiva. Il trattamento consiste nell’uso di antinfiammatori e immunosoppressori (steroidi e talvolta immunoglobuline per via endovenosa). SINDROMI DEL PLESSO BRACHIALE. Rientrano nelle sindromi del plesso brachiale i seguenti quadri clinici: 1. sindrome superiore o di Duchenne-Erb (C5C6): clinicamente l’arto appare inerte lungo il tronco, esteso al gomito, in adduzione e rotazione interna per l’azione dei muscoli sottoscapolare, grande rotondo e grande dorsale (innervati da C7). Vi è una marcata atrofia del cingolo scapolare e della parte anteriore del braccio (deltoide, sopraspinato, sottospinato e bicipite) con riduzione dei movimenti di spalla e gomito, in particolar modo di abduzione (deltoide), rotazione esterna (sottospinato e piccolo rotondo) e flessione e supinazione dell’avambraccio (bicipite, brachioradiale, brachiale e supinatore). Sono mantenuti invece i movimenti del polso e delle dita. Il riflesso bicipitale e radioflessore sono aboliti. Vi è un’ipoestesia lungo la superficie esterna del braccio e dell’avambraccio; 2. sindrome media o di Remak (C7): il deficit motorio interessa l’estensione della mano e delle dita e parzialmente l’estensione dell’avambraccio (tricipite); il riflesso tricipitale è ridotto o assente; il deficit sensitivo interessa il 2°, 3° e 4° dito; 3. sindrome inferiore o di Déjérine-Klumpke (C8-T1): il deficit motorio interessa i piccoli muscoli della mano che tende ad assumere un atteggiamento ad artiglio per il prevalere degli estensori e flessori lunghi che estendono la falange prossimale e flettono le distali; sono aboliti i movimenti di abduzione e adduzione delle dita, la flessione della falange prossimale e l’opposizione del mignolo e del pollice; vi è ipotrofia degli interossei e dell’eminenza tenar e ipotenar; il deficit sensitivo si estende lungo il margine ulnare dell’avambraccio e della mano.
Plesso lombosacrale Il plesso lombosacrale è costituito dai rami anteriori dei nervi spinali L1-S4 e comprende il plesso lombare (L1-L4) e il plesso sacrale (L5-S4).
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Tra le cause di lesione del plesso lombosacrale va ricordato che le lesioni traumatiche indirette sono rare poiché il plesso è protetto da solide strutture ossee e muscolari, mentre nei traumi diretti la sintomatologia specifica è oscurata dalle concomitanti lesioni viscerali. Le cause più frequenti comprendono: 1. infiltrazioni neoplastiche a origine dei visceri pelvici o dei linfonodi retroperitoneali; 2. emorragie e ascessi retroperitoneali; 3. cause ginecologiche: parti laboriosi, interventi chirurgici, endometriosi; 4. neuropatia idiopatica del plesso lombosacrale: per esempio, quella del plesso brachiale esordisce con dolori intensi che si irradiano alla faccia anteriore della coscia o al gluteo. In seguito compaiono amiotrofia e paresi. La prognosi è generalmente buona, con parziale recupero del deficit motorio. La causa sembra essere di natura immunomediata. SINDROMI DEL PLESSO LOMBOSACRALE. I deficit sensitivomotori si distribuiscono nel territorio dei rami terminali lunghi del plesso lombare (nervo otturatore, nervo femorale e femorocutaneo) e/o del plesso sacrale (nervo sciatico). Una lesione delle radici più alte (L1-L2) determina un deficit della flessione della coscia sul bacino (ileopsoas) e dell’estensione della gamba sulla coscia (quadricipite). Il deficit sensitivo interessa la superficie anteriore e mediale della coscia; il riflesso rotuleo è assente. Una lesione delle radici più basse (L3-L4) comporta un deficit dell’estensione della gamba (quadricipite), un marcato deficit dell’adduzione della coscia (adduttori grande, breve e lungo, pettineo e gracile) e scomparsa del riflesso adduttore della coscia. Il quadro clinico da lesione del plesso sacrale è sovrapponibile a quello che si rileva nella lesione del nervo sciatico.
PATOLOGIE DEI TRONCHI NERVOSI Mononeuropatie
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KEY POINTS Le mononeuropatie sono patologie a carico di un singolo tronco nervoso. La più comune mononeuropatia brachiale è la sindrome del tunnel carpale, dovuta a un intrappolamento del nervo mediano a livello del canale del carpo. La sintomatologia è inizialmente sensitiva soggettiva, sotto forma di parestesie lungo le prime tre dita della mano e a livello dell’eminenza tenar, poi compaiono i deficit sensitivi e motori. La più comune mononeuropatia crurale è a carico del nervo sciatico o di una delle sue due diramazioni, il nervo peroneo comune o il nervo tibiale. Una lesione completa del nervo sciatico comporta impossibilità a flettere la gamba sulla coscia, a muovere tutti i muscoli della gamba, caduta del piede in avanti (steppage) durante la deambulazione, ipotrofia dei muscoli posteriori della coscia e di tutta la gamba, assenza del riflesso achilleo e medioplantare, ipoestesia nella superficie anteroesterna della gamba e di tutto il piede. La lesione del nervo peroneo comune determina l’impossibilità alla flessione dorsale del piede e incapacità a camminare sui talloni. La lesione del nervo tibiale impedisce la flessione plantare del piede e la camminata sulle punte. Le mononeuropatie sono caratterizzate da un danno focalizzato a un singolo tronco nervoso. Le cause possibili sono: • sindromi da intrappolamento: le neuropatie da intrappolamento o sindromi canalari sono le forme più frequenti di mononeuropatia tronculare e interessano quei tronchi nervosi che decorrono all’interno di guaine o di canali osteotendinei. Un nervo, nel suo percorso attraverso un canale stretto, viene intrappolato e sottoposto a forze di trazione o di compressione costanti che portano a un ispessimento dell’epinevrio e del perinevrio. La funzione nervosa viene gradualmente compromessa, prima sul versante sensitivo poi su quello motorio. I canali osteotendinei possono andare incontro a restringimento per diversi motivi: dismetabolici (diabete mellito, ipotiroidismo, acromegalia), connettivopatie, fattori locali
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(rimaneggiamenti su base artritica o traumatica), condizioni parafisiologiche (gravidanza) o forme iatrogene (steroidi, estrogeni). Le sindromi da intrappolamento presentano tipicamente un ritardo di conduzione dell’impulso nervoso, fino al blocco completo della conduzione; a livello del sito di intrappolamento e nelle forme più gravi si può verificare una degenerazione walleriana a valle del sito di intrappolamento con denervazione muscolare. I nervi più frequentemente interessati sono il mediano, l’ulnare, il peroneo, il tibiale e il plantare (TAB. 22.1); TABELLA 22.1 Neuropatie da intrappolamento
• agenti meccanici: comprendono traumi maggiori (fratture, atti chirurgici) che possono provocare una compressione, un’interruzione parziale o totale della continuità del nervo, e microtraumi ripetuti, legati a mantenimento prolungato di una postura anomala come avviene in alcuni ambiti professionali; • agenti termici, elettrici, radiazioni; • ischemia; • infiltrazione granulomatosa o neoplastica; • tumore primitivo del nervo (schwannoma).
Mononeuropatie brachiali NERVO MUSCOLOCUTANEO (C5-C6). La sua lesione isolata è rara e in genere dovuta a frattura dell’omero.
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NERVO RADIALE (C5-T1). Lesioni del nervo possono localizzarsi in sede prossimale alta per fratture omerali o utilizzo prolungato di stampelle, al terzo medio del braccio per prolungato mantenimento di posture anomale (compressione sul bordo del tavolo detta “paralisi del bevitore” o sul bracciolo di una poltrona) o al gomito per fratture sovracondiloidee dell’omero o lussazioni della testa del radio. Il sintomo tipico di una lesione del nervo radiale è l’incapacità di estendere dorsalmente mano e dita. La lesione completa del nervo radiale comporta: paralisi dell’estensione dell’avambraccio, paralisi dell’estensione del carpo, paralisi dell’estensore della prima falange delle dita, paralisi dell’estensione e dell’abduzione del pollice, deficit della supinazione quando l’avambraccio è esteso, caduta della mano ad avambraccio pronato e flesso al gomito (mano pendula) per impossibilità a fissare il carpo in estensione; sensibilità compromessa sulla faccia posteriore dell’avambraccio e in una piccola area sul lato radiale della superficie dorsale della mano; infine abolizione dei riflessi tricipitale e stiloradiale. Una lesione confinata al nervo interosseo posteriore interessa l’estensore comune delle dita, l’estensore dell’indice, gli estensori e l’adduttore lungo del pollice. Il nervo radiale superficiale in genere viene lesionato a livello del polso per un trauma o per compressione (per esempio in seguito all’uso di manette) determinando disturbi sensitivi sul lato dorsale della mano e delle prime dita. NERVO MEDIANO (C7-T1). Il nervo può essere leso: • in sede prossimale, all’ascella, nelle lussazioni della spalla e a ogni livello per traumi meccanici; • nel braccio per fratture dell’omero o per alterazioni vascolari (aneurismi dell’arteria ascellare); • al gomito per fratture sovracondiloidee o fratture di radio e ulna; • al polso, frequentemente, per ferite da taglio o fratture del radio e soprattutto per compressione nel canale carpale (sindrome del tunnel carpale). Neuropatie del nervo mediano a livello della mano spesso sono l’espressione di malattie occupazionali. Una lesione completa del nervo comporta una compromissione di tutti i muscoli innervati e pertanto deficit della pronazione dell’avambraccio, della flessione del polso, della flessione
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della seconda falange delle ultime quattro dita della mano e della flessione delle falangi prossimali e distali del secondo e terzo dito; inoltre ipo-anestesia della metà radiale della superficie palmare della mano e delle prime tre dita e delle falangi distali dell’indice e del medio. In caso di lesioni del nervo a livello della mano si avranno un deficit di abduzione e opposizione del pollice e un deficit di flessione della falange distale del primo dito. La sindrome del tunnel carpale è il risultato di una compromissione del nervo mediano al polso e costituisce la più comune mononeuropatia da intrappolamento e la più frequente patologia del nervo mediano. È una patologia che si manifesta soprattutto nel sesso femminile in età adulta (30-60 anni) e nei due terzi dei casi la causa rimane sconosciuta (forme idiopatiche). Nel restante 30% dei casi la causa può essere: • professionale: tutte le situazioni lavorative in cui vi è un uso eccessivo del polso; • infiltrazioni infiammatorie dei tessuti costituenti il tunnel carpale o i tendini: tenosinoviti isolate o in corso di artrite reumatoide o altre connettiviti; • tumefazione dei tessuti molli: ipotiroidismo, acromegalia, amiloidosi, gravidanza; • diabete mellito; • neuropatia ereditaria. La sintomatologia è soprattutto di tipo irritativo, sotto forma di parestesie e formicolii nel territorio di distribuzione del nervo mediano, cioè alle prime tre dita della mano e all’eminenza tenar. Queste manifestazioni sono inizialmente notturne e il soggetto riferisce una sensazione di “addormentamento” delle prime tre dita della mano che spesso è causa di risveglio. I disturbi sensitivi oggettivi e il deficit motorio compaiono più tardivamente e sono costituiti da ipoestesia in corrispondenza della superficie palmare delle prime tre dita e limitazione dei movimenti di opposizione e abduzione palmare del pollice, fino all’atrofia dell’eminenza tenar. I disturbi più tipici sono l’impossibilità a flettere la seconda falange dell’indice e del medio tenendo ferma la falange prossimale e l’impossibilità ad afferrare un oggetto tra la punta del pollice e la punta di un altro dito. Spesso la sindrome del tunnel carpale è bilaterale. Alla diagnostica clinica si affianca quella neurofisiologica: la velocità di
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conduzione sensitiva nella porzione tra il dito e il polso risulta essere rallentata, a differenza invece della porzione successiva tra il polso e il gomito, dove non si ha un rallentamento della velocità di conduzione. Questa discrepanza è indicativa di una lesione del nervo al polso. Un altro dato elettroneurografico è l’aumento della latenza distale motoria nel tratto tra il polso e l’eminenza tenar, che talvolta può essere l’espressione di un danno subclinico, apprezzabile solo con l’ENG ma non clinicamente. La terapia può essere conservativa (uso di tutori) o chirurgica ed è indicata qualora i sintomi interferiscano con le attività quotidiane. La terapia chirurgica va riservata ai casi più gravi e consiste nella decompressione del nervo attraverso resezione chirurgica del legamento palmare del carpo. Un altro sito di compressione del nervo mediano è al gomito, dove il nervo passa tra i due capi del pronatore rotondo, determinando la sindrome del pronatore rotondo, caratterizzata da intenso dolore alla pronazione vigorosa dell’avambraccio e deficit nella flessione dell’ultima falange del pollice e dell’indice. NERVO ULNARE (C8-T1). Il nervo ulnare è soggetto a compressioni a livello dell’ascella (per esempio in seguito all’uso di stampelle), ma viene leso più spesso al gomito, nella doccia olecranica o nel tunnel cubitale, per una frattura dell’omero o per mantenimento prolungato del gomito in iperflessione o per compressione da tumefazione dei tessuti molli. Ci può essere anche una paralisi tardiva che si verifica a distanza di anni da una lesione del gomito che ha provocato una deformazione in valgismo dell’articolazione: il nervo viene infatti stirato nella sua doccia sopra il condilo ulnare e la sua posizione superficiale lo rende vulnerabile alla compressione. Un’altra sede di compressione si trova appena distalmente all’epicondilo mediale, dove il tronco nervoso decorre sotto l’aponeurosi del flessore ulnare del carpo (tunnel cubitale); la flessione del gomito determina il restringimento del tunnel e la costrizione del nervo. Un ulteriore possibile sito di compressione è il tunnel ulnare del polso: la pressione prolungata sul lato mediale del palmo può danneggiare la branca profonda del nervo ulnare, con perdita di forza dei piccoli muscoli della mano. Questa sede è interessata più frequentemente in alcune figure professionali, dove si impugnano con forza attrezzi o utensili. La lesione completa del nervo ulnare determina l’atteggiamento ad artiglio della mano con il mignolo e l’anulare iperestesi alle articolazioni metacarpofalangee e flessi alla prima articolazione
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interfalangea. Inoltre si ha deficit della flessione del polso, della flessione delle falangi distali del quarto e quinto dito, della flessione della falange prossimale e dell’estensione delle falangi distali delle dita, dell’abduzione e adduzione delle dita, dell’abduzione e opposizione del mignolo, dell’adduzione del pollice. La paralisi dell’adduzione del pollice si mette in evidenza con il segno di Froment, che consiste nel chiedere al paziente di trattenere un foglio di carta tra indice e pollice: mentre ciò normalmente viene fatto afferrando il foglio tra la falange distale del pollice mantenuto esteso e la superficie radiale dell’indice che è mantenuto flesso, nella lesione del nervo ulnare il paziente è costretto a flettere la falange distale del pollice, mettendo in azione il flessore lungo, innervato dal nervo mediano. Nella lesione del nervo inoltre si ha ipotrofia del lato ulnare della faccia anteriore dell’avambraccio, degli spazi interossei, dell’eminenza ipotenar e della metà ulnare dell’eminenza tenar. Il deficit sensitivo si estende lungo il bordo ulnare della mano, sul mignolo e la metà ulnare dell’anulare. In caso di lesioni al polso solo i piccoli muscoli della mano risultano compromessi. La sede della lesione può essere localizzata attraverso lo studio delle velocità di conduzione.
Mononeuropatie crurali NERVO CUTANEO LATERALE DELLA COSCIA (L2-L3). Le cause di sofferenza di tale nervo sono: intrappolamenti a livello del legamento inguinale per compressione prolungata contro un piano rigido o per malposizionamenti durante interventi chirurgici, neoplasie addominali, gravidanza, ematomi dell’ileopsoas. La lesione del nervo cutaneo laterale della coscia determina una sintomatologia sensitiva, detta meralgia parestesica (meros = coscia), caratterizzata da parestesie o dolori sulla superficie esterna della coscia e ipersensibilità agli abiti. La sensibilità tatto-puntoria risulta ridotta nel territorio di distribuzione del nervo, mentre non vi sono deficit motori a carico del quadricipite o alterazioni del riflesso rotuleo. I sintomi sono aggravati dalla stazione eretta prolungata e dalla marcia, mentre sono alleviati col riposo. NERVO OTTURATORIO (L2-L4). Possibili cause di lesione del nervo otturatorio sono tumori della pelvi, ernie o la compressione prolungata da parte della testa fetale in corso di travaglio di parto distocico. Clinicamente in
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caso di lesione si osserva un deficit dell’adduzione della coscia e atrofia della faccia mediale della coscia. I disturbi sensitivi sono confinati alla metà inferiore della superficie mediale della coscia. NERVO FEMORALE (L2-L4). La lesione completa del nervo femorale si manifesta con deficit della flessione della coscia sul bacino e dell’estensione della gamba sulla coscia, ipo-atrofia del muscolo quadricipite, assenza del riflesso rotuleo e infine ipo-anestesia della superficie anteromediale dell’arto. Cause di lesioni del nervo femorale sono: tumori del piccolo bacino, fratture della pelvi, ematomi o ascessi del muscolo psoas e diabete. Nei soggetti in terapia con anticoagulante orale una causa relativamente frequente di neuropatia femorale è il sanguinamento nel muscolo iliaco o nel retroperitoneo. Il sintomo d’esordio di un ematoma iliaco è costituito da dolore all’inguine che si estende alla regione lombare e alla coscia, con atteggiamento caratteristico in flessione e rotazione laterale dell’anca. NERVO SCIATICO (L4-S3). La lesione del tronco comune del nervo sciatico può avvenire per fratture dell’anca, in corso di intervento chirurgico di artroprotesi d’anca, per compressione esterna (per esempio nell’allettamento prolungato), per neoplasie, gravidanza, ematomi glutei o endometriosi. Nella paralisi completa del nervo sciatico si ha: impossibilità a flettere la gamba sulla coscia e a muovere tutti i muscoli della gamba, caduta del piede in avanti (steppage) nella deambulazione, ipo-atrofia dei muscoli posteriori della coscia e di tutta la muscolatura della gamba, assenza del riflesso achilleo e medioplantare, ipoestesia tatto-puntoria nella superficie anteroesterna della gamba e di tutto il piede, a esclusione di una piccola zona sotto il malleolo interno innervata dal nervo safeno (ramo del nervo femorale). Si possono avere anche disturbi vasomotori e trofici a carico della gamba. Spesso il sintomo prevalente è il dolore (sciatalgia), localizzato alla regione sacroiliaca o esteso lungo la faccia posteriore della coscia fino al ginocchio o addirittura fino alla superficie esterna del piede. Il dolore può essere evocato sollevando l’arto esteso con il paziente in posizione supina (segno di Lasègue). NERVO PERONEO COMUNE O SCIATICO POPLITEO ESTERNO (L4-S1). La lesione completa del nervo peroneo comune comporta paralisi della flessione dorsale del piede, della flessione dorsale dell’alluce, del sollevamento del margine
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mediale del piede (muscolo tibiale anteriore) e del margine laterale del piede (muscoli peroneo lungo e breve), ipo-atrofia della muscolatura della loggia anteriore della gamba, disturbi sensitivi al piede (in quanto le lesioni avvengono più frequentemente a livello della fibula, dopo che si è staccato il ramo collaterale per l’innervazione sensitiva della gamba). Clinicamente la neuropatia del nervo peroneo comune è facilmente individuabile grazie alla caratteristica andatura che assume il paziente: egli non è in grado di sollevare la punta del piede e nel fare il passo deve esageratamente alzare la coscia per evitare di inciampare, non è inoltre in grado di camminare sui talloni né di sollevare la punta del piede in piedi o da seduto. Le cause di sofferenza del nervo peroneo comune sono prevalentemente di natura compressiva, specialmente nel punto in cui il nervo circonda il capitello del perone. Pertanto comprendono fratture della testa della tibia o del perone, bendaggi gessati, posizione seduta prolungata con le gambe accavallate, importanti dimagrimenti, cisti di Baker nello spazio retropopliteo. Il nervo peroneo è particolarmente sensibile a fenomeni ischemici, in quanto i vasi nutritizi sono superficiali e quindi più facilmente comprimibili. NERVO TIBIALE O SCIATICO POPLITEO INTERNO (L5-S3). La causa più comune di neuropatia tibiale è la sindrome da intrappolamento nel tunnel tarsale, dove il nervo decorre sotto il retinacolo dei flessori: dopo aver camminato per lungo tempo o dopo posizioni erette prolungate il soggetto avverte un dolore urente alla pianta del piede, talora esteso prossimalmente lungo il nervo sciatico e parestesie alla pianta del piede. Una lesione del nervo tibiale clinicamente si caratterizza per l’impossibilità per il soggetto coricato a flettere plantarmente il piede, da seduto non riesce a sollevare il tallone dal pavimento e in piedi non riesce a camminare sulle punte dei piedi (TAB. 22.2). TABELLA 22.2 Riflessi superficiali e profondi
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Mononeuropatie multiple KEY POINTS Definizione. Mononeuropatie che interessano più nervi non contigui in modo simultaneo o successivo. Sintomi. Esordio asimmetrico dei sintomi, che possono poi diventare confluenti e simmetrici. Eziologia Meccanismo immunomediato. La causa più frequente è da ascriversi alle vasculiti sistemiche (poliartrite nodosa, sindrome di ChurgStrauss) o primitive del SNP. Diagnosi. Clinica, esami di laboratorio (VES, ANCA, crioglobuline, fattore reumatoide, test di Waaler Rose, anticorpi anti-DNA nativo, ACE, anticorpi anti-Borrelia).
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Le mononeuropatie multiple o multineuropatie sono caratterizzate da un interessamento multifocale, simultaneo o successivo, di più nervi non contigui. Inizialmente i nervi vengono interessati in modo asimmetrico, successivamente col progredire della malattia il danno neurologico può diventare più esteso e simmetrico, talora mimando una polineuropatia. Solo un’accurata anamnesi consente di individuarne il decorso progressivo. Per risalire alle cause di una multineuropatia, appare importante l’ausilio dei dati elettromiografici che permettono di differenziare le neuropatie assonali dalle demielinizzanti. Le forme assonali infatti sono abitualmente dovute a vasculiti sistemiche o primitive del sistema nervoso periferico, a malattie infettive come la lebbra o l’HIV, a malattie infiammatorie sistemiche come la sarcoidosi o metaboliche come il diabete (TAB. 22.3). Le forme demielinizzanti, invece, sono da ascrivere maggiormente a neuropatie ad eziologia immuno-mediata. TABELLA 22.3 Cause di mononeuropatie multiple Cause comuni • Poliartrite nodosa* • Vasculite isolata dei nervi periferici* • Granumolatosi di Wegener* • Diabete • Crioglobulinemia* • Sarcoidosi • Malattia di Lyme • HIV* Cause rare • Sarcoidosi • Cause paraneoplastiche • Amiloidosi • Lebbra • LES* • Artrite reumatoide* • Infiltrazione da leucemia-linfoma • Linfoma intravascolare
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* Possibile meccanismo vasculitico. Circa la metà dei casi di multineuropatia è dovuta a una vasculite sistemica dei vasa nervorum. Questa categoria comprende la poliartrite nodosa, la sindrome di Churg-Strauss, l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso, la sclerodermia, la crioglobulinemia, la granulomatosi di Wegener e una variante idiopatica di vasculite, limitata ai nervi cranici. Nell’ambito delle vasculiti sistemiche è bene ricordare la poliartrite nodosa, in cui la neuropatia rappresenta spesso il sintomo d’esordio della malattia, coinvolgendo preferenzialmente il nervo ulnare e il peroneo. Le multineuropatie associate a vasculiti (o mononeuriti multiple) hanno come meccanismo patogenetico l’infiammazione dei vasa nervorum dell’epinevrio. Questo processo infiammatorio è responsabile di un danno ischemico del nervo e in particolare dell’assone. La diagnosi si basa sull’anamnesi, sulla clinica (interessamento multiplo dei tronchi nervosi) e sui dati di laboratorio (VES, ANCA, crioglobuline, fattore reumatoide, test di Waaler Rose, anticorpi anti-DNA nativo, ACE, anticorpi anti-Borrelia). Nei casi di difficile interpretazione è opportuno ricorrere alla biopsia di nervo.
Polineuropatie e poliradicoloneuropatie KEY POINTS Definizione. Polineuropatie che interessano contemporaneamente più tronchi nervosi in modo bilaterale e simmetrico. Sintomi. Hanno tipicamente una distribuzione “a calza” e “a guanto”, con andamento disto-prossimale: l’esordio è in genere caratterizzato da sintomi sensitivi positivi (parestesie) ai piedi che poi si estendono alla porzione prossimale degli arti inferiori e alla parte distale degli arti superiori. In un secondo tempo compaiono deficit sensitivi, motori, iporeflessia e amiotrofia neurogena, secondo il medesimo ordine. Classificazione.
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Si dividono in acute e croniche. Tra le forme acute le più importanti sono quelle disimmuni e paraneoplastiche, mentre tra le croniche la CIDP, la neuropatia diabetica, le neuropatie tossiche, la neuropatia associata a gammopatia monoclonale e le forme ereditarie. Le polineuropatie si caratterizzano per una compromissione bilaterale, simmetrica e sincrona dei tronchi nervosi e sono in genere causate da fattori che agiscono in modo diffuso sul sistema nervoso periferico, come agenti tossici, malattie sistemiche, metaboliche, immuno-mediate o geneticamente determinate. Sono le forme più comuni di neuropatia periferica e sono dovute a un meccanismo patogenetico di degenerazione distale retrograda della fibra nervosa (dying back neuropathy). L’esordio è in genere caratterizzato da sintomi sensitivi positivi (parestesie) riferiti distalmente agli arti che si presentano con modalità simmetrica. In un secondo tempo compaiono deficit sensitivi e motori. I segni neurologici sono più marcati distalmente e prima ai piedi che alle mani. In genere si ha una progressiva riduzione con successiva scomparsa dei riflessi osteotendinei: scompaiono prima i riflessi più distali, quindi quelli achillei, i rotulei e gli stiloradiali. A lungo andare si verificano fenomeni amiotrofici, ossia di atrofia muscolare secondaria, e quindi anche riduzione del tono muscolare. Le polineuropatie hanno quindi una tipica distribuzione “a calza” e “a guanto”, con andamento centripeto disto-prossimale ai quattro arti, per cui esordiscono a livello dei piedi per poi progredire verso la porzione prossimale degli arti inferiori e verso la parte distale degli arti superiori. Il deficit sensitivo può interessare in modo più o meno selettivo le piccole o le grandi fibre nervose: una lesione predominante delle piccole fibre mieliniche e amieliniche è responsabile di sintomatologia dolorosa associata a ipoestesia distale termodolorifica, mentre un coinvolgimento predominante delle grandi fibre mieliniche dà luogo a parestesie e atassia sensitiva, per un’alterazione delle afferenze propriocettive. Spesso sono presenti anche disturbi disautonomici. La distinzione nell’ambito delle polineuropatie tra forme assonali e demielinizzanti può essere fatta solo attraverso l’ENG, che risulta pertanto essere un esame fondamentale per il completamento diagnostico. Le poliradicoloneuropatie sono caratterizzate da un danno diffuso sia
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distale che prossimale per contemporanea alterazione delle radici spinali e dei tronchi nervosi. Sulla base del criterio evolutivo possiamo riconoscere polineuropatie (e poliradicoloneuropatie) acute, subacute e croniche (TAB. 22.4). TABELLA 22.4 Classificazione delle polineuropatie acute, subacute e croniche
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Polineuropatie acute KEY POINTS Definizione. Poliradicoloneuropatia infiammatoria demielinizzante acuta. Clinica. Paralisi motoria acuta distale e iporeflessia ad andamento ascendente e simmetrico. Talora sintomi sensitivi, disautonomici e coinvolgimento dei nervi cranici (tipica la diplegia facciale). Eziologia. Immuno-mediata. Decorso. Ipostenia rapidamente progressiva che raggiunge il massimo grado di severità nelle prime 4 settimane, cui segue una fase di plateau.
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Nell’80% dei casi recupero in 6 mesi. Diagnosi. È clinica: può essere supportata dalla dissociazione albuminocitologica del liquor cefalorachidiano e/o dalle alterazioni riscontrate all’EMG/ENG. Terapia. Ig per via endovenosa 0,4 g/kg/die per 5 giorni. In alternativa plasmaferesi.
Sindrome di Guillain-Barrè La sindrome di Guillain-Barrè è una poliradicoloneuropatia infiammatoria che si manifesta con una grave ipostenia acuta distale ad andamento ascendente e simmetrico, con ipo-areflessia. Raggiunge la massima gravità entro quattro settimane dall’esordio e può associarsi a disturbi sensitivi e/o autonomici. L’incidenza è di 2 casi su 100 000 abitanti per anno, aumenta linearmente con l’età e gli uomini hanno un rischio 1,5 volte maggiore di essere colpiti. EZIOPATOGENESI. È una neuropatia di tipo immunomediato e studi su pazienti e animali hanno fornito prove convincenti del fatto che, almeno in alcuni casi, vi è una risposta immunitaria anomala, indotta da un’infezione che danneggia i nervi periferici. A dimostrazione di questo vi sono diversi elementi: 1. la presenza in circa la metà dei pazienti di anticorpi sierici contro gangliosidi dei nervi periferici umani, come GM1, GM1b, GM2, GQ1b; 2. in circa due terzi dei pazienti si è verificata un’infezione, spesso intestinale o respiratoria, nelle 2-3 settimane precedenti la comparsa dei disturbi motori acuti; 3. il riscontro di infiltrati infiammatori costituiti da linfociti attivati e macrofagi e l’attivazione del complemento, in prossimità dei nervi danneggiati, che ne causano la demielinizzazione segmentale. La causa di infezione più frequentemente identificata è Campylobacter jejuni; fra gli altri microrganismi correlati vi sono citomegalovirus, virus di
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EpsteinBarr, Mycoplasma pneumoniae e Haemophilus influenzae. I tipi di infezione che precedono la malattia e i fattori correlati all’ospite sembrano determinare la forma e la gravità della malattia. Il meccanismo causale che lega una precedente infezione a tale sindrome sembra essere il mimetismo molecolare e la conseguente cross-reattività dovuta a somiglianze antigeniche tra i glicolipidi mielinici e alcuni componenti dei microrganismi (FIG. 22.5). Diversi studi hanno documentato l’insorgenza della sindrome anche dopo vaccinazioni, interventi chirurgici o eventi stressanti.
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FIGURA 22.5 Ipotesi immunopatogenica della SGB associata a infezione da C. jejuni. I linfociti o cellule B riconoscono i glicoconiugati su C. jejuni (Cj) (triangoli), che cross-reagiscono con il ganglioside che si trova sulla superficie della cellula di Schwann e nella sottostante mielina del nervo periferico. Alcune cellule B, attivate attraverso un meccanismo indipendente dalle cellule T, secernono primariamente IgM (non segnalate nella figura). Altre cellule B (in alto a sinistra) vengono attivate attraverso un meccanismo parzialmente dipendente dalle cellule T e secernono primariamente IgG; l’aiuto da parte delle cellule T è fornito dai CD4 attivati localmente da frammenti di proteine del Cj, che sono presenti sulla superficie delle cellule presentanti l’antigene (antigen-presenting cells, APC). Un evento chiave nello sviluppo della SGB è costituito dalla fuga delle cellule B dalle placche di Peyer all’interno dei linfonodi locoregionali. Le cellule T attivate probabilmente hanno anche la funzione di adiuvanti nell’apertura della barriera sangue/nervo, facilitando la penetrazione degli autoanticorpi patogeni. Le alterazioni precoci nella mielina che riveste l’assone (a destra) consistono in edema fra le lamelle mieliniche e rottura delle vescicole (indicate come vescicole tondeggianti) degli stati mielinici più esterni. Tali effetti si associano all’attivazione del complesso d’attacco C5b-C9 di membrana e probabilmente sono mediati dall’ingresso di calcio; è possibile che anche la citochina macrografica “fattore di necrosi tumorale” (tumor necrosis factor, TNF) partecipi al danno mielinico. B, cellule B; MHC II, molecole del complesso maggiore di
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istocompatibilità (major histocompatibility complex) di classe II; TCR, recettore delle cellule T. Fonte: da Hauser, S.L. Harrison - Neurologia clinica. Milano: McGraw-Hill, 2007. DIAGNOSI. La diagnosi è prevalentemente clinica, ma gli esami neurofisiologici e la presenza di una dissociazione albumino-citologica nel liquor cefalorachidiano rappresentano un rilevante supporto alla diagnosi. I sintomi d’esordio comprendono intorpidimento, parestesie e ipostenia degli arti inferiori. All’esame neurologico si notano: • ipostenia rapidamente progressiva, bilaterale e relativamente simmetrica degli arti, con o senza coinvolgimento dei muscoli respiratori o dei nervi cranici; • areflessia o iporeflessia tendinea. L’ipostenia esordisce frequentemente agli arti inferiori, con successiva estensione al tronco e agli arti superiori, più raramente il deficit stenico inizia agli arti superiori per discendere agli inferiori. L’ipostenia può rapidamente estendersi ai muscoli intercostali e diaframmatici, con successiva insufficienza respiratoria fino alla necessità di ventilazione meccanica invasiva (fino ad un terzo dei casi). Le caratteristiche che supportano la diagnosi sono: • la progressione dei sintomi fino al quadro clinico completo nel 90% dei casi a 4 settimane; • la relativa simmetria dei sintomi; • la presenza di disturbi sensitivi oggettivi lievi (a fronte di frequenti sintomi soggettivi); • il coinvolgimento dei nervi cranici (in particolare l’ipostenia bilaterale dei muscoli facciali); • la presenza di disfunzione autonomica (turbe sfinteriche, aritmie cardiache, ipotensione, turbe vasomotorie); • il dolore. L’esame del liquor mostra tipicamente un aumento delle proteine con una normale conta leucocitaria (dissociazione albumino-citologica), anche se nella prima settimana la proteinorrachia può essere normale e aumentare solo
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a partire dalla seconda settimana dall’esordio dei sintomi. Bande oligoclonali IgG sono in genere presenti sia nel siero che nel liquor, ma tendono a scomparire nel tempo. Lo studio neurofisiologico è particolarmente utile per distinguere nell’ambito della sindrome di Guillan-Barrè le forme prevalentemente demielinizzanti da quella assonali. VARIANTI CLINICHE. L’entità e la distribuzione dell’ipostenia, il coinvolgimento sensoriale e le caratteristiche neurofisiologiche permettono di riconoscere diverse varianti di malattia. Il più comune sottotipo in Europa e in Nord America è la polineuropatia demielinizzante infiammatoria acuta, o AIDP. Esistono delle varianti cliniche della malattia fra cui la sindrome di Miller-Fischer, caratterizzata da areflessia, atassia e oftalmoplegia. Marker di questa forma sono gli anticorpi anti-GQ1b, presenti nel 90% dei casi. Meno del 5-10% dei pazienti ha uno dei sottotipi assonali, che vengono definiti, a seconda della contemporanea compromissione della sensibilità AMSAN (acute motor sensory axonal neuropathy) o AMAN (acute motor axonal neuropathy). Queste forme sono particolarmente diffuse in Estremo Oriente e nell’America del Sud e hanno un andamento repentino, con evoluzione fino all’insufficienza respiratoria in meno di una settimana. Nelle forme assonali l’aggressione immuno-mediata sembra dirigersi contro gli antigeni gangliosidici della membrana assonale a livello dei nodi di Ranvier. Esiste infine una forma con prevalente coinvolgimento del sistema nervoso autonomo, che va sotto il nome di pandisautonomia acuta. PROGNOSI. L’ipostenia rapidamente progressiva è la caratteristica clinica fondamentale. Per definizione il massimo grado di ipostenia viene raggiunto entro 4 settimane, anche se la maggior parte dei pazienti lo raggiunge nelle prime due. Alla fase acuta segue una fase di plateau che varia da giorni a settimane. La fase finale di recupero è di solito molto più lenta e nell’80% dei casi si completa in 4-6 mesi. I casi con prognosi più grave sono quelli con più rapido e diffuso deficit motorio e quelli che non mostrano segni di miglioramento entro tre settimane dal periodo di stato. Nel 5% dei pazienti può verificarsi una recidiva di malattia. TRATTAMENTO. Il trattamento della sindrome di Guillain-Barrè consta di due componenti: l’assistenza generale e la terapia specifica. I pazienti necessitano di un attento monitoraggio della funzione respiratoria, cardiaca e dei segni di
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disfunzione disautonomica (ileo paralitico, assenza del riflesso fotomotore). La terapia specifica, invece, consiste nella plasmaferesi e nell’uso di immunoglobuline endovena ad alto dosaggio. La plasmaferesi consente la rimozione di anticorpi circolanti, diretti contro le componenti della mielina, di citochine e fattori del complemento. Sono necessarie almeno 5 sedute in due settimane, con uno scambio totale di circa cinque litri di plasma. In caso di ricaduta alla sospensione del trattamento potrebbe essere necessario effettuare un secondo ciclo. Questo tipo di trattamento è sconsigliato nei pazienti con disturbi disautonomici e turbe cardiache. Le immunoglobuline endovena ad alto dosaggio (0,4 g/kg/die per 5 giorni) hanno mostrato risultati sovrapponibili alla plasmaferesi e talora sono il trattamento di scelta, vista la maggiore praticità e disponibilità. L’utilizzo di terapia cortisonica per via orale o endovenosa non ha mostrato alcuna efficacia. La combinazione di metilprednisolone endovena e immunoglobuline non è risultata più efficace delle immunoglobuline da sole.
Neuropatie tossinfettive Le neuropatie tossinfettive più comuni sono quelle che si manifestano di corso di botulismo e difterite. La neuropatia da botulismo deriva da un blocco del rilascio di acetilcolina a livello delle terminazioni nervose, con effetti a livello della giunzione neuromuscolare nei muscoli striati e a livello del sistema nervoso autonomo. I sintomi neurologici iniziano qualche ora o giorno dopo l’ingestione della tossina e comprendono: disturbi dell’oculomozione con midriasi areattiva, disturbi della fonazione e deglutizione, un deficit dei muscoli estensori del collo e della radice degli arti, paralisi vescicale e intestinale. Patognomonica è l’intensa secchezza delle fauci indotta dalla tossina a seguito della sua attività anticolinergica. La neuropatia difterica, invece, è causata dalla tossina difterica, che presenta un’azione selettiva sulle cellule di Schwann. In genere i sintomi compaiono dopo tre settimane dall’infezione. Il coinvolgimento degli arti è preceduto da paralisi del velo palatino e dell’accomodazione. Predominanti sono l’atassia, l’instabilità posturale e l’areflessia.
Neuropatie paraneoplastiche
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Il sistema nervoso periferico può essere interessato per infiltrazione diretta, compressione tumorale di tronchi nervosi o radici, per un effetto a distanza dei tumori o per un danno tossico da chemioterapici antiblastici. Le neuropatie paraneoplastiche compaiono più frequentemente in associazione a tumori del polmone, dell’ovaio, dello stomaco, del colon, della mammella, della tiroide, e talvolta possono essere la manifestazione rivelatrice di una neoplasia occulta di piccole dimensioni. Sembra che queste neuropatie siano il risultato di un attacco del sistema immunitario verso antigeni espressi sia dal tumore che da alcune popolazioni neuronali. La forma più tipica è la neuropatia sensitiva subacuta di Denny-Brown, associata in genere a un carcinoma a piccole cellule del polmone. Essa è caratterizzata da un’infiltrazione infiammatoria dei gangli spinali che porta a ganglionite e successiva rarefazione neuronale, con degenerazione delle fibre sensitive e dei cordoni posteriori del midollo. Dal punto di vista clinico esordisce con disestesie e dolori urenti ai quattro arti, con interessamento precoce delle mani, fino al tronco e alla faccia. Risulta essere maggiormente compromessa la sensibilità propriocettiva, con conseguente atassia sensitiva. I riflessi sono ridotti o aboliti. In certi casi è possibile riscontrare nel siero a scopo diagnostico la presenza di autoanticorpi diretti contro il nucleo neuronale o anticorpi anti-Hu. L’ENG evidenzia una grave sofferenza assonale con riduzione in ampiezza dei potenziali evocati sensitivi e relativo risparmio dei potenziali motori. Il trattamento precoce del tumore sottostante può permettere una stabilizzazione del quadro neurologico. In tutti i casi di neuropatia sensitiva pura a decorso subacuto e con importante sintomatologia dolorosa si deve procedere ad accertamenti clinici, bioumorali e radiologici per evidenziare una possibile neoplasia occulta, specie a livello polmonare.
Polineuropatie croniche Le cause delle polineuropatie croniche qui di seguito descritte sono estremamente varie e almeno nel 10-15% dei casi rimangono sconosciute.
Poliradicoloneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica (CIDP)
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Questa neuropatia presenta delle caratteristiche comuni alla sindrome di Guillain-Barrè: la compromissione radicolare e periferica, il danno prevalentemente mielinico, l’origine disimmune e la dissociazione albuminocitologica. Se ne differenzia tuttavia per un esordio più lento, un’evoluzione cronica, talora recidivante con ricadute e miglioramenti, l’assenza di eventi infettivi che precedono l’esordio dei sintomi, le caratteristiche dell’infiltrato e della demielinizzazione e la risposta alla terapia steroidea. Non deve essere considerata pertanto come una cronicizzazione di un episodio acuto di sindrome di Guillain-Barrè. La CIDP spesso è idiopatica, ma in certi casi può associarsi a una malattia sistemica come infezioni da HIV, epatite C, linfoma, melanoma o a una gammopatia monoclonale a significato indeterminato (MGUS), che va pertanto esclusa. DIAGNOSI. La presentazione clinica prevede un deficit motorio, in genere simmetrico, distale e prossimale, un deficit sensitivo (fino all’atassia) e un’areflessia diffusa. L’interessamento dei nervi cranici è meno frequente, anche se possibile con diplegia facciale, ipostenia dei muscoli masticatori e disartria. La diagnosi si basa sugli aspetti clinici, sui dati elettrofisiologici, sull’esame liquorale e sulla biopsia di nervo surale. Gli esami elettrofisiologici confermano il carattere demielinizzante delle lesioni, con un rallentamento della velocità di conduzione, l’allungamento della latenza distale e della latenza delle onde F e, talora, la presenza di blocchi di conduzione. Le proteine liquorali sono in genere aumentate, anche se in alcuni casi possono essere normali o solo lievemente aumentate. La biopsia di nervo, quando praticata, può evidenziare una demielinizzazione segmentaria, con aspetti delle cellule di Schwann “a bulbo di cipolla”, che testimoniano un processo cronico di demielinizzazione e rimielinizzazione. La biopsia può essere utile anche per la diagnosi differenziale verso forme vasculitiche o amiloidee. TRATTAMENTO. La terapia si basa su cortisonici, plasmaferesi e immunoglobuline endovena ad alto dosaggio. La terapia con prednisone ad alte dosi è efficace e porta a un significativo miglioramento, ma deve essere protratta per alcuni mesi; nei casi più resistenti o allo scopo di ridurre la dose di prednisone si può associare un immunosoppressore come l’azatioprina. La plasmaferesi si è dimostrata efficace ed è ripetibile nel tempo. L’utilizzo di
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immunoglobuline endovena alla dose di 0,4 g/kg/die per 5 giorni, eventualmente ripetibili ogni 30-40 giorni, ha dato ottimi risultati. La durata del trattamento varia in base alla risposta clinica e può essere prolungato anche per anni. È importante ricordare che, talora, la risposta a questi trattamenti può essere estremamente differente da paziente a paziente.
Neuropatie carenziali Le neuropatie carenziali comprendono le neuropatie alcoliche, le neuropatie in corso di malassorbimento, di beri-beri, di deficit di vitamine B6, B12 ed E. La polineuropatia alcolica è una delle neuropatie periferiche più frequenti che può complicare gravemente la condizione clinica di alcolisti di lunga. Il coinvolgimento del SNP è dovuto sia a una cattiva nutrizione, che comporta deficit di vitamine, in particolare della tiamina, sia a un’azione tossica diretta dell’etanolo e dei suoi metaboliti, come l’acetaldeide. Si tratta di un meccanismo di degenerazione distale retrograda che colpisce inizialmente le fibre più lunghe e pertanto si presenta clinicamente con un quadro sensitivo-motorio a distribuzione distale-simmetrica, ad andamento progressivo. L’esordio è insidioso, con affaticamento nella deambulazione e crampi notturni. Il disturbo sensitivo comprende disestesie e compromissione delle sensibilità profonde, con frequente atassia sensitiva e dolori muscolari di tipo urente. Il deficit motorio è limitato in genere agli arti inferiori, è distale, bilaterale e simmetrico, e colpisce prevalentemente i muscoli della loggia anterolaterale della gamba, con conseguente steppage bilaterale. I riflessi achillei sono aboliti, mentre quelli patellari possono essere conservati. Oltre alla classica forma progressiva esiste una variante subacuta, caratterizzata da paralisi a carico sia della regione distale che prossimale degli arti inferiori, che entra in diagnosi differenziale con una miopatia su base alcolica, di cui esistono forme acute e croniche. La terapia consiste nella sospensione del consumo di alcol e nell’assunzione prolungata di vitamine del complesso B, specie di tiamina (B1).
Neuropatia diabetica Il diabete mellito è la principale causa di neuropatia periferica nel mondo Occidentale. Circa il 50% dei diabetici ne è affetto, di cui il 15% in modo
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sintomatico (sintomi di neuropatia + esame elettrofisiologico alterato) e il restante 35% in modo asintomatico (segni elettrofisiologici o segni obiettivi di neuropatia, in assenza di sintomi), con una predominanza per i diabetici di tipo 1. I fattori di rischio che correlano con incidenza e gravità di neuropatia in corso di diabete sono lo scarso controllo glicemico e la durata di malattia. Negli anni sono state proposte diverse classificazioni, sulla base della presunta eziologia, delle caratteristiche topografiche o anatomopatologiche. La classificazione più comunemente utilizzata si basa sulla distribuzione topografica del deficit neurologico e distingue forme simmetriche e forme asimmetriche (TAB. 22.5). TABELLA 22.5 Classificazione delle neuropatie diabetiche Rapidamente reversibile • Neuropatia iperglicemica Polineuropatia simmetrica • Polineuropatia sensitiva acuta • Polineuropatia sensitiva o sensitivo-motoria cronica • Neuropatia autonomica Neuropatia asimmetrica (focale o multifocale) • Mononeuropatia da compressione • Radicolopatia toracolombare • Neuropatia dei nervi cranici • Neuropatia prossimale motoria (amiotrofia diabetica)
POLINEUROPATIE SIMMETRICHE. Si distinguono le seguenti forme: • polineuropatia sensitiva acuta: è caratterizzata dall’insorgenza acuta di sintomi sensitivi in seguito a uno stato di iperglicemia, quale un episodio di chetoacidosi. La componente algica è molto importante, si presenta sotto forma di dolore urente continuo, con esacerbazione tipicamente notturna, localizzato prevalentemente ai piedi, accompagnato da iperestesie, depressione e calo ponderale. I segni obiettivi sono scarsi, talora vi può essere allodinia e/o riduzione dei riflessi achillei. Con la normalizzazione
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dei valori glicemici, in genere, si assiste a un recupero; • polineuropatia sensitivo-motoria cronica: è la più frequente manifestazione della complicanza diabetica a carico dei nervi periferici. È una forma progressiva, a localizzazione distale, lunghezzadipendente, prevalentemente sensitiva, di solito a esordio insidioso. Può essere il sintomo di presentazione di un diabete di tipo 2. Talora il paziente è asintomatico e il deficit può essere evidenziato durante l’esame neurologico. I sintomi tendono a essere intermittenti, con esacerbazione notturna o a riposo. I sintomi soggettivi sensitivi consistono in parestesie a tipo “intorpidimento” o “fasciatura”, dolori profondi e brucianti e disestesie dolorose, sgradevoli e fastidiose che iniziano tipicamente nei settori distali degli arti inferiori assumendo una distribuzione “a calza”, meno frequentemente agli arti superiori con distribuzione “a guanto”, e procedono poi in direzione sempre più prossimale ai quattro arti. I segni sensitivi comprendono un’ipoestesia termodolorifica e pallestesica con distribuzione distale simmetrica. Spesso vi è un’iporeflessia osteotendinea, soprattutto a carico dei rotulei e degli achillei. L’ipostenia distale simmetrica è usualmente lieve, e se marcata o invalidante suggerisce la sovrapposizione con un’altra patologia, specialmente se il deficit stenico è asimmetrico. Sulla base dei sintomi e quindi delle diverse fibre sensitive colpite si possono distinguere due tipi di polineuropatia sensitiva: una forma con preminente interessamento delle piccole fibre e una forma con lesione delle fibre di calibro maggiore. La prima è caratterizzata da alterazione delle sensibilità superficiali, da disestesie dolorose e da riflessi osteotendinei conservati. La lesione delle fibre di grosso calibro (pseudotabe dorsale) si manifesta con parestesie non dolorose a distribuzione distale, atassia sensitiva e iporeflessia. La polineuropatia sensitivo-motoria di solito si associa a un coinvolgimento diffuso del sistema nervoso autonomo che comporta anidrosi, cute secca, anelastica liscia e sottile, ipercheratosica e fragile, con rischio di comparsa di ulcere trofiche (il cosiddetto piede diabetico); • neuropatia autonomica: una compromissione diffusa del sistema nervoso autonomo può comparire come forma a sé stante o più frequentemente in associazione alla polineuropatia sensitivo-motoria cronica. In un’elevata percentuale di soggetti diabetici è possibile identificare una neuropatia autonomica subclinica, mediante gli appositi test. Clinicamente i pazienti possono presentare disturbi della motilità pupillare (iporeattività alla luce e
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miosi) e della lacrimazione, disturbi cardiovascolari (ipotensione ortostatica e tachicardia a riposo), alterazioni della termoregolazione (anidrosi), disfunzioni gastrointestinali e genitourinarie (atonia vescicale, turbe dell’erezione e dell’eiaculazione); • mononeuropatie craniali: si manifestano più frequentemente negli anziani, talora come sintomo d’esordio del diabete. I nervi oculomotori sono i più colpiti, specialmente il III paio (si può notare ptosi palpebrale), più rara ma possibile la lesione isolata del VII nervo cranico. La neuropatia dell’oculomotore si caratterizza per un coinvolgimento selettivo della muscolatura oculare estrinseca, con risparmio di quella intrinseca in quanto la lesione sembra essere secondaria a una sofferenza ischemica che prevale in sede centro-fascicolare ove transitano le fibre destinate all’innervazione estrinseca a causa della distribuzione subperinevriale dei vasa nervorum. Nella diagnosi differenziale va considerata la possibilità di una lacuna ischemica nel nucleo mesencefalico del terzo nervo cranico. NEUROPATIE ASIMMETRICHE FOCALI E MULTIFOCALI. Consistono nell’interessamento di un singolo nervo o di più nervi (monoo multineuropatie) e comprendono: • radicolopatia toracolombare: è un disturbo raro, che colpisce prevalentemente i soggetti anziani e con calo ponderale. Si presenta con dolore, disestesie e riduzione della sensibilità nei territori di innervazione di uno o più nervi somatici della parete toracica o dell’addome. Talora può associarsi a ipostenia dei muscoli addominali; • mononeuropatia tronculare: le forme più comuni sono a carico dei nervi ulnare, mediano, radiale, femorale, cutaneo laterale della coscia o peroneo comune. La manifestazione è in genere acuta o subacuta associata a dolore, con decorso autolimitante della durata di circa 6 settimane. Questi quadri devono essere distinti dalle neuropatie da intrappolamento; • neuropatie da intrappolamento: queste neuropatie hanno un’alta prevalenza tra i diabetici. La più frequente è la sindrome del tunnel carpale; • neuropatia motoria asimmetrica prossimale (amiotrofia diabetica di Garland): si caratterizza per la comparsa acuta di ipostenia e ipotrofia asimmetrica che colpisce la parte prossimale degli arti inferiori (muscolo ileopsoas, quadricipite femorale e adduttori). Spesso è accompagnata da dolori ai muscoli della coscia e in regione lombare o perineale, riduzione
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dei riflessi osteotendinei e conservazione della sensibilità. La sede della lesione sembra essere localizzata a livello del plesso lombosacrale o delle radici motorie; la causa è una vasculite. Il recupero della funzione motoria è spesso incompleto e incostante. EZIOPATOGENESI. Il meccanismo attraverso il quale l’iperglicemia provoca la neuropatia non è del tutto chiarito, anche se sembra coinvolgere fattori vascolari, metabolici e immunologici. L’ipotesi vascolare si basa sul riscontro di alterazioni delle pareti dei vasa nervorum in termini di ispessimento e iperplasia endoteliale con conseguente restringimento del lume vasale e ischemia del nervo. Tale ipotesi sembra essere la più plausibile per le mononeuropatie diabetiche, mentre nella polineuropatia simmetrica un ruolo molto importante è svolto dai fattori metabolici. Infatti studi su modelli animali hanno dimostrato come l’iperglicemia favorisce l’attivazione di una via metabolica per il glucosio, detta “via dei polioli”, mediante l’incremento dell’attività dell’enzima aldosoreduttasi e conseguente accumulo di polioli: infatti nei nervi periferici il glucosio, disponibile in eccesso per l’iperglicemia, viene trasformato dall’aldoso-reduttasi in sorbitolo e successivamente in fruttosio. L’accumulo di sorbitolo e fruttosio a livello dell’endonevrio provoca edema e aumento dei radicali liberi dell’ossigeno, che portano a danno mitocondriale e cellulare. Inoltre in caso di iperglicemia si verifica una glicosilazione non enzimatica di alcune proteine coinvolte nel trasporto assonale anterogrado. L’ipotesi immunologica si basa sul riscontro nel siero di pazienti diabetici affetti da neuropatia di autoanticorpi antineuroni che inducono meccanismi apoptotici calcio-dipendenti. È stato chiamato in causa nel meccanismo di danno anche il deficit di alcuni fattori neurotrofici, come l’NGF (nerve growth factor), ma mancano dati clinici e sperimentali convincenti. TRATTAMENTO. Il trattamento è purtroppo ancora insoddisfacente. Fondamentale è il controllo dei valori glicemici, ma anche del metabolismo lipidico e del peso corporeo. In passato sono stati proposti farmaci in grado di inibire l’aldoso-reduttasi, l’efficacia dei quali non è stata però dimostrata e i cui effetti collaterali sono stati tali da sconsigliarne l’uso. Recentemente sono state proposte nuove terapie sperimentali basate sull’uso di neurotrofici (NGF), molecole antiossidanti (acido alfa-lipoico), antagonisti del recettore del glutammato NMDA (destrometorfano) e acidi grassi essenziali (acido
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gamma linoleico), ma non sono ancora di comune utilizzo in ambito clinico. Nell’amiotrofia diabetica è indicato l’uso di steroidi. Il trattamento sintomatico si avvale di farmaci contro il dolore neuropatico, come FANS, antiepilettici o antidepressivi.
Neuropatie tossiche Numerose sostanze tossiche, fra cui metalli pesanti, solventi industriali e farmaci hanno un’azione tossica diretta sui nervi periferici. Nella maggior parte dei casi il meccanismo lesionale è a carico dell’assone (dying back neuropathy), con un interessamento prevalentemente delle fibre di grosso calibro e ad andamento disto-prossimale. Più raro è il danno diretto sulla guaina mielinica. Per dimostrare una relazione di causa-effetto tra sostanza tossica e neuropatia è fondamentale che vi sia una relazione temporale tra i due elementi, ossia che l’esposizione alla causa tossica preceda l’insorgenza della neuropatia; inoltre la sospensione dell’esposizione, anche a distanza di tempo, deve produrre un arresto della progressione o un miglioramento dei sintomi. TOSSICI INDUSTRIALI • Esteri organofosforici: i composti organofosforici si ritrovano in alcuni pesticidi, in additivi di derivati del petrolio e nella lavorazione della plastica: tra questi il triortocresilfosfato è la sostanza più frequentemente responsabile di una polineuropatia, prevalentemente motoria, con conseguente grave deficit stenico. Per compromissione della via piramidale si possono associare spasticità e segni piramidali: in questo caso la polineuropatia si presenta come un’assonopatia distale. METALLI PESANTI • Arsenico: l’intossicazione da arsenico abitualmente è dovuta a tentativi di suicidio o omicidio. L’esposizione occupazionale si osserva nei lavoratori delle cave, negli addetti alla preparazione di stoviglie a base di rame o piombo e nei lavoratori occupati nell’erboristeria cinese. La neuropatia è una polineuropatia sensitivo-motoria di tipo assonale che può seguire a distanza di una decina di giorni una sindrome gastrointestinale, quando l’intossicazione è acuta. In caso di esposizione cronica l’esordio è insidioso
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e la polineuropatia si accompagna a dermatite desquamativa con ipercheratosi palmoplantare e alla presenza di strie orizzontali grigiastre sulla superficie ungueale (“linee di Mees”); inoltre l’arsenico si deposita nella cheratina dei capelli e nei peli e il dosaggio in tali sedi può essere dirimente per la diagnosi, così come la concentrazione di arsenico nelle urine. La terapia è chelante con dimercaptopropranolo. • Piombo: l’intossicazione può avvenire in ambito professionale o domestico e di solito nel bambino avviene per ingestione di residui di vernice al piombo. Clinicamente è un neuropatia motoria, con prevalente interessamento dei muscoli estensori dell’arto superiore e dei muscoli della loggia anterolaterale degli arti inferiori, con conseguente caduta della mano e del piede. Si possono associare altri disturbi, quali coliche addominali, anemia, disfunzione renale. Una volta assorbito, il piombo si accumula nei globuli rossi, mentre una parte si accumula nell’osso, con un’emivita da 7 a 20 anni. Con la radiografia è infatti possibile identificare delle linee radiopache nell’osso, da accumulo plumbeo. Nell’animale da esperimento il piombo determina una neuropatia demielinizzante, mentre nell’uomo è responsabile di una primitiva sofferenza assonale. La diagnosi è confermata dal dosaggio dei livelli plasmatici e urinari di piombo. La terapia è chelante con calcio e acido etilendiaminico e penicillamina. • Mercurio: l’intossicazione può essere professionale, per esposizione ai vapori di mercurio negli addetti di industrie elettrochimiche, o alimentare, per ingestione di pesce contaminato da scarichi industriali o di cibo trattato con etile di mercurio come fungicida. Il mercurio provoca una degenerazione dei neuroni cerebellari e dei gangli dorsali con conseguente polineuropatia sensitivo-motoria associata a importante atassia. La terapia è chelante. FARMACI. Numerosi farmaci sono responsabili di provocare una neuropatia, in genere reversibile alla sospensione del trattamento. Questi farmaci possono essere antimicrobici, come la clorochina, l’isoniazide, l’etambutolo, la nitrofurantoina, il metronidazolo, o farmaci utilizzati nella patologia cardiovascolare, come l’amiodarone, e farmaci antineoplastici. Negli ultimi anni sempre più attenzione è stata rivolta a quelle forme di neuropatie dovute all’assunzione di chemioterapici antineoplastici, che vanno sotto il nome di CIPN (chemotherapy induced peripheral neuropathy). La neurotossicità dei chemioterapici è un problema rilevante, in quanto può
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essere un elemento dose-limitante della terapia e la sintomatologia può essere talmente invalidante da peggiorare la qualità di vita del paziente oncologico. Questi farmaci antineoplastici possono indurre un danno sensitivo o motorio durante il trattamento o anche dopo la sospensione della chemioterapia, a seconda della sede della loro azione neurotossica. Tutte le componenti del SNP possono essere coinvolte nella tossicità da chemioterapico, anche se le strutture maggiormente interessate sono il soma cellulare dei neuroni sensitivi (ganglionopatie) e gli assoni (assonopatia con degenerazione distale retrograda). Nei gangli sensitivi, infatti, i neuroni non sono protetti dalla barriera ematoencefalica e sono vascolarizzati da capillari fenestrati: i chemioterapici possono quindi facilmente raggiungere il soma e interferire con l’attività metabolica del neurone, comportando un’alterazione anche del trasporto assonale e un danno delle porzioni più periferiche dell’assone (fenomeno “lunghezza-dipendente”). I principali antineoplastici responsabili di CIPN sono i derivati del platino (carboplatino, cisplatino e oxaliplatino), gli alcaloidi della vinca (vincristina, vinblastina) e i taxani (paclitaxel, docetaxel). Altri farmaci coinvolti sono la talidomide, gli epotiloni (agenti antitubulinici) e il bortezomib (inibitore del proteasoma). Clinicamente la CIPN si presenta come una neuropatia prevalentemente sensitiva, in cui i segni e sintomi sensitivi esordiscono con parestesie e disestesie a maggiore espressione agli arti inferiori, con gradiente distoprossimale. A seconda del tipo di fibra nervosa danneggiata si hanno quadri sensitivi modalità-specifici, per esempio i platino-derivati danneggiano le fibre di calibro maggiore, mentre il bortezomib colpisce le fibre di piccolo calibro, anche se un coinvolgimento multimodale è il più comune. I segni sensitivi includono un’ipoestesia tattile, puntoria, termica e vibratoria. Se vengono alterate le funzioni propriocettive esitano quadri di pseudoatetosi o atassia. In alcuni pazienti dopo somministrazione di cisplatino, oxaliplatino e taxani è stato occasionalmente riscontrato il segno di Lhermitte per il coinvolgimento della branca sensitiva centripeta. Il dolore neuropatico è un importante e preminente effetto collaterale, soprattutto per l’impatto sulla qualità di vita del paziente. I sintomi e segni motori sono più rari e si riscontrano più di frequente nei pazienti trattati con farmaci antitubulinici. Crampi muscolari sono comuni, specie nei pazienti trattati con oxaliplatino, ma vengono spesso sottostimati. L’iporeflessia degli achillei è un segno precoce nella maggior parte dei pazienti. I disturbi disautonomici
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comprendono ipotensione ortostatica, stipsi, disfunzione vescicale e genitale, anche se spesso sono sottostimati.
Neuropatie amiloidi Le neuropatie amiloidi sono dovute alla presenza di depositi endoneurali di sostanza amiloide. L’amiloidosi può essere familiare, trasmessa con modalità autosomica dominante, dovuta a una mutazione del gene della transtiretina, localizzato sul cromosoma 18 o acquisita. La forma acquisita nel 75% dei casi si associa a una gammopatia monoclonale, in genere da catene leggere. La diagnosi si basa sul riscontro di depositi di amiloide nel nervo periferico, nel grasso periombelicale o nelle mucose gengivali e rettale. La neuropatia amiloide è inizialmente sensitiva, successivamente si hanno disturbi motori e un importante coinvolgimento del sistema nervoso autonomo. Frequentemente, anche il cuore è coinvolto. Per un approfondimento sul trattamento delle neuropatie amiloidi, VEDI FOCUS ON: CENNI DI TERAPIA, IN QUESTA PAGINA.
Neuropatie delle paraproteinemie e delle malattie proliferative linfoplasmocitarie Le paraproteinemie sono malattie caratterizzate da un’abnorme produzione da parte di un singolo clone di plasmacellule di grandi quantità di un’unica immunoglobulina, che si manifesta con un picco all’elettroforesi delle proteine sieriche e urinarie. Può trattarsi di anomalie isolate o rappresentare l’esito di una neoplasia maligna delle plasmacellule, come il mieloma multiplo o la macroglobulinemia di Waldenström. Spesso la neuropatia precede la comparsa dei sintomi. GAMMOPATIA MONOCLONALE DI INCERTO SIGNIFICATO (MGUS). LA MGUS (monoclonal gammopathy of undetermined significance) è una condizione in cui è presente una paraproteina sierica monoclonale senza evidenza di una proliferazione maligna di plasmacellule. Interessa il 2% della popolazione sopra i 50 anni e nel 6% dei casi si osserva una compromissione del sistema nervoso periferico. In ordine decrescente per frequenza, la proteina monoclonale è di classe IgM (60%), IgG (30%) e IgA (10%). In caso di paraproteinemia da IgM talora l’immunoglobulina monoclonale circolante
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possiede un’attività anticorpale specifica verso la glicoproteina associata alla mielina (MAG), oppure verso componenti gangliosidici o solfatidici della membrana endonevriale. La polineuropatia è di tipo simmetrico progressivo sensitivo-motoria o prevalentemente sensitiva con atassia, simile al quadro clinico delle poliradicolonevriti infiammatorie croniche; inoltre si associa a iperpoteinorrachia nel liquor. Nella maggior parte dei casi i sintomi neurologici esordiscono molto prima del riscontro della paraproteina sierica e il decorso è molto lento e insidioso, frequentemente complicato da un marcato tremore su base atassica. La neuropatologia mostra una neuropatia prevalentemente demielinizzante, con aspetti di demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione.
FOCUS ON CENNI DI TERAPIA • Neuropatia amiloide. Nelle forme ereditarie di neuropatia amiloide, associate alla mutazione del gene TTR, è stato proposto il trapianto di fegato, in quanto questo organo rappresenta la principale fonte di sintesi della transtiretina sistemica, precursore delle fibrille amiloidosiche. Il trapianto di fegato non solo sembra essere in grado di ridurre la quantità sierica di transtiretina mutata, ma anche di favorire la regressione dei depositi amiloidotici nei visceri. Gli effetti del trapianto di fegato sulla neuropatia sono tanto più efficaci quanto più la neuropatia è agli stadi iniziali. Le prospettive future consistono nella terapia genica (oligonucleotidi antisenso o farmaci che interferiscono con l’RNA messaggero) e nell’utilizzo di molecole che inibiscono la formazione delle fibrille di TTR amiloide. • Neuropatia associata a componente monoclonale. Per il mieloma multiplo o gli altri disordini linfoproliferativi è prioritario trattare la malattia di base per controllare il progredire della neuropatia. Il trattamento delle neuropatie associate a MGUS è invece tuttora dibattuto. L’utilizzo delle Ig per via endovenosa sembra dare dei
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benefici, ma solo nel breve periodo. Studi recenti hanno mostrato come il rituximab, un anticorpo monoclonale diretto contro l’antigene CD20 delle cellule B, sembra avere una certa efficacia nei pazienti con gammopatia monoclonale e neuropatia, specie in quelli con un quadro più severo. Il rituximab (375 mg/m2/settimana) sembra essere in grado di stabilizzare il quadro neurologico, impedendone la progressione, e parallelamente al benefico clinico, di ridurre i livelli sierici della componente monoclonale.
MIELOMA MULTIPLO. Il mieloma multiplo si caratterizza per una proliferazione tumorale di plasmacellule, derivate da un unico clone che produce un’immunoglobulina monoclonale, IgG o IgA. Sembra che l’immunoglobulina abbia un’attività anticorpale diretta contro un antigene sconosciuto del nervo periferico e che pertanto sia responsabile di un danno immunomediato. Nel mieloma multiplo con lesioni ossee litiche il 5% dei pazienti può sviluppare una neuropatia sensitivo-motoria di grado lieve, con esordio agli arti inferiori, non reversibile con la guarigione dal mieloma. Esiste una forma di mieloma multiplo, più rara, che si associa a lesioni osteosclerotiche, in cui la polineuropatia interessa circa la metà dei soggetti affetti. La catena leggera dell’immunoglobulina monoclonale secreta è quasi sempre di tipo lambda (mentre nella forma osteolitica è kappa) e la neuropatia risponde alla terapia radiante o alla rimozione della lesione primitiva. La neuropatia, che in questi casi è prevalentemente motoria con segni disautonomici, può associarsi a segni sistemici, delineando la cosiddetta sindrome POEMS (polyneuropathy, organomegaly, endocrinopathy, monoclonal gammopathy, and skin changes). MACROGLOBULINEMIA DI WALDENSTRÖM. È una paraproteinemia che si caratterizza per la presenza di un picco monoclonale formato da IgM e dalla presenza di linfadenopatia, epatosplenomegalia e anemia. Nel 5-8% dei soggetti si manifesta una polineuropatia sensitivo-motoria, a esordio insidioso. Per un approfondimento sul trattamento delle neuropatie associate e componente monoclonale, VEDI FOCUS ON: CENNI DI TERAPIA, PAG. 412.
Neuropatia motoria multifocale (NMM) 852
È una neuropatia, abbastanza rara, ma di grande rilevanza clinica per la somiglianza del suo quadro clinico con una malattia degenerativa primitiva del secondo motoneurone – l’amiotrofia spinale – dalla quale se ne differenzia per la possibilità di essere curata. L’esordio tipico è nell’età adulta e la prevalenza è maggiore nel sesso maschile. Esordisce con una ipostenia lentamente progressiva e un’atrofia che interessa prevalentemente le estremità distali degli arti superiori, in modo asimmetrico. I riflessi sono ridotti o aboliti nelle sedi affette, ma possono essere conservati negli arti risparmiati. L’atrofia talvolta è talmente evidente e associata a fascicolazioni, da rendere difficile distinguere la neuropatia dalla patologia del motoneurone. Le sensibilità sono risparmiate. La velocità di conduzione dei tronchi sensitivi è normale, mentre nei tronchi motori affetti si possono evidenziare blocchi di conduzione. Circa la metà dei pazienti ha un titolo elevato di anticorpi policlonali IgM antiganglioside GM1, il cui significato patogenetico è ancora incerto. Il trattamento più efficace consiste nella somministrazione di immunoglobuline per via endovenosa, anche se però il risultato può essere solo temporaneo. In caso di mancata risposta alle immunoglobuline si può ricorrere a terapia precoce con ciclofosfamide (1 g/m2 al mese per 6 mesi). Altri farmaci immunomodulanti come il rituximab sono in corso di sperimentazione. Corticosteroidi e plasmafaresi non sono risultati efficaci.
Neuropatie ereditarie Le neuropatie ereditarie costituiscono un gruppo eterogeneo di malattie del SNP, a esordio insidioso e decorso cronico. Costituiscono il 50% circa delle forme non diagnosticate di neuropatia. Nonostante la classificazione sia in continua evoluzione a seguito della frequente identificazione di nuove forme, attualmente si possono distinguere due categorie principali: 1. forme ereditarie in cui la neuropatia è isolata: queste comprendono le forme motorie pure, sensitivo-motorie (malattia di Charcot-MarieTooth) e sensitive; 2. forme ereditarie in cui la neuropatia si inserisce in un quadro sindromico, come per esempio nelle malattie da accumulo lisosomiale (leucodistrofia metacromatica, la malattia di Krabbe, la malattia di Fabry), da accumulo
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extralisosomiale (malattia di Tangier), nelle malattie dei perossisomi (adrenoleucodistrofia, malattia di Refsum), nei disturbi della sintesi dell’eme (porfiria), nell’amiloidosi familiare.
Malattia di Charcot-Marie-Tooth La malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), o atrofia muscolare peroneale o HMSN (hereditary motor and sensory neuropathy), è la più frequente neuropatia ereditaria, con una prevalenza di circa 40 casi su 100 000. È caratterizzata da un interessamento sia dei nervi sensitivi che motori. La diagnosi di CMT si basa prevalentemente sugli aspetti clinici, sulla risposta all’ENG e sull’esame genetico-molecolare Le varie forme di CMT sono classificate a seconda della velocità di conduzione motoria (VCM), rilevata a livello del nervo mediano (o ulnare), ovvero: • CMT tipo 1, demielinizzante (VCM < 38 m/s); • CMT tipo 2, assonale (VCM > 38 m/s); • forma intermedia (VCM da 25-45 m/s). In base alla trasmissione ereditaria possiamo distinguere una forma autosomica dominante (la più frequente), una forma autosomica recessiva e una Xlinked). Riguardo l’analisi genetica, a oggi sono stati riconosciuti oltre 75 geni, espressi sia sulle cellule di Schwann che sugli assoni, responsabili delle forme principali e delle relative varianti La CMT tipo 1 si manifesta clinicamente tra la prima e la seconda decade di vita con ipostenia distale, ipotrofia peroneale, deficit della sensibilità superficiale e profonda (con ipopallestesia e atassia) e ipo/areflessia osteotendinea. L’ipotrofia muscolare inizialmente coinvolge gli arti inferiori, piede e gamba (le gambe assumono l’aspetto a “bottiglia di champagne rovesciata”), per poi progredire alle mani e all’avambraccio. I muscoli della loggia anterolaterale della gamba e i muscoli intrinseci del piede vengono coinvolti nelle fasi precoci, determinando comparsa di andatura steppante da caduta del piede. A tale sintomatologia si accompagna frequentemente la presenza di deformità scheletriche quali scoliosi, piede cavo e dita a martello. L’utilizzo della biopsia di nervo, che presenta oggi indicazioni molto
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limitate, può evidenziare aspetti ipertrofici con immagini “a bulbo di cipolla” legati a fenomeni di demielinizzazione e rimielinizzazione delle cellule di Schwann nelle forme tipo 1 o severa riduzione della percentuale di fibre nelle forme tipo 2. Appare utile segnalare, tra le forme più frequenti: • CMT tipo 1, autosomico dominante, che comprende: – forma 1A, la più frequente, dovuta a una duplicazione del gene per PMP22 (Proteina Mielinica Periferica 22) sul cromosoma 17; – forma 1B, dovuta a una mutazione puntiforme del gene P0 (proteina correlata alla mielina) sul cromosoma 1; • CMT X-linked, dovuta a una mutazione puntiforme del gene CX32 (connessina 32); • CMT tipo 3, autosomico dominante (malattia di Déjérine-Sottas), dovuta a mutazioni puntiformi/duplicazioni di PMP22 o P0, ritenuta la forma più grave di CMT con esordio nell’infanzia; • neuropatia tomaculare (HNPP, Hereditary Neuropathy with liability to Pressure Palsies), forma autosomico dominante, dovuta a delezione del gene PMP22. È clinicamente caratterizzata da una maggiore suscettibilità di alcuni nervi periferici (radiale, peroneo, ulnare) alla compressione meccanica con comparsa di paralisi periferiche transitorie La CMT tipo 2 è meno frequente, ma talora anche più grave di CMT tipo 1; si manifesta nella terzaquarta decade di vita con instabilità della marcia e frequenti cadute. La causa genetica più frequente di CMT tipo 2 è rappresentata da mutazioni del gene mitofusina 2 (MFN2) che codifica una proteina, la mitofusina, coinvolta nei meccanismi di fusione mitocondriale. NEUROPATIE EREDITARIE SENSITIVE O SENSITIVO-DISAUTONOMICHE (NES). Le neuropatie sensitive ereditarie costituiscono un gruppo eterogeneo di patologie in cui è preminente la degenerazione del primo neurone sensitivo. Si caratterizzano per un selettivo deficit delle sensibilità superficiali in assenza di segni motori e sono talvolta associate a disturbi disvegetativi. In base a dati genetici, clinici e neurofisiologici si riconoscono cinque forme di NES (tipo 1, 2, 3, 4 e 5). La forma più comune è la tipo 1: la sua trasmissione è autosomica dominante e la mutazione è a carico del gene che codifica per la subunità 1 a catena lunga della serina palmitoiltransferasi
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(SPTLC1). Viene anche definita acropatia ulceromutilante per la maggiore compromissione a carico degli arti inferiori e per i disturbi vasomotori e sudomotori associati. È caratterizzata da ipoestesia, prevalentemente termodolorifica, ipotrofia e ipostenia muscolare distale, callosità e ulcere alle piante dei piedi, ipoidrosi delle aeree colpite. Per la presenza di ipostenia in alcuni pazienti con NES è stata posta un’errata diagnosi di CMT. L’esordio si ha, in genere, nell’adolescenza. Le altre forme di NES sono di tipo autosomico recessivo, hanno un esordio più precoce e sono caratterizzate da deficit della sensibilità termodolorifica, disturbi neurotrofici e da una marcata componente vegetativa. NEUROPATIE MOTORIE EREDITARIE. Sono caratterizzate da progressiva atrofia muscolare neurogena, in assenza di disturbi sensitivi. Sono neuropatie assonali, lunghezzadipendenti che danno luogo a un deficit motorio distale isolato. In base alla clinica e ai dati genetici sono attualmente distinte in sette tipi. L’ereditarietà può essere autosomica dominante o recessiva. In alcune forme vi può essere un prevalente coinvolgimento degli arti superiori o dei muscoli laringei.
NON DIMENTICARE CHE... • Le malattie del sistema nervoso periferico, nelle loro varie manifestazioni, costituiscono un’entità di una certa complessità nella pratica clinica, che si riflette da un lato nella difficoltà della loro localizzazione topografica (per esempio, nella discriminazione tra una sofferenza radicolare e una tronculare, oppure nel riconoscimento del grado di simmetricità dei sintomi e segni che permette di differenziare una polineuropatia da una mononeurite multipla) e dall’altro nella identificazione della loro eziopatogenesi. • Devono essere quindi affrontate sulla base di una precisa conoscenza anatomica e con un’attenzione particolare alla presenza di sintomi e segni extraneurologici che possono fornire, insieme alla storia clinica e alle indagini strumentali, la “chiave” per la diagnosi
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corretta. • Non va inoltre dimenticato che spesso un coinvolgimento del sistema nervoso periferico può essere antecedente la diagnosi della loro causa di tipo sistemico (per esempio, una neuropatia o neuronopatia paraneoplastica può essere il primo segno evidente di una neoplasia occulta o paucisintomatica, così come una neuropatia da deficit di vitamina B12 può manifestarsi senza che il paziente presenti un’anemia macricitica).
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23 MIOPATIE G. Cavaletti, G. Meola, B. Frigeni
KEY POINTS I muscoli scheletrici possono andare incontro a una sofferenza primitiva o secondaria a una malattia di tipo sistemico. La distribuzione del danno più comune è di tipo prossimale simmetrico, ma tale regola generale non vale per tutte le miopatie e deve essere quindi considerata con cautela nel corso dell’inquadramento diagnostico dei pazienti. Nei quadri più avanzati è comune un’ipotrofia muscolare, ma in caso di sostituzione della componente muscolare con tessuto connettivo si può presentare un quadro di “pseudo-ipertrofia”. Il rialzo (spesso anche molto marcato) del valore degli enzimi plasmatici di origine muscolare (per esempio, CPK) è molto comune, ma il riscontro di valori di normalità non esclude una diagnosi di miopatia. La biopsia muscolare e l’indagine genetica possono fornire indicazioni diagnostiche estremamente importanti. Nel caso delle forme dismetaboliche esistono test provocativi che possono essere di ausilio alla diagnosi, per esempio fornendo indicazioni sulla capacità del muscolo di produrre acido lattico.
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Con il termine “miopatie” si intende raggruppare un vasto ed eterogeneo gruppo di malattie ereditarie o acquisite che colpiscono primitivamente la fibra muscolare striata.
MIOPATIE EREDITARIE KEY POINTS Le miopatie ereditarie costituiscono un complesso di malattie del muscolo che possono manifestarsi sia in età giovanile che in età adulta. Nei casi più gravi possono essere la causa di grave ipotonia alla nascita (floppy-baby). In genere i valori di CPK sono molto elevati. Molte di queste malattie si trasmettono con un meccanismo ereditario di tipo X-linked, quindi colpiscono solo il sesso maschile, mentre in questi casi le madri sono asintomatiche. Le più comuni miopatie ereditarie legate a un’alterazione del DNA nucleare sono le distrofie muscolari, alcune delle quali si presentano con il segno clinico della miotonia, e le forme da accumulo metabolico. Esistono anche forme che sono dovute ad alterazione del DNA mitocondriale che, contrariamente a quello nucleare, è di origine esclusivamente materna. Non esiste alcuna terapia farmacologica che sia in grado di modificare l’andamento a lungo termine delle miopatie ereditarie. Per il trattamento delle manifestazioni cliniche (in particolare per quanto riguarda le deformità scheletriche e le retrazioni tendinee) possono essere indicati l’uso di tutori o la correzione chirurgica. Le miopatie ereditarie sono patologie muscolari geneticamente determinate che possono essere suddivise in distrofie muscolari, canalopatie e distrofie miotoniche accomunate dalla presenza del fenomeno miotonico, miopatie da
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accumulo metabolico e miopatie mitocondriali.
Distrofie muscolari Le distrofie muscolari sono un gruppo di patologie geneticamente determinate e progressive, caratterizzate da alterazioni a carico di proteine della membrana muscolare o del citoscheletro, con conseguente sofferenza primitiva della fibrocellula muscolare striata che va incontro a degenerazione e necrosi. In tutte queste forme la diagnosi si basa sui dati clinicoanamnestici (in particolare sull’ereditarietà) e sull’analisi immunoistochimica e genetica. L’approccio terapeutico generale si basa sul supporto fisioterapico e protesico, sull’assistenza respiratoria nei casi più gravi e avanzati e sulla prevenzione delle aritmie nelle forme con coinvolgimento cardiaco. Solo alcune forme di distrofia possono beneficiare di un supporto farmacologico specifico, seppur di limitata efficacia.
Distrofie muscolari di Duchenne e di Becker (distrofinopatie) KEY POINTS Definizione. Distrofie X-linked con progressiva ipotrofia e ipostenia muscolare, conseguenti a mancata o anomala produzione di distrofina. Epidemiologia. Distrofia di Duchenne: incidenza di 1/3500 maschi; distrofia di Becker: incidenza da 1/5 a 1/10 rispetto alla Duchenne. Patogenesi. Assenza o alterata produzione di distrofina che collega la porzione intracellulare del sarcolemma alla matrice extracellulare. Clinica. Distrofia di Duchenne: ipostenia e atrofia dei muscoli del cingolo pelvico e scapolare, della muscolatura artuale distale, addominale e paravertebrale; contratture muscolari, retrazioni tendinee e deformità scheletriche; coinvolgimento cardiaco (aritmie e fibrosi) e modesto ritardo mentale. Rapidamente evolutiva: diagnosi entro i tre anni di età,
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progressiva perdita della capacità deambulatoria, morte nella secondaterza decade. Distrofia di Becker: forma più lieve e decorso più lento. Diagnosi. CPK aumentate da 5 a 10 volte; biopsia muscolare con analisi immunoistochimica: distrofina assente o anomala; analisi molecolare: delezione gene distrofina. Terapia. Prednisone 0,75 mg/kg/die e deflazacort 0,9 mg/kg/die rallentano lievemente l’evoluzione; fisioterapia e tenotomie dei tendini degli arti inferiori; follow-up della funzionalità respiratoria. Le distrofinopatie sono miopatie a trasmissione X-linked di tipo recessivo che si presentano con uno spettro fenotipico che comprende la distrofia muscolare di Duchenne, la distrofia muscolare di Becker, un quadro di mialgia e rabdomiolisi e una ipercreatinfosfochinasemia (o iperCPKemia) asintomatica. Le distrofinopatie sono causate da mutazioni del più grande gene umano, la distrofina, sita sul cromosoma Xp21 (FIG. 23.1).
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FIGURA 23.1 Complesso proteico distrofina-glicoproteine che collega la porzione intercellulare del sarcolemma alla matrice extracellulare che stabilizza la membrana muscolare durante la contrazione muscolare. Fonte: da Hauser S.L. et al., Harrison Neurologia clinica, Milano: McGraw-Hill, 2007. EPIDEMIOLOGIA E PATOGENESI. La distrofia di Duchenne (DMD) ha un’incidenza di 1:3500 maschi mentre quella di Becker (BMD) varia da un quinto a un decimo rispetto a quella di Duchenne, pur avendo una prevalenza più alta legata soprattutto alla maggior benignità del quadro clinico Le distrofie muscolari di Duchenne e Becker sono patologie legate ad
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anomalie genetiche che causano una mancata o ridotta produzione di una proteina del sarcolemma che prende il nome di distrofina, codificata da un gene localizzato sul cromosoma X (locus Xp21) e pertanto trasmesse dalle madri, portatrici generalmente sane, ai figli maschi. La distrofina è una proteina localizzata sulla superficie interna della membrana muscolare ove interagisce con l’actina del citoscheletro (FIG. 23.1). La distrofina si lega inoltre con un complesso di proteine sarcolemmali tra cui il distroglicano, che collega la membrana del sarcolemma alla matrice extracellulare mediante l’interazione con un’altra proteina chiamata laminina 2, fornendo così supporto strutturale alla membrana della fibrocellula muscolare e assicurandone stabilità e flessibilità durante la contrazione muscolare. Nella distrofia muscolare di Duchenne le mutazioni, alterando il reading frame, fanno sì che la distrofina sia totalmente assente, mentre nella distrofia di Becker le mutazioni, alterando in frame, fanno sì che la distrofina venga prodotta ma risulti strutturalmente alterata. Tali meccanismi biomolecolari sono alla base di un fenotipo più severo nella DMD e più benigno nella BMD. Le mutazioni genetiche responsabili della mancata o alterata produzione della distrofina sono soprattutto delezioni, rare sono le duplicazioni e le mutazioni puntiformi. In circa il 70% dei casi si tratta di forme ereditarie, mentre il rimanente 30% dei casi è dato da nuove mutazioni, di cui una buona percentuale derivanti da mosaicismo germinale nella madre. QUADRO CLINICO. La distrofia muscolare di Duchenne viene solitamente diagnosticata attorno ai 3 anni di vita ed entro i 6 anni la malattia è conclamata. Il decorso è evolutivo e generalmente rapido. I muscoli colpiti per primi sono quelli del cingolo pelvico (soprattutto il quadricipite, l’ileopsoas e i glutei), seguiti da quelli del cingolo scapolare con successivo rapido interessamento anche della muscolatura distale e dei muscoli addominali e paravertebrali. I muscoli oculari, facciali, bulbari e della mano sono generalmente risparmiati. In circa il 90% dei pazienti nelle fasi iniziali della malattia vi è un ingrossamento progressivo della muscolatura dei polpacci, dei deltoidi e dei quadricipiti: al tatto questi muscoli hanno una consistenza elasticogommosa e sono più ipotonici e ipostenici rispetto ai muscoli sani. Tale aspetto è dovuto a sostituzione del tessuto muscolare con tessuto connettivo e adiposo
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(fenomeno noto come “pseudoipertrofia”). Nelle fasi più avanzate della malattia compare invece l’atrofia. I primi segni clinici della malattia sono dati da un ritardo nell’acquisizione del cammino autonomo, frequenti cadute con difficoltà nel rialzarsi da terra, progressiva difficoltà nel salire le scale, dovuti al precoce interessamento dei muscoli del cingolo pelvico. Con il passare del tempo la deambulazione è sempre più impacciata e diviene anserina per l’interessamento dei muscoli glutei, mentre il coinvolgimento dei muscoli pretibiali e la retrazione del tendine d’Achille fanno sì che il bambino tenda a camminare sulla punta dei piedi. L’interessamento della muscolatura addominale e paravertebrale è responsabile dell’iperlordosi e della protrusione dell’addome durante il mantenimento della stazione eretta, che si associa anche ad allargamento della base d’appoggio, sulle punte, ed extrarotazione dei piedi al fine di migliorare l’equilibrio (FIG. 23.2).
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FIGURA 23.2 Stazione eretta caratterizzata da postura in iperlordosi, sulle punte e a base allargata nella distrofia di Duchenne. Fonte: da Hauser S.L. et al., Harrison Neurologia clinica, Milano: McGraw-Hill, 2007. Per rialzarsi da posizione prona o supina il bambino appoggia contemporaneamente le mani e i piedi a terra, estendendo al massimo i quattro arti, e successivamente porta la mano sulla coscia omolaterale, arrampicandosi con le mani sulle gambe, in modo da spingere il tronco verso l’alto per poter assumere la stazione eretta (segno di Gowers) (FIG. 23.3).
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FIGURA 23.3 Segno di Gowers: nel passaggio dalla posizione supina alla stazione eretta il paziente affetto da distrofia di Duchenne si arrampica con le mani sulle ginocchia. Fonte: da Hauser S.L. et al., Harrison Neurologia clinica, Milano: McGraw-Hill, 2007. Con il passare del tempo la deambulazione non è più possibile, compaiono contratture, retrazioni muscolari e alterazioni scheletriche (cifoscoliosi). La muscolatura liscia non è interessata dal processo patologico mentre nelle fasi più avanzate della malattia si ha il coinvolgimento della muscolatura cardiaca, con comparsa di aritmie e alterazioni della contrattilità per fibrosi del ventricolo sinistro. In molti casi i pazienti presentano un modesto ritardo mentale che non è evolutivo. La morte avviene generalmente nella secondaterza decade di vita, legata a insufficienza respiratoria o cardiaca. Il quadro clinico della distrofia di Becker ricalca quello della distrofia di Duchenne, ma in forma più lieve e con un decorso più lento. La malattia esordisce in media attorno ai 12 anni, la perdita della capacità di deambulazione avviene attorno ai 25-30 anni, mentre la morte nella quartaquinta decade. Circa il 70% dei pazienti affetti da BMD sviluppa una cardiomiopatia, causa di morte, che non è in relazione con il decorso e la severità della miopatia. I pazienti solitamente hanno un quadro intellettivo nella norma. I fenotipi più lievi comprendono mialgia e rabdomiolisi, iperCPKemia asintomatica o cardiomiopatia dilatativa. Una piccola percentuale di donne portatrici può presentare una lieve debolezza muscolare o una cardiomiopatia. DIAGNOSI. In associazione ai dati clinici, la diagnosi viene supportata dagli esami ematochimici che documentano incremento dei valori di CPK da 5 a 10 volte i valori massimi normali, aumento delle transaminasi e mioglobinuria. La biopsia muscolare consente l’analisi immunoistochimica della distrofina mediante tre anticorpi diretti contro le porzioni principali di questa proteina: l’assenza della proteina fa porre diagnosi di distrofia di Duchenne, mentre la presenza di distrofina anomala conferma la diagnosi di distrofia di Becker (per un approfondimento sull’argomento, VEDI FOCUS ON: BIOPSIA MUSCOLARE, IN QUESTA PAGINA). L’analisi molecolare mediante PCR (polymerase chain reaction) del gene
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della distrofina localizzato sul cromosoma X (Xp21) permette di identificare la delezione in circa il 70% dei casi. TRATTAMENTO. La terapia prevede un approccio fisioterapico volto a prolungare la fase della deambulazione e del mantenimento della stazione eretta e l’utilizzo di tutori notturni che aiutano a prevenire la retrazione del tendine d’Achille e di ortesi ginocchiopiede che servono a sostenere l’arto inferiore, riducendone i cedimenti legati all’ipostenia del quadricipite. Gli interventi chirurgici consistono in tenotomie dei tendini degli arti inferiori, per ridurne la retrazione e prolungare la possibilità di deambulare, e la correzione dei casi gravi di scoliosi, con conseguente miglioramento della funzionalità respiratoria. Due classi di corticosteroidi hanno dimostrato efficacia nel rallentare l’evoluzione della malattia, aumentando mediamente di un anno l’autonomia deambulatoria: sono il prednisone somministrato alla dose di 0,75 mg/kg/die e il deflazacort alla dose di 0,9 /mg/kg/die. Il meccanismo d’azione non è noto: si ipotizza che gli steroidi possano ridurre la componente infiammatoria legata alla necrosi tissutale. La terapia con un ACE-inibitore più un betabloccante può ritardare la progressione della cardiomiopatia. Nelle fasi più avanzate di malattia è indicato il follow-up della funzionalità respiratoria e cardiaca. Il supporto ventilatorio non invasivo con pressione positiva bifasica è utile nei bambini con insufficienza respiratoria. Sono attualmente in corso diversi trial di terapia genica, quali la somministrazione di minidistrofina o exon-skipping.
Distrofia muscolare di Emery-Dreifuss È una distrofia muscolare di cui si conoscono due varianti, una X-linked (gene STA-cromosoma Xq28) che codifica per una proteina chiamata emerina, e una forma AD (gene LMNA-cromosoma 1q21) che codifica per la proteina laminina A/C. Entrambe queste proteine sono situate sulla superficie interna della membrana nucleare con funzione di stabilizzazione durante la contrazione muscolare. La loro assenza o ridotta produzione è responsabile di un fenotipo clinico sovrapponibile, caratterizzato da contratture muscolari e tendinee che coinvolgono la muscolatura estensoria del collo e successivamente del dorso, il ginocchio e il tendine d’Achille, ipostenia del cingolo scapolare e pelvico e della muscolatura distale degli arti inferiori e una grave cardiomiopatia caratterizzata da disturbi della conduzione
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senoatriale e atrioventricolare.
FOCUS ON BIOPSIA MUSCOLARE La biopsia muscolare è parte integrante del processo diagnostico nelle malattie muscolari (Fig. F23.1, tavole a colori). I muscoli più frequentemente biopsiati sono il quadricipite femorale e il bicipite brachiale, meno frequentemente il deltoide. Lo studio della biopsia muscolare prevede un’analisi istologica, istochimica, immunoistochimica e ultrastrutturale. L’indagine istologica in sezione trasversa delle fibre muscolari fornisce informazioni sul calibro delle fibre (ipoo ipertrofiche), sulla posizione dei nuclei, sulla presenza di materiali d’accumulo o inclusioni nucleari o citoplasmatiche patognomoniche di alcune forme di miopatia, sui processi di necrosi o rigenerazione e sulla quantità di infiltrati infiammatori o tessuto adiposo. L’analisi istochimica permette di distinguere e di valutare la distribuzione delle fibre di tipo I e di tipo II e la presenza o meno nel campione muscolare di alcune attività enzimatiche. Lo studio immunoistochimico si basa sul riconoscimento dell’antigene, attraverso una reazione antigene-anticorpo, e un sistema di rilevazione mediante immunofluorescenza che permette di identificare la presenza o meno dell’antigene a livello tissutale. È possibile pertanto riconoscere l’assenza o le anomalie di numerose proteine responsabili di patologie muscolari, in particolare quelle del complesso distrofina-sarcoglicano che causano diversi quadri di distrofia muscolare (FIG. F23.2, TAVOLE A COLORI). L’analisi ultrastrutturale prevede lo studio al microscopio elettronico dei componenti specifici della fibrocellula muscolare e ha spesso un’importanza soprattutto ai fini di ricerca più che diagnostica.
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Il quadro intellettivo è nella norma e i livelli sierici di CPK sono conservati o lievemente aumentati. La biopsia muscolare dimostra un quadro distrofico con variabilità del diametro fibrale e aumento del tessuto connettivale. Vi è inoltre una riduzione o assenza dell’emerina a livello muscolare nella variante X-linked. La terapia prevede il monitoraggio del ritmo cardiaco e il precoce impianto di pacemaker o di defibrillatori. Le contratture tendinee e muscolari possono beneficiare di esercizi di stretching.
Distrofie muscolari dei cingoli Il termine distrofie muscolari dei cingoli o LGMD (limbgirdle muscular dystrophy) viene utilizzato per raggruppare un insieme di miopatie complesse, accomunate dal punto di vista clinico da ipostenia e ipotrofia della muscolatura dei cingoli e della muscolatura prossimale degli arti con risparmio della muscolatura bulbare. La prevalenza stimata di tutte le forme di LGMD è di 1/14 500-123 000. Si distinguono in forme dominanti (LGMD1), che sono circa il 10%, e recessive (LGMD2), più frequenti, ciascuna caratterizzata dal deficit di una specifica proteina di cui è stata identificata la localizzazione genica (TAB. 23.1) e che sono in continua definizione nosografica e genotipica. In queste forme la distrofia si manifesta spesso nella tarda adolescenza e più tardivo è l’esordio più benigna è l’evoluzione clinica. Il coinvolgimento cardiaco è raro e il quadro intellettivo è nella norma. Si possono variabilmente associare un coinvolgimento della muscolatura distale degli arti e retrazioni tendinee. I valori di CPK sono di solito moderatamente aumentati. Nessuna terapia farmacologica è attualmente in grado di migliorare il deficit stenico e rallentare l’evoluzione del quadro clinico. TABELLA 23.1 Classificazione delle distrofie muscolari dei cingoli (LGMD)
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Vengono riassunte qui di seguito brevemente le principali caratteristiche delle forme meglio caratterizzate. SARCOGLICANOPATIE (LGMD2C, 2D, 2E, 2F). Sono distrofie dei cingoli legate al difetto di una delle proteine associate alla distrofina, ossia γsarcoglicano (LGMD2C), α-sarcoglicano (LGMD2D), β-sarcoglicano (LGMD2E) e δ-sarcoglicano (LGMD2F) (VEDI FIG. 23.1). Il deficit di una di queste proteine causa la disfunzione totale o parziale del complesso sarcoglicanico che lega distrofina e distroglicani a livello del sarcolemma, con conseguente perdita di stabilità della membrana durante la contrazione muscolare. L’entità del deficit correla con l’età d’esordio, che varia da una media di otto anni nei casi di completa assenza del complesso dei sarcoglicani alla prima età adulta quando il difetto è solo parziale. Anche l’estrema variabilità del coinvolgimento della muscolatura dei cingoli correla con l’entità del difetto del complesso dei sarcoglicani: la sua totale mancanza è responsabile del fenotipo clinico più grave che è assai simile a quello della distrofia di Duchenne, mentre il deficit minore si manifesta con il fenotipo clinico più lieve, crampi e intolleranza allo sforzo.
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CALPAINOPATIA (LGMD2A). È la più frequente distrofia dei cingoli autosomica recessiva caratterizzata da un deficit di calpaina 3, una proteasi attivata dal calcio. L’età d’esordio è fra gli 8 e i 15 anni e la perdita della capacità deambulatoria avviene mediamente attorno ai 30 anni. L’atrofia muscolare coinvolge precocemente sia il cingolo pelvico che quello scapolare. Vi possono essere retrazioni del tendine d’Achille e scoliosi e i livelli sierici di CPK sono estremamente elevati (almeno 10 volte i valori di normalità). DISFERLINOPATIA (LGMD2B). È una distrofia dei cingoli autosomica recessiva caratterizzata dalla mutazione del gene DYSF che codifica per una proteina strutturale del sarcolemma chiamata disferlina (VEDI FIG. 23.1). Il quadro clinico si caratterizza per una ipostenia prossimale che coinvolge dapprima gli arti inferiori e dopo alcuni anni si estende anche al cingolo scapolare, con una lenta progressione di malattia.
Distrofie muscolari congenite Le distrofie muscolari congenite (CMD, congenital muscular dystrophies) sono un gruppo di distrofie a trasmissione autosomica recessiva caratterizzate da una grave ipotonia presente alla nascita e successiva atrofia e ipostenia a distribuzione soprattutto prossimale e simmetrica. Il quadro clinico si caratterizza inoltre per la presenza di contratture muscolari e deformità articolari che possono determinare un quadro di artrogriposi. Si può associare un ritardo mentale di entità variabile. I livelli di CPK sierici sono notevolmente aumentati e il quadro istologico muscolare è tipicamente distrofico. La forma più frequente è quella di Fukuyama (CMDF), il cui gene alterato è localizzato sul cromosoma 9q31-33 e codifica per la proteina fukutina. Il quadro clinico è caratterizzato da distrofia muscolare congenita con marcata ipotonia e atrofia a rapida evoluzione, contratture articolari, disgenesia corticale, a cui si associano un importante ritardo mentale e crisi comiziali, e alterazioni oculari (atrofia ottica, ipoplasia retinica, miopia, cataratta). La distrofia muscolare congenita più frequente nella razza caucasica è quella da deficit di laminina 2 (LAMA2), catena pesante (chiamata anche merosina) del complesso proteico della laminina 2, proteina della membrana
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basale della fibrocellula muscolare che lega l’ -distroglicano, il quale a sua volta lega la distrofina. Questa forma è caratterizzata da grave ipotono e ipotrofia presenti fin dai primi mesi di vita, contratture muscolari e tendinee e grave disabilità; il quadro intellettivo è nella norma.
Distrofia muscolare facio-scapolo-omerale È una distrofia muscolare progressiva relativamente frequente, con un’incidenza stimata di 5:10 000/anno. L’esordio della malattia è fra i 6 e i 20 anni d’età, anche se ci possono essere casi di esordio in prima età adulta; la progressione della malattia è relativamente lenta. La trasmissione è nella maggior parte dei casi autosomica dominante e l’anomalia genetica è caratterizzata nel 95% dei casi da una delezione variabile di una sequenza ripetuta di DNA D4Z4 (i soggetti normali hanno da 11 a 100 sequenze ripetute) di un gene situato sul braccio lungo del cromosoma 4 (4q35), con conseguente ipometilazione del DNA e rilasciamento cromatinico. Il rimanente 5% non presenta contrazione della sequenza D4Z4 ma mostra solo un rilasciamento cromatinico. Recentemente è stata dimostrata una incompleta soppressione del gene DUX4 nel muscolo, che a sua volta determina una inappropriata espressione genica a livello muscolare. L’estensione della delezione correla con la gravità clinica. Il fenotipo clinico è estremamente variabile e si passa da un 30% di casi asintomatici a forme ad esordio infantile molto gravi. Generalmente di tratta di una distrofia lentamente progressiva che interessa la muscolatura del volto, poi degli arti superiori e infine degli arti inferiori, con intervalli di stabilità clinica anche lunghi. Il coinvolgimento muscolare inizialmente si manifesta a carico della muscolatura mimica, in particolare sono interessati i muscoli orbicolari degli occhi e della bocca, mentre è di norma conservata la muscolatura extraoculare e bulbare. Il paziente manifesta difficoltà a chiudere forzatamente le palpebre, tende a dormire con gli occhi semiaperti, e le labbra particolarmente flaccide tendono a protrudere (“bocca di tapiro”). Gli arti superiori vengono colpiti con interessamento prevalente dei muscoli pettorali e grande dentato (le scapole risultano rialzate e alate), del bicipite e tricipite, mentre vi è risparmio dei deltoidi, che possono risultare pseudoipertrofici, e dei flessori dell’avambraccio. A livello degli arti inferiori sono interessati prevalentemente i muscoli delle anche, il quadricipite femorale e soprattutto i
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tibiali anteriori, con il conseguente fenomeno del piede cadente che si associa all’andatura anserina. Le manifestazioni extramuscolari comprendono ipoacusia per i toni ad alta frequenza, teleangectasie retiniche ed essudati retinici (sindrome di Coats). Il coinvolgimento cardiaco è raro e le funzioni intellettive sono nella norma. I valori di CPK possono essere normali o lievemente aumentati.
Distrofia muscolare scapolo-peronerale La sindrome scapolo-peroneale è un’entità non ben definita in quanto il quadro clinico di coinvolgimento della muscolatura scapolare e peroneale può essere dato sia da una forma di distrofia progressiva che da una forma neuropatica che prende il nome di “neuropatia periferica scapolo-peroneale”. La forma muscolare è caratterizzata da una trasmissione autosomica dominante legata al cromosoma 12q13.5q15. Il quadro clinico è caratterizzato da ipostenia e atrofia dei muscoli del collo e del cingolo scapolare e interessamento selettivo a carico degli arti inferiori dei muscoli tibiali anteriori e peronei. L’esordio è generalmente all’inizio della vita adulta e si manifesta con caduta bilaterale del piede e successivo interessamento della muscolatura del cingolo scapolare. L’evoluzione è estremamente lenta.
Distrofia muscolare oculo-faringea È una miopatia caratterizzata da interessamento della muscolatura oculare estrinseca con ptosi e limitazione dei movimenti oculari, disfagia e coinvolgimento della muscolatura prossimale degli arti. L’esordio è tardivo (quarta-quinta decade di vita) e l’evoluzione lentamente progressiva. La trasmissione è autosomica dominante e l’anomalia genetica consiste nella modesta espansione della tripletta GCG nell’esone del gene 14q11.2q13 che codifica per una proteina legante poliadenilato (PABP2). Il quadro clinico all’esordio è caratterizzato da ptosi generalmente asimmetrica e disfagia, seguite da limitazione dei movimenti oculari e coinvolgimento della muscolatura bulbare e della muscolatura prossimale degli arti (soprattutto inferiori). Più della metà dei pazienti necessita di correzione chirurgica della ptosi e la disfagia in alcuni casi può essere così grave da interferire con la possibilità di alimentarsi.
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I valori di CPK sono lievemente aumentati e all’EMG si ha un quadro miopatico, mentre la biopsia muscolare mostra all’esame istologico la presenza di un quadro distrofico con “vacuoli bordati” in talune fibre e alla microscopia elettronica un quadro peculiare di questa miopatia, ossia la presenza di filamenti tubulari intranucleari caratteristici.
Distrofie muscolari distali Si tratta di un gruppo eterogeneo di malattie genetiche, la maggior parte di tipo distrofico, caratterizzate dal coinvolgimento selettivo o prevalente della muscolatura distale degli arti. Le forme meglio caratterizzate sono la miopatia distale a esordio adulto tardivo tipo 1 (miopatia distale di Welander) e di tipo 2 (miopatia distale di Markesbery-Griggs-Udd), entrambe autosomiche dominanti, e la miopatia distale a esordio adulto precoce tipo 1 (miopatia distale di Nonaka) e tipo 2 (miopatia distale di Miyoshi), a trasmissione autosomica recessiva. Le principali caratteristiche cliniche, i dati di laboratorio, i locus genici interessati e i loro prodotti sono sintetizzati nella TABELLA 23.2. TABELLA 23.2 Principali caratteristiche delle miopatie distali
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Canalopatie Le paralisi periodiche (PP) sono patologie familiari o acquisite, caratterizzate da interessamento dei canali voltaggio-dipendenti del calcio, sodio e potassio che si manifestano clinicamente con ipostenia fluttuante, ipotono e riduzione dei riflessi osteotendinei (ROT). Si definisce miotonia una contrazione muscolare che persiste dopo contrazione volontaria e che può essere evocata mediante la percussione del ventre dei muscoli affetti. I disturbi miotonici possono essere primitivi o acquisiti e le forme primitive, geneticamente determinate, si distinguono in forme non distrofiche
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e distrofiche (che talvolta vengono classificate nelle distrofie muscolari). In passato le PP venivano tenute distinte dalle miotonie genetiche, ma le recenti acquisizioni di genetica molecolare hanno chiarito che le miotonie non distrofiche e le PP sono causate da mutazioni di geni che codificano per canali ionici situati sul sarcolemma e pertanto vengono attualmente raggruppate insieme e definite malattie dei canali ionici voltaggiodipendenti o canalopatie. Le canalopatie interessano i canali ionici voltaggiodipendenti del cloro, del sodio, del potassio e del calcio. La TABELLA 23.3 riassume le principali caratteristiche delle canalopatie sodiche, potassiche e calciche. TABELLA 23.3 Principali caratteristiche cliniche delle canalopatie sodiche, potassiche e calciche
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Malattie dei canali del cloro La miotonia congenita include due forme cliniche: una autosomica dominante che prende il nome di malattia di Thomsen e una autosomica recessiva chiamata malattia di Becker. La miotonia di Thomsen ha una prevalenza di 1/400 000, mentre quella di Becker è più comune con una prevalenza di 1/25 000. L’eziopatogenesi è comune ed è legata a mutazioni del gene CLCN1, posto sul cromosoma 7q35, codificante la proteina CLC-1 del canale ionico voltaggiodipendente del cloro. La ridotta conduttanza al cloro che ne consegue causa un accumulo di K+ nei tubuli trasversi con aumento della depolarizzazione della membrana e ipereccitabilità muscolare responsabile del fenomeno miotonico. Il fenomeno miotonico è precipitato da particolari condizioni quali lo stress, il soprassalto emotivo, i rapidi movimenti; è maggiore dopo riposo muscolare e quindi più evidente all’inizio dello sforzo muscolare e si attenua con l’esercizio fisico (fenomeno del “riscaldamento”).
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Nella miotonia congenita autosomica dominante o malattia di Thomsen la miotonia si manifesta attorno ai 6-8 anni di vita ed è diffusa a tutti i gruppi muscolari. È presente ipertrofia muscolare ma non vi è ipostenia. Nella miotonia congenita autosomica recessiva o malattia di Becker il fenomeno miotonico e l’ipertrofia sono più marcati e si localizzano precocemente e prevalentemente agli arti inferiori. In questa forma si associa anche ipostenia, localizzata soprattutto ai muscoli dell’avambraccio e allo sternocleidomastoideo. I valori di CPK sono nella norma o lievemente aumentati, soprattutto nella forma autosomica recessiva. L’elettromiografia documenta le scariche miotoniche e alla biopsia muscolare sono presenti fibre ipertrofiche e necrotiche, più evidenti nella malattia di Becker. I farmaci utilizzati per ridurre l’entità del fenomeno miotonico sono il chinino, la mexiletina e la difenilidantoina.
Malattie dei canali del sodio Le malattie dei canali del sodio di seguito descritte sono la paramiotonia congenita e la paralisi periodica iperpotassiemica, considerate varianti alleliche a trasmissione autosomica dominante, causate da mutazione del gene SCN4A localizzato sul cromosoma 17p23 che codifica per la subunità del canale voltaggio-dipendente del sodio. Questa mutazione è responsabile di una disfunzione nella inattivazione del canale, con conseguente aumento della conduttanza al sodio e ridotta eccitabilità muscolare. La paralisi periodica iperpotassiemica, con una prevalenza di 1/200 000, è una condizione patologica a esordio nella prima infanzia caratterizzata da brevi (30 minuti-4 ore) ma frequenti attacchi di ipostenia prevalentemente prossimale simmetrica, scatenati dal freddo, dal riposo dopo l’esercizio fisico, dal digiuno e dalla somministrazione di potassio. Con il progredire della malattia la frequenza degli attacchi aumenta e si può sviluppare un’ipostenia permanente. Il fenomeno miotonico si manifesta nel periodo intercorrente gli attacchi di ipostenia, con interessamento della muscolatura delle mani, oculare e facciale. I livelli sierici di potassio sono aumentati. Gli attacchi vengono limitati dall’assunzione di carboidrati ed evitando i fattori scatenanti quali freddo, digiuno o sforzo fisico intenso; in caso di attacchi frequenti la terapia farmacologica di prevenzione si basa sull’utilizzo di depletori
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farmacologici di potassio quali l’acetazolamide e la clorotiazide. La paramiotonia congenita è una forma che esordisce nella prima infanzia, caratterizzata da miotonia diffusa e rilevante, tipicamente aggravata dal freddo e che peggiora con l’esercizio fisico, al contrario di ciò che avviene classicamente (“miotonia paradossa”). Al fenomeno miotonico si associano episodi di ipostenia solitamente di lieve entità, anch’essi scatenati dal freddo o spontanei. Con il passare del tempo si può sviluppare un’ipostenia costante anche tra un attacco e l’altro. I valori sierici di K+ sono generalmente normali o lievemente aumentati. La brevità e la lieve entità degli attacchi di ipostenia fanno sì che spesso non si renda necessario alcun trattamento. In caso di attacchi ripetuti è indicato il trattamento di profilassi con idroclorotiazide, che abbassa la concentrazione sierica di K+, o l’utilizzo di mexiletina, in grado di prevenire sia la miotonia che l’ipostenia.
Malattie dei canali del potassio La sindrome di Andersen-Tawil è una rara malattia autosomica dominante, con una prevalenza di 1/500 000, caratterizzata dalla mutazione di un gene localizzato nel cromosoma 17q che codifica per un canale voltaggioindipendente del potassio (Kir 2.1), la cui funzione è quella di favorire la stabilizzazione del potenziale di membrana della cellula muscolare cardiaca a riposo e nella fase tardiva della ripolarizzazione della cellula muscolare cardiaca e scheletrica. Il quadro clinico presenta un’elevata variabilità di espressione fenotipica anche nei soggetti appartenenti alla stessa famiglia ed è caratterizzato dalla presenza di paralisi periodiche, aritmie cardiache e dismorfismi. Durante gli episodi di ipostenia la concentrazione di potassio può essere ridotta, normale o aumentata, ma la somministrazione di potassio scatena sempre l’ipostenia. Le aritmie cardiache (incremento del QT, aritmie ventricolari) sono potenzialmente gravi e le dismorfie comprendono bassa statura, ipertelorismo, scoliosi, sindattilia e ipoplasia della mandibola. L’acetazolamide viene utilizzata come profilassi degli attacchi di ipostenia frequenti e invalidanti.
Malattie dei canali del calcio La paralisi periodica ipokaliemica è una forma autosomica dominante, con
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una prevalenza di 1/100 000, che esordisce nell’adolescenza, con penetranza minore nel sesso femminile, causata da una mutazione del gene CACNA1S localizzato sul cromosoma 1q31-1q32 che codifica la subunità -1 sensibile alla diidropiridina del canale voltaggio-dipendente per il calcio. Vi sono anche forme di paralisi periodica ipokaliemica legate ad anomalie dei canali del sodio e del potassio. La malattia è caratterizzata da ipostenia periodica, con frequenza degli attacchi variabile da giornalieri ad annuali e di durata fino a 24 ore, durante i quali si ha ipokaliemia. Nel corso degli attacchi l’ipostenia colpisce soprattutto i muscoli prossimali degli arti con raro coinvolgimento anche della muscolatura respiratoria e si possono avere aritmie cardiache causate dall’ipokaliemia. Gli attacchi sono slatentizzati dal riposo dopo esercizio fisico intenso e da pasti ricchi di carboidrati, da assunzione di alcool, esposizione al freddo, traumi e infezioni. Il fenomeno miotonico è raro e limitato alle palpebre. Con il progredire della malattia si sviluppa un’ipostenia costante grave che coinvolge soprattutto la muscolatura prossimale degli arti inferiori. La biopsia muscolare mostra la presenza di vacuoli o di aggregati tubulari nella maggior parte delle fibre. In caso di attacco è indicato il monitoraggio cardiaco e va somministrato KCl per via orale (solo nei casi più gravi per via endovenosa). La frequenza degli attacchi è limitata da una dieta povera di carboidrati e ricca di potassio e dal punto di vista farmacologico si utilizza l’acetazolamide come terapia di profilassi.
Distrofie miotoniche KEY POINTS Definizione. Sindromi caratterizzate da coinvolgimento distrofico muscolare e sistemico e fenomeno miotonico. Esistono due forme: DM1 o malattia di Steinert e DM2 o PROMM a trasmissione autosomica dominante (AD). Epidemiologia. DM1: prevalenza 13-15/100 000.
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Patogenesi. DM1: espansione della tripletta CTG nel gene di una proteinchinasi per la serina-treonina sul cromosoma 19q13.3. DM2: espansione della sequenza CCTG nel gene per la proteina zinc finger 9 sul cromosoma 3q21. Quadro clinico. DM1: ipostenia e ipotrofia muscolare della mano e distale degli arti inferiori, del collo e dei muscoli del volto, fenomeno miotonico, aritmie cardiache, cataratta, calvizie frontale, atrofia gonadica, stipsi, deficit cognitivi. DM2: coinvolgimento della muscolatura prossimale, restante quadro clinico sovrapponibile a DM1. Diagnosi. Clinica e analisi molecolare che conferma espansione della tripletta CTG nella DM1 e della sequenza CCTG nella DM2. Trattamento. Fenomeno miotonico: mexiletina o difenilidantoina (100-300 mg/die); ipostenia: FKT e protesi ortesiche; trattamento della cataratta, delle aritmie cardiache e del deficit di testosterone. Le distrofie miotoniche (DM) sono patologie autosomiche dominanti caratterizzate da un quadro clinico complesso i cui aspetti principali sono l’ipostenia, la presenza del fenomeno miotonico e la cataratta. Esistono due forme di DM, caratterizzate da diverse anomalie genetiche ma con alcune caratteristiche fenotipiche sovrapponibili. Sono: • distrofia miotonica di tipo 1 (DM1) o malattia di Steinert; • distrofia miotonica di tipo 2 (DM2) o miopatia miotonica prossimale (PROMM, proxymal myotonic myopathy).
Distrofia miotonica di tipo 1 (DM1) Alcune caratteristiche, quali la distribuzione dell’atrofia, il coinvolgimento distrofico anche di tessuti extramuscolari (cristallino, sistema endocrino, cute, esofago, cuore, encefalo) e la presenza del fenomeno miotonico rendono la DM1 o malattia di Steinert una distrofia atipica. L’incidenza è di 13-15/100 000 e l’anomalia genetica alla base della
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patologia è l’espansione della tripletta CTG nel gene di una proteinchinasi per la serina-treonina localizzato sul cromosoma 19q13.3. Maggiore è l’espansione delle triplette, più grave è il fenotipo clinico e più precoce è l’esordio della malattia (fenomeno dell’anticipazione). La trasmissione è autosomica dominante, ma il fenotipico clinico è estremamente variabile. Nella forma classica l’esordio è generalmente tra i 20 e i 50 anni d’età. Il quadro clinico è caratterizzato da ipotrofia dei muscoli intrinseci della mano e della loggia anteriore della gamba con caduta del piede, dello sternocleidomastoideo e dei muscoli flessori del collo e il successivo coinvolgimento dei muscoli linguali e faringei con comparsa di disartria, voce nasale e disfagia. L’interessamento della muscolatura mimica facciale conferisce al viso un tipico aspetto allungato e inespressivo. L’interessamento della muscolatura respiratoria è precoce ed è la principale causa di morte. La miotonia è maggiormente evidente a carico della muscolatura della mano, della muscolatura estensoria del polso e a livello della lingua ed è una manifestazione precoce, che può anche precedere di diversi anni l’ipostenia, ma che tende a non essere più visibile nelle fasi avanzate di malattia, quando predomina l’atrofia. Il coinvolgimento cardiaco si manifesta con difetti di conduzione atrioventricolare, che nei casi più gravi possono dare bradicardia fino al blocco completo della conduzione con morte improvvisa, e prolasso mitralico. Il coinvolgimento oculare si manifesta prevalentemente come degenerazione distrofica del cristallino, con un quadro di cataratta che è presente in circa il 90% dei pazienti. La calvizie frontale precoce e progressiva è caratteristica e interessa sia gli uomini che le donne. Il coinvolgimento sistemico di altri organi e apparati si manifesta con atrofia delle gonadi, iperinsulinemia da carico di glucosio, ridotta motilità esofagea, gastrica e intestinale, deficit cognitivi e comportamentali. La diagnosi si basa sugli aspetti clinici e la conferma diagnostica è data dall’analisi molecolare del DNA leucocitario per la ricerca di un’alterata espansione delle replicazioni di CTG. I valori di CPK possono essere moderatamente aumentati e l’EMG può documentare la presenza di scariche miotoniche. Il fenomeno miotonico può essere contrastato farmacologicamente con la mexiletina (150 mg/die) e la difenilidantoina (100-300 mg/die), mentre l’ipostenia si avvale di trattamenti fisioterapici di supporto e di protesi ortesiche. Suscettibili di trattamento sono invece le alterazioni cardiache, la
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cataratta e il deficit di testosterone. La vita media è di circa 60 anni e la morte avviene per complicanze respiratorie o cardiache. La forma congenita è la forma più grave di DM1 ed è trasmessa dalla madre. Si caratterizza per una grave ipotonia soprattutto a carico della muscolatura facciale e bulbare, con conseguente difficoltà nell’alimentazione e insufficienza respiratoria, e ritardo nello sviluppo psicomotorio.
Distrofia miotonica di tipo 2 (DM2) La prevalenza della DM2 non è nota essendo ancora diagnosticata con estrema difficoltà. La sua prevalenza è alta in Germania, Polonia e nell’Europa dell’Est. Nota anche come PROMM (proxymal myotonic myopathy), questa forma di distrofia miotonica si distingue dalla DM1 per la diversa anomalia genetica alla base della patologia, caratterizzata dall’espansione della sequenza nucleotidica CCTG nell’introne 1 di un gene localizzato sul cromosoma 3q21, che codifica per la proteina zinc finger 9 (ZNF9). Sebbene la DM2 e la DM1 siano geneticamente distinte, presentano lo stesso meccanismo patomolecolare con un accumulo di RNA tossico a livello nucleare di differenti tessuti, conseguente sequestro proteico e anomalo splicing di diverse proteine. Pertanto vengono anche definite come “spliceopatie” che spiegano gli aspetti atipici multiorgano delle distrofie miotoniche. A differenza di quanto avviene nella DM1, nella DM2 l’ipostenia interessa soprattutto i muscoli prossimali, mentre altre caratteristiche di malattia si sovrappongono in entrambe le forme e sono la miotonia, la cataratta, l’atrofia testicolare, la stipsi e i disturbi cognitivi. Il coinvolgimento della muscolatura facciale e l’alopecia frontale sono meno marcate e le anomalie cardiache meno frequenti che nella DM1.
MIOPATIE MITOCONDRIALI KEY POINTS
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Nelle miopatie mitocondriali sono caratteristici il coinvolgimento sistemico e l’eterogeneità di presentazione clinica. Nelle forme più comuni (MELAS, MERFF, CPEO) il contemporaneo interessamento encefalico è costante, al punto che vengono anche definite “encefalomiopatie”. Nei pazienti affetti da miopatie mitocondriali l’ipostenia può essere lieve, ma nella maggior parte dei casi è presente una intolleranza allo sforzo fisico. La presenza di acidosi lattica legata alla disfunzione mitocondriale è molto frequente. L’esame bioptico evidenzia nel muscolo un quadro tipico caratterizzato dalla presenza delle ragged red fibers. Le malattie mitocondriali sono un complesso gruppo di patologie multisistemiche a espressione fenotipica eterogenea e variabile, caratterizzate da anomalie strutturali, biochimiche e genetiche a carico dei mitocondri. I mitocondri sono dotati di un DNA proprio (mtDNA) che viene ereditato dall’oocita. Si spiega così il fenomeno per cui alcune patologie mitocondriali sono a trasmissione tipicamente materna. La biopsia muscolare mostra un quadro caratteristico, dovuto alla presenza di ragged red fibers (fibre rosse stracciate), ossia fibre muscolari ricche di mitocondri strutturalmente anomali per una sintesi proteica aberrante conseguente ad alterazioni a carico del mtDNA, che con la colorazione di Gomori appaiono di color viola o rosso. La presenza dei mitocondri in ogni cellula dell’organismo rende ragione del coinvolgimento multisistemico tipico delle malattie mitocondriali, con interessamento muscolare, cardiaco, endocrino, renale, gastrointestinale, cutaneo, del sistema nervoso centrale e periferico. Le molteplici manifestazioni cliniche delle malattie mitocondriali possono essere raggruppate nelle seguenti condizioni: • encefalomiopatie (caratterizzate da interessamento muscolare e del sistema nervoso centrale) di cui verranno qui descritte due forme: la miopatia mitocondriale con encefalopatia, acidosi lattica ed episodi tipo ictus o MELAS (mithocondrial myopathy, encephalopathy, lactic acidosis and stroke) e l’epilessia mioclonica con fibre rosse stracciate o MERFF
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(myoclonic epilepsy with ragged red fibers); • oftalmoplegia esterna progressiva cronica o CPEO (chronic progressive external ophthalmoplegia), forme a interessamento puramente muscolare di tipo distrofico.
Miopatia mitocondriale con encefalopatia, acidosi lattica ed episodi tipo ictus (MELAS) È la più comune fra le encefalomiopatie mitocondriali. L’esordio nell’adolescenza e il quadro clinico sono caratterizzati da ipostenia prossimale con intolleranza allo sforzo, crisi epilettiche (parziali o generalizzate) ed episodi stroke-like che si manifestano con emiparesi, emianopsia o cecità corticale. Si associano ipoacusia, alterazioni del sistema endocrino caratterizzate da diabete mellito, ipotiroidismo e deficit di GH (growth factor). La malattia porta a demenza e allettamento fino all’exitus. La biopsia muscolare documenta la presenza delle ragged red fibers, l’acido lattico sierico è aumentato e la TC o la RM encefalo evidenziano atrofia, calcificazioni nei gangli della base e lesioni simil-infartuali che si localizzano prevalentemente nei lobi occipitoparietali, non rispettando i territori vascolari. Nell’80% dei casi è stata riscontrata una mutazione puntiforme A3243G nel gene per tRNA leucina. Non esiste terapia specifica e il trattamento sintomatico è rivolto alle crisi epilettiche, agli episodi strokelike e alle endocrinopatie.
Epilessia mioclonica con fibre rosse stracciate (MERFF) È una encefalomiopatia a fenotipo estremamente polimorfo. L’esordio della malattia può avvenire variabilmente dalla tarda infanzia all’età adulta e il quadro clinico è caratterizzato da crisi epilettiche miocloniche generalizzate, atassia cerebellare progressiva che coinvolge il tronco e gli arti e ipostenia della muscolatura dei cingoli. Altre condizioni patologiche associate comprendono diabete mellito, ipoacusia, neuropatia periferica, piede cavo, deficit intellettivo, atrofia ottica e lipomatosi multipla. Anche in questa forma i lattati sierici possono essere aumentati e la biopsia muscolare mostra il quadro caratteristico delle miopatie mitocondriali. Nell’80% dei casi è stata riscontrata una mutazione puntiforme A8344G nel gene tRNA lisina.
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La terapia è solo sintomatica con particolare attenzione al controllo farmacologico delle crisi epilettiche.
Oftalmoplegia esterna progressiva cronica (CPEO) È la più frequente miopatia mitocondriale, geneticamente eterogenea, con forme autosomiche dominanti a trasmissione materna e forme sporadiche con delezioni del mtDNA. L’esordio avviene nell’adolescenza e il quadro clinico è caratterizzato da ptosi generalmente asimmetrica e oftalmoplegia esterna progressiva. Si possono inoltre associare disfagia, disartria, ipostenia prossimale degli arti, della muscolatura facciale e del collo. Il coinvolgimento della muscolatura respiratoria, seppur raro, rappresenta la principale causa di morte. La biopsia muscolare documenta le fibre rosse stracciate e la concentrazione sierica dei lattati, che a riposo è nella norma, mentre si incrementa notevolmente dopo sforzo muscolare. Anche per questa forma non esiste una terapia specifica.
MIOPATIE DA ACCUMULO METABOLICO KEY POINTS Durante la contrazione muscolare rapida e intensa nel muscolo vengono ricostituite le riserve di ATP utilizzando come substrato metabolico quasi esclusivamente i carboidrati mediante la glicolisi (anaerobica) del glicogeno, mentre il lavoro muscolare protratto richiede, dopo avere esaurito la glicolisi (aerobica) del glicogeno, la disponibilità anche di chetoni e di acidi grassi. Per questo motivo il momento e le modalità della comparsa di una sintomatologia legata a una patologia muscolare da accumulo forniscono utili indicazioni sulla natura del disturbo metabolico Nelle miopatie da accumulo metabolico l’intolleranza allo sforzo fisico è spesso il sintomo prevalente e può essere utilizzata come test di provocazione (per esempio, il test di lavoro ischemico che serve a
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valutare la capacità del muscolo di contrarsi in condizioni anaerobiche). Il digiuno prolungato, riducendo la disponibilità di substrati metabolici, può agire come evento scatenante una manifestazione clinica acuta. La mioglobinuria dopo sforzo fisico intenso è frequente nelle miopatie da accumulo metabolico e talvolta può essere la prima manifestazione clinica. Anche se il coinvolgimento sistemico è molto comune nella maggior parte delle miopatie da accumulo, esistono forme nelle quali il deficit metabolico è limitato al muscolo. Comprendono un eterogeneo gruppo di malattie che si trasmettono generalmente con modalità autosomica recessiva e sono caratterizzate da difetti di enzimi coinvolti nei processi energetici muscolari, in particolare nel metabolismo degli acidi grassi e del glicogeno. Così come per le malattie mitocondriali, la diffusione in numerosi tessuti degli enzimi alterati rende ragione del quadro estremamente polimorfo di queste malattie e della loro espressione spesso multisistemica, con coinvolgimento anche del SNC. Le manifestazioni muscolari di queste malattie comprendono un’ipostenia progressivamente ingravescente e manifestazioni acute caratterizzate da intolleranza allo sforzo con esauribilità muscolare, crampi, mialgie e mioglobinuria, variamente combinate. La biopsia muscolare può documentare prodotti d’accumulo conseguenti all’alterazione metabolica e l’analisi genetica molecolare permette di identificare le mutazioni nei rispettivi geni che codificano per prodotti proteici anomali. Verranno qui di seguito sinteticamente descritte le principali miopatie da alterazione del metabolismo del glicogeno e dei lipidi.
Miopatie da alterazione del metabolismo del glicogeno (glicogenosi) Il deficit enzimatico in corso di glicogenosi può essere limitato al tessuto
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muscolare, dando un quadro clinico acuto indotto da esercizio muscolare e caratterizzato da intolleranza allo sforzo e mioglobinuria, oppure coinvolgere anche altri organi e apparati e manifestarsi con ipostenia progressiva e permanente. MALATTIE DA ACCUMULO DI GLICOGENO CON IPOSTENIA PROGRESSIVA. La forma più frequente è data dal deficit di maltasi acida o glicogenosi tipo II, patologia autosomica recessiva causata da un difetto del gene della maltasi acida, enzima lisosomiale che degrada il glicogeno a glucosio. Il fenotipo è variabile a seconda dell’età d’esordio e si distinguono una forma neonatale con grave miopatia, cardiomegalia ed epatomegalia e decesso entro il primo anno di vita, una forma infantile che si manifesta con ritardo nello sviluppo motorio e impossibilità nel raggiungimento del cammino autonomo, e una forma adulta, caratterizzata da ipostenia progressiva della muscolatura dei cingoli e grave compromissione della muscolatura respiratoria. La prevalenza varia da 1/35 000-138 000 per la forma neonatale e 1/57 000 per la forma adulta. I livelli sierici di CPK sono aumentati (per un approfondimento, VEDI FOCUS ON: IPERCPKEMIA, PAG. 432) e la biopsia muscolare documenta accumuli di glicogeno e fosfatasi acida. L’infusione per via endovenosa di enzima ricombinante in età infantile normalizza la funzione ventricolare sinistra e migliora globalmente la forza muscolare. ALTERAZIONI DELLA GLICOLISI CON INTOLLERANZA ALL’ESERCIZIO FISICO. Ad oggi sono state descritte sette forme di glicogenosi (V-XI); la forma più nota è quella di tipo V o malattia di McArdle, con prevalenza 1/100 000. La maggior parte delle forme è a trasmissione autosomica recessiva, causate da deficit di specifici enzimi della glicolisi ossidativa, con conseguente manifestazione dei sintomi durante esercizio muscolare intenso e rapido, caratterizzate da contratture muscolari marcate e dolorose e mioglobinuria. I valori di CPK in queste condizioni aumentano fino a 100 volte (VEDI CAP. 21, TAB. 21.7). Il riscaldamento muscolare prima dello sforzo fisico o la breve interruzione dello sforzo al comparire dei sintomi facilita il fenomeno detto second-wind, ossia il passaggio all’utilizzo degli acidi grassi per la produzione di energia con conseguente maggior tolleranza all’esercizio.
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FOCUS ON IPERCPKEMIA L’enzima sierico che viene sempre dosato nelle miopatie è la creatinchinasi (CPK), che viene liberato dalle fibre muscolari nel plasma in seguito a un danno muscolare. È un dimero di cui esistono tre isoenzimi: l’enzima presente nel muscolo scheletrico è costituito da due unità M (CPK-MM), la forma prevalente nel SNC (ma presente anche nel muscolo liscio e nel nervo) è costituita da due unità B (CPKBB), mentre nell’isoenzima cardiaco sono presenti una unità M e una unità B (CPK-MB). Un incremento del livello dell’isoenzima MM è tipico delle malattie muscolari. Valori normali di CPK sierica non escludono in modo assoluto la presenza di miopatia, mentre valori aumentati di CPK non sono sempre indicativi di una miopatia, in quanto possono essere anche conseguenza di un esercizio fisico intenso, di traumi, di iniezioni muscolari, di esame EMG ad ago o di crisi epilettiche. L’incremento maggiore dei valori di CPK si ha nelle miopatie con necrosi muscolare quali le distrofie muscolari e le forme infiammatorie idiopatiche, in particolare la dermatomiosite, e nelle fasi iniziali di malattia, riducendosi poi con la cronicizzazione del quadro. Concentrazioni aumentate di CPK si riscontrano anche in soggetti asintomatici e aiutano a riconoscere soggetti a rischio di ipertermia maligna, distrofia muscolare presintomatica, portatori di distrofia muscolare di Duchenne e di Becker.
Miopatie da alterazioni del metabolismo lipidico Il fenomeno biochimico della β-ossidazione degli acidi grassi che avviene nei mitocondri fornisce energia al muscolo in condizioni di esercizio fisico prolungato. Per poter attraversare la membrana mitocondriale, gli acidi grassi
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a catena lunga devono essere attivati ad acetil-coenzima A, che successivamente si unisce alla carnitina mediante una reazione enzimatica catalizzata dalla carnitina-palmitoiltransferasi 1 (CPT I). A questo punto passano la membrana mitocondriale come esteri della carnitina e qui la carnitina-palmitoiltransferasi 2 (CPT II) opera il processo inverso rendendoli disponibili alla β-ossidazione. DEFICIT DI CARNITINA-PALMITOILTRANSFERASI. Questa malattia è la causa più frequente di mioglobinuria. È trasmessa con modalità autosomica recessiva ed è causata da deficit dell’enzima CPT II. La malattia si manifesta attorno ai 20 anni d’età con crisi ricorrenti di mialgia, mioglobinuria e ipostenia dopo esercizio fisico prolungato, esacerbate dal freddo, dal digiuno e da infezioni. I livelli di CPK aumentano dopo gli episodi di mioglobinuria e la biopsia muscolare documenta accumulo di lipidi.
MIOPATIE ACQUISITE Il più ampio gruppo di miopatie acquisite è costituito dalle forme infiammatorie (idiopatiche e a eziologia infettiva). Sono forme acquisite anche le miopatie tossiche e quelle associate ad altre patologie sistemiche.
Miopatie infiammatorie idiopatiche KEY POINTS Definizione. Malattie muscolari acquisite con ipostenia muscolare e un quadro bioptico infiammatorio. Forme principali: dermatomiosite (DM), polimiosite (PM) e miosite a corpi inclusi (IBM). Epidemiologia. DM e PM: incidenza 1/100 000; IBM: frequente miopatia infiammatoria dopo i 50 anni d’età. Patogenesi.
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Eziologia ignota; patogenesi autoimmune con risposta umorale nella DM e cellulo-mediata nella PM e IBM. Quadro clinico. PM e DM: decorso subacuto, ipostenia muscolatura artuale prossimale poi distale, dei flessori del collo, faringea e respiratoria; manifestazioni cardiache e polmonari; associazione con connettiviti. Peculiari della DM: quadro dermatologico e associazione con neoplasie. IBM: coinvolgimento precoce muscolare distale degli arti e del quadricipite; cronica progressiva; non alterazioni cardiache e polmonari. Diagnosi. DM e PM: incremento CPK, Ab anti-Jo1, biopsia muscolare. DM: infiammazione perivascolare e atrofia perifascicolare. PM: infiammazione endomisiale. IBM: come PM, più inclusioni citoplasmatiche e fibre vacuolate nucleari e citoplasmatiche contenenti tubulofilamenti. Trattamento: DM e PM: prednisone per os 1-1,5 mg/kg/die, cicli di immunoglobuline endovena, azatioprina e metotrexate. IBM: nessuna terapia di documentata efficacia. Le malattie infiammatorie idiopatiche sono un gruppo di malattie muscolari acquisite, ad andamento subacuto o cronico, eziologia non nota e patogenesi verosimilmente autoimmune, caratterizzate da ipostenia muscolare e da un quadro bioptico di tipo infiammatorio (VEDI FOCUS ON, BIOPSIA MUSCOLARE, PAG. 421, FIG. F23.1). Vengono distinte in tre forme principali: dermatomiosite (DM), polimiosite (PM) e miosite a corpi inclusi (IBM, inclusion body myositis). Esistono poi le sindromi da sovrapposizione (overlap syndromes) in cui DM e PM si associano a connettiviti e vasculopatie. EPIDEMIOLOGIA E PATOGENESI. La DM è più frequente della PM con un’incidenza media annua cumulativa stimata attorno a 1/100 000; la IBM è probabilmente la miopatia infiammatoria più frequente al di sopra dei 50 anni d’età. PM e IBM colpiscono soggetti in età adulta, mentre la DM si può manifestare anche in età pediatrica. La DM colpisce soprattutto le donne, al contrario della IBM che predilige il sesso maschile con un rapporto 3:1.
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L’eziologia di queste forme è ignota e la patogenesi autoimmune è sostenuta dal riscontro di autoanticorpi diretti contro diversi antigeni cellulari, dall’associazione con altre malattie autoimmuni e dalla risposta al trattamento steroideo e a terapie immunosoppressive. In particolare si ritiene che la DM sia sostenuta da un processo autoimmunitario di tipo umorale, mentre la PM e la IBM da un meccanismo immunitario cellulo-mediato. Nella DM si ipotizza che autoanticorpi diretti contro le cellule endoteliali siano responsabili dell’attivazione del complemento, con ischemia dei capillari endomisiali e conseguente necrosi muscolare. La PM e la IBM sarebbero invece sostenute da un processo autoimmunitario cellulo-mediato con un’azione citotossica mediata da cellule T CD8+ e diretta contro le fibre muscolari che esprimono sulla loro superficie particolari molecole di classe MHC-I. In tutti i casi il primum movens di questa risposta autoimmunitaria alterata non è noto, anche se nelle forme cellulomediate è stato ipotizzato un coinvolgimento virale. Nella forma sporadica di IBM la biopsia muscolare documenta la presenza di amiloide, anche se resta ancora da chiarire se sia conseguente al danno muscolare cronico o se sia indice di un processo patogenetico primariamente degenerativo. QUADRO CLINICO GENERALE. Le miopatie infiammatorie idiopatiche condividono alcune caratteristiche cliniche generali che sono sintetizzate di seguito. L’ipostenia interessa precocemente la muscolatura prossimale degli arti (con difficoltà a salire le scale, sollevare le braccia, pettinarsi), mentre quella distale è coinvolta precocemente nella IBM e tardivamente nella PM e DM. Nella IBM si ha un interessamento marcato del quadricipite con conseguente cedimento degli arti inferiori. Altri muscoli frequentemente interessati sono quelli flessori del collo e faringei, con difficoltà a mantenere il capo eretto e disfagia, e nelle fasi più tardive quelli respiratori. La muscolatura oculare e facciale sono classicamente risparmiate (è possibile avere una lieve ipostenia facciale nella IBM). Con il progredire della malattia al quadro di ipostenia si associa l’atrofia muscolare. Le mialgie e la dolenzia sono lievi e presenti all’esordio della malattia, soprattutto nella IBM. Il quadro clinico muscolare ha un decorso subacuto (settimane o mesi) nella PM e BM, mentre è lento e insidioso (mesi o anni) nella IBM. Al quadro di ipostenia e atrofia muscolare si associano manifestazioni
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extramuscolari che sono più frequenti nella DM e nella PM. In particolare si possono avere sintomi sistemici quali febbre, malessere, perdita di peso, coinvolgimento articolare con o senza artrite, fenomeno di Reynaud (soprattutto nelle forme associate a connettivopatie), coinvolgimento cardiaco (aritmie, cardiomiopatia dilatativa con insufficienza cardiaca, miocardite) e polmonare, con dispnea e polmonite ab ingestis conseguenti a coinvolgimento della muscolatura respiratoria. Il coinvolgimento polmonare può manifestarsi anche con un’interstiziopatia presente nel 10% dei casi di PM e DM, che può anche essere sintomo d’esordio della malattia e che nell’80% dei casi si manifesta in soggetti con anticorpi contro la istidil-RNA messaggero sintetasi (anticorpi anti-Jo1). Si può avere interessamento della muscolatura gastrointestinale con ritardato svuotamento gastrico, ulcere e perforazioni, soprattutto nelle forme infantili di DM. CARATTERISTICHE SPECIFICHE DELLA DM. Caratteristica distintiva della DM è il quadro dermatologico che accompagna ma più spesso precede l’ipostenia muscolare, favorendo la diagnosi. Peculiari sono il rash eliotropo color bluporpora con distribuzione “a farfalla” alle palpebre superiori e alle guance, a cui si associa spesso edema periorbitario, e le papule di Gottron, lesioni eritematose rilevate e desquamanti che si localizzano sulle nocche. Un eritema fotosensibile si manifesta inoltre sul viso, sulle ginocchia e sui gomiti, sul collo e sulla parte anteriore del torace (segno a V) e sulle spalle (segno dello scialle); i capillari a livello dei letti ungueali sono spesso dilatati. Tutte le miopatie infiammatorie possono essere associate a neoplasie maligne, ma il rischio è nettamente più elevato per la DM e l’incidenza aumenta con l’aumentare dell’età. I tumori più frequentemente associati con la DM sono quello ovarico, polmonare, gastrico, del colon-retto, pancreatico e il linfoma di Hodgkin. La malattia ha spesso un decorso con ricaduteremissioni ed esistono forme cliniche ove predomina il quadro dermatologico su quello muscolare (dermatomiositis sine miositis). Le forme infantili si associano spesso a calcificazioni cutanee diffuse, maggior frequenza delle manifestazioni sistemiche e decorso cronico. La diagnosi è favorita dall’interessamento cutaneo; inoltre le CPK sono aumentate fino a 50 volte i valori normali e gli anticorpi anti-Jo1 sono spesso presenti nei pazienti con polmonite interstiziale. L’EMG mostra un quadro classicamente miopatico e la biopsia muscolare è peculiare in quanto
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documenta un infiltrato infiammatorio perivascolare con atrofia perifascicolare tipici della malattia (VEDI FIG. F23.2, TAVOLE A COLORI). CARATTERISTICHE SPECIFICHE DELLA PM. La diagnosi di PM è una diagnosi di esclusione che va sospettata in pazienti adulti con ipostenia subacutacronica della muscolatura prossimale degli arti e del tronco e risparmio della muscolatura oculare e facciale, che non presentino rash cutaneo, anamnesi familiare positiva per malattie neuromuscolari, esposizione a farmaci miotossici o tossine, patologie endocrine o metaboliche con interessamento muscolare, neuropatie periferiche. I dati clinici strumentali e laboratoristici sono simili a quelli della DM, ad eccezione del quadro di biopsia muscolare che documenta fibre di diametro variabile, alcune necrotiche o in rigenerazione e infiammazione endomisiale da parte di T cellule CD8 e macrofagi (VEDI FOCUS ON, BIOPSIA MUSCOLARE, PAG. 421, FIG. F23.2). La PM come entità isolata è rara; si associa spesso ad altre malattie autoimmuni e a infezioni virali o batteriche. CARATTERISTICHE SPECIFICHE DELLA IBM. È la forma infiammatoria idiopatica in cui l’interessamento muscolare è sia prossimale che distale e avviene precocemente e in maniera peculiare a carico dei quadricipiti femorali, della muscolatura flessoria delle dita della mano ed estensoria dei piedi. Il precoce coinvolgimento della muscolatura distale può mimare all’esordio un quadro di malattia del motoneurone o una neuropatia periferica. L’ipostenia e l’atrofia possono essere asimmetriche. L’esordio è insidioso, la progressione lenta ma inesorabile con successiva perdita dell’autonomia deambulatoria. Si può associare un quadro di neuropatia periferica sensitiva; nella IBM è assente l’interessamento cardiaco e polmonare come nella PM e nella DM. La concentrazione sierica di CPK può essere normale o aumentata fino a 10 volte e l’EMG mostra un quadro miopatico come nella PM e DM, a cui però si possono associare potenziali di unità motoria allungati e polifasici, espressione di danno muscolare cronico. La biopsia muscolare permette la diagnosi di certezza ed è caratterizzata da infiltrazione endomisiale di cellule T (come nella PM), inclusioni citoplasmatiche eosinofile e fibre vacuolate nucleari e citoplasmatiche contenenti tubulofilamenti di 15-21 nm di diametro visibile al microscopio elettronico.
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TRATTAMENTO. Il prednisone per via orale al dosaggio di 1-1,5 mg/kg/die rappresenta il trattamento di prima scelta nella PM e DM, con successivo passaggio a dosi più basse. Il massimo beneficio clinico (che in genere è maggiore nella PM) si ha spesso dopo mesi dall’inizio della terapia che viene mantenuta fino a normalizzazione della forza e successivamente ridotta di 5 mg ogni 2-4 settimane per evitare gli effetti collaterali della somministrazione protratta di steroidi oltre che il danno miopatico indotto dal cortisone stesso. Cicli di immunoglobuline per via endovenosa, azatioprina e metotrexate vengono utilizzati in caso di mancata risposta alla terapia steroidea, effetti collaterali marcati o difficoltà a svezzare il paziente dalla terapia steroidea. Nessuno di questi farmaci si è dimostrato chiaramente efficace nella IBM.
Miopatie tossiche Numerosi farmaci e sostanze possono causare un danno muscolare diretto o mediato da meccanismi immunologici o alterazioni metaboliche, la cui via finale comune si manifesta con necrosi della fibrocellula muscolare, conseguente a ingresso massivo di calcio. L’esordio è generalmente acuto o subacuto e il quadro clinico è caratterizzato da mialgie, ipostenia, talora miotonia e mioglobinuria. Il rischio di sviluppare queste forme è maggiore in soggetti con malattie neuromuscolari, patologie renali o epatiche e in seguito all’assunzione di più agenti potenzialmente dannosi. I livelli di CPK sono aumentati, l’EMG documenta un quadro miopatico e la biopsia muscolare evidenzia necrosi diffusa con associati aspetti di rigenerazione. La D-penicillamina e la procainamide causano una miosite simile alla DM e farmaci antiretrovirali (zidovudina) possono provocare una miopatia mitocondriale. Altri farmaci che possono causare un quadro miopatico sono gli ipocolesterolemizzanti quali i fibrati e le statine, l’amiodarone, la clorochina e la colchicina, i lassativi, il GH, i glucocorticoidi. L’amfotericina B, l’acido aminocaproico e l’eroina possono dare rabdomiolisi e mioglobinuria. L’utilizzo cronico di steroidi può indurre una miopatia che si manifesta con ipostenia e ipotrofia a distribuzione prossimale, valori di CPK normali, EMG aspecifico e atrofia fibrale alla biopsia muscolare. Le statine sono responsabili di un danno muscolare che varia da un aumento asintomatico delle CPK fino a quadri conclamati caratterizzati da mialgia, ipostenia e
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rabdomiolisi. L’abuso alcolico è responsabile di due diversi quadri miopatici, acuto e cronico. La forma acuta si manifesta in etilisti cronici dopo abuso alcolico ed è caratterizzata da mialgie e ipostenia agli arti inferiori, febbre, mioglobinuria e incremento transitorio delle CPK. Il quadro cronico si manifesta con ipostenia e atrofia muscolare prossimale degli arti. La sospensione del farmaco o della sostanza tossica permette la regressione del quadro.
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24 PATOLOGIE DELLA GIUNZIONE NEUROMUSCOLARE P. Alberti, G. Cavaletti, B. Frigeni
KEY POINTS La forma più frequente di malattia della giunzione neuromuscolare è la miastenia gravis. La sintomatologia clinica è dominata dalla presenza di una esauribilità muscolare, spesso rilevabile all’esame clinico dopo lavoro muscolare prolungato. Molti farmaci di uso comune possono peggiorare l’attività della placca neuromuscolare e vanno quindi evitati nei pazienti miastenici. Nell’ambito delle “sindromi miasteniche”, la sindrome di LambertEaton fa parte delle sindromi paraneoplastiche. Lo studio neurofisiologico con stimolazione ripetitiva e con l’analisi della singola fibra è di grande ausilio nella diagnostica differenziale delle malattie della placca neuromuscolare.
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INTRODUZIONE Le “patologie della giunzione neuromuscolare” comprendono un gruppo di malattie a diversa eziopatologia caratterizzate da anomalie di conduzione a livello della placca neuromuscolare. Si manifestano dal punto di vista clinico con ipostenia fluttuante e facile affaticabilità della muscolatura volontaria: la miastenia gravis (MG), la sindrome miasteniforme di Lambert-Eaton (LEMS), le sindromi miasteniche congenite e le sindromi miasteniche iatrogene.
MIASTENIA GRAVIS KEY POINTS Definizione. Patologia autoimmune caratterizzata da disfunzione della trasmissione neuromuscolare e conseguente ipostenia fluttuante della muscolatura volontaria. Epidemiologia. Prevalenza: 10-15 casi su 100 000; più frequente nel sesso femminile, sotto i 40 anni d’età, uguale frequenza fra i due sessi in età avanzata; esordio: qualunque età. Patogenesi. Autoanticorpi contro i recettori dell’acetilcolina (Ab anti-AChR) situati sulla membrana postsinaptica della placca neuromuscolare. Clinica. Ipostenia fluttuante ed esauribiltà muscolare. Muscoli più frequentemente colpiti: extraoculari, elevatore della palpebra, bulbari, flessori del collo, muscolatura prossimale degli arti. Diagnosi. Dati clinici, dosaggio degli autoanticorpi, stimolazione ripetitiva, studio della singola fibra, test al Tensilon, imaging del timo. Terapia. Terapia sintomatica con inibitori delle colinesterasi e terapia
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eziopatogenetica con immunosoppressori e timectomia. Casi più gravi e crisi miastenica: plasmaferesi e immunoglobuline per via endovenosa.
Definizione La miastenia gravis (MG) è la più frequente patologia della giunzione neuromuscolare. È una malattia autoimmune che si caratterizza per la presenza di autoanticorpi diretti contro i recettori dell’acetilcolina (antiAChR); questi sono in grado di alterare la normale trasmissione a livello della placca neuromuscolare e di causare a livello della muscolatura volontaria la caratteristica ipostenia fluttuante (FIG. 24.1). Il deficit di forza si manifesta maggiormente dopo sforzo muscolare, migliora con il riposo e coinvolge soprattutto la muscolatura oculare estrinseca, facciale e bulbare, i muscoli flessori del collo e la muscolatura degli arti, in particolare i distretti prossimali.
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FIGURA 24.1 Giunzione neuromuscolare normale (A) e giunzione neuromuscolare patologica nella MG (B) caratterizzata da riduzione del numero di AChR, appiattimento delle pieghe postsinaptiche e incremento dello spazio sinaptico. Fonte: da Hauser S.L. et al. Harrison Neurologia clinica, Milano: McGrawHill, 2007.
Epidemiologia La MG ha una prevalenza in Italia di circa 10-15 casi su 100 000, paragonabile a quella degli Stati Uniti e del Nord Europa. Come molte altre patologie autoimmuni, colpisce maggiormente il sesso femminile; in particolare al di sotto dei 40 anni la malattia è circa tre volte più frequente nelle donne. Tale fenomeno, tuttavia, si attenua all’aumentare della fascia d’età presa in considerazione, tanto che in età avanzata entrambi i sessi risultano egualmente affetti. La MG può esordire a qualunque età. I casi familiari sono rari, ma esiste una predisposizione genetica, suggerita da: maggior frequenza di antigeni HLA-B8 nei casi a esordio precoce e maggior incidenza di patologie autoimmuni nei pazienti e nei familiari di primo grado.
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Eziopatogenesi Nella MG vi è un’aberrante produzione di autoanticorpi appartenenti alla classe G delle immunoglobuline diretti contro i recettori dell’acetilcolina (AChR). L’AChR è una proteina canale transmembrana situata sulla porzione postsinaptica della placca neuromuscolare. La sua attivazione fisiologica permette l’ingresso di sodio, la successiva liberazione di calcio dal sarcolemma e la depolarizzazione della membrana, con conseguente contrazione della fibrocellula muscolare. Gli anticorpi opererebbero una inibizione funzionale dell’attività del recettore e un incremento della sua degradazione, mediata dall’attivazione del complemento. La riduzione sia funzionale che strutturale degli AChR rende la trasmissione neuromuscolare inefficace con conseguente comparsa della debolezza e della fatica tipiche della malattia. Non è ancora chiaro quale sia il primum movens di questo fenomeno autoimmune, ma è accettato che nella patogenesi possa essere coinvolto il timo. Circa il 75% dei pazienti colpiti da MG è, infatti, affetto da anomalie a carico del timo: nella maggior parte dei casi si tratta di iperplasie timiche, mentre nel 15% dei casi vi è un timoma. Il timo potrebbe essere quindi la sede ove si sviluppa l’alterata risposta immunitaria, favorita anche da fattori genetici individuali. Si ipotizza che a livello del timo, sede di maturazione e differenziazione dei linfociti T, avvenga l’espansione di una popolazione di cellule T patologica; questa, tramite l’azione di citochine, favorirebbe la produzione da parte dei linfociti B degli autoanticorpi responsabili della patologia. Gli Ab anti-AChR sono riscontrabili nel 90% dei pazienti affetti da MG generalizzata. È stata dimostrata la presenza di un’altra classe di autoanticorpi diretti contro una tirosina chinasi muscolo-specifica (Ab antiMUSK, muscle specific tyrosine kinase) nei pazienti “sieronegativi” per gli Ab anti-AChR. Si tratta di una proteina situata a livello postsinaptico la cui funzione sarebbe quella di regolare il raggruppamento durante lo sviluppo degli AChR, anche se il ruolo patogenetico degli Ab anti-MUSK resta ancora da chiarire. I casi di MG associati alla positività degli anticorpi anti-MUSK presentano prevalentemente un coinvolgimento dei muscoli del distretto cranico e bulbare. Recentemente sono stati riconosciuti anche altri anticorpi connessi
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con la MG, ovvero quelli diretti contro LRP4, agrina, contrattina, titina e recettore per rianodina. LRP4 è espressa a livello della membrana muscolare. È necessaria per il funzionamento di AChR ed è un attivatore di MUSK; è stata riscontrata nel 2-27% di pazienti negativi per gli anticorpi contro AChR e MUSK, con una prevalenza nel sesso femminile. Non esistono ancora test commerciali per gli anticorpi anti-LRP4, che non sono perciò dosabili di routine, ma solo presso pochi centri. Gli anticorpi diretti contro agrina sono stati dosati in un ridotto numero di pazienti affetti da MG; l’agrina svolge un ruolo fondamentale per la funzione di AChR, ma non è ancora chiaro se la presenza per autoanticorpi diretti contro di essa sia responsabile della debolezza muscolare. Lo stesso discorso vale per gli autoanticorpi diretti contro la contrattina. Anticorpi diretti contro titina e il recettore per rianodina sono stati talora dosati in pazienti con positività anche per AChR. Il ruolo di titina è mantenere la flessibilità a livello della struttura cellulare, mentre il recettore per la rianodina è un canale del calcio a livello del reticolo sarcoplasmatico. Si suppone che questi due ultimi anticorpi non interagiscano con la cellula muscolare determinando debolezza, ma siano, invece, dei marcatori di malattia; sono presenti con una frequenza elevata nei casi di miastenia associata a timoma, tanto che sono stati proposti come strumento per fare diagnosi di timoma sotto i 50 anni. È stato anche suggerito che questi anticorpi possano essere utilizzati come predittori di MG severa che richiede una immunosoppressione a lungo termine e risponde poco alla timectomia.
Quadro clinico Tipica è l’ipostenia della muscolatura volontaria, esacerbata dal prolungato e ripetuto esercizio fisico di specifici distretti muscolari (per esempio, durante la lettura o la masticazione). Tale fenomeno è noto come esauribilità muscolare; il riposo ripristina almeno parzialmente la forza. Ciò spiega le tipiche fluttuazioni temporali della sintomatologia durante la giornata: benessere mattuttino e peggioramento dei sintomi delle ore serali. L’esordio della malattia è in genere subdolo e insidioso; in alcuni casi può essere scatenato da particolari condizioni quali un’infezione, stress psicofisici, gravidanza e puerperio, oppure assunzione di determinati farmaci (per un approfondimento sui farmaci che peggiorano la trasmissione
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neuromuscolare, vedi Focus on: Farmaci che peggiorano la trasmissione neuromuscolare, pag. 440). Tutti questi fattori peggiorano il quadro clinico quando la malattia è conclamata. Il coinvolgimento della muscolatura oculare estrinseca e dell’elevatore della palpebra è una frequente modalità d’esordio; quando la malattia è in fase avanzata si ha il coinvolgimento di questi distretti in circa il 90% dei casi. La maggior parte delle forme puramente oculari evolve entro un anno nella forma generalizzata di MG. Clinicamente l’interessamento di tali distretti si manifesta con ptosi solitamente asimmetrica e diplopia che non corrisponde al deficit di un nervo oculomotore. La fissazione dello sguardo verso l’alto per circa un minuto può slatentizzare o peggiorare la ptosi. La reattività pupillare è sempre conservata. Altri muscoli frequentemente coinvolti sono quelli bulbari, con conseguente perdita della mimica facciale, difficoltà nella masticazione, nella deglutizione e nella fonazione. Tipico è anche l’interessamento dei muscoli flessori e soprattutto estensori del collo; a livello degli arti è colpita prevalentemente la muscolatura prossimale. Il coinvolgimento di questi distretti muscolari è raro all’esordio. Nelle fasi più avanzate di malattia si ha l’interessamento del diaframma e della muscolatura intercostale; l’insufficienza respiratoria è la principale causa di decesso.
FOCUS ON FARMACI CHE PEGGIORANO LA TRASMISSIONE NEUROMUSCOLARE Diverse classi di farmaci interferiscono con la trasmissione a livello della placca neuromuscolare e pertanto possono causare una slatentizzazione della MG o un peggioramento dei sintomi. Le principali classi di farmaci controindicati sono gli antibiotici aminoglicosidici e gli antiaritmici (chinidinici e beta-bloccanti) che interferiscono direttamente con la trasmissione neuromuscolare. La clorochina peggiora il quadro clinico, mentre le benzodiazepine, avendo un effetto miorilassante, possono peggiorare soprattutto la
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funzionalità respiratoria e vanno quindi somministrate con attenzione e in casi selezionati. La penicillamina, utilizzata nei pazienti affetti da artrite reumatoide e sclerodermia, è in grado di indurre in soggetti predisposti una forma di malattia simile alla MG dell’adulto con produzione di Ab anti-AChR, ma il quadro clinico e sierologico regrediscono dopo alcune settimane dalla sospensione del farmaco.
Le forme di MG associate alla presenza di Ab anti-MUSK sono prevalentemente oculo-bulbari. In questi casi la muscolatura degli arti è raramente interessata, mentre è frequentemente coinvolta quella respiratoria con conseguente maggior frequenza di insufficienza respiratoria.
Esami bioumorali e strumentali Esami bioumorali Il dosaggio degli Ab anti-AChR mediante metodo radioimmunologico è un test altamente sensibile e specifico per la diagnosi di MG. Questi autoanticorpi sono positivi nel 90% delle forme generalizzate e nel 60% di quelle oculari. Il dosaggio degli Ab anti-AchR ha valore puramente diagnostico e non correla con la gravità del quadro clinico, tanto che è possibile riscontrare un titolo elevato anche nelle fasi di remissione clinica della malattia. Nei pazienti sieronegativi per Ab anti-AChR è indicato il dosaggio sierico di Ab anti-MUSK, che si riscontrano nel 60% dei casi. La presenza di specifici autoanticorpi diretti contro le proteine muscolari titina e rianodina correla, come detto in precedenza, con la presenza di timoma. È inoltre utile eseguire uno screening per le altre patologie autoimmuni, in particolare della tiroide.
Esami strumentali Dal punto di vista radiologico è indicata l’esecuzione di TC/RM del mediastino per la ricerca di una patologia timica e, in casi particolari, la RM encefalo con studio delle orbite per escludere patologie infiammatorie o
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compressive coinvolgenti i nervi oculomotori e la muscolatura oculare. Sul versante neurofisiologico la diagnosi di MG viene supportata dal test della stimolazione ripetitiva e dall’elettromiografia a singola fibra (SFEMG). Il primo gode di maggiore specificità, il secondo di maggiore sensibilità. Nella stimolazione ripetitiva un nervo viene stimolato ripetutamente a una frequenza di 3 Hz e viene registrata l’ampiezza dei potenziali d’azione muscolari composti (CMAP) di un muscolo innervato dal nervo stesso. In caso di MG l’ampiezza dei CMAP registrati decresce del 15% fra il quarto e il decimo stimolo restituendo la classica svasatura a “U” al profilo dei potenziali ottenuti durante la stimolazione (FIG. 24.2). La sensibilità di questa metodica aumenta eseguendo la stimolazione ripetitiva dopo un minuto di sforzo muscolare. I distretti muscolari più sensibili al decremento sono quelli più prossimali e quelli maggiormente affetti dal punto di vista clinico.
FIGURA 24.2 Test della stimolazione ripetitiva: tipico decremento dell’ampiezza del potenziale dopo stimolazione ripetitiva in un paziente affetto da MG. Per un approfondimento sulla SFEMG, VEDI FOCUS ON: ELETTROMIOGRAFIA A SINGOLA FIBRA (SFEMG), PAG. 441).
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Un ulteriore approccio diagnostico, sebbene ormai meno applicato, è il test al cloruro di edrofonio (Tensilon) consistente nell’iniezione endovenosa di questo farmaco anticolinesterasico a breve durata d’azione e nella valutazione dell’eventuale miglioramento clinico. Si iniettano inizialmente 2 mg di farmaco e, in caso di mancata risposta clinica, altri 8 mg (la maggior parte dei pazienti risponde a una dose di 5 mg). La necessità di somministrare il farmaco in due tempi è legata agli effetti muscarinici dell’edrofonio (che possono essere contrastati dall’iniezione di atropina). Questo test risulta utile ai fini diagnostici in caso di fondato sospetto clinico, quando gli altri accertamenti risultano normali.
Diagnosi La clinica della MG è estremamente caratteristica: un’adeguata raccolta anamnestica e l’obiettività neurologica permettono spesso da sole di porre la corretta diagnosi. La diplopia fluttuante e la ptosi asimmetrica sono quasi sempre presenti e si possono associare a disartria, disfonia, disfagia e deficit stenico prossimale degli arti. All’esordio i sintomi sono lievi e incostanti, variano durante la giornata, peggiorano con l’esercizio muscolare e migliorano con il riposo. L’obiettività muscolare evidenzia l’ipostenia dei muscoli coinvolti, slatentizzata o peggiorata dai test di esauribilità muscolare, ma l’atrofia è rara. I riflessi osteotendinei, le sensibilità superficiali e profonde e la coordinazione sono normali. Il dosaggio degli anticorpi permette di identificare le forme positive per Ab anti-AChR o Ab anti-MUSK, mentre i dati di imaging documentano l’eventuale presenza di patologia del timo. La neurofisiologia conferma la diagnosi ed è utile anche per valutare la risposta alla terapia. Il test al Tensilon può aiutare nella diagnosi, soprattutto nelle forme oculari, qualora le altre indagini risultino negative.
Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale va posta con altre condizioni in cui vi può essere una oftalmoplegia che non ha le caratteristiche di interessamento di un nervo oculomotore specifico: l’oftalmoplegia da ipertiroidismo (ove però è tipico l’esoftalmo), la presenza di masse endo-orbitarie, l’oftalmoplegia esterna
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progressiva e altre miopatie localizzate.
FOCUS ON ELETTROMIOGRAFIA A SINGOLA FIBRA (SFEMG) È un test neurofisiologico estremamente sensibile per la diagnosi di MG. Consiste nello studio di singole fibre muscolari appartenenti alla stessa unità motoria e pertanto innervate dallo stesso assone. Fisiologicamente esiste un tempo variabile di scarica dei potenziali d’azione di fibre muscolari appartenenti alla stessa unità motoria (che prende il nome di jitter), legato alla biforcazione dell’assone e al tempo di conduzione a livello sinaptico. Inserendo l’ago da EMG in un punto che registra due fibre muscolari appartenenti alla stessa unità motoria e facendo contrarre lievemente il muscolo in modo da attivare la singola unità motoria (o stimolando il nervo terminale all’interno del muscolo) è possibile calcolare l’intervallo medio di attivazione delle due fibre muscolari. Se una delle due fibre non scarica in maniera corretta a causa di un difetto di trasmissione neuromuscolare, si osserva un aumento della variabilità dell’intervallo fra i potenziali d’azione registrati (incremento del jitter) che è, appunto, considerato indicativo di patologia della placca neuromuscolare.
La presenza di disfagia e disfonia è tipica di malattia del motoneurone con coinvolgimento soprattutto bulbare, sclerosi multipla, malattie cerebrovascolari e altre miopatie come la polimiosite e la miosite a corpi inclusi (anche se in questi casi non vi sono il caratteristico coinvolgimento della muscolatura oculare estrinseca e la ptosi). La sindrome di Guillan-Barrè e le sue varianti, soprattutto la sindrome di Miller-Fisher, possono manifestarsi con oftalmoparesi e ptosi, ma la comparsa di atassia e la scomparsa dei riflessi osteotendinei, in associazione ai dati di laboratorio e neurofisiologici, permettono la corretta diagnosi
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differenziale. Il botulismo si manifesta con un interessamento della muscolatura facciale ed extraoculare simile a quella della MG, anche se in questa forma di intossicazione vi è coinvolgimento anche della muscolatura oculare intrinseca (midriasi e perdita della motilità pupillare alla luce) e l’ipostenia a carico degli altri distretti muscolari si manifesta in maniera estremamente rapida. La MG va distinta dalla sindrome miastenica di Lambert-Eaton e dalle sindromi miasteniche congenite e iatrogene (vedi oltre). In caso di astenia generalizzata vanno infine escluse altre cause internistiche (per esempio, l’anemia o la presenza di neoplasie maligne occulte) o un quadro psichiatrico di depressione.
Decorso e prognosi Il decorso e la prognosi della malattia sono stati modificati dalla disponibilità delle terapie farmacologiche e dalla timectomia. I quadri clinici sono estremamente variabili: si possono avere forme prevalentemente oculari che, se si mantengono tali dopo due anni dall’esordio, raramente evolvono negli anni successivi in forme generalizzate; esistono poi, all’estremo opposto, forme rapidamente ingravescenti che possono sfociare in breve tempo nella crisi miastenica, emergenza neurologica caratterizzata da una grave insufficienza respiratoria. In generale, le manifestazioni cliniche sono fluttuanti e si possono avere periodi di remissione anche in assenza di terapia o peggioramenti scatenati da farmaci, infezioni, gravidanze, traumi. Le forme a esordio tardivo hanno statisticamente una gravità maggiore.
NON DIMENTICARE CHE... La crisi miastenica consiste in un rapido peggioramento della funzione neuromuscolare che porta a insufficienza respiratoria e tetraparesi. Si tratta di un’emergenza neurologica la cui gestione deve avvenire in terapia intensiva. Può essere scatenata da un’infezione, soprattutto delle alte vie respiratorie, da farmaci o da una rapida
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riduzione della terapia, anche se nella maggior parte dei casi l’agente scatenante non è identificabile. In urgenza è necessaria la pronta intubazione e il posizionamento del sondino nasogastrico. La terapia prevede: ventilazione assistita, plasmaferesi a cicli o, laddove non sia disponibile o vi siano controindicazioni, utilizzo di immunoglobuline per via endovenosa. In questa fase vanno sospesi gli anticolinesterasici, la cui successiva reintroduzione deve avvenire gradualmente, in associazione ai corticosteroidi.
Trattamento Le terapia della MG si basa su un doppio approccio: terapia sintomatica, che migliora la trasmissione neuromuscolare mediante l’utilizzo degli inibitori delle colinesterasi, e terapie che modulano la risposta immunitaria alla base della malattia: gli immunosoppressori e la timectomia. In condizioni cliniche particolari e nella crisi miastenica si utilizzano plasmaferesi e immunoglobuline per via endovenosa.
Farmaci inibitori delle colinesterasi Il meccanismo d’azione dei farmaci anticolinesterasici si basa sulla loro capacità di inibire le colinesterasi, enzimi situati a livello della giunzione neuromuscolare, il cui scopo fisiologico è quello di degradare l’acetilcolina liberata. Il blocco di questi enzimi aumenta il tempo di disponibilità dell’acetilcolina per legarsi a livello post-sinaptico con conseguente miglioramento della trasmissione neuromuscolare. Il farmaco maggiormente utilizzato è la piridostigmina che si somministra a un dosaggio variabile fra i 30 e i 120 mg ogni 4 ore circa (dosaggio massimo 120 mg ogni 3 ore). Il dosaggio è variabile da paziente a paziente, in base alla risposta clinica e ai gruppi muscolari prevalentemente coinvolti. È disponibile anche la formulazione terapeutica a rilascio prolungato (90-180 mg) da somministrare alla sera nei pazienti con marcata astenia al risveglio. All’inizio della malattia si ha generalmente una buona risposta agli anticolinesterasici. Nelle forme prevalentemente oculari e nelle forme positive per gli Ab anti-MUSK, la risposta è invece incompleta fin
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dall’inizio. Nei casi di ipostenia generalizzata marcata, o nelle forme prevalentemente bulbari e comunque con il progredire della malattia, è necessario associare gli immunosoppressori. Gli effetti collaterali più frequenti degli anticolinesterasici sono legati alla loro azione muscarinica (diarrea, disturbi gastrici, ipersalivazione e aumento delle secrezioni bronchiali, miosi, bradicardia), mentre in caso di sovradosaggio si può avere la crisi colinergica caratterizzata da un rapido peggioramento dell’ipostenia muscolare, in associazione agli effetti muscarinici del farmaco.
Farmaci immunosoppressori L’utilizzo dei corticosteroidi per via orale è indicato nelle forme di MG generalizzata con ipostenia marcata, nelle forme con coinvolgimento prevalente della muscolatura bulbare e respiratoria e nelle forme oculari, laddove la risposta agli inibitori delle colinesterasi sia stata parziale o insoddisfacente. Il farmaco più frequentemente utilizzato è il prednisone a dosaggio di 1 mg/kg/die (negli adulti dose media: 50-100 mg/die) in un’unica somministrazione mattutina, iniziando con una dose di 15-20 mg/die e incrementando gradualmente in base alla risposta clinica. Rapidi incrementi di farmaco o dosaggi elevati possono indurre un transitorio peggioramento della sintomatologia e pertanto, in caso di coinvolgimento della muscolatura bulbare, è importante che l’inizio e l’incremento della terapia steroidea avvengano in regime ospedaliero, monitorando il quadro respiratorio e la deglutizione. L’associazione di altri farmaci immunosoppressori è indicata anche in caso di risposta clinica adeguata, per favorire la più rapida sospensione della terapia steroidea e ridurre gli effetti collaterali. L’azatioprina è il farmaco di prima scelta nei pazienti ove la terapia steroidea sia risultata inefficace o nei quali si debba sospendere rapidamente lo steroide a causa degli effetti collaterali. La dose efficace è di 2 mg/kg/die in 2-3 somministrazioni, iniziando con 50 mg/die al giorno e incrementando gradualmente la posologia in base al peso del paziente (dosaggio efficace in un adulto intorno a 150-250 mg/die) con periodico monitoraggio dell’emocromo e della funzionalità epatica. Va ricordato che bassi livelli di tiopurina-metil-transferasi predispongono agli effetti tossici di tale farmaco e, pertanto, è utile dosarli prima di impostare questa terapia.
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Il micofenolato mofetile è un pro-farmaco che blocca la sintesi delle purine e interferisce quindi con la proliferazione dei linfociti B e T. In molte linee guida è suggerito come terapia di seconda linea, al fallimento della prima linea di terapia immunosoppressiva, anche associata a cortisone. L’indicazione all’uso di tale farmaco si basa su dati di studi retrospettivi e l’esperienza nell’uso clinico. Il rituximab sta emergendo come possibile terapia per la MG. Si tratta di un anticorpo monoclonale chimerico IgG1 che depleta tutti i linfociti B tramite azione contro il recettore transmembrana CD20. Mancano ancora solidi studi prospettici randomizzati per confermare del tutto l’efficacia e la safety di questo farmaco nei pazienti affetti da MG. Altre terapie di seconda linea che vengono suggerite sono la ciclosporina, il metotrexato e il tacrolimus. Per un approfondimento sulla terapia in gravidanza, VEDI FOCUS ON: TRATTAMENTO DELLA MG IN GRAVIDANZA, PAG. 444.
Plasmaferesi e immunoglobuline Sono terapie che agiscono sulla risposta immunitaria inducendo un rapido miglioramento clinico in quadri particolarmente gravi. La loro efficacia è tuttavia limitata nel tempo. Queste caratteristiche rendono il loro utilizzo limitato a particolari condizioni quali: la crisi miastenica, l’interessamento della muscolatura bulbare rapidamente ingravescente, il peggioramento clinico indotto dall’inizio della terapia steroidea e la preparazione alla timectomia. Non esistono protocolli specifici: la plasmaferesi viene solitamente effettuata con lo schema di 2 cicli a giorni alterni o di 5 cicli in 7-10 giorni in caso di crisi miastenica, mentre le immunoglobuline vengono somministrate al dosaggio di 0,4 g/kg/die per 5 giorni. L’efficacia dei due trattamenti è paragonabile, anche se la plasmaferesi sembrerebbe avere un tempo di azione più rapido. Gli effetti collaterali delle immunoglobuline sono la cefalea, l’iperviscosità ematica e le reazioni allergiche, mentre la plasmaferesi può causare ipotensione ed embolia polmonare; inoltre la sua disponibilità nel nosocomio in cui ci si trova e la necessità di avere accessi venosi validi possono limitarne la possibilità di utilizzo.
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FOCUS ON TRATTAMENTO DELLA MG IN GRAVIDANZA Un aumentato rischio di recidive è presente soprattutto nel puerperio e nei primi mesi del post-partum. Piridostigmina e corticosteroidi sono considerati trattamenti sicuri in gravidanza dato il loro scarso effetto teratogeno. Nel caso di peggioramento clinico in corso di gravidanza è consigliato l’uso di immunoglobuline endovena o plasma exchange; tali terapie possono anche essere somministrate in preparazione del parto. Segnalazioni sulla teratogenicità degli immunosoppressori raccomandano cautela nel loro utilizzo. Micofenolato mofetile e metotrexato sono indicati come potenzialmente teratogeni e perciò sconsigliati nelle donne in età fertile. Per quel che concerne il parto, oltre alle cautele per il rischio di miastenia neonatale nel bambino, non sono necessariamente indicate procedure specifiche. Il parto cesareo non è obbligatorio, ma consigliato se il travaglio diviene troppo prolungato per il rischio di un severo affaticamento muscolare.
Timectomia La timectomia è indicata in tutti i pazienti con timoma o iperplasia timica, in pazienti giovani o di media età con forme bulbari o generalizzate di MG, mentre più controverso è il beneficio di questo trattamento in pazienti di età più avanzata senza segni radiologici di interessamento del timo. Le forme puramente oculari non hanno indicazione alla timectomia. La remissione dopo timectomia è del 35-50% se eseguita entro due anni dall’esordio, con una riduzione o scomparsa degli Ab anti-AChR. L’efficacia si riduce progressivamente se la timectomia viene effettuata oltre i due anni dall’esordio della malattia. Il beneficio si manifesta dopo alcuni mesi dall’intervento ed è massimo
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dopo tre anni. La timectomia è un intervento che viene eseguito in elezione, con una stabilità del quadro clinico; se necessario si può anche procedere a un ciclo di plasmaferesi preintervento; nel post-intervento è possibile che alcuni pazienti necessitino di ventilazione assistita.
SINDROMI MIASTENICHE KEY POINTS Sindrome miastenica di Lambert Eaton: è caratterizzata da autoanticorpi che colpiscono i canali del calcio a livello presinaptico con riduzione del rilascio di Ach. Associazione nel 60% dei casi con carcinoma a piccole cellule del polmone. Coinvolgimento prevalente della muscolatura prossimale dei cingoli e del sistema autonomico, raro dei muscoli bulbari ed extraoculari. Diagnosi: Ab anti-canali del calcio; stimolazione ripetitiva ad alta frequenza, ricerca di tumore occulto. Terapia: trattamento neoplasia, azatioprina e corticosteroidi. Sindromi miasteniche congenite: rare, autosomiche recessive con alterazioni a livello preo postsinaptico. Clinicamente caratterizzate da: pianto flebile, ptosi e ipotonia, esacerbate dallo sforzo. Terapia: in alcuni casi risposta agli anticolinesterasici. Sindromi miasteniche iatrogene: da farmaci, insetticidi o tossine (per esempio, tetano e botulino). Azione a livello preo postsinaptico. Terapia: interventi di supporto, eliminazione del tossico.
Sindrome miastenica di Lambert Eaton La sindrome miasteniforme di Lambert-Eaton (LEMS) è una patologia della giunzione neuromuscolare caratterizzata dalla produzione di autoanticorpi che colpiscono i canali del calcio voltaggio-dipendenti situati a livello presinaptico, con conseguente riduzione del rilascio di Ach. L’esordio della malattia è più frequente dopo i 40 anni e i maschi sono più colpiti rispetto alle femmine. Vi è un’associazione in circa il 60% dei casi con patologie neoplastiche (la
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più frequente è il carcinoma polmonare a piccole cellule); la LEMS può precedere anche di mesi o anni la manifestazione del tumore. Frequente è inoltre l’associazione con altre patologie autoimmuni e, nel 5-10% dei casi, con una sindrome di degenerazione cerebellare caratterizzata da atassia. Clinicamente la LEMS si distingue dalla MG per il coinvolgimento prevalente della muscolatura prossimale dei cingoli; è minore il coinvolgimento della muscolatura bulbare e ancor più raro quello extraoculare. L’astenia è slatentizzata dallo sforzo ripetuto, anche se durante le prime contrazioni vi può essere un transitorio aumento della forza muscolare. È caratteristico il coinvolgimento del sistema nervoso autonomo, che si manifesta frequentemente con secchezza delle fauci e, più raramente, con impotenza e ipotensione ortostatica. I riflessi osteotendinei sono ridotti e vi può essere ipotrofia muscolare. La diagnosi clinica è supportata dal riscontro di anticorpi IgG anti-canali del calcio voltaggiodipendenti e dalla elettromiografia con stimolazione ripetitiva (per un approfondimento, VEDI FOCUS ON: ELETTROMIOGRAFIA CON STIMOLAZIONE RIPETITIVA NELLA LEMS, IN QUESTA PAGINA). La diagnosi di LEMS rende indispensabile la ricerca del tumore: spesso, in caso di negatività della ricerca è indispensabile proseguire con follow-up seriati. Il trattamento del tumore induce un miglioramento della LEMS. La risposta agli anticolinesterasici è meno efficace rispetto alla MG e la terapia prevede l’associazione di steroidi e azatioprina allo stesso dosaggio utilizzato nella MG; i casi più gravi rispondono alla plasmaferesi o a cicli di immunoglobuline.
Sindromi miasteniche congenite Si tratta di rare forme autosomiche recessive che si manifestano generalmente entro i primi due anni di vita. Il meccanismo fisiopatologico può coinvolgere diversi punti della giunzione neuromuscolare: per esempio, a livello presinaptico, con un difetto di immagazzinamento dell’Ach o scarsa disponibilità di vescicole, o deficit sinaptico caratterizzato da difetto di ACh nella placca terminale; a livello postsinaptico, con anomalie cinetiche o numeriche a carico di AChR. Sono caratterizzate clinicamente da: ipotonia diffusa, ptosi e coinvolgimento della muscolatura bulbare che determina pianto flebile e deficit di suzione peggiorati dallo sforzo. La stimolazione ripetitiva dimostra
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il classico decremento dei CMAP e la ricerca degli Ab anti-AChR è negativa. In alcuni casi vi è una risposta agli anticolinesterasici, mentre non vanno somministrati gli immunosoppressori.
Sindromi miasteniche iatrogene Diversi agenti esterni possono causare sindromi miasteniformi acquisite per azione a livello pre o postsinaptico. Fra queste vi sono: numerosi farmaci (VEDI FOCUS ON: FARMACI CHE PEGGIORANO LA TRASMISSIONE NEUROMUSCOLARE, PAG. 440), sostanze come i gas nervini o gli insetticidi organofosforici, neurotossine presenti in natura come la tossina botulinica, il curaro, il veleno di diversi insetti (fra cui quello della vedova nera) e serpenti.
FOCUS ON ELETTROMIOGRAFIA CON STIMOLAZIONE RIPETITIVA NELLA LEMS Nella LEMS l’ampiezza del CMAP è notevolmente ridotta e la stimolazione ripetitiva a bassa frequenza (1-3 Hz) può documentare un ulteriore decremento. La stimolazione ripetitiva tetanica ad alta frequenza (20-50 Hz) causa invece un notevole incremento dell’ampiezza dei CMAP, che è ancor più evidente dopo 10-20 s di sforzo muscolare massimale. Affinché tale incremento possa essere considerato significativo, si deve osservare un aumento dell’ampiezza del potenziale di almeno il 200%
Esiste inoltre una forma immunomediata, complicanza del trapianto di cellule staminali ematopoietiche. La terapia si basa sul supporto ventilatorio laddove necessario, sulla sospensione dell’agente iatrogeno e sul tentativo di ridurre il blocco muscolare mediante anticolinesterasici, calcio gluconato e supplemento di potassio.
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PARTE IV NEUROLOGIA, MEDICINA INTERNA E URGENZE NEUROLOGICHE
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25 COMPLICANZE NEUROLOGICHE DI MALATTIE INTERNISTICHE J.C. Di Francesco, I. Appollonio
KEY POINTS Numerose malattie internistiche possono presentare durante il loro decorso delle complicanze di tipo neurologico che spesso portano a un’importante modificazione della prognosi del paziente. Il quadro clinico si può manifestare con modalità estremamente diverse, risultando spesso di difficile inquadramento e trattamento. In questo capitolo vengono riportate alcune delle principali complicanze neurologiche in corso di malattie internistiche, con particolare attenzione per gli aspetti di diagnosi differenziale e di patogenesi.
INTRODUZIONE
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Le complicanze neurologiche delle malattie internistiche sono di frequente riscontro e possono manifestarsi con modalità molto eterogenee. Talvolta esse possono dominare il quadro clinico e per molti pazienti ricoverati nei reparti di Medicina Interna è richiesta una valutazione neurologica. Gli stati confusionali, le perdite di coscienza, gli eventi cerebrovascolari, i disordini del movimento, cefalee e vertigini, segni e sintomi di richiamo di patologia neuromuscolare o di danno encefalico e midollare sono tutte motivazioni per cui viene richiesta una consulenza neurologica nel paziente internistico. Spesso questa risulta di rilevante importanza, portando a una significativa modificazione della diagnosi e del trattamento del paziente. In questo capitolo vengono riportate alcune delle principali complicanze neurologiche che possono caratterizzare il quadro sintomatologico delle malattie internistiche.
MALATTIE CARDIACHE Le malattie cardiache sono spesso causa di complicanze neurologiche, interferendo con la perfusione e ossigenazione cerebrale mediante meccanismi emodinamici (riduzione della portata cardiaca) e/o cardioembolici (disturbi del ritmo con genesi di trombi). Circa un terzo di tutti gli stroke ischemici riconosce una patogenesi cardioembolica. La formazione di trombi e la liberazione di emboli cardiogeni sono favorite da aritmie e da alterazioni strutturali delle valvole. I fattori di rischio principali per l’embolia cardiaca sono: • la fibrillazione atriale; • il forame ovale pervio. Entrambe le condizioni cliniche sono frequenti nella popolazione generale ed è pertanto utile riconoscerle precocemente ed eventualmente trattarle in maniera adeguata. La disponibilità di alcune tecniche di indagine quali l’ecocardiogramma transesofageo e il doppler transcranico ha potenziato le capacità diagnostiche nell’ambito delle relazioni tra cuore e danno cerebrovascolare.
Fibrillazione atriale
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La fibrillazione atriale (FA) è associata a un rischio cinque volte maggiore di stroke. Tale rischio aumenta significativamente nei pazienti di età superiore ai 65 anni e/o con ipertensione arteriosa, diabete mellito, pregressi eventi cerebrovascolari ischemici ed evidenza ecocardiografica di ingrandimento dell’atrio sinistro o di disfunzione ventricolare. Il rischio di embolia cerebrale è ulteriormente aumentato quando una patologia della valvola mitrale si associa alla FA, specie se quest’ultima ha carattere parossistico. Il trattamento con anticoagulanti orali è in grado di ridurre del 68% il rischio di stroke nei pazienti con FA d’età inferiore ai 75 anni. I farmaci anticoagulanti orali di nuova generazione, che non necessitano di un monitoraggio periodico degli indici di coagulazione, hanno reso più sicuri tali trattamenti, soprattutto per i pazienti di età avanzata.
Forame ovale pervio Il forame ovale pervio (FOP) definisce un’anomalia cardiaca in cui l’atrio destro comunica con il sinistro. È una condizione che interessa all’incirca il 25-30% della popolazione adulta. Numerosi studi hanno riportato un’aumentata prevalenza di FOP associato ad aneurisma del setto interatriale (ASI) nei pazienti sotto i 65 anni di età con ictus criptogenetico. I principali meccanismi patogenetici sono da ricercare nell’embolizzazione paradossa di trombi generati in situ e nella predisposizione allo sviluppo di tachiaritmie quali la FA. Nei pazienti con pregresso evento cerebrovascolare che presentano sia FOP che ASI, la concomitanza delle due patologie cardiache costituisce di per sé un elevato fattore di rischio di recidiva cardioembolica, per cui in questi pazienti si pone l’indicazione alla terapia anticoagulante orale o alla chiusura del FOP.
MALATTIE POLMONARI Le complicanze neurologiche delle malattie polmonari interessano prevalentemente il sistema nervoso centrale, determinando il quadro clinico della cosiddetta encefalopatia respiratoria.
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Le principali condizioni cliniche che possono determinare la comparsa di questa encefalopatia sono quelle associate a insufficienza respiratoria (acuta o cronica), come broncopneumopatia cronica-ostruttiva (BPCO), silicosi ed enfisema. La gravità delle manifestazioni neurologiche dipende dalla rapidità, durata e gravità del quadro di insufficienza respiratoria.
Insufficienza respiratoria acuta Le forme acute di ipossia sono complicate da alterazioni dell’equilibrio acido-base e dall’aumento della viscosità ematica. L’ipercapnia determina vasodilatazione cerebrale, ipertensione endocranica e riduzione del pH liquorale, con successivo sviluppo di un quadro clinico caratterizzato da cefalea, alterazioni dello stato di coscienza di vario grado, tremore posturale, mioclonie, iperreflessia profonda e, talora, edema della papilla ottica. La sintomatologia neurologica può regredire, anche rapidamente, dopo la normalizzazione della ventilazione polmonare, ottenibile con l’uso della respirazione assistita; una troppo rapida correzione dell’ipercapnia può però determinare la comparsa di crisi epilettiche e di alterazioni dello stato di coscienza.
Insufficienza respiratoria cronica Il quadro cronico di insufficienza respiratoria è caratterizzato da cefalea, specie notturna o al risveglio, sonnolenza diurna, disturbi della memoria, disorientamento spazio-temporale e decadimento cognitivo. La somministrazione di ossigeno è indicata in presenza di una persistente ipossiemia, nel tentativo di raggiungere una saturazione soddisfacente (superiore al 90%). La somministrazione continua di ossigenoterapia dev’essere però monitorata, in quanto l’ipossia spesso costituisce l’unico stimolo respiratorio valido per questi pazienti. Se somministrato in modo adeguato, l’ossigeno migliora la qualità della vita, le funzioni neuropsicologiche e riduce la pressione in arteria polmonare. Una modesta sofferenza del sistema nervoso periferico può essere presente nei casi di insufficienza respiratoria cronica. Essa è quasi sempre solo subclinica ed evidente solo ai test neurofisiologici; nel 20% dei casi diviene clinicamente manifesta.
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MALATTIE GASTROINTESTINALI La maggior parte delle complicanze neurologiche in corso di malattie gastrointestinali è espressione di stati carenziali (vitaminici), anche se in alcune condizioni il danno neurologico può essere mediato da meccanismi di autoimmunità.
Morbo celiaco Il morbo celiaco è una malattia autoimmune caratterizzata clinicamente da malassorbimento, steatorrea, perdita di peso e, da un punto di vista anatomopatologico, da lesioni a carico della mucosa del piccolo intestino. Diversi marker biologici (anticorpi antigliadina, antiendomisio) possono essere associati a questa malattia, insidiosa e spesso sottostimata, anche se la conferma diagnostica è ottenuta con la biopsia duodenale. Il meccanismo alla base di tali disturbi non è ancora stato chiarito, ma è verosimilmente legato a fenomeni disimmuni e a malassorbimento di vitamine (acido folico, vitamine D, E, B12 e B6). Circa il 15% dei pazienti presenta complicanze neurologiche sotto forma soprattutto di miopatie e/o neuropatie periferiche, queste ultime tipicamente di tipo sensitivo, caratterizzate da parestesie e ipoestesia di tipo asimmetrico, dovute alla compromissione delle fibre di piccolo calibro. Altre più rare manifestazioni neurologiche descritte in corso di celiachia comprendono epilessia, mioclono, calcificazioni cerebrali della sostanza bianca cerebrale, prevalenti in sede occipitale e rilevabili alla TC, atassia, oftalmoplegie internucleari e demenza.
Stati carenziali La resezione gastrica e la gastrite atrofica autoimmune possono indurre una sindrome da malassorbimento con stati carenziali (ferro, vitamine B12, D, A) responsabili di quadri neurologici quali miopatie associate a osteomalacia e polineuropatie periferiche. Caratteristica del prolungato malassorbimento vitaminico di B12 e folati è la degenerazione combinata subacuta, coinvolgente i cordoni spinali posteriori e laterali, caratterizzata da una selettiva compromissione delle sensibilità profonde, parestesie, disturbi
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dell’equilibrio e segni piramidali bilaterali agli arti inferiori, a tipo paraparesi spastica. Oltre a un comune quadro di anemia da malassorbimento, in presenza di deficit di vitamina B12 e folati possono inoltre essere presenti quadri di encefalopatia con compromissione cognitiva di grado variabile, da lieve a severa. Risulta quindi importante il dosaggio di vitamina B12 e folati nello screening delle demenze.
MALATTIE EPATICHE L’insufficienza epatica acuta o cronica può causare un quadro di encefalopatia metabolica, il cui sintomo principale è l’alterazione dello stato di coscienza, che può essere di lieve entità o arrivare fino al coma profondo.
Encefalopatia epatica Con il termine di encefalopatia epatica si intende l’insieme dei sintomi neuropsichiatrici collegati all’insufficienza epatica. L’eziopatogenesi dell’encefalopatia epatica è principalmente dovuta all’accumulo in circolo di sostanze nocive che non vengono completamente metabolizzate e detossificate. L’ammonio (derivato dall’attività batterica intestinale) si accumula nell’organismo svolgendo la sua azione tossica direttamente sul SNC. L’iperammoniemia contribuisce alla genesi dell’ipertensione endocranica e dell’edema cerebrale, in relazione all’incremento di glutammina, dotata di azione osmotica sugli astrociti. Essa potrebbe, inoltre, essere responsabile dell’ipereccitabilità neuronale contribuendo alla genesi di agitazione psicomotoria, euforia, tremore e crisi epilettiche. La funzionalità cerebrale potrebbe poi essere compromessa anche dalla presenza dei cosiddetti “falsi neurotrasmettitori”, sintetizzati dai batteri intestinali. Un ruolo importante sembra essere giocato dal neurotrasmettitore inibitorio GABA, che si accumula in circolo e raggiunge l’encefalo grazie all’alterata permeabilità della barriera ematoencefalica. In queste condizioni il sistema nervoso centrale risulta, infine, particolarmente vulnerabile, per cui la somministrazione di un ipnotico (benzodiazepine, barbiturici) può fare precipitare il quadro clinico, slatentizzando la condizione di encefalopatia.
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I principali sintomi sono rappresentati da disturbi di tipo cognitivo e comportamentale con apatia, irritabilità, labilità emotiva, alterazioni comportamentali, disturbi del sonno e del ritmo circadiano, stati confusionali e alterazioni dello stato di coscienza. Un sintomo spesso presente è il cosiddetto flapping tremor, costituito da movimenti ad ampie scosse in flessione dei segmenti distali degli arti, specialmente delle mani, che risulta particolarmente evidente quando si fanno tenere al paziente le braccia protese in avanti o in abduzione. Esso scompare tipicamente durante il sonno o nel riposo. Possono essere inoltre presenti atassia cerebellare, mioclonie ed episodi convulsivi di tipo comiziale. L’EEG mostra alterazioni aspecifiche che vanno dalla iniziale disorganizzazione e rallentamento del ritmo di fondo con onde lente diffuse, fino alla comparsa di onde trifasiche generalizzate. La prognosi del quadro neurologico è in relazione all’andamento della malattia epatica primitiva. Per un approfondimento sui principali effetti collaterali dell’assuzione cronica di alcol, VEDI FOCUS ON: COMPLICANZE NEUROLOGICHE DELL’ALCOLISMO CRONICO, PAG. 452.
FOCUS ON COMPLICANZE NEUROLOGICHE DELL’ALCOLISMO CRONICO La cronica assunzione di elevate dosi di alcol determina diversi effetti collaterali a livello neurologico. Le principali manifestazioni cliniche sono date da: delirium tremens, encefalopatia di Wernicke, sindrome di Korsakoff e polineuropatia. Delirium tremens Rappresenta la più grave complicanza dell’astinenza, comportando un’elevata mortalità (dal 5 al 15% dei casi) in genere per complicanze cardiocircolatorie. La sintomatologia è caratterizzata da grave stato confusionale a esordio acuto, con tremore, allucinazioni, agitazione
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psicomotoria e intensa sudorazione da iperattività del tono simpatico. Le complicanze principali sono date da squilibrio elettrolitico, infezioni polmonari, tachicardia e intensa disidratazione a cui può seguire un collasso cardiocircolatorio. Il trattamento deve essere tempestivo e prolungato. Esso prevede: • correzione della perdita idrica; • terapia sedativa endovenosa con la somministrazione di benzodiazepine per via orale o endovenosa (tipicamente lorazepam); • terapia neurolettica con la somministrazione di sereprile endovena; • terapia antibiotica ad ampio spettro al fine di prevenire infezioni opportunistiche; • correzione degli squilibri elettrolitici e carenziali (tipicamente vitamina B1 [nota come tiamina] e glucosio). Encefalopatia di Wernicke Assai frequente nell’alcolismo cronico, l’encefalopatia di Wernicke è caratterizzata da atrofia neuronale corticale diffusa, maggiormente evidente a livello cerebellare (verme) e dei corpi mammillari, associata a proliferazione gliale e vasale. Il quadro clinico è caratterizzato da stato confusionale e confabulazione, atassia cerebellare e difetti della motilità oculare estrinseca (tipicamente per deficit del III e VI nervo cranico) (VEDI CAP. 20). L’encefalopatia è dovuta alla carenza di tiamina (vitamina B1) da ridotto apporto nutrizionale e insufficiente assorbimento intestinale. La terapia si basa sulla somministrazione di vitamina B1 (100 mg per via parenterale) in associazione a glucosio. Sindrome di Korsakoff Si caratterizza per una severa alterazione della memoria di fissazione con turbe della rievocazione, associata a confabulazione, in assenza di compromissione del livello di coscienza o di altre funzioni cognitive superiori. Il neuroimaging rivela la lesione bilaterale e simmetrica dei nuclei dorsomediali del talamo e delle formazioni ippocampali (giro dentato, ippocampo, paraippocampo). La terapia si basa sull’uso di inibitori del reuptake della serotonina (SSRI), anche se un beneficio è evidente in una modesta percentuale di pazienti (ca 20%).
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Polineuropatia Per l’effetto dell’etilismo cronico sul sistema nervoso periferico si rimanda al CAPITOLO 20.
MALATTIE RENALI L’insufficienza renale, acuta (IRA) o cronica (IRC), con uremia, acidosi e alterazioni dell’equilibrio elettrolitico comporta complicanze a carico del sistema nervoso centrale, portando al quadro dell’encefalopatia uremica, caratterizzato da disturbi psichici, compromissione dello stato di coscienza e convulsioni.
Encefalopatia uremica La patogenesi dell’encefalopatia uremica è verosimilmente legata alla variazione ematica e liquorale dell’equilibrio elettrolitico, acido-base, idrico e osmolare. Si manifesta con una sindrome psico-organica che tende a progredire più rapidamente nei pazienti con IRA. Il quadro clinico dell’encefalopatia può instaurarsi lentamente con confusione mentale, disturbi di memoria, alterazioni del ritmo sonno-veglia, associati ad anoressia, nausea e vomito. Successivamente può progredire con allucinazioni, confusione mentale (fino al coma), iperpnea, mioclonie multifocali, asterixis (mioclono negativo), fascicolazioni, segni meningei e tremori. Negli stadi più avanzati possono associarsi episodi convulsivi, più spesso di tipo generalizzato. Le crisi epilettiche possono talora essere in rapporto all’uso di penicillina, cefalosporine o altri antibiotici. Segni focali possono essere presenti in modo transitorio, ma sono in genere poco frequenti. La valutazione neuroradiologica può in tali casi essere utile per escludere altre cause di sofferenza focale (insulti cerebrovascolari, neoplasie, infezioni) o di deterioramento mentale (idrocefalo). L’EEG spesso mostra alterazioni aspecifiche e diffuse, caratterizzate da rallentamento e disorganizzazione del ritmo di fondo, associate a parossismi a frequenza rapida. Complessi punta-onda, in assenza di manifestazioni cliniche, sono spesso riscontrabili nei pazienti con IRC.
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SINDROMI NEUROLOGICHE PARANEOPLASTICHE Nei pazienti portatori di carcinomi si possono osservare sindromi neurologiche da compromissione centrale, periferica o muscolare, non imputabili all’azione diretta del tumore o a localizzazioni metastatiche. Il termine “sindromi paraneoplastiche” si riferisce appunto a questo gruppo di disordini, associati a neoplasie, ma non determinati dall’effetto diretto del tumore né legati alle terapie. I tipi di tumori in causa sono per il 50% broncogeni, soprattutto microcitomi, seguiti dai carcinomi mammari, gastrici, dell’ovaio, retto e prostata. Le sindromi paraneoplastiche di interesse neurologico possono coinvolgere il sistema nervoso centrale (SNC), il sistema nervoso periferico (SNP), il muscolo e la giunzione neuromuscolare. La sintomatologia neurologica può manifestarsi in qualsiasi momento durante il decorso della malattia neoplastica ma, fatto particolarmente rilevante, può anche precedere di mesi o anni le manifestazioni cliniche del tumore. Risulta quindi evidente come l’identificazione di una di queste sindromi imponga la ricerca sistematica di una possibile neoplasia sottostante. I pazienti in cui tale ricerca risulti negativa devono essere tenuti sotto regolare follow-up strumentale per poter identificare precocemente la neoplasia. Anche se la patogenesi non è nota, un meccanismo di tipo immunitario sembra essere implicato in molti casi. È infatti possibile che certi epitopi (antigeni onconeurali) siano condivisi sia dal tumore che dal SNC o SNP per un meccanismo di mimetismo molecolare, determinando quindi una risposta autoimmune crociata. Le indagini di radiologia convenzionale (TC e RM) sono il primo approccio da utilizzare per l’individuazione della neoplasia di base. Le tecniche di medicina nucleare (PET con FDG) risultano utili nell’evidenziare tumori di piccole dimensioni (a partire da 0,5 cm), sfuggiti alle comuni indagini radiologiche. Di seguito viene proposta una rassegna delle principali sindromi paraneoplastiche.
NON DIMENTICARE CHE…
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Le sindromi paraneoplastiche non sono imputabili all’azione diretta del tumore, ma sono dovute a meccanismi autoimmunitari nei confronti di antigeni in comune alla neoplasia e alle strutture del sistema nervoso (antigeni onconeurali). Spesso i sintomi neurologici possono precedere anche di molto tempo le manifestazioni cliniche del tumore. Per questo motivo nel sospetto di sindrome paraneoplastica è necessaria la ricerca sistematica della neoplasia sottostante ricorrendo, se necessario, anche all’ausislio delle tecniche di medicina nucleare.
Encefalomielite paraneoplastica L’encefalomielite paraneoplastica è generalmente associata a microcitoma polmonare e alla presenza di specifici anticorpi onconeurali antineurone (generalmente di tipo anti-Hu). Il quadro clinico esordisce in modo subdolo, è polimorfo e dipendente dalla localizzazione e dalla gravità delle lesioni. Consiste in stato confusionale, allucinazioni, deficit cognitivi, nistagmo, atassia, paralisi oculare, disfagia, disartria, vertigine, ipoacusia. Talora possono essere presenti segni di interessamento dei gangli della base, con corea, distonia, bradicinesia e mioclono. In alcuni casi viene interessato in maniera quasi esclusiva il tronco dell’encefalo (romboencefalite), con conseguente coinvolgimento anche dei nuclei dei nervi cranici. Le lesioni spinali determinano la presenza di fascicolazioni muscolari, disturbi della sensibilità con livello sensitivo e deficit stenico, tipo paraparesi spastica.
Encefalite limbica Si tratta di una rara sindrome paraneoplastica, una variante del quadro di encefalomielite, di solito associata al microcitoma polmonare. Le lesioni colpiscono elettivamente l’ippocampo e altre regioni del sistema limbico. Il quadro istologico è caratterizzato da una importante perdita neuronale con gliosi reattiva e cuffing linfocitario perivascolare a livello della corteccia limbica e insulare. L’esordio clinico è subdolo e il quadro clinico è caratterizzato da alterazioni della personalità, dell’umore e del comportamento, turbe della
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memoria a breve termine, confusione, agitazione e allucinazioni. A questo si associano crisi epilettiche, solitamente di tipo parziale complesso, ma anche generalizzate. L’esame del liquor mostra, soprattutto nelle fasi precoci, un quadro infiammatorio. La RM dell’encefalo può evidenziare alterazioni di segnale elettivamente localizzate nelle regioni del sistema limbico, prevalentemente bilaterali e simmetriche. Sono riportati alcuni casi di remissione spontanea o di miglioramento con il trattamento della neoplasia, anche se la maggior parte presenta un decorso progressivo.
Degenerazione cerebellare Si tratta di una complicanza abbastanza rara, di solito associata a carcinoma polmonare a piccole cellule (microcitoma), carcinoma mammario, dell’ovaio, o a linfoma di Hodgkin. L’esame istologico mostra una riduzione o scomparsa delle cellule del Purkinje sia nel paleo che nel neo-cerebello, scomparsa delle fibre che vanno dalle cellule del Purkinje al nucleo dentato, degenerazione dei fasci spinocerebellari, dei cordoni posteriori e talora focolai di demielinizzazione con infiltrati linfocitari perivascolari e meningei nella sostanza bianca di tutto il nevrasse. Il quadro clinico consiste in gravi turbe simmetriche della coordinazione motoria artuale, ipotonia muscolare, atassia della marcia, disartria e nistagmo. Queste manifestazioni cliniche precedono in circa la metà dei casi quelle della neoplasia primitiva. Spesso si associano anche altri segni neurologici, quali ipoacusia, disfagia, segni extrapiramidali, neuropatia periferica, demenza. Nelle fasi avanzate l’atrofia cerebellare è evidente anche alle neuroimmagini, e la risonanza magnetica encefalica può mostrare iperintensità del segnale in T2 della sostanza bianca cerebrale e cerebellare. Nel liquor sono spesso presenti pleiocitosi linfocitaria e aumento delle proteine e della concentrazione di IgG con bande oligoclonali positive. In molti casi sono dimostrabili anticorpi anti-cellule del Purkinje (anti-Yo) e antineurone (anti-Hu) sia nel siero che nel liquor.
Sindrome opsoclono-mioclono Si tratta di un’encefalopatia caratterizzata da atassia, mioclono d’azione generalizzato e opsoclono. Quest’ultimo è costituito da movimenti oculari saccadici coniugati, involontari, aritmici, multidirezionali. Nel bambino può
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associarsi a neuroblastoma, nell’adulto a carcinomi polmonari, mammari e ovarici. Nei bambini con neuroblastoma la presenza di questa sindrome comporta generalmente una prognosi migliore della neoplasia. La patogenesi è molto probabilmente di tipo autoimmune come suggerisce la buona risposta al trattamento con i corticosteroidi. Inoltre in alcuni pazienti sono dimostrabili anticorpi diretti contro antigeni neuronali, più tipicamente antiRi, ma anche anti-Hu, in genere nell’ambito di un’encefalomielite. Il quadro neuropatologico mostra alterazioni simili a quelle descritte nella degenerazione cerebellare paraneoplastica.
Encefaliti da anticorpi contro antigeni di superficie Nel corso degli ultimi anni sono state identificate nuove varietà di encefaliti autoimmuni che mimano le classiche sindromi neurologiche paraneoplastiche (in particolare, l’encefalite limbica), ma possono talvolta essere simili anche alle encefaliti infettive o, in rari casi, persino alle psicosi acute isolate. Come l’encefalite limbica, anche queste nuove varietà di encefaliti autoimmuni possono, o meno, avere un’origine paraneoplastica. Vi sono però diverse differenze significative fra le due categorie. Per un approfondimento su questo argomento, VEDI FOCUS ON: LE NUOVE ENCEFALITI AUTOIMMUNI: ANTICORPI CONTRO ANTIGENI NEURONALI DI SUPERFICIE, PAG. 456.
MALATTIE REUMATICHE E DEL TESSUTO CONNETTIVO Sintomi e segni neurologici, di variabile entità clinica, sono comuni in corso di malattie sistemiche reumatiche e di malattie del tessuto connettivo. I quadri principali sono rappresentati dai reumatismi infiammatori e dalle connettiviti. Molti sintomi neurologici lamentati dai pazienti con malattie reumatiche possono avere diverse basi fisiopatologiche, principalmente di tipo infiammatorio e autoimmune. I disturbi neurologici, prevalenti in alcuni disordini, possono occasionalmente anche precedere lo sviluppo dei segni e sintomi propri della malattia di base.
Lupus eritematoso sistemico
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Il lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia reumatica infiammatoria cronica del tessuto connettivo, a eziologia ancora sconosciuta e patogenesi autoimmunitaria, che colpisce maggiormente le donne in età fertile. Nel LES le manifestazioni neurologiche sono frequenti e si possono presentare in qualsiasi fase. Anche se di solito non sono di comune riscontro nelle fasi precoci, talora ne costituiscono però l’esordio clinico (neuro-LES). L’impegno del sistema nervoso può essere primitivo, cioè provocato direttamente dai fattori eziopatogenetici propri della malattia (immunocomplessi, autoanticorpi, vasculopatia), oppure secondario all’interessamento di altri organi o apparati, responsabili a loro volta di sindromi sistemiche (uremia, ipertensione) o, infine, in relazione a infezioni intercorrenti, oppure legato ad effetti avversi delle terapie. La cefalea è un sintomo comune e spesso presenta le caratteristiche dell’emicrania, anche se può tuttavia essere in rapporto a una meningite asettica o a eventi cerebrovascolari. La meningite asettica è una complicanza piuttosto rara che, talora, può avere decorso cronico ricorrente. In presenza di febbre, cefalea e rigidità nucale è necessario escludere cause infettive o iatrogene. Gli esami cardine in questo caso sono rappresentati da RM encefalo con gadolinio e prelievo liquorale. La cefalea può associarsi al papilledema, indicativo di ipertensione endocranica. Le crisi epilettiche sono abbastanza frequenti e possono essere sia di tipo parziale che generalizzato; esse compaiono prevalentemente nelle fasi terminali e hanno pertanto un significato prognostico sfavorevole; spesso si associano alla presenza di anticorpi antifosfolipidi o anticorpi anti-strutture neuronali. Il trattamento viene di solito effettuato con i farmaci antiepilettici convenzionali, tuttavia, se sono presenti segni clinici e laboratoristici di attività di malattia, possono essere indicati anche steroidi e farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS). Le manifestazioni neuropsichiatriche presentano un ampio spettro di espressione clinica, dalle psicosi a quadri di demenza o alterazioni dello stato di coscienza. Va sottolineato che può talvolta essere difficile comprendere se tali manifestazioni sono invece la conseguenza diretta dell’utilizzo di steroidi (psicosi steroidea). Tra i disturbi del movimento, vanno ricordati i movimenti coreici, unilaterali o generalizzati, spesso associati a segni focali e di deficit cognitivo. La loro patogenesi non è ancora chiara, anche se di solito sono
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dimostrabili al neuroimaging microinfarti a livello dei nuclei della base. Gli eventi cerebrovascolari, generalmente ischemici, sono presenti nel 516% dei casi e riconoscono molteplici meccanismi patogenetici: anticorpi antifosfolipidi, embolia cardiogena, occlusione o stenosi dei grossi vasi, vasculite dei piccoli vasi intracranici, porpora trombotica trombocitopenica. I pazienti con LES associato a cardiopatia o a presenza di anticorpi antifosfolipidi presentano un rischio cerebrovascolare elevato e sono quindi candidati alla terapia anticoagulante orale. Le emorragie intracraniche sono meno frequenti e sono legate soprattutto all’ipertensione arteriosa, alla trombocitopenia e alla vasculite cerebrale. In una piccola percentuale di casi si possono avere anche quadri di trombosi venosa cerebrale.
FOCUS ON LE NUOVE ENCEFALITI AUTOIMMUNI: ANTICORPI CONTRO ANTIGENI NEURONALI DI SUPERFICIE
Gli auto-anticorpi onconeurali classici sono di solito diretti contro antigeni neuronali intracellulari e vengono considerati semplici biomarker, essendo il quadro clinico dipendente dall’immunità Tmediata. Queste nuove encefaliti autoimmuni derivano invece da autoanticorpi diretti contro strutture espresse sulla superficie delle cellule neuronali o espresse a livello sinaptico (usualmente proteine di canale). Inoltre, essi vengono considerati i diretti responsabili dei rispettivi quadri clinici, che sarebbero quindi dipendenti dall’immunità umorale. Per tale motivo, queste nuove varietà di encefaliti rispondono di solito assai meglio alle terapie immuno-modulatorie (IG e.v, plasmaferesi e boli di steroide) e, se riconosciute prontamente, hanno una prognosi migliore rispetto alle forme paraneoplastiche classiche. Le due forme più frequenti sono le encefaliti da anticorpi anti-VGKC e da anticorpi anti-NMDAR. ENCEFALITE DA ANTICORPI ANTI-VGKC. L’encefalite con anticorpi anti-VGKC è caratterizzata da autoanticorpi diretti contro i canali del
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potassio voltaggio-dipendenti (VGKC), un gruppo di proteine fondamentali nel generare il potenziale d’azione a livello neuronale. Il quadro clinico è del tutto simile alle encefaliti limbiche associate ad anticorpi onconeurali; si differenzia però per l’ottima risposta alle terapie immunomodulanti e per l’alta proporzione di casi non paraneoplastici (fino al 70-80%). Molto recentemente, si è visto che gli autoanticorpi sono diretti non contro proteine intrinseche dei canali del potassio, ma contro diverse proteine associate ai canali stessi, la più frequente delle quali è una proteina sinaptica denominata LGI1, che è espressa soprattutto a livello dell’ippocampo. ENCEFALITE DA ANTICORPI ANTI-NMDAR. L’encefalite da anticorpi anti-NMDAR colpisce più frequentemente il sesso femminile (70-80% dei casi), tipicamente a un’età media di 20-30 anni; talvolta, questa varietà può interessare anche l’età pediatrica. È una forma spesso di tipo paraneoplastico ed è frequente il riscontro di tumori dell’ovaio (circa la metà dei casi), tipicamente teratomi. Il quadro clinico d’esordio è tipicamente di tipo psichiatrico e viene spesso confuso con uno stato depressivo maggiore, una psicosi acuta o un’intossicazione da sostanze. Le crisi epilettiche sono molto frequenti e sono caratteristici anche i movimenti involontari a carico del distretto orofacciale e degli arti, spesso erroneamente considerati di tipo epilettico, con importanti ripercussioni sulla terapia in atto. Generalmente il sospetto diagnostico deriva dalla comparsa di depressione del livello di coscienza associata ad instabilità disautonomica e ad episodi di ipoventilazione che comportano la necessità di ricoverare le pazienti in ambiente idoneo. Nei pazienti pediatrici, i sintomi d’esordio consistono spesso in marcate modificazioni del carattere o del comportamento, disturbi del sonno e della deambulazione con posture distoniche. Gli autoanticorpi sono diretti verso il recettore NMDA (N-metil-Daspartato), appartenente al gruppo dei recettori ionotropici del glutammato (il principale neurotrasmettitore eccitatorio del SNC) e ricoprente un ruolo fondamentale nella trasmissione sinaptica e nella plasticità neuronale. In questi casi è frequente il riscontro di tumori dell’ovaio (circa la metà dei casi), tipicamente teratomi. ENCEFALITI DA ALTRI ANTICORPI DI SUPERFICIE. La frequenza delle encefaliti da anticorpi di superficie non è al momento conosciuta con
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precisione sia per la varietà delle manifestazioni cliniche, sia perché i potenziali target autoimmuni sono in continua espansione. Sono al momento riconosciute encefaliti da autoanticorpi diretti anche contro i seguenti target di superficie: AMPAR e mGlu-R5 (due altri recettori del glutammato, ionotropo il primo e metabotropo il secondo), GABABR e GABA-AR (due recettori Gabaergici), DPPX e CASP-R2. Indagini strumentali I reperti strumentali sono molto simili a quelli che si riscontrano nelle encefaliti limbiche paraneoplastiche con anticorpi onconeurali. Il liquor è spesso normale o mostra solo la presenza di bande oligoclonali e di qualche cellula. La RM cerebrale può mostrare iperintensità di segnale a livello temporo-mesiale nelle sequenze T2 e FLAIR, ma la sua negatività non esclude la diagnosi. Nel sospetto di encefalite limbica, specie se in assenza di una neoplasia sottostante, è indicato ricercare la presenza di autoanticorpi diretti contro queste strutture bersaglio di superficie. Prognosi e terapia La risposta alla terapia immunomodulatoria (varia combinazione di steroidi, plasmaferesi e immunoglobuline e.v.) è in genere molto buona. Quando sono presenti sequele, esse consistono soprattutto nell’incompleto recupero delle funzioni mnesiche. La risposta alla terapia è confermata, oltre che dal miglioramento della sintomatologia, dalla risoluzione delle alterazioni radiologiche e dalla diminuzione del titolo anticorpale. È anche da sottolienare che una discreta percentuale, attualmente non quantificabile, di encefaliti autoimmuni risponde alla terapia immunomodulante pur senza evidenza di specifici auto-anticorpi (cosiddette forme siero-negative).
Nell’ambito delle patologie del SNP, possono essere innanzitutto presenti le neuropatie craniche e il nervo facciale è quello più comunemente interessato; sono possibili anche le neuropatie ottiche, generalmente su base ischemica o demielinizzante. Sono stati anche descritti casi di neuromielite ottica, con discreta risposta alla terapia immunosoppressiva con
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ciclofosfamide. I quadri più comuni di interessamento dei nervi periferici sono però rappresentati dalla neuropatia subacuta sensitiva o sensitivo-motoria, dalla sindrome di Guillain-Barrè, dalle mononeuriti multiple e dalle neuropatie autonomiche.
Sindrome di Sjögren La sindrome di Sjögren (SS) è una malattia infiammatoria cronica a patogenesi autoimmune, caratterizzata da xeroftalmia e xerostomia (sindrome sicca), spesso associata ad artrite reumatoide o ad altre malattie autoimmuni. Le manifestazioni extraghiandolari, conseguenti all’estensione della flogosi linfoproliferativa, sono frequenti nei pazienti con forma primaria (25% dei casi). Le complicanze neurologiche più comuni sono rappresentate da neuropatie periferiche e craniche e da miositi. Il nervo cranico più frequentemente colpito è il V (trigemino). La neuropatia del trigemino è tipicamente solo sensitiva (nevralgia) e talora può associarsi a una neuropatia periferica. Analogamente al LES, i sintomi neurologici di interessamento del sistema nervoso periferico possono talora costituire l’esordio della SS. Il quadro clinico più comune è quello della polineuropatia sensitivo-motoria simmetrica agli arti inferiori, a lenta evoluzione clinica. La biopsia delle ghiandole salivari può mostrare un infiltrato linfo-plasmocitario tipico. Alla biopsia del nervo surale si osserva una sofferenza assonale con scarsa demielinizzazione, talora sono evidenti infiltrati infiammatori attorno ai piccoli vasi epineurali. Più rare sono le forme neuropatiche autonomiche e le multineuropatie. Le miopatie hanno decorso generalmente benigno e non si associano a importante incremento degli enzimi muscolari nel sangue. Complicanze a carico del sistema nervoso centrale sono invece assai più rare; esse comprendono cefalea, meningiti asettiche, disturbi psichiatrici e segni di sofferenza focale encefalica.
Vasculite del SNC Si tratta di una vasculite granulomatosa idiopatica, con interessamento dei
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vasi di piccolo e medio calibro del sistema nervoso centrale (SNC), a sede durale. Può colpire esclusivamente il SNC (vasculite isolata) o essere in associazione a vasculiti sistemiche. L’eziopatogenesi non è nota, anche se meccanismi di tipo autoimmunitario sembrano essere implicati in molti casi. Le manifestazioni cliniche sono molto variabili; i sintomi più comuni sono: encefalopatia con interessamento multifocale, ictus ischemico o emorragico, crisi epilettiche parziali o generalizzate e cefalea. A livello sistemico gli indici di flogosi attiva sono spesso assenti. Il neuroimaging può essere negativo, anche se la RM dell’encefalo può talora mostrare enhancement meningeo. Il liquor spesso mostra una pleiocitosi lieve ed aspecifica. A oggi l’angiografia dei vasi cerebrali e la biopsia delle meningi rimangono le indagini diagnostiche più sensibili. La terapia con ciclofosfamide e prednisone produce in molti casi un significativo beneficio, anche se la prognosi rimane spesso infausta.
Arterite temporale Si tratta di una vasculite generalizzata dei vasi di maggior calibro che colpisce maggiormente soggetti di età adulta-anziana (più spesso le donne) e nell’80% si associa a polimialgia reumatica. È una condizione clinica non infrequente ed è importante riconoscerla prontamente, dato che risponde bene a un trattamento adeguato e tempestivo. Se non riconosciuta, può portare a gravi conseguenze, come ipovisus o cecità. Il quadro clinico è dominato dalla cefalea. La diagnosi si avvale dell’associazione tra dati clinici e laboratoristici, di cui il più importante è l’incremento della VES e della PCR. La conferma diagnostica è ottenuta dalla biopsia dell’arteria temporale. Il quadro istologico della biopsia dell’arteria temporale può mostrare una flogosi della tunica media e iperplasia intimale, spesso con le caratteristiche cellule giganti (arterite gigantocellulare), anche se la biopsia del vaso può talora risultare normale, dato che questo tipo di arterite interessa la parete del vaso in modo non uniforme, ma segmentario. L’eventuale coinvolgimento delle arterie carotidi e vertebrali può essere responsabile di fenomeni ischemici, più frequentemente nel territorio vertebrobasilare. La riduzione del visus monoo binoculare (fino alla cecità) è dovuta all’occlusione dell’arteria centrale della retina. In questi casi è utile la terapia cortisonica che, secondo alcuni autori, dovrebbe essere continuata per almeno un anno, date le
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possibili ricadute del quadro clinico.
NON DIMENTICARE CHE… Nel percorso diagnostico dell’arterite temporale risulta fondamentale il dosaggio dei principali indici di flogosi (VES e PCR). La biopsia dell’arteria temporale è caratterizzata dal quadro istologico dell’arterite gigantocellulare.
Sarcoidosi Consiste in una granulomatosi multisistemica a patogenesi immunitaria, caratterizzata dalla formazione di granulomi costituiti da cellule epitelioidi, cellule giganti e linfociti. Il quadro clinico sistemico è caratterizzato da linfoadenopatia ilare, infiltrati polmonari, cutanei e lesioni oculari. L’interessamento del sistema nervoso centrale e periferico, legato alla diffusione dei granulomi a livello parenchimale, leptomeningeo e vasale, è presente in una percentuale variabile, dall’1 al 16% dei pazienti. La manifestazione neurologica più comune è la meningite asettica cronica granulomatosa della base dell’encefalo (neurosarcoidosi). Il quadro clinico è tipicamente caratterizzato da cefalea associato a sintomi di disfunzione ipotalamica, con alterazioni del senso della sete e sindrome da inappropriata secrezione di ADH. Un idrocefalo ostruttivo può conseguire all’invasione granulomatosa dei ventricoli e/o dei forami del quarto ventricolo. Le crisi epilettiche, relativamente frequenti, sono dovute all’invasione granulomatosa del parenchima cerebrale. I nervi cranici possono essere coinvolti, soprattutto il settimo, che spesso è interessato bilateralmente. Le neuropatie periferiche, a carattere assonale e demielinizzante, sono causate da granulomi a sede epi-perineurale e dalla vasculite granulomatosa dei vasa nervorum.
MALATTIE EMATOLOGICHE 939
Mieloma multiplo Il mieloma multiplo è caratterizzato dalla proliferazione neoplastica di plasmacellule e si manifesta con lesioni ossee distruttive, fratture patologiche, compressione del midollo spinale e anemia. Il mieloma multiplo è la causa più frequente di compressione midollare neoplastica, dopo le metastasi da carcinoma sistemico. Si riscontrano lesioni compressive del midollo e delle radici spinali dovute a infiltrazione mielomatosa extradurale a partenza dalle vertebre o a frattura vertebrale. Nella maggior parte dei casi la malattia si presenta con dolori ossei, più frequentemente al rachide, spesso con segni di compressione mieloradicolare. Possono anche associarsi segni di compromissione del sistema nervoso periferico con quadri di polineuropatia mista sensitivo-motoria, che può precedere, anche di mesi o anni, la diagnosi di mieloma multiplo. Anche le ossa del cranio sono spesso colpite dal processo espansivo e osteolitico del mieloma e si possono presentare quadri clinici dovuti alla compressione dei nervi cranici in corrispondenza delle loro emergenze. L’interessamento diretto del parenchima cerebrale è invece piuttosto raro; quando è presente, può portare a diversi sintomi deficitari o irritativi in relazione alla regione coinvolta.
Leucemie Le leucemie sono caratterizzate dalla proliferazione neoplastica di leucociti e dei loro precursori con diffusione in tutto l’organismo, in particolare a livello di midollo osseo, milza, fegato e linfonodi. Possono colpire la serie mieloide o linfoide e sono in genere associate ad anemia e piastrinopenia. In relazione all’aumentata sopravvivenza dei pazienti leucemici, si è assistito, negli ultimi 15 anni, a un aumento della frequenza delle complicanze neurologiche, che compaiono con un’incidenza del 3% circa dei casi. L’interessamento del SNC è dovuto, di solito, all’infiltrazione di cellule leucemiche, oppure ad emorragie, infezioni, alterazioni metaboliche o a complicanze della chemio-radioterapia. In particolare, l’interessamento del parenchima cerebrale da parte delle cellule leucemiche può avvenire attraverso la via emolinfatica, per colonizzazione meningea e a partenza dalle cellule perivasali con potenzialità ematopoietica in sede aracnoidea.
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L’invasione delle meningi può determinare un quadro di meningite asettica (o meningite leucemica) con cefalea, nausea, vomito, rigidità nucale, compromissione dello stato di coscienza e crisi epilettiche. La circolazione e il riassorbimento del liquor possono essere compromessi, determinando la comparsa di idrocefalo ostruttivo. L’infiltrazione diretta del parenchima cerebrale può portare a sintomi neurologici dipendenti dalla zona cerebrale colpita, così come l’invasione del midollo spinale da parte della massa leucemica. L’interessamento del sistema periferico è invece piuttosto raro; quando presente, esso avviene sotto forma di poliradicolonevriti, spesso come effetto collaterale dei farmaci antineoplastici. Le alterazioni della circolazione cerebrale sono frequenti e possono manifestarsi con ischemie, isolate o diffuse, sia arteriose che venose; l’eziopatogenesi è verosimilmente dovuta all’iperviscosità ematica secondaria all’elevato numero di leucociti circolanti, a embolizzazione (di tipo settico e non), a invasione diretta dei seni venosi da parte della massa leucemica e a coagulazione intravasale disseminata.
Linfomi I linfomi sono dovuti alla degenerazione neoplastica del tessuto linfoide (linfociti T e B e loro precursori). Nella maggior parte dei casi la sintomatologia neurologica dipende dall’azione compressiva di masse linfomatose infiltranti il tessuto nervoso, soprattutto radici nervose e midollo spinale, più raramente nervi cranici ed encefalo. Le lesioni midollari possono essere associate a processi di osteolisi con frattura e dislocazione vertebrale e a compressione dei vasi sanguigni. Il quadro più tipico si caratterizza per sintomi da compressione midollare lenta con paraparesi spastica progressiva, segni di compromissione sensitiva con livello e compromissione delle funzioni sfinteriche, in primis ritenzione urinaria. Vi può anche essere il coinvolgimento del sistema nervoso periferico, sia per compressione diretta che per un effetto di tipo paraneoplastico. Gli eventi ischemici cerebrovascolari sono in relazione allo stato di coagulazione intravasale disseminata o per occlusione venosa da infiltrazione di masse linfomatose. I pazienti con linfoma sono particolarmente suscettibili a infezioni di tipo opportunistico con spiccato tropismo per il SNC come gli herpesvirus e il
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parvovirus, portando quindi allo sviluppo di meningiti, encefaliti e mieliti.
NON DIMENTICARE CHE… • Le complicanze neurologiche in corso di malattie internistiche sono piuttosto frequenti e spesso misconosciute dal clinico. • Essendo caratterizzate da un quadro clinico estremamente variabile, esse possono essere confuse con i sintomi della malattia di base e interpretate come il peggioramento della patologia internistica. • Se non vengono riconosciute in maniera tempestiva esse possono notevolmente peggiorare la prognosi del paziente. Risulta quindi importante riconoscerle e trattarle adeguatamente. • L’esame obiettivo neurologico e i principali strumenti di indagine neurologica facilitano il clinico nel delicato compito di individuare le complicanze neurologiche in corso di malattia internistica.
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26 URGENZE NEUROLOGICHE G. Stefanoni, I. Appollonio
KEY POINTS L’anamnesi focalizzata sulle modalità d’esordio dei sintomi e l’esame obiettivo al letto del malato rappresentano i momenti essenziali del processo diagnostico neurologico in Pronto Soccorso, in quanto permettono di indirizzare le indagini strumentali e fornire un trattamento il più possibile precoce ed efficace. L’obiettivo della valutazione neurologica in urgenza è distinguere tra patologie benigne, a prevedibile regressione spontanea, e patologie potenzialmente gravi a rischio di morte o invalidità permanente, per le quali è fondamentale il trattamento precoce. Diversamente dalla cefalea acuta primaria, che necessita di sola terapia sintomatica, le cefalee secondarie richiedono accertamenti strumentali mirati in quanto possono essere la prima manifestazione di patologie neurologiche gravi e/o rapidamente evolutive. La presenza di deficit sensitivo-motori (con distribuzione a un emisoma, agli arti inferiori, a un solo arto, ai quattro arti) è indicativa di danno neurologico che può trarre giovamento da trattamento in tempi rapidi. Nel paziente con vertigine è necessario stabilire l’origine centrale o
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periferica della stessa. La vertigine è generalmente evocativa di patologia vestibolare, ma può richiedere accertamenti urgenti se accompagnata da deflessione dello stato di coscienza, cefalea intensa, deficit dei nervi cranici e deficit focali a carico di un emisoma. Ipovisus (perdita improvvisa dell’acuità visiva, inizialmente monoculare) e diplopia (visione doppia binoculare) sono due disturbi visivi riferibili a urgenze neurologiche. Il coma a esordio acuto ha sempre origine encefalica. L’anamnesi, l’esame obiettivo, la TC encefalo in urgenza e gli esami ematochimici sono essenziali per identificarne le cause e definire l’iter terapeutico. Nei precedenti capitoli di questo volume le diverse patologie di interesse neurologico sono state trattate in base all’eziopatogenesi. Di ognuna di queste sono state approfondite le principali peculiarità in termini di presentazione clinica, diagnostica strumentale e trattamento. Questo capitolo riprende brevemente alcune di queste patologie, considerandole dal punto di vista del neurologo che, in un contesto di Pronto Soccorso, è chiamato a impostare un iter diagnostico a partire dalla singola manifestazione clinica. In particolare, verrà discussa la diagnosi differenziale dei sintomi per i quali viene più frequentemente richiesta la consulenza neurologica urgente. Per ognuno di questi quadri, l’obiettivo fondamentale della valutazione neurologica è la distinzione tra patologie benigne, per le quali è prevedibile una regressione spontanea favorita da una terapia esclusivamente sintomatica, e patologie potenzialmente di estrema gravità, in grado di progredire rapidamente a morte o permanente invalidità, per le quali è spesso fondamentale il trattamento precoce.
CEFALEA ACUTA KEY POINTS La ricerca dei “segni d’allarme” permette di distinguere episodi di cefalea primaria, che richiedono solo terapia sintomatica, da cefalee secondarie a patologie intracraniche, meritevoli di approfondimento
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diagnostico. L’emorragia subaracnoidea è la causa più frequente di cefalea con caratteristiche iperacute ed è in genere facilmente diagnosticata tramite TC encefalo senza m.d.c. La cefalea seguita da deficit neurologici sensitivo-motori richiede un imaging neurovascolare (angio-TC, angio-RM) per ricercare l’eventuale presenza di dissecazione arteriosa cervicale o di trombosi venosa cerebrale. La rachicentesi deve essere eseguita in urgenza in caso di cefalea associata a sintomi o segni indicativi di meningite o encefalite, quali febbre, rigor nucale, stato confusionale o crisi epilettiche.
Introduzione La cefalea è un sintomo estremamente frequente nella popolazione generale ed è spesso causa di accesso al Pronto Soccorso. Nella maggior parte dei casi si tratta di forme di cefalea primaria (emicrania, cefalea tensiva ecc.), cioè sindromi dolorose croniche, a andamento ricorrente, per definizione non associate a patologie intracraniche e di conseguenza prive di un significativo rischio di danno cerebrale. Tuttavia la cefalea può essere secondaria a patologie intrao extracraniche. Particolare attenzione va posta al riconoscimento di cefalee che rappresentano la prima manifestazione di patologie neurologiche gravi e/o rapidamente evolutive, il cui decorso spesso può essere modificato favorevolmente dalla rapida impostazione di trattamenti specifici. L’approccio al paziente che entra in PS per cefalea deve quindi essere mirato all’esclusione di cefalee secondarie Esistono numerosi segni d’allarme (TAB. 26.1) che, in base all’obiettività neurologica e ai dati anamnestici, devono far sorgere il sospetto di cefalea secondaria. Particolare attenzione va riservata alle cefalee di intensità severa, in pazienti che non presentano storia di cefalea primaria oppure che soffrono di cefalea primaria ma che giungono in Pronto Soccorso per una cefalea con intensità o caratteristiche modificate rispetto agli episodi cefalalgici consueti. In ogni caso, quando un paziente si presenta con segni di allarme per cefalea secondaria, devono essere eseguiti accertamenti strumentali mirati, che possono invece essere evitati in soggetti che presentino chiare caratteristiche di cefalea primaria.
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TABELLA 26.1 Criteri di allarme per sospetta cefalea secondaria
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Emorragia subaracnoidea (ESA) La patologia che, per frequenza e gravità, deve essere sempre considerata nei casi di cefalea acuta è l’emorragia subaracnoidea (ESA). In questi casi il dolore è esplosivo, raggiunge l’apice in pochi secondi, causa profonda sofferenza e spesso si associa a iniziale e transitoria perdita di coscienza oppure a un quadro di ipertensione endocranica caratterizzato da stato soporoso e vomito. L’esame dirimente per escludere l’ESA è la TC encefalo senza mezzo di contrasto, che evidenzia la presenza di sangue nei solchi corticali e nelle cisterne della base encefalica. Benché estremamente accurata, la TC encefalo non presenta però una sensibilità del 100%, soprattutto nei casi che giungono in Pronto Soccorso dopo le 24 ore dall’esordio. Per questo, nei casi in cui il sospetto clinico di ESA sia elevato ma la TC risulti negativa, è indicata anche l’esecuzione della rachicentesi (vedi Focus on, La rachicenTesi neLL’esa, in quesTa pagina). Quando una di queste procedure risulta positiva per ESA, il paziente deve essere sottoposto a un imaging neurovascolare, finalizzato a identificare la causa dell’ESA. In regime d’urgenza si ricorre in genere all’angio-TC. La causa più frequente di ESA è infatti un aneurisma dei vasi del circolo di Willis. Se identificato, l’aneurisma dovrà essere escluso dal circolo nel più breve tempo possibile, essendo molto alto il rischio di risanguinamento nei primi giorni successivi
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all’ESA; la recidiva peggiora gravemente la prognosi. Esistono due possibili approcci interventistici: l’embolizzazione dell’aneurisma tramite angiografia e il clippaggio neurochirurgico tramite craniotomia. La scelta della procedura dipende da caratteristiche anatomiche e localizzazione dell’aneurisma, età e comorbilità del paziente, esperienza del Centro sulle varie procedure.
Ematoma cerebrale intraparenchimale La TC encefalo permette di fare diagnosi di un’altra possibile causa di cefalea acuta, e cioè l’ematoma cerebrale intraparenchimale (ictus emorragico), che spesso esordisce con cefalea e altri segni di ipertensione intracranica. Rispetto all’ESA, nell’ictus emorragico in genere si associano anche deficit neurologici focali, diversi a seconda della sede dell’ematoma.
Ictus ischemico Raramente si manifesta con cefalea all’esordio, fatta eccezione per l’ictus cerebellare. In questi casi la TC sarà negativa in fase acuta per segni emorragici. Se il quadro clinico è altamente suggestivo per un ictus del circolo posteriore, data la presenza di chiari segni focali da disfunzione cerebellare e/o del tronco encefalico, allora è indicata la trombolisi endovenosa, anche in assenza di accertamenti di secondo livello che confermino la diagnosi. Chiaramente devono essere escluse controindicazioni al trattamento e l’ictus deve avere avuto esordio entro le 4,5 ore. Se permane un dubbio diagnostico, deve essere eseguita un’angio-TC del circolo cervicale e intracranico, al fine di confermare la presenza di occlusioni emboliche dei vasi arteriosi del circolo posteriore.
FOCUS ON LA RACHICENTESI NELL’ESA
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Nell’ESA la rachicentesi (VEDI ANCHE FOCUS ON, IL LIQUIDO CEFALORACHIDIANO E LA RACHICENTESI, CAP. 12 PAG. 207) permette di dimostrare un elevato numero di globuli rossi nel liquido cefalorachidiano. Tuttavia, purtroppo, lo stesso reperto si riscontra secondariamente a punture lombari indaginose e traumatiche. Per distinguere tra sangue contaminante il campione di liquor e sangue che era già presente nello spazio subaracnoideo, il liquor deve essere analizzato dopo centrifugazione: in caso di ESA il supernatante mostrerà un colore giallo-arancione (xantocromia), derivante dalla lisi dei globuli rossi già presenti da alcune ore nel liquor. Poiché la xantocromia può non essere riscontrata nelle primissime fasi dell’ESA, la rachicentesi mostra la massima accuratezza diagnostica solo oltre le 24 ore dall’evento, quando peraltro diviene subottimale la sensibilità della TC.
Dissecazioni dei vasi arteriosi cervicali e trombosi venose cerebrali L’angio-TC permette di identificare entrambe queste patologie che, frequentemente, si manifestano con intensa cefalea all’esordio e, se non trattate, possono complicarsi con infarti cerebrali e conseguenti sequele neurologiche permanenti. La presenza di una trombosi venosa cerebrale, in circa la metà dei casi, può essere suggerita già dalla TC basale. Il trattamento consiste nella terapia anticoagulante per la trombosi venosa; nel caso della dissecazione arteriosa, un recente studio randomizzato ha mostrato l’equivalenza della terapia antiaggregante e anticoagulante. Le cefalee di intensità elevata e insorgenza iperacuta (apice del dolore entro 1 minuto dall’esordio) sono chiamate cefalee “a rombo di tuono” (thunderclap) e hanno frequentemente causa vascolare: l’ESA e la dissecazione sono le cause più frequenti e importanti da ricercare per i frequenti gravi esiti. Causa rara di cefalea thunderclap è la sindrome da vasospasmo intracranico, spesso secondaria ad assunzione di farmaci e sostanze d’abuso. Si tratta di una patologia benigna, che in genere regredisce spontaneamente senza lasciare esiti; in questi casi la cefalea acuta, spesso con caratteristiche di cefalea thunderclap, è la manifestazione più frequente.
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Infezione intracranica L’assenza di anomalie alla TC encefalo e all’angio-TC non esclude tutte le cause gravi di cefalea. Pazienti che presentano cefalea intensa associata a febbre, rigor nucale, crisi comiziali, segni focali o compromissione del livello di vigilanza, devono essere sottoposti a rachicentesi nel sospetto di infezione intracranica. Sia la meningite che l’encefalite possono manifestarsi con cefalea e in genere non mostrano anomalie di rilievo né alla TC encefalo né all’angio-TC. In questi casi la conta cellulare su liquido cefalorachidiano è il parametro più significativo per prendere decisioni in merito al trattamento del paziente. Un liquor francamente purulento, con elevato numero di polimorfonucleati e bassi livelli di glucosio, è suggestivo di meningite batterica; in questi casi il trattamento antibiotico deve essere iniziato immediatamente, con farmaci che passino la barriera ematoencefalica e che siano attivi sulle specie batteriche che, in base a dati epidemiologici e anamnestici, siano più probabilmente coinvolti nella genesi dell’infezione. L’esame colturale su liquor, il cui esito è disponibile solo dopo alcuni giorni dal prelievo, dovrà essere utilizzato per modificare la terapia e indirizzarla in modo specifico verso l’agente eziologico isolato. In caso di esame colturale negativo, la terapia antibiotica empirica dovrebbe comunque essere proseguita per 2-3 settimane; una rachicentesi di controllo può essere utile per verificare l’efficacia del trattamento. Un quadro di pleiocitosi con prevalenza di linfociti e normale glicorrachia è invece indicativo di encefalite virale. In questi casi è necessario iniziare immediatamente la terapia con aciclovir essendo gli herpes simplex virus (in particolare HSV-2) la causa più frequente di encefalite. Le indagini molecolari per la ricerca del DNA o RNA virale su liquor, che analogamente all’esame colturale richiedono alcuni giorni, verranno utilizzate per una successiva eventuale modifica della terapia. Nei casi in cui la conta cellulare su liquor produca risultati borderline, è utile ricorrere a indagini supplementari per sostenere il sospetto clinico di encefalite. Si tratta dell’EEG, che spesso mostra una disfunzione elettrogenetica o delle anomalie epilettiformi a localizzazione focale, e la RM encefalo, che può evidenziare alterazioni di segnale nella regione cerebrale coinvolta dall’infezione. Purtroppo queste indagini non hanno una sensibilità del 100%, per cui un loro
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risultato negativo non esclude in modo assoluto una diagnosi di encefalite.
Ipertensione endocranica acuta È un meccanismo frequentemente coinvolto nella patogenesi della cefalea in corso di patologie intracraniche acute. Il rapido aumento della pressione intracranica provoca un’ipoperfusione cerebrale globale ed evolve verso l’erniazione di alcune aree encefaliche attraverso sepimenti ossei o di dura madre, che delimitano i compartimenti intracranici; l’erniazione determina lo strozzamento di queste aree e una loro conseguente disfunzione. Quando la disfunzione coinvolge il tronco encefalico, la conseguenza clinica è il coma e il successivo arresto respiratorio. Esistono varie procedure neurochirurgiche (per esempio, derivazione ventricolare, craniotomia decompressiva) che permettono di ridurre la pressione intracranica e di conseguenza impedire l’exitus, concedendo così il tempo necessario per diagnosticare e trattare la causa dell’ipertensione endocranica acuta. In certi casi un incremento improvviso della pressione endocranica può derivare da un improvviso ostacolo al deflusso di liquor attraverso le cavità ventricolari e da qui allo spazio subaracnoideo. In questi casi si parla di idrocefalo acuto e la TC permette di porre diagnosi, evidenziando l’ampliamento delle cavità ventricolari e i segni di edema periventricolare. L’idrocefalo acuto può complicare sia patologie a rapida evoluzione, come le già citate emorragie e infezioni intracraniche, sia patologie a lenta evoluzione, come le neoplasie cerebrali della fossa cranica posteriore, gli adenomi ipofisari e gli ependimomi. In questi casi il processo espansivo è scarsamente sintomatico fino al momento in cui blocca il deflusso liquorale, scatenando una sindrome da ipertensione endocranica acuta. Il trattamento consiste nella derivazione ventricolare in urgenza e nella successiva escissione chirurgica della neoplasia.
Arterite temporale Nella popolazione anziana una causa non rara e potenzialmente invalidante di cefalea è l’arterite temporale (o arterite di Horton). Questa patologia dovrebbe essere sospettata in pazienti di età superiore ai 55 anni, con anamnesi remota negativa per cefalea, che lamentino la recente insorgenza di cefalea acuta o subacuta, continua o subcontinua, associata a febbricola,
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dolorabilità al cuoio capelluto e tumefazioni pulsanti a livello delle tempie. Nella metà dei casi l’arterite si presenta in soggetti con sintomi di polimialgia reumatica. Sintomo raro, ma altamente specifico, di arterite temporale è la claudicatio mandibolare (mialgie dei masseteri in corso di masticazione). La complicanza più temuta dell’arterite temporale è la perdita della vista, inizialmente monoculare e in seguito bilaterale, secondaria a trombosi delle arterie ciliari e conseguente a ischemia del nervo ottico. Il disturbo visivo esordisce tipicamente con uno scotoma altitudinale (perdita della parte superiore o inferiore del campo visivo di un occhio), segno dell’occlusione di un’arteria ciliare; in questi casi è molto alto il rischio di un’estensione del processo alle altre arterie ciliari di entrambi gli occhi. Questa evoluzione può essere impedita efficacemente con la terapia steroidea ad alte dosi (in genere prednisone 1 mg/kg). Utile nell’ambito dell’urgenza è la misurazione degli indici plasmatici di flogosi: VES e PCR sono francamente aumentati nell’arterite temporale, per cui la loro normalità permette di escludere la diagnosi; al contrario, valori aumentati, benché aspecifici, permettono di rafforzare il sospetto clinico e possono quindi giustificare l’inizio immediato della terapia steroidea. La biopsia dell’arteria temporale permette di confermare la diagnosi ma non deve ritardare l’inizio della terapia.
NON DIMENTICARE CHE... • Dato che nell’arterite temporale la perdita della vista è una complicanza frequente, improvvisa e irreversibile, la terapia con steroidi ad alte dosi deve essere iniziata immediatamente, una volta posto il sospetto diagnostico. • La terapia è decisiva per prevenire la cecità. • Per questo, in nessun caso, deve essere posticipato il trattamento in attesa di eseguire la biopsia dell’arteria temporale, soprattutto considerando che le anomalie istopatologiche dell’arterite non vengono modificate dall’azione dello steroide se non dopo molte settimane di terapia.
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Cause rare di cefalea acuta Raramente la cefalea acuta è causata da ipertensione endocranica idiopatica (pseudotumor cerebri) e ipotensione liquorale. • L’ipertensione endocranica idiopatica è più frequente nel sesso femminile e l’obesità ne rappresenta un importante fattore di rischio. È caratterizzata dall’associazione di cefalea e papilledema, in assenza di anomalie alle indagini di neuroimaging e alle analisi su liquor. La rachicentesi deve essere in questi casi eseguita in decubito laterale, in modo da misurare con precisione la pressione liquorale e confermare la diagnosi. Come per l’idrocefalo normoteso, anche nel caso dello pseudotumor cerebri la rachicentesi ha spesso un esito sintomatico positivo, pur se spesso solo parziale e temporaneo, utilizzabile anche come ulteriore elemento che indirizza la diagnosi. Più controverso invece è il suo utilizzo come indicatore prognostico di efficacia delle eventuali successive procedure neurochirurgiche. La cefalea ha in genere un decorso progressivamente ingravescente nell’arco di settimane o mesi. Forme gravi, se non trattate, possono provocare atrofia dei nervi ottici e conseguente perdita irreversibile del visus; tale complicanza ha un decorso lentamente progressivo. La terapia consiste nella somministrazione di acetazolamide, che riduce la velocità di produzione del liquor. In casi gravi è necessario ricorrere a procedure neurochirurgiche di shunting. • L’ipotensione liquorale, relativamente rara, può essere innescata da una rachicentesi o da traumatismi del rachide, a volte anche minori, che provochino una soluzione di continuo a livello dell’aracnoide e del sacco durale, con conseguente perdita di liquor. Clinicamente è caratterizzata da una cefalea intensa, la cui peculiarità è data dalla scomparsa o dalla netta riduzione di intensità con l’acquisizione del clinostatismo (cefalea ortostatica). La diagnosi richiede una RM con m.d.c., che permette di dimostrare segni patognomonici, quali l’impregnazione contrastografica di aracnoide e dura madre. La terapia, in caso di sintomatologia persistente, consiste nel blood patch, cioè nell’iniezione epidurale, a livello lombare, di sangue autologo. Infine, in soggetti che presentano cefalea acuta associata a sopore, alterazioni del campo visivo o crisi epilettiche, un’ulteriore diagnosi da
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considerare è l’encefalopatia posteriore reversibile (PRES, posterior reversible encephalopathy syndrome), caratterizzata dallo sviluppo di edema vasogenico nella sostanza bianca sottocorticale, con prevalente coinvolgimento delle regioni posteriori. La diagnosi si basa sul quadro radiologico in RM. La causa più frequente è l’improvviso rialzo della pressione arteriosa. Una condizione di rischio è rappresentata della gravidanza (eclampsia). Meno frequente è l’origine iatrogena, legata a farmaci citotossici o immunosoppressori. Si tratta di una patologia benigna, che si risolve senza esiti nell’arco di alcuni giorni; il rapido controllo della pressione arteriosa o la sospensione dell’eventuale farmaco responsabile sono i capisaldi del trattamento. La flow-chart riportata in FIGURA 26.1 riassume l’iter diagnostico nel paziente con cefalea acuta.
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FIGURA 26.1 Flow-chart diagnostica nella cefalea acuta.
DEFICIT SENSITIVO-MOTORI KEY POINTS Deficit neurologici lateralizzati e a esordio improvviso hanno nella patologia cerebrovascolare, ischemica o emorragica, la causa più frequente.
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La TC encefalo in urgenza è essenziale per distinguere l’ictus emorragico da quello ischemico, quest’ultimo eventualmente candidato a trattamenti urgenti di rivascolarizzazione, farmacologici o meccanici. Un esordio graduale dei deficit, anche se rapido, deve far sospettare una genesi non vascolare, soprattutto in soggetti giovani. I deficit bilaterali a carico degli arti inferiori, con o senza coinvolgimento degli arti superiori, sono tipici di lesioni a carico del midollo spinale o di polineuropatie acute. La presenza di livello sensitivo al tronco, i disturbi sfinterici e il segno di Babinski bilaterale sono suggestivi di lesione midollare e richiedono una conferma diagnostica mediante RM del rachide cervico-dorsale, che permette la distinzione tra mielopatie estrinseche, di pertinenza neurochirurgica, e mielopatie intrinseche. La progressione dei deficit artuali in senso distoprossimale e l’ipo o areflessia sono tipici delle polineuropatie acute e rendono necessaria la rachicentesi in urgenza. Un esordio acuto di deficit multipli e bilaterali a carico della muscolatura cranica è sospetto per miastenia o altre patologie della placca neuromuscolare. La polineuropatia acuta, così come la crisi miastenica, devono essere strettamente monitorate in quanto possono rapidamente coinvolgere la muscolatura respiratoria, rendendo a volte necessaria la ventilazione assistita.
Introduzione La distribuzione dei deficit sentitivo-motori permette di stabilire rapidamente la diagnosi di sede del danno neurologico. La velocità di esordio del disturbo è fondamentale per indirizzare la diagnosi di causa e per identificare i pazienti che possono giovarsi di un trattamento in tempi rapidi.
Deficit sensitivo-motori a un emisoma I deficit lateralizzati a un emisoma (emiparesi e emianestesia) derivano da lesioni a carico dei lobi telencefalici, della capsula interna o del tronco cerebrale. In questi casi, il corteo di segni e sintomi di accompagnamento
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permette di approfondire ulteriormente la localizzazione lesionale: • le crisi comiziali, l’emianopsia omonima e i deficit cognitivi, quali l’afasia e l’aprassia, suggeriscono un danno corticale; • l’emiparesi pura, in assenza di deficit sensitivi, visivi e cognitivi, è spesso secondaria a piccole lesioni della capsula interna; • lesioni estese del tronco encefalico provocano una compromissione della vigilanza; • lesioni più piccole causano spesso sindromi alterne in cui risultano compromessi nervi cranici controlaterali rispetto ai deficit artuali. Raramente, l’emiparesi può derivare anche da una sofferenza del midollo cervicale; in questi casi sintomi di accompagnamento utili alla diagnosi sono il dolore cervicale, i disturbi sfinterici, il deficit propriocettivo ipsilaterale alla paresi e il deficit termodolorifico controlaterale alla stessa. Quando i deficit neurologici si localizzano a un emisoma e raggiungono l’apice nell’arco di secondi o minuti, è possibile porre come primo sospetto diagnostico l’ictus, in quanto l’evento cerebrovascolare è la causa nettamente più frequente di questi quadri. Tra gli ictus, la genesi ischemica prevale su quella emorragica, che tuttavia mantiene un’incidenza rilevante. Il nodo cruciale in urgenza nella gestione di questi pazienti è rappresentato dalla selezione dei soggetti che possono trarre beneficio da una terapia trombolitica, finalizzata a ricanalizzare il vaso occluso. In questi casi l’efficacia del trattamento è strettamente dipendente dalla rapidità dell’intervento (VEDI FOCUS ON: RIVASCOLARIZZAZIONE PRECOCE NELL’ICTUS ACUTO, PAG. 469). La TC encefalo rappresenta l’esame cardine nel sospetto di ictus acuto e deve essere eseguita nel più breve tempo possibile, essendo indispensabile per distinguere i casi di emorragia, ben visibile alla TC e per la quale è ovviamente controindicata la trombolisi, dai casi di ischemia, nei quali la TC in fase acuta è in genere negativa. L’indicazione alla terapia trombolitica si basa esclusivamente sul quadro clinico di ictus, la presenza di manifestazioni invalidanti che non mostrino un evidente miglioramento spontaneo, l’esordio entro le 4,5 ore, l’assenza di emorragia alla TC encefalo e l’assenza di fattori anamnestici di rischio per emorragia. Ai fini del trattamento non sono necessari accertamenti radiologici ulteriori, che ritarderebbero la terapia e quindi peggiorerebbero la prognosi. Nei casi in cui la trombolisi e.v. non dia
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benefici evidenti entro 1-2 ore, in Centri con esperienza di neuroradiologia interventistica può essere indicata la trombectomia meccanica percutanea, previa dimostrazione all’angio-TC di un’occlusione di un’arteria intracranica prossimale. L’angio-TC in urgenza è utile anche in tutti i casi di sospetta ischemia cerebrale in pazienti giovani, al fine di escludere dissecazioni arteriose, relativamente frequenti in questa fascia d’età. In genere, in questi casi il dolore cranio-cervicale precede e accompagna il sintomo focale. La dissecazione arteriosa non rappresenta una controindicazione alla trombolisi ma influenza il follow-up e la prevenzione secondaria. Nei casi in cui il sintomo focale è preceduto da cefalea intensa, progressivamente ingravescente nell’arco di giorni o settimane, devono essere sospettati un infarto o una lesione emorragica cerebrale secondari a trombosi venosa intracranica. La TC basale spesso permette di identificare segni diretti di trombosi venosa; in caso di sospetto clinico con TC negativa, è indicata l’esecuzione di un’angio-TC in urgenza. La trombosi venosa non va trattata con la trombolisi, ma richiede l’inizio immediato di una terapia anticoagulante con eparina e.v. o con eparinoidi a basso peso molecolare (EBPM) sottocute. Nei casi di ictus emorragico in pazienti che non assumono anticoagulanti il trattamento è in genere di supporto. Particolare attenzione deve in questi casi essere posta al controllo della pressione arteriosa, soprattutto sistolica, che dovrebbe essere mantenuta al di sotto di 180 mmHg nella fase acuta e di 140 mmHg in fase post-acuta. In pazienti giovani, con ematomi superficiali e rapido peggioramento clinico, può essere indicata l’evacuazione chirurgica dell’ematoma. Le cause non vascolari di emisindrome neurologica acuta, chiamate nel loro complesso stroke mimics, comprendono lesioni infiammatoriedemielinizzanti, patologie infettive (ascesso, encefalite), neoplasie, stati postcritici, aure emicraniche. Queste malattie causano una percentuale minima dei casi di emisindrome acuta che si riscontrano nel paziente anziano, mentre sono relativamente frequenti in età giovanile. Tutte sono caratterizzate da un esordio dei sintomi focali generalmente meno ictale, con graduale peggioramento nell’arco di un intervallo che può andare da un minimo di 510 minuti fino a ore, giorni o settimane, il che rappresenta un importante indice di sospetto per patologia non vascolare. Le cause infettive si associano spesso a febbre e stato confusionale; sono inoltre favorite da stati di immunodepressione (AIDS, terapie
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immunosoppressive) e la causa dello stato immunodepresso correla con specifiche eziologie più frequenti, come nel caso della toxoplasmosi cerebrale, che è tipica di soggetti con AIDS. I deficit neurologici post-critici devono esordire con crisi epilettiche focali (non sempre riportate, specie se molto brevi) e devono mostrare spontanea regressione nell’arco di ore; in questi casi la diagnosi differenziale si pone con gli attacchi ischemici transitori (TIA) a esordio con manifestazioni epilettiche, che peraltro rappresentano un sintomo molto raro di ischemia. L’aura emicranica per definizione è seguita da cefalea con caratteristiche emicraniche, si risolve entro un’ora ed è generalmente visiva e/o sensitiva. Le emisindromi da tumori (primitivi o metastatici) evolvono in giorni o settimane. La localizzazione dei sintomi neurologici a un emisoma localizza con elevata probabilità la lesione a livello encefalico. Di conseguenza, quando la TC encefalo è negativa e il quadro clinico (esordio non ictale) o anamnestico (giovane età, immunodepressione) siano sospetti per patologia non ischemica, è indicata l’esecuzione di una RM encefalo, molto più affidabile della TC per identificare lesioni infiammatorie, infettive o neoplastiche.
FOCUS ON RIVASCOLARIZZAZIONE PRECOCE NELL’ICTUS ACUTO La terapia dell’ictus ischemico acuto consiste fondamentalmente nella rivascolarizzazione precoce, finalizzata a garantire il recupero dell’area cerebrale ipoperfusa ma non ancora necrotica (penombra ischemica) e la conseguente regressione del sintomo neurologico. Esistono tre tecniche principali studiate al fine di ottenere la ricanalizzazione del vaso cerebrale occluso: la trombolisi endovenosa, la trombolisi intrarteriosa e la trombectomia meccanica. Le due terapie trombolitiche si basano sulla somministrazione di un attivatore tissutale del plasminogeno. • La trombolisi endovenosa rappresenta l’attuale gold standard terapeutico, sostenuto da numerosi studi randomizzati che ne hanno
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dimostrato l’efficacia nel ridurre la disabilità a lungo termine. Il più importante fattore predittivo dell’efficacia del trattamento consiste nel tempo trascorso tra l’esordio dei sintomi di ischemia e la somministrazione del farmaco. L’efficacia della trombolisi endovenosa è infatti dimostrata fino a 4,5 ore dall’esordio clinico; tuttavia, la probabilità e l’entità del beneficio calano in modo progressivo col passare del tempo, anche entro la finestra delle 4,5 ore. Pertanto, l’obiettivo fondamentale nella gestione in urgenza dell’ictus ischemico è l’inquadramento diagnostico tempestivo, finalizzato a effettuare il trattamento trombolitico entro il più breve tempo possibile. La complicanza principale della trombolisi e.v. consiste nell’emorragia, che più frequentemente si verifica proprio a livello encefalico e spesso entro l’area infartuata. I principali fattori anamnestici che aumentano il rischio di infarcimento ematico della lesione consistono nella presenza di difetti della coagulazione e dell’aggregazione piastrinica (patologie epatiche, uso di farmaci anticoagulanti o antiaggreganti, recenti interventi chirurgici, recenti eventi emorragici). Altri fattori che sembrano direttamente correlati al rischio emorragico sono la dimensione dell’area ischemica e la glicemia. L’indicazione alla terapia trombolitica si basa esclusivamente sul giudizio clinico. Pochi esami strumentali sono necessari per escludere controindicazioni assolute: TC cerebrale, emocromo con conta piastrinica e glicemia. I parametri di coagulazione (PT e PTT) richiedono tempi di analisi più consistenti, per cui devono essere eseguiti prima della trombolisi solo nei casi in cui vi siano dati anamnestici suggestivi di possibile alterazione (per esempio, terapia anticoagulante orale, epatopatia). La TC encefalo è indispensabile per escludere ictus emorragici; altre tecniche di imaging (angio-TC, RM) devono essere richieste in urgenza solo nel caso in cui vi sia un fondato dubbio sulla causa vascolare della sintomatologia; il loro impiego di routine non è indicato, principalmente perché determina un ritardo nel trattamento. • La trombolisi intrarteriosa, eseguita per via endovascolare, è stata proposta in passato come metodica utile per ridurre la dose totale di farmaco e contemporaneamente raggiungere maggiori concentrazioni nel sito d’azione. Tuttavia, studi randomizzati non hanno dimostrato una netta superiorità di tale metodica rispetto alla terapia
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endovenosa, né in termini di maggiore efficacia né di minori complicanze emorragiche, motivo per cui essa è stata in gran parte abbandonata. • Studi recentissimi hanno invece dato grande risalto alle potenzialità terapeutiche della trombectomia meccanica. Infatti, è stato dimostrato che procedure endovascolari finalizzate alla rimozione meccanica del trombo garantiscono la rapida ricanalizzazione del vaso occluso e soprattutto un significativo beneficio clinico in termini di disabilità a lungo termine. Attualmente tale evidenza riguarda però esclusivamente casi di ictus del circolo anteriore, con evidenza all’angio-TC di occlusione di arterie intracraniche nel loro tratto prossimale. Queste procedure sono inoltre oggi disponibili solo in centri con ampia esperienza di neuroradiologia interventistica e non rappresentano un’alternativa alla trombolisi e.v., che resta in ogni caso il trattamento di prima linea nell’ictus acuto. La trombectomia è quindi indicata solo nei casi di ictus ischemico che presentino controindicazioni al farmaco trombolitico o che non mostrino benefici nelle prime ore successive alla trombolisi e.v. Non esiste attualmente una chiara finestra temporale oltre la quale il beneficio della trombectomia viene meno; pare che esista la possibilità di recupero della penombra ischemica fino a 12 ore dopo l’esordio dei sintomi. Tecniche di neuroimaging in grado di distinguere nella fase acuta la penombra ischemica dal core necrotico (RM e TC perfusionale) potranno probabilmente essere in futuro di aiuto nella selezione dei pazienti che possono beneficiare dei trattamenti riperfusionali.
Nei casi in cui anche la RM encefalo risulti negativa, dovrebbe essere eseguita una RM del midollo cervicale superiore, al fine di escludere lesioni che coinvolgano solo un lato del midollo a questo livello. La presenza di un coinvolgimento dei nervi cranici (per esempio, deficit del VII n.c.) o di funzioni cognitive (per esempio, afasia), escludono la patologia midollare, a meno che queste manifestazioni rappresentino esiti di ictus o di altre lesioni focali pregresse (da qui l’importanza della raccolta anamnestica per definire lo stato neurologico del paziente precedente alla patologia in atto). Il neuroimaging negativo (compresa la RM con sequenze non
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convenzionali, in particolare quelle in diffusione), in presenza di deficit neurologico focale, deve porre il sospetto di un’origine psicogena della sintomatologia. Particolare attenzione andrà posta a eventuali fluttuazioni della gravità, della tipologia e della localizzazione dei sintomi, oltre all’effetto di manovre distraenti, che dovrebbero attenuare un deficit su base non organica. È bene tenere presente che anche la RM non esclude con certezza assoluta qualunque patologia organica a carico del parenchima cerebrale, in particolare può risultare negativa in una percentuale non trascurabile di encefaliti virali e autoimmuni (sia paraneoplastiche che non). In questi casi è utile procedere a una rachicentesi, che mostrerà un rialzo di leucociti e proteine liquorali in caso di encefalite. Se un’emisindrome a esordio subacuto si associa a crisi epilettiche, febbre, stato confusionale o soporoso, il sospetto di encefalite aumenta e la rachicentesi dovrà essere eseguita in urgenza, spesso prima della stessa RM.
Deficit sensitivo-motori agli arti inferiori I deficit sensitivo-motori acuti che coinvolgano bilateralmente gli arti inferiori hanno due localizzazioni di patologia più frequenti: il midollo spinale e i nervi periferici. In entrambi i casi il deficit stenico (paraparesi) in genere accompagna il deficit sensitivo e rappresenta il sintomo più allarmante, in quanto provoca una disabilità che può essere irreversibile se il trattamento non è rapido. La causa più frequente di paraparesi è la lesione del midollo spinale nel suo tratto toracico o cervicale inferiore. In caso di patologia acuta del midollo, nonostante il danno sia a carico degli assoni del primo motoneurone, si riscontrano inizialmente ipotono e iporeflessia, mentre l’ipertono spastico e l’iperreflessia caratterizzano lesioni midollari a lenta evoluzione o esiti di lesioni acute pregresse. L’iporeflessia non è quindi un buon parametro per discriminare lesioni midollari da patologie del nervo in caso di paraparesi acuta. Più utile sono la stimolazione cutanea plantare (SCP) e la distribuzione dell’eventuale deficit sensitivo associato. Una SCP in estensione (segno di Babinski), specie se bilaterale, è indicativa di sofferenza midollare. Inoltre, in caso di lesione midollare, l’ipoestesia si presenta tipicamente a carico degli arti inferiori e del tronco, al di sotto di un livello
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che permette di localizzare il neuromero midollare danneggiato. I disturbi sfinterici, che possono manifestarsi sia con incontinenza che con ritenzione di urina e feci, il dolore al rachide e una storia recente di trauma dorsale rappresentano ulteriori elementi a supporto di una localizzazione midollare della patologia. Le cause di mielopatia si distinguono in intrinseche al midollo spinale ed estrinseche, in genere a carico del rachide, con secondaria compressione del midollo. Le prime richiedono in genere un trattamento farmacologico, mentre le seconde possono richiedere un trattamento chirurgico, talvolta in urgenza. Le patologie compressive includono ernie discali, fratture vertebrali con secondaria dislocazione, tumori ossei o meningei, osteomieliti, ascessi o ematomi peridurali. Tra le lesioni midollari intrinseche, l’eziologia più frequente è quella infiammatoria-autoimmune (sclerosi multipla, neuromielite ottica, mielite trasversa), a esordio in genere in età giovanile o adulta. Più rare sono le mieliti infettive e gli infarti midollari. Poiché la TC non permette di visualizzare il midollo spinale (se non in modo molto grossolano), l’esame di prima linea in caso di paraparesi acuta è la RM del rachide cervicodorsale (nell’adulto il midollo spinale termina a livello di L1), eventualmente preceduta da una radiografia del rachide nel sospetto di fratture vertebrali. In caso di lesione midollare intrinseca senza distribuzione riconducibile a un territorio vascolare, la rachicentesi è dirimente per completare l’iter diagnostico in urgenza: un aumento dei leucociti liquorali rende necessario l’inizio immediato di una terapia antivirale e/o antibiotica, in attesa del risultato degli esami colturali e virologici; in caso di normale conta leucocitaria, può essere ipotizzata un’eziologia disimmune e il trattamento di scelta, nella fase acuta, consiste nei boli e.v. di steroide ad alte dosi. Le patologie del sistema nervoso periferico che causano paraparesi comprendono la sindrome della cauda equina (compressione di multiple radici spinali a livello lombosacrale) e le polineuropatie acute. In entrambe queste condizioni l’SCP sarà in flessione. La sindrome della cauda equina si manifesta con paraparesi associata a deficit sensitivi agli arti inferiori e disturbi sfinterici. È quindi molto difficile la distinzione dalla patologia midollare, che è molto più frequente. L’unico elemento clinico dirimente è il livello sensitivo al tronco, che è altamente suggestivo di lesione midollare. Se il livello non è apprezzabile, allora lo studio RM di un paziente con paraparesi acuta deve essere esteso al tratto lombosacrale per escludere compressioni della cauda equina, le cui cause
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comprendono ernie discali, fratture vertebrali, tumori intraspinali. Le polineuropatie condizionanti deficit stenico acuto o subacuto rientrano generalmente nella categoria delle neuropatie infiammatorie-demielinizzanti, a genesi autoimmune, note come sindrome di Guillain-Barrè. Elementi clinici a sostegno di questa diagnosi sono una recente storia di infezione gastroenterica o delle vie respiratorie, la progressione distoprossimale dell’ipostenia agli arti inferiori, il coinvolgimento degli arti superiori, la presenza di parestesie e/o di ipoestesia artuali, anch’esse a progressione distoprossimale. L’iporeflessia distale è un segno importante in quanto sempre presente nella sindrome di Guillain Barrè, ma non permette di escludere la patologia midollare o la compressione della cauda equina. La rachicentesi permette di documentare un rialzo delle proteine liquorali con normale conta leucocitaria (dissociazione albuminocitologica). L’elettromiografia con studio della conduzioni nervose mostra una rallentamento della velocità di conduzione. Entrambi questi esami tuttavia possono divenire positivi solo dopo alcuni giorni dall’esordio della patologia e possono quindi avere un’utilità relativa in urgenza, in cui la diagnosi può quindi essere posta anche solo su base clinica. Poiché la neuropatia può progredire rapidamente fino a causare una compromissione dell’attività respiratoria, i pazienti con questa possibile diagnosi devono essere ricoverati e monitorati. Nel caso in cui il deficit stenico sia rilevante o mostri un’evidente progressione, è necessario ricorrere a terapie immunosoppressive che agiscano rapidamente: le immunoglobuline e.v. e la plasmaferesi hanno mostrato un’efficacia sovrapponibile. Cause più rare di paraparesi sono le lesioni cerebrali che colpiscono selettivamente la parte parasagittale della corteccia motoria. In questi casi l’eziologia più frequente è il meningioma della falce cerebrale, che tuttavia provoca un quadro di ipostenia a lenta evoluzione e, di conseguenza, non riguarda l’ambito dell’urgenza. La paraparesi acuta da lesione encefalica è una condizione estremamente rara, le cui cause più frequenti sono l’ischemia bilaterale a carico dell’arteria cerebrale anteriore e l’idrocefalo acuto.
Deficit sensitivo-motori ai quattro arti I deficit sensitivo-motori acuti che coinvolgono i quattro arti sono più frequentemente legati a patologie del tronco encefalico, del midollo cervicale superiore o dei nervi periferici o dei muscoli. La combinazione delle diverse
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manifestazioni neurologiche permette di localizzare la malattia. La tetraparesi acuta associata a deficit nei nervi cranici e/o compromissione dello stato di coscienza è tipica di lesioni del tronco encefalico o di patologie espansive intracraniche che comprimono questa struttura, direttamente o provocando ipertensione endocranica e conseguenti erniazioni. In questi casi l’esame di prima linea è la TC encefalo, che permette di identificare lesioni emorragiche in fossa cranica posteriore, idrocefalo acuto o altre patologie intracraniche, potenziali cause di erniazioni, o altri segni di effetto massa. Se la TC è negativa e l’esordio dei sintomi è ictale, è necessaria l’esecuzione di angio-TC del circolo intracranico per identificare occlusioni trombotiche dell’arteria basilare o di altri vasi del circolo posteriore. In questi casi, se i sintomi sono esorditi entro le 4,5 ore e non vi sono controindicazioni, è indicata la trombolisi e.v.; in caso di controindicazione o insuccesso di quest’ultima, è possibile ricorrere alla trombectomia meccanica. Se l’angio-TC non evidenzia anomalie vascolari, la RM encefalo permetterà di identificare eventuali patologie di altra natura, quali lesioni demielinizzanti, infettive e neoplastiche. Una tetraparesi acuta non associata a deficit dei nervi cranici o a coma è probabilmente secondaria a lesione del midollo cervicale o a sindrome di Guillain-Barrè. I disturbi sfinterici e i deficit sensitivi ai quattro arti e al tronco sono più tipici di lesioni midollari. L’esordio dell’ipostenia e dei sintomi sensitivi distalmente agli arti inferiori e la progressione distoprossimale, nell’arco di giorni, con secondario coinvolgimento degli arti superiori, rendono più verosimile la polineuropatia. Nei casi in cui la mielopatia cervicale sia più probabile, deve essere eseguita una RM del rachide cervicale, mentre la rachicentesi e l’elettromiografia sono le indagini necessarie per confermare un sospetto di sindrome di Guillain-Barrè (vedi sopra). Quadri di ipostenia ai quattro arti a evoluzione subacuta possono essere causati anche da miopatie, in genere su base infiammatoria-disimmune (polimiosite e dermatomiosite). In questi casi l’ipostenia è prevalentemente prossimale e non si associano disturbi di coscienza, deficit dei nervi cranici, disturbi sensitivi o sfinterici. Incostanti sono le mialgie. Il sospetto diagnostico può essere supportato da elevati livelli plasmatici di CPK e dalla biopsia muscolare. La terapia di prima linea si basa su steroidi ad alte dosi.
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Deficit sensitivo-motori a un singolo arto Deficit stenici acuti a carico di un singolo arto (monoparesi) possono avere origine da piccole lesioni cerebrali o da sofferenza di singoli nervi, plessi o radici. Una monoparesi isolata, in assenza di dolore, parestesie o deficit sensitivi, è sospetta per una lesione encefalica corticale o sottocorticale; l’approccio al paziente è in tal caso analogo a quello del paziente con emiparesi. Se il deficit motorio è associato a dolore all’arto, la causa è in genere periferica e la sua localizzazione può essere dedotta dalla distribuzione dei disturbi. L’elettromiografia permette di confermare la sofferenza di un tronco nervoso, di un plesso o di una radice, mentre la RM consente di individuare le cause di plessoo radiculopatie. Non si tratta comunque di patologie che richiedono accertamenti o trattamenti urgenti. In caso di deficit acuto sensitivo puro o sensitivomotorio non associato a dolore, la diagnosi differenziale tra origine centrale e periferica deriva essenzialmente da modalità di insorgenza, distribuzione e fattori di rischio. Infatti, la distribuzione tronculare o radicolare, l’esordio subacuto, la presenza di disestesie, la fluttuazione dei sintomi sono tutte caratteristiche a sostegno di un’origine periferica dei sintomi. L’esordio improvviso di un deficit neurologico persistente e significativo, in assenza di disestesie e senza chiara distribuzione radicolare o tronculare in un paziente con fattori di rischio vascolare deve far sospettare un evento cerebrale. La flow-chart riportata in FIGURA 26.2 riassume il percorso diagnostico nel paziente con deficit sensitivo-motorio acuto.
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FIGURA 26.2 Flow-chart diagnostica nel deficit sensitivo-motorio acuto.
VERTIGINE ACUTA KEY POINTS La vertigine vera e propria deriva sempre da una disfunzione acuta di strutture collegate agli organi vestibolari. La presenza di deficit dei nervi cranici e/o di retropulsione costituisce il criterio principale per identificare la vertigine generata da lesione cerebrale.
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L’ictus del circolo posteriore è la causa più frequente di vertigine centrale. In presenza di TC encefalo negativa per emorragia, l’angio-TC ed eventualmente la RM encefalo sono indispensabili per porre diagnosi di ischemia nel caso il quadro clinico non permetta di stabilire con ragionevole certezza l’origine centrale o periferica della vertigine.
Introduzione La vertigine è una sensazione di movimento di sé e del proprio capo (vertigine soggettiva o capogiro) o dell’ambiente esterno (vertigine oggettiva). Quando compare acutamente si associa in genere a difficoltà o impossibilità a mantenere la stazione eretta. Nella valutazione neurologica dei pazienti con vertigine acuta, l’indagine clinica e gli accertamenti richiesti devono mirare a escludere lesioni cerebrali, in genere localizzate a livello delle strutture della fossa cranica posteriore (cervelletto e tronco cerebrale). In caso di lesione del SNC, il sintomo vertiginoso, soprattutto se isolato o prevalente, è in genere la manifestazione di un danno limitato, la cui progressione può tuttavia rapidamente compromettere funzioni basilari, quali la respirazione e la coscienza. Per questo motivo sono fondamentali il rapido inquadramento diagnostico e il riconoscimento di altri segni suggestivi di origine cerebrale. È bene innanzitutto considerare la relativa rarità della vertigine centrale rispetto a cause nettamente più frequenti e benigne, prime fra tutte le malattie a carico delle strutture vestibolari localizzate nell’orecchio interno e dei nervi che da queste hanno origine (vertigine periferica). Gli episodi lipotimici e presincopali, legati a improvvisi stati ipotensivi di origine vasomotoria o cardiogena, possono anch’essi manifestarsi con sintomi riferiti come “capogiro”. Data l’ambiguità della descrizione che i pazienti spesso forniscono dei propri sintomi, la diagnosi basata unicamente sul tipo di vertigine è considerata inaffidabile. La raccolta dell’anamnesi dovrebbe focalizzarsi con attenzione su altre caratteristiche cliniche, considerando per esempio se il capogiro si presenta in modo parossistico o si è verificato una sola volta, la durata di ogni episodio, i fattori scatenanti e i sintomi di accompagnamento (TAB. 26.2).
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Tabella 26.2 Caratteristiche cliniche differenziali fra vertigine centrale e vertigine periferica
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Vertigine periferica Cause frequenti di vertigine di breve durata (secondi) includono la vertigine posizionale parossistica benigna (VPPB) e l’ipotensione ortostatica. In entrambi i casi il sintomo è scatenato da cambi posturali: movimenti del capo nella prima, passaggio a ortostatismo nella seconda. Le riacutizzazioni di malattia di Ménière durano ore. Labirintiti e neuriti vestibolari provocano vertigini che persistono anche a capo fermo, sono a esordio acuto e la regressione è graduale nell’arco di giorni o settimane; lo stesso decorso temporale caratterizza gli ictus del circolo posteriore. Questi ultimi sono spesso preceduti da attacchi ischemici transitori, caratterizzati da vertigine e instabilità della durata di minuti. Classicamente la vertigine oggettiva è considerata evocativa di patologia vestibolare. Tuttavia la caratteristica del sintomo vertiginoso è poco specifica nella determinazione della causa del sintomo. Ben più utile è la ricerca di sintomi e segni che accompagnano la vertigine. In particolare, l’ipoacusia e l’acufene monolaterali, il dolore o il senso di ingombro auricolari, sono tutti sintomi che indirizzano gli accertamenti verso la ricerca di una causa periferica. In ogni paziente con vertigine deve anche essere ricercato il nistagmo. Il nistagmo verticale è considerato segno specifico di lesione cerebellare, mentre il nistagmo orizzontale, spesso con componente rotatoria, può essere presente sia nelle lesioni cerebellari o del tronco, sia nelle patologie
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vestibolari acute. In caso di patologia vestibolare acuta il nistagmo e la vertigine si inseriscono nella cosiddetta sindrome armonica, completata dall’instabilità posturale con lateropulsione in direzione opposta a quella della fase rapida del nistagmo; la presenza di questa triade sintomatologica, in assenza di altri segni neurologici, depone fortemente per un’origine periferica. Nella patologia labirintica monolaterale il nistagmo è sempre unidirezionale, cioè la direzione della fase rapida è costante in tutte le posizioni di sguardo; in caso di patologia centrale il nistagmo può essere bidirezionale. Nausea e vomito sono sintomi che accompagnano costantemente e precocemente la vertigine oggettiva da patologia vestibolare, mentre in caso di lesione centrale compaiono in genere più tardivamente, per aumento della pressione intracranica da ostacolo al deflusso di liquor, spesso in associazione a cefalea e riduzione della vigilanza. L’instabilità posturale accompagna costantemente una vertigine. In caso di origine periferica si tratta in genere di una lateropulsione verso il labirinto meno funzionante e tipicamente si rileva un franco peggioramento con la chiusura degli occhi (segno di Romberg). In caso di lesione cerebellare è più frequente riscontrare una retropulsione o una lateropulsione con lato incostante, che compaiono anche ad occhi aperti. Esistono alcune prove che permettono di confermare una disfunzione vestibolare. Molto utile, in quanto eseguibile al letto del paziente, è la prova del riflesso vestibolo-oculare, valutato tramite movimenti rotatori attivi del capo mentre il paziente fissa l’esaminatore. Se il riflesso è deficitario, la fissazione viene persa durante la rotazione del capo e si osserva una saccade di recupero a fine rotazione. In particolare, in caso di labirintite o neurite vestibolare, il riflesso è deficitario durante la rotazione del capo verso il labirinto patologico; se il test è negativo, è improbabile una disfunzione vestibolare acuta. Tutti i pazienti con capogiro acuto indotto dai movimenti del capo possono essere sottoposti anche alla manovra di Dix-Hallpike, in cui l’esaminatore porta il paziente dalla posizione seduta alla posizione supina con capo iperesteso e valuta la presenza di nistagmo. La sensibilità del test può essere incrementata attraverso l’uso degli occhiali di Frenzel, che offuscano la vista del paziente ma permettono all’esaminatore di vedere i movimenti oculari. Se la manovra evoca un nistagmo, è possibile diagnosticare con ragionevole certezza una vertigine posizionale benigna.
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L’audiometria dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui è sospettata una patologia vestibolare. Un deficit uditivo unilaterale neurosensoriale rappresenta infatti un ulteriore indizio a sostegno della sede periferica del disturbo. In particolare, una perdita uditiva con prevalente interessamento delle basse frequenze è caratteristica della sindrome di Ménière, una patologia benigna caratterizzata da ricorrenti episodi di vertigine e ipoacusia.
Vertigine centrale La deflessione dello stato di coscienza, la cefalea intensa, i deficit dei nervi cranici (diplopia, disartria, disfagia, paresi o ipoestesia al volto) e i deficit focali a carico di un emisoma (dismetria, ipoestesia, paresi) sono segni d’allarme per una vertigine da lesione della fossa cranica posteriore e richiedono pertanto accertamenti urgenti, in considerazione del rischio di potenziale evoluzione nel breve periodo. In questi casi è indispensabile l’esecuzione di una TC encefalo che permette di rilevare patologie quali l’emorragia cerebellare, per la quale può rendersi necessario un trattamento chirurgico. Una TC in urgenza non consente tuttavia di porre diagnosi di ischemia del circolo posteriore. In caso di dubbio diagnostico, può essere utile l’esecuzione in urgenza di altri accertamenti, quali l’angio-TC del circolo intracanico e cervicale, che permette di visualizzare stenosi critiche od occlusioni dei principali vasi arteriosi del circolo posteriore, oppure la RM encefalo, in grado di documentare l’eventuale lesione ischemica parenchimale già in fase acuta. Se il sospetto clinico è forte, in assenza di controindicazioni è indicata la terapia trombolitica e.v. entro le 4,5 ore dall’esordio dei sintomi. Chiaramente, fattori anamnestici predisponenti all’ictus, quali diabete, ipertensione o traumi cervicali recenti con rischio di dissecazione, devono essere ricercati e attentamente considerati in presenza di vertigine isolata senza franchi reperti obiettivi o strumentali evocativi di patologia periferica. La dissecazione dell’arteria vertebrale è una causa relativamente frequente di ictus ischemico del circolo posteriore in soggetti giovani. Precedenti traumi distorsivi cervicali, anche conseguenti a manipolazioni, e il dolore cervico-nucale seguito da vertigine rappresentano criteri di sospetto per dissecazione vertebrale. L’angio-TC è la metodica di prima scelta per confermare la diagnosi in urgenza. In caso di dissecazione, la vertigine deve essere considerata un sintomo di complicanza ischemica parenchimale.
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Nel paziente giovane, con esordio subacuto di vertigine e instabilità, una causa da considerare è la sclerosi multipla. In questi casi la RM encefalo con m.d.c. permette di riconoscere placche demielinizzanti in fase attiva a livello della fossa cranica posteriore. La terapia della fase acuta si basa su boli e.v. di steroide ad alte dosi per 3-5 giorni. Poiché la vertigine è un sintomo tipico di patologie a insorgenza acuta, che si sviluppano prima che possa instaurarsi un compenso da parte delle vie di trasmissione dell’afferenza vestibolare, è raro che una vertigine acuta insorga per malattie a lenta evoluzione, quali le neoplasie cerebrali. Lo stesso neurinoma dell’VIII nervo cranico, spesso considerato nella diagnosi differenziale della vertigine, si manifesta più frequentemente con ipoacusia monolaterale e successivo deficit del nervo faciale, mentre solo di rado provoca sensazione vertiginosa. La flow-chart riportata in FIGURA 26.3 riassume il percorso diagnostico nel paziente con vertigine acuta.
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FIGURA 26.3 Flow-chart diagnostica nella vertigine acuta.
IPOVISUS E DIPLOPIA KEY POINTS L’ipovisus acuto monoculare, in assenza di anomalie di rilievo alla
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valutazione oculistica e alla fluorangiografia retinica, indica una patologia del nervo ottico, che può essere di natura infiammatoria o ischemica Il dolore orbitario associato all’ipovisus acuto monoculare è suggestivo di neurite ottica. In caso di sospetta neurite ottica, la rachicentesi permette di escludere i rari casi di neurite infettiva. La terapia con boli steroidei e.v. è il cardine del trattamento in acuto della neurite ottica disimmune, che rappresenta la genesi più frequente di neurite ottica. L’assenza di dolore orbitario, l’età avanzata e lo scotoma altitudinale all’esame del campo visivo suggeriscono una neuropatia ottica ischemica. Gli indici ematochimici di flogosi (VES, PCR), se innalzati, suggeriscono una genesi arteritica della neuropatia ottica ischemica e rendono necessario l’inizio immediato di una terapia steroidea finalizzata a prevenire il coinvolgimento oculare controlaterale. La diplopia deve essere sempre gestita come un’urgenza neurologica, fatta eccezione per i casi di paralisi del VI nervo cranico in pazienti anziani, diabetici e/o ipertesi, che hanno in genere origine periferica e regrediscono spontaneamente. Dato che le cause più frequenti di diplopia a origine centrale sono piccole lesioni ischemiche del tronco encefalico, la RM encefalo è la metodica di elezione per l’approfondimento diagnostico di una diplopia. La diplopia senza un chiaro nervo dell’oculomozione deficitario, specie se ad andamento fluttuante e se associata a ptosi, può essere la manifestazione di esordio della miastenia.
Introduzione Esistono due principali disturbi visivi riferibili a urgenze neurologiche: il calo improvviso dell’acuità visiva (ipovisus) e la diplopia, descritti in dettaglio nei paragrafi che seguono.
Ipovisus acuto Nell’ambito delle urgenze neurologiche, la perdita improvvisa dell’acuità visiva in genere coinvolge inizialmente un singolo occhio, ma può in un
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secondo momento estendersi all’occhio controlaterale, con frequenza e rapidità variabili a seconda della patologia responsabile. Le malattie di interesse neurologico responsabili di questo disturbo colpiscono essenzialmente la retina, il nervo ottico e i vasi arteriosi che irrorano queste due strutture. Il paziente che si presenti in Pronto Soccorso con ipovisus acuto monoculare deve innanzitutto essere sottoposto a una valutazione oculistica completa, che valuti l’effettiva entità del calo visivo ed escluda malattie della retina o dei mezzi diottrici dell’occhio. Nel caso in cui si confermi una perdita improvvisa e significativa del visus e non risultino patologie oculari significative, il neurologo deve impostare un iter diagnostico e terapeutico finalizzato a favorire il recupero dell’acuità visiva ed evitare il coinvolgimento dell’occhio controlaterale. Anche in caso di patologia neurologica, l’oculista può essere di grande aiuto nella diagnosi eziologica: l’esame del fundus e lo studio del campo visivo permettono di identificare segni caratteristici di specifiche patologie del nervo ottico. Esistono tre principali gruppi di patologie responsabili di ipovisus acuto: • l’ischemia retinica. • l’ischemia del nervo ottico (neuropatia ottica ischemica); • l’infiammazione del nervo ottico (neurite ottica); L’ischemia retinica ha in genere una genesi embolica e le fonti emboligene coincidono con quelle responsabili di ictus ischemici (per esempio, aterosclerosi carotidea, cardiopatie). Per questo il sintomo oculare acquista particolare importanza quale potenziale segno premonitore di eventi ischemici cerebrali. Il calo del visus è in questi casi sempre improvviso e può coinvolgere tutto il campo visivo dell’occhio colpito in caso di ostruzione dell’arteria centrale della retina, oppure solo una parte del campo visivo (scotoma) in caso di ostruzione di un ramo della stessa. La perdita della vista può poi essere transitoria (amaurosi fugace) o permanente in base alla durata dell’ischemia. In genere non è presente dolore. Il sintomo oculare è quasi sempre isolato, ma talvolta si può anche associare a deficit neurologici all’emisoma controlaterale nel caso in cui l’evento embolico coinvolga sia la retina che l’emisfero cerebrale omolaterale. La diagnosi si basa sull’esame del fundus (retina pallida con papilla rosso ciliegia) e può essere confermato mediante fluorangiografia retinica. L’ischemia retinica deve essere considerata una manifestazione a rischio cerebrovascolare molto elevato, che
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richiede l’impostazione di una prevenzione secondaria: il paziente deve iniziare immediatamente una terapia antiaggregante. La ricerca delle fonti emboligene si basa essenzialmente su ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, ecocardiografia e ECG-Holter; la diagnosi di cardiopatie emboligene può richiedere l’instaurazione di una terapia anticoagulante. In caso di aterosclerosi carotidea è indicato il trattamento chirurgico (o endovascolare) se la stenosi è superiore al 70% (50% per pazienti con basso rischio chirurgico). La neuropatia ottica ischemica anteriore (NOIA) è causata dall’occlusione di una o più arterie ciliari posteriori, che irrorano la testa del nervo ottico. L’occlusione di una singola arteria ciliare produce in genere la perdita improvvisa di una parte del campo visivo dell’occhio colpito. Caratteristica è la distribuzione altitudinale dello scotoma (coinvolta la metà superiore o inferiore del campo visivo), che può essere dimostrata dallo studio del campo visivo. Anche in questo caso, in genere, non vi è dolore oculare. L’esame del fundus mostra caratteristiche alterazioni della papilla, che si presenta edematosa, circondata da emorragie. Tale patologia è più spesso espressione di un fenomeno arteriosclerotico a carico dei piccoli vasi, spesso associato al diabete e all’ipertensione. Tuttavia, in pazienti che presentano questa diagnosi, deve essere esclusa l’arterite temporale, che coinvolge frequentemente anche le arterie ciliari. L’importanza di porre rapidamente una diagnosi di arterite si basa sulla potenziale rapida evoluzione della malattia che, in breve tempo, può compromettere tutto l’apporto ematico a entrambi i nervi ottici, provocando una perdita completa, bilaterale e irreversibile della vista. Questa evoluzione può essere evitata impostando subito una terapia steroidea. Sintomo importante per sospettare un’otticopatia ischemica da arterite è la cefalea ingravescente nel periodo precedente al disturbo visivo. Il rialzo degli indici di flogosi è un utile parametro strumentale a sostegno della diagnosi di arterite. La neurite ottica è una causa frequente di ipovisus monoculare acuto. A differenza delle retinopatie e otticopatie ischemiche, in questo caso il calo del visus riguarda principalmente la parte centrale del campo visivo (scotoma centrale o parafoveale) e si associa a dolore orbitario. Il calo del visus è significativo, ma in genere non è completo e non insorge ictalmente, bensì progredisce nell’arco di ore o giorni. In circa due terzi dei casi l’esame del fundus non mostra alcuna alterazione; si parla in questi casi di neurite ottica
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retrobulbare. Nel restante terzo dei casi è possibile riconoscere un edema di papilla e in tal caso si parla di papillite. Nella maggior parte dei casi si verifica un recupero spontaneo dell’acuità visiva nel corso delle settimane successive; tale recupero può però essere incompleto, soprattutto nel caso di neuriti recidivanti, per il progressivo instaurarsi di atrofia del nervo ottico. La neurite ottica retrobulbare ha in genere una genesi autoimmune e spesso rappresenta un sintomo precoce di malattie infiammatorie-demielinizzanti del SNC, le più comuni delle quali sono la sclerosi multipla e la neuromielite ottica. Esistono tuttavia anche forme di neurite ottica idiopatiche, isolate o ricorrenti, che non si associano ad alcuna altra localizzazione di malattia nel SNC. La terapia dell’episodio di neurite ottica consiste nei boli e.v. di steroide ad alte dosi per 3-5 giorni; tale trattamento garantisce un più rapido recupero della funzione visiva. La ricerca di placche demielinizzanti mediante risonanza magnetica dell’encefalo e del midollo, oltre che di bande oligoclonali su liquor mediante rachicentesi ed eventualmente di anticorpi anti-AQP4 su siero, permettono di verificare il sospetto di neurite ottica autoimmune e definire il rischio di sviluppo di sclerosi multipla o di neuromielite ottica. Infine, vanno tenute in considerazione le rare neuriti ottiche di origine infettiva (soprattutto virale), nelle quali l’analisi del liquido cerebrospinale fornisce un’indicazione di sospetto, attraverso la conta e formula degli elementi leucocitari liquorali, e può fornire una diagnosi eziologica, tramite esami colturali e di biologia molecolare. In questi casi è necessario impostare una terapia antimicrobica dapprima empirica, in base alla conta cellulare su liquor, e successivamente mirata all’eventuale agente eziologico isolato. Nella FIGURA 26.4 è riportata la flow-chart del percorso diagnostico nel paziente portatore di ipovisus acuto.
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FIGURA 26.4 Flow-chart diagnostica nell’ipovisus acuto.
Diplopia La diplopia di interesse neurologico è solo quella in visione binoculare. Pertanto la prima domanda da porre al paziente che si presenti in Pronto Soccorso con diplopia è se la visione doppia persiste chiudendo l’uno o l’altro occhio. Se persiste anche in visione monoculare, l’origine del disturbo deve essere ricercata a livello retinico o dei mezzi diottrici oculari, per cui il paziente deve essere indirizzato a una valutazione oculistica. Se invece la diplopia è presente solo nella visione binoculare, allora è da riferire a un
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difetto di motilità oculare, in primis legato a patologie dell’encefalo, dei nervi oculomotori, della giunzione neuromuscolare o del muscolo. Se la diplopia insorge acutamente, la miopatia può essere esclusa con ragionevole confidenza. A questo punto è importante definire, tramite valutazione clinica o test di Lancaster, quale o quali direzioni di sguardo si associano a un’accentuazione della diplopia: questo permette infatti di identificare i muscoli oculomotori ipostenici. Se sono coinvolti solo i muscoli innervati da un determinato nervo e se tale coinvolgimento è stabile nel tempo, è possibile porre diagnosi di paralisi di quel nervo, completa o parziale. In tal caso, diventa cruciale distinguere tra una paralisi periferica, legata a una sofferenza del nervo, e una paralisi centrale, secondaria a lesione del nucleo encefalico d’origine di quel nervo. Ogni paziente che presenti l’esordio acuto di diplopia binoculare deve pertanto essere sottoposto a TC encefalo al fine di escludere lesioni emorragiche a carico del tronco encefalico. La paralisi di un nervo dell’oculomozione (in particolare il III) può infatti essere un segno iniziale di erniazione cerebrale in presenza di ipertensione endocranica; in questi casi il quadro clinico sarà dominato dalla compromissione dello stato di coscienza e la TC potrà documentare erniazioni, idrocefalo, lesioni espansive e altre cause di ipertensione endocranica. In presenza di una TC encefalo negativa, la necessità di ulteriori accertamenti in urgenza dipende da quale nervo è coinvolto, dai fattori di rischio del paziente e soprattutto dalla presenza di altri segni neurologici. Se una paralisi ictale di qualsiasi nervo dell’oculomozione si associa ad altri segni di lesione del tronco encefalico (disartria, deficit sintomi sensitivomotori all’emisoma controlaterale, deficit periferico del VII n.c. omolaterale, deficit centrale del VII e XII n.c. controlaterali), il paziente è candidabile a terapia trombolitica e.v. nel sospetto di evento ischemico a carico del circolo cerebrale posteriore. L’angio-TC permette di confermare l’eventuale occlusione di un’arteria del circolo posteriore e di identificare stenosi aterosclerotiche o dissecazioni a monte dell’occlusione. In caso di sintomi a esordio subacuto o in pazienti giovani, è utile ricorrere a un completamento diagnostico mediante RM encefalo, per confermare l’eventuale presenza di lesioni ischemiche del circolo posteriore ed escludere lesioni non vascolari (placche demielinizzanti, neoplasie). Se la paralisi di un nervo cranico si associa a febbre, cefalea, stato soporoso o confusionale, rigor nucale o progressiva paralisi di altri nervi
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cranici, in presenza di TC negativa, il paziente deve essere sottoposto a rachicentesi, al fine di escludere meningiti e patologie infettive o localizzazioni neoplastiche meningee. Paralisi isolate dei nervi dell’oculomozione presentano maggiori difficoltà di gestione. Benché esista la possibilità di paralisi isolate nucleari, secondarie a microlesioni encefaliche, molto più frequente, in questi casi, la paralisi è periferica. Tra le forme periferiche, la più comune è la paralisi idiopatica (in particolare del VI n.c.), probabilmente secondaria a danni microvascolari del nervo e in genere associata a diabete e/o ipertensione, a volte misconosciute. Tali paralisi sono in genere reversibili spontaneamente nell’arco di alcuni mesi e non richiedono terapie specifiche, se non il temporaneo uso di prismi per correggere la diplopia. Qualunque paralisi isolata di un nervo oculomotore, in soggetti giovani e in assenza di diabete o ipertensione, richiede comunque un completamento diagnostico mediante RM encefalo con angio-RM, al fine di escludere piccole lesioni encefaliche o patologie compressive intracraniche a carico del nervo (per esempio, aneurismi e neoplasie della base cranica). In soggetti di età avanzata con diabete o ipertensione, la paralisi isolata con TC encefalo basale negativa non richiede ulteriori accertamenti in ambito di urgenza; è comunque prudente l’esecuzione di una RM encefalo ambulatoriale e l’introduzione di una terapia antiaggregante. Fa eccezione la paralisi isolata del III n.c., soprattutto se con coinvolgimento della sua componente intrinseca (anisocoria con midriasi nell’occhio paretico); in questi casi la causa è spesso una lesione espansiva che comprime il nervo. Particolarmente frequenti sono gli aneurismi del circolo di Willis e le patologie del seno cavernoso, per cui i pazienti con questa sintomatologia devono essere sottoposti a RM encefalo con angio-RM. I pazienti che presentano un esordio acuto o sub-acuto di diplopia, ma che mostrano una sintomatologia fluttuante, senza chiara compromissione di un singolo nervo dell’oculomozione, devono essere sottoposti anche a indagini finalizzate a escludere la miastenia gravis o altre sindromi miasteniformi, soprattutto quando si associa ptosi. I test principali includono la ricerca di anticorpi anti-recettore dell’acetilcolina e l’elettromiografia con stimolazione ripetitiva. I sintomi miastenici possono peggiorare in modo repentino; per questo motivo, pazienti con tali sintomi insorti o aggravatisi acutamente richiedono un monitoraggio in ambito di ricovero, dato il rischio di compromissione
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respiratoria. La terapia iniziale si basa sui farmaci anticolinesterasici; in caso di compromissione respiratoria è necessario ricorrere alla plasmaferesi o all’infusione di immunoglobuline e.v. Una causa ormai rara di diplopia è il botulismo, in genere secondario ad avvelenamento alimentare. In questi casi i sintomi oculari si presentano all’esordio con caratteristiche miasteniche e sono rapidamente seguiti da una paresi diffusa progressiva che può compromettere anche le funzioni respiratorie. La diagnosi si basa sulla clinica e sulla storia di esposizione ad alimenti a rischio. Il trattamento consiste nel supporto respiratorio e nella somministrazione di antitossina botulinica. Nella FIGURA 26.5 è riportata la flow-chart del percorso diagnostico nel paziente portatore di diplopia acuta.
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FIGURA 26.5 Flow-chart diagnostica nella diplopia acuta.
ALTERAZIONI IN ATTO DELLO STATO DI COSCIENZA KEY POINTS Il coma a esordio acuto, in presenza di circolo, ha sempre una genesi encefalica. La TC encefalo permette di identificare le cause di coma acuto che richiedono un trattamento neurochirurgico. Un coma a esordio improvviso con TC negativa è sospetto per
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ischemia massiva del tronco encefalico e richiede l’esecuzione in urgenza di un’angio-TC per identificare un’eventuale trombosi dell’arteria basilare. Stati di compromissione della coscienza con progressione nell’arco di giorni o settimane, in presenza di TC encefalo negativa per lesioni espansive o idrocefalo, richiedono esami ematici per escludere cause dismetaboliche, le più frequenti delle quali sono gli squilibri elettrolitici (in particolare sodio e calcio), l’ipoglicemia e l’iperammoniemia. L’esordio del coma con crisi comiziali, oppure il coma improvviso senza alterazioni evidenti al neuroimaging parenchimale e vascolare, richiedono un EEG in urgenza nel sospetto di stato di male epilettico. Lo stato di male epilettico, così come gli squilibri ematochimici, rappresentano cause di coma che, se trattati con sufficiente rapidità, permettono la regressione del disturbo di coscienza senza danni cerebrali permanenti.
Introduzione Il disturbo di coscienza è un sintomo neurologico che deriva in genere o da una sofferenza sovratentoriale diffusa oppure da una sofferenza del tronco encefalico, sede della formazione reticolare, struttura che possiede un ruolo chiave nel mantenimento della vigilanza. La sofferenza del tronco encefalico può a sua volta derivare da lesioni focali del tronco stesso, da lesioni che originano in strutture adiacenti al tronco (cervelletto, nervi cranici, meningi) e che lo comprimono, oppure ancora da qualunque patologia intracranica, soprao sottotentoriale che provochi un significativo aumento della pressione intracranica con conseguente erniazione (transtentoriale o transforaminale), che a sua volta causa compressione del tronco-encefalo. L’aumento della pressione intracranica può derivare a sua volta dall’effetto massa di una lesione di grandi dimensioni, oppure dall’idrocefalo che consegue a un ostacolo al flusso di liquor, in genere causato da patologie della fossa cranica posteriore. Estremamente ampio è lo spettro di gravità di un disturbo di coscienza. In ogni paziente che si presenti in Pronto Soccorso con un grave disturbo di coscienza in atto, la priorità è stabilizzare i parametri vitali, sostenendo il
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circolo e gli scambi respiratori. A questo punto, scopo dell’inquadramento diagnostico sarà innanzitutto la distinzione tra patologie benigne, spontaneamente reversibili senza terapia specifica, e patologie potenzialmente evolutive che possono determinare danni cerebrali irreversibili.
Coma Per coma si intende generalmente un’alterazione di coscienza marcata, definibile alla valutazione obiettiva dall’assenza di espressione verbale, di attività motoria volontaria e di apertura degli occhi sia spontanea che dopo stimolo doloroso. La raccolta anamnestica deve indagare con attenzione la velocità d’esordio del disturbo di coscienza, le circostanze in cui è insorto e gli eventuali sintomi che abbiano preceduto o accompagnato il disturbo. Nei casi più lievi di disturbo di coscienza, soprattutto in pazienti anziani o con precedenti malattie neurologiche, è importante definire il livello consueto di interazione con l’ambiente. Chiaramente il paziente con alterazione in atto della coscienza non potrà dare informazioni, per cui è necessario interrogare i familiari o altri testimoni. I tempi in cui si è instaurato il disturbo di coscienza sono fondamentali nella diagnosi differenziale. Il coma a esordio ictale ha in genere una genesi vascolare: • emorragie o ischemie che coinvolgono a tutto spessore il tronco encefalico; • emorragie emisferiche o subaracnoidee massive che provocano l’aumento improvviso e marcato della pressione intracranica. Se il disturbo di coscienza si instaura nell’arco di ore o giorni, è importante identificare i sintomi neurologici eventualmente associati e definire l’ordine temporale con cui le diverse manifestazioni sono insorte. In particolare: • se la deflessione di coscienza subacuta è l’unico sintomo identificabile, la genesi dismetabolica o tossica è probabile; • una deflessione di coscienza che progredisce in ore ed è preceduta da cefalea intensa e nausea è invece sospetta per idrocefalo acuto o emorragia epidurale;
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• una cefalea intensa che progredisce in alcuni giorni ed è seguita da alterazione di coscienza è sospetta per trombosi venosa cerebrale; • la febbre e il rigor nucalis all’esordio sono sospetti per meningite o encefalite; • emorragie non massive e ischemie che coinvolgono gli emisferi cerebrali o i lobi cerebellari esordiscono in genere con deficit neurologici sensitivomotori ictali, e nei giorni successivi possono provocare disturbi di coscienza secondari a fenomeni di edema cerebrale; • neoplasie cerebrali ed emorragie subdurali provocano in genere sia deficit focali che alterazioni di coscienza rapidamente progressivi nell’arco di giorni o settimane. L’esame obiettivo deve ricercare la presenza di segni neurologici focali. In caso di coma profondo, la risposta motoria allo stimolo doloroso, la simmetria del diametro pupillare e i riflessi del tronco encefalo rappresentano gli unici reperti obiettivi utili per localizzare l’area encefalica sofferente e per definire l’entità del danno cerebrale. I riflessi troncoencefalici più semplici da ricercare sono il riflesso fotomotore (riduzione del diametro pupillare allo stimolo luminoso) e il riflesso corneale (ammiccamento allo stimolo tattile corneale), la cui assenza bilaterale è indice di grave danno rispettivamente mesencefalico e pontino. L’asimmetria del diametro pupillare (anisocoria) indica invece una paralisi del III n.c. omolaterale alla pupilla di maggior diametro: questo dato in un paziente con ridotta vigilanza suggerisce una causa focale che esercita effetto massa, mentre rende meno plausibile una genesi tossica o dismetabolica. Ogni paziente con disturbo di coscienza deve essere sottoposto in urgenza a TC encefalo e ad esami ematochimici. I disturbi di coscienza su base dismetabolica sono reversibili se viene rapidamente individuato e corretto lo squilibrio responsabile del deterioramento neurologico. Gli esami ematici devono almeno includere emocromo, glicemia, funzione epatorenale, elettroliti, PCR, emogasanalisi arteriosa. In tal modo è possibile riconoscere le cause dismetaboliche di coma, quali: ipossiemia e ipercapnia da insufficienza respiratoria, ipoglicemia o grave iperglicemia con chetoacidosi, ipoo ipernatremia e ipercalcemia, insufficienza epatica o renale, ipotiroidismo, crisi tireotossica. Per i pazienti con particolari fattori di rischio devono essere richieste indagini ematochimiche aggiuntive:
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• esami tossicologici in caso di possibile abuso di sostanze; • ammoniemia in pazienti epatopatici; • procalcitonina ed emocolture in pazienti febbrili o con altri segni di sepsi. Difficilmente le cause dismetaboliche di compromissione della coscienza provocano stati di coma improvvisi e profondi. In genere tali disordini sono associati a stati confusionali che si instaurano gradualmente nell’arco di ore, giorni o settimane; fanno eccezione gli stati di intossicazione e le crisi ipoglicemiche da sovradosaggio di insulina, che possono provocare stati di coma a esordio improvviso. Nei pazienti con disturbo di coscienza a esordio acuto la TC encefalo eseguita in urgenza permette di identificare cause che possono talvolta beneficiare di trattamenti neurochirurgici (le emorragie epidurali, subdurali, intraparenchimali lobari o cerebellari, l’idrocefalo acuto e le neoplasie cerebrali). Se la TC basale è negativa, l’angio-TC intracranica permette di diagnosticare la trombosi dell’arteria basilare, che provoca ischemia pontina bilaterale. L’occlusione della basilare ha una prognosi frequentemente infausta, tuttavia può beneficiare della terapia trombolitica e.v. e della trombectomia meccanica se eseguite entro le prime ore dall’esordio clinico. L’angio-TC permette inoltre di riconoscere le trombosi venose cerebrali, per le quali è necessario l’inizio immediato di una terapia anticoagulante. Eventi ischemici emisferici provocano deflessione dello stato di coscienza solo se molto estesi. Si tratta in genere di infarti che coinvolgono in toto il territorio dell’arteria cerebrale media e che presentano di solito un quadro clinico facilmente riconoscibile, dominato dall’emiparesi controlaterale, la deviazione omolaterale del capo, l’afasia globale in caso di coinvolgimento dell’emisfero sinistro. In fase acuta la vigilanza è in genere conservata e la diagnosi si basa sulla clinica e su una TC encefalo inizialmente negativa. Il disturbo di coscienza insorge progressivamente nell’arco dei 2-3 giorni successivi all’esordio, quando la pressione intracranica aumenta a causa dell’edema che si sviluppa nell’area cerebrale infartuata. Questi infarti emisferici responsabili di ipertensione endocranica grave e coma sono chiamati infarti “maligni”. In questi casi l’intervento chirurgico decompressivo si è dimostrato efficace nel ridurre la mortalità, tuttavia l’invalidità che esita da ischemie così estese è in genere grave, soprattutto in caso di ictus dell’emisfero sinistro, che compromette anche il
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linguaggio. In alcuni casi la TC, l’angio-TC e gli esami ematochimici non permettono di stabilire la causa di coma, per cui è necessario ricorrere a indagini di secondo livello. Pazienti con deflessione dello stato di coscienza associata a febbre, cefalea e rigor devono essere sottoposti a rachicentesi per escludere patologie infettive. In assenza di parametri clinici o laboratoristici di alterazione metabolica, lesione focale o patologia infettiva, soprattutto in pazienti con storia di epilessia o con crisi epilettiche precedenti il coma, deve essere eseguito in urgenza un EEG per escludere lo stato di male epilettico, che, se prolungato, provoca danni cerebrali irreversibili. La terapia antiepilettica parenterale in questi casi permette spesso di risolvere la causa del coma. L’EEG permette inoltre di riconoscere gravi stati di soppressione dell’attività elettrica cerebrale, secondaria, per esempio, ad anossia cerebrale da arresto cardiaco. In presenza di EEG negativo, il paziente deve essere sottoposto a RM encefalo, che permette di identificare piccole lesioni ischemiche del tronco encefalo, alterazioni di segnale secondarie a cause tossiche o dismetaboliche (per esempio, mielinolisi pontina, encefalopatia di Wernicke), segni di anossia cerebrale o di danno assonale diffuso posttraumatico. La FIGURA 26.6 riproduce la flow-chart diagnostica nel coma.
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FIGURA 26.6 Flow-chart diagnostica nel coma.
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INDICE ANALIETICO
Nota: I link di questo indice si riferiscono alla versione stampata. Negli ereader, per visualizzare il contenuto a cui l’indice si riferisce, potresti aver bisogno di scorrere in avanti di una o più pagine. A ABCD score nella stratificazione del rischio di TIA, 270, 271 Abetalipoproteinemia, 352, 383 Acatisia, 37 Aceruloplasminemia, 352 Acidurie organiche, 343 Acinesia, 37, 38 - nella m. di Parkinson, 324 Acropatia ulcero-mutilante, 415 Acufene, 90 Acuità visiva, 80 AD (Alzheimer disease). Vedi Malattia di Alzheimer ADCA (autosomal dominant cerebellar ataxia), 353. Vedi anche Atassie spinocerebellari (SCA) ADEM. Vedi Encefalomielite acuta disseminata Adiadococinesia, 37
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Adrenoleucodistrofia X-legata, 381, 414 Adrenomieloneuropatia, 382 Afasia/e, 60-63 - amnesica (o anomica), 62 - analisi di lettura e scrittura nelle, 60 - di Broca, 60 - - reazione catastrofica nella, 61 - di conduzione, 61 - di Wernicke, 61 - fluenti, 56, 60 - logopenica, 311 - mista, 61 - non fluenti, 60, 61 - - e agrammatismo, 60 - progressiva, 228 - sensoriale, 61 - tattile, 54 - transcorticale, 61 - - motoria, 61 Aggregati proteici, 297 Agnosia/e, 68-69 - monosensoriali, 68 - tattile, 54, 69 - visiva, 68 - - associativa, 68 Agrafie, 62 - periferiche, 63 AIPD (poliradicoloneuropatia demielinizzante infiammatoria acuta), 406 Alcolismo cronico, complicanze neurologiche da, 452 Alessia/e, 62-63 - con agrafia, 62 - senza agrafia (o pura), 62 Alfa-mannosidosi, 377 Alfa-sinucleina, 299
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Allodinia, 51 Alteplase nell’ictus ischemico, 261 AMAN (acute motor axonal neuropathy), 406 Amantadina nella m. di Parkinson, 328 Amaurosi, 80 - fugace, 269, 477 Ambliopia, 80, 83 Amiloide, neuropatia da, 412 Aminoacidi - disordini del metabolismo degli, 368-369 - disturbi del trasporto degli, 369 Aminoacidopatie, 366, 368 Amiotrofia - diabetica, 408 - neuralgica del cingolo scapolare, 396 - neurogena, 31 Amnesia, 65 - deficit di tipo anterogrado nell’, 65 - globale transitoria, 65 - retrograda, 65 - transitoria globale, 147 Amorfoestesia, 69 AMSAN (acute motor sensory axonal neuropathy), 406 Anacusia, 90 Anartria pura, 63 - falciante, 32 - pseudo-atassica, 37 Anestesia, 50 - dolorosa, 51 - sospesa, 57 Aneurisma - “a bacca”, 279 - aterosclerotico, 279 - cerebrale, rottura di, 279-280
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- micotico, 280 - non rotto, 284 - sacculare, rottura di, 279 - - monitoraggio continuo (cEEG), 282 - - risanguinamento, 261 - - trattamento, 282 Angiomi - arterovenosi, 277 - cavernosi, 199, 278 - venosi, 279 Angiopatia amiloide cerebrale, 274, 316 Anomalie di scarico venoso, 279 Anosmia, 80 Anosodiaforia, 75 Anosognosia, 75 Anticipazione, fenomeno della, 332 Anticoagulanti diretti nell’ictus ischemico, 260 Anticolinergici nella m. di Parkinson, 327-329 Anticorpi - anti-AChR, 438 - anti-Hu nelle neuropatie paraneoplastiche, 378 - anti-LRP4, 439 - anti-MUSK, 439 Antropozoonosi, 220 Apolipoproteina E, 298 Aprassia, 66-67 - artuale - - ideativa, 67 - - ideomotoria, 67 - - mielocinetica, 66 - bucco-facciale, 60 - costruttiva, 67 - del tronco, 66 - dell’abbigliamento, 66
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- dello sguardo, 76 Area corticale sensitiva primaria, 49 Area sensitiva secondaria, 50 Arousal, 70 Arteria - vertebrale, dissecazione dell’, 475 Arterite temporale, 478 - complicanze neurologiche da, 458 - e cefalea acuta, 465 Ascesso - cerebrale, 219-222 - tubercolare, 211 Asimbolia, 69 Asinergia di Babinski, 37 Aspartilglicosaminuria, 377 Astasia-abasia, 40 Astereoagnosia associativa, 54 Asterixis, 39 Astrocitoma, 198 Atassia/e, 37, 349-364 - acquisite, 358-360 - - eziologia e sintomi principali, 363-364 - autosomiche-recessive, 350-353 - cerebellare - - a esordio precoce con riflessi tendinei conservati (EOCARR), 350 - - da deficit di coenzima Q10, 350 - con aprassia oculomotoria, 353 - con deficit isolato di vit. E, 351 - da anti-GAD, 358 - da cause infettive/postinfettive, 360 - da deficit vitaminici, 359 - da farmaci, 358 - da siderosi superficiale, 359 - da tossici, 358
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- di Bruns, 37 - di Friedreich, 350 - episodiche (EA), 356 - ereditarie, 350-357 - - eziologia e sintomi principali, 360-363 - e tremore associati a X-fragile, 357 - immunomediate, 358 - lesionali, 360 - mitocondriali, 357 - ottica, 76 - pseudocerebellare di Knapp, 37 - sensitiva, 37, 51, 213 - spastica di Charlevoix-Saguenay, 350 - spinocerebellari (SCA), 353-35Ó - - accumuli proteici nelle, 298 - - con neuropatia assonale, 353 - - forme di, 354 - sporadiche, 357 - - eziologia e sintomi principali, 363 - teleangectasia, 352 Atetosi, 39 Atrofia - cerebrale nella m. di Alzheimer, 305 - corticale posteriore nella m. di Alzheimer, 307 - dentato-rubro-pallido-luysiana (DPRLA), 357 - fronto-parieto-temporale asimmetrica, 310 - ippocampale nella m. di Alzheimer, 308 - multisistemica, 299, 326 - muscolare - - bulbospinale, 347 - - peroneale, 414 - muscolospinale (SMA), 347 - olivo-ponto-cerebellare (OPCA), 326
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- temporale e orbito-frontale simmetrica, 311 Attacchi - di panico, 147 - ischemici transitori, 147, 251, 268-270 - - stratificazione del rischio, 268-270 Attenzione - alterazioni dell’, 63-66 - deficit dell’, 69 - divisa, 71 - selettiva automatica, 70 - selettiva volontaria, 70 - test per la valutazione dell’, 71 Audiometria, 90 Aura, 157 Autofagia mediata da chaperonine (CMA), 300 Azatioprina nella miastenia gravis, 443 B Ballottamento, manovra del, 32 Bande di Bungner, 391 Barestesia, 44 Barthel Index, 284 Batiestesia, 44, 53 Beta-amiloide, 297 - nella m. di Alzheimer, 305 Biopsia - di cute, 393 - di nervo, 392 Black holes, 240 Blefarospasmo, 40, 335 BOLD (blood oxygenation level dependent), 11 Botulismo e diplopia, 480 Bradicinesia, 38
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- nella m. di Parkinson, 324 Braditeleocinesia, 37 BSE (bovine spongiform encephalopathy), 229 C CADASIL, 243, 255, 314, 315, 423 Calpainopatia, 423 Campimetria di Goldman, 81 Campo visivo, valutazione del, 81 Campylobacter jejuni, neuropatia da infezione di, 404 Canalopatie, 425 - caratteristiche cliniche, 426 Carcinomatosi meningea, 206 Cardiopatie, sincope da, 114 Catalessia, 37 Cataplessia, 132 Catatonia, 37 Causalgia, 53 Cavernomi, 278 Cefalea/e - a grappolo, 162-164 - - criteri diagnostici, 163 - - quadro clinico, 162 - - terapia di profilassi, 163 - - trattamento, 163 - acuta - - cause rare di, 465 - - criteri di allarme, 462 - - flow-chart diagnostica, 467 - associate a - - disturbi della circolazione, 167 - - disturbi infettivi del SNC, 167 - - ipotensione liquorale, 167 - - malattie cerebrovascolari, 166
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- - neoplasie, 167 - classificazione internazionale (ICHDIII, versione beta) delle, 155-158 - cronica quotidiana, 161 - primarie, 156-164 - secondarie, 165-168 - - campanelli d’allarme (red flags), 166 - tensiva, 160-162 - - criteri diagnostici, 160 - - quadro clinico, 161 - - terapia di profilassi, 162 - - terapie non farmacologiche, 162 - - trattamento, 162 Celiachia, 358 Central autonomic network (CAN), 104 Central executive, 71 Ceroidolipofuscinosi neuronali (CLN), 380, 381 Chiasma ottico, valutazione del, 81 Chinestesia, 52 Ciclo dell’urea, disordini del, 370 Ciclosporina nella miastenia gravis, 443 CIPN (chemotherapy induced peripheral neuropathy), 411 - da alcaloidi della vinca, 411 - da bortezomid, 411 - da epolitoni, 411 - da platino-derivati, 411 - da talidomide, 411 - da taxani, 411 Circolo cerebrale posteriore, evento ischemico a carico del, 480 Circuito di Papez, 64 Citomegalovirus (CMV) - encefalite da, 218 - infezione da, in corso di HIV, 223 Clono, 33
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Coiling, 283 Cold face test, 110 Cold pressor test, 110 Cold-induced sweating syndrome, 108 Colonna vertebrale, lesioni a carico della, 185 Coma, 123-128, 482 - approccio clinico al paziente in, 126 - cause dismetaboliche di, 483 - di origine strutturale, 124 - di origine tossico-metabolica, 124 - diagnosi differenziale, 127 - eziologia, 124 - quadri clinici, 125-126 - vs non responsività psicogena, 127 - flow-chart diagnostica, 484 Complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) nella sclerosi multipla, 236 Complicanze neurologiche di malattie internistiche - cardiache, 449 - ematologiche, 458 - epatiche, 451 - gastrointestinali, 450 - polmonari, 450 - renali, 453 - reumatiche e del tessuto connettivo, 455 Comprensione, valutazione della, 60 Condotto uditivo, stimolazione calorica del, 92 Confusione mentale, 281 Consistenza muscolare, valutazione della, 32 Contusione midollare, 186 Coordinazione, valutazione della, 36-37 Corea/e - acantocitosi, 352 - di Huntington, 39, 332-334 - - accumuli proteici nella, 298
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- - forme genetiche, 332 - - variante giovanile di Westphal, 333 - di Sydenham, 39, 334 - endocrino-metaboliche, 33 - iatrogene, 334 - vascolare, 334 Coreo-atetosi, 39, 333 Corpi - di Lewy, 322. Vedi anche Demenza a corpi di Lewy - di Pick nelle demenze frontotemporali, 310 Corpo genicolato laterale, lesione del, 82 Corteccia visiva, lesione della, 82 Corticosteroidi nella miastenia gravis 443 Costellazione, 143 CPEO (oftalmoplegia esterna progressiva cronica), 430 Crampi, 32 Crampo dello scrivano, 40, 335 Crisi epilettiche, 138-140 - classificazione, 138-140 - emicloniche, 140 - focali, 138 - gelastiche, 140 - generalizzate, 138 - - a tipo assenza, 239 - - atoniche, 139 - - miocloniche, 139 - - toniche, 139 - - tonico-cloniche, 138 - motorie, 140 - post-ictus, 264 - riflesse, 140 - sensoriali, 140 Crisi miastenica, 442
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D Danno assonale diffuso, 176 DBS (deep brain stimulation) nella m. di Parkinson, 332 Deterioramento cognitivo lieve (MCI), 305, 306 Deep brain stimulation (DBS) nella m. di Parkinson, 332 Deficit - di memoria episodica nella m. di Alzheimer, 305 - mnesici, 63-66 - sensitivo-motori - - agli arti, 470-472 - - a un emisoma, 466 - sensitivo-motorio acuto, flow-chart diagnostica, 473 Degenerazione - cerebellare, 454 - - alcolica, 358 - corticobasale, 299, 327 - distale retrograda, 391 - epatolenticolare, 382 - striato-nigrica, 326 - walleriana, 390 Delirium, 69, 70, 125, 303 - tremens e alcolismo cronico, 452 Demenza/e, 303-319 - a corpi di Lewy, 228, 299, 313 - associate a Parkinson e parkinsonismi, 312-314 - associate a patologie internistiche, 317-318 - cause di, 304 - classificazione eziopatogenetica delle, 304 - criteri diagnostici delle, 303 - di Alzheimer, 303 - di origine neurodegenerativa, 303-314 - forma congiunta SLA-demenza, 341 - forme familiari di, 310
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- frontale, 76 - frontotemporali, 34, 299, 309-312 - - accumuli proteici nelle, 298 - - variante comportamentale, 311 - pugilistica, 299 - semantica, 65, 311 - terapia, 312 - vascolari, 314-316 Demielinizzazione, 233 - segmentaria, 391 Dermatomiosite (DM), 433 Dermolessia, 44, 54 Diplopia, 83, 479 - acuta, flow-chart diagnostica, 481 - binoculare, 480 Disartria, 94 Dischiria, 75 Discinesia/e, 38 - dopa-indotte, 332 - parossistica, 38 - tardiva, 38 Discriminazione tattile, 54 Disestesie, 51 Disfagia, 94 Disgrafia, 62 Disferlinopatia, 423 Disfonia, 94 Dislessia, 62 - da neglect, 74 Dismetria, 37 Dissecazione - dei vasi arteriosi cervicali e cefalea acuta, 464 - dell’arteria vertebrale, 475 Dissezione arteriosa, 255, 257
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Dissociazione - “tabetica”, 56 - categoriale nell’amnesia semantica, 66 - siringomielica, 57 Distonia/e, 334 - d’azione, 40 - focali rimarie, 335 - generalizzata primaria, 334 - mioclonica, 335 - oromandibolare, 335 - plus, 332 - sintomatiche, 335 - - trattamento delle, 336 - spasmodica, 335 Distorsione cervicale, 185 Distrofia/e - di Becker, 420 - di Duchenne, 419 - di Emery-Dreifuss, 421 - miotoniche, 428-429 - muscolare di Fukuyama, 423 - muscolari, 418-425 - - congenite, 423 - - dei cingoli, 422 - - distali, 424 - - facio-scapolo-omerale, 423 - - oculo-faringea, 424 - - quadro elettromiografico nelle, 21 - - scapolo-omerale, 424 - - scapolo-peroneale, 424 Distrofina, 418 Distrofinopatie, 418 Disturbi - comportamentali nel sonno REM, 134
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- dello schema corporeo, 75 - motori, 29-41 - respiratori sonno-correlati, 131 - spaziali, 73 Disturbo - di senso, valutazione di, 52 - neurocognitivo - - minore, 306 - - maggiore, 303 criteri diagnostici, 304 Dolore - cronico, 54 - irradiato nelle sindromi radicolari, 191 - neurogeno, 53 - - causalgia, 53 - - neuropatico, 53 - - nevralgico, 53 - nocicettivo, 53 - riferito, 44, 45 - sistema del cancello nel controllo del, 47 - valutazione del, 53 Dopamino-agonisti nella m. di Parkinson, 330 DTI (diffusion tensor imaging), 10 DWI (diffusion weight imaging), 9 Dying back neuropathy, 403, 410 E Eccitotossicità, 26 Ecolalia nelle afasie, 60 Edema cerebrale post-ictus ischemico, 264 El Escorial, categorie diagnostiche di SLA, 342 Elettroencefalogramma, 14
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- ritmi dell’, 15 Elettromiografia (EMG), 18, 19 - a singola fibra (SFEMG), 441 - attività di fibrillazione, 20 - onde aguzze positive, 20 Elettroneurografia (ENG), 18, 392 - riflesso H, 19 - risposta F, 19 - stimolazione ripetitiva nella, 19 - stimolazione sopramassimale nella, 18 Elettronistagmografia, 92 Emangioblastoma, 198 Ematoma - cerebrale intraparenchimale e cefalea acuta, 463 - epidurale spontaneo, 182 - extradurale acuto, 174 - sottodurale acuto, 175 - sottodurale cronico, 180 Emerina, 422 Emianestesia e cefalea acuta, 466 Emianopsie, 81 Emiballismo, 39 Emicorea, 39 Emicrania, 147, 156-160 - criteri diagnostici, 157 - oftalmoplegica, 165 - profilassi, 159-160 - terapia dell’, 158 - teorie fisiopatogenetiche, 157-158 Emicraniectomia decompressiva, 265 Eminattenzione - post-ictus, 74 - test per la valutazione dell’, 74 Emiparesi, 36
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- e cefalea acuta, 466 Emisomatognosia, 75 Emorragia - cerebellare, 475 - cerebrale intraparenchimale primaria, 273, 277 - - caratteristiche cliniche, 273 - - diagnosi, 274 - - indicazione chirurgica, 275 - - trattamento, 276 - complicanze, 282 - subaracnoidea (ESA), 279 - - e cefalea acuta, 463 - - rachicentesi, 463 - - scale di gravità dell’, 282 - - “sine materia”, 280 Encefalite/i, 214-219 - allergica sperimentale (EAE), 236 - autoimmuni, complicanze neurologiche da, 456 - classificazione, 215 - da anticorpi - - anti-NMDAR, 456 - - anti-VGKC, 456 - - contro antigeni di superficie, 455 - in corso di HIV, 223 - emorragiche necrotizzanti, 233 - glio-perivenosa, 215 - iter diagnostico, 215-216 - limbica, complicanze neurologiche da, 454 - primarie, 214 - quadro clinico, 215 - secondarie, 215 - virali acute, 216-218 - - da HSV-1, 217 - virali subacute/croniche, 218
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Encefalomielite acuta disseminata (ADEM), 222, 226, 233, 249-250 Encefalomiopatie mitocondriali, 371-374 - con acidosi lattica ed episodi similstroke (MELAS), 372 Encefalopatia/e - di Wernicke e alcolismo cronico, 452 - epatica, complicanze neurologiche da, 451 - HIV-correlata (HAD), 224 - mioneurale gastrointestinale (MNGIE), 374 - responsiva associata a tiroidite autoimmune, 359 - spongiforme bovina (BSE), 229 - spongiformi trasmissibili, 227 - subacuta, 271 - uremica, complicanze neurologiche da, 453 Endoarteriectomia - d’urgenza, 263 - carotidea, 267 Endofenotipi, 23 Entacapone, 330 EOCARR (atassia cerebellare a esordio precoce con riflessi tendinei conservati), 350 Ependimoma, 198 - del filum terminale, 198 Epilessia, 14, 137-153 - definizione operativa di, 137 - attiva, 138 - classificazione dell’, 140-143 - da causa ignota, 141 - diagnosi e diagnosi differenziale, 146 - farmacoresistente, 149 - genetica, 140 - gestione del trattamento farmacologico, 152 - “in remissione”, 138 - mioclonica
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- - con fibre raggiate (MERFF), 372 - - giovanile, 40 - - progressiva, 40 - posttraumatica, 182 - “risolta”, 138 - strutturale metabolica, 141 - terapia farmacologica, 147, 148 Ernia discale, 192 - cervicale, 194 - diagnosi differenziale, 194 - dorsale, 194 - lombare, 193 - sedi dell’, 192 - trattamento, 194 Esame - neuropsicologico, 76-78 - obiettivo neurologico, 3 - oftalmoscopico, 81 Esauribilità muscolare nella miastenia gravis, 439 Escherichia coli, meningite da, 204 Esercizio isometrico, 110 Estinzione tattile, 54 Eventi ischemici emisferici, 483 Exon-skipping nelle distrofinopatie, 421 F Farmaci - antiepilettici, 150 - antiparkinsoniani, 328 - immunomodulanti nel trattamento della slerosi multipla, 245, 247 Fascicolazioni, 32 Fascicolo - di Burdach, 46 - di Goll, 46
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Fascio - piramidale, 29 - spinotalamico, lesioni del, 56 FDG-PET, 13 Fenilchetonuria (FKU), 368 Fenomeno - del coltello a serramanico, 32 - della troclea, 33, 323 - di Uhthoff, 235 Festinatio, 40 - nella m. di Parkinson, 324 FFI (malattia di Lugaresi), 229 Fibre - amieliniche, 390 - mieliniche, 390 - nervose, degenerazione e rigenerazione delle, 390-392 Fibrillazione atriale, complicanze neurologiche da, 449 Fistole - arterovenose durali, 278 - liquorali posttraumatiche, 182 Flail-arm syndrome, 36 fMRI, 10 Focolai contusivi e lacerocontusivi, 175 Folati, complicanze neurologiche da deficit di, 451 Forame ovale - chiusura percutanea del, 266 - pervio, complicanze neurologiche da, 450 Formazione reticolare pontina paramediana, 79 Forza, prove di, 34-36 Fratture craniche, 174 Freezing nella m. di Parkinson, 324 Frequenza cardiaca (FC), analisi della variabilità della, 112 Fucosidosi, 377 Functional Independence Measure
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(FIM), 284 Fundus oculi, esame del, 81 Funzione - acustica, semeiotica della, 90 - olfattoria, esame della, 80 - vestibolare, semeiotica della, 90 Funzioni - cerebrali, mappaggio delle, 294 - cognitive, deficit delle, 59-78 - esecutive, deficit delle, 71 - vegetative, fisiopatologia e semeiologia delle, 103-119 Furto della succlavia, sincope da, 114 FXTAS (fragile X tremor ataxia syndrome), 337 G Galattosialidosi, 377 Gammopatia monoclonale di significato indeterminato (MGUS), 407, 412 Gangli spinali, compromissione dei, 395 Ganglio di Gasser, 47 Ganglionopatie, 55, 395 Gangliosidosi, 378 - GM2, 352 Giunzione muscolare, patologie della, 437-446 Glagow Coma Scale (GCS), 126, 127, 170 Glasgow Outcome Scale (GOS), 170 Glicogenosi, 384, 385 Glicoproteine, malattie del metabolismo delle, 377 Glicosfingolipidi, malattie del metabolismo dei, 374 Gliomi, 290-292 Grafestesia, 44, 54 Gravidanza, rischio di ictus ischemico in, 256 Grovigli neurofibrillari nella m. di Alzheimer, 297, 305 Guaina mielinica, 233
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H HAD (HIV-associated dementia), 224 Haemophilus influenzae, meningite da, 204 Herpes virus simplex (HSV), encefalite da, 216 HIV, patologie neurologiche in corso di, 222-227 HMSN (hereditary motor and sensory neuropathy), 414 Homunculus sensitivo, 49, 50 HSP (hereditary spastic paraparesis), 346 Huntingtina, 332 Huntington-like disease, 333 Ictus - acuto, rivascolarizzazione nell, 469 - aterotrombotico, 257 - cardioembolico, 257 - cerebrale, 251 - - riabilitazione, 283 - e cefalea acuta, 468 - emorragico, 2352 - ischemico, 252, 253-268 - - anticoagulanti diretti nell’, 266 - - caratteristiche cliniche, 256 - - cause note di, 255 - - classificazione TOAST dell’, 254 - - complicanze neurologiche, 264 - - diagnostica strumentale, 259-261 - - e cefalea acuta, 463 - - e gravidanza, 256 - - giovanile, 257 - - infarcimento emorragico, 264 - - inquadramento clinico, 257 - - metodiche diagnostiche, 260 - - sottotipi di, 233 - - terapia di prevenzione secondaria dell’, 265 - - trattamento, 261, 263
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- lacunare, 257 Idrocefalo - normoteso, 316 - posttraumatico, 182 Igroma posttraumatico, 181 Iloanestesia, 69 Imaging intraoperatorio in neurooncologia, 295 Immunoglobuline nella miastenia gravis, 443 Immunosoppressori nella miastenia gravis, 443 Impedenziometria, 90 Indice di Link, 22, 240 Infarcimento emorragico post-ictus ischemico, 264 Inibitori - delle COMT nella m. di Parkinson, 329 - delle MAO, 330 Innervazione simpatica cardiaca, visualizzazione della, 112 Insonnia, 130, 121 Instabilità vertebrale posttraumatica, 186 Insufficienza - mentale, 303 - respiratoria acuta, complicanze neurologiche da, 450 - vegetativa localizzata, 106 - vegetativa sistemica, 106 Iowa Gambling Test, 72 Iperacusia, 90 Iperalgesia, 51 Ipercinesie, 38 IperCPKemia, 418, 420, 432 Iperestesia, 51 Iperfenilalaninemie, 368 Ipermetria, 37 Iperosmia, 80 Iperpatia, 51
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- cheiro-orale, 57 - talamica, 57 Iperreflessia osteotendinea, 33 Ipertensione - clinostatica, cause di 108 - endocranica, 271 - - e cefalea acuta, 464 - - trattamento dell’, 179, 276 - supina, 105 Ipertono - plastico, 32 - spastico, 32 - spastico/plastico, 33 Ipertrofia muscolare, 32 Ipnogramma, 128, 129, 130 Ipo-iperparatiroidismo e demenza, 318 Ipoacusia, 90 Ipobetalipoproteinemia, 383 Ipocinesia, 38 Ipoestesia, 50 Ipometria, 37 Iposmia, 80 Ipotensione - endocranica e cefalea acuta, 464 - liquorale e cefalea acuta, 167, 466 - ortostatica, 105 - - nelle sinucleinopatie, 114 - - sincope da, 114 - - sintomi, 106 - muscolare, 32 Ipovisus, 477 - acuto, flow-chart diagnostica, 479 Ischemia - retinica, 477
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- venosa, 271 K Klebsiella, meningite da, 204 Kuru, 230 L Laminina, 422 Lateropulsione, 40 Latirismo, 345 Lemnisco trigeminale, 48 Lesioni - corticali, 57 - extramidollari, 100 - midollari, 100 - - diagnosi di livello delle, 100-101 - ossee e legamentose, 185 - radicolo-midollari, 186 Lettura, analisi della, nelle afasie, 60 Leucemie, complicanze neurologiche da, 459 Leucodistrofia metacromatica, 352, 380, 414 Leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), 218, 223, 243 - nel paziente immunocompetente, 223 - nel paziente HIV-positivo, 223 Levodopa nella m. di Parkinson, 329 - complicanze, 329 - fenomeno freezing, 329 - fenomeno wearing off, 329 - fenomeno on-off, 329 LGMD (limb-girdle muscular dystrophy), 422 Linfoma/i - cerebrale primitivo in corso di HIV, 224 - sistemici, complicanze neurologiche da, 459 Linguaggio
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- analisi del, 60 - disturbi isolati del, 62 - scritto, disturbi del, 59 Lipogranulomatosi di Farber, 380 Lipoialinosi, 255 Lipoproteine, malattie da deficit di, 383 Liquido cefalorachidiano, 207 - esame del, 22, 393 Liquor. Vedi Liquido cefalorachidiano Listeria monocytogenes, 203 Locked-in syndrome, 127 LOHN (neuropatia ottica ereditaria di Leber), 374 Lupus eritematoso sistemico (LES), complicanze neurologiche da, 455 M Macroautofagia, 300 Macroglobulinemia di Waldenstrom, neuropatia nella, 413 Malattia. Vedi anche Malattie - a corpi di Lewy, 78, 326 - del motoneurone, 311 - delle urine a sciroppo d’acero, 370 - di Alzheimer, 299, 304-309 - - accumuli proteici nella, 13, 298 - - anticolinesterasici nella, 309 - - criteri diagnostici, 308 - - diagnosi, 307 - - diagnosi liquorale, 23 - - eziopatogenesi, 305 - - genetica, 305 - - grovigli neurofibrillari nella, 297 - - neuropatologia, 305 - - placche senili nella, 297 - - quadro clinico, 305
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- - terapia, 309 - di Becker, 426 - di Charcot-Marie-Tooth (CMT), 414 - di Creutzfeldt-Jakob (MCJ), 227, 228, 319 - - familiare, 229 - - iatrogena, 229 - - nuova variante (vMCJ), 229 - di Devic, 215. Vedi anche Neuromielite ottica - di Fabry, 379, 414 - di Gaucher, 300, 374 - di Hallevorden-Spatz, 299 - di Hartnup, 369 - di Lou Gehrig, 339 - di Lugaresi (FFI), 229 - di Lyme, 213 - di Krabbe, 361, 367, 379, 414 - di Marburg, 233 - di Marchiafava-Bignami e demenza, 318 - di McArdle, 431 - di Menkes, 383 - di Niemann-Pick (A-B-C), 52, 299, 376, 377 - di Parkinson, 38, 321-332 - - accumuli proteici nella, 298 - - decorso, 323 - - diagnosi, 324 - - diagnosi differenziale, 325-326 - - e medicina nucleare, 325 - - epidemiologia, 322 - - eziologia, 322 - - flow-chart della terapia, 306 - - forma rigido-acinetica, 324 - - forma tremorigena, 324 - - genetica della, 323
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- - quadro clinico, 323 - - trattamento della, 327-332 - fase iniziale 330 - fase intermedia-avanzata, 331 prospettive chirurgiche, 332 - di Refsum, 414 - di Sandhoff, 378 - di Schilder, 233 - di Smith, 357 - di Steinert, 428 - di Tangier, 383, 414 - di Tay-Sachs, 352, 378 - di Thomsen, 426 - di Whipple e demenza, 318 - di Wilson, 301, 355, 326 - - e demenza, 318 Malattie. Vedi anche Malattia - cardiopolmonari, sincope da, 114 - cerebrovascolari, 251-285 - complesse, definizione di, 25 - da accumulo, 303 - - di glicogeni con ipostenia progressiva, 431 - da deficit di lipoproteine, 383 - dei canali del calcio, 427 - dei canali del cloro, 426 - dei canali del potassio, 427 - dei canali del sodio, 427 - dei canali ionici voltaggiodipendenti, 425 - del metabolismo - - dei glicosfingolipidi, 374 - - delle glicoproteine, 374, 377 - del primo motoneurone, 345-346 - del secondo motoneurone, 346
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- del sistema nervoso periferico, 389-415 - demielinizzanti, 233-250 - extrapiramidali, 421-337 - lisosomiali, 374 - neurodegenerative, 297-302 - neurometaboliche, 365-385 - - alterazioni ossee nelle, 367 - - approccio clinico, 366-367 - - e interessamento multisistemico, 367 - - età di esordio ed evoluzione, 366 - - manifestazioni cutanee nelle, 367 - - manifestazioni oculari nelle, 367 - - segni e sintomi neurologici, 36Ó - perossisomiali, 381 - prioniche, 299 - - accumuli proteici nelle, 298 Malformazioni arterovenose (MAV), 277 Manifestazioni affettivocomportamentali, valutazione delle, 76 Mano - parietale, 58 - talamica, 57 Manovra - del ballottamento, 32 - del rimbalzo, 32 - di Dix-Hallpike, 475 - di Mingazzini, 34 - di Romberg, 40 - di Valsalva, 110 - indice-naso, 37 Marcatori periferici, 26 Marcia - a base allargata, 40 - a stella, 40
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- valutazione della, 40 Massaggio del seno carotideo, 110 MAV. Vedi Malformazioni arterovenose Medicina nucleare, 11 MELAS (mithochondrial myopathy, encephalopathy, lactic acidosis and stroke), 255, 357, 372, 430 Memantina nella m. di Alzheimer, 309 Memoria, 63-66 - a breve termine, 63 - a lungo termine, 63 - - esplicita, 64 - - implicita, 64 - autobiografica, 64 - di lavoro, 63 - episodica, 64 - semantica, 64 Meningioma, 198, 293 Meningite/1, 201 - acuta, 202-210 - - caratteristiche liquorali, 203 - - complicanze, 209 - - diagnosi differenziale, 207 - - eziologia, 202 - - fattori predisponenti, 203 - - principi di terapia, 208 - - profilassi, 208 - - prognosi, 209 - - virale, 206 - asettiche da virus, 206 - batterica, 202 - “chimiche”, 206 - criptococcica in corso di HIV, 224 - cronica, 210-214 - da farmaci, 20Ó
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- sierose atipiche, 208 - tubercolare, 210 Meningoradicolite, 213 MERFF (epilessia mioclonica con fibre rosse raggiate), 357, 372, 430 Metastasi - cerebrali, 292 - vertebrali, 197 Metotrexato nella miastenia gravis, 443 MGUS (monoclonal gammopathy of undetermined significance), 412 Miastenia gravis, 35, 406-444, 480 - decorso e prognosi, 442 - diagnosi, 441 - diagnosi differenziale, 441-442 - e gravidanza, 444 - esami bioumorali e strumentali, 440-441 - quadro clinico, 439 - trattamento, 442-444 Micofenolato mofetile nella miastenia gravis, 443 Micro-RNA, 24 Microautofagia, 300 Micrografia nella m. di Parkinson, 324 Microneurografia, 112 Midollo spinale - infezioni del, 225-227 - lesioni del, 187 Mieliti trasverse acute infettive, 225 Mieloma multiplo - complicanze neurologiche da, 458 - neuropatia nel, 413 Mielopatia/e, 55 - spondilogena cervicale, 195 - vacuolare, 225 Mielosi funicolare, 56, 99 Minidistrofina nelle distrofinopatie, 421
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Mini Mental State Examination (MMSE), 76, 77, 309 Miochimie, 32 Mioclonie - ipniche, 40 - segmentarie, 40 Mioclono - d’azione, 40 - notturno, 134 Miopatia/e, 417-437 - a trasmissione matrilineare con cardiomiopatia, 373 - acquisite, 432-435 - distale - - di Markesbery-Griggs-Udd, 425 - - di Miyoshi, 425 - - di Nonaka, 425 - - di Welander, 425 - ereditarie, 417-424 - infiammatorie idiopatiche 432 - miotonica prossimale (PROMM), 429 - quadro elettromiografico nella, 21 - tossiche, 435 Miosite a corpi inclusi (IBM, inclusion body myositis), 433 Miotonia - congenita, 426 - definizione di, 425 MNGIE (encefalopatia mioneurale gastrointestinale), 357, 374 Mononeuriti multiple, 402 Mononeuropatie, 397-403 - multiple, 402 Monoparesi, 472 Monoplegia, 36 Morbo celiaco, complicanze neurologiche da, 450-451 Morte - cerebrale, 126
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- improvvisa e sincope cardiogena, 115, 106 Motilità - oculare orizzontale, alterazione della, 85 - oculare verticale, alterazione della, 86 - semeiotica della, 30-41 Motoneurone, malattie del, 339-348 Movimenti oculari - di vergenza, 85 - lenti (pursuit), 85 - rapidi (saccadi), 85 Movimento, disturbi del, sonnocorrelati, 131 Mucolipidosi (ML), 377 Mucopolisaccaridosi, 375 Multineuropatie, 402 Mutismo acinetico, 125 N Narcolessia tipo 1 e 2, 131, 132 NARP (neuropatia, atassia, retinite pigmentosa), 357, 373 Natalizumab e PML, 223 Neglect, 73 - forme motorie di, 73 - tattile, 73 - uditivo, 73 - visivo, 73, 76 Neisseria meningitidis, meningite da, 202 Neoplasie intracraniche, 287-29Ó - classificazione WHO, 287 - in età adulta, 290 - in età pediatrica, 289 - principi di trattamento, 294 - sintomatologia 288 - tumori extra- e intra-assiali, 290
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Nervi. Vedi anche Nervo - lesioni combinate dei, 90 - dell’oculomozione, paralisi isolate dei, 480 - periferici, lesioni dei, 54, 55 Nervo. Vedi anche Nervi - abducente (VI paio), 83 - accessorio spinale (XI), 93 - acustico (VIII), 81 - cutaneo laterale della coscia, lesione del, 400 - facciale (VII), 88 - - paralisi del, 89 - femorale, lesione del, 400 - glossofaringeo (IX), 92-93 - ipoglosso (XII), 95 - muscolocutaneo, lesione del, 398 - oculomotore comune (III paio), 82 - - paralisi del, 83 - olfattorio (I), 79 - ottico (II), 74 - - atrofia del, 82 - - patologie del, 82 - otturatorio, lesione del, 400 - peroneo comune, lesione del, 401 - radiale, lesione, del 398 - sciatico, lesione del, 400 - tibiale, lesione del, 401 - trigemino (V), 87-88 - trocleare (IV paio), 83 - ulnare, lesione del, 399 - vago (X), 92-93 Neurinoma dell’VIII nervo cranico, 476 Neurite - bulbare, 82 - ottica, 82
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- - retrobulbare (NORB), 238, 478 Neuroacantocitosi, 333 Neuroborreliosi, 213 Neurocisticercosi, 219 Neuroepigenoma, 25 Neurolatirismo, 345 Neuromielite ottica (NMO), 233, 248 - rituximab nella, 249 Neuronavigazione, 295 Neurone pseudounipolare, 44 Neuropatia/e - adrenergica pura, 106 - amiloidi, 412 - associata a componente monoclonale, 412 - colinergica pura, 106 - da botulismo, 406 - da chemioterapici antineoplastici, 411. Vedi anche CIPN - diabetica, 408 - difterica, 406 - dolorose, 393 - motoria multifocale, 343, 413 - ottica - - ereditaria di Leber (LOHN), 374 - - ischemica anteriore, 478 - periferica, 389 - quadro elettromiografico, 21 - simpatica distale, 106 - sintomi e segni, 394 - tossiche - - da arsenico, 410 - - da chemioterapici antineoplastici, 411 - - da esteri organofosforici, 410 - - da mercurio, 411
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- - da piombo, 411 Neurosifilide, 211 - attiva, 212 - esame del liquor nella, 212 - test sierologici, 212 Neurosteroidi, 24 Nevralgia del trigemino, 164 - quadro clinico, 164 - terapia medica, 165 Nistagmo, 90 - prova rotatoria, 92 - segni provocati, 92 - segni spontanei, 92 Nocicettori, 44 Nodo di Ranvier, 391 Non responsività psicogena vs coma, 127 Nuclei talamici intralaminari, 48 Nucleo - centrale laterale, 48 - centrale parafascicolare, 48 - centromediano, 48 - del raphe magno e gigantocellulare, 47 - della radice discendente, 47 - motore principale pontino del trigemino, 47 - trigeminale mesencefalico, 47 - ventroposterolaterale (VPL), 48 - ventroposteromediale (VPM), 48 O Oftalmoplegia - esterna progressiva cronica (CPEO), 430 - internucleare, 86, 237 Oligofrenia, 303 Omocistinuria, 368
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Opposizionismo, 32 OSAS (obstructive sleep apnea syndrome), 133 Ottundimento, 125 P Pallestesia, 44, 53 Pandisautonomia acuta, 406 Panencefalite - progressiva, 218 - sclerosante, 299 - - subacuta (PESS), 218 Papez, circuito di, 64 Papilla - da stasi, 82 - ottica, valutazione della, 81 Papillite, 478 Parafasie, 60 Paralisi - dei nervi dell’oculomozione, 480 - di sguardo, 85 - internucleare, 86 - periodica iperpotassiemica, 427 - periodiche, 424 - - ipokaliemiche, 427 - pseudoradicolari, 36 - sopranucleare progressiva, 299, 327 Paramiotonia congenita, 427 Paraparesi spastica - ereditaria (HSP), 346 - - cause genetiche di, 346 - tropicale (TSP), 346 Paraplegia, 36 Paraproteinemie, neuropatie delle, 412 Parasonnie, 132
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- del sonno NREM, 134 Paratonia, 32 Parestesie, 51 Parkinsonismo/i, 38, 312, 313 - atipici, 326 - da tossici, 325 - iatrogeno, 325 - postencefalitico, 301 - tumorale, 326 - vascolare, 325 Parola scandita, 37 Parosmia, 80 Pavor nocturnus, 134 PEA (potenziali evocati acustici), 17 PEM (potenziali evocati motori), 17 Perdita di coscienza transitoria (PdCT), 113, 118. Vedi anche Sincope/i PESS (potenziali evocati somatosensoriali), 16, 54 PET (positron emission tomography), 11 - traccianti leganti il 18F, 13 - traccianti leganti la proteina tau, 13 PEV (potenziali evocati visivi), 17 Piede diabetico, 409 PINK1, 24 Piridostigmina nella miastenia gravis, 442 Pittsburg Compound B, 13 Placche - aterosclerotiche, 255 - tumor like, 243 Plasmaferesi nella miastenia gravis, 443 Plessi, lesioni dei, 55 Plesso - brachiale, sindromi del, 396 - cervicale, lesioni del, 395
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- lombosacrale, lesioni del, 397 Plessopatie, 395 PLS (primary lateral sclerosis), 345 PML. Vedi Leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) Polimielite anteriore acuta, 226 Polimiosite (PM), 433 Polineuropatia/e, 55, 402 - acute, 471, 403-407 - alcolica, 408 - classificazione, 404 Poliradicoloneuropatia, 402 - infiammatoria demielinizzante cronica (CIPD), 407 Poliradicolonevrite infiammatoria demielinizzante acuta (AIPD), 36 Poliradicolopatia, 55 Polisonnografia, 130 - notturna, 110 Postura - camptocormica, 40 - eretta, valutazione della, 40 Potenziali - corticali cognitivi, 17 - evocati acustici (PEA), 17 - evocati motori (PEM), 17 - evocati sensoriali, 16 - evocati somatosensoriali (PESS), 16, 54 - evocati uditivi, 90 - evocati visivi (PEV) nella sclerosi multipla, 17, 240 PoTS. Vedi Sindrome da tachicardia ortostatica Pramipexolo, 330 Presenilina (1 e 2), 298 Primo motoneurone, compromissione del, nella SLA, 345 Progetto Genoma, 24 Progranulina, 25, 310 PROMM (proxymal myotonic myopathy), 429
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Prosopoagnosia, 68 Proteasoma, 300 Proteina - precursore dell’amiloide (APP), 298 - tau, 299 Protrusione discale, 192 Prova - del rimbalzo, 32 - di Romberg, 92 Pseudoipertrofia, 32, 419 Pseudomonas aeruginosa, meningite da, 204 Pseudotabe dorsale, 409 Pull test, 324 Puntura lombare, 21, 207 - nella diagnosi delle demenze, 23 Pupilla tonica di Holmes-Adie, 83 Pursuit, 37, 85 Q QSART (quantitative sudomotor axon reflex test), 110 Quadrantopsie, 81 Quetiapina, 314 R Rachicentesi, 207 Radici spinali, segni di irritazione delle, 205 Radicolopatia lombosacrale in corso di HIV, 223 Radicolopatie, 394 Radiochirurgia stereotassica, 295 Ragged red fibers (RFF), 429 Rasagilina, 330 Recettori - dell’acetilcolina (AChR), 438
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- viscerali, 104 Resting-state, 11 Retinite emorragico-essudativa in corso di HIV, 223 Retropulsione, 40 Riflessi. Vedi anche Riflesso - addominali superficiali (RAS), 34 - cardiovascolari, 110 - osteodendinei (ROT), 33, 34 - policinetici, 33 - valutazione dei, 33-34 Riflesso. Vedi anche Riflessi - corneale, 34 - cutaneo plantare (RCP), 34 - del muso, 34 - dell’accomodazione, 84 - di suzione, 34 - faringeo, 34 - fotomotore, 84 - gabellare 34 - miotattico, 47 - palmo-mentoniero, 34 Rigidità nella m. di Parkinson, 323 Rigor nucalis, 205 Riluzolo, 343 Rimbalzo, prova del, 32 Risonanza magnetica (RM), 8 - “carico lesionale”, 240 - funzionale, 10 - nella sclerosi multipla, 240 - - black holes, 240 - - magnetization transfer (MT), 241 - spettroscopica, 241 Ritmo cardiaco, turbe del, sincope da, 114 Rituximab nella miastenia gravis, 443
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Rivastigmina, 314 Ropinirolo, 330 ROT. Vedi Riflessi osteotendinei rtPA nell’ictus ischemico, 260, 261, 262, 263 S Saccadi, 85 Sarcoglicanopatie, 423 Sarcoidosi, complicanze neurologiche della, 458 SCA (spinocerebellar ataxia). Vedi anche Atassie spinocerebellari SCA1, 355 SCA2, 355 SCA3, 355 SCA6, 355 SCA7, 355 SCA17, 356 SCA28, 356 Scala - di Hunt e Hess, 282 - di Marshall, 171 - WFNS (World Federation of Neurological Societies), 282 Schwannoma, 197 Sclerosi concentrica di Balo, 233 Sclerosi laterale amiotrofica (SLA), 299, 344 - accumuli proteici nella, 298 - diagnosi differenziale, 342 - e compromissione del primo motoneurone, 345 - e compromissione del secondo motoneurone, 346 - e demenza, 341, 345 - - relazione tra, 345 - esame obiettivo, 344 - forma bulbare, 342 - forma di Vulpian-Bernhardt, 342 - forma pseudopolineuropatica, 315
1033
- forma spinale, 342 - genetica della, 341 - geni coinvolti nella, 340 - terapia, 343 - varianti cliniche, 343 Sclerosi laterale primaria (PLS), 345 Sclerosi multipla (SM), 14, 233-248, 475 - bande oligoclonali nella, 23 - complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) nella, 236 - complicanze, 246 - decorso e prognosi, 244-245 - diagnosi e criteri diagnostici, 242 - diagnosi differenziale, 242 - epidemiologia, 234 - esami bioumorali e strumentali, 240 - eziopatogenesi, 235 - farmaci immunomodulanti nella, 245, 247 - - alemtuzumab, 246 - - dimetilfumarato, 246. 247 - - fingolimod, 246, 247 - - glatimer acetato, 247 - - interferone beta, 246 - - natalizumab, 246 - - teriflunomide, 246. 247 - farmaci immunosoppressori nella, 247 - - azatioprina, 247 - - ciclofosfamide, 247 - - mitoxantrone, 247 - forme cliniche, 244 - prevenzione delle ricadute, 245 - primariamente progressiva (SMPP), 244 - quadri clinici, 237 - recidivante-remittente (SMRR), 244 - secondariamente progressiva (SMSP), 244
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- sindrome atassica nella, 359 - trattamento, 245-248 Scotoma, 81, 477 - e macchia cieca, 81 Scrapie, 227 Scrittura, analisi della, nelle afasie, 60 Secondo motoneurone, compromissione del, nella SLA, 346 Segno - della tendina, 93 - di Babinski, 34, 238 - di Brudzinski, 205 - di Froment, 400 - di Gowers, 420 - di Kernig, 205 - di Lasègue, 205, 401 - di Lhermitte, 56, 401 - di Romberg, 40, 475 Selegilina, 330 Sensazioni aberranti, localizzazione delle, 51 Sensibilità - combinate, valutazione delle, 54 - profonde, 52 - - valutazione delle, 52 - propriocettive, 44 - somestesiche, 44 - superficiali, 44, 51 - - valutazione delle, 51 - tattile, 51 - termica, 52 - vie della, 44 Serratia marcescens, meningite da, 204 Sezione midollare completa, 56 Shock midollare, 99 Sialidosi, 377
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Siderosi superficiale, atassia da, 359 Sifilide meningovascolare, 212 Simultanagnosia, 75 Sincinesie pendolari, 40 Sincope/i, 112-119, 147 - a polso fisso, 114 - cardiogena, 114 - - e morte improvvisa, 115 - da cardiopatie, 114 - da deglutizione, 116 - da furto della succlavia, 113, 114 - da immersione (tuffo), 117 - da ipotensione ortostatica, 114 - da nevralgia del glossofaringeo, 116 - da sforzo, 114 - da stiramento, 117 - da tosse, 116 - da turbe del ritmo cardiaco, 114 - diagnosi, 117 - forme cliniche, 115-117 - minzionale, 116 - postprandiale, 117 - primarie, 115-117 - riflessa, 108, 133 - secondarie, 117-119 - sintomatologia, 115 - terapia, 119 Sindrome. Vedi anche Sindromi - alogica, 307 - atassia-teleangectasia like, 353 - centromidollare, 98 - - di Schneider, 187 - cerebellare (variante di Oppenheimer-Brownwell), 228
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- commissurale, 56 - cordonale - - anterolaterale, 56 - - posteriore, 56, 187 - corticobasale (CBD), 228, 313 - da ipersensibilità del seno carotideo, 115 - da lesione trasversa del midollo, 99 - da sclerosi combinata, 99 - da tachicardia ortostatica (PoTS), 107 - del chiavistello, 38 - del cono/cauda, 187 - del cordone posteriore, 99 - del foro lateroposteriore, 96 - del pronatore rotondo, 399 - del seno cavernoso, 271 - del tunnel carpale, 399 - del tunnel tarsale, 401 - dell’angolo pontocerebellare, 96 - dell’apice orbitario, 96 - dell’arteria spinale anteriore, 56 - dell’emibulbo, 97 - dell’uno e mezzo, 86 - dell’uomo rigido, 32 - della cauda equina, 100, 471 - della fessura sfenoidale, 96 - della parete laterale del seno cavernoso, 96 - delle apnee ostruttive del sonno (OSAS), 133 - delle corna anteriori, 98 - delle corna posteriori 98 - delle gambe senza riposo, 133 - - nella m. di Parkinson, 324 - demielinizzante clinicamente isolata (CIS), 244 - dAdie, 109- dAndersen-Tawil, 426- dArgyll-Robertson, 84- dBalintHolmes, 75- dBenedikt, 97- dBrown-Séquard, 56, 100, 187, 192-
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dClaude, 97- dClaude-Bernard-Horner, 84, 109- dCoats, 424- dDéjérineKlumpke, 397- dDuchenne-Erb, 396- dFoix, 96- dFoville-Millard-Gubler, 97- dFoville, 85, 97- dGarcin, 96- dGerstmann, 75- dGerstmannStraussler-Scheinker(GSS), 62, 229, 298 - di Gradenigo, 96 - di Guillain-Barrè, 36, 106, 403 - di Horner, 106 - dJanz, 40 - dJubert, 351 - dKallmann, 80 - dKearns-Sayre (KSS), 372 - dKennedy-Alter-Sung, 347 - dKorsakoff e alcolismo cronico, 452 - dLeigh, 373 - dLowe, 369 - dMay-White, 357 - dMiller-Fisher, 359, 406 - dParinaud, 86, 97 - dParsonage-Turner, 396 - dPearson, 372 - dPourfour du Petit, 84 - dRefsum, 351 - dRemak, 396 - dRollet, 96 - dSegawa, 335 - dShapiro, 106 - dShy-Drager, 326 - dSicard-Collet, 96 - dSjogren, complicanzeneurologiche da, 457 - dStiff-Person, 106 - dStrümpell-Lorrain, 346 - dTapia, 96 - dTolosa-Hunt, 165 - dTourette, 40
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- dVillaret, 96 - dWallenberg, 97 - dWeber, 97 - dWernicke-Korsakoff e demenza, 318 - dWilson, 352 - dZellweger, 381 - elettroclinica, 142 - frontale, 73 - FXTAS (tremore e atassia associata a X fragile), 337 - laterale bulbare tipo Babinski-Nageotte, 97 - miastenica di Lambert-Eaton, 444 - - elettromiografia con stimolazione ripetitiva nella, 445 - midollare anteriore, 187 - oculocerebrorenale, 369 - opsoclono-mioclono, complicanze neurologiche da, 454 - POEMS, 413 - post-polio, 226 - tabetica, 55 Sindromi. Vedi anche Sindrome - afasiche, classificazione, 61 - alterne, 96-97 - bulbari, 97 - complete del circolo anteriore (TACS), 258 - coreiche, 332-334 - da compressione midollare, 100 - da intrappolamento, 397, 398 - da lesione trasversa del midollo, 99 - del circolo posteriore (POCS), 258 - distoniche, 334-336 - encefaliche, 57 - epilettiche, classificazione, 142 - lacunari (LACS), 258 - mesencefaliche, 97
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- miasteniche congenite, 445 - miasteniche iatrogene, 445-446 - midollari, 56. 98-100 - - cordonali, 98 - - cordonali-segmentarie associate, 99 - - midollari segmentarie, 98 - neurologiche paraneoplastiche, complicanze neurologiche di, 453 - parziali del circolo anteriore (PACS), 258 - pontine, 97 - radicolari, 56 - sensitive - - periferiche, 54 - - periferiche e midollari, caratteristiche delle, 55 - - topografiche, 54 Singhiozzo, 40 Sinucleinopatie, 326 Siringomielia, 186 Sistema - attenzionale supervisore (SAS) 71 - autofagico-lisosomiale, 300 - extrapiramidale, 29 - lemniscale, 46 - nervoso centrale (SNC) - - infezioni del, 201-231 - - tumori del, 288 - nervoso vegetativo (SNV) - - anatomia funzionale del, 104 - - esame obiettivo del, 109-112 - - segni e sintomi di disfunzione, 105 cardiovascolare, 105 dei meccanismi vasomotori, 108 della termoregolazione, 108 misurazione della pressione arteriosa nelle, 109 gastrointestinale, 100-109
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genitourinaria, 109 oculare, 109 - - valutazione strumentale del, 110 - parasimpatico, 104, 105 - simpatico, 104, 105 - spinotalamico, 45-46 - trigeminale, 47 - ubiquitina-proteasoma, 300 SLA. Vedi Sclerosi laterale amiotrofica SMA (spinal muscular atrophy), 347 SNV. Vedi Sistema nervoso vegetativo Somatoparafrenia, 75 Sonno, 128-134 - disturbi del, 130, 134, 147 - - circadiani del, 131, 133 - - trattamento, 131 - macrostruttura del, 128 - microstruttura del, 129 - neurofisiologia del, 128 - non-REM, 128 - REM, 128 - - disturbo comportamentale del, 134, 314 Sordità verbale pura, 63 Sostanza grigia periacqueduttale, 47 Spasmo epilettico, 140 SPECT (single photon emission computed), 11 - con L123IJFP-CIT, 314 Spettroscopia in risonanza magnetica, 9 Spliceopatie, 429 Spondilodiscite, 197 Spondilolistesi istmica e degenerativa, 195 Stati - carenziali, complicanze neurologiche da, 451 - di coscienza, fisiopatologia degli, 123
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Stato - confusionale, 125 - di coscienza, alterazioni dello, 482-485 - di male epilettico, 143-146 - - classificazione, 144, 145 - - non convulsivo, 144 - - convulsivo, 144 - - terapia, 151 - di minima coscienza, 125 - soporoso, 125 - vegetativo, 125 Stenosi - carotidee, terapia chirurgica, 266 - del canale lombare, 196 Stent retriever, 263 Stenting carotideo, 268 Steppage, 400 Stereoagnosia, 69 Stereoanestesia, 54 Stereoestesia, 54 Stimolazione cerebrale profonda nella m. di Parkinson, 332 Stimolo doloroso, 52 Strabismo, 77 - paralitico, 83 Streptococcus pneumoniae, meningite da, 203 Stress ossidativo, 26 Stridor notturno, 112 Stroke syndromes, 257, 258 Stroke Unit, 263 T Tabe dorsale, 213 Tacrolimus nella miastenia gravis, 443 Talamo, 48-49
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- lesioni del, 57 Tallonamento, 37 Taupatie, 310 TDP-43 (TAR DNA-binding protein), 25, 310 Test - del labirinto, 72 - del respiro profondo, 110 - della “torre di Londra”, 72 - per la valutazione del SNV - - di funzionalità cardiovagale, 111 - - di funzionalità del baroriflesso, 111 - - di funzionalità gastrointestinale, 110 - - di funzionalità genitourinaria, 110 - - di funzionalità simpatoadrenergica, 111 - di memoria, 72 - di Romberg, 37 - di Schirmer, 112 - di Stroop, 71 - go-no go, 71 - ortostatico, 110 Tetraparesi, 471 Tetraplegia, 36 TIA. Vedi Attacchi ischemici transitori Tilt test, 110 Timectomia nella miastenia gravis, 4444 Tinnito, 90 Tiroidite di Hashimoto e demenza, 318 Tolcapone, 329 Tomografia computerizzata (TC), 7 - perfusionale, 9 Tono muscolare, palpazione e valutazione del, 32 Topoestesia, 54 Torcicollo, 40
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- spasmodico, 335 Toxoplasma, infezione da, in corso di HIV, 223 Tratto ottico, lesione del, 81 Trauma - cranico, 169-183 - - classificazione clinica di gravità, 170 - - classificazione GCS (Glasgow Coma Scale), 171 - - classificazione tomografica di gravità, 171 - - complicanze tardive, 180-183 - - grave e ipertensione endocranica, 179 - - principi di trattamento, 177-179 - - riabilitazione, 183 - spinale, 183-189 - - principi di trattamento, 188 - - steroidi nel, 188 Tremore - a riposo, 39 - cinetico, 37 - di Holmes, 39 - distonico, 40 - essenziale, 39, 326, 336-337 - intenzionale, 37 - nella m. di Parkinson, 323 - ortostatico, 39 - parkinsoniano, 323 - posturale, 39 Triade di Hakim, 261 Triangolo di Guillain-Mollaret, 336 Trofismo muscolare, disturbi del, 31 Trombectomia - d’urgenza nell’ictus ischemico, 260, 263 - meccanica, 262-263, 469
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Trombolisi - endovenosa in urgenza, 469 - intrarteriosa, 469 Tromboaspirazione, 263 Trombosi - del seno cavernoso, 96 - dell’arteria basilare, 483 - venosa intracranica e cefalea acuta, 468 - venose cerebrali, 271, 483 - - e cefalea acuta, 464 - - diagnostica per immagini, 272 - - eziologia, 271 - - fattori di rischio, 272 - - prevenzione, 277 - - trattamento, 273 Tronchi nervosi, patologie dei, 397-415 Tronco, lesioni del, 57 Tubercoloma cerebrale, 211 Tumori spinali, 197 - extradurali, 197 - intradurali extramidollari, 197 - intradurali intramidollari, 198 U Ubiquitina, 300 Ubiquitinazione, 300 Unità motoria, 29 Unità motorie, alterazioni funzionali delle, 31 Urgenze neurologiche, 461-485 V Vasculite del SNC, complicanze neurologiche da, 457 Vasospasmo, 283 Vertigine
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- acuta, flow-chart diagnostica, 476 - centrale, 475 - centrale e periferica, 91 - periferica, 474 Vescica neurogena paralitica, 109 Via spinocerebellare, 47 Vie visive, 80 - lesioni delle, 81-82 Vigilanza, 70 Virus - di Epstein-Barr (EBV), encefalite da, 218 - JC, infezione da, in corso di HIV, 223 - varicella-zoster (VZV), encefalite da, 217 Vitamina B12, complicanze neurologiche da deficit di, 451 W Wisconsin card sorting, 71 X Xantocromia del liquor, 22 Xantomatosi cerebrotendinea, 351 Xeroderma pigmentosus, 353
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FIGURA 20.5 Atassia-teleangectasia: evidenza di teleangectasie dei vasi congiuntivali.
FIGURA 21.1 Reperto istochimico della biopsia muscolare in un caso di encefalomiopatia
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mitocondriale: (A) fibre negative alla reazione per la citocromo-ossidasi; (B) fibre ragged red alla reazione di Gomori modificata.
FIGURA 21.7 Macchia rosso-ciliegia al fondo dell’occhio in un caso di sialidosi infantogiovanile.
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FIGURA 21.8 Reazione di Filipin per la diagnosi di malattia di Niemann-Pick tipo C nei fibroblasti in coltura: i pazienti affetti da turba nel trasporto del colesterolo mostrano una abnorme positività a tale colorazione, assente nei controlli.
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FIGURA 21.10 Reperti anatomopatologici della leucodistrofia metacromatica: (A) reperto macroscopico che evidenzia la demielinizzazione, (B) reperto microscopico della demielinizzazione con risparmio delle fibre a U; (C) corpi metacromatici; (D) macrofago con citoplasma vacuolato, evidente nella mielobiopsia.
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FIGURA 21.12 Anello di Kayser-Fleischer nella malattia di Wilson.
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FIGURA F23.1 Biopsia muscolare. Infiltrati infiammatori di tipo vasculitico in un caso di dermatomiosite (in alto, a destra) e perifascicolari in un caso di polimiosite (in alto, a sinistra). La natura infiammatoria del quadro è confermata dall’aumentata espressione di MAC (complement membrane attack complex) in casi di polimiosite rispetto a un muscolo normale (in basso).
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FIGURA F23.2 Biopsia muscolare. Aspetto normale di una sezione trasversa colorata con tricromica di Gomori (in alto, a sinistra) in confronto a una sezione ottenuta da un soggetto affetto da distrofia muscolare di Duchenne (in alto, a destra), dove le fibre sono ipotrofiche o in necrosi e la componente connettivale è aumentata. Nelle due immagini inferiori è dimostrata con una metodica di immunofluorescenza la localizzazione della distrofina in un muscolo normale (a sinistra), mentre la proteina èquasi o del tutto assente nel muscolo distrofico (a destra).
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