Convenzione e materialismo. L'unicità senza aura 8865480149, 9788865480144


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Italian Pages 192 [164] Year 2010

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Convenzione e materialismo. L'unicità senza aura
 8865480149, 9788865480144

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Questo libro è una polaroid delle forme di vita contemporanee e una critica niente affatto diplomatica delle ideologie postmoderne. Scritto subito dopo la sconfitta dei movimenti rivoluzionari degli anni Sessanta e Settanta, traccia una strada filosofica e politica per sfuggire sia alla nostalgia del passato, coltivata dalla sinistra patetica, sia all’apologia del presente, intonata da quanti si affrettano a correre in soccorso del vincitore. Virno affronta qui, per la prima volta, una questione che in seguito avrebbe fatto versare fiumi di inchiostro: la piena identità tra lavoro e linguaggio, produzione materiale e comunicazione simbolica. Benjamin, Heidegger, Marx, Wittgenstein, linguisti ed epistemologi sono chiamati in causa dall’autore come una «cassetta degli attrezzi’) utile a decifrare quel che ha trasformato in profondità i rapporti sociali, le biografie dei singoli, le passioni e i conflitti. Non storia della filosofia, ma filosofia applicata al presente. La riedizione rivista di un libro che ha segnato lo sviluppo del pensiero critico in Italia e non solo.

((Questo libro, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta con evidente povertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: la struttura ossea di ciò che chiamiamo “esperienza”, il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguaggio. Conta qualcosa, però, la stagione in cui mi sono dedicato a questi temi non stagionali. Proprio allora, infatti, la sconfitta dei movimenti rivoluzionari in Occidente sprigionava i suoi effetti più ruvidi sullo spirito del tempo, modificando in fretta forme di vita e stili di pensiero. In quel periodo fu rotta la schiena agli operai delle grandi fabbriche, che avevano tentato di fondare, con la sapienza e la spregiudicatezza tipiche di ogni autentica assemblea costituente, una repubblica da cui fosse messo al bando il lavoro salariato. Tra il 1980 e il 1985, transitarono per le carceri italiane circa cinquemila militanti politici; la casa editrice Feltrinelli espulse dal suo catalogo le opere di Antonio Negri; invalse l’uso, disincantato e stucchevole a un tempo, della parola “fidanzato/a” per indicare la persona amata; cominciò quella metamorfosi tumultuosa del processo produttivo che per lungo tempo sarebbe stata incasellata con l’etichetta pigra di “postfordismo”. Senza proporselo esplicitamente, il libro fu anche un tentativo di afferrare con il pensiero questo passaggio d’epoca, assai più radicale, credo, del successivo crollo senza onore del “socialismo reale”. È abbastanza naturale che nell’ora del pericolo, quando

DeriveApprodi 93

© 2011 DeriveApprodi sri Tutti diritti riservati I edizione edizioni Theoria: settembre 1986 li edizione rivista e corretta: febbraio 2011 DeriveApprodi sri piazza Regina Margherita 27 00198 Roma tel 06 85358977 fax 06 97251992 [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico di Andrea Wòhr immagine di copertina: Antonio Sanfihppo, Senza l7toIo E3, 1953, tempera e china su carta L’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto ISBN 978-88-6548-014-4

DeriveApprodi

Paolo Virno

Convenzione e materialismo L’unicità senza aura



Prefazione alla nuova edizione gennaio 2011

Questo libro, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta cori evidente po vertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: la struttura ossea di ciò che chiamiamo «esperienza», il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguag gio. Conta qualcosa, però, la stagione in cui mi sono dedicato a questi temi non stagionali. Proprio allora, infatti, la sconfitta dei movimenti rivoluzionari in Occidente sprigionava i suoi effetti più ruvidi sullo spirito del tempo, modificando in fretta forme di vita e stili di pensiero. In quel periodo fu rotta la schiena agli ope rai delle grandi fabbriche, che avevano tentato di fondare, con la sapienza e la spregiudicatezza tipiche di ogni autentica assemblea costituente, una repubblica da cui fosse messo al bando il lavoro salariato. Tra il 1980 e il 1985, transitarono per le carceri italiane circa cinquemila militanti politici; la casa editrice Feltrinelli espul se dal suo catalogo le opere di Antonio Negri; invalse l’uso, disin cantato e stu.cchevole a un tempo, della parola «fidanzato/a» per indicare la persona amata; cominciò quella metamorfosi tumul tuosa del processo produttivo che per lungo tempo sarebbe stata incasellata con l’etichetta pigra di «postfordismo». Senza proporselo esplicitamente, il libro fu anche un tentativo di afferrare con il pensiero questo passaggio d’epoca, assai più ra dicale, credo, del successivo crollo senza onore del «socialismo reale». È abbastanza naturale che nell’ora del pericolo, quando tutto è in bilico, si sia spinti ad allargare lo sguardo a certi proble mi di fondo, logici o etici, della vita umana. Ma è altrettanto natu rale che una riflessione rinnovata sui problemi di fondo, rilevanti

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da sempre, serva a stringere meglio la presa su quel che sta acca dendo proprio ora. Non si tratta soltanto di una questione di meto do. Dai primi anni Ottanta in poi, il processo di produzione capi talistico non ha fatto che mobilitare a proprio vantaggio alcuni tratti invarianti della nostra specie: la facoltà di linguaggio, la fles sibilità connessa alla mancanza di un ambiente rigidamente defi nito, la familiarità con il possibile e l’imprevisto ecc. Sicché, per comprendere l’attuale processo di produzione capitalistico, è davvero opportuno, anzi indispensabile, soffermarsi sui tratti in. varianti della nostra specie. Ma queste, mi rendo conto, sono con siderazioni retrospettive. Il compito più urgente, a quel tempo, consisteva nel coniare concetti che eludessero in un colpo solo le due inclinazioni preva lenti: nostalgia per la situazione precedente o isterica apologia del presente. Concetti in rotta di collisione sia con l’illuminismo senza luce di Habermas, sia con la sinistra euforia dei filosofi po stmoderni. Concetti capaci di esprimere, come voleva Benjamin, «una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciò no nostante un pronunciarsi senza riserve per essa». L’importante era passare a contropelo la grande trasformazione in corso, così da scorgere nei suoi esiti un potenziale campo di battaglia. L’impor tante era mettere mano a una filosofia che contenesse più cose di quante sembravano essercene tra cielo e terra. Questo libro non riesce a conseguire appieno gli obiettivi che si prefigge. Troppo spesso si contenta di allusioni ammiccanti. Talvolta si infila in vicoli ciechi e, quel che è peggio, li spaccia per continenti finalmente scoperti. Se lo ripubblico a distanza di quasi trent’anni, non è soltanto perché esso, malgrado tutto, espone alcune idee che mi paiono ancora oggi non spregevoli o addirittura promettenti: il vero motivo è che il programma di ri cerca che lo ispira rimane, per me, valido sotto ogni profilo. Le pa gine meno difettose del libro devono qualcosa alla tradizione del l’operaismo italiano e a due saggi di Giorgio Agamben, Infcrnzia e storia (I’9) e Il linguaggio e la morte (1982). E devono di certo qualcosa anche alle conversazioni con Lucio Castellano, Luciano Ferrari Bravo, Franco Tommei, amici dal pensiero sfrontato e pieno di grazia con cui allora ho spartito molto tempo e poco spa zio, e che ora non ci sono più. Non ho aggiunto né tolto alcunché rispetto all’edizione origi nale (Theoria, 1986). Questo è e resta un libro degli anni Ottanta. Sono intervenuto spesso, invece, sulla forma espositiva, cercando 6

di rendere scorrevoli i passi troppo contorti. La prosa che do alle stampe (grazie all’interessamento affettuoso di Sergio Bianchi e Ilaria Bussoni, il cui lavoro editoriale in DeriveApprodi serba sem pre una tonalità etica) non ha molto in comune cori la mia prosa at tuale, ma mi sembra che tra le sue pecche non ci siano più l’oscu rità e l’infatuazione per il sottinteso.

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Nota alla prima edizione Giorgio Agarnben 1986

Che cos’è l’«unicità senza aura», che costituisce il punto di fuga verso il quale convergono le diverse linee di ricerca di questo libro di Virno? Negli anni Trenta Benjamin cercò di introdurre nella teoria dell’arte concetti che, nelle sue intenzioni, «non avrebbero potuto in nessun modo essere utilizzati dal fascismo». A questo fine, con lo sguardo sgombro da ogni nostalgia, contrappose la ri producibilità tecnica e la fruizione massificata all’unicità e all’irri petibilità proprie dell’esperienza artistica del passato, rivendican do la polarità positiva di quella che egli chiamava «perdita dell’au ra» nell’arte del suo tempo. Virno fa un passo oltre: mantiene la perdita dell’aura, ma la coniuga all’esigenza dell’«unica volta» e dell’irripetibile che ne costituivano i caratteri essenziali: una unici tà priva di aura, appunto. Come nel volto femminile che ci guarda da una vecchia fotografia (che è, a prima vista, quanto di più ste reotipo), l’obiettivo ha colto invece una singolarità irripetibile, che sembra esigere da noi il nome di quella creatura e ci obbliga a chie derci come baciava quella bocca e qual era il timbro della sua voce, così il seriale diventa ora il luogo di elezione in cui si attinge l’uni cità di una esperienza singolare. Questo punto di vista fa saltare quella sterile dialettica tra indi viduale e collettivo, tra ineffabilità del sensibile e generalità dell’in tellegibile che ha condannato al fallimento l’esperienza politica moderna. Si tratta, insomma, di pensare non tanto l’universalità e la comunità di ciò che è unico, quanto l’unicità e l’irripetibiità di ciò che è comune. L’individuo non è ineffabile, ma è un eccesso di comunicazione: la sua singolarità e la sua contingenza non sono quelle dell’atomo, ma quelle del clinamen, l’attitudine di ciò che è

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unifonne a deviare spontaneamente dalla propria necessità. La singolarità, che merita cura e salvezza, è ciò che non è necessario che sia, ma che può essere, se, come nella vecchia fotografia, riu sciamo a coglierne l’irripetibile occasione: un «sensibile eterno» secondo la malevola, ma esatta, definizione aristotelica dell’idea platonica. Nel corso degli anni Settanta, in Europa, una generazione di sincantata ma non disperata, si affacciò sulla scena per rivendica re non la politica come sfera autonoma e totalitaria, ma la comuni tà etica delle singolarità; non la storia come continuità lineare, ma la sua realizzazione troppo a lungo differita; non il lavoro econo micamente finalizzato alla produzione di merci, ma un’inoperosi tà priva di scopi e, tuttavia, non improduttiva. Unicità senza aura: potrebbe ben essere questo il nome che riassume in sé quanto di meglio si è dato e progettato in quel tempo. A meno di dieci annidi distanza, questo progetto appare remoto. Anche una rapida oc chiata mostra, però, che le esigenze che erano state affacciate non hanno trovato risposta o, peggio, hanno ricevuto un appagamento parodico e contraffatto. Una generazione che non era peggiore di quelle che l’avevano preceduta si è andata, così, adagiando in un nichiismo cinico e dolciastro, rifluendo nell’eclettismo postmo dernista o, nel migliore dei casi, arroccandosi nel pathos della tra gedia e del misticismo. Ma l’immagine irripetibile che ci guarda dalle fotografie, precocemente sbiadite, del nostro passato recen te, chiede ancora di essere salvata, aspetta ancora redenzione. Tra i molti meriti del libro di Virno, è anche questo: nel gesto ri soluto con cui la sua riflessione si muove agilmente in àmbiti di versi come l’epistemologia e la retorica, l’etica e la storia della filo sofia, quell’immagine resta tuttavia ben visibile; ed è guardando ad essa senza nostalgia né rinunce, che egli si afferma come una delle voci più lucide e originali del pensiero italiano di oggi.

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«Il pensiero si realizza» vuoi dire quindi «si rende oggetto dei sensi». L. FEUERBACH Quando si astrae si distoglie, sì, l’attenzione da molti elementi sensibili, ma la si rivolge ad altri nuovi elementi sensibffi, e proprio quest’ultimo è il fatto essen ziale. E. MACH

L’esperienza non è più umi punto di partenza, non è neanche una semplice guida: è unfine. G. BACHELARD Ho tratto spesso un insegnamento

da un film ameri

cano stupido. L. WInGSN5TEIN Una totale mancanza di illusioni nei confronti del l’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi sènza riser ve per essa. W. BENJAMIN

Parte prima

La produzione convenzionale dell rnpeubtle ,,

Premessa

In un brano molto famoso e molto discusso dei Lineamentifonda mentali della critica dell’economia politica (citato talvolta con il titolo apocrifo di «Frammento sulle macchine»), Marx ha dato un ecce zionale risalto ai modi in cui il pensiero astratto, considerato nella sua autonomia dai condizionamenti empirici, forgia le forme di vita della tarda modernità. Egli osserva che «il sapere sociale gene rale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi ]e condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del generai inteilect, e rimodellate in conformità a esso»’. Di grande importanza, per una filosofia teoretica non parodi stica (che eviti, cioè, dimenare vanto della propria programmatica «debolezza»), ma anche per la riflessione etica sulla possibilità di una buona vita, è il concetto di generai intellect, di un intelletto che non appartiene a Mario o a Giovanna, ma, al pari dell’aria che tuffi respiriamo, figura come una risorsa comune della specie. Il pen siero è impersonale: l’«io penso» deve cedere il posto a un più rea listico e decente «si pensa». Ed è pubblico: si insedia cioè nel mondo delle apparenze, esibendo la tipica consistenza dei faffi materiali, incisivo quanto un bacio o una rivolta di strada. Per Marx, nulla è meno interiore e meno solitario della ragion pura. Riconoscere la centralità del general inteile è un passo carico di conseguenze dirompenti. Perdono ogni verosimiglianza le analisi tradizionali della società capitalistica, e molti capisaldi della mo derna teoria politica si riducono a cianfrusaglie di pessimo gusto. Un esempio soltanto. Marx sostiene che il sapere astratto si avvia a diventare, proprio in virrii della sua indipendenza dalla produzio ne, niente di meno che la principale forza produffiva, relegando il

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lavoro parcellizzato e ripetitivo in una posizione marginale: «Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel fratteinpo». Salvo aggiungere che il capitale continua imperterrito a «misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro». L’origine delle crisi perio diche dell’economia contemporanea sta proprio qui: nella contrad dizione stridente tra la realtà del processo produttivo, che ormai fa leva su quella potenza collettiva che è il generai inteliect, e una unità di misura della ricchezza ancora coincidente con la quantità di la voro erogata dai singoli individui. È bene avvertire che di questi temi, pur così rilevanti per l’azio ne politica, il libro non si occupa. Il suo obiettivo è rendere conto della trasformazione che ha investito la stessa nozione di esperien za nell’epoca in cui «le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del generai inteiiect, e rimodellate in con formità a esso». Che ne è della percezione sensibile, del piacere e del dolore, delle abitudini e delle passioni, di tutto ciò che rende unica e irripetibile una biografia, allorché i fatti e le cose in cui ci imbattiamo non sono altro che idee materializzate, astrazioni più reali di una rosa o di un terremoto, spirito incarnato? Per rispondere, occorre allontanarsi da Marx e rinunciare di buon grado a ogni strumentazione teorica unitaria. Del generai in tellect si parlerà di continuo nelle pagine seguenti, ma quasi sem pre sotto altri nomi. Ecco alcuni degli argomenti trattati: la ripro ducibiità tecnica di immagini, eventi, enunciati (nel tentativo di capovolgere, almeno in parte, il punto di vista adottato da Benja mm); la chiacchiera e la curiosità (contro la condanna emessa da Heidegger al loro proposito); l’epistemologia convenzionalista e la sua segreta alleanza con il sensismo; la semantica dei linguaggi formalizzati alla luce del montaggio cinematografico; il «principio di individuazione», ovvero la derivazione del singolare dall’imper sonale; la progressiva coincidenza tra lavorare e parlare, o, in ter mini più aulici, tra agire strumentale e agire comunicativo (in evi dente polemica con Habermas). Il generai inteliect è uno di quegli oggetti teorici che si lasciano descrivere con precisione solo se ci si avvale di a categorie tra loro eterogenee. Uno di quegli oggetti che esigono una filosofia incline al moto centrifugo, capace di soppor tare un elevato grado di dispersione.

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L’uflicità priva di aura

Sia pure variando di continuo l’angolo prospettico, in questo sag gio è pensato un pensiero solo: la genesi della differenza dall’inva riante, dell’irripetibile dal convenzionale, del contingente dal ne cessario. Unicamente in virtt di questa genesi, la differenza, l’irri petibile, il contingente tornano a pieno diritto al centro della riflessione materialistica: a condizione, cioè, di avere a presuppo sto la potenza delle astrazioni intellettuali e lo scatenamento inte grale delle forze produffive tecnico-scientifiche. A voler essere po lemici: la differenza, l’irripetibile, il contingente rimangono mac cessibii a chi, nell’evocarli, nutre nostalgia per un infame «buon tempo andato» o intona un trepido elogio della marginalità. Quel che nell’esperienza contemporanea è imprevedibile e può suscitare uno stupore genuino non costituisce l’antefatto cao tico dei linguaggi formalizzati, ma, tutt’al contrario, deriva dal loro pieno clispiegamento, insorge sulla base della loro incidenza prati ca. Lo stato d’animo per cui mancano parole, o per cui ricorriamo a parole approssimative ed equivoche, viene dopo tutto ciò che può essere detto e detto con precisione cogente: ne è l’esito ricco. È evidente che non ci si limita, qui, a segnalare l’incessante contaminazione reciproca tra formalizzaziOne e spontaneità. Non vale la pena cli insistere una volta di più sulla presenza massiccia di elaborate convenzioni e dileggi ineludibili anche nell’esperienza più sorprendente e innovativa. Questa commistione è innegabile, ma, di per sé, non spiega nulla. Per muovere un passo oltre l’ovvio, bisogna chiedersi piuttosto se la spontaneità non sia da intendere come un risultato della formalizzazione. Si pone così il problema di stabilire un nesso, non tanto causale, quanto produttivo fra ciò che è convenzionale e ripetitivo e ciò che è unico. 15

I)i nessun interesse sono le difficoltà ìncontrate alloro debutto dalle tecniche che mirano a riprodurre illimitatamente ogni frarn riiento della realtà: opere d’arte, stati di cose, azioni, discorsi. Non sono certo in questione gli intralci o i ritardi nell’assimilazione delle connessioni singolari dell’esperienza da parte di una regola rità artificiale. Non una protratta compresenza di «autentico» e convenzionale, ma soltanto il prevalere senza riserve del secondo, permette di pensare da capo l’unicità, Quest’ultima si dà nuova mente a vedere, ma senza più accampare pretese di autenticità, proprio a partire dalla soglia storica in cui la percezione irnmedia ta ha per oggetto esclusivo l’identico e il seriale. Capovolgendo la tesi di Walter Benjamin, si può affermare che ciò che è unico èfrutto di una riproducibilità intensificata. «La libera zione dell’oggetto dalla sua guaina, la distruzione dell’aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a tal punto che essa, me diante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico». C’è un solo modo, che non sia stucchevole, di assen tire ancora oggi a questa analisi: è quello di spinger]a alle estreme conseguenze, fino a farle compiere per intero la parabola in essa solo implicita. Per afferrare il proprio tempo col pensiero, occorre spostare l’attenzione dalla dissoluzione dell’esperienza tradiziona le per effetto della riproducibiità all’affermazione positiva, a tutto tondo, di una esperienza nuova grazie alla riproducibiità. E sia chiaro che si parla qui di ‘esperienza’ nella sua più classica accezio ne: singolare, differenziata, irripetibile. Essa è diventata possibile, ormai, solo attraverso la mediazione dell’fflimitata riproducibiità dei suoi elementi costituenti. Parafrasando Benjamin, e con ciò se gnando a un tempo una fedeltà e un distacco, si può dire che, una volta affermatasi senza residui la riproducibilità tecnica, quando essa predetemiina compiutamente i modi della percezione, allora è venuto il momento di fare luce sulla formazione di una sensibilità che attinge una unicità senza aura in ciò che è riproducibile.

La nozione stessa di riproducibiità è connessa in modo vinco lante a quella di esperimento. Non si dà l’una senza l’altra. L’unica realtà prpriamente riproducibile è la realtà stabilita dal]’esperi. mento fisico, mentre irriproducibile e perfino scarsamente coinu nicabile resta il fenomeno empirico-sensibile, contraddistinto da una miriade di determinazioni qualitative e contingenti. Ma i6

l’esperimento, come si sa, è quanto di meno mimetico e «realisti co» sia dato immaginare. Esso poggia in modo confesso su una congettura estranea ai sensi, non desurnibile dai fhtti osservabili. L’esperimento si presenta quindi come un concetto incarnato, il cui avvento-verifica nel mondo sensibile comporta una inventiva costruzione dell’esperienza, la produzione di fenomeni del tutto ine diti, mai la semplice registrazione del dato empirico. L’esperimen to, ovvero la matrice del riproducibile, è l’esatto contrario, il rove sciamento radicale di qualsivoglia procedimento conoscitivo basa to sulla riproduzione dei fenomeni, sulla ricezione passiva di . 5 quanto in essi appare uniforme e ricorrente Nella Fenomenologia dello spirito, Hegel ha scritto una pagina il luminante su questo apparente paradosso, secondo il quale può es sere imitato soltanto ciò che si guarda bene dall’imitare alcunché. L’idealismo assoluto aiuta a comprendere la natura dell’esperi mento, situando il modo di interrogare la natura di Galilei agli anti podi della tradizione empirista. Leggiamo: «A maggior ragione [con l’esperimento] la legge sembra così venir tuffata nell’essere sensibile; ma, anzi, in questo processo l’essere sensibile va perdu to. Tale indagine ha l’intimo significato di trovare condizioni pure della legge: il che (se anche la coscienza che così si esprime dovesse ritenere di dire cosa diversa) non ha altro significato che quello d’innalzare interamente la legge alla figura del concetto, e di elimi . Ed ecco fissata 6 nare ogni aderenza dei suoi momenti all’esserci» la procedura logica mediante la quale, nel corso dell’esperimento, le astrazioni concettuali adattano a sé gli stati di cose empirici: «in tal modo il risultato delle ricerche toglie i momenti o i caratteri ani matori come proprietà delle cose determinate e libera i predicati dai loro soggetti. Questi predicati vengono trovati come universali, il che . La liberazione dei «predicati», o deterrninazio 7 in verità essi sono» ni universali, dai loro «soggetti», o fenomeni sensibili, delinea quella specifica inversione fra astratto e concreto che rende potente e riproducibile anzi: potente percht riproducibile —l’esperimento fisico moderno. In effetti, la riproducibiità dell’esperimento si basa precisamente sul fatto che il suo risultato è un oggetto ideale, o anche, ma è lo stesso, un pensiero materializzato. La riproduzione tecnica, osserva Benjamin, si impone real mente nell’esperienza comune quando è riproduzione di qualco . Tutto sta nel 8 sa già totalmente predisposto alla riproducibilità l’identificare questo «qualcosa» e nel chiarire la natura della sua predisposizione. Il qualcosa concepito già subito come infinita—

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mente ripetibile non è una generalizzazione mentale, ma uno spe cifico paradigma teorico-operativo. Propriamente riproducibile non è il fenomeno sensibile dato, colto nei suoi tratti generici, quando cioè siano messe in risalto le note comuni che lo apparenta no a una intera classe di fenomeni analoghi. Compiutamente ri producibile è, invece, un nuovo fenomeno artficiale, corrispettivo tangibile di una costruzione intellettuale niente affatto miinetica, dotata anzi di un alto grado di arbitrarietà. Ricorrendo a una distinzione adoperata dallo stesso Benjamin a tutt’altro proposito, si potrebbe dire che la riproducibilità tecnica ha origine dall’individualità di una idea, non dalla generalità di un . Quest’ultimo è universale, ma di una universalità solo 9 concetto classificatoria, giacché riconduce il fenomeno dato al genere o alla classe cui appartiene, lasciandolo però così com’è. L’idea, al con trario, è una configurazione intellettuale singolare e qualitativa: in base alla propria struttura radicalmente non empirica, tipica di un «mondo intelligibile», scompone un certo campo fenomenico e poi Io ricompone in una forma medita, dando luogo anche a stati di cose prima ignoti. L’idea, ossia l’ipotesi teorica che si incarna nell’esperimento, appresta un oggetto di pensiero, predisposto a es sere fflimitatamente riprodotto, non a essere generalizzato. Ed è specificamente la realizzazione di una oggettualità ideale-artifi ciale a estendere la riproducibiità anche agli stati di cose dell’espe rienza ordinaria, ben al di là dell’àmbito circoscritto dell’esperi mento scientifico. Come si è detto, ciò che merita di essere pensato con piglio ma terialistico è una rinnovata nozione di esperienza, nel senso pieno e forte del termine, quale si configura sulla base della riproduzio ne tecnica. Dunque una esperienza differenziata e irripetibile, e però fondata interamente sulla ripetibiità e sull’artificialità del l’esperito. La possibilità di essa si dischiude allorché si percepisce in ciò che è riproducibile la sua qualità sempre attuale di esperimento. Questa percezione fa del seriale il luogo in cui si attinge l’unicità, ma una unicità non «autentica» e, quindi, priva di aura.

Sottraendosi alla generalizzazione induttiva del concetto, la ri producibffità tecnica gravita attorno a due poli disomogenei: l’uno ideale, assiomatico, convenzionale; l’altro sensibile e contingente. Anzitutto, cogliendo nel riproducibile il suo carattere di esperi mento, ci si imbatte nella individualità dell’idea. Il sempre-uguale i8

ha origine da una convenzione costruita secondo un criterio quali tativo di singolarità. Di più: proprio e soltanto perché arbitrario, senza equivalenti, irriducibile a una classe, un paradigma teorico permette la realizzazione di qualcosa di artificiale che sia già in se stesso predisposto alla riproducibi]ità. Ma questo paradigma teori co, per quanto originale e inventivo, per quanto costituisca una in dividualità ideale, non ha nulla di autentico: è, per l’appunto, una convenzione. La singolare costruzione intellettuale che sottostà al riproducibile, a causa della sua infondatezza nell’esperienza natu rale e dell’abbandono di ogni pretesa di mimesi, si lascia esperire come sempre soggetta a una alterazione innovativa. Più esatta mente, la convenzione esibisce a mo’ di requisito formale la sua sostituibilità con altra convenzione o paradigma ideale. La riprodu zione tecnica, se percepita sotto il profilo della sua genesi speri mentale, autorizza pertanto a procedere senza limiti di sorta, su qualsiasi scala, a nuovi esperimenti. Autorizza quindi la costruzio ne di ulteriori convenzioni, anch’esse singolari ma non autenti che. In breve, mette in primo piano, nell’esperienza diretta, tutto ciò che, avendo una indole ideale-astratta, si presta a dare inizio a una eventuale serie ripetibile. Il pensiero di una unicità senza aura ha però il suo effettivo banco di prova in certi fenomeni sensibili legati a un fuggevole hic et nunc. Salvo precisare che, nella situazione contemporanea, si ha a che fare con l’hic et nunc prodotto dalla convenzione, dall’esperi mento, dalla riproduzione tecnica, In questione è ciò che in essi, o in loro ragione, si manifesta come contingente e irripetibile. A questa nuova unicità, inconcepibile al di fuori di una esperienza artificiale, fa cenno Benjamin nel suo saggio sulla fotografia: «nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un pudo re così indolente, così seducente, resta qualcosa che non si risolve nell’arte del fotografo Hill, qualcosa che non può venir messo a ta cere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vis suto»’°. E ancora: «Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla mi nima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il caratte re dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano, si annida ari cora oggi il futuro, e con tanta eloquenza che noi, guardandoci in dietro, siamo ancora in grado di scoprirlo»’. Il punto decisivo è che «quella scintilla minima di caso, di hic et nunc», anziché resit9

duo recaicitrante alla serialità, è reso possibile soltanto dalle tecni che di quest’ultima, ossia dal fatto che «la natura che parla alla macchina fotografìca è una natura diversa da quella che parla al 1’occhio»’. Accade così che l’esperienza di un che di irripetibile abbia luogo in virtù di una convenzione. In generale, un modello assiomatico o un linguaggio formaliz zato contengono in sé un fàrmidabile principio di differenziazio ne dei fenomeni sensibili cui si applicano, o meglio, che costruisco no. Infaffi, la combinazione effettivamente realizzata fra un com plesso di regole artificiali e un caso empirico non lascia in ombra, ma evoca immediatamente in tutto risalto le altre innumerevoli combinazioni possibili: è rispetto a queste ultime che il fenomeno empirico, qual è realmente organizzato qui e ora dal paradigma convenzionale, manifesta per intero la sua singolarità. In altri ter mini, proprio perché colto simultaneamente alle eventualità com possibili che l’attorniano, grazie quindi alla sua labilità, il fenome no sensibile risultante da presupposti ideali-artifìciali è isolato e differenziato in modo esaustivo. La convenzione, adempiendo artificialmente all’esigenza di regolarità dell’esperire, sottrae lapercezione del sensibile alla ri cerca dell’analogia e all’attesa di una ripetizione naturale. L’hic et nunc fissato convenzionalmente non è autentico, ma appunto per questo può rivendicare una unicità non attenuabile. L’aura in entrambi i principali significati considerati da Benjamin: sia come valore cultuale, sia come alone di memoria involontaria che si deposita su oggetti e situazioni di esperienza getta attorno a ciò che è unico una rete di protezione dalla fugacità. Viceversa, l’unicità senza aura, elaborata in base a una convenzione, mette in luce ilfugace comefugace. Non ottunde, bensì acuisce la ricezione della contingenza. Nella pescivendola di New Haven fotografata da Hffl «si annida ancora oggi il futuro», ovvero il possibile. Ma la duratura sospensio ne fra molti sviluppi possibili non attiene solo a un istante da lungo tempo trascorso: riguarda in generale l’apprensione di quanto si mostra semplicemente contingente in seguito a una costruzione convenzionale. La sensibilità che attinge una unicità senza aura in ciò che è riproducibile guarda all’hic et nunc più attuale sotto il pro filo delle diverse possibilità di cui esso apparirà carico secondo una considerazione posteriore. L’inimitabiità di un certo istante pre sente risiede nel fatto che in esso non smetterà di annidarsi un fu turo controverso. Questa conservazione integrale della contingen —



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za, ossia dell’insieme di possibilità racchiuse in un particolare hic et nunc, il tratto sistematico di una esperienza in cui ciò che è unico si presenta quale risultato della serialità artificiale. Alla singolarità empirica, determinata come tale attraverso procedimenti convenzionali, si attaglia la più radicale nozione di «possibilità» elaborata dalla tradizione metafisica: quella secondo cui può dirsi possibile solo ciò che, oltre a non essere impossibile (di cui, quindi, non vi è necessità che non sia), non è necessario che sia’. È questa seconda clausola (che, per inciso, attesta la superio rità speculativa della concezione aristotelica della possibilità ri spetto alle logiche modali moderne) a porre il contingente come un ordine compiutamente autonomo. Infatti, ove si definisca il possibile come qualcosa che non è necessario che sia, non si potrà più ritenere il necessario anche possibile. Se x è necessario, allora x non è possibile. Fra le due modalità, stando a questa concezione estrema, non vi è gradazione o commistione, ma una secca di scontinuità di piani. D’altronde, è in ragione ditale discontinuità che il contingente si lascia pensare come soltanto contingente. L’unicità senza aura, in quanto contingenza accentuata, è pre cisamente ciò che non è necessario che sia. In essa persiste l’incom benza del non essere insieme all’eventualità del piacere. Benja mm scrive che la riproducibiità tecnica libera «un campo in cui tutte le intimità scompaiono a favore del rischiaramento del parti colare»: ma in quel dettaglio rischiarato non è un dio a nasconder si, bensì la finitezza del mortale a mostrarsi.

I due aspetti su cui ci siamo soffermati l’individualità ideale della convenzione e la sensibile unicità senza aura devono venir considerati all’unisono. Fra l’astrazione convenzionale e la perce zione di una singolarità incomparabile corre un nesso produttivo: la prima, a sua volta sempre trasformabile o sostituibile, implica la costituzione di nuovi àmbiti empirici di differenza e di contingen za. L’hic et nunc scocca sulla base di un modello teorico-operativo da cui scaturisce una specifica serialità artificiale. È da questo an golo visuale che l’esperienza appare un fine, non un punto di par tenza. Ciò che ora deve venire in primo piano è, in breve, la produ zione convenzionale dell’irripetibile. —



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La chiacchiera, la curiosità, l’equivoco

Subito una digressione: per anticipare, radunandoli in un punto solo, gran parte dei temi destinati ad avere nel seguito più disteso svolgimento. Il pretesto di questo digredire anticipando non po trebbe essere più caratterizzato: alcune famosissime pagine di Heidegger dedicate alla vita quotidiana. La loro stessa notorietà dovrebbe allontanare il sospetto che qui se ne voglia azzardare il commento, o una ulteriore interpretazione. A esse, piuttosto, si ri corre in modo dichiaratamente esteriore, col distacco rispettoso che sempre va mantenuto nei confronti di un ineguagliabile mate riale iconografico. Altrimenti detto, si aderisce a quel genere di ne cessità, che rende inevitabile, riguardo a taluni problemi, espone un pensiero tramite lessico e figure della tradizione che ha confe rito loro il rango di problemi.

Nelle pagine di Essere e tempo, l’identità individuale, ossia l’af fermazione del Se-stesso, coincide con l’essere-per-la-morte e la connessa «decisione anticipatrice». La morte, essendo sempre la mia morte, sottrae allo stato interpretativo pubblico, all’anonimia massificata del Si (si dice, si fa, si crede etc.). L’autenticità dell’espe rienza individuale è garantita da una temporalità finita, contrap posta alla infinità livellata degli «ora» propria del tempo ordinario. Nell’interpretazione ontologico-esistenziale sviluppata da Heidegger, il Si impersonale, la «pubblicità» entro cui «innanzi tutto e per lo più» l’Esserci è sprofondato, configura la quotidiani tà della civiltà di massa. Vale a dire il reame della dispersione, del livellamento, dell’inautenticità.Tuttavia, precisa Heidegger, l’esi 22

stenza autentica non si colloca altrove rispetto alla quotidianità. Non è prevista alcuna ascesi, alcun rifugio nell’interiorità: «L’esi stenza autentica non è qualcosa che si libri al di sopra della quoti dianità deiettiva; esistenzialmente, essa è soltanto un afferramen . Ma in cosa consiste questo afferramento 4 to modificato di questa»’ modficato del quotidiano? Il predominio del Si è contraddistinto da una apprensione del mondo come «semplice presenza», oggettualità dispiegata davanti a uno spettatore, messe inesauribile di dati empirici. Il Si riduce la situazione ontologica fondamentale, l’«essere-nel-rnondo», all’in guaribile dualismo della coppia io/mondo-semplicemente-presen te, solidale in questo con l’ontologia tradizionale (sia pure con la differenza, importante ma non decisiva, che all’io» atomistico car tesiano subentra un soggetto collettivo, il Si appunto, ens realissi nrum o «astrazione reale» che dir si voglia). Che cosa precisamente, nella struttura dell’essere-nel-mondo, è sottoposto a riduzione e co primento? É presto detto: l’essere-nel-mondo, nella sua costituzio ne non occultata dal Si, è attività manipolativa e utilizzante, prag matico «prendersi cura», lavoro, produzione in generale’. L’esse re-nel-mondo rimanda a una vera e propria ontologia del lavoro. Il mondo, anziché «semplice presenza» da rappresentare nella sua fafficità, si annuncia nella forma dell’ «utilizzabile intramondano» (mezzo e oggetto di lavoro) e dell’«appagatività», o «in-vista-dicui», che lo caratterizza. Anche la rete delle relazioni sociali, o ConEsserci, ha il suo fondamento nell’operosità del mondo-cantiere: «quando gli altri divengono, per così dire, tematici nel loro Esserci, non sono mai incontrati come persone-cosa semplicemente-pre senti; noi ci incontriamo con essi ‘al lavoro’, cioè, in primo luogo, essere-nel-mondo»’ . nel loro 6 Ora si fa più chiara la natura di quell’«afferramento modifica to» della quotidianità, così necessario per la vita autentica. Sfuggi re al Si, bucando la tela delle semplici-presenze, significa tornare al lavoro. Ossia riappropriarsi consapevolmente della costituzione attiva, pragmatica, produffiva dell’essere-nel-mondo. «L’esserenel-mondo, in quanto prendersi cura, è coinvolto nel mondo di cui si prende cura. Perché il conoscere, in quanto considerante deter minazione di semplici-presenze, sia possibile, occorre in primo luogo una deficienza dell’aver-a-che-fare col mondo prendendose ne cura. Nella sospensione di ogni manipolazione, di ogni uso, ec cetera, il prendersi cura si attua nell’ultimo modo di in-essere pos . Il Si mette radici in questa 7 sibile: il soltanto soffermarsi presso» 23

«deficienza», in questa sospensione dell’attività: pertanto occorre sospendere la sospensione, contenere il fatuo «soffermarsi pres so» dell’osservare ozioso, di nuovo sentirsi «coinvolti» nel mondo prendendosene cura tramite un agire strumentale. Si è detto più sopra che Heidegger pone l’essere-per-la-morte alla base di una esperienza autentica. Ma la consapevolezza della morte, di per sé, è tutt’altro che immune da una rappresentazione in termini di semplice-presenza. Anche la possibilità più propria e più radicale dell’Esserci è banalizzata e resa opaca dal Si. il «si muore» riduce la morte a certezza empirica ed estraneo dato di Per sventare l’appiattiniento dell’evento più decisivo, c’è una sola e paradossale strada: una segreta alleanzafra il lavoro e la morte. Ossia una proiezione del modello ontologico del lavoro, quindi del prendersi cura dell’utilizzabile, sull’essere-per-la-morte. Ma come prendersi cura della morte in quanto possibilità più propria dell’Esserci? In genere, prendersi cura del possibile equi vale ad annullare la possibilità mediante la sua realizzazione. Si deve notare, però, che nel lavoro «la realizzazione accurata di un utilizzabile ..j è sempre soltanto relativa, perché il ‘realizzato’ conserva ancora il carattere ontologico dell’appagatività»’. Invece la morte non sopporta una realizzazione relativa, poiché essa è la possibilità assoluta dell’essere dell’Esserci, la possibilità come tale, non riferibile a un «in-vista-di-cui». Così l’essere-per-la-morte non può prendersi cura della sua realizzazione, se non in una forma del tutto eccentrica: l’anticipazione della possibilità. «L’es sere per la possibilità, in quanto essere-per-la-morte, deve rappor tarsi alla morte in modo che essa, in questo essere e per esso, si scopra come possibiità»°. Ora, questa anticipazione della possibilità della morte possibi lità esperita come tale, indipendentemente dalla sua realizzazione è quanto mai produttiva giacché dissolve «ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte», garantendo la realizzazione delle «possibilità effettive, cioè situate al di qua di quella insuperabile»a. Nella figura dell’«anticipazione» la morte diventa, in un certo senso, l’«utilizzabile» d’eccezione, che permette di riconoscere e . Con ciò l’ontologia 2 adempiere le possibifità della vita autenticaz del lavoro giunge a compimento e, a un tempo, mimetizza la sua trama, cambiando generalità. L’autentico essere-per-la-morte può infine contrapporsi al prendersi cura quotidiano proprio perché ne ha assimilato, trasfigurandola, l’intima struttura: proprio perché la morte, nella «decisione anticipafrice», è stata messa al lavoro. —



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Va chiarito subito che questa trasfigurazione latrice di «autenti cità» interessa solo per contrasto il filo del discorso che si intende ora dipanare. A proposito dell’