Contemplare l'ordine. Intellettuali e potenti dell'alto medioevo 8820736896


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Contemplare l'ordine. Intellettuali e potenti dell'alto medioevo
 8820736896

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LIGUORI EDITORE

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BIBLIOTECA

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ADITOLISIO

Collana

Nuovo Medioevo 73 diretta da Massimo Oldoni

Germana

Gandino

Contemplare

l’ordine

Intellettuali e potenti dell’alto medioevo

Liguori Editore

Pubblicazione realizzata con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro?

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, riprodotta, copiata o trasmessa senza l’autorizzazione scritta dell'Editore. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi forniti dalla Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo internet: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascuna pubblicazione. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% per pubblicazione, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AmRo, via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

Liguori Editore - I 80123 http://\www.liguori.it/

Napoli

© 2004 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2004 Stampato in Italia da OGL - Napoli Gandino, Germana : Contemplare l’ordine. Intellettuali e potenti dell’alto medioevo/Germana Napoli : Liguori, 2004 ISBN 88 - 207 - 3689 - 5 1. Storia medievale

2. Istituzioni

medievali

Gandino

I. Titolo.

Ristampe:

————_———9 cre 2005 EA 15 14 13 12 11 10 09 08 07 060504 10.0 8760154032100 La carta utilizzata per la stampa di questo volume neutro,

conforme

alle norme

UNI

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Iso 9706

è inalterabile, priva di acidi, a PH

ce, realizzata con materie

prime fibrose

vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili.

INDICE

Introduzione

13

Ta memoria

come

legittimazione

nell’età di Carlo Magno

La dialettica tra il passato e il presente nelle opere di Paolo Diacono

65

Orizzonti politici ed esperienze Vercelli tra i secoli IX e XI

83

L’imperfezione della società in due lettere di Attone di Vercelli

dei vescovi

di

115

Cultura

141

Ruolo dei linguaggi e linguaggio dei ruoli. Ottone III, Silvestro II e un episodio delle relazioni tra impero e papato

189

Il testamento

coscienza

dotta e cultura folklorica

culturali

di Landolfo

come

a Vercelli nel secolo X

affermazione

di

vescovile

244

San Michele

della Chiusa

295

Nota editoriale

237

Indice dei nomi

nel confronto

con il potere

auto-

èntgsM olisD ib Preion sini "ao

Mubtazione stiate ne i ama

del Uetresaltà Ag) Stai srt Piemme,

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INTRODUZIONE

1. Il primo saggio attraverso il quale, in un seminario condotto da Giuseppe Sergi anni fa, sono entrata in contatto con la storia medievale all’università era un articolo teorico di Giovanni Tabacco, difficile fin dal titolo: // cosmo del medioevo come processo aperto di strutture instabili. Tabacco vi discuteva posizioni storiografiche diverse, accomunate tuttavia da una tendenza che restava spesso al di qua di una chiara traduzione concettuale’: la tendenza era quella di ricondurre il medioevo a un’unica, grande chiave di lettura, di interpretarlo attraverso alcune definizioni totalizzanti che egli identificava nella Christianitas, nel modo

germanica,

feudale di produzione, nella nobiltà di tradizione

nel disordine

' In origine in «Società

istituzionale’.

e storia,

7 (1980),

pp.

A tali modelli

1-33, ristampato

globali Ta-

nelle dispense

di

Istituzioni medievali. Anno accademico 1980-81. Articoli e interventi di G. Cassandro, G. G. Merlo, G. Sergi, G. Tabacco, Torino 1980, pp. 7-39, è ora in G. Tabacco, Sperimentazioni

del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, pp. 3-41: citerò da quest’ultima edizione. ° Poco tempo prima del saggio di Tabacco, ne era uscito un altro per molti versi complementare, che maggiormente poneva l’accento sul tema della consapevolezza, dato che negli anni settanta buona parte della medievistica italiana appariva, per così dire, librata nel vuoto dal punto di vista teorico, sospesa com'era tra il superamento della tradizione storiografica nazionale e l’adozione di modelli forti, soprattutto francesi e tedeschi: O. Capitani, Crisi epistemologica e crisi di identità: appunti sulla ateoreticità di una medievistica, in «Studi medievali», ser. III, 18 (1977), pp. 395-460, ristampato in Id., Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici: tra due guerre e molte crisi, Bologna 1979, pp. 271-349. ? Che vi sia tra gli storici resistenza a teorizzare è un dato ancora attuale, come suggerisce l’invito a pensare «in maniera più concettuale» e soprattutto a «evitare di parlare — e discutere



in lingue

concettuali

diverse

senza

rendercene

conto»:

l’invito

è venuto,

a

proposito di quel vero e proprio monstrum che è la coppia “feudale-feudalesimo” (che può contenere a sua volta definizioni totalizzanti), da C. Wickham, Le forme del feudalesimo, in Il feudalesimo nell’alto medioevo, Spoleto 2000 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XLVII), pp. 15-46 (cit. a p. 16). Dialogando sia con Wickham sia con quanti tendono a un rifiuto della nozione di feudalesimo, ne affermano coraggiosamente legittimità teorica e «utilità euristica» G. Albertoni, L. Provero, Storiografia europea e feudalesimo italiano tra alto e basso medioevo, in «Quaderni storici», 112 (2003), pp. 243-267 (in particolare pp. 243-245).

5)

CONTEMPLARE

L’ORDINE

bacco negava la capacità, se singolarmente assunti e privilegiati, di contenere e spiegare la complessità del periodo: nel sottoporli ad analisi critica, egli disvelava nel contempo le manipolazioni ideologiche che queste letture a una dimensione portavano sotto traccia con sé'. Trattando di definizioni molto usate dagli storici, il saggio era anche una riflessione sul linguaggio, e sull’uso che di certa terminologia mutuata da altre scienze era possibile. In particolare, fisica e scienze naturali apparivano poter fornire termini e concetti capaci di rendere conto del divenire storico: «si potrebbe parlare di genesi di un equilibrio dinamico, nel quale ciascuna forza funziona in una correlazione di interdipendenza con le altre, non senza tuttavia margini di variazione profonda, destinati col tempo a distruggere l’equilibrio del sistema e a produrre una configurazione sistematica nuova:

una nuova civiltà». Ma Tabacco era pure cosciente del pericolo insito nel trasporre non tanto singoli termini quanto, si potrebbe dire, discorsi che di fatto replicassero modelli di interpretazione pensati per altri pezzi di realtà: per cui, se sceglieva di parlare del medioevo «come processo aperto di strutture instabili», sottolineando la non «intrinseca necessità»° di quanto era avvenuto, la «costante possibilità di esperienze imprevedibili», sceglieva anche di non adottare il termine «sistema» nel definire il medioevo, per quanto di strutturato, coerente, sistematico appunto, la parola suggerisce”. Il medioevo era invece chiamato «cosmo». Una parola non riconducibile a un lessico specifico, ma ricca di connotazioni letterarie, filosofico-scientifiche, e pure storiche: in quest’ultimo senso può anzi dirsi definizione che recuperava, senza anacronismi terminologici, una prospettiva profonda del lungo periodo medievale, costantemente vivificata soprattutto dalle élites intellettuali. Nel momento in cui i pensatori di quei secoli cercavano di capire

* Analoga operazione culturali più ampi sono medioevo.

critica nei confronti di alcuni grandi stereotipi che in settori collegati al medioevo è quella compiuta da G. Sergi, L’idea di

Tra senso comune e pratica storica, Roma

1998, che in positivo insiste (si veda in

particolare pp. 73-76) sull’unica costante che può aiutare a comprendere realmente quel periodo: quella di una lunga attitudine alla sperimentazione nelle più varie direzioni.

° Tabacco, Il cosmo del medioevo cit., p. 4 sg. ° Opsicità prAl * Ibidem. «Il medioevo

(...) non costituiva globalmente un sistema, se l’idea di sistema suscita in

noi la visione di una interdipendenza coerente di componenti operanti in un certo equilibrio»: ibidem.

INTRODUZIONE

3

la realtà, forte per loro era il rischio di perdersi nella foresta di reo, ordinamenti e istituzioni che liberamente si intrecciavano gli uni con gli altri, rendendo difficile distinguere istanze religiose e politiche, sociali ed economiche. Eppure, per molti di quegli intellettuali, il mondo

in cui vivevano

non

era comunque

un caos, ma un cosmo:

qualcosa che non soltanto poteva essere osservato, ma anzi “richiedeva” di essere osservato e, per quanto possibile, “agito” per ritrovare o ripristinare in esso il naturale ordine’. Ora, gli studi che qui presento si riferiscono a un arco temporale che va dal secolo VIII al secolo XI e privilegiano le elaborazioni e i comportamenti di vertici politici e vertici intellettuali che a volte si affiancano (Carlo Magno e la sua cerchia) o si confrontano su un piano di quasi parità di potenza e d’ingegno (Ottone III e Silvestro II), ma più spesso, soprattutto nel caso di religiosi potenti, tendono a coincidere (i vescovi di Vercelli e Torino, i monaci di San Michele della Chiusa). Siamo dunque nell’alto medioevo e di alta cultura sono le fonti usate: per questo assimilabili — talvolta sono anzi le stesse — al genere di documenti che hanno avuto un ruolo importante nel determinare alcune immagini di lunga persistenza nella storiografia e di più ancora lungo uso nella didattica e nella divulgazione. Per dirlo in alcune formule, siamo nell’area della «dissoluzione medievale dello stato» dopo la «caduta» dell’impero carolingio, siamo nei «secoli di ferro», siamo nell’età della decadenza del papato e delle «chiese in

mano ai laici». Queste e altre immagini a forte tonalità valutativa sono state, nelle ricerche di questi ultimi decenni, di fatto superate: ma soprattutto spostando su altri piani e su altre fonti, più inerenti al concreto funzionamento

delle società, il fulcro dell’attenzione'°. Ciò

che i miei studi tendono a proporre è invece il mantenimento dell’attenzione proprio su quelle fonti tradizionali per dare voce, attraverso gli stessi protagonisti, alla loro tensione all’ordine, allo sforzo, mai allentato anche nelle situazioni più difficili, di contemplare l’ordine, nelle diverse accezioni che l’espressione può racchiu-

dere.

® Anche andando oltre, in virtù del «radicalismo della ragione», quanto agli intellettuali richiesto dal potere pubblico: G. Tabacco, Gli intellettuali del medioevo nel giuoco delle istituzioni e delle preponderanze sociali, in Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino È 1981 (Storia d’Italia, Annali, 4), pp. 5-46. ‘© Si veda, a proposito del tema che ha attirato maggiormente analisi e discussioni anche

vivaci, l’interessante e problematico contributo di S. Carocci, Signoria rurale e mutazione feudale. Una discussione, in «Storica», 8 (1997), pp. 49-91.

4

CONTEMPLARE

L’ORDINE

Può trattarsi infatti del prendere in considerazione, in senso programmatico, la possibilità di un ordinamento, di una sistemazione di natura soprattutto ideologica: e allora la rinascita carolingia come opera collettiva di strutturazione della memoria a fini legittimanti, il diploma di Ottone III per la chiesa di Roma come affermazione di un modello di regalità imperiale sovraordinata all’intera cristianità. Può anche prevalere il senso pratico del lavorare per un ordine sociale accettabile, qualunque cosa quegli uomini intendessero, diversamente da noi, per tale: e allora l’azione dei vescovi di Vercelli e Torino come ricerca di soluzioni per assetti sentiti come disordinati, all’interno dei quali tuttavia essi si muovevano con sicurezza e con spregiudicato realismo. Oppure, ancora, contemplare l’ordine può voler dire misurare la distanza tra ideale e realtà: e allora gli scritti del vescovo Attone di Vercelli come testimonianza di una lacerazione, quella tra il richiamarsi a un’organizzazione armonica della società che sia riflesso dell’ordine celeste, e il constatare che non vi è più nessuno in grado di corrispondere ai modelli da lungo tempo tramandati

e da lui custoditi. Infine, può accadere che l’accento sia

maggiormente posto sulla propensione a ‘ricondurre comunque a un significato di natura superiore gli accadimenti mondani. Questo in virtù della compresenza, nel pensiero e nel cuore di quegli uomini, di «un ottimismo metafisico temperato da un pessimismo storico: l’affermazione cioè di un unico principio assoluto, garante della salvezza religiosa, e l’accettazione condizionata della degradazione del cosmo

creato nel tempo».

La vicenda individuale di Paolo Diacono

e

quella collettiva dei monaci di San Michele della Chiusa ci parlano appunto di ricerca e affermazione del proprio personale senso, nella consapevolezza di partecipare, al di là dei mutamenti anche traumatici e del corrompimento

precisarsi del disegno

del mondo

circostante,

allo svolgersi e al

divino.

2. Se dunque l’idea di «contemplare l’ordine» lega tra loro tutti i saggi, altre chiavi di lettura permettono l’accostamento di alcuni. Cinque degli otto studi — Orizzonti politici ed esperienze culturali dei vescovi di Vercelli tra i secoli IX e XI; L’imperfezione della società in due lettere di Attone di Vercelli; Cultura dotta e cultura folklorica a Vercelli nel secolo X; Il testamento di Landolfo come affermazione di autocoscienza

ir G Tabacco, Demonologia di età precarolingia e carolingia, in Id., Spiritualità e cultura nel

medioevo.

Dodici percorsi nei territori del potere e della fede, Napoli

1993, p. 295.

INTRODUZIONE

S

vescovile; San Michele della Chiusa nel confronto con il potere — possono essere considerati contributo alla storia del Piemonte, néll’accezione

non anacronistica e con gli intenti e i contenuti espressi anni fa in una riflessione a proposito della «caratterizzazione del territorio subalpino nel medioevo»: anche in questo mio volume l’area in questione svolge «la funzione di elemento connettivo in una rete di collegamenti istituzionali e culturali di respiro europeo», è «terreno d’incontro di influssi provenienti da vari bacini politico-culturali», si presta per questo a un’indagine «per situazioni), tende a divenire «una grande “situazione” in sé, (...) un laboratorio di ricerca in cui si fanno coesistere modelli, si organizzano i poteri in sistemi di convivenza, si danno risposte tanto più articolate quanto più ardui sono i problemi». Usando molto liberamente l’idea di approccio territoriale, se ne può seguire un’altra versione attraverso i saggi su Paolo Diacono, sulla sede vescovile di Vercelli, sul diploma ottoniano e su San Michele della Chiusa. Non mi pare di travisare le fonti nel dire che determinati luoghi sembrano possedere una forza intrinseca, un peculiare spirito in grado di incidere in modi diversi su chi lì si trova, vi agisce o, anche lontano, vi appartiene. Un posto può essere speciale di per sé, per spettacolarità e grandiosità naturali: quando poi, è il caso del monte Pirchiriano, vi sorge al culmine un’abbazia dedicata all’arcangelo combattente e conduttore di nazioni, molti dei caratteri del luogo appaiono partecipare al modo stesso di essere e di comportarsi, anche in giro per il mondo, dei suoi monaci. Oppure, più ancora della “numinosità”, forza del luogo può essere il modo stesso attraverso il quale il suo destino si precisa, intrecciandosi con quello degli uomini. La storia di Montecassino, distrutta, abbandonata per più di un secolo, nuovamente ricostruita, non è, nella lunga fase iniziale, meno avventurosa e difficile di quella di Paolo Diacono, a cui tocca peregrinare a lungo sentendo fortemente la nostalgia del cenobio cassinese: negli ultimi anni del secolo VIII le due vicende riescono infine a ricongiungersi e a trarre beneficio l’una dall’altra, ma per Montecassino è come se Paolo Diacono si sia trovato a

essere, una volta tornato a “casa” e proprio in virtù delle sue precedenti traversìe, strumento importante per l’affermazione storica del monachesimo benedettino. !° Premessa degli autori a Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. XI, XIII, anche per le cit. che seguono.

Studi per

6

CONTEMPLARE

L’ORDINE

Che Roma sia protagonista nel tempo è evidente: per il giovane imperatore Ottone III e per il suo maestro e amico papa Silvestro II Roma è anzi il luogo per eccellenza, l’unico in cui la forza del richiamo di memorie secolari può essere più potente del loro reciproco affetto. In qualche modo, non sono loro che abitano a Roma: è Roma che abita in loro. Più in piccolo, anche Vercelli è, nell’alto medioevo, un luogo forte di storia e memorie: i suoi vescovi ritenevano che la basilica episcopale di Santa Maria Maggiore fosse stata fondata dall’imperatore Costantino poco prima del tempo in cui il x

santo vescovo vercellese Eusebio, inviatovi da Roma,

aveva combat-

tuto l’eresia ariana e copiato di sua mano i Vangeli. Con altri codici di inestimabile valore, molti dei quali databili ai secoli IX-X, nella Biblioteca capitolare di Vercelli è conservato pure l’Evangeliario Fusebiano che, risalendo al secolo IV, ne costituisce la traduzione

latina più antica'’. Elevata dottrina e clima “imperiale”, soprattutto nella versione costantiniana, sono appunto caratteri peculiari di Vercelli: li possiamo osservare nella declinazione particolare dell’età carolingia e sassone, quando personaggi di rilievo dell’entourage del sovrano vi sono destinati e vi agiscono con la consapevolezza di stare in una sede che per tradizione politica e culturale è interlocutrice diretta dei poteri di vertice. A Roma come a Vercelli vale insomma, in misura maggiore che altrove, la coazione a interpretare in modo adeguato il ruolo che da quei luoghi è inscindibile. Non solo lo spazio ma anche il tempo può inoltre possedere una qualità particolare: vi sono cioè periodi in cui accadono più cose che in altri momenti e si pone allora con maggiore nitidezza il problema di ciò che chiamerei “l’orizzonte degli eventi”. Vale a dire la visuale che si ha in questi periodi di mutamento, e fin dove si spinge lo sguardo di chi vi si trova in mezzo: e allora quali frammenti del passato si tendono a privilegiare, o si vogliono privilegiare, mentre si è sollecitati dal presente, che cosa si proietta nel futuro. Questo aspetto dell’intensità temporale che, mentre avviene e si svolge, mette in gioco la visione di passato e futuro e ha una sua ricaduta

!’ Per la bibliografia di base: G. Gandino, / luoghi dei vescovi: S. Maria Maggiore nell’alto medioevo, in Passato futuro. I luoghi dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”,

a cura di G. Bona, G. Cantino Wataghin, Alessandria Novara Vercelli 2002, pp.

157-166. ‘’ Su questo tema, e sui significati possibili di una tradizione locale piuttosto inconsueta,

ho avviato una ricerca dal titolo Costantino a Vercelli. Culto della Croce e ortodossia tra î secoli IV e XI.

INTRODUZIONE

7)

nelle fonti è particolarmente presente nei saggi che si riferiscono alla rinascita carolingia, a Paolo Diacono, al diploma di Ottone III, al testamento del vescovo Landolfo di Torino. Le prime due ricerche percorrono, da due diversi punti di vista, gli stessi anni: la seconda metà del secolo VIII e in special modo il periodo compreso tra gli anni ottanta e l’inizio dei novanta. Si tratta di una fase cruciale per il consolidamento del potere di Carlo Magno: sono infatti in corso o in preparazione campagne militari impegnative (contro Sassoni e Avari), è in atto la transizione politicoistituzionale nel regno italico, si ridisegnano i rapporti con il sud Italia longobardo e con i Bizantini. Nel primo contributo seguiamo così un’azione collettiva, quella degli intellettuali che, raccolti intorno a Carlo, ripensano il passato e lo organizzano in forme ordinate e tuttavia varie, tali da costituire non un unico ricordo condiviso e “canonizzato” ma una pluralità di letture retrospettive tendenzialmente aperta e ottimista, come aperto a molti futuri possibili, che si potevano prevedere comunque espansivi, era il tempo che essi attraversavano. Il punto di vista individuale di Paolo Diacono rappresenta per certi versi il rovescio della medaglia: quel tempo così denso è segnato da fatti per lui traumatici — la caduta del regno longobardo, la prigionia del fratello, la lontananza da Montecassino — che tuttavia lo conducono a conoscere il vincitore, ad amarlo, a partecipare in prima persona alla costruzione di una cultura legittimante del ricordo, prima di tornare definitivamente al monastero di san Bene-

detto. Il futuro che Paolo può riuscire a immaginare è più volte scompaginato dal presente: finché, nell’ultima parte della sua esistenza, pure il riconoscimento del realizzarsi di due profezie — la fine del dominio longobardo, la sopravvivenza di Montecassino — sembra aiutarlo a reimmettersi, forse davvero in pace, nel flusso del tempo. Se i contributi di età carolingia seguono le fonti e le persone nel divenire anche di una manciata di anni, le ricerche sul diploma di Ottone III e sul testamento di Landolfo si concentrano invece su un momento preciso, il tempo appunto dei due documenti, in quanto in essi si riverbera il carattere di culmine della storia personale e politico-istituzionale di quell’imperatore e di quel vescovo: per quanto avvenuto in passato, e per quanto sta proprio allora avvenendo le due testimonianze — a livelli diversi, s’intende — si presen-

tano come “pesanti”, cariche come sono di riferimenti pure occultati ad altri testi e a circostanze immediate e trascorse. Il diploma del gennaio 1001 ci parla infatti di un difficile soggiorno romano di

8

CONTEMPLARE

L'ORDINE

Ottone III, a pochi mesi da un lungo pellegrinaggio ad alte implicazioni politiche in terra di Polonia e ad Aquisgrana: a Roma, il clima costantiniano di imperatore-apostolo da lui ricreato in Occidente nell’anno 1000, e sostenuto non a caso dal vescovo Leone di Vercelli, rischia di dissolversi nel contatto con la falsa donazione di

Costantino e nel confronto con papa Silvestro II. Il diploma costituisce la risposta a questa possibilità di ridimensionamento dell’idea ottoniana di impero. E risposta articolata è pure il testamento del vescovo Landolfo di Torino

datato allo stesso anno, il 1037, dell’e-

dictum de benefictis di Corrado II il Salico: implicitamente, Landolfo parla infatti all'imperatore presentando l’episcopato torinese come tradizionalmente più affidabile dei suoi funzionari pubblici; e parla anche ai marchesi arduinici di Torino, ricalibrando ampiezza e carat-

teri dell’iniziativa vescovile. All’approssimarsi della fine della sua esistenza e fondando un nuovo monastero, Landolfo pensa dunque alle prospettive di sviluppo della sua chiesa: si può anzi dire che sia Ottone sia Landolfo facciano il punto della situazione per costruire il futuro più favorevole alle istituzioni che essi incarnano, al di là della loro personale speranza di vita. Soltanto il caso ha poi voluto che a morire precocemente sia stato l’imperatore Ottone, all’inizio del 1002 e all’età di 22 anni: in questo senso il diploma romano cattura anche lo spirito di un confronto tra regnum e sacerdotium che era nell’aria e che, bruscamente interrotto, troverà altri tempi, altri modi, altri uomini per riemergere.

3. A queste chiavi di lettura specifiche vorrei poi aggiungere alcune considerazioni generali. In molti dei lavori si vedranno fonti, e persone, dialogare fittamente tra loro istituendo un’intertestualità orizzontale, di corta estensione cronologica, che può risultare tanto

più densa di contenuti quanto più, come ho appena detto, si sviluppano vicende intorno e il contesto è in movimento e mutamento

veloci’. Per questa via, e per la necessità di ambientare la produzione di quei testi attraverso date e fatti, mi sembra almeno tenuta in conto una questione: in questi ultimi anni appaiono sempre più di frequente nella storiografia medievistica studi che si staccano variamente dal paradigma della scansione profonda e meno agganciata a ss

1 Per un esperimento

; 7 . È A: di lettura informatica di un unico punto di vista, quello di un

vescovo del secolo X, in relazione con un contesto che mutava velocemente rimando a G. Gandino, /! vocabolario politico e sociale di Liutprando di Cremona, Roma 1995 (Nuovi studi storici, 27).

INTRODUZIONE

9

questo o a quell’accadimento. Talvolta si assiste anzi al recupero “rétro” della storia evenemenziale e proprio della histotire-bataille, aggiornata nella narrazione ma sempre riconoscibile: esigenze soprattutto didattiche e pressioni dell’industria editoriale hanno favorito la proliferazione di sintesi divulgative che sembrano influenzare, in un rapporto che si va rovesciando, modi e qualità della ricerca originale. Il processo è in atto ed è difficile dire a che cosa porterà: nei miei saggi ho cercato sostanzialmente di ancorare al livello della ricerca e dei problemi il piano degli avvenimenti, in quanto componente non secondaria di realtà complesse. Oltre a parlare tra loro, le fonti dialogano poi con discorsi e atti del passato: questa intertestualità verticale allude alla duttilità del riuso, pur entro il costante richiamo ad auctoritates. Di questa attitudine alla «variazione come sostanza dell’invenzione»'° ha parlato di recente Umberto Eco, sottolineando l'opposizione tra ideologia del nuovo presentato come antico (tipico del medioevo) e antico presentato come nuovo (tipico dell’era moderna)»!”. Nei miei saggi si vedranno maggiormente in azione intertestualità, e contestualità, orizzontali e verticali come variabili politiche più ancora che culturali. Infine, l'elemento forse più problematico. Anche se nel primo e nell’ultimo contributo domina la dimensione corale, in tutte le ricerche qui raccolte protagonisti non sono anonimi gruppi sociali o apparati impersonali, ma uomini, e uomini di potere delle istituzioni. Volendo, avrei potuto intitolare i saggi semplicemente con il loro nome: Paolo Diacono, Liutwardo e Leone, Attone, Ottone III e Gerberto, Landolfo.

Dire che si tratta di un dato che dipende dalla

documentazione da me usata — le fonti “alte” di cui ho parlato sopra — è sostanzialmente tautologico, o meglio non tiene conto delle motivazioni che mi hanno guidato a privilegiare quel genere di documenti. In realtà, mi sembra di avere in parte scelto quelle fonti proprio perché vi parlano quelle persone o vi si parla di loro. Ma questo interesse comporta naturalmente dei rischi di cui occorre avere consapevolezza, e in particolare apre una tensione tra il desiderio di comprendere quegli uomini del passato e il pericolo di fare dell’anacronismo e dello psicologismo, proiettando su di loro sensibilità e propensioni che invece non avevano. Mi è sembrato che la tensione ! H. R. Jauss, Aflterità e modernità della letteratura medievale, Torino 1989, p. 12. !" U. Eco, Riflessioni sulle tecniche di citazione nel medioevo, in Ideologie e pratiche del

reimpiego nell’alto medioevo, I, Spoleto 1999 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XLVI), p. 481.

IO

CONTEMPLARE

L’ORDINE

tra empatia e psicologismo potesse essere controllata attraverso il correttivo di una diversità di doppio livello: in quanto storico, so che quegli uomini non sono soltanto lontani nel tempo, ma sono anche diversi in modo profondo; in quanto donna, sono ancora più diversi. Ho affrontato la questione nei saggi su Attone, su Ottone III e Gerberto, su Landolfo, ma soprattutto in quelli, per certi versi complementari, su Paolo Diacono e sui monaci di San Michele della Chiusa. In questi due lavori ho cercato, non so con quali risultati, di percorrere coscientemente la strada — minata, me ne rendo conto — di qualcosa che assomiglia a un tentativo di psicologia storica, individuale e di gruppo'*. I casi di studio si prestavano grazie a una tonalità delle fonti particolarmente spiccata: una tonalità affettiva per la presenza di emozioni e sentimenti, vissuti e anche socialmente comunicati attraverso le regole abbastanza formalizzate di generi che già li prevedono, come la poesia di corte, le epistole-trattato, le cronache e le biografie. In uno scritto meraviglioso — Le regole del gioco nello studio della storia antica - Arnaldo Momigliano dava il suo «contravveleno» alla frequentazione troppo intensa delle bibliografie: «una bibliografia può avere gli effetti di una cattiva droga e incoraggiare al vizio: al vizio di leggere studi moderni invece che documenti originali, quando si discute del passato, cioè di storia». L’antidoto era un ritorno alle fonti e l’enunciazione di alcune semplici regole per interpretarle. Punto di partenza era un’iniezione di fiducia intorno allo statuto scientifico della disciplina: «questioni epistemologiche sulla natura, validità, limite della nostra conoscienza obiettiva della realtà hanno solo indiretta importanza per l’analisi storica. Lo storico lavora sul presupposto di essere capace di ricostruire e capire i fatti

'* Il tema nasce con due contributi, rispettivamente del 1938 e del 1941, di L. Febvre: Storia e psicologia, ora in Id., Problemi di metodo storico, Torino

1976, pp. 108-120, e Come

ricostruire la vita affettiva di un tempo: la sensibilità e la storia, in op. cit., pp. 121-138. Si dispone ora di B. H. Rosenwein, Worrving about Emotions in History, in «The American Historical Review», 107 (giugno 2001), pp. 825-845, in formato digitale nella sezione Scaffale di www.retimedievali.it, pp. 1-17 (da cui cito). Rosenwein ricostruisce la storia del tema e il mutamento di paradigma avvenuto tra gli anni sessanta e settanta: fu allora che il dominante modello «idraulico» (p. 11) delle emozioni — l’irrazionale da cui si è sommersi — è stato messo in crisi da una parte dalla psicologia cognitiva, secondo la quale le emozioni avvertono di qualcosa e fanno parte del processo di percezione e valutazione, dall’altra dal costruzionismo sociale, con le sue modalità condivise e storicamente verificabili di rappresentazione e accettazione delle emozioni. Ciò ha permesso anche ai medievisti di rendere oggetto di studio le «emotional communities» (p. 17).

" In Id., Sui fondamenti della storia antica, Torino

1984, pp. 477-486

(cit. a p. 477).

INTRODUZIONE

II

del passato. Se un epistemologo riesce a convincerlo del contrario, lo

storico

deve cambiare

mestiere».

E in conclusione

Momigliano

scriveva: «è questa capacità di interpretare il documento come se non fosse documento, ma episodio reale di vita passata, che da ultimo fa lo storico. (...) Lo storico capisce uomini e istituzioni, idee, fedi, emozioni, bisogni di individui che non esistono più. Capisce tutto ciò perché i documenti che ha davanti a sé, debitamente interpretati, si presentano come situazioni reali. Lo storico capisce i morti come

capisce i vivi”. Rispetto ai nuovi relativismi storiografici””, a un certo

neoscetticismo serpeggiante tra gli storici circa i nuclei di verità del passato cui è possibile giungere, e, ancora, alla riduzione della storia a discorso retorico’, le parole di Momigliano mi sono state di aiuto.

"Op. MOpi

cit, p. 477 sg. citpP. 485:

°° C. Ginzburg, Distanza e prospettiva. Due metafore, riflessioni sulla distanza, Milano 1998, pp. 171-193.

in Id., Occhiacci di legno. Nove

?? Con Hayden Whyte, e con Metahistory, Momigliano faceva i conti in La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden Whyte, in Id., Sut fondamenti cit., pp. 465-476, in particolare là dove affermava (pp. 464, 468): «temo le conseguenze del suo approccio alla storiografia perché egli ha eliminato la ricerca della verità come compito fondamentale dello storico»; «mentre rileggevo i libri di White, negli ultimi mesi, ero anche impegnato in ordinarie operazioni di ricerca storica nel mio campo. Il contrasto fra ciò che facevo e ciò che White supponeva che facessi era veramente troppo grande», cui segue una breve analisi del frammento appena ritrovato di un’iscrizione di un’antica città del Lazio. Un «fatto nuovo» che permette di fare ipotesi circa l’esistenza di bande private di aristocratici romani che nel secolo VI a. C. e nel passaggio dalla monarchia alla repubblica sfidavano «e “normali” istituzioni civili»: un fatto che interessa lo storico in quanto «il potere reale appare in conflitto con le istituzioni formali» (p. 469 sg.). L'abbraccio mortale (per la storia) tra storia e retorica, e la negazione alla prima della nozione di verità in favore della dimensione linguistica e artistica, ironica e ludica, ha un momento chiave in Nietzsche e nei suoi interpreti postmoderni; a questa tradizione fa tuttavia da contrappunto un’altra, più nascosta e carsica, che vede il rapporto storia-retorica completato da un terzo elemento, la prova, attraverso la loro contiguità originaria nella Grecia del secolo IV a. C.: ricostruisce le

due tradizioni in forte polemica con le posizioni scettiche temute da Momigliano e che si sono poi in effetti diffuse, C. Ginzburg, Introduzione a Id., Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano 2000, pp. 13-49, e, nello stesso volume, Ancora su Aristotele e la storia, pp. 51-67.

Testo e note dei saggi qui raccolti sono stati rivisti e talvolta modificati rispetto all’edizione originaria. Per il suo generoso aiuto devo uno speciale grazie a Massimo Oldoni, profondo conoscitore delle fonti del pericolo e “biografo” in particolare di Gerberto-Silvestro II.

LA

MEMORIA COME LEGITTIMAZIONE NELL’ETAÀ DI CARLO MAGNO

1. Gli anni che vanno dal regno di Pipino il Breve a quello di Carlo Magno sono di grande intensità: con una serie di guerre di conquista il dominio dei Franchi assume dimensioni europee, e si deve allora procedere alla riorganizzazione istituzionale del territorio e alla ricerca di un equilibrio con le popolazioni sottomesse; la regalità franca realizza un raccordo stabile con il papato ed evolve in direzione imperiale; l’orizzonte politico si amplia fino a includere Bisanzio e l'Islam. Non sappiamo se l’incalzare degli avvenimenti incidesse sul senso del trascorrere del tempo e se quei decenni, nella percezione di coloro che li vissero consapevolmente, fossero a tratti avver-

titi come dilatati e densi. Una chiave di lettura del rapporto di quegli uomini con il tempo mi sembra tuttavia proponibile: essa consiste nell’interpretare lo spirito di quel complesso fenomeno che fu la “rinascita carolingia” sotto la specie di grande opera collettiva di

strutturazione della memoria'. Per spiegarlo procediamo per gradi. L’elemento sul quale vi è convergenza tra storici, storici della letteratura e storici della filosofia è il carattere di progettualità che connota l’azione culturale di Carlo Magno: un carattere che trova il proprio punto di condensazione in ! Fanno da sfondo a questo contributo molte delle riflessioni di Maurice Halbwachs contenute in Les cadres sociaux de la mémoire, Paris 1975 (ed. orig. 1925) e in La memoria collettiva, a cura di P. Jedlowski, postfazione di L. Passerini, Milano 1987 (ed. orig. postuma

1950). ? Per i diversi approcci cfr. G. Sergi, Le corti e il mecenatismo, in Lo spazio letterario del medioevo, 1, Il medioevo latino, a cura di G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, II: La circolazione del testo, Roma 1994, pp. 304-310; J. J. Contreni, The Carolingian Renaissance, [1984], in Id., Carolingian Learning, Masters and Manuscripts, Aldershot 1992, saggio III, p. 59 sgg.; F. Stella, La rinascita rimossa. Introduzione a La poesia carolingia, a cura di F. Stella,

traduzioni di F. Stella, W. Lapini, G. Agosti, prefazione di C. Leonardi, Firenze 1995, p. 13 sg.; M. Cristiani, Lo sguardo a Occidente. Religione e cultura in Europa nei secoli IX-XI, Roma

1995, pp. 14-17.

CONTEMPLARE

I4

L’ORDINE

alcuni documenti dell’ultimo quarto del secolo VII. L°’Admonitto generalis, un capitolare emanato da Carlo nel 789, è ritenuto a giusto titolo uno dei momenti normativi più alti del programma carolingio in tema di riforma della vita religiosa di chierici e laici. La sua struttura è semplice: a un lungo prologo seguono 82 prescrizioni che possono essere chiaramente bipartite per i materiali che vi confluiscono. I capitula 1-59° sono decisioni di concili e decretali tratte dalla cosiddetta Dionysio-Hadriana, una collezione completa di leggi canoniche che papa Adriano I aveva donato a Carlo. Magno a Roma nella Pasqua del 774°; i rimanenti capitoli’ poggiano invece largamente su auctoritates del Vecchio e del Nuovo Testamento, e soprattutto su Esodo, Deuteronomio,

Proverbi, Matteo, Paolo e Giovanni.

Il capi-

tolare attinge dunque a due grandi bacini di memoria: da una parte le norme antiche dei padri conciliari conservate attraverso i secoli dalla chiesa romana, dall’altra le parole eterne della Bibbia che il re per primo deve ricordare. Nel prologo infatti Carlo richiama la figura di Giosia, il sovrano che nel Libro dei Re attua una profonda riforma religiosa nel regno a lui affidato da Dio’: il gioco di corrispondenze non si risolve qui in paragone tipologico ma serve a Carlo, così egli

? Admonitio generalis, in M.G.H.,

Capitularia regum Francorum,

I, Hannover 11883, doc.

22, pp. 52-62. La rilevanza programmatica del capitolare è sottolineata da Contreni, The Carolingian cit., p. 64: «it was Martel’s grandson, Charles the great, who provided the focus and direction for the program. Two documents, the Admonitio generalis of 789 and the circular letter know as the Epistola de litteris colendis,. were its manifestoes»; cfr. inoltre, per i

contenuti dell’Admonitio, R. McKitterick, The Frankish Church and the Carolingian Reforms, 789-895, London 1977, pp. 1-5; G. Brown, Introduction: the Carolingian Renaissance, in Carolingian Culture: Emulation and Innovation, a cura di R. McKitterick, Cambridge 1994, pp. 17-21.

* Admonitio cit., pp. 54-57. ° Il corpo della collezione era stato approntato all’inizio del secolo VI da Dionigi il Piccolo e fu via via integrato da successive aggiunte: P. Fournier, G. Le Bras, Histoire des collections canoniques en Occident depuis les Fausses Décrétales jusqu’au Décret de Gratien, I: De la réforme carolingienne à la réforme grégorienne, Paris 1931, pp. 23-31, 94 sgg. Sottolinea che il dono papale rappresentò un punto di svolta per l’unificazione del diritto ecclesiastico nel mondo franco F. L. Ganshof, L’église et le pouvoir royal dans la monarchie franque sous Pépin III et Charlemagne, in Le chiese nei regni dell’Europa occidentale e î loro rapporti con Roma sino all’800, I, Spoleto 1960 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, VII), p. 120 sg. Sulla figura di Dionigi, monaco della Scizia attivo a Roma dagli ultimi anni del secolo V, profondo conoscitore del greco e del latino, maestro, traduttore, canonista ed

esperto di computo, cfr. H. Mordek, Dionigi il Piccolo (Dionysius Exiguus), in Dizionario biografico degli Italiani, 40, Roma 1991, pp. 199-204. ° Admonitio cit., pp. 57-62: il c. 60 costituisce l’elemento di raccordo tra la prima e la seconda parte, che comprende perciò propriamente i capitoli 61-82. " II Re, 22-23.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

15

dice, come esempio da imitare, perché da imitare sono gli esempi degli uomini santi ovunque si trovino. Il ponte tra passato e presente è in tal modo gettato e permette di far passare il concetto di “corretta tradizione” che innerva tutto il capitolare: ciò che è nuovo non è canonico’, come bene emerge in un capitolo che ingiunge ai vescovi di sorvegliare affinché i preti non osino predicare al popolo «nova vel non canonica (...) et non secundum scripturas sacras»'°. In questa luce si comprendono meglio i numerosi richiami a riordinare un nucleo teologico di base per la catechesi e la predicazione, ad attenersi a usi liturgici e sacramentali anche formalmente osservanti della tradizione, a emendare sistematicamente i testi affinché gli errori in essi contenuti non trapassino in nuove e fuorvianti interpretazioni di senso. Si tratta di aspetti noti e che ritornano in altre disposizioni regie degli stessi anni dell’Admonirio generalis, come l’Encyclica de litteris colendis e soprattutto 1’Encyelica de emendatione librorum et officiorum ecclesiasticorum'', che riferisce il risultato più rilevante dello sforzo programmatico di Carlo: la revisione completa dei libri della Bibbia che in quel periodo è in atto a Corbie, Metz, Orléans, Tours e che nella versione di Alcuino sarà

offerta al sovrano al momento dell’incoronazione imperiale romana". Ciò che occorre

* «Legimus circumeundo,

sottolineare

in regnorum

è come

libris, quomodo

corrigendo, ammonendo

nelle due encicliche l’appello

sanctus

Iosias

regnum

sibi a Deo

datum

ad cultum veri Dei studuit revocare: non ut me eius

sanctitate aequiparabilem faciam, sed quod nobis sunt ubique sanctorum semper exempla sequenda»: Admonitio cit., p. 54. Sulla designazione «regnorum libri», vedi oltre, n. 34. ° R. Savigni, Giona d’Orléans: una ecclesiologia carolingia, Bologna 1989, p. 43 sg., sottolinea l’accezione negativa di espressioni come «moderna consuetudo», «nova consuetudo», e del termine «novitas» in documenti ufficiali di età carolingia, a differenza di quanto avverrà nel secolo XI quando, in ambiente riformatore, si «contrapporrà la perenne novità metastorica delle “origini” alle stesse istituzioni ecclesiastiche, viste (...) come qualcosa di vetus, ossia di sclerotizzato e non essenziale» (p. 44). Cfr. anche E. Dahlhaus-Berg, Nova antiquitas et antiqua novitas. Typologische Exegese und isidorianisches Geschichisbild bei Theodulf von Orléans, Kéln Wien 1975, in particolare pp. 34-38, 196 sgg. Per un significato di novus come non canonico, pericoloso, falso, si veda in questo volume San Michele della Chiusa, par. 1. !0 Admonitio cit.; c. 82, p. 61; si veda anche il c. 78, p. 60, contro le false narrazioni e le epistole cadute dal cielo soltanto «canonici libri et catholici tractatus et sanctorum auctorum

dicta legantur et tradantur». !! Le due encicliche sono note anche come Epistola de litteris colendis ed Epistola generalis, IMI in M.G.H., Capitularia cit., docc. 29-30, pp. 78-81. !° A proposito dei centri di cultura impegnati nell’impresa cfr. Brown, Introduction cit., in Carolingian Culture cit., p. 23; R. McKitterick, Script and Book Production, in op. cit., p. 221 sgg. Occorre ricordare che dall’800 la Bibbia di Alcuino divenne la Bibbia ufficiale dell’impero: J. J. Contreni, Carolingian Biblical Studies, [1983], in Id., Carolingian Learning cit., saggio V, p. 77.

CONTEMPLARE

16

L’ORDINE

alla tradizione coesista con la coscienza di procedere in una direzione fino a Carlo non tentata: attraverso incisi che ricordano «l’abbandono in cui sono stati lasciati gli studi», «il disinteresse dei nostri predecessori», la corruzione subita dal testo biblico «per l’imperizia dei copisti», il carattere di novità del progetto carolingio è pienamente rivendicato proprio nel momento in cui si invita a ricordare, e a ricordare correttamente". 2. Un’idea di fondo simile è nel proemio di uno dei documenti più interessanti del tardo secolo VIII: si tratta del Codex Carolinus, una raccolta di 99 lettere papali inviate a partire dal tempo di Carlo Martello e trascritte per volontà del nipote Carlo nel 791". Per evitare che «nimia vetustatae et per incuriam» le lettere («memorales membranae»), già rovinate, vadano perdute, il re ha ordinato di

copiarle affinché nessun «testimonium sanctae ecclesiae» possa mancare ai suoi successori’. Il risultato è un libro della memoria molto particolare, il cui significato complessivo è costruito dalla struttura stessa del contenitore: la successione di lettere, che non sono rigidamente ordinate per data e includono anche le missive dell’antipapa ! «Quod pia devotio interius fideliter dictabat, hoc exterius propter negligentiam discendi

lingua inerudita exprimere sine reprehensione non valebat»: Epistola de litteris cit., p. 79. «Oblitteratam pene maiorum nostrorum desidia reparare vigilanti studio litterarum satagimus officinam»; «universos veteris ac novi instrumenti libros, librariorum imperitia depravatos, Deo nos in omnibus adiuvante, examussim correximus»: Epistola generalis cit., p. 80. !* Un dato quantitativo può servire a far comprendere ciò che ancora dobbiamo al programma avviato da Carlo ai fini della conoscenza della cultura classica e cristiana antiche:

«for the

first eight

hundred

years

of the

Christian

era

some

1,800

western

manuscripts or fragments of manuscripts remain, while over 7,000 survive from the ninth century alone» (Brown, Introduction cit., in Carolingian Culture cit., p. 34). !° Codex Carolinus,

in M.G.H.,

Epistolae, III, Berlin

1957, pp. 476-653.

La raccolta

è

conosciuta attraverso il solo ms. 449 della Biblioteca nazionale di Vienna: I Deug-su, Cultura e ideologia nella prima età carolingia, Roma 1984 (Studi storici, 146-147), p. 61 sgg. ‘° «Regnante in perpetuum Domino et Salvatore nostro Iesu Christo, anno incarnationis Eiusdem

Domini nostri DCCXCI

Carolus, excellentissimus et a Deo electus rex Franco-

rum et Langobardorum ac patricios Romanorum, anno felicissimo regni ipsius XXIII, divino nutu inspiratus, sicut ante omnes qui ante eum fuerunt sapientia et prudentia eminet, ita in hoc opere utilissimum sui operis instruxit ingenium, ut universas epistolas, que tempore bonae memoriae domni Caroli avi sui nec non et gloriosi genitoris sui Pippini suisque temporibus de summa sede apostolica beati Petri apostolorum principis seu etiam de imperio [le lettere inviate da Costantinopoli non ci sono in realtà pervenute] ad eos directae esse noscuntur, eo quod nimia vetustatae et per incuriam iam ex parte diruta atque deleta conspexerat, denuo memoralibus membranis summo cum certamine renovare ac rescribere decrevit — incipiens igitur, ut supra diximus, a principatu praefati principis Caroli avi sui, usque praesens tempus ita omnia exarans, ut nullum penitus testimonium sanctae ecclesiae profuturum suis deesse successoribus videatur, ut scriptum est: “sapientiam omnium antiquorum exquiret sapiens”): Codex cit., p. 476.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

7

Costantino II perché in linea con le altre, forma un dossier che con un’unica voce, quella papale, esalta il potere dei Carolingi' e legittima il carattere provvidenziale dell’ascesa e affermazione della dinastia. Da quest’ultimo punto di vista le lettere importanti sono numerose e si trovano lungo tutto il Codex: da quella (n. 3), indirizzata da papa Zaccaria a Pipino il Breve nel 747, e dunque prima del colpo di stato che lo avrebbe portato a estromettere l’ultimo dei Merovingi, a quelle (nn. 98 e 99), datate al 767, dell’antipapa Costantino II a Pipino, passando attraverso un gruppo di lettere di Stefano II e Paolo I. Come si delinea allora nel Codex Carolinus il destino peculiare della nuova dinastia franca? Aveva incominciato papa Zaccaria nel rivolgersi a Pipino «maior domus» e insieme a vescovi, abati e principi della terra dei Franchi: ai suoi interlocutori il papa offriva il modello di una bipartizione funzionale di compiti secondo la quale i «principes atque seculares homines atque bellatores» dovevano provvedere

alla

difesa

armata

del

territorio,

mentre

era

compito

dei

presuli sostenerne lo sforzo con le preghiere in modo tale che «nobis orantibus et illis bellantibus, (...) provincia salva persistat»!*. Sullo sfondo erano la tensione con i Longobardi e il pericolo di un loro rinnovato impegno militare'°, oltre al nuovo raccordo realizzato con i Franchi attraverso l’opera dei missionari anglosassoni Willibrord e soprattutto Bonifacio?°. In questo quadro papa Zaccaria introduceva

!" Su questo aspetto si è soffermato diffusamente I Deug-Su, Cultura cit., pp. 67-97. E da ricordare che vi è un’eccezione: la lettera 13 inviata dal senato e dal popolo romano a Pipino

il Breve

nel 757, sulla quale vedi

oltre, n. 26.

!° Codex cit., doc. 3, p. 479 sg. G. Duby, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti guerrieri e lavoratori,

rilevante

Roma

Bari

1984,

di transizione

p. 98 sg., individua

concettuale

dalla

coppia

nella lettera di Zaccaria

di termini

un momento

di ascendenza

gelasiana

auctoritas-potestas (vedi oltre, n. 39) alla coppia funzionale orazores-bellatores. Circa i problemi posti dal parallelismo istituzionale dell’ordinamento della chiesa e di quello del regno, fondamentale è G. Tabacco, L’ambiguità delle istituzioni nell’Europa costruita dai Franchi, in

Id., Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, soprattutto pp. 45-63. '’ Sugli avvenimenti del periodo in cui sono scritte la lettera di Zaccaria e quelle di Stefano II si veda P. Delogu, // regno longobardo, in Id., A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, Torino 1980 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, 1), pp. 166-182.

° Th. Schieffer, Winfrid-Bonifatius und die christliche Grundlegung Europas, Freiburg im

Breisgau 1954; G. Arnaldi, Bonifacio e Carlomagno, in I problemi dell'Occidente nelsecolo VIII, I, Spoleto 1973 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XX), pp. 15-39; Th. Schieffer, La chiesa nazionale di osservanza romana. L’opera di Willibrord e di

Bonifacio, in Le chiese nei regni cit., I; pp. 73-94. Si veda anche G. Tabacco, / processi di formazione dell’Europa carolingia, in Id., Sperimentazioni cit., p. 162 sg., quando ricorda, a proposito dell’idea di «fondazione “cristiana” (...) dell'Europa» proposta da Schieffer, che la si deve intendere «in tutta la sua concretezza storica, come organizzazione politico-

CONTEMPLARE

18

L’ORDINE

l'esempio di Mosè e Giosuè combattenti e vincenti con il popolo d’Israele: un esempio che i papi a lui succeduti avrebbero pienamente sviluppato in senso tipologico-figurale’". Due lettere di Stefano II, datate al 756 e 757, sono da considerare il punto di svolta, anche se il quadro politico-militare che le determina è molto differenziato, poiché la prima è scritta sotto l’assedio del re longobardo Astolfo a Roma, la seconda nel corso della lotta per il potere tra Ratchis e Desiderio, essendo nel frattempo Astolfo morto. La lettera

del 756 è impressionante: in una situazione estrema di pericolo, l’appello disperato ai Franchi («currite, currite [...], currite et subvenite»)° assume la forma inconsueta di una lettera inviata in prima persona dall’apostolo Pietro”. Stefano-Pietro chiama dunque in aiuto coloro che «secundum promissionem, quam ab eodem domino Deo et redemptori nostro accepimus, peculiares inter omnes gentes

vos omnes Francorum populos habemus»"*. E l’idea di popolo della promessa può essere anche usata per minacciare: come non deve essere disperso il popolo romano «sic non vos dispergat et proitiat

Dominus, sicut Israheliticus populus dispersus estv°. L’anno dopo, e ecclesiastica, in forme imperative, di quanto si poteva ricuperare e reinterpretare dell’eredità culturale e civile procedente dall’antico mondo mediterraneo». 2! «Sicut Moyses ille amicus Dei orando pugnabat et Iesu Nave, cum populo Israel bella Domini preliando, vincebat, ita et vos agere oportet»: Codex cit., doc. 3, p. 480. Aveva distinto opportunamente tra l’uso di figure dell'Antico Testamento nella lettera di Zaccaria e in quelle degli altri papi E. Ewig, Zum christlichen Kònigsgedanken im Frilhmittelalter, in Das Konigtum. Seine geistigen und rechtlichen Grundlagen, Lindau Konstanz 1954 (Vortrige und Forschungen,

3), p. 46.

?° Codex cit., doc. 10, p. 502. °° Nella lettera, che inizia con «ego Petrus apostolus», sono numerosi i passaggi analoghi. Ne ricordo alcuni: «ideoque ego, apostolus Dei Petrus, qui vos adoptivos habeo filios» (op. cit., p. 501); «coniuro vos, Christianissimos reges Pippinum, Carolum et Carlomannum, adque omnes sacerdotes, episcopos, abbates, presbiteros vel universos religiosos monachos, vel cunctos iudices, idem duces, comites et cunctum Francorum regni populum (...) ego, apostolus Dei Petrus»; «praestate ergo populo meo Romano, mihi a Deo commisso in hac vita, fratribus vestris, (...) presidia totis vestris viribus, ut ego, Petrus vocatus Dei apostolus, (...) praemia aeterne retribucionis et infinita paradisi gaudia vobis pollicens tribuam, dummodo meam Romanam civitatem et populum meum peculiarem, fratres vestros Romanos, de manibus iniquorum Langobardorum nimis velociter defenderitis» (p. 502); «declara-

tum quippe est, quod super omnes gentes, quae sub celo sunt, vestra Francorum prona

mihi, apostolo Dei Petro, extitit

gens

(p. 503).

SOipeditu DoS02: ? Op. cit., p. 503. Si veda anche un passaggio precedente e uno seguente (ibidem): «liberate eam [la città di Roma] et eius Romanum populum, fratres vestros, et nequaquam invadi permittatis a gente Langobardorum: sic non sint invase provincie et possessiones vestre a gentibus, quas ignoratis»; «si obedieritis velociter, erit vobis pertingens ad magnam mercedem (...) et eternam procul dubio fruemini vitam; sin autem, quod non credimus, et aliquam posueritis moram aut adinvencionem, (...) sciatis: nos ex auctoritate sancte et unice

Trinitatis per graciam apostolatus, que data est mihi a Christo Domino, vos alienare pro

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

IQ

dopo aver ricevuto il soccorso richiesto, Stefano II si rivolge a Pipino chiamandolo «novum (...) Moysen et praefulgidum (...) David regem»?°. Le soluzioni «Mosè» (e «nuovo Mosè»), «Davide» (e «nuovo Davide»), e in un’occasione «Giosuè» saranno adottate per designare Pipino anche da Paolo I e Costantino II°°. Nel contempo il ricordo dell’unzione di Pipino a re da parte papale nel 754 ritorna più volte, con particolare enfasi sul fatto che vero officiante del rito è stato san Pietro”, mentre il popolo dei Franchi diviene senz’altro, in una lettera di Paolo I del periodo 758-767, «gens sancta, regale sacerdotium, populus adquisitionis?’ perfezionando l’idea di popolo eletto che negli stessi anni (763-764) affiora anche nel nuovo e più lungo prologo della Lex Salica: «gens Francorum inclita, auctore Deo condita».

4

Alcuni elementi si possono ora fissare rispetto a quanto emerge dal Codex Carolinus. Innanzitutto un ricorso alla Bibbia che, entro i

transgressione nostre adhortacionis a regno Dei et vita aeterna». A proposito di un uso “difensivo” della nozione di Israele nei confronti dell’azione ingiusta dei re cfr. in questo volume L’imperfezione della società, par. 2. °° Op. cit., doc. 11, p. 505: «benedictus Dominus Deus Israel (...) suscitavit te nobis, Christianissime, victor rex, nostris diebus fortissimum liberatorem. Quid enim aliud quam novum te dixerim Moysen et praefulgidum asseram David regem?». Per contro la fine di Astolfo è così descritta: «tirannus ille, sequax diaboli, Haistulfus, devorator sanguinum Christianorum, ecclesiarum Dei destructor, divino ictu percussus est et in inferni voraginem demersus». Subito dopo questa lettera, che è del marzo-aprile 757, anche Stefano II moriva e gli succedeva Paolo I (757-767), suo fratello carnale: nella lettera 12 Paolo annuncia appunto a Pipino la sua elevazione al pontificato e la scomparsa di Stefano II, e la lettera 13, del senato e del popolo romano, è ancora di ringraziamento per l’intervento franco contro Astolfo e pure di richiesta di “restituzione” a san Pietro di territori già occupati dai Longobardi. E al tempo di Paolo I è da collocare la redazione della falsa donazione di Costantino: cfr. in questo volume Ruolo dei linguaggi, in particolare II.3. e III.2. °° Per le occorrenze di queste designazioni Ewig, Zum christlichen cit., p. 46 sg. Come si vede, l’idea di n0vus ha qui accezione positiva, perché il termine si colloca in un altro filone, su un altro piano rispetto a quello del nuovo come non canonico. Novus è infatti qui da collegare con il pensiero teologico risalente a san Paolo, per cui «la chiesa di Cristo è l’erede del popolo di Dio, ma ne è anche la realizzazione, e quindi la trasformazione, “spirituale”. Essa è il novus, il verus Israel»: G. Jossa, Dalle origini al concilio di Nicea, in Storia delle religioni, 2: Ebraismo e Cristianesimo, a cura di G. Filoramo, Roma Bari 1995, p. 207.

2 M. J. Enright, Jona, Tara and Soissons. The Origin of the Royal Anointing Ritual, Berlin

New York 1985, p. 129, che riporta l’esempio «per beatum Petrum principem apostolorum, qui vos in reges unxit».

? Sono le parole di I Pt 2, 9. ?° R. Schmidt-Wiegand, «Gens Francorum inclita».. Zur Gestalt und Inhalt des lingeren Prologes der Lex Salica, in Festschrift fiir Adolf Hofmeister zum 70. Geburtstag, a cura di U. Scheil, Halle 1955, pp. 233-250; J. L. Nelson, Kingship and Royal Governement, in The New Cambridge Medieval History: c. 700 — c. 900, a cura di R. McKitterick, II, Cambridge 1995, pp. 422-425. Cfr. anche E. H. Kantorowicz, Laudes regiae. A Study in Liturgical Acclamations and Medieval Ruler Worship, Berkeley Los Angeles 1946, pp. 56-64.

CONTEMPLARE

20

L’ORDINE

parametri dell’interpretazione figurale, mostra una chiara tendenza. Quella di usare i contenuti del libro sacro in modo immediatamente operativo, adattando a precise situazioni politico-militari lo schema del parallelismo tipologico. Questo aspetto di nuova concretezza nell’uso della Bibbia e soprattutto dell’Antico Testamento” appare con maggior precisione negli anni che seguono la doppia unzione di Pipino, quella effettuata a Soissons nel 751 a opera probabilmente di

Bonifacio” e quella amministrata a Saint-Denis nel 754 da Stefano

II. Un momento di passaggio del potere regale, che sempre rappresenta una fase critica per le coscienze e gli assetti esistenti’’, venne allora complicato dalla rottura della successione dinastica per via di sangue. Quanto accadde con l’elevazione di Pipino al trono rappresentava il perfezionamento istituzionale di una egemonia di fatto e insieme era un’usurpazione: un atto per il quale i tempi erano maturi, ma che pur sempre rompeva con la tradizione dei Franchi di riconoscere come propri re gli appartenenti a un’unica famiglia, quella dei Merovingi. Esisteva tuttavia un modello disponibile di sostituzione di un sovrano con un altro: il racconto del Libro dei Re'* che vede per voce di Samuele il re Saul respinto dal Signore a causa del suo agire da stolto e quindi la scelta e l’unzione di Davide come nuovo re, a opera sempre di Samuele ispirato profeticamente da Dio”. Un modello che °" J. Chidenius, Medieval Institutions and the Old Testament, Helsinki Helsingfors 1965, p. 44 sg. Si veda anche W. Ullmann, The Bible and Principles of Government in the Middle Ages, in La Bibbia nell’alto medioevo, Spoleto 1963 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, X), pp. 181-227; P. E. Schramm, Das Alte und das Neue Testament in der Staatslehre und Staatssymbolik des Mittelalters, in La Bibbia cit., pp. 229-255; P. Riché,

La Bible et la vie politique dans le haut Moyen Age, in Le Moyen Age et la Bible, a cura di P. Riché, G. Lobrichon,

Paris

1984, pp. 385-400.

? Sul problema posto dalla reticenza delle fonti contemporanee, ma non di quelle del tempo di Carlo, circa il ruolo avuto da Bonifacio nell’unzione del 751, J. Jarnut, Wer har Pippin 751 zum Kéònig gesalbt?, in «Frùhmittelalterliche Studien», 16 (1982), pp. 45-57. ? E. H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, introduzione

di A. Boureau,

Torino

1989.

** Per i moderni I Samuele, 15-16. Quello che nel testo ebraico era il Libro di Samuele (per i moderni I e II Samuele) era, nella Vulgata, I e II Regni o Re, mentre il Libro dei Re

(per i moderni I e II Re) era, nella Vulgata, III e IV Regni o Re. A queste designazioni in quattro libri fa riferimento la riflessione sulla regalità, che trova tra i secoli VII e VIII nel

mondo anglosassone, attraverso l’opera esegetica di Beda il Venerabile, una formalizzazione di rilievo: J. McClure, Bede’s Old Testaments Kings, in Ideal and Reality in Frankish and Anglo-Saxon Society. Studies presented to 7. M. Wallace-Hadrill, a cura di P. Wormald, D. Bullough, R. Collins, Oxford 1983, pp. 76-98.

° Valutazione non diversa in A. Graboîs, Un mythe fondamental de l’histoire de France au

Moyen Age: le «roi David», précurseur du «roi très chrétien», in «Revue historique», 287 (1992), p. 17 sg., all’interno di un percorso che identifica, come elemento caratterizzante nella

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

ZI

già la chiesa visigota aveva sperimentato per i regnanti, in un’accezione tuttavia diversa, che si potrebbe definire protettiva: il «morbus gothicus» da cui erano falcidiati i sovrani visigoti del periodo ariano era l’assassinio. L’unzione dei re e poi l’insistenza sul «nolite tangere Christos meos» dei concili toletani appaiono come gli strumenti per proteggere l’incolumità del sovrano, la cui persona ha ora carattere sacro, «con il disegno superiore di favorire la stabilità politica nazio-

nale»”°. Presso i Franchi l’unzione di Pipino sul modello davidico”

dovette invece essere uno strumento concreto, tra altri, per esorcizzare e rendere socialmente accettabile l’aspetto intimamente sovversivo dell’estromissione del re legittimo, dal quale ancora dovevano promanare alcuni bagliori della sacralità specifica connessa alla stirpe dei Merovingi”. Le lettere del Codex, che a quell’atto ossessivamente rimandavano, furono poi elementi di legittimazione sia per chi riceveva sia per chi inviava: il papato, anche nella funzione di dispensatore dell’unzione regia, riacquistava coscienza di sé e del proprio ruolo rispetto al regnum” in una prospettiva che la piena età carolinlunga durata il mito, il suo emergere «quand le régime devait en recourir afin d’y trouver les sources de sa légitimité» (p. 30).

°° Per tutte queste notazioni J. Orlandis Rovida, La Iglesia visigoda y los problemas de la sucesion al trono en el siglo VII, in Le chiese nei regni cit., I, pp. 333-351, e la discussione alle pp. 385-404 (cit. a p. 386). Si vedano anche M. Reydellet, La royauté dans la litterature latine de Sidoine Apollinaire à Isidore de Séville, Rome 1981 (Bibliothèque des Ecoles francaises d’Athènes et de Rome, 243) e, a proposito dei concili di Toledo come istituzione insieme

politica

e religiosa, J. Orlandis,

D.

Ramos-Lissòn,

Historia

de los concilios de la

Espafia romana y visigoda, Pamplona 1986. ? Occorre ricordare che anche nel racconto biblico Davide è unto più volte, a ulteriore riconoscimento del suo essere re. Mi sembra dunque che più che l’analogia sul singolo tema biblico (unzione di Davide-unzione di Pipino) sia il racconto nel suo complesso a dover essere valutato come proposta di transizione non dinastica del potere regale e di conseguente rifondazione della sua legittimità. ?° J. M. Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, in Id., The Long-haired Kings and other Studies in Frankish History, London 1962, pp. 148-248. Per un uso, nel pieno secolo X e nel difficile quadro del regno italico, della figura di Saul (ma non di quella di Davide, che scompare), cfr. in questo volume L’imperfezione della società, par. 2-3. °° Un alto livello di autocoscienza del papato si era espresso alla fine del secolo V attraverso papa Gelasio I e la formula che, nei confronti dell’impero, enunciava con lucidità la «concezione di due poteri universali, indipendenti e coordinati»: G. Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale nella tradizione cristiana fino al secolo XIV, Torino 1950, p. 59. Entro questa concezione del «duo quippe sunt (...) quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas», stava il «forte rilievo dato dal papa alla superiore responsabilità del sacerdozio rispetto al regno. Che tuttavia non significa sovrapporre giuridicamente un potere all’altro, ma rivendicare al sacerdozio quella forza morale, che sola può fare equilibrio alla potenza del principe» (p. 61). Per l’importanza della formula gelasiana nel pensiero politico medievale si veda I. S. Robinson, Church and Papacy, in The Cambridge History of Medieval Political Thought: c. 350-c. 1450, a cura di J. H. Burns, Cambridge 1988, pp. 288-300.

CONTEMPLARE

22

L’ORDINE

gia e le età successive avrebbero nuovamente, e talvolta drammaticamente, riproposto‘°. In questo gioco di specchi si inserisce l’iniziativa di conservazione attuata da Carlo Magno, il cui senso deriva proprio dalla cornice autoritativa all’interno della quale è contenuto il cammino provvidenziale della dinastia e dei Franchi: que! ricordo doveva essere fissato attraverso quella struttura formale per essere ancora e sempre disponibile come memoria legittimante a cui poter eventualmente tornare.

3. Anche altre forme di aide-mémoire furono frutto della rinascita carolingia. Si tratta di forme questa volta originali, di generi letterari nuovi uniti sottilmente tra loro, e con il Codex Carolinus, da un filo comune: istituire il ricordo come elemento politicamente e socialmente necessario. Aveva incominciato nel 775, con una lettera indi-

rizzata a Carlo Magno probabilmente sotto l’impressione della conquista del regnum Langobardorum, un uomo delle isole di nome Catwulfo: la sua lettera sembra rappresentare il primo esempio embrionale di speculum*'', uno di quei manuali «a carattere moraleggiante, ricchi di auctoritates e di motivi ormai tradizionali, dedicati per lo più a sovrani o a potenti laici (...) con l’intento specifico (...) di esporre i doveri del loro ordo»‘°. Ebbene, risalendo direttamente al racconto del Libro dei Re e mostrando la tendenza diffusa ad applicare il modello di regalità dell’antico Israele al potere dei Pipini-

di-Carolingi*’, Catwulfo enunciava l’idea che il re è vicario di Dio e il ‘° Naturalmente occorre pensare all’età di Gregorio VII come momento-limite di autocoscienza papale coerentemente condotta in quella direzione ierocratica che i papi delle età successive, fino a Bonifacio

VIII, provvederanno

a perfezionare

teoricamente:

un chiaro

profilo del tema è delineato da M. C. De Matteis, La chiesa verso un modello teocratico: da Gregorio VII a Bonifacio VIII, in La storia. I grandi problemi dal medioevo all’età contemporanea, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, I, Il medioevo, 1: I quadri generali, Torino 1988, pp. 425-452. Si veda anche, in questo volume, il punto di snodo rappresentato da Silvestro II, e il suo valore di raccordo tra papi come Gelasio o Giovanni VIII e Gregorio VII: Ruolo dei linguaggi. “ W. Ullmann, The Carolingian Renaissance and the Idea of Kingship. The Birkbeck Lectures 1968-9, London 1969, p. 49. Sul tema degli specula cfr. H. H. Anton, Firstenspiegel und Herrscherethos

in der Karolingerzeit,

Bonn

1968.

‘ Savigni, Giona di Orléans cit., p. 24. ‘ M. E. Moore, La monarchie carolingienne et les anciens modèles îrlandais, in «Annales», 51 (1996), p. 308; l’autore vi sottolinea inoltre che non solo il modello di Catwulfo è autonomo da sant'Agostino ma anche che «les évèques francs ont bien compris Augustin et l’on écarté de la discussion politique, de la facon la plus discrète possible» (p. 309). La teoria dell’agostinismo politico e del significato di ministero religioso in cui si sarebbe risolto il potere di Carlo, proposta da H. X. Arquillière, L’augustinisme politique, Paris 1934, e talvolta ancora affiorante, era già stata fortemente ridimensionata da Tabacco, La relazione cit., in particolare pp. 105-115.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

23

vescovo, in posizione subordinata, vicario di Cristo! attraverso «’ingiunzione a ricordare» («zakhor)»-«memor esto») che tante volte ricorre nell’Antico Testamento”: «memor esto ergo semper, rex mi, Dei regis tui cum timore et amore, quod tu es in vice illius super omnia membra eius custodire et regere, et rationem reddere in die iudicil, etiam per te. Et episcopus est in secundo loco, in vice Christi tantum estv'°. E in questo contesto Catwulfo annunciava l’invio di una raccolta di canoni che Carlo Magno, sull’esempio della prescrizione mosaica ai re di Deuteronomio 17, 18, avrebbe dovuto ricopiare di

propria mano e poi leggere tutti i giorni della sua vita‘. Giocando

simultaneamente su più livelli veterotestamentari, Catwulfo proponeva dunque una soluzione al problema del rapporto regnosacerdozio: una soluzione che fondavala preminenza del vertice civile rispetto

all’autorità

ecclesiastica

in forma

memorativa,

come

già iscritta nella storia e recuperabile attraverso la semplice rimembranza. La storia di Catwulfo era ancora una volta la «divina historia», la Bibbia. Ma al tempo di Carlo altre storie fanno la loro comparsa mostrando

come

l’aspirazione

a strutturare

i ricordi,

determinati

ricordi, agisca direttamente sul terreno dei generi testuali. Diciamo subito che in questo periodo rare sono le cronache universali «ab origine mundi»: su questo piano la Bibbia e il suo uso intensivo svolgono forse una funzione sostitutiva, inducendo al parziale abban-

# Kantorowicz, concezione

I due corpi cit., p. 68, sottolinea

carolingia

d’un

monarca

simile

a Davide

anche p. 138 sg. per la persistenza dell’immagine

in relazione era

a Catwulfo

decisamente

che «a

teocentrica»;

cfr.

in Inghilterra.

© Y. H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Parma 1983, in particolare pp.

17-24.

Su «memor

esto»

in un

testo

comunale

senese

del secolo

XIII, E. Artifoni,

Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma l’Ecole francaise de Rome, 201), pp. 177-179. *° In M.G.H.,

1994 (Collection de 1

Epistolae, IV: Epistolae Karolini Aevi, II, a cura di E. Diimmler,

Berlin

1895: Epistolae variorum Carolo Magno regnante scriptae, doc. 7, p. 503. 4 Il manuale era probabilmente la versione, diffusa in Bretagna, della Collectio canonum Hibernensis, una raccolta su cui cfr. R. Reynolds, Unity and Diversity in Carolingian Canon

Law Collections: the Case of the Collectio Hibernensis and its Derivates, in Carolingian Essays.

Andrew W. Mellon Lectures in Early Christian Studies, a cura di U.-R. Blumenthal, Washing| ton D. C. 1983, pp. 99-136, e Enright, Zona, Tara cit., pp. 79-106. 4 B. Guenée, Histoîres, annales, chroniques. Essai sur les genres historiques au Moyen Age, in «Annales», 28 (1973), pp. 997-1016, e anche la sezione Le genre “Chronique universelle in L’historiographie médiévale en Europe. Actes du colloque organisé par la Fondation européenne de la science, a cura di J.-Ph. Genet, Paris 1991, pp. 235-340: in particolare P. Brezzi, Chroniques universelles du Moyen Age et histoire du salut, pp. 235-245; H.-W. Goetz, On the Universality of Universal History, pp. 247-261.

24

CONTEMPLARE

L’ORDINE

dono di tale genere storiografico. Un percorso di cui dirò brevemente porta invece all’emergere di forme innovative di scrittura della storia. L'esigenza di scandire il tempo liturgico e di fissare la festa mobile di Pasqua aveva determinato,

all’inizio del secolo VI a Roma,

la crea-

zione di un sistema di computo degli anni da parte di Dionigi il Piccolo. Accolte nel mondo anglosassone e calcolate da Beda il Venerabile fino al 1063, le Tavole Pasquali furono dai missionari . delle isole reimmesse sul continente nel corso del secolo VIII. Si era intanto cominciato ad annotare a margine degli anni qualche scarna notizia relativa a fatti rilevanti di carattere locale (l’avvento o la morte di un abate) e più generale (successioni dinastiche): in questa forma giunsero nel regno dei Franchi e «assurèrent leur succès, non seulement en tant qu’instruments de chronologie ecclésiastique pratique, mais aussi comme substrats de memoranda». La fase successiva vide le annotazioni abbandonare i margini delle Tavole Pasquali e divenire autonome nella duplice veste di annali minori e maggiori, vale a dire di testi che, attraverso la scansione per anni, consentirono di introdurre informazioni più articolate, suscettibili di evolvere, nel caso degli annali maggiori, in veri e propri racconti. Per questo sviluppo occorreva l’incontro con un ambiente sociale

che stesse elaborando il suo rapporto con la storia e con il proprio passato: «le milieu fut celui du palais carolingien. Le besoin qu’a ressenti la dynastie de se justifier à la suite du coup d’état de 751 a engendré un intérèt qui faisait antérieurement défaut — un intéréèt à soutenir l’ordre politique qu’elle avait érigé par une historiographie

officieuse»”. Di questa storiografia semiufficiale, elaborata nei centri di cultura episcopali e monastici presenti sul territorio, massima espressione sono gli Annales Regni Francorum, voluti da Carlo Magno tra il 787 e il 793, negli stessi anni dunque dell’ Admonitio generalis (789) e del Codex Carolinus (791). Cerchiamo allora di vedere quali siano i caratteri di questa produzione storiografica legittimante, all’interno della quale appaiono centrali gli Annales Regni Francorum. Un primo livello di

‘ F. L. Ganshof, L’historiographie dans la monarchie franque sous les Mérovingiens et les

Carolingiens. Monarchie franque unitaire et Francie Occidentale, in La storiografia altomedievale, II, Spoleto 1970 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XVII),

p. 668. Rinvio, per molti dei dati che seguiranno, allo stesso contributo di Ganshof, pp. 631-685.

°° M. McCormick, Les annales du haut moyen age, Turnhout 1975 (Typologie des sources du moyen

age occidental,

14), p. 16.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

25

lettura procede da una constatazione: gli annali minori e maggiori incominciano tutti da una data memorabile per la dinastia. Può trattarsi del 708, anno della morte di Drogone, primogenito di Pipino II, e inizio dell’ascesa di Carlo Martello, oppure anche del 741, anno della morte di quest’ultimo (così gli Annales Regni). La memoria di altri si spinge invece più lontano, risalendo al 687, anno nel quale Pipino II, giunto al potere in Austrasia, ottiene con la battaglia di Tertry il controllo politico-militare della Neustria, vero

cuore del regno”.

«Bellum Pippino in Testricio, ubi superavit Francos», «Pipinus primus regnum coepit», «Pipinus senior regnare coepit»: le diverse soluzioni offerte dalle prime notizie degli Annales Sancti Amandi, Laubacenses, Petavianî° sembrano essere in crescendo. Soprattutto i Laubacenses e Petaviani usano una terminòlogia sufficientemente ambigua da suggerire, pur registrando il titolo di re per Pipino III nel 751, un’anticipazione del cambio dinastico al tempo dell’avo Pipino II. Non si tratta di soluzioni isolate: nell’ Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che appartiene alla prima generazione di intellettuali presenti alla corte di Carlo, si dice a un certo punto che i re dei Franchi erano venuti degenerando «a solita fortitudine et scientia» e che allora i maggiordomi avevano preso ad «administrare regi potentiam et quicquid regibus agere mos est», come se dal cielo fosse stato disposto che alla loro progenie fosse trasferito il regno dei Franchi. Qualche passo più avanti si racconta che Pipino II «aput regnum Francorum (...) optinebat principatum», mentre il titolo del capitolo così riassume: «de (...) rege Francorum Pipino et bellis eius,

et quia ei Carolus

[Martello], suus filius, successit»”*.

Anche gli Annales Mettenses Priores muovono dagli anni dell’affermazione di Pipino II prospettando tuttavia una soluzione che appare diversa da un uso semanticamente ambiguo della terminologia regale’. L’ascesa di Pipino II in Austrasia con cui si aprono è subito 5! Sugli avvenimenti del periodo P. J. Geary, Naissance de la France. Le monde mérovingien, Paris 1993, p. 209 sgg; I. Wood, 1994, p. 255 sgg.

The Merovingian Kingdoms.

450-751, London New York

? In M.G.H., Scriptores, I, a cura di G. H. Pertz, Hannover 1826, p. 6 sg. Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992, I. VI, c. 16, p.

320.

* Op. cit., 1. VI, c. 37, p. 338 e t. 37, p. 302; tenendo conto, a proposito del titolo, che

l’autenticità degli indici ? La provenienza di redazione nei primissimi femminile di Chelles, la

è discussa: Capo, in op. cit., p. 369. questi annali da Metz è incerta. Si propende ora per a loro anni del secolo IX (intorno all’806) a Saint-Denis o all abbazia cui badessa, Gisla, era un’amata sorella di Carlo Magno e «femina

CONTEMPLARE

26

L’ORDINE

posta sotto il segno del favore divino: «anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christi DCOLXXXVIII. Pippinus (...) post plurima prelia magnosque triumphos a Deo sibi concessos orientalium Francorum

(...) suscepit principatum»”°. Da questo momento la narrazione, di

ampio respiro, esalta le virtù morali e politiche del «princeps» fino all’acme della battaglia di Tertry, al termine della quale, accogliendo il sovrano sconfitto e per non incorrere nella tirannide, Pipino gli lascia il titolo di re: «Theodericum (...) recipiens, ne tirannidem videretur exercere vel sevitiam, nomen sibi regis inestimabili pietate reservavit»””. Da qui in avanti, anche per probabile interferenza con modelli imperiali romani, è come se il principato si librasse istituzio-

nalmente al di sopra del potere regio”. «Igitur (...) Pippinus singularem

Francorum

obtinuit

principatum»

è il commento

che

segue

l’episodio”’, e significativamente gli anni di regno di Teoderico risultano computati in relazione al principato di Pipino: nell’anno 693 «Pippini vero singularis principatus in Theodericum», questi, «qui, antequam vinceretur a Pippino, annis XIIII, victus vero sub eodem

regnavit III annis, moritur».

Su questo sfondo

appare

logico e

accettabile che i tre successori di Teoderico siano fatti re da Pipino e

verbipotens» secondo Alcuino: J. L. Nelson, Gender and Genre in Women Historians of the Early Middle Ages, in L’historiographie médiévale cit., pp. 156-160, ritiene che gli Ammnales Mettenses siano stati redatti proprio sotto la direzione di Gisla. °° Annales Mettenses Priores, a cura di B. von Simson, Hannover Leipzig 1905 (M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum), p. 1. ” Op. cit., p. 12 (anno 690). La pietas di Pipino non sì spinge comunque fino alla rinuncia del potere effettivo, compreso quello di mobilitazione generale dell’esercito, dato che il passo così prosegue (:bidem): «ipse [Pipino] vero totius regni gubernacula thesauros regios et universi exercitus dominationem propriae facultatis iure disponenda retinuit». Cfr. anche p. 13: «dispositis autem prudenter omnibus in occidentis regni gubernaculis, ad orientalis imperii sui sedes cum summa gloria et exultatione revertitur» (anno 691); «Pippinus exercitum universalem Francorum adunare precepit» (anno 692).

°° E da notare che questo uso di terminologia del principato è precedente all’incoronazione imperiale di Carlo Magno: come risulta dal proemio del Codex Carolinus (vedi sopra, n. 16) le lettere che Carlo ordina di raccogliere partono «a principatu praefati principis Caroli avi sui» e i papi (lo si è visto con la lettera di Zaccaria datata al 747) si rivolgono ai «principes» del regno dei Franchi (Codex cit., doc. 3, p. 479), ravvivando così modelli di intitolazione di ascendenza romana. In particolare, su «princeps», sì veda H. Wolfram, Intitulatio, I: Lateinische Kònigs- und Firstentitel bis zum Ende des 8. Fahrhunderts, Graz Wien Kéln 1967 (Mitteilungen des Instituts fr òsterreichische Geschichtsforschung, 21), pp.

148-155.

°° Annales Mettenses cit., p. 12 (anno 691), con questo immediato seguito, adatto alla

descrizione di un sovrano apportatore di prosperità e pace: «correctisque omnibus pravitatibus, quae in illis partibus per cupiditatem et iniquitatem principum per multos annos adoleverant, cunctam illam patriam in Christi servitio florentem pacatissimamque reddidit». Op. citsypilo:

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

27

non, secondo la tradizione almeno formalmente osservata, dal consenso dei grandi del regno entro le leggi dell’idoneità dinastica: «Clodoveus a Pippino ordinatur in regem»°; «Pippinus (...) regem

(...) Childebertum constituity”’; alla morte di questi, «Pippinus solita pietate filium eius Dagobertum in regem ordinavit)”’. Ciò che gli Annales Mettenses costruiscono è la storia di un’avventura: mentre questa procede, avviene al suo interno una sorta di risistemazione ideologica dei termini relativi alla gerarchia del potere. Tale risistemazione tende a presentare l’egemonia imposta da Pipino II come fondata su un ordine istituzionale altro rispetto a quello consueto. E anche

questa soluzione

non

è isolata, dal momento

in

che emerge

forma sintetica nella prima notizia degli Annales Laurissenses Minores: «Pippinus dux Francorum (...) obtinuit (...) regnum Francorum per annos 27 cum regibus sibi subiectis Hluduwigo, Hildiberto et Dagaberto». Il gruppo di annali che muove dal 687 mostra la volontà di ancorare la memoria dei Pipinidi-Carolingi al momento di fondazione del loro successo politico-militare: un momento che proietta, su tutta la storia successiva della dinastia, la luce dell’irresistibile ascesa ma che insieme appare più esposto dal punto di vista delle radici della legittimità carolingia. Da qui la necessità di rendere conto del salto di qualità impresso in prospettiva da Pipino II e insieme di confrontarsi con la terminologia regale, assumendola ambiguamente o disinnescandola.

4. «Carolus

maior domus

defunctus

est: è la prima breve notizia

registrata al 741 negli Annales Regni Francorum”. Un inizio certo non problematico, che li differenzia sostanzialmente dagli annali risalenti al 687: un inizio tuttavia non meno forte, che nella sua concisione

istituisce un legame diretto tra l’avo e il nipote omonimo e impone il ricordo della morte di Carlo Martello alla memoria collettiva. Gli anni che seguono si dipanano lungo le vicende militari e personali dei suoi eredi, Pipino e Carlomanno: e senza che vi sia neppure un °" Ibidem. °° Ibidem. % Redatti tra l’806 e l’814, forse verso

l’807, sono

anche

conosciuti

Laurissense Breve, a cura di H. Schnorr von Carolsfeld, in «Neues Archiw,

pp. 23-39 (cit. a p. 23). 5 A cura di F. Kurze, Hannover scholarum), p. 2.

i

de

® Op. cit., p. 18 (anno 711).

come

Chronicon

36 (1910-11),

1 | 1895 (M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum

CONTEMPLARE

28

L’ORDINE

accenno al re merovingio in carica, semplicemente ignorato, si giunge all’anno 749 e all’ambasceria inviata a Roma da Pipino. Il racconto, molto noto, ricorda che due legati dei Franchi, Burcardo vescovo di Wiirzburg e Fulrado futuro abate di Saint-Denis, si erano recati da papa Zaccaria «interrogando de regibus in Francia, qui illis temporibus non habentes regalem potestatem, si bene fuisset an non». E papa Zaccaria aveva mandato allora a dire a Pipino «ut melius esset illum regem vocari, qui potestatem haberet, quam illum, qui sine regali potestate manebat; ut non conturbaretur ordo, per auctoritatem apostolicam iussit Pippinum regem fieri». Così Pipino «secundum morem Francorum electus est ad regem et unctus per manum sanctae memoriae Bonefacii archiepiscopi et elevatus a Francis in regno in Suessionis civitate. Hildericus vero, qui false rex vocabatur, tonsoratus est et in monasterium missus»”. Rispetto ai messaggi legittimanti del cammino provvidenziale di impronta veterotestamentaria (Codex Carolinus) o della costruzione della fortuna familiare in forma epica (Annales Mettenses), gli Annales Regni si pongono in modo diverso. Innanzitutto agendo concettualmente sul terreno di una embrionale teoria del potere. Il silenzio che avvolge il legittimo potere regio e il suo ultimo rappresentante e, per

contro, l’enfasi sull’attività militare di Pipino nei confronti dei nemici esterni e interni al regno non rappresentano puri elementi di contorno: essi servono invece a mostrare la forbice tra un vertice istituzionale inesistente e un potere personale continuamente verificato e accresciuto nei fatti. In questo modo si suggerisce che dal punto di vista politico si era verificato uno stato di cose insostenibile’: di conseguenza, del tutto appropriata appare la quaestio che i rappresentanti dei Franchi pongono all’’esperto” in tema di mantenimento

dell’«ordo»”,

da lui autorevolmente

°° A. Stoclet, Autour de Fulrad de Saint-Denis particolare, a proposito dell’ambasceria,

ricevendo

(v. 710-784),

pp. 442-445,

la risposta che, in

Genève

Paris

1993, in

454-464.

°° Annales Regni cit., pp. 8, 10. °° W. Affeldt, Untersuchungen zur Kònigserhebung Pippins. Das Papsttum und die Begriindung des karolingischen RKénigstums im Fahre 751, in «Frihmittelalterliche Studiem, 14

(1980), p. 165. °° Sulle due accezioni del termine, «ordo» come «corpo privilegiato» e come «organizzazione giusta e buona dell’universo» in connessione con la pace, cfr. Duby, Lo specchio cit., pp. 93-96 (cit. a p. 93). Per la riflessione sul termine in età carolingia, M. Cristiani, Dall’unanimitas all’universitas. Da Alcuino a Giovanni Eriugena. Lineamenti ideologici e terminologia politica della cultura del secolo IX, Roma 1978 (Studi storici, 100-102).

LA MEMORIA

nome

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

29

di quanto è in concreto preferibile, legittima anche dal punto

di vista teorico la creazione di un nuovo re”.

A questa soluzione giunta dall’esterno — da Roma - non si consegna tuttavia in modo esclusivo il compito di marcare la transizione dinastica: l’ascesa di Pipino al trono è perciò risolta linguisticamente ricordando non solo, pur senza particolare rilievo, la sua unzione, ma sottolineando anche gli elementi di continuità con la tradizione nazionale franca, appunto l’elezione da parte dei grandi del regno e l’elevazione al soglio regale. Naturalmente tacendo ciò che ne inficerebbe la validità, vale a dire il fatto sostanziale che il «mos Francorum» dell’elezione era in precedenza applicato ai rappresentanti di una diversa «stirps regia». E dopo questo passaggio compare finalmente il merovingio Childerico il quale, anche perché nominato per la prima volta negli Annales Regni ora, dopo che re è divenuto Pipino, può essere designato a rigor di logica «false rex». Si tratta di un rovescimento di prospettiva che, capzioso o meno, lascia comunque intravvedere un fatto: ripensare a quel momento del passato può costituire ancora un problema per la coscienza della nuova dinastia e degli intellettuali che ne sostengono le aspirazioni. In base a questa lettura è forse eccessivo vedere già negli Annales Regni la formalizzazione di uno schema concettuale che distingue tra nomen € potestas, «tra puro titolo ed effettivo potere», espressione

dell’idea di stato dei Franchi fin dal 751": gli Annales Regni aprono piuttosto una nuova strada, quella della riflessione sulla natura della regalità, che negli anni successivi all’evoluzione imperiale del potere °° L’unica fonte contemporanea all’elevazione di Pipino al trono, a opera del conte Childebrando, zio di Pipino e continuatore della cronaca di Fredegario (Fredegarii Chranicarum liber quartus cum continuationibus, a cura di J. M. Wallace Hadrill, London 1960, c. 33, p. 102), così raccontava gli eventi: «quo tempore una cum consilio et consensu omnium Francorum missa relatione ad sede apostolica auctoritate praecepta praecelsus Pippinus electione totius Francorum in sedem regni cum consecratione episcoporum et subiectione principum una cum regina Bertradane, ut antiquitus ordo deposcit, sublimatus in regno».

Analizza questo passo Affeldt, Untersuchungen cit., pp. 129-138. Il problema della datazione dell’altra fonte collegata agli avvenimenti del 754 è affrontato da A. Stoclet, La «Clausula de unctione Pippini regis»: mises au point et nouvelles hypothèses, in «Francia», 8 (1980), pp. 1-42, che ritiene la Clausula un testo dell’inizio del secolo X in cui sono confluiti elementi più antichi.

" «Dieses zwischen nomen und potestas, zwischen bloBem Titel und effektiver Herrschaft

unterscheidende Gedankenschema gehért zu den Grundkategorien des frànkischen Staatsdenkens seit 751. Es begegnet zuerst in der pipstlichen Antwort auf die Kénigsfrage Pippins»: H. Beumann, Nomen imperatoris. Studien zur Kaiseridee Karls des GroPen, in Id., Ideengeschichtliche Studien zu Einhard und anderen Geschichisschreibern des frilheren Mittelalters, Darmstadt 1962, p. 94. Per l’importanza dello studio di Beumann cfr. Cristiani, Dall’unani-

mitas a/l’universitas cit., p. 50 sgg.

CONTEMPLARE

30

L'ORDINE

di Carlo svilupperà le proprie potenzialità di Nomenzheorie anche in

rapporto con il mutamento

del 751”.

5. Ai nuovi generi letterari degli specula e degli annali occorre ancora aggiungere un’altra forma testuale sperimentata nell’età di Carlo e fortemente permeata di intenti memorativi: la storia di una sede episcopale narrata attraverso la successione e gli atti dei suoi vescovi. I Gesta episcoporum Mettensium di Paolo Diacono ne sono il primo esempio. Su richiesta di Angilramno, vescovo di Metz e arcicappellano di Carlo Magno, Paolo procede tra il 783 e il 786 alla stesura di un’opera il cui impianto, ispirato al Liber Pontificalis della chiesa romana, è applicato ora a una sede, Metz, i cui legami con la dinastia

regnante rappresentano la ragione stessa dell’impresa”’. Vescovo di Metz nel secolo VII era stato infatti Arnolfo, antenato

dei Pipinidi-Carolingi e santo”: non a caso quindi nella narrazione di Paolo che si snoda da Clemente, designato dall’apostolo Pietro dopo

la venuta dello Spirito Santo, a Crodegango”’, immediato predecessore di Angilramno, la figura di Arnolfo ha un posto centrale”. Di lui si racconta un solo «admirabile factum»:: quello dell’anello gettato nella Mosella e accompagnato dall’affermazione che egli si sarebbe considerato sciolto dai legami del peccato qualora lo avesse recuperato; cosa che avvenne alcuni anni dopo, quando l’anello fu trovato nelle interiora di un pesce che Arnolfo, ormai vescovo e astinente

«carnibus», si apprestava a mangiare”. La rilevanza dell’episodio non risiede nella lontana somiglianza, proposta dallo stesso Paolo, con quello biblico di Gedeone che ebbe per due volte, attraverso un vello

" In questa direzione interpretativa Affeldt, Untersuchungen cit., p. 154 sgg. "Sulla centralità di Metz per i Carolingi si veda O. G. Oexle, Die Karolinger und die Stadt des heiligen Arnulf, in «Frùhmittelalterliche Studien», 1 (1967), pp. 250-364. Per quanto

segue, questa volta dal punto di vista di Paolo Diacono, cfr. in questo volume La dialettica tra il passato e il presente, in particolare par. 3. "Il suo culto, avviato già daì vescovi suoi successori, si era diffuso «bien au-delà du clan

arnulfien-pippinide et de ses dépendants» (Geary, Naissance cit., p. 225) e aveva avuto una traduzione agiografica, la Vita Armwfi, nello stesso secolo VII, Di lui sì sottolinea l’azione riformatrice e liturgica di osservanza romana: idealmente, il

primo e l’ultimo vescovo di Metz istituiscono, nel segno della continuità, un rapporto privilegiato con il papato e con Roma.

°° M. Sot, Historiographie épiscopale et modéle familial en Occident au IX® siècle, in «Annales»,

o

Pp. 433-449,

e soprattutto,

a proposito

dei Gesta

di Paolo

Diacono,

pp.

-441.

” Pauli Warnefridi Liber de episcopis Mettensibus, in M. G.H., Scriptores, II, a cura di G. H. Pertz, Hannover 1829, p. 264.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

3I

di pecora, un segno dal Signore”. Il tema dell’anello perduto e ritrovato nel pesce sembra piuttosto da collegare a motivi folklorici”,

non diversamente da quanto avviene per un altro «factum (...) ammirabile» di cui Paolo parla nell’ Historia Langobardorum®®: il sogno di re Guntramno, e il suo viaggio estatico in forma di serpente”. E se molto probabilmente quest’ultima leggenda proviene a Paolo da una fonte orale, di certo l’episodio su Arnolfo gli è stato raccontato: l’identità di questo narratore chiarisce l’importanza dell’insieme. Paolo dichiara infatti di aver conosciuto l’episodio non da persona qualunque («non a qualibet mediocri persona»), ma da «ipso totius veritatis assertore, praecelso rege Karolo», del quale si ricorda che di

Arnolfo «in generationis linea trinepos extabatr”: siamo dunque nell’area del ricordo leggendario di famiglia, di qualcosa che attraverso le generazioni si è tramandato con ammirazione e rispetto e che ora, per il ruolo raggiunto da un suo rappresentante e proprio perché questi ne è il testimone, assume un interesse più vasto. Da questo episodio raccontato da Carlo e dunque dotato della massima autorevolezza, la narrazione vira decisamente sulla storia della dinastia: Arnolfo aveva generato dalla moglie legittima, prima di divenire vescovo, due figli, Clodulfo e Anschiso. Il nome di questi, precisa Paolo, deriva da Anchise, padre di Enea: «nam gens Francorum, sicut a veteribus est traditum, a Troiana prosapia trahit exor-

dium»”. Un elemento mitico già documentato e connesso con l’ori'* «Nec dissimiliter pater hic venerabilis quam olim Gedeon ille signum a Domino poposcit»: ibidem. In Gdc 6, 36-40, Gedeone chiede a Dio di manifestargli il suo favore ponendo in terra per due volte un vello che si bagnerà di rugiada e resterà asciutto mentre il terreno circostante sarà al contrario asciutto e bagnato.

?° Cfr. S. Thompson, Motif-Index of Folk Literature, Copenaghen 1955 —, I-II-V: «fish brings lost object from bottom of sea» (B 548.2.); «fish recovers ring from sea» (B 548.2.1.); «task: recovering lost ring from sea» (H 1132.1.1.); «lost ring found in fish» (N 211.1.); «lost articles found in interior of fish through virtue of saint» (N 211.1.0.1.). © «Cuius [di Guntramno] unum factum satis ammirabile libet nos huic nostrae historiae

breviter inserere, praesertim cum

hoc Francorum

historia noverimus minime

contineri»:

Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. III, c. 34, p. 170. La motivazione a raccontare è analoga nei Gesta: «unum tamen eius [di Arnolfo] admirabile factum referam, quod satis miratus sum quo ordine praeterierit is, qui eius contexuit vitam» (Pauli Warnefridi Liber de I episcopis cit., p. 264).

#! Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. III, c. 34, pp. 170-172. Si tratta di uno dei

racconti di esperienza di distacco temporaneo dell’anima dal corpo, il cui significato complessivo in età e luoghi anche lontani tra loro è stato oggetto dell’analisi di C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, e in particolare, sul sogno di

Guntramno,

pp. 117 sg., 276.

°° Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 264. Ibidem. ;

CONTEMPLARE

32

L’ORDINE

gine dei Franchi è così innestato nell’onomastica di famiglia attraverso una «deformazione erudita»"*. E proprio Anschiso, a differenza del fratello, obbedisce volentieri alla richiesta del padre di donare tutti i suoi averi per i poveri; in cambio, Arnolfo gli predice ricchezze maggiori di quelle che ha lasciato e soprattutto benedice «eum eiusque cunctam progeniem nascituram in posterum»: la benedizione ha un tale effetto «ut de eius progenie tam strenui fortesque viri nascerentur,

inmerito

ut non

ad

eius

prosapiam

Francorum

|

translatum sit regnum»”.

I Gesta episcoporum Mettensium mettono in atto un vero e proprio «dispositivo legittimante» incardinato sulla figura di Arnolfo come elemento di raccordo tra due forme diverse di parentela: quella spirituale dello pseudo-lignaggio episcopale di derivazione apostolica, quella biologica del lignaggio carolingio. La santità di Arnolfo, a lui trasmessa come

carattere originario dei vescovi di Metz, si riverbera

sui suoi discendenti”: con il suo gesto benaugurante egli provvede per le generazioni a venire fino al punto di renderle degne del vertice del regno. E perché il ricordo di queste sia adeguatamente onorato, Paolo inserisce qui la genealogia patrilineare che da Anschiso conduce a Carlo Magno («la première généalogie connue des Carolingiens»)", i legami matrimoniali pure non legittimi e la filiazione di quest’ultimo, gli epitaffi metrici delle cinque donne — due figlie di Pipino III, la moglie di Carlo Ildegarda, due figlie di Carlo — i cui

corpi riposano a Metz”. Più strati di memoria dunque, e diverse forme

testuali,

che

convivono

e insieme

contribuiscono

a fissare,

come in una foto di gruppo, l’immagine della famiglia che da sant'Arnolfo deriva la propria predestinazione a regnare. ** Sot, Historiographie épiscopale cit., p. 440, sottolinea che prima e dopo Paolo Diacono «ce fils d’Arnoul

porte le nom

germanique

d’Ansegiselus

ou Ansegise».

* Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 264 sg. ‘° Sot, Historiographie épiscopale cit., p. 440 sg., a proposito del «dispositif légitimant: «le pseudo-lignage épiscopal concentre sur Arnoul l’héritage des apòtres et du Christ par le fondateur Clément (...). Arnoul transmet cet héritage à son fils qui l’enrichit d’un autre mythe d°origine, celui des Troyens, et c’est l’ensemble qui converge sur Pépin et Charlemagne. Est-ce solliciter Paul Diacre que de dire que le futur empereur descend du Christ?».

7 Op:.cit., p:-439, ‘’ Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., pp. 265-267. Sot, Historiographie épiscopale cit., p. 441, ricorda la doppia natura

degli epitaffi, che sono

«un monument

d’architecture

funéraire d’une part, un monument littéraire d’autre part»; a proposito della prima delle due nature memorative, A. Petrucci, Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale, Torino 1995, pp. 55-57, sul carattere di novità nel guardare

all’antico degli epitaffi carolingi, splendidamente rappresentati da quello di papa Adriano I che per volontà di Carlo Magno fu realizzato in Francia e trasportato poi a Roma.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

33

6. I modi di legittimazione della dinastia carolingia che si sono fin qui identificati muovono, nella loro diversità, da un presupposto comune: sono resi possibili dalla contrapposizione con i Merovingi

sconfitti nella storia. Assenti o subalterni, stolti o inutili”, come

tendono ad apparire nelle fonti esaminate, gli antichi re dei Franchi sembrano essere gli antagonisti necessari ma scomodi, i convitati di pietra presenti al banchetto dei nuovi regnanti. Il quadro si direbbe coerente, se non dovessimo ancora considerare in breve alcuni indizi che lo arricchiscono e lo complicano. Si tratta di poche tracce sparse, rilevanti tuttavia per il segno e la provenienza: alcuni spunti nell’opera agiografica di Alcuino, una genealogia dei Carolingi, i nomi di due figli di Carlo Magno. Se nella Vita Willibrordi di Alcuino «a funzione di prefigurare i tempi di Carlo il Grande è affidata al proavo di Carlo stesso, Pipino ID, nella Vita Vedastis e nella Vita Richariî, voluta da Carlo, sono i re Clodoveo e Dagoberto, contemporaneo di sant’Arnolfo, a impersonare «il modello di una regalità di tipo carolingio»”: attraverso la cifra di un’ideale continuità, è così proposto un modo di pensare al passato merovingio come preparazione a quanto

il potere di Carlo va sperimentando. Il legame spirituale tra re carolingi e merovingi diviene legame di parentela in una falsa genealogia diffusa al tempo di Ludovico il Pio ma probabilmente già elaborata al tempo di Carlo e forse nel corso

dei due ultimi decenni del secolo VIII”. Nella Vira Arnulfi, del secolo VII, e nei Gesta episcoporum Mettensium di Paolo Diacono gli antenati del santo non sono nominati: in quest’ultima opera, in particolare, si dice soltanto che Arnolfo era nato «ex nobilissimo fortissimoque Francorum stemmate». Ma poco prima, a proposito del vescovo Agiolfo, Paolo ha ricordato che si narra fosse «patre ex nobili senatorum familia orto, ex Chlodovei regis Francorum filia procreatusy””. Si £ Sul tipo “rex inutilis”, che all’inizio del secolo IX evolverà pienamente in fonti come il cosiddetto Breviarium di Erchemberto e la Vita Karoli Magni di Eginardo, si veda E. Peters, The Shadow

London

King.

Rex

inutilis

1970, pp. 47 sgg.

in Medieval

Law

and Literature.

751-1327,

New

Haven

i

®° Per l’identificazione di questi diversi modelli di regalità G. Tabacco, Agiografia e

demonologia come strumenti ideologici in età carolingia, in Id., Spiritualità e cultura nel medioevo. Dodici percorsi nei territori del potere e della fede, Napoli 1993, pp. 315-318 (cit. a p. 317). Si veda anche, per i contenuti e la struttura delle tre opere, I Deug-Su, L’opera agiografica di Alcuino, Spoleto 1983 (Biblioteca degli «Studi medievali», 13), pp. 31-165. °! R. Le Jan, Famille et pouvoir dans le monde franc (VIIS-X® siècle). Essai d’anthropologie a sociale, Paris 1995, p. 41.

® Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 264. Il passaggio così prosegue (ibidem): «post istum extitit nepos ipsius nomine Arnoaldus. Quem secutus est Pappolus. Post hos ad regimen aecclesie beatissimus Arnulfus ascitus est), quindi Paolo avvia il tungo racconto su

CONTEMPLARE

34

L’ORDINE

tratta di un’ascendenza che può avere qualche relazione con quella attestata nella genealogia, dove Arnolfo risulta essere figlio del primogenito di un Ansperto, che era «ex genere senatorum») e aveva sposato una Blitilde, «filiam Hlotharii regis Francorum». La genealogia è una finzione, e una finzione esemplare: la nuova stirpe regia vi afferma che la propria memoria genealogica risale ad antenati romani e merovingi e che quindi il proprio diritto a regnare ha anche il fondamento tradizionale della continuità di sangue. Esiste infine un piano più profondamente simbolico, che penetra nelle coscienze in forma più sottile e attraverso il quale la legittimazione dei Carolingi avviene ancora nel segno del ricordo della dinastia precedente: dopo i tre figli maschi Pipino, Carlo e Carlomanno (al quale sarà dato nel 781, al momento della consacrazione papale a re d’Italia, il nome di Pipino), nel 778 Carlo Magno abbandona il sistema onomastico di famiglia”. Ai due gemelli che la moglie Ildegarda gli dà in quell’anno sono infatti imposti i nomi di Ludovico e Lotario. Il destino dei gemelli diverge quasi subito: Lotario muore infante, Ludovico diventerà unico successore del padre alla guida dell’impero. Ma ciò che qui interessa è la forza evocativa dei loro nomi, la loro aura “numinosa”. Attestati in forma ufficiale Hludouuicus e Hlotarius, la «H» iniziale era in realtà pronunciata come «Ch»”?. I loro nomi dovevano perciò avere un suono antico, e ricordare quotiArnolfo e sulla sua famiglia biologica. Nell’economia del lignaggio pseudo-episcopale proposto dai Gesta l’ascendenza materna del vescovo Agiolfo avrebbe eliminato «l’hypothèque de la présence d’un prétendant légitime mérovingien», mentre quella paterna avrebbe immesso il suo successore Arnolfo, suo discendente nella santità — e attraverso lui i Carolingi —, nel solco della tradizione imperiale romana: Sot, Historiographie épiscopale cit.,

p. 440. °° Genealogiae Karolorum, in M.G.H., Scriptores, XIII, Hannover 1881, p. 245. Da notare che è invece ignorato il legame che attraverso la madre di Carlo, Bertrada, poteva ricondurre ai Merovingi: E. Hlawitschka, Merowingerblut bei den Karolingern?, in Adel und Kirche. Gerd Tellenbach zum 65. Geburtstag dargebracht von Freunden und Schiilern, a cura di J. Fleckenstein, K. Schmid, Freiburg Basel Wien 1968, pp. 66-91. Sul rilievo dell’ascendenza femminile nella costruzione di un’ininterrotta linea regale Merovingi-CarolingiCapetingi, B. Guenée, Les généalogies entre l’histoire et la politique: la fierté d’étre Capétien, en France,

au Moyen Age, in «Annales»,

33 (1978),

pp. 450-477.

°° Le Jan, Famille et pouvoir cit., p. 201 sg. °° K. F. Werner, Hludovicus Augustus. Gouverner l’empire chrétien — Idées et réalités, in Charlemagne’s Heir. New Perspectives on the Reign of Louis the Pious (814-840), a cura di P. Godman,

R. Collins, Oxford

1990, p. 21 sg. Werner ricorda inoltre le parole dell’arcive-

scovo Incmaro di Reims al momento della consacrazione di Carlo il Calvo a re di Lotaringia nell’869: «sanctae memoriae pater suus [di Carlo] domnus Hludouuicus pius imperator augustus ex progenie Hludouuici regis Francorum inclyti». L'elemento dell’identica grafia per Ludovico e Clodoveo sottolinea la presunta parentela tra i due e il fatto che il secondo è ormai considerato antenato del primo.

LA MEMORIA

COME

LEGITTIMAZIONE

NELL’ETÀ

DI CARLO

MAGNO

35

dianamente a tutti, all’interno e all’esterno del regno”, che non. vi era stata alcuna cesura: i re merovingi Clodoveo e Clotario — non solo i più famosi con quei nomi ma anche coloro che li avevano portati sino alla fine della dinastia — continuavano a vivere nei figli di Carlo. «Priscorum nimium regum devictus amore / Hlutharium genitor nomen habere deditv”: nella forma di una resa incondizionata al ricordo suadente degli antichi re, un passo dell’epitaffio — molto

probabilmente opera di Paolo Diacono — del piccolo ClotarioLotario ci restituisce il senso della scelta pienamente consapevole di Carlo. Per questa via l’altro nome, Clodoveo-Ludovico-Luigi, sarà ancora

per secoli

il “segno”

dei re, in Francia.

7.Il percorso si avvia alla conclusione. Se, ripensiamo ora a quanto si è esaminato, il collegamento tra testimonianze diverse emerge più nitido. Vi è un numero limitato di anni in cui assume contorni precisi un’idea condivisa da Carlo Magno e dalle élites intellettuali custodi della memoria ebraico-cristiana: costruire un sistema politicoreligioso disciplinato e unitario significa innanzitutto saper ricordare. È un’esigenza che porta al recupero di tradizioni culturali appannate, a soluzioni innovative di scrittura, all’uso di forti richiami simbolici. Nel corso di questo processo la nuova dinastia elabora la propria immagine nella storia e l’immagine della dinastia precedente: la scelta è di non ridurre né l’una né l’altra a un’unica dimensione, ma di operare affinché diverse immagini, anche non coerenti, prendano forma. Tante ricostruzioni del passato sono così rese disponibili: e più ancora del valore di ciascuna di loro, il progetto memorativo nel suo complesso, in quanto consapevole aspirazione alla totalità, appare alla fine davvero legittimante.

°% In particolare ad Aquitani e Sassoni: dopo la sconfitta dei Franchi sul confine con la Spagna, «le nom de Clovis devait rappeler aux Aquitains (...) le nom du glorieux roi qui avait, le premier, soumis leur pays à la domination franque (...). Quant au nom de Chlotaire, il évoquerait celui du premier roi franc grand vainqueur de ces Saxons que Charlemagne était en train de soumettre et qui étaient, précisément, les premiers à profiter de l’échec franc pour se soulever (op. cit., p. 20). Si veda inoltre J. Jarnut, Chlodwig und Chlothar. Anmerkungen zu den Namen zweier Sbhne Karls des Grossen, in «Francia», 12

(1984), pp. 645-651.

|

L

|

” Epitaphium Chlodarii pueri regis, in M.G.H., Poetae Aevi Karolini, I, a cura di E.

Dimmler,

Berlin

1881, p. 72.

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LA DIALETTICA TRA NELLE OPERE

IL PASSATO E IL PRESENTE DI PAOLO DIACONO

Tra il carme per Adelperga, datato al 763', e l’Historia Langobardorum corre circa un trentennio’. Per Paolo Diacono è il tempo del passaggio dalla maturità alla vecchiaia; è il tempo in cui si modifica profondamente la sua rete di relazioni e affetti; è, ancora, il tempo dei rivolgimenti del quadro politico e istituzionale nel quale era abituato a vivere. Richiamare tali elementi serve a ricordare che la vicenda umana di Paolo nella parte digradante della sua vita è segnata dal mutamento e dalla complessità del contesto. Da questo punto di vista non è forse inutile ricordare anche ciò che i periodi di crisi innescano negli individui, e in particolare in coloro che rappresentano la coscienza di una società: quando accadono in maniera veloce e inaspettata, e non se ne è travolti, gli eventi costringono a definire,

e ridefinire,

l’esistente.

Si tratta di una

sollecitazione

che

può dare esiti diversi: può risolversi nell’isolamento e nel rimpianto, indurre a uno sforzo di comprensione e adattamento, diventare adesione tattica o intimamente sentita, essere assunta in una dimensione di senso di natura superiore. In ogni caso, nel corso di questo processo insieme intellettuale ed emotivo è messo in gioco il rapporto con il passato e con il futuro. Oggetto del mio contributo è vedere come Paolo Diacono abbia via via riplasmato tale rapporto ! Si tratta del componimento «A principio saeculorum», in K. Neff, Die Gedichte des Paulus Diaconus. Kritische und erkléirende Ausgabe, Munchen 1908 (Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters), n. II, p. 9 sg. ° Il riferimento ai Gepidi che «usque hodie (...) subiecti gemunt» sotto il dominio degli Avari — Paolo Diacono; Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992, l. I, c. 27, p. 66 — ha consentito di datare almeno l’inizio dell’opera a prima del 796, quando la dominazione avara si dissolse di fronte all’attacco sferrato dalle armate condotte da Pipino: W. Pohl, Paulus Diaconus und die «Historia Langobardorum»:

graphie im friihen Mittelalter,

Text und Tradition, in Historio-

a cura di A. Scharer, G. Scheibelreiter, Wien 1994 (Veròffentli-

chungen des Instituts fùr &sterreichische

Geschichtsforschung,

32), pp. 375-377.

CONTEMPLARE

38

L’ORDINE

durante quel trentennio, muovendo appunto dal carme le cui iniziali . . 3 di strofa formano per acrostico le parole «Adelperga Pia». 1. Il tempo è il grande protagonista di questa composizione poetica: cinque età del mondo, «a principio saeculorum» fino alla prima venuta del Redentore, sono già trascorse; la sesta è nel suo 763° anno‘; non resta che attendere la parusìa di Cristo: occorre essere sempre preparati, perché non è dato sapere il momento del suo ritorno per giudicare i vivi e i morti’. L’adozione dello schema delle età del mondo dà al carme un forte tratto di fondo: quello di una visione del tempo libera da timori, poiché scansione e significato di questo sono conosciuti e unica incognita è non il fine ma la fine della storia umana°. È il presente a condensare questa immagine di serena fiducia nei sei versi che in modo solenne lo descrivono: «alta pace nunc exultat Ausonia», mentre regnano Desiderio e Adelchi, fiorentissimi e pii, e Arechi, guida fortissima, regna sul principato di Benevento, confidando nell’aiuto divino, insieme con Adelperga, di

stirpe regale”. In questi versi, che sarebbe riduttivo interpretare come puramente celebrativi, è innanzitutto sanzionato il programma politico perseguito in quegli anni da re Desiderio. Per affermarsi come sovrano e consolidare quindi la propria posizione, egli aveva dovuto non soltanto ricercare un accettabile equilibrio con il papato e con i Franchi, ma soprattutto vincere l’opposizione di parte rilevante del? La poesia conta

12 terzine.

* «Glorioso ab adventu redemptoris omnium / ad hunc usque prima annum in quo est indictio, / septigenti sexaginta tresque simul anni sunt»: Neff, Die Gedichte cit., n. II, p. 10 (strofa 8). ° «Iudex veniet supernus velut fulgor caelitus, / dies sed aut hora quando non patet mortalibus, / felix erit, quem paratum invenerit dominus»: op. cit., n. II, p. 10 (strofa 11). Il tema del tenersi pronti per il ritorno glorioso del Redentore deriva da Mt 24, 42-51 e Lc 12,

35-48. ° Non vi è qui la tensione dell’alternativa compendiata da P. Brezzi, Cronache universali e storia della salvezza, in Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del Congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Istituto storico italiano (1883-1973), I: Relazioni, Roma 1976, p. 328: «l’escatologia è i/ fine o /a fine della storia? è lo scopo (e quindi dà un significato) o la conclusione (quindi superamento e svalutazione) della storia? sta dentro o fuori la storia, segna una positività inducendo ad agire con impegno o stabilisce una nullificazione vanificando anche le azioni che erano state compiute?). ° «Alta pace nunc exultat Ausonia regio / Desiderio simulque Adelchis regnantibus / florentissimis et piis, cum haec annotata sunt, / principatum Beneventi ductore fortissimo/ Arechis regnante freto superni auxilio / Adelperga cum tranquilla stirpe nata regia»: Neff, Die Gedichte cit., n. II, p. 10 (strofe 9-10).

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

39

l’aristocrazia longobarda. Per questo, Desiderio aveva dispiegato un’azione articolata, i cui punti di forza erano stati l’associazione del figlio alla dignità regia e il doppio legame istituito con il friulano Arechi: il re lo aveva elevato a duca di Benevento e gli aveva inoltre dato in sposa la figlia Adelperga”. Di queste iniziative il carme rende appunto conto, traducendo in forma poetica rilevanti dati politici: la condivisione del potere regio, il raccordo tra il vertice del regno e quello del ducato di Benevento. Ed è a proposito di Arechi e di Benevento che Paolo Diacono adotta una terminologia particolare: sul «principatum Beneventi» Arechi è «regnante». Sappiamo che dopo il 774 un lessico tendenzialmente regale sarà adottato da Arechi a marcare la continuità con il regno longobardo indipendente, e lo stesso Paolo Diacono lo ritrarrà come un monarca nei componimenti poetici in suo onore e ricordo’. Ma qui, nel 763, non si tratta di anticipazione — per così dire — profetica. Piuttosto, la terminologia regale per Arechi, come i riferimenti a Desiderio e Adelchi «regnantibus» e alla «stirpe regia» di Adelperga concorrono alla rappresentazione di un ideale che appare finalmente concretarsi: l’agire solidale di una dinastia dislocata sui diversi territori del regno. Situazione e orientamento, questi, non propriamente tradizionali nella storia e

nella cultura politica dei Longobardi". " P. Delogu, // regno longobardo, in Id., A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, Torino 1980 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, 1), pp. 178-183; J. Jarnut, Storia dei Longobardi, Torino 1995, p. 118 sgg. ° Si veda'il carme «Aemula Romuleis», in Neff, Die Gedichte cit., n. IV, pp. 15-18, per le

costruzioni salernitane volute da Arechi (probabilmente composto da Paolo prima del 782), e l’epitaffio «Lugentum lacrimis populorum» (Arechi morì nel 787), in op. cit., n. XXXV, pp. 145-149. In tema di forme della rappresentazione ideologica del potere sovrano da parte di Arechi e di intellettuali a lui vicini, P. Delogu, Mito di una città meridionale (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli 1977, pp. 13-69; H. Taviani-Carozzi, La principauté lombarde de Salerne (IX°-XI° siècle). Pouvoir et société en Italie lombarde méridionale, 15 Roma 199 1 (Collection de l’Ecole francaise de Rome, 152), passim; P. Peduto, Insediamenti longobardi del ducato di Benevento (secc. VI-VIII), in Langobardia, a cura di S. Gasparri, P. Cammarosano, Udine 1990, pp. 312-326, e, dello stesso autore, Paolo Diacono e la cappella palatina di Salerno,

in Paolo

internazionale

Diacono

e il Friuli altomedievale

di studi sull’alto medioevo,

(secc.

II, Spoleto

VI-X).

Atti del XIV

2001, pp. 655-670.

Congresso

Je-g

!° In una visione d’insieme il rapporto tra monarchia e duchi, e tra centro e periferie del regno,

appare nella lunga durata un’aporia di difficile soluzione, se non

sostanzialmente

irrisolta, cui è collegato l’emergere di identità regionali anche forti: è quanto si può cogliere, oltre che da Delogu, I! regno longobardo cit. e Jarnut, Storia dei Longobardi cit., da S.

Gasparri, I duchi longobardi, Roma 1978 (Studi storici, 109), pp. 7-44 (in particolare pi 14 sgg.), G. Tabacco, L’inserimento dei Longobardi nel quadro delle dominazioni germaniche

dell’Occidente, in Atti del VI Congresso internazionale di studi sull’alto eo

1980, p. 241 sgg., P. Cammarosano, Bari 1998, p. 56 sgg.

I, Spoleto

Nobili e re. L’Italia politica dell’alto medioevo, Roma

CONTEMPLARE

40

L’ORDINE

x Si consideri infine che tutto ciò è inserito nel quadro dell’«alta pace» di cui l’Italia ora si rallegra: al di là dell’enfasi retorica, è probabile filtri in questa nozione il clima che intorno al 763 poteva essere con soddisfazione percepito da chi, come Paolo, viveva la duplice condizione di religioso e di intellettuale vicino alla famiglia regnante. Proprio in quel periodo infatti si collocano la visita a Roma di re Desiderio per pregare sulle tombe degli apostoli'' e, in parallelo, un mutato atteggiamento papale nel parlare con i Franchi delle relazioni con i sovrani longobardi. In una lettera che papa Paolo I indirizza oltralpe è infatti sottolineato l’elemento della pace: a Pipino, il papa racconta dei colloqui con l’«excellentissimus vin Desiderio «in pacis dilectione», della prospettiva di rimanere in futuro con lui «in (...) stabili pace», della necessità di osservare il precetto evangelico «beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur»'°. La voce papale di Paolo I consuona con quella poetica di Paolo Diacono: insieme ci parlano di un momento in cui le tensioni si sono allentate ed è possibile pensare, se non alla soluzione del problema italiano, per lo meno a un’evoluzione non drammatica della sua storia. Una storia alla quale, proprio per questo, in quegli stessi anni si può guardare: nonostante le tensioni riaffiorassero presto, l’Historia Romana che Paolo scrive per Adelperga si spiega soltanto sullo sfondo di una congiuntura politica ancora sufficientemente favorevole'’. Nella lettera dedicatoria dell’opera Paolo ne ricorda la genesi: alla duchessa egli aveva dato la storia di Eutropio, che essa aveva letto «cum avido (...) animo», trovandola tuttavia troppo breve e

priva

ovviamente,

essendo

lo storico

«vir gentilis»,

di riferimenti

religiosi. A queste carenze Paolo aveva allora voluto rimediare, estendendo la narrazione fino all’età di Giustiniano e rendendola consona

'" Di ciò è testimone il passo di una lettera inviata da papa Paolo I a Pipino il Breve: «agnoscat Christianitas vestra, quod etiam vos creditum cognitum habere, coniunxisse hoc preterito auttumni tempore eundem Desiderium Langobardorum regem ad apostolorum causa orationis limina», Codex Carolinus, in M.G.H., Epistolae, III, Berlin 1957, doc. 37, p. 549. Su ciò si veda Delogu, /? regno longobardo cit., p. 183 sg.; Jarnut, Storia dei Longobardi

City pil201sg;

'° Codex cit., doc. 38, p. 551. ! Lo aveva

già notato Amedeo

Crivellucci,

che aveva messo

in relazione il carme

per

Adelperga con la lettera dedicatoria dell’ Historia Romana perché profondamente affini: «la lettera intera traspira perfetta pace, quella stessa pace di cui è parola nell’acrostico: Alta pace nunc exultat Ausonia...”»: Prefazione a Pauli Diaconi Historia Romana, a cura di A. Crivellucci,

in F.S./., 51, Roma

1914, p. XXXIII.

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

4I

alla storia sacra'. Al di là del risultato complessivo, l'esigenza e

l’operazione che stanno alla base dell’ Historia Romana hanno caratteri di novità. Da una parte una donna, una longobarda di stirpe regia, che esprime una volontà di conoscenza del passato permeata di viva curiosità intellettuale e autentico sentimento cristiano. Dall’altra parte, se non un maestro, un interlocutore ammirato che comprende

e risponde. «Primus in Italia (...) regnavit Ianus»y'”: con questa frase,

che Paolo non deriva da Eutropio, si apre l’Historia Romana, incardinata da subito su un territorio, l’Italia, e su un’istituzione, la regalità.

E un genere di sguardo attraverso il quale riceve luce anche l’intenzione, da Paolo espressa nella dedica, di prolungare il racconto «ad

nostram usque aetatem»'°. Il fluire storico è costituito dalle vicende di entità politiche che hanno lo stesso teatro d’azione e sono accomunate da un vertice in senso lato “regio”: da questa prospettiva non vi è cesura tra l’egemonia, in Italia, dei Romani e dei Longobardi, per i quali anzi — e questo è importante —, è venuto il tempo di assumere nel proprio patrimonio culturale il ricordo dell’altra e a

lungo concorrente tradizione". L’Historia Romana rappresenta insomma un atto memorativo e nel contempo un’affermazione di raggiunta maturità politica del ceto longobardo eminente: in modo implicito, dunque, un segno di speranza nei confronti del futuro. 2. Di speranza, questa volta in modo esplicito, Paolo Diacono parla poco più di un decennio dopo, all’inizio degli anni ottanta: ma si !* «Ipse,

qui elegantiae

tuae

semper

fautor

extiti, legendam

tibi Eutropii

historiam

tripudians optuli. Quam cum avido, ut tibi moris est, animo perlustrasses, hoc tibi in eius

textu praeter immodicam etiam brevitatem displicuit, quia utpote vir gentilis in nullo divinae historiae cultusque nostri fecerit mentionem; placuit itaque tuae excellentiae, ut eandem historiam paulo latius congruis in locis extenderem eique aliquid ex sacrae textu Scripturae (...) aptarem, at ego, qui semper tuis venerandis imperiis parere desidero, utinam tam efficaciter imperata facturus quam libenter arripui»: Pauli Diaconi Historia Romana cit., piBisg:

Opacatpila

pas:

‘* «Usque ad Iustiniani Augusti tempora perveni, promittens, Deo praesule, si tamen aut vestrae sederit voluntati, aut mihi, vita comite, ad huiuscemodi laborem maiorum dicta suffragium tulerint, ad nostram usque aetatem eandem historiam protelare»: op. cit., p. 4. Questo passo ha posto naturalmente il problema del rapporto tra Historia Romana e Historia Langobardorum su cui si veda da ultimo L. B. Mortensen, Impero romano, Historia Romana e

Historia Langobardorum, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovadi studi, a cura di P. Chiesa, Udine 2000, mento carolingio. Atti del Convegno internazionale pp. 355-366.

!" Sottolineano questa componente G. Zanella, La legittimazione del potere regale nelle

«Storie» di Gregorio di Tours e Paolo Diacono, in «Studi medievali», ser. III, 31 (1990), pp. 70-73, e L. Capo, Introduzione a Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., p. XXIII sg.

42

CONTEMPLARE

L’ORDINE

tratta di una speranza diversa, privata e molto umana,

che insieme

con sentimenti come dolore, rabbia, tristezza, gioia, amore affiora dal

gruppo di composizioni poetiche riconducibili al periodo di permanenza alla corte di Carlo Magno". Pur nella difficoltà di stabilire la corretta cronologia di tali scritti, occorre considerarli un modo di comunicazione normale nella cerchia di Carlo!’ e quindi utilizzabili per trarne informazioni e per misurarne le tonalità affettive, se queste lasciano trasparire parte di ciò che Paolo provava nel corso dell’esperienza chiave della sua vita°°. È un approccio non secondario per cercare di comprendere se e come un monaco longobardo, fratello di un prigioniero politico e ancora legato ai resti indipendenti della sua patria, abbia potuto ricomporre la propria visione del mondo. La storia dell’avvicinamento di Paolo a Carlo Magno non sembra risolversi attraverso la supplica in versi indirizzata al sovrano franco”. Quando già Paolo si trova a corte, il dialogo poetico che intercorre tra

!* Vale a dire tra il 782-783 e il 786-787. !° È quanto ha messo in bella evidenza F. Stella, La rinascita rimossa. Introduzione a La poesia carolingia, a cura di F. Stella, traduzioni di F. Stella, W. Lapini, G. Agosti, prefazione di C. Leonardi, Firenze 1995, pp. 11-67: «in età carolingia la poesia è sempre anche comunicazione: preghiera, invito, spiegazione, ammonimento, insegnamento, ringraziamento, celebrazione» (p. 18). Da integrare in particolare con quanto Stella scrive a p. 41 a proposito del ruolo della poesia: «il ruolo è quello di prestazione tecnica di prestigio, segno di superiorità culturale, che consente l’accesso all’élite del Palazzo di Carlo; è quello di strumento della propaganda politica, il più autorevole e duraturo per eternare la fama di Carlo; soprattutto, è quello di codice di identificazione dei gruppi intellettuali». °° Un’utile integrazione a questo discorso sui sentimenti è l’analisi di ciò che tra gli intimi di Carlo si intendeva per amicizia: A. Fiske, A/cuin and Mvystical Friendship, in «Studi medievali», ser. III, 2 (1961), pp. 551-575. 2! «Verba tui famuli, rex summe, adtende serenus.

/ Respice et ad fletum cum

pietate

meum. / Sum miser, ut mereor, quantum vix ullus in orbe est. / Semper inest luctus tristis et hora mihi. / Septimus annus adest, ex quo nova causa dolores / multiplices generat et mea corda quatit. / Captivus vestris extunc germanus in oris / est meus afflicto pectore, nudus, egens. / Illius in patria coniunx miseranda per omnes / mendicat plateas ore tremente cibos. / Quattuor hac turpi natos sustentat ab arte, / quos vix pannuciis praevalet illa tegi. (...) / Coniunx est fratris rebus exclusa paternis / iamque sumus servis rusticitate pares. / Nobilitas periit, miseris accessit egestas. (...) / Sed miserere, potens rector, miserere, precamur / et tandem finem his, pie, pone malis. / Captivum patriae redde et civilibus arvis / cum modicis rebus culmina redde simul»: Neff, Die Gedichte cit., n. XI, pp. 53-55. Come si vede, il dolore,

che è cifra dominante della supplica, rivela un forte senso di responsabilità nei confronti della famiglia e soprattutto della cognata che si trova in posizione socialmente liminale, senza la protezione dello stato di ammogliata né di quello di vedova: sottolineandone l’esclusione dal godimento dei beni paterni e facendo propria la sua indigenza («sumus servis rusticitate pares») Paolo ne assume la tutela, se non tecnicamente il mundio. Sull’idea di nobiltà che emerge nella supplica ed è direttamente connessa all’elemento concreto dei beni posseduti, G. Tabacco, La connessione fra potere e possesso nel regno franco e nel regno longobardo, in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII, I, Spoleto 1973 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XX), p. 152 sgg.

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

43

lui, Carlo Magno e Pietro da Pisa mostra inizialmente una tensione in atto. Forse determinata dal fatto che la grazia al fratello ancora non è stata concessa, tale tensione fa tuttavia intravvedere qualcosa di più

profondo e sostanziale: da una parte c’è un potere politico consapevole, orientato ad avvalersi di specialisti della parola, a renderli — si potrebbe dire — intellettuali organici”; dall’altra parte la resistenza attuata attraverso il rifiuto di consegnare le sole armi di cui si dispone, la cultura, la parola. Il carme di Paolo «Sensi cuius» traduce tale rifiuto in toni di violenta irritazione’’, ma non sempre è così. Da altre

composizioni sue e dei suoi interlocutori emerge che, semplicemente, Paolo non scrive perché è triste: per quanto ha passato, per il fratello, per le devastazioni nella sua patria’’, anche se è sostenuto dalla speranza poiché «mortuus est, quisquis de spe titubando tepescit»”?. Quando ecco che in un carme Carlo Magno e Pietro da Pisa ringraziano Paolo per una poesia — che non ci è giunta — in cui ha espresso la sua gioia e la sua gratitudine. Si è lieti, dicono, che tu possa finalmente dare voce a ciò che hai dentro ma, aggiungono scherzosamente, non hai risposto a ciò che ti è stato proposto: se preferisci essere messo in catene, giacere in carcere o andare a battezzare Sigfrido che, non appena ti vedrà, «vita spoliabit et arte»?°. 2 Questa volontà a far collaborare le menti più vivaci trova espressione davvero significativa nelle parole indirizzate da Pietro da Pisa a Paolo Diacono, in Neff, Die Gedichte cit., n. XII, p. 60 sg.: è lo stesso Cristo «qui te, Paule, poetarum vatumque doctissime, / linguis

variis ad nostram lampantem provinciam / misit, ut inertes aptis fecundes seminibus. / Graeca cerneris Homerus, Latina Vergilius, / in Hebraea quoque Philo, Tertullus in artibus, / Flaccus crederis in metris, Tibullus eloquio». ? Il componimento, in op. cit., n. XIII, pp. 64-68, è la risposta a quello inviato da Pietro da Pisa: «magnus dicor poetarum vatumque doctissimus / omniumque praeminere gentium eloquio / cordis et replere rura fecundis seminibus. / Totum hoc in meam cerno prolatum miseriam, / totum hoc in meum caput dictum per hyroniam. / Heu, laudibus deridor et cacinnis obprimor. / Dicor similis Homero, Flacco et Vergilio, / similor Tertullo seu Philoni Memphitico, / tibi quoque, Veronensis o Tibulle, conferor. / Peream, si quenquam horum imitari cupio, / avia qui sunt sequuti pergentes per invium; / potius sed istos ego conparabo canibus» (p. 65). 2 «Infelix ille est, taetris cui nubibus aether / inminet et miseros discursat grando per agros / subruiturque domus gelida perflante procella. / Non libet hunc talem calamos inflare labello, / sed potius pronum male singultantia verba / edere et ubertim perfundere gramina fletw: op. cit., n. XIX, p. 92. Ed è ancora a causa delle sue preoccupazioni che, scrive Paolo, «tenui (...) canto susurro» (op. cit., n. XIX, p. 93).

? Op. cit., n. XIX, p. 94.

|

Ra

2 «Paule, sub umbroso misisti tramite versus, / quos pietas nostri suscepit culminis apte, / in quibus exultans calamo te ludere posse / dixisti, quoniam nostro es susceptus honore. / Triste sub ardenti laetatur pectore viscus / iamque cavo mollis resonat tua lingua palato / et patris egregiis sublimas cantibus agnum / cum genitore pio, qui caeli regnat in arce, / quod te

post tenebras fecit cognoscere lumen. / Nos tibi pro tali dicamus carmine grates, / quo pro me summum precibus pulsare tonantem / sat tibi cura fuit taetro maerore relicto. / Sed

CONTEMPLARE L’ORDINE

44

Questo passaggio apre uno squarcio inedito su un contesto che da altre fonti conosciamo: quello dell’espansione del regno dei Franchi verso est. Era infatti, Sigfrido, un re dei Danesi alleato dei Sassoni di Widuchindo e come lui impegnato a opporsi al progetto di incorporazione e disciplinamento avviato da Carlo Magno”. Un progetto che procedeva faticosamente, tra sanguinose campagne mi-

litari, improvvise rivolte, stragi sul campo”, emanazioni di norme spietate volte a sradicare imporne

la conversione.

il paganesimo È il caso

di quelle popolazioni

del capitolare

sassone,

e a

in cui le

formule «morte moriatur», «capite punietur», «capitali sententia pu-

niatur» si ripetono ossessivamente’: pena la morte è proibito, tra

l’altro, credere in stregoni e streghe’, cremare

i defunti”, nascon-

dersi per sfuggire al battesimo”. Ciò che il carme per Paolo mostra è causas mentis clausisti fronte cupis ingenti ferri tu pondere pompiferi Sigifrit perpendere illum sacro perfundere fonte,

sepulchro / dimissa tres, de quibus haut responsa dedisti: / si frangi / carceris aut saevo fessus recubare sub antro, / aut si vultum / impia pestiferi nunc regni sceptra tenentis, / ut valeas / vis, qui te cernens vita spoliabit et arte»: op. cit., n. XXI, p.

99 sg. °° Nel 777, in occasione di una delle spedizioni di Carlo in Sassonia, Widuchindo

si era

rifugiato presso Sigfrido: Annales qui dicuntur Einhardi, in Annales regni Francorum inde ab anno 741. usque ad anno 829. qui dicuntur Annales Laurissenses matores et Einhardi, a cura di F. Kurze, Hannover 1895 (M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 6), p.

49. Nel 782, mentre Widuchindo si trovava in terra danese apprestandosi a tornare in Sassonia per sollevarla contro Carlo, Sigfrido aveva inviato propri legati al re franco: Annales regni cit., p. 60; Annales qui dicuntur Einhardi cit., p. 61. Ancora nel 798 erano rinnovate le trattative con Sigfrido e con i Danesi, che continueranno negli anni successivi a impegnare le armate di Carlo imperatore: Annales qui dicuntur Einhardi cit., pp. 103, 117 sgg. Sull’uso politico della figura e del mito di Carlo Magno come pure del contromito di Widuchindo da parte della storiografia nazista e sul prevalere infine in Germania, durante la seconda guerra mondiale, del richiamo all’impero di Carlo come

restaurato sull’Europa da Hitler, cfr. A.

Barbero, Interpretazioni di Carlo Magno nella crisi della democrazia tedesca, in «Il Mulino», 399 (2002), pp. 23-32. °" E del 782, e dunque in stretta prossimità con l’arrivo di Paolo Diacono a corte, il massacro per decapitazione, in un sol giorno, di 4500 Sassoni ribelli a Verden, mentre Widuchindo riparava nuovamente presso i Danesi: Annales regni cit., pp. 60, 62; Annales qui dicuntur Einhardi cit., pp.

61, 63, 65.

°° Capitulatio de partibus Saxoniae. 775-790, in M.G.H., Legum sectio, Il: Capitularia regum Francorum,

I, Hannover

1883,

doc.

26, pp. 68-70.

°° «Si quis a diabulo deceptus crediderit secundum morem paganorum, virum aliquem aut feminam strigam esse et hommines commedere, et propter hoc ipsam incenderit vel carnem eius ad commedendum dederit vel ipsam commederit, capitali sententiae punietur»: op. cit., c. 6, p. 68 sg. Emerge qui che tra i Sassoni non soltanto si riteneva che la stregoneria fosse anche antropofagia (come nelle leggi di Rotari, al c. 376, dove tuttavia si parla dell’essere divorati interiomente da una strega), ma pure che i sospetti di stregoneria potevano venir essi stessi mangiati.

' «Si quis corpus defuncti hominis secundum ritum paganorum flamma consumi fecerit et ossa eius ad cinerem redierit, capitae punietum: op. cit., c. 7, p. 69. * «Si quis deinceps in gente Saxonorum inter eos latens non baptizatus se abscondere

LA

DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

45

l’altra faccia di tale cruenta opera di conquista e cristianizzazione: quella in cui vi è bisogno di esorcizzare, scherzando, la paura che fanno nemici tanto bellicosi e irriducibili’’. E che tale genere di scherzo sia rivolto all’esponente di un popolo conquistato serve a sottolineare che la potenza del sovrano, nei suoi aspetti più duri, può essere volontariamente dismessa in favore dell’affetto, della stima e della possibilità, appunto, di scherzare. Nella risposta, Paolo si mostra all’altezza per capacità di stare al gioco e senso dell’umorismo. Mentre nel carme «Sensi cuius» aveva respinto con fastidio l’invito a insegnare il greco e l’ebraico dicendosi smemorato e ignorante”, qui suona ancora divertita la sostanza della sua giustificazione per non andare a battezzare Sigfrido: «purtroppo

non conosco la lingua». Dopo la battuta, il discorso di Paolo tende a farsi serio: solo il nome e la forza délle armi di Carlo possono indurre l’irsuto Sigfrido alla resa o attraverso la conversione o, se la rifiuta, attraverso la prigionia. In questo caso, aggiunge, non saranno

certo a lui di aiuto, quando sarà in catene, «Thonar et Wateny?°. Tale riferimento alle due divinità dei Germani, con la presenza di Waten,

evoca per noi naturalmente l’episodio di nominazione dell’ Historia Langobardorum e la prima vittoria dei Longobardi”, con il giudizio di

«ridicula fabula» che l’accompagna”. A proposito del carme, si può voluerit et ad baptismum venire contempserit paganusque permanere voluerit, morte moriatur): op. cit., c. 8, p. 69. E all’occasione cannibali: fraintendimento o meno da parte franca, quanto detto nel capitolare sassone a proposito dell’antropofagia ai danni di stregoni e streghe restituisce soprattutto il vissuto di un’alterità sentita come radicale.

* «Graiam nescio loquellam, ignoro Hebraicam»: Neff, Die Gedichte cit., n. XIII, p. 66. E introducendo in chiusura un breve epitaffio in greco: «sed omnino ne linguarum dicar esse nescius, / pauca, mihi quae fuerunt tradita puerulo, / dicam; cetera fugerunt iam gravante senio» (op. cit., n. XIII, p. 67). * «Si peragam Sigifrid truculentum cernere vultum, / vix perpendo aliquod utilitatis opus. / Ille caret Latiis indocto corde loquellis, / illius est minime cognita lingua mihi: / sic similisque ferae et brutum pecus esse putabor / deridetque meum stulta caterva caput»: op. citguneZX II, pia 403;

®* «Sit licet hirsutus hirtisque simillimus hircis / iuraque det haedis imperitetque capris, / sunt illi invalidae pavitanti in pectore vires, / nam nimium vestrum nomen at arma timet. / Hic scierit vestris si me de civibus unum, / audebit minimo tangere nec digito. / Tunc nec iners cupido vitam mihi tollet et artem / illum nec palmis abluet unda meis. / Quin potius properet, vestra et vestigia lambat / cumque suo ponat crimina crine simul. / Caelitus et quoniam est vobis conlata potestas, / tinguatur vestris purificandus aquis. / Sin minus, adveniat manibus post terga revinctis / nec illi auxilio Thonar et Waten erunt: op. GIPMRILI XXII, p. 103 sg. ;

"Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. I, c. 8, pp. 22-24. * In apertura e in chiusura: «refert hoc loco antiquitas ridiculam fabulam»; «haec risu

digna sunt et pro nihilo habenda» (op. cit., |. I, c. 8, pp. 22, 24). Il che può rappresentare problema, anche implicito, soprattutto per. gli studiosi per i quali l’anima di Paolo è

CONTEMPLARE

46

L'ORDINE

solo notare che Sigfrido è temibile non tanto per il valore guerriero quanto per la sua barbarie ferina, uno stato di natura coerente con ciò in cui egli vanamente crede. Si tratta insomma di un selvaggio”, che bisogna domare, con una religione da selvaggi: e che questa sia considerata con sufficienza è quanto in modo semplice traspare. Da questo punto di vista si comprende anche il realismo generale del passo. Per un verso esso richiama, per contrasto, esperienze missionarie coraggiose e spesso tragiche sul genere di quella fatta in passato da san Bonifacio‘; per altro verso fa emergere un dato importante: Paolo mostra di avere percezione esatta dei caratteri dell’intervento franco presso i pagani e di condividere strategia e ruolo di Carlo. In questo quadro altri elementi del carme chiariscono ciò che in lui era maturato nei confronti del re. «Maxime princeps», «pietatis amator», «rex venerande», «deliciae populi, summus et orbis amom sono le espressioni che scandiscono sostanzialmente e fieramente

“germanica”:

una vivace rassegna delle espressioni con cui

Paolo è stato in tal senso connotato si trova in Pohl, Pawlus Diaconus cit., p. 378 sgg. ?° Come notava Neff, Die Gedichte cit., n. XXII, p. 103, ciò è reso in modo icastico dall’allitterazione «hirsutus hirtis (...) hircis». La lontananza culturale e, si potrebbe dire,

antropologica appare sottolineata da un ulteriore elemento: il fatto che Paolo definisca se stesso, in relazione a Carlo e in opposizione a Sigfrido, come «vestris (...) de civibus unum» (op. cit., n. XXII, p. 104), dove l’inconsueto emergere della nozione di «civis» conduce alle coppie ordinato/non ordinato, cultura/natura, cosmo/caos di cui hanno parlato J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Semiotica e cultura, Milano Napoli 1975, pp. 76-79. 4° L’atteggiamento di superiorità intellettuale nei confronti di tali credenze è consentaneo al «razionalismo teologico» di cui ha parlato G. Tabacco, Demonologia di età precarolingia e

carolingia, in Id., Spiritualità e cultura nel medioevo. Dodici percorsi nei territori del potere e della fede, Napoli 1993, p. 295: «l’esigenza di un pensiero forte, che rispondesse con vigore agli interrogativi più inquietanti della vita umana, imponeva un ottimismo metafisico temperato da un pessimismo storico: l’affermazione cioè di un unico principio assoluto, garante della salvezza religiosa, e l’accettazione condizionata della degradazione del cosmo creato nel tempo». * Questa esperienza chiuse una vicenda umana che conobbe, negli ultimi anni, la difficoltà di svolgersi in un quadro istituzionale in crisi, prima che «prendesse vita un organismo politico unitario che (...) si ponesse anche come alternativa unitaria reale per il mondo cristiano occidentale»: G. Arnaldi, Bonifacio e Carlomagno, in I problemi dell'Occidente cit., pp. 17-39 (cit. a p. 39) e interessante discussione alle pp. 41-58.

* «Sic ego suscepi tua carmina, maxime princeps, / ceu paradiseo culmine missa forent»: Neff, Die Gedichte cit., n. XXII, p. 102; inflammat validus cor mihi vester amon: op. est aliut, nisi amare tonantem / vel te, qui XXII, p. 104; «quingentos centum postremi

«sic, ubi donasti facinus, pietatis amator, / cit., n. XXII, p. 103; «“tangere” quid “caput” populi es, rex venerande, caput?»: op. cit., n. quinque sequantur, / deliciae populi, summus

et orbis amor»: op. cit., n. XXII, p. 105. A proposito di questi ultimi versi è da segnalare quanto Neff spiegava in nota (ibidem) in relazione con «quingentos». Sarebbe qui contenuto un riferimento in chiave a Carlo come

Davide, dal momento

che le due D che indicano

«quingenti» sono anche l’abbreviazione in uso per «David»: si tratterebbe allora di un’attesta-

zione precoce di tale soprannome per Carlo Magno, ispirata, secondo Neff, dall’associazione mentale tra i due re come campioni delle armi e dello spirito. Ciò è in effetti coerente

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

47

il componimento: su questa tessitura due temi spiccano per importanza. Il primo è il carattere provvidenziale attribuito #1 potere di Carlo, a lui derivato direttamente dal cielo: «caelitus (...) est vobis conlata potestas»'’. È, si comprenderà, un motivo che conduce al cuore dell’ideologia carolingia: come nelle lettere papali a Carlo indirizzate, il riconoscimento di un suo compito nella storia passa attraverso la volontà e il favore di Dio*. Ma che tale concezione sia fatta propria da Paolo Diacono indica un salto di qualità personale e forse un mutamento nella sua visione del mondo. Ora, quale può essere stato il meccanismo che lo ha determinato? La riconoscenza, la gratitudine certo, ma di questo egli non parla, mentre parla, ed è il secondo

tema

importante

del carme,

di amore.

Paolo ricorre, per dire ciò che lo unisce a Carlo, a un paragone alto: quello dell’amore tra Cristo e Pietro‘. Come l’idea di una derivazione divina del potere di Carlo, anche tale parallelismo, insieme con gliepiteti «pietatis amator» e «summus (...) orbis amor»), immette in un’area riconoscibile: quella della sacralità di cui tende a essere

con quanto anima l’intero componimento e potrebbe essere segno dell’arricchirsi della connotazione del re franco come Davide: non più soltanto «unto del Signore» — accezione emersa con il cambio dinastico del 751 e costantemente rinnovata dal papato — ma pure combattente, reggitore di popoli e responsabile della loro salvezza. Circa la duttilità della figura di Davide a fini legittimanti, si veda A. Grabois, Un mythe fondamental de France au Movyen Age: le «roi David», précurseur du «roi très chrétien», in «Revue historique», 287 (1992), pp. 11-31.

4 Neff, Die Gedichte cit., n. XXII, p. 104. Il valore di «caelitus» nell’uso di Paolo Diacono è spiegato da S. M. Cingolani, Le Storie dei Longobardi. Dall’Origine a Paolo Diacono, Roma 1995, pp. 61-66. Il termine indica il luogo da cui promana la volontà divina nel suo manifestarsi in terra, e questo significato ha anche nel carme per Adelperga (vedi sopra, n 5) e nell’importante luogo dell’Historia Langobardorum (Paolo Diacono, Storia der Longobardi cit., 1. VI, c. 16, p. 320) dove Paolo ricorda il passaggio della responsabilità del regno franco alla famiglia dei maestri di palazzo dei re merovingi: «hoc tempore aput Gallias Francorum regibus a solita fortitudine et scientia degenerantibus, hi qui maiores domus regalis esse videbantur administrare regi potentiam et quicquid regibus agere mos est coeperunt; quippe cum caelitus esset dispositum ad horum progeniem Francorum transvehi regnum». Invece l’espressione «de caelo», che compare a ridosso del giudizio circa la risibilità della storia sul nome dei Longobardi («victoria enim non potestati est adtributa hominum, sed de caelo potius ministratur»: 1. I, c. 8, p. 24) indicherebbe il cielo non abitato da Dio, intendendo in questo passaggio Paolo «significare che la storia da lui narrata era una favola ridicola perché non attribuiva il merito del successo agli uomini, come

sarebbe

stato giusto, ma a falsi dèi, ovvero ai dèmoni»: Cingolani, Le Storie dei Longobardi cit., p. 66. 4 I Deug-Su, Cultura e ideologia nella prima età carolingia, Roma 1984 (Studi storici, 146-147), pp. 67-97. ® «Nam si parva licet rebus componere magnis / et valet a summis hic paradigma trahi: / ut sacer inmenso Christi Petrus arsit amore, / postquam dimisit crimina Christus ei, / sic, ubi donasti facinus, pietatis amator, / inflammat validus cor mihi vester amom:

Gedichte cit., n. XXII, p. 103.

Neff, Die

CONTEMPLARE

48

L’ORDINE

ammantata la funzione regale, responsabile del mondo cristiano e della sua dilatazione‘°. Sono i due versi che precedono il paragone a chiarirne il significato in relazione a Paolo. Qui egli risponde alle proposte che gli sono state fatte, oltre a quella di andare missionario: non c’è bisogno, egli dice, né di mettermi in carcere né di stringermi

con catene, poiché «vinctus sum domini regis amore meiv‘”. E dun-

que il legame d’amore, non la costrizione materiale, a indurre un’intima resa: il linguaggio traduce il superamento di una tensione del monaco longobardo nei confronti del sovrano franco, del vinto verso il vincitore. Che sia in questione proprio quest’ultimo elemento lo si può inferire per analogia. Un’altra poesia, la cui attribuzione a Paolo esce ulteriormente rafforzata dal confronto, parlain maniera molto simile dell’essere vinti dall'amore di re, questa volta antichi: «priscorum nimium regum devictus amore / Hlutharium genitor nomen habere dedit». È, questo, un passo dell’epitaffio del gemello di Ludovico,

Lotario‘, il cui destino diverge quasi subito da quello del futuro imperatore poiché muore infante verso il 780, all’età di due anni. Nell’epitaffio è contenuto il riferimento a un’operazione di naming compiuta da Carlo Magno nel 778: l’abbandono del sistema onomastico di famiglia e l’adozione, per i nuovi figli maschi, dei nomi merovingi Hludouuicus, cioè Clodoveo, Hlutarius-Clotario'. La scelta di Carlo serviva, tra altri fini, a riallacciare un filo di continuità legittimante con i re della precedente dinastia”: in un senso, tuttavia, che deve tenere conto della fede nella potenza del nome stesso, del rispetto necessario nei confronti della. sua forza “magica”. Difficil-

‘° Senza che tale funzione si risolva in ministero religioso: G. Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale nella tradizione cristiana fino al secolo XIV, Torino 1950, p. 102 sgg. Il ridimensionamento, operato da Tabacco, della teoria dell’agostinismo politico è stato di recente confermato da M. E. Moore, La monarchie carolingienne et les anciens modèles irlandais, in «Annales», 51 (1996), p. 309: «les évèques francs ont bien

compris Augustin et l’ont écarté de la discussion politique, de la facon la plus discrète possible». " «Non opus est claustris nec me compescere vinclis: / vinctus sum domini regis amore mei»: Neff, Die Gedichte cit., n. XXII,

‘* Epitaphium

p. 103.

Chlodarii pueri regis, in M.G.H.,

Poetae Aevi Karolini,

I, a cura

di E.

Dimmler, Berlin 1881, p. 72. ‘ Si tratta della forma ufficiale in cui i nomi erano

scritti: K. F. Werner, Hludovicus Augustus. Gouverner l’empire chrétien — Idées et réalités, in Charlemagne’s Heir. New Perspectives on the Reign of Louis the Pious (814-840), a cura di P. Godman, R. Collins, Oxford 1990, pai2lusg:

°° J. Jarnut, Chlodwig und Chlothar. Anmerkungen zu den Namen zweier Sohne Karls des

Grossen, in «Francia»,

12 (1984), pp. 645-651.

LA

mente,

DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

in altre parole,

era un

E IL PRESENTE

atto

IN PAOLO

di nominazione

DIACONO

49

che si potesse

compiere solo in virtù di ragioni politico-ideologiche, trattandosi di nomi tradizionali per una dinastia, quella merovingia, dotata di una sua specifica sacralità ed estromessa appunto da chi — i PipinidiCarolingi — intendeva ora farne propri i nomi. Ciò l’epitaffio traduce attraverso l’idea dell’essere stati vinti dall'amore, quasi a rendere benevoli coloro ai quali si era fatta violenza e a risarcire di essere stati vincitori”: e come nella risposta di Paolo a Carlo Magno, un sentimento davvero elevato è l’unico che possa infrangere le barriere e permettere un’autentica ricomposizione tra vinti e vincitori, tra passato e presente. 3. Tale ricomposizione innerva in profondità l’apporto di Paolo Diacono alla rinascita carolingia, le cui caratteristiche sostanziali egli — con sentimento, si può dire — contribuisce a determinare. Per vedere

brevemente in che modo, occorre pensare alla rinascita carolingia come a una grande opera collettiva di strutturazione della memoria”. In un numero limitato di anni, assume contorni più chiari un’idea condivisa da Carlo Magno e dall’élite intellettuale che ne conforta il potere: ristabilire, o stabilire, una corretta tradizione è essenziale per sostenere un sistema politico-religioso che sia, pur nella sua vastità, disciplinato e unitario. È un’esigenza la cui ricaduta in termini memorativi è innanzitutto verificabile in relazione a contenuti reli-

giosi: encicliche e capitolari, come l’Admonitio generalis del 789”, richiamano a recuperare un sapere teologico di base per la catechesi e la predicazione, ad attenersi a usi liturgici e sacramentali osservanti la tradizione,

a emendare

sistematicamente

i testi affinché

gli errori

formali non trapassino in nuove, cioè non canoniche, interpretazioni di senso. ?! Occorre tenere pure conto del fatto che la «H» iniziale di H/ludouuicus e Hlutarius era in realtà pronunciata come «Ch»: Werner, Hludovicus Augustus cit., p. 21. Perciò i due nomi avevano un suono antico ed evocavano quotidianamente tutti i re merovingi, e non soltanto i più famosi, che così si erano chiamati. È quanto ho provato a fare in La memoria come legittimazione, in questo volume: come si è visto, si tratta di una chiave di lettura che consente di compiere un percorso coerente attraverso un insieme eterogeneo di fonti (capitolari, raccolte di lettere, specula, annali, gesta episcopali, opere agiografiche, genealogie) e di superare inoltre la difficoltà di comprendere in una visione unitaria forme testuali anche molto diverse: sono in qualche modo queste forme — e le loro strutture e i loro linguaggi, oltre che i contenuti — a suggerire un senso complessivo in virtù degli intenti memorativi che sono loro consegnati.

* M.G.H., Legum sectio cit., Il: Capitularia cit., I, doc. 22, pp. 52-62. Si vedano anche le

lettere encicliche Epistola de litteris colendis e Epistola generalis, in op. cit., docc. 29-30, pp. 78-81.

CONTEMPLARE

Io)

L’ORDINE

L’invito a tener vivo il ricordo si dilata nel contempo in una direzione inedita: quella che porta a elaborare l’immagine della dinastia

carolingia

nella

storia

e a ritrovare,

attraverso

questa,

le

radici del suo diritto a regnare. A ciò concorrono soluzioni testuali innovative come il Codex Carolinus, la raccolta di lettere papali trascritte e riunite per volontà di Carlo nel 791°. Si tratta di un libro della memoria il cui significato risiede nella sua stessa struttura: attraverso la successione di lettere, un’unica voce, quella papale, esalta il carattere provvidenziale dell’ascesa e affermazione della dinastia. E vi concorrono pure nuovi generi letterari, nei quali le vicende della famiglia rappresentano il filo conduttore: sono gli annali maggiori e minori e in particolare gli Annales Regni Francorum,

da Carlo voluti tra il 787 e il 793°. Condensate, lo si vede, soprattutto tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta del secolo VIII, queste elaborazioni hanno almeno?’ un importante e vicino antecedente, anch’esso all’origine di un genere: i Gesta episcoporum

Mettensium”, da Paolo Diacono scritti intorno al 784 e che costituiscono il primo esempio di storia episcopale a noi giunta. I due caratteri di fondo ne confermano il valore di opera che dà "Il programma dell’operazione è racchiuso nel prologo del Codex cit., p. 476: re Carlo, «sicut ante omnes qui ante eum fuerunt sapientia et prudentia eminet, ita in hoc opere utilissimum sui operis instruxit ingenium, ut universas epistolas, que tempore bonae memoriae domni Caroli avi sui nec non et gloriosi genitoris sui Pippini suisque temporibus de summa sede apostolica beati Petri apostolorum principis seu etiam de imperio [le lettere inviate da Costantinopoli non ci sono in realtà pervenute] ad eos directae esse noscuntur, eo quod nimia vetustatae et per incuriam iam ex parte diruta atque deleta conspexerat, denuo memoralibus membranis summo cum certamine renovare ac rescribere decrevit (...), ut nullum penitus testimonium sanctae ecclesiae profuturum suis deesse successoribus videatur, ut scriptum est: “sapientiam omnium antiquorum exquiret sapiens”.

°° Un’organica trattazione dei generi storiografici praticati in questo periodo è di F. L. Ganshof, L’historiographie dans la monarchie franque sous les Mérovingiens et les Carolingiens. Monarchie franque unitaire et Francie Occidentale, in La storiografia altomedievale, II, Spoleto 1970 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XVII), pp. 631-685. In particolare, sull’annalistica, M. McCormick, Les annales du haut moyen dge, Turnhout 1975 (Typologie des sources du moyen fàge occidental, 14). A proposito delle date memorabili per la dinastia con cui annali maggiori e minori incominciano, cfr. La memoria come legittimazione, par. 3-4. ‘° Occorre infatti aggiungere la lettera-trattato inviata verso il 775 a Carlo Magno da Catwulfo, un chierico o monaco delle isole: in M.G.H., Epistolae, IV: Epistolae Karolini Aevi, II, a cura di E. Ditmmler, Berlin 1895: Epistolae variorum Carolo Magno regnante scriptae, doc. 7, pp. 501-505. Esempio embrionale di speculum, la lettera tende non soltanto a plasmare la regalità di Carlo su modelli veterotestamentari, ma anche a introdurre motivi di origine irlandese connessi con la funzione fecondante e di dominio della natura da parte del sovrano: Moore, La monarchie carolingienne cit., pp. 307-324.

” Pauli Warnefridi Liber de episcopis Mettensibus, in M.G.H. ; Scriptores, II, a cura di G. H. Pertz, Hannover

1829, pp. 261-268.

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

SE

forma a esigenze avvertite in una fase di assestamento del potere”. Come avviene per il Liber Pontificalis, una memoria lunga e ininterrotta del passato è ancorata a un luogo: anche per questo, Metz diviene luogo simbolico del raccordo con il papato, dell’osservanza romana della chiesa franca, del recupero dell’ordine liturgico nella tradizione”. Secondo elemento è la ricostruzione del cammino percorso dai Pipinidi-Carolingi dai tempi del progenitore, il santo vescovo

di Metz

Arnolfo:

per tale via, la lettura della storia diviene

legittimazione del potere regale della dinastia’. Il racconto su sant’Arnolfo è infatti un vero e proprio contenitore di temi e motivi legittimanti suscettibili di migrare in altri testi: ma nel racconto su sant’Arnolfo

vi è anche

Paolo,

con

la sua personale

rilettura della

storia. Tra numerose e ammirabili imprese — così egli scrive —, Carlo sottomise al suo dominio la gente dei Longobardi, già due volte vinta °"* E non si tratta dell’unico contributo di Paolo alle esigenze carolinge del periodo. Occorre infatti ricordare che per Carlo egli compone un omeliario, una compilazione di letture destinate all’ufficio notturno, cui verrà premessa una lettera del re che così ne ricorda l’opera: «idque opus Paulo diacono, familiari clientulo nostro, elimandum iniunximus, scilicet ut, studiose catholicorum patrum dicta percurrens, veluti e latissimis eorum pratis certos quosque flosculos legeret, et in unum quaeque essent utilia quasi sertum

aptaret», in F. Wiegand, Das Homiliarium Karls des Grossen auf seine urspriingliche Gestalt hin untersucht, Aalen

1972 (Studien zur Geschichte der Theologie und der Kirche, I/2), p. 16.

Su questo omeliario di grande diffusione si veda anche R. Grégoire, Homéliaires liturgiques médiévaux. Analyse de manuscrits, Spoleto 1980 (Biblioteca degli «Studi medievali», 12), pp. 423-486. Sempre per Carlo, Paolo compone un’epitome dell’opera di Festo che contiene, come scrive egli stesso nella lettera d’accompagnamento indirizzata «sapientia potentiaque praefulgido domino regi Carolo», molte notizie «civitatis vestrae Romuleae»: in M.G.H., Epistolae, IV: Epistolae Karolini Aevi cit., doc. 11, p. 508. Infine, fu probabilmente scritta prima del suo soggiorno a corte, ma da Paolo dedicata «ad Carolum regem» l’esposizione dell’opera grammaticale di Donato: Paulus Diaconus, Exposizio artis Donati seu incipit ars Donati quam Paulus Diaconus exposuit, a cura di M. F. Buffa Giolito, Genova 1990, pp. 21-24. Come si vede, si tratta di contributi funzionali a diverso titolo a un progetto di ordine complessivo nel rispetto della corretta, cioè antica, tradizione. °° In particolare di Crodegango, ultimo vescovo di Metz di cui ripercorre il pontificato, Paolo esalta l’azione riformatrice e liturgica di osservanza romana: sulle tappe attraverso le quali si sviluppò tale processo, e sul ruolo di Crodegango, C. Vogel, Les motifs de la romanisation du culte sous Pépin Le Bref (751-768) et Charlemagne (774-814), in Culto cristiano e politica imperiale carolingia, Todi 1979 (Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, XVIII), pp. 15-41. W. Goffart, Paul the Deacon’s «Gesta episcoporum Mettensium» and the early Design of Charlemagne’s Succession, in «Traditio», 42 (1986), p. 69 sgg., sottolinea che questo aspetto programmatico e non strettamente locale dei Gesta si delinea fin dall’inizio dell’opera, quando san Pietro invia Clemente a fondare l’episcopato di Metz, mentre altri suoi compagni si recano a evangelizzare le città eminenti della Gallia. °° Le possibilità di lettura di questo tema nei Gesta sono percorribili integrando M. Sot,

Historiographie épiscopale et modèle familial en Occident au IX° siècle, in «Annales», 33 (1978), pp. 439-441, Goffart, Paul the Deacon’s «Gesta episcoporum Mettensium» cit., pp. 59-93, e ancora M. Sot, Le Liber de episcopis Mettensibus dans l’histoire du genre “Gesta episcoporum”, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda cit., pp. 527-549.

CONTEMPLARE

52

L’ORDINE

dal padre; dei loro re uno, di nome Desiderio, fu catturato, l’altro, di nome Adelchi, che regnava con suo padre, fu cacciato a Costantinopoli; ciò Carlo fece senza dover affrontare battaglie troppo impegnative e sanguinose, quindi, cosa rara, temperò la vittoria con la moderazione. Roma, che anelava alla sua presenza poiché era stata signora del mondo e a quel tempo gemeva, oppressa dai Longobardi, fu da lui liberata e annessa; sull’Italia tutta egli regnò con mite

dominazione”. Il carme per Adelperga, con i fiorentissimi e pii re Desiderio e Adelchi, è davvero lontano: eppure riecheggia attraverso la rappresentazione di una società pacificata intorno al suo vertice e l’idea di una territorialità estesa che affiora allorché le tensioni si ricompongono. Ma l’ordine istituito è questa volta quello carolingio e duro è il giudizio sulle responsabilità dei Longobardi, aggressivi nei confronti di Roma e del papato e incapaci poi di reggere lo scontro militare con Carlo, come già lo erano stati con Pipino. La rivendicazione di raggiunta maturità politica che per i Longobardi l’Historia Romana aveva prospettato è qui rovesciata in condanna degli errori storici commessi,

le cui conseguenze

risultano

limitate

soltanto

perché

il

vincitore ha scelto la strada della temperanza e della conciliazione e non quella del disciplinamento spietato: la strada “sassone” che nella risposta su Sigfrido Paolo aveva mostrato di ben conoscere. Se la revisione di quanto avvenuto è dunque leggibile nei Gesta alla luce di scritti precedenti di Paolo, del tutto coerente essa appare con quanto chiude l’Historia Langobardorum: a re Liutprando, che confidava più nelle preghiere che nelle armi, che custodiva con massima cura la pace con i Franchi, sono riconosciuti il senso di rispetto religioso e l’intelligenza politica mancati ai suoi successori”.

ol

«Denique inter plura et miranda quae gessit, Langobardorum gentem bis iam a patre devictam, altero eorum rege cui Desiderius nomen erat capto, alteroque qui dicebatur Adelgisus et cum genitore regnantem suo, Constantinopolim pulso, universam sine gravi praelio suae subdidit dicioni, et, quod raro fieri adsolet, clementi

moderatione

victoriam

temperavit. Romanos praeterea, ipsamque urbem Romuleam, iampridem eius praesentiam desiderantem, quae aliquando mundi totius domina fuerat, et tunc a Langobardis depressa gemebat, duris angustiis eximens, suis addidit sceptris; cunctaque nihilominus Italia miti dominatione potitus est. De quo viro nescias, utrum virtutem in eo bellicam, an sapientiae

claritatem omniumque liberalium artium magis de episcopis cit., p. 265. L’ultimo passaggio dà carme di Paolo su Sigfrido, confermando che svolta nel suo rapporto con Carlo Magno: «nam sic mentis superet lumine celsus apex», Neff, “ Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit.,

admireris peritiam»: Pauli Warnefridi Liber per realizzato un auspicio contenuto nel tale componimento poetico è il punto di cupio vester, cunctos ut vincis in armis, / Die Gedichte cit., n. XXII, p. 105. 1. VI, c. 58, p. 364.

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

53

Ma il rapporto con l’Historia Langobardorum non si esaurisce qui, dal momento che nei Gesta la peculiare personalità di Paolo emerge in forme che risultano, in scala ridotta, del tutto analoghe a quelle

della sua opera maggiore. Vi sono innanzitutto alcuni parallelismi che mostrano un’attitudine narrativa molto simile. A proposito del vescovo Arnolfo, Paolo racconta un unico «admirabile factum», che con stupore egli non vede tramandato per iscritto”: quello dell’anello gettato nella Mosella e ritrovato anni dopo nelle interiora di un pesce, a conferma di un voto esaudito dal cielo”; nell’ Historia Langobardorum, la stessa motivazione a raccontare introduce un altro «factum (...) ammirabile»”: il sogno di re Guntramno e il suo viaggio in forma di serpente’. Nei Gesta, Paolo dichiara di aver conosciuto l’episodio dell’anello non da persona qualunque, ma dallo stesso re Carlo,

«totius

testimonianze

veritatis

assertore»”;

nell’ Historia Langobardorum

le

orali sono a volte garantite dall’autorevolezza e dalla

dignità di chi le ha riferite”. A livello complessivo della narrazione su Arnolfo vi è poi un’ulteriore interferenza, non più semplicemente narrativa. Con il racconto di Carlo siamo nell’area del ricordo leggendario di famiglia, del fatto misterioso e memorabile che attraverso le generazioni si è conservato con ammirazione e rispetto. E nell’area del ricordo leggendario di famiglia è pure l’episodio del proavo di Paolo contenuto nell’ Historia Langobardorum®, con un altro animale-

© «Unum tamen eius [di Arnolfo] admirabile factum referam, quod satis miratus sum quo ordine praeterierit is, qui eius contexuit vitam»: Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 264.

° Ibidem. Su questo tema cfr. S. Thompson, Motif-Index of Folk Literature, Copenaghen 1955 —, I-III-V: «fish brings lost object from bottom of sea» (B 548.2.); «fish recovers ring from sea» (B 548.2.1.); «task: recovering lost ring from sea» (H 1132.1.1.); «ost ring found in fish» (N 211.1.); «lost articles found in interior of fish through virtue of saint» (N

2116015 9 «Cuius [di Guntramno] unum factum satis ammirabile libet nos huic nostrae historiae breviter inserere, praesertim cum hoc Francorum historia noverimus minime contineri»: Paolo

Diacono,

Storia dei Longobardi cit., 1. III, c. 34, p. 170.

°° Op. cit., pp. 170-173. Che si tratti di racconto in cui è l’anima a viaggiare in estasi era suggerito da Jakob Grimm, sulla cui linea interpretativa si pone C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, p. 117 sg. ® «Haec ego non a qualibet mediocri persona didici, sed ipso totius veritatis assertore, praecelso rege Karolo, referente cognovi; qui de eiusdem beati Arnulfi descendens prosapia, ei in generationis linea trinepos extabat: Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 264. °° «Audivi

quendam

nobilissimum

Gallorum

referentem»):

Paolo

Diacono,

Storia

dei

Longobardi cit., 1. I, c. 6, p. 20; «retulit mihi quidam veracissimus senex»: op. CUSMsic18; p. 86.

Ri uOpsscit rit Votecs 37,spprat2.16=220;

CONTEMPLARE

54

L’ORDINE

guida, un lupo, a mostrare la benevolenza del cielo”: il ritorno in Italia e alla libertà dopo gli anni di prigionia presso gli Avari. L’importante affinità è poi confermata da un altro elemento: alla leggenda familiare è, in entrambe le opere, agganciata una genealogia. Quella dei Gesta è la prima che si conosca dei Pipinidi-Carolingi". È una genealogia lineare e semplificata che procede in linea maschile di padre in figlio e ignora i rappresentanti non vincenti della famiglia: Anschiso, figlio di Arnolfo, generò Pipino (II), Pipino generò Carlo (Martello), Carlo generò Pipino (III), di lui è figlio re

Carlo”.

Nell’ Historia Langobardorum,

la genealogia personale

di

°° A Lopichis, figlio di Leupchis, in fuga dal paese degli Avari, «lupus adveniens comes itineris et ductor effectus est. Qui cum ante eum pergeret et frequenter post se respiceret et cum stante subsisteret atque cum pergente praeiret, intellexit sibi eum divinitus datum esse, ut ei iter, quod nesciebat, ostenderet»: op. cit., p. 218. Su questo lupo si è scritto molto. Anche recentemente, gli si è attribuito valore totemico, con Paolo che non può più (o non vuole) «cogliere in quella bestia i sicuri caratteri di animale clanico e familiare, annullati nel clima di una provvidenzialità cristiana»: G. Ortalli, Lupi genti culture. Uomo e ambiente nel medioevo, Torino 1997, p. 54 (e pure p. 127 sg.). Vi è poi chi più direttamente lo ha collegato alla mitologia germanica, come Taviani-Carozzi, La principauté lombarde cit., I, p. 140, con Paolo consapevole del suo ancestrale significato: «sans doute n’ose-t-il plus écrire son nom, mais le loup conduit le lecteur a Wotan. (...) Le loup, émissaire de Wotan, est l’ancèétre mythique du lignage de Paul». Vi è tuttavia un elemento di complicazione costituito dal fatto che nel nome di entrambi gli antenati di Paolo, Leupchis e Lopichis, alla radice latina lupus è unito il suffisso germanico chis che indica il pollone, il germoglio (E. Morlicchio, Antroponimia longobarda a Salerno nel IX secolo, Napoli 1985, p. 106 sgg.): ciò è ricordato dalla stessa Taviani-Carozzi, La principauté lombarde cit., I, p. 140, a conforto della sua tesi ma, mi sembra, proprio questo esito “nominalista” della simbiosi latinogermanica conferma piuttosto quanto sostenuto da W. Pohl, Paolo Diacono e la costruzione dell’identità longobarda, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda cit., p. 418 sg., a proposito del fatto che non è per nulla scontato il carattere germanico della leggenda: non sappiamo in quale lingua il racconto fosse perpetuato nella famiglia di Paolo, e vi sono numerose attestazioni di animali-guida anche nella letteratura cristiana. Certo è raro che il lupo, la cui connotazione negativa è quasi assoluta, abbia la funzione di “aiutante”. Tuttavia, vorrei ricordare qui la funzione di un lupo salvatore e guida in due diverse versioni della vita di Odone di Cluny, e dunque in una letteratura monastica fortemente permeata di spiritualità: quando Odone è aggredito da volpi, «ecce repente rapidissimo cursu intervenit lupus, eumque ab eorum liberavit incursionibus, et deinceps illi comes est effectus atque domesticus» (Johannis Vita Odonis, in P.L., 133, col. 50A); «lupus etiam qui ad suffragium laborantis accurrit, vulpes illas dato in eas impetu effugavit, et viro Dei usque ad locum orationis socialem solatii securitatem exhibuit» (Nalgodi Vira Sancti Odonis, in op. cit., col.

89C).

"' Sot, Historioghaphie épiscopale cit., p. 439. ’ «Anschisus genuit Pippinum, quo nihil umquam potuit esse audatius; Pippinus genuit Karolum, viris omnino fortissimis conferendum, qui inter cetera et magna bella quae gessit, ita praecipue Sarracenos detrivit, ut usque hodie gens illa truculenta et perfida Francorum arma formidet. Hic itaque genuit Pippinum, sapientia nihilominus et fortitudine satis clarum, qui inter reliqua quae patravit, Wascones iamdudum Francorum ditioni rebelles cum Waifario suo principe felicitate mira debellavit et subdidit. Huius item filius magnus rex Karolus Francorum extitit, qui Francorum regnum, sicut numquam ante fuerat,

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

SS)

Paolo è ugualmente lineare, procede di padre in figlio ed è semplificata”. Dei quattro fratelli dell’antenato, quelli rimasti nell’angustia della prigionia, «nomina non retinemus»”: come i vari Drogone e Carlomanno della dinastia carolingia, sono stati inghiottiti dalla storia”. Soluzioni e meccanismi omologhi sono dunque riconoscibili nel rapporto tra leggenda originaria, genealogia di Carlo, genealogia personale; più in particolare, per quanto riguarda i Gesta, Paolo sembra sistemare il materiale carolingio a sua disposizione secondo modalità che gli appartengono profondamente”: e non potrebbe dilatavit: Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 265. Si veda anche, subito dopo (op. cit., p. 265 sg.), l’epitaffio di una sorella di Carlo Magno, in cui la genealogia è ricostruita dall’ego narrante in modo questa volta ascendente: «Hic ego quae iaceo Rothaid de nomine dicor, / quae genus excelso nimium de germine duco; / nam mihi germanus gentes qui subdidit armis / Ausonias, fretus Karolus virtute Tonantis; / Pippinus pater est, Karolo de principe cretus, / Aggarenum stravit magna qui caede tyrannum. / Pippinus proavus, quo non audacior ullus; / ast abavus Anschise potens, qui ducit ab illo / Troiano Anchisa longo post tempore nomen. / Hunc genuit pater iste sacer praesulque beatus / Arnulfus». ‘Paolo muove da Leupchis «meus abavus», quindi parla di Lopichis «qui noster postea proavus est» e, a conclusione dell’inserto, «hic etenim genuit avum meum Arichis, Arichis vero patrem meum Warnefrit, Warnefrit autem ex Theudelinda coniuge genuit me Paulum meumque germanum Arichis»: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. IV, c. 37, pp.

216, 218, 220. Su questa genealogia P. Cammarosano, Gli antenati di Paolo Diacono: una nota sulla memoria genealogica nel medioevo italiano, in Nobiltà e chiese nel medioevo e altri saggi. Scritti in onore di Gerd G. Tellenbach, a cura di C. Violante, Roma 1993, pp. 37-45, che vi individua la presenza intersecata di due percorsi della memoria familiare: «uno propriamente “genealogistico”, di padre in padre, di tradizione orale e vasta dimensione temporale, l’altro connesso con l’assetto patrimoniale e i fenomeni del possesso fondiario, di spessore cronologico più modesto ma di più articolata struttura familiare» (p. 40). La semplificazione è anche da intendersi nel senso che nella ricostruzione di Paolo cinque generazioni coprono

circa due secoli e che quindi «è naturale supporre un qualche antenato di cui sfuggiva la memoria» (p. 39). Più possibilista circa la continuità della genealogia è Capo, in Paolo Diacono,

Storia dei Longobardi cit., p. 513.

,

# Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. IV, c. 37, p. 218. E da notare che la stessa espressione «duarum vero nomina non retinemus» compare nello stesso capitolo (p. 212) a proposito di due figlie di Gisulfo e Romilda, mentre sono ricordati i nomi dei quattro figli maschi e delle altre due femmine: in questo caso, si direbbe, il fatto che si tratti di una generazione di vincenti, protagonisti in diversi modi di azioni eroiche, riduce al minimo il processo di selezione della memoria. * Il nesso tra storia generale e genealogia come storia familiare è del resto suggerito dalla

stesso Paolo che così introduce e conclude l’inserto personale: «exigit vero nunc locus, postposita generali historia, pauca etiam privatim de mea, qui haec scribo, genealogia retexere» (op. cit., p. 216); «his paucis de propriae genealogiae serie delibatis, nunc generalis historiae revertamur ad tramitem» (p. 220). In questo senso vale dunque pienamente quanto detto da Cammarosano, Gli antenati di Paolo Diacono cit., p. 43: «il problema della continuità e della discontinuità nella memoria familiare non è se non un caso particolare delle continuità e discontinuità della memoria storica generale». 7 Anche ad altro livello esiste profonda consonanza tra la genealogia di Carlo e le genealogie messe in relazione da Cammarosano, op. cit., pp. 39-42, vale a dire quelle di

Paolo Diacono e della dinastia toscana di legge longobarda la cui rappresentazione genealo-

gica si espande in senso orizzontale all’altezza della fondazione del monastero di famiglia di

CONTEMPLARE

56

L’ORDINE

essere altrimenti, dal momento che egli appartiene al popolo che con l’Origo gentis Langobardorum e il prologo di Rotari ha conservato in maniera simile il ricordo del proprio passato”.

S. Salvatore all’Isola per la necessità di porre in evidenza i relativi diritti patrimoniali. Infatti nei Gesta (Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 265), intorno al dato “patrimoniale” della

dilatazione

del

regno

dei Franchi

e intorno

al sacrario

di famiglia

di Metz,

la

rappresentazione genealogica si allarga a includere mogli, sorelle e figli di Carlo, viventi e defunti, distinguendo tra matrimoni e filiazioni legittime e non: «Hic [Carlo] ex Hildegard coniuge quattuor filios et quinque filias procreavit. Habuit tamen, ante legale connubium, ex Himiltrude nobili puella filium nomine Pippinum. Natorum sane eius quos ei Hildegard peperit, ista sunt nomina: primus dictus est Karolus, scilicet patris ac proavi vocabulo nuncupatus; secundus item Pippinus, fratri atque avo aequivocus; tertius Lodobich qui cum Hlothario, qui biennis occubuit, uno partu est genitus; ex quibus iam Deo favente minor Pippinus regnum Italiae, Lodobich Aquitaniae tenent. Mortua autem Hildegard, rex excellentissimus Karolus Fastradam duxit uxorem. Quae Hildegard apud urbem Mettensem in beati Arnulfi oratorio requiescit. Pro eo denique, quod a beato Arnulfo iam fati reges originem ducerent, suorum ibi carorum. defuncta corpora posuere. Nam ibi humatae sunt duae regis Pippini filiae, quarum una Rodthaid, altera Adelaid appellata est; ibi quoque et iunioris regis Karoli duae nihilominus tumulatae sunt natae, scilicet Adelaid et Hildigard; quae Hildigard materno nuncupata nomine, matrem morientem citius subsecuta est». Due comprensibili assenze spiccano nel ricordo: quella della moglie longobarda di Carlo, figlia di re Desiderio, rimandata in patria poco prima della conquista del regno e quella del defunto fratello Carlomanno, la cui moglie e i figli si erano rifugiati in Italia e avevano accampato diritti sulla “quota” paterna di regno dei Franchi. Il nome stesso di Carlomanno è evitato: il figlio di Carlo e Ildegarda, Pipino «minor» re d’Italia, nato nel 777 e così ribattezzato da papa Adriano I nel 781, è detto «aequivocus» del fratello Pipino (il Gobbo, il figlio di Imiltrude nato fuori di «legale connubium») e dell’avo Pipino il Breve come se quello fosse stato il suo nome originario, che era invece Carlomanno. ” Per maniera simile si intendono forme e generi analoghi di fissazione della memoria (mito d’origine dei Longobardi, successione ed essenziali gesta regie, genealogia di Rotari), modalità affini di collegamento testuale (l’Origo genzis Langobardorum, con il mito d’origine, è anteposta alle Leggi nella tradizione documentaria e precede dunque la successione regia e la genealogia personale di Rotari nel prologo), e pure procedure somiglianti nel percorrere serie e genealogie (nel prologo di Rotari, la successione discendente dei re e la genealogia ascendente, in linea maschile, di Rotari ricorda quanto Paolo fa nei Gesta: vedi sopra, n. 72). Inoltre, rilevante è il fatto che sia lo stesso Paolo a percepire come insieme unitario Origo e prologo di Rotari: «hoc si quis mendacium et non rei existimat veritatem, relegat prologum edicti, quem rex Rothari de Langobardorum legibus conposuit, et pene in omnibus hoc codicibus, sicut nos in hac historiola inseruimus, scriptum repperiet» (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. I, c. 21, p. 42). Si prescinde invece dai problemi posti, nelle Leggi e nell’Origo, dal rapporto tra oralità e scrittura e dall’interazione di modelli culturali e giuridici di diversa ascendenza, sui quali si veda almeno L. Capo, Paolo Diacono e il problema della cultura dell’Italia longobarda, in Langobardia cit., pp. 174-188; C. Azzara, Introduzione al testo, in Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara, S. Gasparri, Milano 1992, pp. XXII-XXXI; S. Gasparri, La memoria storica dei Longobardi, in op. cit., pp. V-XIV; H. Wolfram, Origo et religio. Ethnic Traditions and Literature in Early Medieval Texts, in «Early Medieval Europe», 3 (1994), pp. 19-38; Cingolani, Le Storie dei Longobardi cit., pp. 91-127; E. Cortese, Nostalgie di romanità: leggi e legislatori nell’alto medioevo barbarico, in Ideologie e pratiche del reimpiego nell’alto medioevo, I, Spoleto 1999 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XLVI),

pp. 485-493.

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

SY

Dunque, nei Gesta episcoporum Mettensium Paolo Diacono consegna anche parti originali della memoria storica e individuale del suo popolo, per costruire e legittimare il ruolo nella storia di chi il suo popolo ha sconfitto. Non si tratta tuttavia di un paradosso: si tratta piuttosto di una sorta di dono che la vicinanza fisica e affettiva a Carlo Magno aveva reso possibile. Sappiamo che una volta tornato a Montecassino, di cui sentiva grande nostalgia”, Paolo riguarderà nuovamente al passato: se vi trovasse un senso è difficile da dire, ma è quanto in conclusione sarà esaminato. 4. Nelle Tesi di filosofia della storia Walter Benjamin diceva che alla rappresentazione del passato è indissolubilmente legata l’idea di redenzione. A chi scrive di storia — aggiungeva Benjamin — è stata consegnata in dote «una debole forza messianica» in virtù della quale egli risponde all’attesa di riscatto delle generazioni precedenti”. Da °° La lettera, in M.G.H., Epistolae, IV: Epistolae Karolini Aevi cit., doc. 10, pp. 506-508, da Paolo inviata all’abate franco di Montecassino, Teodemaro, nel gennaio 783, e dunque

nel periodo iniziale della sua permanenza alla corte di Carlo, ne è toccante testimonianza. Oltre alla nostalgia per la propria “casa”, vi emergono altri motivi e sentimenti. L’idea della separazione soltanto fisica dai confratelli: «quamvis prolixa terrarum spatia corpore tenus a vestro consortio dividant, iungit me tamen utcumque vestro coetui tenax»; «solo ab hac patria debili corpuscolo teneor: tota qua solum valeo mente vobiscum sum». Il tema della sofferenza nella cattività dorata: «bene me omnes accipiunt, benigniter mihi affatim amore nostri patris Benedicti et vestris meritis exhibetur; sed ad conparationem vestri coenobii mihi palatium carcer est, ad conlationem tantae quae apud vos est quietis, hic mihi degere tempestas est»; «solo me affectu misericordiae, solis pietatis precibus, solis animae hic profectus ad tempus detineri; et quod his est amplius, tranquilli nostri regis et domini potestate». Il desiderio di non essere dimenticato, e di aiutarlo a non dimenticare: «unde generaliter omnibus et opto et scribo salutem, obsecrans, ut non obliviscamini mei. Te vero,

mi domine et venerabilis abba, seu quicumque es, nonne preposite, peto, ut mihi scribi faciatis de vestra fratrumque salute, vel quales vobis fructus presens annus adtulerit; utque eorum fratrum mihi dirigatis cum nominibus numerum, qui mundanis exuti vinculis migrarunt ad Christum». °° «L’idea di felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una

debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»: W. Benjamin, Tesi di filosofia della

storia, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di R. Solmi, Torino 1962, tesi 2, p. 72 sg. Della nuova traduzione delle sole Tesi (W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Torino 1997) segnalo, nell’apparato di commento, i lemmi più utili per comprendere questo passo: «futuro (Zukunft)», pp. 160-162; «messia (Messias)», pp. 183-186; «passato (Vergangenheit, Vergangenes)», pp. 190-198; «redenzione (Erlésung)», pp. 207-211; «tempo (Zeit)», pp. 223-228.

CONTEMPLARE L’ORDINE

58

questo punto di vista, Paolo Diacono ha adempiuto con l’ Historia Langobardorum all’attesa di redenzione del suo popolo, se già nel secolo IX la sua opera appariva al beneventano Erchemperto racconto di tempi in cui i Longobardi erano vincenti, in confronto a ciò che di loro si apprestava a narrare: «non regimen (...) set excidium, non felicitatem set miseriam, non triumphum set perniciem»”. E a un’idea diversa di redenzione l’Historia Langobardorum continua a rispondere: le letture moderne ne confermano il carattere di testimonianza grazie alla quale i Longobardi hanno un’identità più precisa. In compenso, è Paolo ad avere un’identità più enigmatica nella sua opera maggiore: ciò confermano le stesse letture moderne, a volte

notevolmente difformi nel giudizio circa la sua figura, le sue intenzioni, i suoi eventuali destinatari e antagonisti, la qualità e l’essenza del suo lavoro di storico”. °° Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannover 1878, p. 234. Da questo giudizio di Erchemperto muoveva G. Vinay, Un mito per sopravvivere: l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, in Id., Alto medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli

1978, pp. 125-149. 8! Non si darà qui conto dei problemi e delle posizioni, talvolta pure polemiche, che si addensano intorno a Paolo Diacono e all’ Historia Langobardorum (si pensi soltanto alla questione della fine sospesa dell’opera e ai significati che le sono attribuiti se ritenuta intenzionale): discussioni e letture recenti, con ampi riferimenti alla bibliografia precedente, si hanno in W. Goffart, The Narrators of Barbarian History (A. D. 550-800). Fordanes, Gregory of Tours, Bede, and Paul the Deacon, Princeton 1988, pp. 329-431; Pohl, Paulus Diaconus cit., pp. 375-405; Cingolani, Le Storie dei Longobardi cit., pp. 167-194; H.-W. Goetz, Vergangenheitswahrnehmung, Vergangenheitsgebrauch und Geschichtssymbolismus in der Geschichtsschreibung der Karolingerzeit, in Ideologie e pratiche cit., I, pp. 177-213; O. Capitani, Paolo Diacono e la storiografia altomedievale, in Paolo Diacono e il Friuli cit., I, Spoleto 2001, pp. 25-44. Da segnalare è comunque il fatto rilevante che in alternativa con l’ipotesi della finalità sostanzialmente probeneventana dell’ Historia — ipotesi sostenuta da alcuni studiosi — è stata da ultimo proposta quella di un’opera destinata a dare informazioni ai Franchi circa il passato e l’identità dei Longobardi: R. McKitterick, Paolo Diacono e î Franchi: il contesto storico e culturale, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda cit., pp. 9-28. Inoltre McKitterick fa altre considerazioni, che confortano il quadro di un’opera su commissione franca: 1) l’Historia Langobardorum non fu interrotta per la morte di Paolo né è incompiuta: proprio così com'è, è funzionale al tipo di esigenze per cui fu scritta; 2) non è detto che Paolo sia stato monaco e monaco a Montecassino prima del 786-787; 3) in base alla tradizione manoscritta, che si irradia piuttosto dal nord Italia, non vi è «alcun sostegno alla corrente assunzione che Paolo Diacono abbia composto l’opera una volta ritiratosi a

Montecassino dopo aver lasciato la corte di Carlo Magno»; 4) piuttosto, l’Historia fu composta tra il 781 e il 786-787. Giudico interessante l’ipotesi centrale della studiosa: a proposito delle altre, ritengo molto più probabile, sulla base degli elementi testuali, la «corrente assunzione» che l’Historia sia stata proprio composta a Montecassino dove Paolo fece ritorno

(vedi sopra, n. 78, lettera all’abate Teodemaro).

Oltre a ciò che emerge

a

proposito di Montecassino e di san Benedetto nell’Historia (vedi oltre, testo corrispondente alle n. 88-95), Paolo si riferisce costantemente a Montecassino — ma non a San Vincenzo al Volturno — usando «qui», «questo luogo». Benedetto giunse da Subiaco «in hunc, ubi

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

59

Alcuni elementi in relazione al tema del mio discorso possono comunque essere proposti. Come già nell’ Historia Romana e nei Gesta episcoporum Mettensium, tra le manifestazioni del divino nel mondo degli uomini vi è il dono della profezia che ad alcuni di loro è stato concesso. Le parole di questi santi uomini gettano un ponte nel futuro, ma restano spesso inascoltate: soltanto dopo che quanto hanno predetto si è avverato, è possibile riconoscere la mano di Dio nella storia collettiva

Romana,

il beato

e nel destino

Martino

individuale".

«perditionem

Così, nell’ Historia

(...) ante

praedixitv

a un

imperatore che fu infatti assassinato"; e nell’Historia Langobardorum

la «perditio» dei Longobardi era stata preannunciata da un eremita dopo una notte di preghiere elevate al Signore: verrà un tempo, egli aveva detto, in cui questo «oraculum» — la chiesa di san Giovanni Battista a Monza — non sarà più rispettato e «gens ipsa» perirà. Ed è lo stesso Paolo a ricordare di aver appunto visto la chiesa amministrata da indegni e peccatori prima della conquista del regno”. requiescit, locum»; prima di lui un servo di Dio abitava «in loco (...) ist»; «4uc autem, hoc est in Cassini arcem, perveniens», sempre praticò una severa astinenza; il poeta Marco, «ad eundem patrem huc veniens», compose in sua lode dei versi; «certum tamen est, hunc egregium patrem vocatum caelitus ob hoc ad hunc fertilem locum et cui opima vallis subiacet advenisse, ut /ic multorum monachorum, sicut et nunc Deo praesule facta est, congregatio fiere: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. I, c. 26, p. 64. E al tempo della ricostruzione di Montecassino (vedi oltre, n. 95), giunse da Brescia a Roma Petronace

che «hunc Cassinum castrum petiit) e «hoc sanctum coenobium in statum quo nunc cernitur erexit»: op. cit., l. VI, c. 40, p. 342. L’implicazione d’uso di questi locativi e dimostrativi mi sembra affine a quella descritta da P. Brown, // culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983, p. 122: «Hic locus est, “ecco il luogo”, o semplicemente hic, è

un ritornello che ricorre in tutte le iscrizioni apposte sui sepolcri dei primi martiri nel nord Africa. Il sacro era disponibile in un luogo unico, e in ciascuno di questi luoghi era accessibile ad un solo gruppo in un modo che lo rendeva inaccessibile a qualsiasi altro gruppo situato altrove. Localizzando il sacro in questo modo, il cristianesimo tardoantico potè alimentarsi della realtà della distanza e delle gioie della vicinanza». î° Nei Gesta episcoporum Mettensium, storia collettiva e destino individuale sono strettamente collegati nella profezia: Arnolfo chiede ai due figli di donare i loro beni ai poveri ma soltanto il minore, Anschiso,

accoglie l’invito; così Arnolfo «praedicit ei, pluriora eundem

quam reliquerat habiturum; insuper benedixit eum eiusque cunctam progeniem nascituram in posterum. Factumque est. Nam et pluriores Anschiso quam reliquerat divitiae accesserunt, et ita in eo paterna est constabilita benedictio, ut de eius progenie tam strenui fortesque viri nascerentur, ut non inmerito ad eius prosapiam Francorum translatum sit regnum» (Pauli Warnefridi Liber de episcopis cit., p. 264 sg.). 8 «Ita Theodosius (...) Aquileiam inprovisus adveniens hostem Maximum ac trucem (...) clausit, coepit, occidit. Hanc Maximo perditionem beatus Martinus ante praedixit»: Pauli Diaconi Historia Romana cit., 1. XII, p. 163. |, 8 «Gens Langobardorum superari modo ab aliquo non potest, quia regina quaedam ex

alia provincia veniens basilicam beati Iohannis baptistae in Langobardorum finibus constru-

xit, et propter hoc ipse beatus Iohannes pro Langobardorum gente continue intercedit. Veniet autem tempus, quando ipsum oraculum habebitur despectui, et tunc gens ipsa

CONTEMPLARE

60

L’ORDINE

L’interpretazione dominante è che per lui sia dunque colpa dei Longobardi non aver più meritato la protezione celeste e aver così causato la propria disfatta. Ma l’interpretazione dei Longobardi «padroni della propria storia» mette in secondo piano una componente forse importante. È il carattere obbligato, pur in modo retrospettivo, di questa come di tutte le profezie, a meno che la persona dotata di spirito profetico non dia una possibile alternativa: e alla «perditio» dei Longobardi il santo eremita non aveva dato alternative”. Non sappiamo quando Paolo sia venuto a sapere di questa profezia, anche se, in base alle sue parole, si può maggiormente ritenere che l’abbia conosciuta soltanto dopo la caduta del regno e l’abbia quindi collegata con quanto gli era capitato di vedere a Monza. In ogni caso, la profezia può costituire una spiegazione a posteriori in fondo consolatoria: la storia del proprio popolo si può rileggere con profonda partecipazione, si possono dare valutazioni positive sull’operato dei re, come a proposito di Liutprando, ma ciò che doveva avvenire è infine avvenuto”. Tanto più che nell’ Historia Langobardorum vi è anche qualcosa di analogo e di segno favorevole: un altro ponte profetico gettato verso il futuro, e dunque verso il presente di Paolo. Ripercorriamo il contesto. Nel libro I, Paolo descrive la grandezza dell’imperatore Giustiniano, vittorioso combattente, restauratore del diritto, costruttore di edifici, cattolico e giusto, tanto è vero che ogni cosa per lui aveva esito buono. Ai suoi tempi, egli aggiunge, fiorirono Cassio-

peribit”. Quod nos ita factum esse probavimus, qui ante Langobardorum perditionem eandem beati Iohannis basilicam, quae utique in loco qui Modicia dicitur est constituta, per viles personas ordinari conspeximus, ita ut indignis et adulteris non pro vitae merito, sed praemiorum dationem, isdem locus venerabilis largiretur»: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. V, c. 6, pp. 258-260.

® Capo, Introduzione cit., p. XXXI. °° L’alternativa c’è invece nel racconto contenuto nella cosiddetta postilla monzese, probabilmente del secolo X (sulla postilla e la tradizione manoscritta Capo, in Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., p. 500 sg.). Qui san Michele, san Giovanni Battista e san Pietro annunciano all’eremita la profezia, «et dixit ad eos solitarius: “Obsecro clementiam vestram, sancti, si conversi sunt ad superiorem promissionem illorum, nunquid invenient indulgentiam?”. Et dixerunt ad illum: “Scis, que Veritas dixit: ‘Convertimini ad me, et ego convertar ad vos’”», in op. cit., p. 258. E soltanto, mi sembra, a distanza di molto tempo che si può dunque pensare a una non ineluttabilità della profezia circa la caduta del regno, a una visione del passato in cui vi è posto per i “se” («si conversi sunt...)).

“ Proprio attraverso la profezia può passare per Paolo l’idea che la “colpa” del regno non è di tutti i Longobardi, ma soltanto dei responsabili di quanto stesso a Monza. Questo se di colpa per lui si tratta e non del segno, retrospettivamente, di ciò che stava per avvenire e che comunque sarebbe

avvenuto.

della caduta ha visto lui riconosciuto prima o poi

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TRA

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E IL PRESENTE

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DIACONO

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doro, commentatore dei Salmi, Dionigi, che calcolò le Tavole-Pasquali, Prisciano di Cesarea, illustre grammatico, Aratore, poeta mirabile". Viene alla mente che in questo ritratto di gruppo possa

essere presente sotto traccia Carlo Magno e la sua cerchia di intellettuali: come Giustiniano anche Carlo è un principe straniero di cui si riconosce il valore; le qualità di Giustiniano sono in fondo le stesse di Carlo; l’eterogeneità e l’internazionalità degli studiosi a Giustiniano collegati nel discorso possono richiamare il gruppo di esegeti, annali-

sti’, grammatici, poeti con cui Paolo è stato in contatto”.

L'associazione è possibile dal momento che, dopo aver parlato in tal modo di Giustiniano e dei letterati illustri del suo tempo, Paolo torna

alle radici della propria condizione

esistenziale, lontana

dalle

ricchezze e dagli onori del mondo: egli racconta cioè la storia di san Benedetto”. Qui, nel lungo componimento in versi a lui dedicato, sta la profezia di Benedetto sulla distruzione e ricostruzione di Montecassino, entrambe a opera dei Longobardi: «omnia septa gregis praescitum est tradita genti / gens eadem reparat omnia septa gregis»”. La «gens» che è perita per la profezia negativa è stata pure lo strumento grazie al quale Montecassino continua a esistere’: all’at“ Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. I, c. 25, pp. 46-50. *° E infatti dallo sviluppo delle Tavole Pasquali di Dionigi il Piccolo, accolte nel mondo anglosassone e reimmesse sul continente nel corso del secolo VIII, che prese forma il nuovo genere degli annali minori e maggiori alla corte di Carlo: Ganshof, L’historiographie cit., p.

668. °° Questa è una delle ipotesi che si possono fare in relazione a quanto notato da P. Lamma, Il mondo bizantino in Paolo Diacono, in Id., Oriente e Occidente nell’alto medioevo.

Studi storici sulle due civiltà, Padova 1968, p. 199 sg.: «questo medaglione [su Giustiniano] è presentato da Paolo in rapporto con una sintesi della cultura del VI secolo, nella quale sono curiosamente accostati Cassiodoro, l’abate Dionigi, Arator e Prisciano, rappresentanti — come appare evidente soprattutto dal contrasto tra Cassiodoro e Prisciano, esule latino a Costantinopoli — indirizzi ideologici e culturali diversissimi» (corsivo mio). Istituisce invece un parallelismo di modelli regali tra Giustiniano e Liutprando nell’ Historia Langobardorum e Arechi nei componimenti poetici a lui dedicati da Paolo (vedi sopra, n. 9), Taviani-Carozzi, La principauté lombarde cit., I, pp. 30-33. In questa linea interpretativa Giustiniano appare «’ami des lettrés, comme le seront à leur tour les derniers rois lombards et le premier prince de Bénévent

(p. 33), anche

se, a proposito

di Cassiodoro,

«il est intéressant de le voir

rattaché exclusivement au règne de Justinien, sans méme rappeler sa carrière sous Théodoric» (ibidem): il che sarebbe forse più associabile a un genere di relazione come quella tra Carlo Magno e Paolo Diacono.

®! Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. I, c. 26, pp. 50-64. °° Op. cit., p. 54. ° Ricorda l’importanza da Paolo annessa alla virtù profetica di Benedetto fin dall’ Historia

Romana, Capo, in Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., p. 411 sg., che sottolinea come nel c. 26 dell’Historia Langobardorum Paolo attribuisca «un preciso significato storico al monachesimo benedettino, inserito. da una parte nel grande quadro di civiltà cristiana dell’età di Giustiniano, dall’altra collegato al futuro grazie al suo provvidenziale sviluppo

62

CONTEMPLARE

L’ORDINE

tesa di redenzione dei Longobardi Paolo adempie anche ricordando questo ruolo da essi svolto nella storia. Ma pure per Paolo, in relazione a Montecassino, vi è qualcosa che forse ha contribuito a dare retrospettivamente senso a quanto gli era via via accaduto. La chiusura del capitolo dedicato a Benedetto narra che il santo era stato ispirato dal cielo nello scegliere la località di Cassino, in modo che vi si raccogliesse una congregazione di molti monaci, come ancora adesso avviene, aggiunge Paolo”. E nell’ultimo libro dell’Historia, il VI, egli racconta la ricostruzione del cenobio all’inizio del secolo VIII, dopo una cesura di oltre 100 anni nella continuità di vita comunitaria”. La potenza intrinseca di Montecas-

sino appare, da questi passi, superiore a quella di altri luoghi santi: originata dalla scelta di Benedetto, essa si è conservata nei secoli per la presenza delle sue spoglie’’ anche quando, e per un lungo periodo, (...) e alla sua capacità di coinvolgere genti nuove, per le quali rappresenta una fonte spirituale e un tramite di civiltà». ° «Certum tamen est, hunc egregium patrem vocatum caelitus ob hoc ad hunc fertilem locum et cui opima vallis subiacet advenisse, ut hic multorum

monachorum,

sicut et nunc

Deo praesule facta est, congregatio fiere: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. I, c.

26, p. 64. Compare qui la parola «caelitus», con il valore di cui già si è detto: vedi sopra, n. 43. °° La distruzione di Montecassino si trova nel 1. IV, c. 17, pp. 194, 196, ed è importante ai fini del nostro discorso per la presenza, ancora una volta, del riconoscimento retrospet-

tivo di una profezia che salva gli uomini del monastero e permette, attraverso loro, di salvare la memoria: «circa haec tempora coenobium beati Benedicti patris, quod in castro Casino situm est, a Langobardis noctu invaditur. Qui universa diripientes, nec unum ex monachis tenere potuerunt, ut prophetia venerabilis Benedicti patris, quam longe ante praeviderat, impleretur, qua dixit: “Vix apud Deum optinere potui, ut ex hoc loco mihi animae cederentur”. Fugientes quoque ex eodem loco monachi Romam petierunt, secum codicem sanctae regulae, quam praefatus pater conposuerat, et quaedam alia scripta necnon pondus panis et mensuram vini et quidquid ex supellectili subripere poterant deferentes». La ricostruzione è nel l. VI, c. 40, p. 342, dove si narra che Petronace, cittadino bresciano, si era diretto su esortazione di papa Gregorio alla rocca di Cassino ed era in breve divenuto padre di molti monaci di diversa estrazione sociale. Colloca l’avvio della missione di Petronace tra il 706 e il 720, elimina le possibilità di dubbio che il papa in questione sia Gregorio II e analizza attentamente le espressioni usate in questo passo dell’ Historia Langobardorum, P. Bertolini, I Langobardi di Benevento e Monte Cassino. La prima ricostruzione, in Montecassino. Dalla prima alla seconda distruzione. Momenti e aspetti di storia cassinese (secc. VI-IX), a cura di F. Avagliano, Montecassino 1987 (Miscellanea

cassinese, 55), pp. 55-100. Si veda anche M. Dell’Omo, A proposito dell’esilio romano dei monaci cassinesi dopo la distruzione longobarda di Montecassino, in op. cit., pp. 485-512. °° All’inizio del 1. VI, Paolo ha narrato del “furto sacro” perpetrato da alcuni Franchi al tempo in cui a Montecassino regnava ormai da molti anni una «vasta solitudo» (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. VI, c. 2, pp. 306, 308): i ladri si erano impossessati delle ossa di Benedetto e di sua sorella Scolastica, lasciando tuttavia «nobis — cioè ai monaci

di Montecassino — os illud venerabile et omni nectare suavius et oculos semper caelestia contuentes, cetera quoque membra quamvis defluxa». Il che può non essere in contraddizione con quanto Paolo scrive nel 1. VI, c. 40, p. 342, a proposito di Petronace giunto a

LA DIALETTICA

TRA

IL PASSATO

E IL PRESENTE

IN PAOLO

DIACONO

63

gli uomini l’avevano abbandonato. Montecassino è dunque un luogo di memoria ha un suo scritto dalle custodito a papa

forte, libro stesse Roma

Zaccaria,

che resiste nel tempo, e come Roma, come Metz, che ravviva il ricordo: la Regola, il cui originale sante mani di Benedetto Paolo ci dice essere stato e quindi riconsegnato alla ricostituita comunità da

insieme

con

la Bibbia

e «tutte

le altre

cose

che

servono a un monastero». E della copia della Regola effettuata sul codice che Benedetto redasse «suis sanctis manibus» parla la lettera indirizzata a Carlo Magno e redatta da Paolo a nome dell’abate franco di Montecassino dopo la visita del re nel 787°: con la copia della Regola l’abate inviava a Carlo tutto ciò che fondava la vita spirituale e materiale della comunità cassinese, e ne sosteneva l’auto-

coscienza”. Si ritiene che tale copia sia stata opera di Paolo Diaco-

Cassino e «ad sacrum corpus beati Benedicti), dato che anche una parte del corpo è praesentia integra del santo: Brown, I/ culto dei santi cit., p. 124. °° «Huic venerabili viro Petronaci in sequenti tempore sacerdotum praecipuus et Deo dilectus pontifex Zacharias plura adiutoria contulit, libros scilicet sanctae scripturae et alia quaeque quae ad utilitatem monasterii pertinent; insuper et regulam, quam beatus pater Benedictus suis sanctis manibus conscripsit, paterna pietate concessitv: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., 1. VI, c. 40, p. 342. °° M.G.H., Epistolae, IV: Epistolae Karolini Aevi cit., doc. 13, pp. discussione intorno a questa lettera di Teodemaro, datata tra il 787 morte dell’abate), H. Houben, L’influsso carolingio sul monachesimo sino cit., p. 123 sg. Che Paolo sia «l’inconfondibile estensore»

509-514. Ricostruisce la e il 796-797 (anno della meridionale, in Montecasdella lettera e che essa

costituisca un vero e proprio «libellus de monachia» è l’opinione di M. Oldoni, Paolo Diacono, in op. cit., p. 248. °° «Qua de re quia ad beati patris nostri Benedicti doctrinam et luculenta exempla aliquos monachorum regionis illius vestrae clementiae informari placuit, iuxta preceptionem vestram en vobis regulam eiusdem beati patris, de ipso codice quem ille suis sanctis manibus exaravit transscriptam, direximus»: M.G.H., Epistolae, IV: Epistolae Karolini Aevi cit., doc. 13, p. 110. Oltre a una raccolta di inni e a un esempio di antica promessa monastica così come si usava a Montecassino («textum quoque promissionis, quo ordine solebant anteriores monachi regulam sanctam in hoc loco promittere [...] direximus vobis»; è in appendice alla lettera: «exemplar promissionis, sicut solebant antiqui monachi regulam promittere», in op. cit., p. 514), i monaci inviano «pondo quattuor librarum, ad cuius aequalitatem ponderis panis debeat fieri (...). Quod pondus sicut ab ipso patre est institutum, in hoc est loco repertum. Misimus etiam mensuram potus quae prandio, et aliam, quae caenae tempore debeat fratribus praeberi. Quas duas mensuras aestimaverunt maiores nostri eminae

mensuram

esse. Direximus

etiam et mensuram

unius

calicis, quam

obsequiaturi

fratres iuxta sacrae regulae textum solent accipere»: op. cit., p. 511. Questi ultimi oggetti, il peso del pane e la misura del vino, sono, insieme con la Regola e forse l’antica promessa monastica, il filo attraverso il quale la lettera, l’invio a Carlo e il racconto di Paolo Diacono

circa la fuga dei monaci riescono

a portare

con

a Roma

dopo la distruzione di Montecassino

sé (vedi sopra,

n.

95) si saldano

strettamente,

e di quanto essi e questo

nella

direzione di senso che di recente, parafrasando il quarto comandamento, è stato così fissato: «ricordati del tuo futuro».

CONTEMPLARE

64

L’ORDINE

no!: immessa nel regno dei Franchi, essa darà accelerazione al processo

che

con

d’Aniane

Benedetto

porterà

a uniformare

alla

regola benedettina le diverse consuetudini monastiche!” Il percorso compiuto dalla Regola nel secolo VIII — da Roma Montecassino,

da Montecassino

a

al regno dei Franchi —, con Paolo a

fare da tramite nel passaggio cruciale, istituisce una sorta di antitipo del rapporto papato-Longobardi-Franchi: qui non vi sono né papi assediati, né Longobardi vinti, né Franchi vincitori, ma un quadro

nel quale vi è chi custodisce, chi dona, chi riceve’. Nel ruolo tra questi centrale, Paolo Diacono sostanziava nel modo più alto la vera costante

della sua

esistenza:

il fatto che, dice la Regola,

«in ogni

luogo si serve un solo Signore, si milita per un solo Re»!°.

100

Capo, Introduzione cit., p. XXVIII, a proposito del percorso che ha portato a identificare questa perduta copia di Paolo come «base del miglior Ms. della Regula, il Sangallensis 914»; si veda poi S. Pricoco, Introduzione a La Regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Milano 1995, pp. XLIV-XLVIII, anche per la tradizione manoscritta e le

posizioni in merito. Se la copia della Regola è di Paolo Diacono, e la lettera che l’accompagna è collocabile negli anni negli anni 787-796, si può ragionevolmente pensare che, anche se incominciata immediatamente da Paolo dopo la visita di Carlo Magno a Montecassino, la redazione abbia richiesto tempo, vista pure l’importanza del destinatario. In questo caso, e ricordando che l’inizio dell’Historia Langobardorum, è sicuramente databile a prima del 796 (vedi sopra, n. 2), Paolo potrebbe aver lavorato in parallelo o in stretta successione a queste sue così diverse opere. E un’ipotesi che mi sembra possibile e che può essere di ulteriore sostegno al genere di lettura che ho condotto.

‘" R. Grégoire, Benedetto di Aniane nella riforma monastica carolingia, in «Studi medievali», ser. III, 26 (1985), pp. 573-610.

‘°° Ed è un quadro consentaneo all’idea di universalismo che comprende e trascende le nazionalità così come interpretato a Montecassino nel secolo VIII: di ciò hanno parlato, a distanza di tempo e con stili e approcci diversi, G. Falco, Voci cassinesi nell’alto medio evo, in Il monachesimo nell’alto medioevo e la formazione della civiltà occidentale, Spoleto 1957 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, IV), pp. 15-34, e K. Schmid, Zur Ablòsung der Langobardenherrschaft durch die Franken, in Id., Gebetsgedenken und adliges Selbstverstàndnis im Miitelalter. Ausgewdhlte Beitràge. Festgabe zu seinem sechzigsten Geburtstag, Sigmaringen 1983, pp. 268-304.

"* «In omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatun: La Regola di san Benedetto cit c. LXI «De monachis

peregrinis qualiter suscipiantur», p. 248.

ORIZZONTI POLITICI ED ESPERIENZE CULTURALI DEI VESCOVI DI VERCELLI «LRA_I SECOLI. IX. E XI

1. Nella vita di san Bononio, monaco bolognese, si racconta di un singolare incontro avvenuto in Egitto. Un incontro tra due uomini che rappresentano, alle soglie del Mille, due delle molte anime della chiesa: l’eremita Bononio, che in quelle solitudini ricercava la via

della perfezione ascetica nelle sue forme originarie, e il vescovo di Vercelli Pietro, prigioniero del califfo fatimita al-Aziz. In questa condizione Pietro si era venuto a trovare per aver partecipato nel 982 alla battaglia di Capo Colonna, in Calabria: in quel luogo, l’esercito | guidato dall’imperatore Ottone II era stato duramente sconfitto dai Saraceni che avevano appunto catturato, insieme con molti altri, il vescovo di Vercelli. Un vescovo combattente dunque, che proprio per intercessione del santo eremita era stato in seguito liberato!. I destini di due uomini tanto diversi erano tornati a incrociarsi nel momento in cui il vescovo Pietro aveva mandato a chiamare Bononio affinché reggesse l’abbazia dei Santi Michele e Genuario di Lucedio, nel territorio della diocesi vercellese: da questa Bononio si era dovuto in seguito allontanare’, forse proprio nel periodo in cui il vescovo Pietro era stato nella sua città assassinato, e il suo corpo

! Vita et miracula sancti Bononti abbatis Locediensis, a cura di G. Schwartz, A. Hofmeister,

in M.G.H., Scriptores, XXX/2, Leipzig 1934, p. 1027 sg. Proprio l’identificazione del liberatore del vescovo Pietro nella persona del califfo al-Aziz, che aveva sposato una cristiana ed era sensibile alla sua religione, e non in quella del califfo al-Hakim, persecutore invece di Cristiani, è uno degli elementi che hanno consentito di respingere come falsa una seconda

versione

della vita di Bononio:

G. Tabacco,

La vita di san Bononio

di Rotberto

monaco e l’abate Guido Grandi (1671-1742), Torino 1954, in particolare p. 10 sgg. Che «l’esistenza di sacerdoti-guerrieri» sia un elemento di lunga durata e di fatto «un dato

strutturale della società medievale» è quanto messo in luce da F. Prinz, Clero e guerra nell’alto medioevo, Torino 1994 (cit. dalla Premessa all’edizione italiana di G. Sergi, p. VIII).

? Vita et miracula cit., p. 1029.

CONTEMPLARE

66

L’ORDINE

bruciato, dai seguaci del marchese Arduino, che conduceva in quegli anni nella regione una lotta sanguinosa per il potere, avendo come antagonisti gli stessi vescovi della marca d’Ivrea, e in primo luogo quelli di Vercelli e Novara”. Intrecciata con la storia di Bononio, la vicenda di Pietro, così drammatica, è senz'altro estrema, ma è anche indicativa delle sollecitazioni politiche a cui i vescovi di Vercelli erano sottoposti e che essi attivamente tendevano a interpretare. Si tratta di un coinvolgimento che può essere indagato su un arco di tempo lungo e mostra la tendenza a realizzarsi su due piani, spesso interferenti tra loro: vi è da una parte la vocazione al raccordo con il potere imperiale e regio e, di conseguenza, la dimensione internazionale in cui i vescovi vercellesi si muovono; vi è d’altra parte, e a livello locale, il loro radicamento sul territorio e l’interesse per l’affermazione e l’incremento delle prerogative vescovili nel procedere della crisi degli ordinamenti

pubblici di ascendenza carolingia. Ciò che sarà qui proposta è l’analisi dei momenti in cui questo duplice piano d’azione si espresse ai livelli qualitativamente più alti: vale a dire alla fine del secolo IX, con il vescovo Liutwardo, e tra i secoli X e XI, con il vescovo Leone.

2. Le fonti che testimoniano della figura e dell’attività di Liutwardo si sgranano

lungo un decennio,

dall’878 all’887, mentre

nell’ombra

totale resta il periodo che va dall’887 al 900. In questo secondo arco di anni egli continua a essere vescovo di Vercelli fino a quando sarà ucciso dagli Ungari mentre cerca di sfuggire loro, così riferisce Reginone di Prim, con tesori di inestimabile valore'. Questa netta dicotomia documentaria è di per sé significativa, perché indica in modo

immediato

ed esemplare,

' L’ipotesi che il perturbamento provocate nella zona da Arduino

avvenuto

attraverso

a Lucedio

il dato

della scansione

sia in relazione

è stata proposta da G. Tabacco,

con

le tensioni

Bononio, in Dizionario

biografico degli Italiani, 12, Roma

1970, p. 359. Sul ruolo e sulle vicende di Arduino in questo periodo si vedano in particolare G. Arnaldi, Ardwino, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, pp. 53-60; G. Sergi, / confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino 1995, soprattutto p. 182 sgg. * «Gens Hungarorum Langobardorum fines ingressa, caedibus, incendiis ac rapinis crudeliter cuncta devastat (...); quamplurimi episcopi et comites trucidati sunt. Liudwar-

dus, episcopus Vercellensis ecclesiae, Caroli quondam imperatoris familiarissimus et consiliarius a secreto, assumptis secum opibus atque incomparabilibus thesauris, quibus ultra quam aestimari potest abundabat, cum effugere eorum cruentam ferocitatem omnibus votis elaboraret, super eos inscius incidit, ac mox interficitur; opes quae secum ferebantur, diripiuntu»: Reginonis Chronicon, a cura di G. H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, I, Hannover 1826, p. 609 (anno 901).

ORIZZONTI

POLITICI

ED

ESPERIENZE

CULTURALI

DEI

VESCOVI

DI VERCELLI

67

cronologica, che la parabola di Liutwardo è strettamente connessa con quella di Carlo il Grosso, l’imperatore carolingio cui era riuscito di unificare formalmente per l’ultima volta le diverse parti dell’impero, prima di essere deposto nell’887. L’alamanno Liutwardo, forse proveniente da Reichenau, è infatti prima cancelliere, poi arcicancelliere di Carlo il Grosso, quindi dall’880 anche vescovo di Vercelli e poco tempo dopo arcicappellano dell’imperatore’: una somma di cariche e di uffici che lo pongono in rapporto privilegiato con il potere di vertice e in posizione di grande potenza personale. Secondo Meginardo, uno dei continuatori degli Annales Fuldenses, Carlo aveva a tal punto esaltato Liutwardo che egli, più dell’imperatore, era da tutti onorato e temuto”: si tratta di una testimonianza nettamente di parte e ostile a Liutwardo, designato dall’annalista di Fulda come «pseudoepiscopus»’, ma è tuttavia una testimonianza che può rendere l’idea dell’aura di prestigio che doveva circondare la figura dell’arcicancelliere e vescovo di Vercelli. Numerosi diplomi di Carlo il Grosso aiutano a sostanziare tale prestigio”. Emanati tra 1’880 e 1’887 in diverse località soprattutto del regno italico e del regno dei Franchi orientali, questi atti documentano il flusso di trasferimenti di beni e poteri in primo luogo a chiese e monasteri anche strategicamente importanti: un modo tradizionale per i Carolingi di assicurarsi l’appoggio di vescovi e abati riconoscendone il secolare ruolo istituzionale, il carisma religioso, la capacità di inquadramento civile delle popolazioni. In questa serie documentaria Liutwardo appare in una doppia veste: come arcicancelliere, solita? F. Savio, Gti antichi vescovi d’Italia. Il Piemonte, Torino

1898, p. 445 sg.; S. Rubino, I

vescovi dell’Italia nord-occidentale nell’alto medioevo, datt. presso Università degli studi di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1995-1996, pp. 244-257. ° «Imperator cum suis colloquium habuit in Weibilingon; qui priscis temporibus, id est ex quo rex in Alamannia constitutus est, quendam de suis ex infimo genere natum nomine Liutwartum supra omnes, qui erant in regno suo, exaltavit, ita ut Aman, cuius mentio facta

est in libro Hester, et nomine et dignitate praecelleret. Ille enim post regem Assuerum erat secundus, iste vero prior imperatori et plus quam imperator ab omnibus honorabatur et timebatum: Annales Fuldenses auctore Meginhardo, a cura di G. H. Pertz, F. Kurze, Hannover 1891 (M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 7), p. 105 (anno 887). * La designazione compare nel racconto dell’assedio a una fortezza normanna nella zona del Reno, assedio il cui fallimento è dovuto secondo il cronista a Liutwardo: «cumque iam expugnanda esset munitio et hi, qui intus erant, timore perculsi mortem se evadere posse

desperassent, quidam ex consiliariis augusti nomine Liutwartus pseudoepiscopus caeteris consiliariis, qui patri imperatoris assistere solebant, ignorantibus iuncto sibi Wigberto comite fraudentissimo imperatorem adiit et ab expugnatione hostium pecunia corruptus deduxit», in op. cit., p. 98 (anno 882). * M.G.H., Diplomata regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, II/1-2: Karoli III diplomata. 876-887, Berlin 1937.

CONTEMPLARE

68

L’ORDINE

mente attraverso il proprio notaio di fiducia Inquirino, nella formula di ricognizione che contribuisce a dare validità al diploma; come intercessore, nel luogo del diploma in cui il sovrano dichiara chi lo ha indotto a concederlo. Dall’analisi tipologica di questi passaggi emerge l’assoluta preponderanza numerica del titolo di vescovo di Vercelli e la sua anteposizione alle altre funzioni di Liutwardo: per 12 x volte egli è designato solo come vescovo; 14 volte è vescovo e

arcicancelliere'!°; 9 volte è vescovo e consigliere (e arcicancelliere)''; 2

volte è vescovo e arcicappellano del sacro palazzo’. Senza sopravvalutarne il significato, la connotazione in prima istanza di Liutwardo come vescovo serve a ricordare ai destinatari dei diplomi, spesso vescovi anch’essi, la funzionalità dell’episcopato all’ordinamento pubblico del regno. Per quanto riguarda poi le altre designazioni, queste, e soprattutto il titolo di consigliere, introducono un elemento di natura squisitamente politica, perché sottolineano il ruolo di Liutwardo come interprete influente della volontà sovrana: un ruolo di mediazione che non è soltanto esecutivo ma è anzi suscettibile di orientare in direzioni precise le decisioni del potere di vertice’. Questa funzione politica di Liutwardo appare confermata da un altro gruppo di documenti, questa volta provenienti dal vertice dell'ordinamento ecclesiastico: si tratta di una serie di lettere di papa

° Op. cit., doc. 18 (1 febbraio 880), p. 31; doc. 44 (Milano, 4 dicembre 881), p. 72; doc. 46 (Milano, 30 dicembre 881), p. 76; doc. 48 (14 febbraio 882), p. 80; doc. 94 (Kolmar, 14 febbraio 884), p. 154; doc. 121 (Toul, 12 giugno 885), p. 192: 2 volte; doc. 123 (Etrepy, 20 giugno 885), p. 196; doc. 129 (Lorsch, 28 agosto 885), p. 207; doc. 153 (Schlettstadt, 15 gennaio 887), p. 247; doc. 156 (Rottweil, 10 febbraio 887), p. 253; doc. 170 (Waiblingen, 887), p. 275.

‘’ Op. cit., doc. 27 (Piacenza, 28 dicembre 880), p. 45; doc. 28 (Piacenza, 29 dicembre 880), p. 46; doc. 30, p. 50; doc. 38 (Pavia, 9 maggio 881), p. 65; doc. 39 (Pavia, 11 maggio 881), p. 67; doc. 54 (Pavia, 16 marzo 882), p. 93; doc. 82 (Nonantola, 20 giugno 883), p. 133; doc. 87 (Borgo Palazzo [Bergamo], 30 luglio 883), p. 141; doc. 92 (Pavia, 9 ottobre 883), p. 151; doc. 99 (Reichenau, 22 aprile 884), p. 161; doc. 104 (Metz, 26 giugno 884), p. 168; doc. 111 (Borgo Palazzo, 11 gennaio 885), p. 177; doc. 114 (Pavia, 11 aprile 885), p. 181; doc. 151, p. 243. '' Op. cit., doc. 21 (21 marzo 880), p. 35; doc. 23 (30 marzo 880), p. 39; doc. 29 (Pavia), p. 49; doc. 36 (Corteolona, 14 aprile 881), p. 62; doc. 47 (Ravenna, 13 febbraio 882), p. 77; doc. 78 (Nonantola, 24 maggio 883), p. 128; doc. 111 (Borgo Palazzo, 11 gennaio 885), p. 177; doc. 115 (Pavia, 16 aprile 885), p. 182; doc. 126 (Etrepy, 22 giugno 885), p. 203. In un’occasione Liutwardo compare soltanto come sommo consigliere: doc. 33 (Pavia, 13 marzo 881), p. 56.

Op. cit., doc. 83 (Nonantola, 24 giugno 883), p. 134; doc. 84 (Nonantola, 24 giugno

883), p. 136.

‘’ Si tratta di un’influenza tradizionalmente connessa con la funzione di sommo cappellano: G. Tabacco, Il volto ecclesiastico del potere in età carolingia, in Id., Sperimentazioni del

potere nell’alto medioevo, Torino

1993, p. 176 sg.

ORIZZONTI

Giovanni

POLITICI

ED ESPERIENZE

VIII, datate

CULTURALI

tra 1°’880 e 1’882,

DEI VESCOVI

DI VERCELLI

dalle quali emerge

69

che il

vescovo di Vercelli era ritenuto interlocutore privilegiato per le grandi questioni che in quel periodo coinvolgevano la chiesa di Roma . Tratto distintivo del pontificato di Giovanni VIII è l’impegno nel consolidamento della «posizione del papato come suprema auto-

rità “internazionale”

della Cristianità occidentale».

E questo, si

noti, in una situazione che spesso è drammatica per le minacce che al papato provengono non solo dai Saraceni, ma anche da forze interne al mondo cristiano: i ripetuti attacchi dei marchesi di Spoleto e Camerino, lo scontro con l’arcivescovo di Milano, i contrasti con i chierici romani favorevoli al vescovo Formoso rappresentano gli episodi più rilevanti, ma non i soli, di uno stato di tensione pressoché continuo. Proprio questa situazione fa tuttavia comprendere perché Giovanni VIII si adoperasse nel corso del suo pontificato a favore di un impero, e di un imperatore, forti e autorevoli, capaci cioè di esercitare un ruolo di difesa e protezione della chiesa di Roma sul modello sperimentato al tempo di Pipino il Breve e di Carlo Magno. Ma

Carlo il Grosso

non

è Carlo Magno:

e le sue incertezze, i suoi

indugi, le sue resistenze al coinvolgimento filtrano dagli appelli anche disperati che Giovanni VIII gli rivolge, o che rivolge direttamente a Liutwardo. A quest’ultimo è infatti riconosciuta la capacità di azione politica che sembra mancare a Carlo il Grosso: da qui le richieste di inviare a Roma il vescovo di Vercelli perché, in attesa del sovrano,

ridia forza e prestigio alla chiesa romana"; da qui l’invito allo stesso Liutwardo perché non cessi di esortare l’imperatore «pro defensione sancte Romane ecclesie»'’; da qui l’appello a Liutwardo e all’impera!* Iohannis VIII papae Registrum, a cura di E. Caspar, in M.G.H., Epistolae, VII, Berlin 1828. ? G. Arnaldi, Papato, arcivescovi e vescovi nell’età post-carolingia, in Vescovi e diocesi in Italia nel medioevo (sec. IX-XIII). Atti del II Convegno di storia della Chiesa in Italia, Padova 1964, p. 27. Per l’operato di Giovanni VIII al momento dell’elevazione a imperatore, il 25 dicembre 875, di Carlo il Calvo, predecessore di Carlo il Grosso, cfr. in questo

volume Ruolo dei linguaggi, II.3. !‘° «Precamur, ut nobis dirigatis Liutubardum venerabilem episcopum, Manigoldum fililum Adelberti et Adelbertum protopincernam vestrum, qui, antequam vos in has partes veniendi iter sumatis, nos et sanctam matrem vestram Romanam

ecclesiam certificent et ad

vestrum honorem et gloriam placabiles et letos efficiant, quatenus Deo auxiliante vobis venientibus Romam unum de pactis et privilegia sancte Romane ecclesie more parentum vestrorum renovare et confirmare studeatis»: Iohannis VIII papae Registrum cit., doc. 224 (febbraio-marzo 880), p. 199. ) !? «Studio tuo, quod cum spiritali filia nostra imperatrice, sicut asseris, ut domnus imperator pro defensione sancte Romane ecclesie ingrederetur Italiam, habuisti, gratias agimus et, ut, quod deest, prestet, quod te minime latet, tua instantia perficiat, multum hortamur,

quia tantum

nobis necesse est, quantum

dicere non valemus. Unde

ita age, ut

70

CONTEMPLARE

L’ORDINE

trice Riccarda perché si adoperino per la liberazione di Engelberga, la vedova di Ludovico II che Carlo il Grosso tiene prigioniera'°. E la presenza a Roma di Liutwardo è anche necessaria contro 1 formosiani, che saranno ricondotti all’ordine grazie alla sua opera di mediazione: «Liutuuardo venerabili sancte Bercellensis [sic] ecclesie

episcopo mediatore existente»'° Dunque Liutwardo ha modo di esplicare la sua vocazione politica a livello internazionale, in diretto connubio con i vertici stessi dell'impero e della chiesa: e questo può avvenire sulla base di una personale predisposizione, potenziata tuttavia dalla forza che può derivare da una solida cultura tradizionale. Una cultura che lo pone in colloquio, anche su questo versante, con esponenti di rilievo della comunità intellettuale: è il caso di Notkero il Balbo, monaco di San Gallo, che da un suo maestro è pregato di comporre qualcosa in

onore di Liutwardo. E al vescovo di Vercelli Notkero dedica le Sequentiae, la sua innovativa opera di canto liturgico, preannunciandogli l’invio di una vita ritmica in lode di san Gallo°°. Da Ekkeardo, storico dell’abbazia, apprendiamo inoltre che Liutwardo aveva richie-

tibi magis ac magis gratias referamus et in temporalibus commodis vicissitudinem reddere invitemun: op. cit., doc. 291 (novembre 881), p. 254. Si veda anche il tono accorato e reverente della lettera — doc. 253 (20 giugno 880), p. 221 —, sempre indirizzata a Liutwardo, a proposito di una contrastata designazione episcopale: «dilectioni vestre familiari quodammodo pioque affectu veluti fidelissimo nobis mandantes committimus, ut recipientes hanc nostri apostolatus epistolam legatione nostra dilecto ac spiritali filio nostro Karolo excellentissimo regi pro Ieronimo videlicet Lausonensi episcopo directa fungamini vestroque ingenti certamine prudentique consilio ipsius regis magnitudinem admonere atque exhortari magnopere studeatis (...). Quapropter (...) nullo modo pretermittatis, quominus nostre voluntatis legatio apud serenissimum regem salutis et pacis ecclesiastice

per vestrum certamen effectum optineat, quatenus eadem ecclesia Dei proprio recepto pastore salva in omnibus et quieta consistat». * Op. cit., doc. 309 (marzo 882), p. 267. E secondo Incmaro di Reims, proprio l’intervento di Liutwardo, su sollecitazione di papa Giovanni VIII, fu determinante per consentire a Engelberga di riparare a Roma: «Engilbergam vero, Ludovici Italiae regis uxorem, quam imperator in Alamanniam transduxerat, per Leodardum, Vercellensem episcopum, Iohanni papae sicut petierat Romam remisitv, Hincmari Remensis Annales Bertiniani, in M.G.H., Scriptores, I cit., p. 514 (anno 882).

‘ Iohannis VIII papae Registrum cit., doc. 260 (10 settembre 880), p. 231. ° «Nuper autem a fratre meo Othario rogatus ut aliquid in laude vestra conscribere curarem, et ego me ad hoc opus imparem non immerito iudicarem, vix tandem aliquando aegreque ad hoc animatus sum, ut hunc minimum vilissimumque codicellum vestrae celsitudini consecrare praesumerem. Quae si in eo placitum vestrae pietati comperero, ut ipsi fratri meo apud dominum imperatorem sitis adminiculo, metrum quod de Vita sancti Galli elaborare pertinaciter insisto (...), vobis examinandum, habendum ipsique per vos explanandum dirigere festinabo»: Praefatio Notkeri ad Liutwardum Vercellensem episcopum, in

Notkeri Balbuli Sancti Galli monachi Liber Sequentiarum, in P.L., 131, col. 1003 sg.

ORIZZONTI

POLITICI

ED ESPERIENZE

CULTURALI

DEI VESCOVI

DI VERCELLI

TAL

sto a Notkero le lettere greche di san Paolo, che per lui il monaco si

premurò di copiare «multis sudoribus»”'.

Altre due tracce possono servire a delineare il profilo culturale di Liutwardo. Seguendo la prima, che si ricollega alla sua attività di esperto consigliere dell’imperatore, lo si vede elevato a depositario della riflessione ecclesiastica circa la matura del potere civile. A Liutwardo è infatti indirizzata, da papa Stefano V, un’opera sull’ufficio di imperatore: il frammento che ne rimane sviluppa l’idea del ruolo della chiesa romana nell’elevazione di Carlo al di sopra di tutti i mortali e il tema dell’uso della violenza da parte del principe, sulla base del passo della lettera di Paolo ai Romani «non sine causa gladium portat rex»°°. Se, in secondo luogo, può essere accettata l’ipotesi che un’importante collezione di leggi canoniche, la cosiddetta Anselmo dedicata, è redatta proprio a Vercelli nel periodo

dell’episcopato di Liutwardo°”, coevo a quello del destinatario dell’opera, l’arcivescovo di Milano Anselmo II (882-896), quest’altra traccia confermerebbe la sua capacità di funzionare da stimolo per l’elaborazione teorica e culturale che nel caso delle Sequentiae e dell’Anselmo dedicata compie anche un salto di qualità. In questo quadro di contatti di alto livello, di continui spostamenti legati ai suoi incarichi, di familiarità con l’imperatore, è difficile che Liutwardo risiedesse spesso e a lungo a Vercelli. Tuttavia gli interessi locali non dovevano essergli estranei. Un diploma di Carlo il Grosso

dell’882, interpolato ma

sostanzialmente

autentico”', conce-

©! «De Notkero (...) audenter narrabimus, quoniam illum Spiritus Sancti vas electum nequaquam dubitamus (...). Epistolas canonicas grecas a Liutwardo Vercellensi episcopo petitas multis sudoribus ille exemplavera»: Ekkehardi IV Casus S. Galli, a cura di G. H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, II, Hannover 1829, p. 101. °° «Liutwardo episcopo. Ecce enim ad hoc Karolum prae ceteris mortalibus spectabilius unicum elegit filium Romana ecclesia et prae consortibus sancto unxit crismate ac diademate compsit imperii et sceptrum conferens praefecit omnibus, ut tutissimo eius regimine potita pace secura subsisteret. Item. Non autem

sine causa gladium portat rex; vindex est

enim contra omnes iniquos, ut terrore comprimat quos nequit corrigere monitis salubribus. Aggrediatur ergo secure, quae sunt Deo placita; in nullo enim ei beatus Petrus aberit cum suo ancipiti gladio, si tamen patriae saluti consulat»: Fragmenta registri Stephani V papae, a cura di E. Caspar, in M.G.H., Epistolae cit., doc. 6 (anno 886), p. 336 sg. Naturalmente, con il dilagare della violenza all’interno dei regna, il tema della spada del principe continuerà a essere oggetto problematico di riflessione: cfr., in questo saggio, par. 3, e, in questo volume,

L’imperfezione

della società, par.

3.

© Ph. Levine, Historical Evidence for Calligraphic Activity in Vercelli from St. Eusebius to

Atto, in «Speculum»,

30 (1955), pp. 575-578.

24 Si veda quanto premesso

all’edizione in M.G.H.,

i

Diplomata regum Germaniae cit.,

II/1-2: Karoli III diplomata cit., doc. 54 (Pavia, 16 marzo 882), p. 92 sg.: contro «dl ipercritico radicalismo» di Ferdinando Gabotto, che aveva ritenuto falso il diploma, si sostiene la

congruità

del formulario

con

quello

degli altri diplomi

dovuti

alla collaborazione

tra

CONTEMPLARE

72

L’ORDINE

deva infatti alla chiesa eusebiana, su richiesta di Liutwardo, numerose corti del Vercellese, del Novarese e del Biellese?” «cum omnibus

publicis disctrictis» trasferiti «de (...) iure et dominio» dell’imperatore «in ius et dominium» del destinatario del diploma?’: una «cessione radicale» che, in forma analoga a quella della proprietà, vedeva beni e diritti fiscali passare dall’ordinamento pubblico all’ordinamento ecclesiastico. Una proprietà di terre e soprattutto di poteri che egli doveva essere indotto a interpretare come una forma di arricchimento anche qualitativo della propria presenza sul territorio, grazie all’esercizio di funzioni che prima erano di pertinenza del potere pubblico. Restava il problema delle sue frequenti assenze da Vercelli. A tale proposito, una possibile risposta è da leggere nel fatto che il fratello di Liutwardo,

Cadulto,

divenisse

negli stessi suoi anni vescovo

di

Novara”: un consanguineo preposto alla sede episcopale contigua a quella di Vercelli doveva garantire una sorta di supplenza e di controllo nei periodi di allontanamento di Liutwardo dalla sua diocesi. È, questo, il segno di una politica di famiglia che trova riscontro negli Annales Fuldenses di Meginardo, là dove si narra che Liutwardo,

nato

«ex infimo

genere»,

faceva

rapire le figlie dei più nobili

di

Alamannia e Italia per darle in spose a propri parenti”: al di sotto della consueta ostilità della fonte possiamo scorgere il tentativo, coscientemente perseguito da Liutwardo, di rafforzare il proprio gruppo parentale in modo strategico, ricercando il raccordo con le aristocrazie di quello stesso ambito sovranazionale in cui egli si trovava ad agire”. Liutwardo e il notaio Inquirino. Le interpolazioni sono probabilmente da attribuire al vescovo Leone di Vercelli perché in relazione con quanto compare in un diploma da lui redatto o suggerito: vedi oltre, n. 53. ?° Sono donate la corte detta Regia, quelle di Roveredo, Biella, Sestinio (Sostegno), Romagnano, Trecate, Firminiana, Caresana insieme con Langosco, Passiliano e Occimiano, oltre alla selva di Rovasenda.

°° Op. cit., p. 93 sg. ” G. Tabacco, Regno, impero e aristocrazie nell’Italia postcarolingia, in Id., Sperimentazioni

del potere cit., p. 109.

°" E. Hlawitschka, Die Diptychen von Novara und die Chronologie der Bischòfe dieser Stadt vom 9-11 Fahrhundert, thekem», 52 (1972), °° «Nobilissimorum quis nuptum dedit»:

in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliop. 771 sgg. filias in Alamannia et Italia nullo contradicente rapuit suisque propinAnnales Fuldenses auctore Meginhardo cit., p. 105 (anno 887).

© K. Schmid, Liutbert von Mainz und Liutward von Vercelli im Winter 879/80 in Italien. Zur

ErschlieBung bisher unbeachteter Gedenkbucheintràge aus S. Giulia in Brescia, in Geschichte, Wirischaft, Gesellschaft. Festschrift firr Clemens Bauer zum 75. Hassinger, J. H. Miiller, H. Ott, Berlin 1974, pp. 41-60.

Geburtstag,

a cura

di E.

ORIZZONTI

POLITICI

ED

ESPERIENZE

CULTURALI

DEI VESCOVI

DI VERCELLI

73

Il personaggio era dunque abile e potente. Eppure, alcuni mesi prima della deposizione di Carlo il Grosso, nell’estate dell’887, Liutwardo cadeva in disgrazia. Meginardo racconta che la sua estromissione fu legata a un motivo di natura teologica piuttosto enigmatico e comunque inconsueto per il mondo occidentale: Liutwardo sostenne un’interpretazione, si direbbe, monofisita della sostanza di Cristo e fu per questo accusato di blasfemia e cacciato dal palazzo”. Secondo Reginone di Prim invece, il vescovo di Vercelli, che l’imperatore aveva oltemodo caro ed era suo consigliere unico «in administrandis publicis utilitatibus», fu accusato di adulterio con l’imperatrice e per questo allontanato con disonore”. La continuazione agli Annales Fuldenses fornisce una terza versione, la più lucida, tanto che prescinde dall’accusa che a Liutwardo venne materialmente rivolta: gli Alamanni, secondo questa fonte, presero a cospirare contro il

vescovo che fino allora era stato «maximus consiliator regis palatii» e riuscirono a staccarlo dall’imperatore’’. Come a dire che, per manovrare o estromettere Carlo il Grosso, era prima necessario disfarsi del suo alter ego, distruggerlo moralmente per decretarne la morte politica. Liutwardo deve aver cercato da questo punto di vista di soprav-

?! «Liutwart (...) cenodoxia inflatus et philargiria caecatus fidem catholicam pervertere et Redemptori

nostro

detrahere

laborabat,

dicens

eum

unum

esse unitate substantiae,

non

personae, cum sancta aecclesia credat et confiteatur eum in duabus substantiis unam habere personam. Quod quicumque negaverit, profecto blasphemat eum, qui venit quaerere et salvare, quod perierat: nisi enim esset verus Deus, non afferret remedium; nisi esset

homo verus, non praeberet exemplum.

Sed idem rex regum hoc anno concitavit animos

imperatoris in blasphemum; qui habita cum suis conlocutione in loco, qui vocatur Kirihheim, eum deposuit, ne esset archicappellanus, multisque beneficiis ab eo sublatis ut hereticum et omnibus odiosum cum dedecore de palatio expulitv: Annales Fuldenses auctore Meginhardo cit., p. 106 (anno 887). ? «Liudwardum, episcopum Vercellensem, virum sibi [a Carlo il Grosso] percharum et in administrandis publicis utilitatibus unicum consiliarium, obiecto adulterii crimine, eo quod reginae secretis familiarius quam oportebat immisceretur, a suo latere cum dedecore repulit; deinde paucis interpositis diebus coniugem Richardem — sic enim Augusta vocabatur — pro eadem re in concionem vocat, et, mirum dictu, publice protestatur, numquam se carnali coitu cum ea miscuisse, cum plus quam decennio legitimi matrimonii foedere eius consortio esset sociata. Illa e contra non solum ab eius, sed etiam ab omni virili commixtione se immunem esse profitetur, et de virginitatis integritate gloriatur, idque se approbare Dei omnipotentis iudicio, si marito placeret, aut singulari certamine, aut ignitorum vomerum examine, fiducialiter adfirmat; erat enim religiosa femina. Facto dissidio, in monasterio quod in proprietate sua construxerat, Deo famulatura recessit»: Reginonis Chronicon cit., p.

597 (anno 887). ® «Alamanni contra Liutwardum episcopum consiliator regis palatii fuit, et eum a presentia conpelluntv: Annales Fuldenses cit., Continuatio proposta di identificazione di questi Alamanni in

E dolose conspiravere, qui tunc maximus imperatoris omni honore privatum abire Ratisbonensis, p. 115 (anno 887). Una Schmid, Liutbert von Mainz cit., p. 56 sgg.

CONTEMPLARE L’ORDINE

74

vivere, dato che si rifugiò presso il rivale di Carlo, Arnolfo di Carinzia”: ma il silenzio dei documenti da questo momento dice che il suo fu un tentativo fallito. Organico al potere Liutwardo non fu più, ma aveva comunque fornito un modello di collaborazione funzionale con l’impero e uno spunto di radicamento sul territorio vercellese in senso signorile che un suo successore, il vescovo Leone,

di ben comprendere.

mostrerà

3. Il 7 maggio 999 Ottone III imperatore emanava due diplomi in favore della chiesa di Vercelli e di Leone, che per la prima volta vi compare in qualità di vescovo della città”. Un secolo era trascorso dal tempo di Liutwardo e molte cose erano avvenute nella regione: le incursioni ungare e saracene avevano più volte interessato la zona; la grande marca d’Ivrea si era ridotta al Piemonte nordorientale per iniziativa del re Ugo di Provenza; morto re Ugo, il marchese d’Ivrea Berengario II aveva dilatato il proprio campo d’azione fino a divenire re nel 950; la conquista del regno italico da parte di Ottone I di Sassonia aveva avuto contraccolpi di rilievo sulle sorti della famiglia che aveva espresso fino allora i titolari della marca d’Ivrea; l’affermazione dell’esponente di un altro gruppo parentale, Arduino, come nuovo marchese d’Ivrea aveva determinato in suo favore una solidarietà

composita,

che

sulla

base

di interessi

anche

molto

lontani

percorreva e spaccava verticalmente la società’°. Precarietà dell’esistenza, rivolgimenti istituzionali e tensioni sociali avevano contribuito poi a dare corpo a diffuse inquietudini religiose, testimoniate dall’emergere di comportamenti eterodossi, se non di vere e proprie superstizioni, soprattutto tra i rustici”. Da tutto questo i vescovi di Vercelli erano stati profondamente e

2 «At ille [Liutwardo] in Baioariam ad Arnolfum se contulit et cum eo machinari studuit, qualiter imperatorem regno privaret; quod et factum es: Annales Fuldenses auctore Meginhardo cit., p. 106 (anno 887). Su questo tema H. Keller, Zum Sturz Karls III. Ùber die Rolle Liutwards

von

Vercelli und Liutberts von Mainz, Arnulfs von Kérnten

Grofen bei der Absetzung des Kaisers, in «Deutsches

Archiw,

und der ostfrinkischen

22 (1966), pp. 333-384.

” M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Il: Ottonis II et III diplomata, Hannover 1893, doc. 323 (Roma, 7 maggio 999), pp. 748-751; doc. 324 (Roma, 7 maggio

999), pp. 751-753. °° Per un

quadro

politico-istituzionali,

integrato di queste

vicende,

con

particolare

cfr. Sergi, I confini del potere cit. Aveva

attenzione

sottolineato

agli aspetti

l’eterogeneità

sociale delle forze in campo C. Violante, La società milanese nell’età precomunale, Bari 1953,

pp. 152-165; per una valutazione che privilegia le componenti elevate, H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XII), Torino 1995, pp. 237-240.

” Si veda più avanti, in questo volume, Cultura dotta e cultura folklorica.

ORIZZONTI

POLITICI

ED

ESPERIENZE

CULTURALI

DEI VESCOVI

DI VERCELLI

75

anche violentemente coinvolti: non solo Liutwardo ma anche un altro vescovo vercellese, forse Ragemberto, era morto permano degli Ungari nel 924 e Pietro, lo si è visto, fu assassinato dai seguaci di Arduino. Vi erano stati anche vescovi dissipatori dei beni della chiesa, come Ingone, e vescovi che avevano tentato, come Pietro, di ricostituire il patrimonio ecclesiastico’. Soprattutto vi era stato l’episcopato di Attone, uno dei massimi scrittori del secolo X°°. Attone, vescovo dal 924 al 960 circa, e dunque nel periodo più convulso del regno italico, aveva collaborato attivamente con i re in carica, ai quali non aveva mancato di rivolgersi con l’autorevolezza della sua cultura anche giuridica: ma l’immagine ideale, da lui proposta, di una società disciplinata intorno al sovrano si era frantumata a contatto con un mondo dominato da ribellioni e conflitti che coinvolgevano i gruppi dirigenti del regno, e in primo luogo ‘i vicini marchesi d’Ivrea, impegnati con ogni mezzo a conquistare la corona. Così, l'ampiezza di prospettiva politica, che Attone derivava direttamente dalla cultura carolingia, aveva finito per rappresentare in lui più un orizzonte

mentale che una dimensione della realtà‘. Perché disegni con strategie anche sulla scena Leone, estremo il proprio

teorici di grande respiro tornassero a convivere locali efficacemente perseguite doveva comparire un personaggio che avrebbe interpretato in modo ruolo di vescovo militante nel secolo con l’intelletto e con le armi, tanto da dividere nettamente, nel giudizio, altri uomini di chiesa: se da Benzone d’Alba egli sarà ricordato come

«magnus Leo, Leo fortis, Leo ammirabilis»'', da Guglielmo da Vol? Su questi vescovi cfr. Savio, Gli antichi vescovi cit., p. 450 sgg.; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistiimer Reichsitaliens unter den scichsischen und salischen Kaisern mit den Listen der Bischòfe (951-1122), Leipzig Berlin 1913, p. 136 sgg.; R. Pauler, Das Regnum Italiae în ottonischer Zeit. Markgrafen, Grafen und Bischòfe als politische Krifte, Tùbingen 1982, p. 30 sgg.; Rubino, I vescovi dell’Italia nord-occidentale cit., p. 258 sgg.

°° Savio, Gli antichi vescovi cit., pp. 451-454; Schwartz, Die Besetzung cit., pp. 134-136; A. Frugoni, Azzone di Vercelli, in Dizionario biografico cit., 4, p. 567 sg.; S. Fonay Wemple, Atto of Vercelli. Church State and Christian Society in Tenth Century Italy, Roma 1979 (Temi e testi, 27); Pauler, Das Regnum Italiae cit., pp. 25-30; C. Frova, I! «Polittico» attribuito ad Attone vescovo di Vercelli (924-960 ca.): tra storia e grammatica, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 90 (1982-83), pp. 1-75. ‘° È il tema affrontato, in questo volume, ne L’imperfezione della società. Inoltre R.

Bordone, Vescovi giudici e critici della giustizia: Attone di Vercelli, in La giustizia nell’alto medioevo (secoli IX-XI), Spoleto 1997 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XLIV), pp. 457-490.

4! Benzonis episcopi Albensis Ad Heinricum IV imperatorem libri VII, a cura di G. H.

Pertz, in M.G.H., Scriptores, XI, Hannover 1854, 1. IV, p. 639. Si veda anche op. cit., p. 637 sg., dove l’elogio dei tempi di Leone e di Warmondo, vescovo d’Ivrea, assume la forma alta e solenne del richiamo all’età dell’oro: «sub Leone et Warmundo fuit aetas aurea».

L’ORDINE

CONTEMPLARE

76

piano egli è definito «crudelissimus Leo totus (...) sine Deo». Come il suo predecessore Liutwardo, anche Leone proviene dall’ambiente di corte, dove dal 996 risulta tra i «familiares» di Ottone III‘’, che di

lui si serve come messo imperiale e giudice‘. Ed è alla corte otto-

niana che Leone vede giungere e conosce i due uomini destinati a impersonare in modo diverso e complementare l’idea di universalismo a centralità romana che impronta di sé l’esperienza imperiale di Ottone III: l’asceta Adalberto di Praga e l’intellettuale Gerberto d’Aurillac, futuro papa con il nome di Silvestro II. Il primo, un nobile boemo educato a Magdeburgo, era divenuto vescovo di Praga e aveva in seguito deciso di entrare in monastero a Roma, dove aveva incontrato Ottone III giungendo a esercitare su di lui una profonda influenza spirituale; Adalberto si sarebbe poi recato, con l’approvazione di Boleslao I di Polonia, a evangelizzare le popolazioni del Baltico e tra queste avrebbe trovato il martirio,

che a lui era stato

preannunciato da un sogno acutamente interpretato proprio da Leone‘. Gerberto aveva invece compiuto i suoi studi in Catalogna ed era stato in seguito invitato a insegnare a Reims le tradizionali arti del trivium

— e in particolare

dialettica

—, come

pure

le molto

meno

frequentate discipline scientifiche del quadrivium, vale a dire aritmetica, geometria, astronomia, musica. Divenuto arcivescovo di Reims, Gerberto aveva incontrato non solo Ottone ma anche colui che egli chiamerà con affetto, rivolgendosi all’imperatore, «il nostro Leone»'°. ‘ Secondo

la testimonianza

di Rodolfo

il Glabro,

Guglielmo

da Volpiano

era solito

affermare: «Hic ergo crudelissimus Leo totus est sine Deo; quia si fuisset Deus cum

eo,

quae illius sunt amaret pro illo”. Affirmabat autem, post mortem et aeternaliter illum esse damnatum», Rodulfi Glabri Vita S. Willelmi Divionensis,

Scriptores, IV, Hannover

a cura di G. H. Pertz, in M.G.H.,

1841, c. 23, p. 657 sg.

‘° Vita secunda S. Adalberti auctore Brunone archiepiscopo, a cura di G. H. Pertz, in op. cit., #20,

PA605:

“Ancora fondamentale per inquadrare la figura e l’attività di Leone è H. Bloch, Beitràge zur Geschichte des Bischofs Leo von Vercelli und seiner Zeit, in «Neues Archiw, 22 (1897), pp. 13-136. ‘ Adalberto aveva sognato, mentre

si trovava alla corte di Ottone, due letti, uno per i

confratelli e uno, preparato per lui, che era «multo pulchrior, purpureus et floribus et incomparabili ornamento preciose vestitus»; sopra il letto una scritta a caratteri d’oro diceva che quello era il dono della figlia del re. «Quod somnium coram rege cum quibusdam familiaribus exponeret, quidam, cui vivax ingenium natura dedit, et pulcra facundia insignem fecit, Leo palacii episcopus, pulcre alludens ait: “Homo tibi contrarius, cito invenies quod quaeris; dono Virginis procul dubio martyr est”»: Vita secunda S. Adalberti Citàac. 020; piato0s:

‘° «Et quoniam noster Leo iter suum ad vos intenderat volando, ut ipse scripsit, VI id. sept., quando primum allata venit epistola»: Die Briefsammlung Gerberts von Reims, a cura di F. Weigle, in M.G.H., Die deutschen Geschichisquellen des Mittelalters. 500-1500: Die Briefe der deutschen Kaiserzeit,

II, Weimar

1966, doc.

183, p. 216.

ORIZZONTI

POLITICI

ED ESPERIENZE

CULTURALI

DEI VESCOVI

DI VERCELLI

77

Ecco dunque come Leone si trovi a essere pienamente inserito nella trama di incontri che vede entrare in contatto tra loro uomini abituati a muoversi in quadri territoriali ampissimi con altrettanto ampie aperture politiche, spirituali e culturali. E che Leone sia in prima persona partecipe di quanto da questi incontri veniva maturando, è mostrato in modo esemplare dalla composizione in versi che egli dedica nel 998 all’imperatore e a Gregorio V, un cugino tedesco di Ottone da lui imposto come papa”. Questi versi anticipano, in solenne

forma

poetica,

le idee

che

Gerberto

elaborerà

in forma

didattico-filosofica per il suo giovane allievo imperatore e il cui nucleo concettuale è rappresentato dalla rivisitazione innovativa della teoria imperiale universalistica'”. «Sub caesaris potentia purgat papa secula», scrive Leone, invitando l’imperatore e il papa a diffondere la propria luce nel mondo, il primo con la forza della spada, il secondo con l’efficacia della parola: «vos duo luminaria, per terrarum spacia / illustrate ecclesias, effugate tenebras, / ut unus ferro vigeat, alter verbo tinniatv’°. Era, come si può vedere, una proposta per risolvere il problema del rapporto regnum-sacerdotium nel senso tradizionale di una intima collaborazione tra i due poteri, ciascuno con le armi a esso specificamente connesse: vi era tuttavia anche, in quel «sub caesaris potentia purgat papa secula», l’affermazione di una superiore responsabilità dell’imperatore, garante di quell’ordine nel mondo che, solo, avrebbe permesso il sereno dispiegarsi dell’azione papale. Proprio questo principio di superiorità della funzione imperiale trova in un altro documento quasi certamente elaborato da Leone, a quel tempo già vescovo di Vercelli, un’impressionante traduzione: si tratta del di-

Versus Ottonenzeît,

de Gregorio et Ottone Augusto, in M.G.H., Poetae latini Medit Aevi, V/2: Die a cura

di K. Strecker,

Berlin

1939, pp. 477-480.

‘Cfr. su questo tema M. Cristiani, Lo sguardo a Occidente. Religione e cultura in Europa nei secoli IX-XI, Roma 1995, pp. 58-65. «Frequenti richiami a un gusto aulico, orientato al recupero dell’antichità classica, secondo lo spirito della renovazio imperi» sono leggibili anche nella cultura figurativa che negli anni di Leone e Warmondo si afferma a Vercelli e Ivrea: E. Pagella, Committenza vescovile e attività costruttiva all’aprirsi del Mille: Landolfo di Torino, in Storia di Torino, I: Dalla preistoria al comune medievale, a cura di G. Sergi, Torino

1997, pp. 409-411 (cit. a p. 410). 4° Versus de Gregorio cit., p. 480. La terzina «Gaude papa, gaude caesar, gaudeat ecclesia. / Sit magnum Romae gaudium, iubilet palatium. / Sub caesaris potentia purgat papa secula» appare rovesciata nei Versus de Ottone et Heinrico, in M.G.H., Poetae latini cit., V/2: Die Ottonenzeît cit., p. 481, da Leone composti per la morte dell’imperatore: «Plangat mundus, plangat Roma, lugeat ecclesia! / Sit nullum Rome canticum, ululet palatium! / Sub cesaris

absentia sunt turbata secula».

CONTEMPLARE

78

L’ORDINE

ploma datato al 1001 nel quale, a proposito della cessione di otto comitati alla chiesa di Roma, Ottone III appare rivendicare con fermezza il ruolo egemone dell’impero sulla chiesa e ciò in sostanziale contrasto, questa volta, con Gerberto non in quanto suo maestro e amico, ma in quanto papa. Nelle parole di Leone, Ottone III, designato per la prima volta come «servus apostolorum», afferma

infatti la falsità della donazione di Costantino sottolineando che quanto egli, per sua spontanea liberalità, intende dare alla chiesa romana è proprietà dell’imperatore — «nostra sunt) — e non può quindi essere rivendicata dal papa sulla base di titoli menzogneri. Il quale papa è quel «domnus Silvester magister noster» che noi, continua l’imperatore, «elegimus et (...) ordinavimus et creavimus»”: la necessità di ricordare a papa Silvestro che la sua elevazione al soglio pontificio era dovuta a un atto d’imperio di Ottone ci dà la percezione di come personalità eccezionali incominciassero a interpretare la funzione papale con un’autocoscienza che l’età della riforma ecclesiastica avrebbe reso dirompente. Ora, come interpretò Leone, che abbiamo visto essere intellettuale organico al potere imperiale ottoniano, la propria funzione di vescovo di Vercelli? La chiave per comprenderlo è nei due diplomi emanati a Roma il 7 maggio 999, dai quali abbiamo preso le mosse. A lungo si è discusso della loro autenticità: «l’orientamento ormai prevalente è di ritenerli stesi dalla cancelleria imperiale sotto forti influenze di suggerimenti o modelli presentati dal vescovo Leone». Ai nostri occhi, ciò che in questi documenti immediatamente colpisce è la portata di quanto viene concesso, che a sua volta è in relazione con un episodio importante della vicenda del marchese Arduino. Da pochi giorni infatti Arduino è stato costretto a presentarsi a una sinodo convocata a Roma per giudicare il suo ruolo nell’uccisione del vescovo Pietro: riconosciuto colpevole di aver condotto i suoi uomini a quell’atto, le sanzioni a lui comminate sono durissime e vanno dal divieto di portare armi a quello di mangiare carne, dalla proibizione di baciare uomo o donna a quella di dormire due notti nello stesso luogo, e soprattutto prevedono l’impossibilità di ricevere la comunione se non in punto di morte, a meno di morire

al mondo divenendo monaco”. 50

M.G.H., Diplomata regum cit., II: Ottonis II et III diplomata cit., doc. 389, p. 819 Sg. Questo diploma è al centro del saggio Ruolo dei linguaggi.

” Sergi, I confini del potere cit., p. 159. ” «deoque

quia publice confessus

est, eandem

poenitenciam

vult ei sancta

synodus

ORIZZONTI

POLITICI

ED ESPERIENZE

Su questo sfondo sono essi, nella forma

CULTURALI

DEI VESCOVI

DI VERCELLI

79

da collocare i due diplomi. Il primo di

di una vera

e propria

carta di confisca; non

solo

vede requisiti a favore della chiesa eusebiana i beni di proprietà di Arduino e dei suoi seguaci, ma vede anche donati ampissimi beni e diritti di natura diversa, e in particolare il «districtus», l’espressione più alta del potere pubblico, su molte località della marca d’Ivrea: e questo non senza il richiamo legittimante, in apertura del diploma, a quanto Carlo il Grosso aveva un tempo concesso al vescovo Liutwardo”. Risalendo ai due predecessori di Ottone, cioè Carlo il Grosso, e di Leone, cioè Liutwardo, il diploma istituiva in tal modo una linea

continua tra imperatori carolingi e sassoni, ricordava l’antichità della collaborazione tra vescovi di Vercelli e vertice imperiale, rinnovava come già esistente il potere vescovile su territori vastissimi. Più rilevante ancora è il contenuto del secondo diploma. A Leone e ai suoi successori l’imperatore concede infatti in perpetuo i comitati di Vercelli e di Santhià, nei quali, precisa il documento,

è esclusa ogni

interferenza di funzionari pubblici e in particolare del marchese d’Ivrea”*. In questo modo circoscrizioni del regno tendono a diventare aree di dominazione signorile: su queste il vescovo Leone esercita la propria giurisdizione non in quanto vescovo-conte ma in quanto a lui è dal potere imperiale riconosciuto il ruolo egemonico nell’area un tempo inquadrata nell’ordinamento pubblico”. Un tale imponere quae ei daretur, si secreto confiteretur, manu sua episcopum interfecisse: videlicet ut deinceps arma deponat, carnem non manducet, nemini virorum aut mulierum osculum donet, nec lineum vestimentum induat, et si sanus fuerit, ultra duas noctes in uno loco non

moretur, nec corpus Domini accipiat nisi in exitu vitae, et in eo loco agat penitentiam ubi neminem eorum ledat qui sacramenta contra eum fecerunt; aut presens monachus efficiatur»: Ortonis III et Silvestri II synodus Romana (999), in M.G.H., Legum sectio, IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, Hannover 1893, doc. 25, p. 53. ? «Iam dudum omnia quae data sunt sancto Eusebio confirmavimus, sed ea que sunt

necessaria et maxime ea que Karolus imperator Lituardo episcopo aut dedit aut reddidit, iterum et iterum ex nunc confirmamus et successores nostros idem agere rogamus, quia nos ipsi imperatoris Karuli precepta legimus et litere in ecclesia sancti Eusebii a tempore Karuli super altare sancti Iohannis Baptiste scripte testimonium donant et ad veritatem recognoscendam fidem legentibus faciuntv: M.G.H., Diplomata regum cit., II: Ottonis II et II diplomata cit., doc.

323, p. 749.

# «Nostra igitur imperiali maiestate precipimus ut nullus dux nullus marchio nec etiam Yporiensis marchio nullus comes nullus vicecomes nullus archiepiscopus, nullus episcopus nullaque nostri imperii magna aut parva persona nullus Italicus nullusque Teutonicus audeat sanctam Vercellensem ecclesiam aut predictum Leonem episcopum aut aliquem eius successorem de comitatu Vercellensi et de comitatu sancte Agathae aut de aliqua eorum pertinentia inquietare molestare disvestire aut ullum placitum ibi tenere aut ullum districtum ibi habere aut ullam publicam exactionem ullo ingenio ibi exigere»: op. cit., doc. 324, p. 752.

5 Sergi, / confini del potere cit., pp. 32 sg., 270 sg.

CONTEMPLARE

80

L’ORDINE

trasferimento di poteri sanziona insomma a livello locale la potenza personale del vescovo nel momento in cui contribuisce a disgregare quella circoscrizione pubblica che è la marca d’Ivrea. Se poi pensiamo che lo stesso Leone suggerisce o redige il diploma non si può che rimanere sorpresi da un fatto: il quadro ideologico nel quale è inserito questo trasferimento di poteri concepito a sostegno di Ottone ma anche intimamente sovversivo nei confronti dell’assetto del regno. Nelle parole che Leone presta all’imperatore la concessione avviene infatti affinché, nel momento in cui la chiesa vercellese permane libera e sicura, l’impero sia reso prospero, la corona trionfi, si propaghi la potenza del popolo romano e soprattutto «restituatur res publica». Ecco un modo di elevare, nel cielo dell’ideologia, la realtà di poteri di qualità nuova, che trasformavano l’ordinamento pubblico «in un vasto policentrismo di autonomie»”. Questa possibilità di intendere la propria potenza come parte di un disegno complessivo è tuttavia, nel caso di Leone, strettamente collegata alla vicenda imperiale di Ottone III. E quando, morto Ottone, morto papa Silvestro, morto Arduino, egli si trova, nel 1016, a contrastare militarmente esponenti dell’aristocrazia della regione, dalle lettere che Leone rivolge all’imperatore Enrico II emerge con esemplare chiarezza come il vescovo di Vercelli interpretasse ora quel suo potere legittimato dai diplomi ottoniani: i miei e vostri nemici, scrive Leone, minacciano «meam urbem», detengono «mea castella», cercano di impadronirsi «meorum bonorum»; ma io, continua il vescovo, ho assediato il castello di Santhià, ho combattuto e l’ho espugnato; quindi «violenter» ho recuperato «om-

nem

meam

terram»*. Il processo di affermazione territoriale dei

°° «Liceat tam Leoni episcopo quam successoribus eius omnibus ad honorem Dei et sancti Eusebii omnem liberam potestatem habere in perpetuum et in civitate et in toto comitatu Vercellensi et in toto comitatu sancte Agathe et in omnibus eorum pertinentiis, ut libere et secure permanente Dei ecclesia prosperetur nostrum imperium, triumphet corona nostre militie, propagetur potentia populi Romani et restituatur res publica»: M.G.H., Diplomata regum cit., II: Ottonis II et III diplomata cit., doc. 324, p. 752 sg. Per la differenza tra il destinatario in questo diploma e in quello del gennaio 1001, Ruolo dei linguaggi, III.2. ”” Tabacco, Regno, impero e aristocrazie cit., p. 116. Proprio la presenza in questo contesto del termine «res publica», che è nozione chiave della renovazio imperii ottoniana, sostanzia la considerazione di Tabacco, op. cit., p. 117, per il quale il regno imperiale tende a presentarsi come una «aberrante res publica a dominante partecipazione privata». °° Bloch, Beitràge cit., docc. 1, 3, pp. 17, 20 sg. Colpisce il tono per nulla subalterno di queste lettere, come si può rilevare da questi passaggi: «semper expectavi, ut iussio vestra pacem mihi faceret et ab inimicis/defenderet; sed aliter quam sperabam evenit. Nam quotiens nuncii Uberti

a corte vestra revertebantur,

peius mihi totiens

erat, et Ubertus

elatior insurgebat. Dulces enim sérmones, qui ei a vestra parte mandabantur, et fiducia meorum bonorum, que sibi promittebantur, fecerunt eum cum fiducia peccare et in

ORIZZONTI

vescovi

POLITICI

ED

ESPERIENZE

di Vercelli, avviato

con

CULTURALI

DEI VESCOVI

Liutwardo,

DI VERCELLI

8I

può così dirsi giunto a

compimento con Leone: i loro successori saranno impegnati a difendere, nei secoli a venire, il patrimonio di diritti e poteri acquisito. E se, come in altre città italiane, l’irrobustirsi dell’istituzione comunale

determinerà la progressiva erosione delle prerogative vescovili, ciò che a Vercelli permane nei secoli XI-XIII è un clima peculiare di

aperture culturali sull’Europa”: un clima che l’ampiezza di orizzonti

politici creare.

di vescovi

come

Liutwardo

e Leone

aveva

contribuito

a

consilium mortis mee audacter intrare. (...) Nunc videbo, cuius pretii apud vos erit Leo. Omnes inimici mei risum et derisum de me fecerunt, quia preceptum de quibusdam liberis, qui in Sancta Agatha contra me erant, firmare noluistis, cum enim non vultis, quod lex vult et iubet» (doc. 3, p. 20 sg.). Questo atteggiamento di Leone nei confronti di Enrico Il si era già profilato in chiusura dei Versus de Ottone cit., p. 483: «Numquam Heinricus gaudeat, numquam felix valeat, / si Leonem episcopum non facit ditissimum, / si non submittit legibus hostes eius pedibus». °° Significativo a questo proposito è il ventaglio di ipotesi, nessuna delle quali del tutto prevalente, circa la presenza nella Biblioteca capitolare di Vercelli del ms. insulare CXVII del tardo secolo X, noto come «Vercelli book»: se giunto al tempo del vescovo Leone, si può pensare a una provenienza, come altri codici di sua proprietà, da Wiirzburg o Fulda, che intrattenevano rapporti con i monasteri anglosassoni; anche le abbazie di Luxeuil e Fleury possono essere state, nel corso del secolo XI, tappe di custodia intermedie del manoscritto;

se giunto nel secolo XII e direttamente dall’Inghilterra, si può pensare a un raccordo con l’ospedale vercellese di Santa Brigida degli Scoti; relazioni intense tra Vercelli e l’Inghilterra si hanno poi al tempo del cardinale Guala Bicchieri, da papa Innocenzo III inviato nel 1216 come legato papale presso il re Giovanni Senzaterra e il suo successore Enrico III: dunque anche Guala Bicchieri, conclusa la propria missione, potrebbe aver portato nella sua città il codice. Su queste ipotesi cfr. M. Forster, Il codice vercellese con omelie e poesie in lingua anglosassone, Roma 1913, pp. 21-40; M. Halsall, Vercelli and the «Vercelli book», in «Publications of the Modern Language Association of America», 84 (1969), pp. 1545-1550; C. Sisam, The Vercelli Book. A Late Tenth-century Manuscript containing Prose and Verse. Vercelli Biblioteca Capitolare CXVII, Copenhagen 1976, pp. 44-50. A proposito ancora dell’’internazionalità” culturale di Vercelli è da ricordare la figura del canonico Cotta che sul finire del secolo XII dona al capitolo cattedrale un’importante raccolta di libri. La provenienza francese di questi è dovuta al soggiorno del canonico a Parigi, soggiorno nel corso del quale egli conobbe Erberto di Bosham e Gérard de la Pucelle, personaggi vicini a Tommaso Becket, le cui reliquie e la cui memoria diventano oggetto di culto nella cattedrale vercellese forse proprio su ispirazione del canonico Cotta: C. Frova, Teologia a Vercelli alla fine del secolo XII: i libri del canonico Cotta, in L’università di Vercelli nel medioevo. Atti del secondo Congresso storico vercellese, Vercelli 1994, pp. 311-333. Altro importante innesto in

ambiente vercellese è quello del teologo e mistico Tommaso Gallo che per iniziativa di Guala Bicchieri si trasferisce da San Vittore di Parigi all'abbazia di Sant'Andrea di Vercelli, dove sviluppa la propria riflessione sulle opere dello Pseudo-Dionigi e partecipa attivamente, schierandosi con Federico II, alle contese politiche che coinvolgono la città: P. G.

Thery, Thomas Gallus. Apercu biographique, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 14 (1939), pp. 141-208; C. D. Fonseca, Bicchieri, Guala, in Dizionario biografico degli Italiani, 10, Roma 1968, pp. 314-324; M. Capellino, Tommaso di S. Vittore

abate vercellese, Vercelli 1978 (Biblioteca della Società storica vercellese); C. Frova, Crrrà e

«Studium» a Vercelli (secoli XII e XIII), in Luoghi e metodi d’insegnamento nell’Italia medioevale (secoli XII-XIV), a cura di L. Gargan, O. Limone, Galatina (Lecce) 1989, pp. 85-99.

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L’IMPERFEZIONE DELLA SOCIETÀ IN DUE LETTERE DI ATTONE DI VERCELLI

1. Attone fu vescovo di Vercelli dal 924 al 960 circa’. Il suo fu un episcopato difficile: attraversò le concitate. vicende del regno italico fino alla vigilia della restaurazione ottoniana e si svolse in un luogo geograficamente centrale rispetto alle città sedi di poteri dai quali, a diversi titoli, quel luogo dipendeva. Vercelli apparteneva infatti alla provincia ecclesiastica che faceva capo a Milano ma era anche centro di un comitato direttamente gestito dagli anscarici marchesi di Ivrea e non distava molto dalla capitale del regno, Pavia. Posizione chiave, dunque, ma pure delicata, soprattutto nel periodo di regno di Berengario II, allorché la situazione locale appare condizionata da avvenimenti di più ampia rilevanza. La forza propulsiva che aveva caratterizzato per più di un cinquantennio l’ascesa degli Anscarici ha il suo culmine nel 950, quando un membro della famiglia, appunto Berengario, diviene re: così, mentre la marca d’Ivrea e Vercelli con il suo comitato continuano a essere controllati dal gruppo parentale, la nuova carica allarga il campo d’azione dell’esponente anscarico e innalza la qualità politica e le aspirazioni della dinastia. Nell’ultimo periodo del suo episcopato Attone ha dunque il problema del rapporto con un re e

' Per quanto riguarda la vita e l’attività di Attone di Vercelli si vedano, con le bibliografie di riferimento, S. Fonay Wemple, Azzo of Vercelli. Church, State and Christian Society in Tenth Century Italy, Roma 1979 (Temi e testi, 27); C. Frova, Il «Polittico» attribuito ad Attone

vescovo di Vercelli (924-960 ca.): tra storia e grammatica, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 90 (1982-83), pp. 1-75. Inoltre F. Savio, Gli antichi vescovi d’Italia. Il Piemonte, Torino 1898, pp. 451-454; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistiimer Reichsitaliens unter den sàchsischen und salischen Kaisern mit den Listen der Bischòfe (951-1122), Leipzig Berlin 1913, pp. 134-136; A. Frugoni, Azzone di Vercelli, in

Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, p. 567 sg.; R. Pauler, Das Regnum Italiae in ottonischer Zeit. Markgrafen, Grafen und Bischòfe als politische Kréfte, Tùbingen 1982, pp. 25-30.

84.

CONTEMPLARE

L’ORDINE

una famiglia interessati al territorio vercellese per più motivi, non sempre distinguibili in modo netto né in modo netto distinti dagli stessi protagonisti: le funzioni di natura pubblica — la responsabilità regia, l’ufficio di marchesi d’Ivrea — non fanno dimenticare agli Anscarici il valore di un radicamento territoriale privilegiato, quale è quello dell’essere tradizionalmente preposti a una circoscrizione del regno italico che anzi ne ha favorito la coscienza di sé come dinastia?. D'altra parte l’ascesa al trono di Berengario II fa divampare una conflittualità che, ormai endemica agli alti livelli del regnum, è resa più intensa dall’interesse di Ottone I per le cose italiane. Il regno di Berengario e di suo figlio Adalberto, associato al trono, è infatti messo periodicamente in crisi dagli interventi sassoni: le discese in Italia di Ottone nel 951-952, di suo figlio Liudolfo nel 956-957 e di nuovo, questa volta in modo risolutivo, di Ottone nel 961 rappresentano altrettante occasioni di coinvolgimento dei grandi del regno, e delle loro clientele, in schieramenti mutevoli e bellicosi’. E se in questa situazione di instabilità Berengario II non riesce ad affermare una vera supremazia, non si deve per questo pensare a un suo ruolo soltanto nominale, di volta in volta strumentalmente riconosciuto 0 contestato dalle forze che concretamente si oppongono. In realtà il potere regio fa sentire pesantemente la propria azione là dove si manifestano, o si temono, defezioni e insieme ricerca, sulla base di un reciproco riconoscimento, l’appoggio di quanti hanno il diretto

controllo di uomini e territori‘. Le vicende della sede metropolitana di Milano sono esemplari rispetto al comportamento dei potenti e del re in questo periodo. Intorno al 948 Manasse, nipote del re Ugo di Provenza, già arcivescovo di Arles e poi vescovo di Verona, Mantova e Trento, diviene arcivescovo di Milano grazie probabilmente all’appoggio decisivo di Berengario, allora marchese e principale consigliere del re Lotario,

figlio di Ugo. I milanesi non accettano questa imposizione e gli contrappongono, per un quinquennio, il prete Adelmanno. Nel corso della crisi del 951-952 Manasse passa decisamente a Ottone e ° G. Sergi, / confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino 1995, in particolare pp. 142-188. ; E. Cristiani, Note sulla feudalità italica negli ultimi anni del regno di Ugo e di Lotario, in «Studi medievali», s. III, 4 (1963), pp. 96-103; V. Fumagalli, I regno italico, Torino 1986, pp. 194-202; P. Cammarosano, Nobili e re. L’Italia politica dell’alto medioevo, Roma Bari 1998, p. 230 sgg.

* G. Tabacco, Regno, impero e aristocrazie nell’Italia postcarolingia, in Id., Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, in particolare pp. 99-113.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

85

subisce l’inevitabile rappresaglia di Berengario quando questi torna a essere re d’Italia con il riconoscimento

formale del re sassone, otte-

nuto ad Augusta in quello stesso 952. A Manasse succede Valperto, che si allontana progressivamente da Berengario II fino a dover riparare nel regno teutonico forse dopo il fallito intervento di Liudolfo. Valperto tornerà in carica, in luogo del comunque riabilitato Manasse, grazie a Ottone I all’indomani della spedizione del

961-962°.

I due personaggi, Manasse e Valperto, dovevano essere molto diversi. Manasse già al tempo di re Ugo mostrava — secondo la testimonianza coeva di Liutprando di Cremona — che, «dum miles esse inciperet, episcopus esse desineret»° e il cronista Arnolfo conferma la sua tendenza a usare la forza come un qualsiasi signore laico. Durante i cinque anni di contrastò con Adelmanno i due furono «non in cathedra, sed in arcu et faretra»” mentre, sempre secondo Arnolfo, «inter hos fluctus natabat caute Walpertus»" e riusciva così a ottenere l’arcivescovato, salvo poi suscitare, con il suo comportamento, sempre maggiori sospetti in Berengario”. Per comporre il quadro nel quale si muove Attone negli anni intorno al 950 occorre dunque aggiungere, sullo sfondo di una generalizzata tensione nel regno, l’atteggiamento spregiudicato del re nei confronti degli arcivescovi milanesi i quali, per parte loro, incarnano probabilmente due modi diversi di essere poco affidabili. Quale modello di comportamento scelse Attone? Prima che Berengario, nel dicembre 950, venga incoronato a Pavia, Attone è uno dei vescovi più prestigiosi del regno. Ci si rivolge a lui per chiarire questioni particolarmente ardue' e grazie ai suoi buoni uffici presso i ? Per questi avvenimenti S. Pivano, Stato e chiesa da Berengario I ad Arduino (888-1015), Torino 1908, pp. 96, 105; G. Fasoli, I re d’Italia (888-962), Firenze 1949, pp. 186 sg., 191. Inoltre le voci Adelmanno,

Manasse,

Valperto in F. Savio,

Gli antichi vescovi d’Italia.

La

Lombardia, I: Milano, Firenze 1913, pp. 359-373. ° ILiudprandi Cremonensis Antapodosis, in Liudprandi Opera omnia, a cura di P. Chiesa, Turnhout 1998 (Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, CLVI), 1. IV, c. 6, p. 98. 7 Arnulfi Mediolanensis Gesta archiepiscoporum Mediolanensium, a cura di L. C. Bethmann,

W.

Wattenbach,

(Ops ctalottte9,

in M.G.H.,

Scriptores, VIII, Hannover

1848, 1. I, p. 6.

po8:

® «Deinde mortuo Lotario regnavit Berengarius Langobardus ipse, quem Walpertus tunc archiepiscopus suspectum habebat, conscius ipse sibi. Cuius iram praecavens, ne regiis praeveniretur insidiis — legerat enim: indignatio regis nuncius mortis — fugam paravit»: ibidem. ;

!° In una sua lettera, la V (P.L., 134, coll. 106A-111C), Attone chiarisce al vescovo

Azzone quali cognazioni carnali e spirituali possano costituire impedimento matrimoniale €; a sostegno dell’argomentazione, cita passi dalla Lex Langobardorum, dalla Lex Salica e dal Codex Theodosianus: Fonay Wemple, Azto of Vercelli cit., p. 40. L’epistola VII (Dlr:134,

CONTEMPLARE

86

L’ORDINE

re Ugo e Lotario enti e chiese hanno ottenuto donazioni e cessioni di beni e poteri''. La sua preparazione culturale è dunque riconosciuta, la sua influenza politica è rilevante. Tuttavia, dal momento in cui Berengario diviene re, Attone non compare più in diplomi regi: l’ultima attestazione è del 31 maggio 950 quando, insieme con Manasse arcivescovo di Milano, induce Lotario a donare alla chiesa di Como, cui è preposto il vescovo Valdone, le chiuse e il ponte di Chiavenna con le relative pertinenze fiscali‘. E mentre ritroveremo alla dieta di Augusta del 952 Manasse e Valdone insieme con i vescovi di altre importanti città del regno italico, il vescovo di Vercelli non appare tra gli intervenuti’. Ancora: Attone non risulta essere tra coloro contro i quali si rivolge Berengario una volta rientrato in Italia né compare in qualche modo al tempo dell’impresa

di Liudolfo'*. Il problema è allora quello del significato da dare a questa sua assenza. Alcune ipotesi sono

possibili. La considerazione del fatto che Attone è stato seguace di Ugo e Lotario!” può avere indotto il nuovo re a emarginare il vescovo. È tuttavia difficile pensare che Berengario si sia privato dell’apporto di un personaggio importante come Attone il quale, oltre a tutto, non sembra essersi compromesso in sedizioni e neppure esserne stato sospettato. Si potrebbe allora immaginare un

suo volontario defilamento: Attone è vecchio'° e se, come pare, è coll. 113C-115D) costituisce la risposta a una lettera del prete Ambrosio — anch’essa pervenutaci nella raccolta attoniana (op. cit., coll. 112C-113C) — il quale chiedeva che cosa si dovesse intendere per «presbyteram aut diaconam»: sulla lettera di Attone, che è una delle fonti più importanti per la conoscenza della questione del sacerdozio femminile nella chiesa antica, si veda G. Otranto, Note sul sacerdozio femminile nell’antichità in margine a una testimonianza di Gelasio I, in «Vetera Christianorum», 19 (1982), pp. 341-360.

‘' Il 14 giugno 948 Lotario dona, su istanza di Attone, le corti Nirone, Vilzacara e Roncaria alla chiesa e ai canonici di Parma: / diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. Schiaparelli, in F.S.L, 38, Roma 1924, doc. 9, pp. 270-274. L’8 agosto 948, per intervento e domanda di Attone, Lotario concede alla chiesa di Trieste il «districtus» (op. cit., doc. 11, pp. 276-278): su questo diploma e sulla sua attendibilità, R. Bordone, Vescovi giudici e critici della giustizia: Attone di Vercelli, in La giustizia nell’alto medioevo (secoli IX-XI), Spoleto 1997 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XLIV), pp. 477-486 e discussione a p. 487 sg.

'° I diplomi di Ugo cit., doc. 15, pp. 283-286. '’ M.G.H., Leges, II, Hannover 1837, p. 27. "* Pivano, Stato e chiesa cit., pp. 104-106; Fasoli, I re d’Italia cit., pp. 186 sg., 190 sg. '’ G. Sergi, Le città come luoghi di continuità di nozioni pubbliche del potere. Le aree delle marche di Ivrea e di Torino, in Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Studi per Giovanni

Tabacco, Torino

1985, p. 19.

‘° Nel De pressuris ecclesiasticisi Attone

critica l’uso di elevare fanciulli alla cattedra

episcopale descrivendo in modo violentemente ironico il giorno dell’ordinazione: «ipse quoque parvulus de aliquibus interrogatus capitulis, quae si praeparare poterit memoriter

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

87

autentico un testamento a lui attribuito e datato al 948", egli po-

trebbe sentirsi ormai lontano dalle cose del mondo. A contrastare questa possibilità stanno due lettere, contenute nel corpus delle opere attoniane e indirizzate rispettivamente ai vescovi confratelli e a Valdone di Como. Nella lettera ai confratelli Attone prende posizione, in senso negativo, a proposito della richiesta regia di avere ostaggi a garanzia della fedeltà dei vescovi, nell’altra invita Valdone a smettere la propria ribellione nei confronti del re'. reddet, vel in aliquo tremens leget pittacio, non episcopalem timens perdere gratiam, sed magistri incurrere virgam» (P.L., 134, col. 75C). Egli indica poi, sulla base delle Scritture, in trent'anni l’età minima per accedere all’episcopato (op. cit., col. 77B). Nel 924, quando compare in qualità di vescovo, egli doveva dunque avere più di trent'anni ed è intorno alla sessantina all’inizio del decennio 950-960: un’età che, di quei tempi, poteva essere sentita

come avanzata. ‘’ I termini della discussione a proposito di questo testamento e di altri due attribuiti ad Attone, sui quali tuttavia si hanno maggiori incertezze, sono riassunti da Frova, // «Polittico» CIESTPo 2 Sp Io 190 '* La lettera ai vescovi confratelli è presente in entrambi i codici del secolo X che costituiscono i principali testimoni delle opere attoniane e nei quali compare il monogramma del vescovo: nel ms. Vat. lat. 4322 della Biblioteca apostolica vaticana è ai ff. 27v.-29v. e nel ms. XXXIX (40) della Biblioteca capitolare di Vercelli è ai ff. 196v.-197r. La lettera a Valdone di Como è invece nel solo Vat. lat. 4322, ai ff. 30r.-34v. E. Pasteris, Attone di Vercelli ossia il più grande vescovo e scrittore italiano del secolo X, Milano 1925, p. 204,

ritiene che ragioni di opportunità politica, data la delicatezza della lettera, siano alla base della sua presenza nel solo codice vaticano che doveva «rimanere affatto personale ad Attone od ai suoi intimi», a differenza del ms. vercellese «che aveva invece destinazione scolastica e pubblica». Resta tuttavia da chiarire perché la lettera ai vescovi, altrettanto

delicata, non abbia avuto uguale sorte. Per i rapporti tra i due codici si veda Frova, // «Polittico» cit., p. 7 sg., n. 9, che ritiene, diversamente dal Pasteris, il codice vaticano posteriore al vercellese. L’edizione più conosciuta degli scritti di Attone è quella del Migne, P.L., 134, che per quanto riguarda le lettere del vescovo ristampa l’edizione di L. D’Achery, Veterum aliquot scriptorum... spicilegium, 8, Parisiis 1668, pp. 99-137. Questa prima edizione dipende dal Vat. lat. 4322

attraverso una trascrizione seicentesca eseguita per preservare

quanto più possibile il testo dato che il codice si presentava danneggiato soprattutto nella parte alta: Fonay Wemple, Atto of Vercelli cit., pp. 186, 190 sg.; Frova, Il «Polittico» cit., pp. 6-8, n. 8 sg. Nell’edizione P.L., 134, l’epistola ai vescovi è la XI, coll. 120D-124C, «ad suffraganeos suos». Questo titolo non è presente nel codice vaticano, dove c’è invece «ut

sacerdotes vel ceteri qui in sacro ordine sunt obsides non dent». L’epistola «ad Valdonem episcopum» è la I in op. cit., coll. 95B-104A. Nel codice vaticano, f. 30r., il titolo non è visibile a causa della corrosione, ma si legge comunque il nome del destinatario. Userò, per la lettera ai vescovi, il ms. Vat. lat. 4322 della Biblioteca apostolica vaticana (d’ora innanzi

Vat.) e il ms. XXXIX (40) della Biblioteca capitolare di Vercelli (d’ora innanzi Ver.); citerò di preferenza dal Ver. segnalando le varianti. Per la lettera a Valdone userò il solo Vat.; la lettera

a Valdone, ultima dell’epistolario nel Vat., è di altra mano

(Fonay Wemple, Atto of

Vercelli cit., p. 185) ed è graficamente meno corretta di quella ai vescovi. Di entrambe le lettere darò le corrispondenti coll. dell’edizione P.L., di cui verranno segnalate le letture scorrette (oltre alle singole parole, eventuali spostamenti, dimenticanze, interpolazioni) e le correzioni apportate a termini evidentemente errati. Non si terrà conto invece di differenze dovute a criteri di uniformità dell’edizione e di restauro sistematico del latino classico. Qualora il Vat. sia illeggibile (si è infatti aggravato il danneggiamento che già aveva indotto

CONTEMPLARE

88

L’ORDINE

Occorre dire subito che sulle due lettere c'è un problema di datazione di cui riassumerò brevemente i termini. La lettera ai vescovi è unanimemente riferita al periodo di regno di Berengario; le opinioni sono invece differenziate a proposito della circostanza che l’avrebbe determinata: uno dei tre interventi sassoni o anche un temuto, e non avvenuto, intervento ottoniano del 954!°. La lettera a

Valdone è stata invece per lo più collegata con gli avvenimenti del 956-957

e con l’impresa fallita di Liudolfo o, di nuovo,

con le due

discese ottoniane’°. Ma l’oscillazione è qui anche più ampia: alcuni studiosi mettono infatti in rapporto questa lettera con il periodo in cui Lotario fu solo al potere, vale a dire tra il 947 e il 950. Questo soprattutto in considerazione del fatto che, diversamente dalla lettera

ai vescovi nella quale si fa riferimento

a «gloriosissimi reges»”', in

questa si parla di «un» re, a cui Valdone

si è ribellato’”. Ora, a ben

vedere, questa constatazione potrebbe essere rovesciata e si potrebbe pensare

che il dato

rilevante

sia non

tanto

il secondo,

quanto

il

primo: poiché la regalità ha un valore simbolico che induce facilmente all’uso del singolare anche quando vi siano degli associati al trono, è più degno di nota che nella lettera ai vescovi si parli di a trascriverlo) le integrazioni delle lacune saranno condotte sulla base dell’edizione P.L. Non è il caso di fare riscontri puntuali con G. A. Willhauck, The Letters of Atto, Bishop of Vercelli: Text, Translation and Commentary, Diss., Tufts University 1984, dove peraltro manca l’edizione della lettera a Valdone. !° Ritiene che la lettera possa essere stata scritta intorno al 951 o al 956, cioè in prossimità del primo intervento di Ottone o di quello del figlio Liudolfo, il primo biografo di Attone, J. Schultz, Atto von Vercelli (924-961), Diss., Gòttingen 1885, p. 49. Il Pasteris, Attone di Vercelli cit., pp. 48, 54 sg., n. 24, pensa invece che l’occasione probabile sia stata la seconda discesa in Italia di Ottone I e che la lettera sia del periodo intorno al 961. Pivano, Stato e chiesa cit., p. 105 sg., propende per il 956-957, prima dell’impresa di Liudolfo, così come P. R. Mathé, Studien zum friih- und hochmittelalterlichen Kònigtum. Eine problemgeschichiliche

Untersuchung

iber Kònigtum,

Adel

und Herrscherethik,

s. l. a., p. 267.

Sono

dell’idea che la lettera sia da collegare con il temuto intervento sassone del 954 Fasoli, I re

d’Italia cit., p. 189, e Fonay Wemple, Azto of Vercelli cit., p. 17 sg. °° Fonay Wemple, op. cit., p. 18 sg., n. 85, esamina lo stato della questione e ricorda gli studiosi che connettono la lettera con questi fatti; si vedano anche le posizioni di Schwartz, Die Besetzung der Bistiimer cit., p. 135, che ritiene la lettera genericamente del periodo di regno di Berengario, di Fasoli, I re d’Italia cit., p. 190 sg., che la mette in relazione con il tentativo di Liudolfo, e in ultimo di Mathé, Srudien zum friih- und hochmittelalterlichen

Kònigtum cit., pp. 267, 270, che la pensa scritta intorno

al 960.

°' «Novit caritas vestra, quia nostri principes et domini, gloriosissimi scilicet reges, dum hostilem se dicunt suspicari impetum, nostra, scilicet episcoporum, contra haec quaerunt suffragia, nec nostris contempti pollicitationibus, nec de fidelitate iuramento firmata confisi, obsides insuper a nobis pro eo accipere ut nuper audistis omnino laborant»: Ver., f. 196v.; Vat., f. 27v.; P.L.,

134, col. 120D,

con

la correzione

«contenti».

°° «Ad gratiam serenissimi regis et domini nostri reverti non dedignemini»: Vat., f. 33r.; PiLas

134, 2c0l#1L01B.,

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

89

«reges», con una scelta che può essere spiegata, lo si vedrà più avanti, nel contesto della lettera e della situazione comunicativa. Queste considerazioni devono indurre alla prudenza: la differente scelta nella lettera a Valdone, cioè l’uso del singolare, non è di per sé elemento fondante per concludere che questa lettera sia stata scritta quando regnava Lotario” Altri elementi, soprattutto esterni al testo in questione, concorrono invece a favore dell’ipotesi che la lettera indirizzata a Valdone — pur senza identificare una data precisa, identificazione che non mi sembra possibile neppure per la lettera ai vescovi — sia stata redatta nel periodo successivo al 950°. Innanzitutto la considerazione dell’importanza che, in questi anni, viene assumendo il territorio di Como come zona di collegamento tra regno teutonico e regno italico: è a Como che, rientrando in patria nel febbraio 952, Ottone dà un diploma al monastero di Sant'Ambrogio di Milano”. Inoltre la diocesi di Como non dipende dalla metropoli milanese ma, dai tempi dello scisma tricapitolino, da quella di Aquileia, il cui territorio viene

staccato dal regno italico, insieme con quelli di Verona, del Friuli e di Trento, nel corso della dieta di Augusta°°. L’appoggio del vescovo di Como a Ottone e il conflitto con Berengario sono del resto

?° Già il Savio, Gi antichi vescovi d’Italia. Il Piemonte cit., p. 458 sg., collegava l’uso del

singolare al regno di Lotario e deduceva poi, dal diploma del 31 maggio 950, che Valdone avesse ascoltato gli inviti del vescovo vercellese e fosse rientrato nei favori del re. Per il Pasteris, Arrone di Vercelli cit., p. 54, n. 20, che la lettera si riferisca a Lotario è provato dal

fatto di «parlare di un Re solo e dal dirlo buono»: si vedrà oltre, par. 3, perché non si possa fare in realtà questa seconda affermazione. Anche C. G. Mor, Note minime per la storia d’Italia nell’età feudale, in «Atti e memorie della Accademia di scienze, lettere e arti di Modena», s. V, 8/II (1950), pp. 159-162, pensava, con motivazioni più articolate, che la

lettera si potesse collegare con il triennio di Lotario: le sue ragioni sono discusse da Fonay Wemple, Azzo of Vercelli cit., p. 18 sg., n. 85, la quale considera invece più probabile il 957 come occasione dello scritto. È tornato a riferirsi alla lettera come scritta nel periodo di regno di Lotario, H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XIID, [1979], Torino 1995, p. 232 sg. Invece più di recente Pauler, Das Regnum Italiae cit., pp. 28-30, ha sostenuto che il tono dotto e formale della lettera potrebbe spiegare l’uso del singolare anche se il re in questione è Berengario II (il quale, ricordiamo, aveva associato al trono il figlio Adalberto) e che Valdone sapeva a quale re ci si riferiva, senza che vi fosse bisogno di alludere a un eventuale coreggente. * Soprattutto la situazione politica generale induce appunto Pauler (ibidem) a ritenere che Attone abbia con molta probabilità scritto la lettera nel periodo di regno di Berengario

DR:

2 Pivano, Stato e chiesa cit., p. 104, n. 2. e dell’importanza politica che la città °° A proposito delle vicende della diocesi di n assume nei secoli X-XI per l’impero si veda C. Violante, Le istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale durante il medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel medioevo, a cura di G. Rossetti, Bologna 1977, pp. 93, 106.

CONTEMPLARE

90

L’ORDINE

testimoniati da Liutprando, il quale dice che Valdone seguì Valperto nel regno teutonico essendo stato anch’egli deposto”. La lettera potrebbe anzi essere stata scritta proprio nell’arco di tempo compreso tra il determinarsi della ribellione di Valdone e il suo riparare, con Valperto, presso Ottone I, in una situazione quindi ancora fluida. Nel testo infatti Attone suggerisce la fuga, come partito più conveniente, a quanti si troveranno ad affrontare l’inevitabile ritorsione regia alla loro ribellione’: e se è difficile pensare che il debole re Lotario, «rex (...) solo nomine», potesse fare paura, sappiamo che Valperto fuggì «semivivus ex (...) rabie Berengarii atque Adelberti»”° presso la corte ottoniana con Valdone, il quale, lo vedremo, rivendicava per parte sua di aver subito oltraggio «non disparem a Berenga-

rio, Adalperto et Willa quam Waldpertum»”. In un altro passo della lettera poi, Attone cita da una fonte non identificata’ una norma che proibisce ai «confinitimi hostium sacerdotes» di avere connessioni occulte con stranieri, a meno che non siano permesse dal re’: e si può forse pensare che il vescovo abbia usato questa disposizione per alludere ai rapporti tra Valdone e i Sassoni. Se dunque entrambe le lettere possono ragionevolmente essere state scritte durante il regno di Berengario, una loro lettura ravvicinata servirà forse a capire quale fosse l’atteggiamento di Attone in quel periodo cruciale. 2. Attone conosce il potere della parola: attraverso essa, le verità scritte nei sacri testi raggiungono gli uomini e indicano loro la strada da percorrere. Gli uomini non sono però tutti uguali e la parola del vescovo, mediatrice della parola di Dio, deve arrivare a ciascuno nelle forme più adatte. «Sicut lac parvulis congruit et solidus cibus aetate perfectis, ita indoctis

humilis

sermo

et sapientibus

arcanum

Dei mysterium nosse convenit»”*: questa e altre riflessioni di Attone nel commento a san Paolo” costituiscono il retroterra teorico di una pratica pastorale che si realizza soprattutto nelle lettere e nei ser?° Liudprandi Cremonensis Historia Ottonis, in Liudprandi Opera omnia cit., c. 1, p. 169. Vedi oltre, testo corrispondente alla n. 94. Liudprandi Antapodosis

cit., 1. VI, c. 2, p. 146.

° Liudprandi Historia Ottonis cit., c. 1, p. 169. Ibidem.

Vedi

oltre, testo

corrispondente

alla n. 81.

Fonay Wemple, Atto of Vercelli cit., p. 216. Vati;efi 3314, PI: 134001 101A, Op. cit., col. 757B. Il riferimento è a Paolo, Frova, Il «Polittico» cit., p. 38, n. 74.

Eb, 5, 12-14.

L’IMPERFEZIONE

moni.

Due

DELLA

SOCIETÀ

soli esempi,

IN DUE

LETTERE

che servono

DI ATTONE

a dar conto

DI VERCELLI

9I

della varietà-dei

procedimenti che il vescovo di Vercelli usa per calibrare le proprie comunicazioni sui destinatari. Uno dei suoi sermoni parla della vita e della passione del santo vescovo vercellese Eusebio”. Si tratta di un testo notevole per le caratteristiche di stile che qui, più che in altre opere attoniane, sono osservate: costruzione paratattica, parallelismi di frasi, amplificazioni e ridondanze e soprattutto costanti assonanze e omoteleuti, o anche

vere e proprie rime, tra membri di frasi e di periodi”. Queste scelte

formali, che danno effetti di forte ritmicità, rispondono a esigenze di tipo mnemonico, servono cioè a fissare facilmente nella memoria il testo. E questo sermone deve essere facilmente ricordato perché la festa di Eusebio, fondatore

e patrono

tuisce un importante momento

della diocesi vercellese, costi-

di aggregazione ed è necessario che il

clero, non sempre molto acculturato, possa agevolmente arricchire di

significato la consuetudine popolare: «de praecipuis, fratres charissimi, solemnitatibus semper nobis aliquid dicendum est vulgaribus, ut nostro discere valeant sermone quod celebrare contendunt ex more: sed in hac festivitate nil eis pronuntiare possumus aptius, quam si nostri patroni gesta disseramus artius»”. L’altro esempio è complementare. Se prima abbiamo visto ciò che i «vulgares», attraverso il clero, devono sapere, in questo vedremo ciò che devono ignorare. Due sono i sermoni sulla Pentecoste e il secondo è abbreviato «ne vulgares fastidiarentury*. Non si tratta tuttavia di una rielaborazione che semplifica, accorciandolo, il primo sermone”, ma di una versione tagliata in due punti. Il taglio più notevole riguarda la confutazione dell’eresia che dice lo Spirito Santo

°° Sermone XVI, in P.L., 134, coll. 853B-855D. ” Questi stilemi sono stati resi evidenti da Pasteris, Arrone di Vercelli cit., pp. 178-185, che riportò il sermone in versi anziché in prosa dopo aver confrontato le soluzioni ritmiche di Attone con altri tipi di ritmica (classica, ebraico-cristiana, nordica, sangallese). °* Sempre Pasteris, op. cit., p. 156, notava che i sermoni di Attone sembrano offrire «un facile schema mnemonico per la privata lettura o anche per l’istruzione pubblica al popolo». Per l’importanza della memoria come elemento che struttura l’esperienza in culture ancora fortemente legate all’oralità e per le caratteristiche — che sono anche dei sermoni attoniani — dell’espressione orale (paratassi, aggregazione, ridondanza, enfasi), si veda W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna 1982, pp. 59-117. ? Già qui si notano le assonanze e talvolta le uguaglianze di sillaba finale: «solemnitatibus»-«vulgaribus»; «sermone»-«ex more»; «aptius»-«artius»; P.L., 134, col. 853B. In tema di acculturazione, in questo volume, Cultura dotta e cultura folklorica.

‘° Sermoni XI e XII, in P.L., 134, coll. 846D-849A, 849A-850C.

4! Su questa interpretazione, in margine ad altro discorso, Frova, Il «Polittico» cit., p. 18.

92

CONTEMPLARE

L’ORDINE

procedere «non a Patre simul et Filio, sed a Patre (...) tantummodo»*. In questa autocensura sulla questione del «Filioque» mi sembra entrino in gioco due ordini di motivazioni: da una parte, è vero, la constatazione dell’oggettiva estraneità degli incolti a sottili controversie teologiche, ma pure, d’altra parte, la preoccupazione di non risvegliare curiosità eterodosse in coloro che — come testimoniano altre lettere e sermoni attoniani — non solo cadevano in una quantità di false credenze e superstizioni ma tendevano a veri e propri comportamenti eretici come quello, dirompente per l’ordine sociale, di astenersi dal lavoro il venerdì, in ricordo della passione di Cristo‘. Dunque Attone sa come rendere funzionali i propri discorsi ai livelli culturali del popolo e del clero. Nel caso delle due lettere si esula tuttavia dall’attività pastorale quotidiana per porre, con persone di altissimo livello sociale, questioni relative alla convivenza civile nella res publica Christiana. E la materia stessa del discorso impone al vescovo una pratica specifica della parola: la retorica, l’arte di ben parlare, anche per iscritto, negli affari civili. In questa accezione, la retorica ha una forte connotazione morale‘: il “ben

parlare” non è fine a se stesso ma serve a guidare l’azione degli uomini che stanno al vertice della società affinché l’armonia del cielo si rispecchi sulla terra”. In quanto arte, poi, la retorica è anche una

4 P.L., 134, col. 847A. La questione secolare del «Filioque», formula introdotta nel simbolo di Nicea nella Spagna visigota e poi diffusasi nella chiesa franca, aveva già suscitato problemi al tempo di Carlo Magno, non solo nei rapporti con i teologi orientali ma anche all’interno dell’Occidente latino-germanico dove si tenevano condotte liturgiche differenziate. Nella seconda metà del secolo IX poi, il patriarca Fozio aveva rilanciato la questione accusando la chiesa occidentale di avere, tra altri errori, interpolato il Credo: nel clima di

risposta polemica che da alcuni decenni coinvolgeva gli intellettuali teologicamente più preparati d’Occidente sembra muoversi anche Attone. Cfr. F. Dvornik, The Photian Schism. History and Legend, Cambridge 1948; una ordinata esposizione sull’argomento è in R. Haugh, Photius and the Carolingians. The Trinitarian Controversy, Belmont (Mass.) 1975. Per l’importanza che questa e altre contese teologiche hanno nell’orientare il dibattito teorico interno al mondo latino-germanico verso soluzioni originali sul piano politico-istituzionale, si veda G. Tabacco, Gli intellettuali del medioevo nel giuoco delle istituzioni e delle preponderanze sociali, in Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino 1981 (Storia d’Italia, Annali, 4), pp. 25-38. ‘ Ho sviluppato questo tema in Cultura dotta e cultura folklorica, in questo volume. “ R. McKeon, La retorica nel medioevo, in Figure e momenti di storia della critica, a cura di R. S. Crane, Milano 1967, p. 194.

° G. Duby, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti guerrieri e lavoratori, Roma Bari 1984, pp.

19-24. Significato e uso della retorica in un contesto sociale più tardo sono stati spiegati da E. Artifoni, / podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale, in «Quaderni storici», 63 (1986), pp. 687-719.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

93

tecnica‘ che misura la propria efficacia sull’effetto che un discorso riesce a ottenere su un certo pubblico, e il pubblico, per parte sua, determina largamente la forma di quel discorso. Se perciò l’argomento delle due lettere riguarda di diritto la retorica, fondamentale è l’uso appropriato e selettivo delle norme che regolano il sistema retorico in rapporto con ciascuna situazione comunicativa: su questa base va verificato se la sensibilità di Attone per i destinatari trovi,

anche nei testi in esame, la sua realizzazione‘’. La lettera che sarà analizzata per prima è quella diretta ai «confratribus»”, i vescovi confratelli. In relazione con questo destinatario collettivo vi sono cose che non conosciamo. Da una parte se si tratti della cerchia, più ristretta, dei vescovi che fanno parte della provincia metropolitana di Milano o di quella, più ampia, dei vescovi del regno italico. D’altra parte le modalità di ricezione del testo. All’inizio della lettera, dopo aver brevemente

narrato

che i re, temendo

un attacco

nemico‘, richiedono ostaggi ai vescovi, Attone scrive: «et quid vestrae sanctitati super hoc visum fuerit, nobis exponere vestris sacris apicibus, quia simul nunc apte loqui non possumus, non dedignemi-

niv°°. Il riferimento all’impossibilità di discutere insieme il problema può avvalorare l’ipotesi di una lettura individuale da parte dei vescovi. Un’altra eventualità è tuttavia da tener presente: lo stesso riferimento può alludere all’assenza di Attone da un’assemblea convocata per decidere sul da farsi. Se così fosse, il vescovo potrebbe aver inviato uno scritto destinato a essere letto pubblicamente. In ogni caso, lettura individuale o ascolto collettivo, ciò che caratterizza gli interlocutori di Attone è la situazione di incertezza nella quale si trovano. Importante è allora definire l’atteggiamento del vescovo di Vercelli nella lettera.

‘° R. Barthes, La retorica antica, Milano

1985, pp. 7-11, a proposito delle pratiche che la

retorica sostanzia e che possono essere compresenti o presentarsi in successione attraverso il tempo: oltre che una tecnica, la retorica è un insegnamento, una scienza («o almeno una proto-scienza», p. 7), una pratica sociale, una pratica ludica. ‘’ Userò, per l’analisi delle due lettere, H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna 1969, C. Perelman;

I dominio retorico. Retorica e argomentazione,

Torino

1981, C. Perelman,

L.

Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, 2 voll., Torino 1982. Molte indicazioni di lettura provengono dalle pagine dedicate alla prosa latina dell’alto medioevo da E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità e nel medioevo, Milano 1983, pp. 81-164. g

*/Vet.j f. 196v.3 Vati; fi 27v.; P.L., 134, col. 120D. ® Vedi sopra, n. 21. 5° Vat., f. 27v.; Ver., f. 196v., con la variante «nuno» omessa; P.L., 134, coll. 120D-121A, con la lettura scorretta

«quid vestrae sanctitati».

CONTEMPLARE

94

L’ORDINE

Attone usa qui un tono fortemente assertivo, sorretto da verbi alla prima persona singolare che sottolineano continuamente la propria presa di parso «inviolabiliter assero observandum»”, seiudico observandam»” > «alioquin

nil ultra novum

adicere

censeo»” , «hoc

minime laudo»”', «nullo modo estimo praesumendum»”, «unum tamen scio procul dubio»”°. Le formule di modestia sono solo tre: le prime due sono irrilevanti”; la terza e ultima del testo, collocata subito prima dell’argomentazione, serve invece ad affermare con maggior forza la sua superiorità intellettuale: «me quoque tam desidem et imperitum, confiteor hactenus non reperisse ab ecclesiasticis doctoribus tale quid auctoritate firmatum, vel exemplo propositum». Esattamente a questo punto Attone passa a parlare in prima persona, sottolineando che solo «quis studiosissimus»” potrà avere più fortuna di lui. Dunque il vescovo di Vercelli parla con sicurezza, in virtù di un’autorità indiscussa che gli proviene dall’aver svolto un’accurata ricerca e dal non aver trovato antecedenti. E proprio la mancanza di auctoritates affida l’efficacia della lettera o alla forza argomentativa del ragionamento o al richiamo passionale dell’emozione: delle due strade percorribili per agire sul destinatario, convincere e commuovere, Attone imbocca con decisione la prima, dipanando il proprio discorso sul filo di un modello identificabile. La lettera infatti sta pienamente all’interno del genere deliberativo, il genere retorico dell’intervento politico che consiglia, o sconsiglia, un’azione futura a un’assemblea, arbitra della situazione. I vescovi devono scegliere che cosa fare di fronte alla richiesta di ostaggi da parte dei «gloriosissimi reges». Questa scelta decisiva può essere condizionata dalla lettera che, conformemente al genere, tende «a un mutamento della situazione da realizzarsi pragmaticamente (cioè nel corso di avvenimenti esterni, socialmente importanti), in

quanto è data la possibilità di un mutamento

" Ver..t.

196v.i Vat..f. 28t4à/P.Ly134,

della situazione

se-

coldél21B.

°° Ibidem.

°° * °° °° ‘”

Veriyf.‘196v.3 Vat.pefis Ver., f. 196v.; Vat., f. Ver., f. 197r.; Vat., f. Ver., f. 197r.; Vat., f. «Atto gratia Dei humilis

28,4. PLxe1l34col.s.1210: 28v.; P.L., 134, col. 122C. 29r.; P.L., 134; col. 123G; 29v.; P.L., 134, col. 124A, episcopus»: Ver., f. 196v.; Vat., f. 27v.; P.L., 134, col. 120D.

«Manifestissime propalari, si fieri potest, humiliter exposcimus»: Ver., f. l'96v.;tP.L.,/134, col. 121A. Il Vat., f. 28r., non è leggibile. 58 . Ver., f. 196v.; Vat., f. 28r., con la variante «repperisse»; P.L., 134, col. 121B.

“ Ver., fi. 196v; Vat, fe28r= PL;

184p0c0f4

21

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

95

condo la posizione del dibattito»””. E poiché la possibilità di mutamento si presenta come interrogativo di fondo della situazione, fondamentale è vedere come si struttura la risposta di Attone a tale res dubia o quaestio: gli ostaggi sono da dare o no? Tre parti sono facilmente riconoscibili nella lettera: un breve esordio con formule di saluto, un lungo pezzo centrale, una conclusione. Soffermiamoci sulla seconda parte, che costituisce il corpo del discorso. In questa sono identificabili due ulteriori articolazioni: un segmento sostanzialmente informativo e uno argomentativo. L’inizio del primo è marcato dalla breve sintesi degli avvenimenti alla quale si è già accennato: la narrazio serve a dare da subito carattere di analisi oggettiva e di essenzialità all’intervento e soprattutto ad andare immediatamente alla partitio, che è l’enumerazione dei punti da trattare. Subito dopo infatti, e siamo ancora nella parte informativa, Attone elenca le questioni sulle quali occorre pronunciarsi «manifestissime»°. E forse per provocare risposte nette, il vescovo le dispone secondo uno schema che sembra procedere per opposizioni binarie e dove ogni scelta determina, con andamento discendente, l’alternativa successiva: «si praefati obsides a nobis dandi sunt, aut quales, vel si denominati se pro nobis obligari noluerint, quid agendum sit, aut si consenserint, quo pacto, aut cum qua securitate hoc fieri oporteat, si scriptis haec conventio adnotari conveniat, vel si verbis tantummodo

credatur communibus»”. Il primo bivio è naturalmente risolutivo: seguendo la via dell’affermazione si innesca il movimento di discesa nelle diverse articolazioni della questione di partenza, seguendo la via della negazione si chiude la stessa questione di fondo. La scelta di Attone è di argomentare la negazione. Il punto di partenza dell’elaborazione dell’argumentatio è chiaro: «fidelitatem quoque nostrorum dominorum et regum pleniter in omnibus iudico observandam»®°. Compito dei vescovi è dunque quello di lavorare «pro illorum fidelitate regnique statu et pace»”: ma al di là di quanto già serve a ordinare la convivenza nient'altro di nuovo può essere richiesto «nisi maxima utilitate vel necessitate

°° Iausberg, Elementi di retorica cit., p. 20. °! Vedi sopra, n. 57.

x

° Ver., f. 196v.; Vat., f. 27v.; P.L., 134, col. 121A, con la lettura scorretta «sì praefati

obsides a nobis dandi sunt, vel si denominati

se pro nobis obligari noverint».

© Ver., f. 196v.; Vat., f. 28r.; P.L., 134, col. 121B.

% Ver., f. 196v.; Vat., f. 28r.; P.L., 134, col. 121C.

i

96

CONTEMPLARE

L’ORDINE

cogente, summi pontificis sententia, vel prudentium fuerit episcoporum deliberatum consilio»’’. Evidentemente un’ipotesi forse strumentale = i re «hostilem se dicunt suspicari impetum»°°, aveva sottolineato nella narratio — non è per Attone motivo sufficientemente grave da far decidere, a conforto del re ma autonomamente, il papa o i vescovi a qualche misura straordinaria. Nel merito poi della misura specifica, questa è comunque inaccettabile: l’unico peccato che ricade sui figli è quello originale, ricorda Attone, altrimenti non è possibile che qualcuno paghi per responsabilità non sue. Può accadere che i padri mangino uve acerbe e che i denti dei figli marciscano ma, scrive il vescovo, «non inter nos, non in Israel». Attone giustifica dunque giuridicamente e ideologicamente l’impossibilità di rispondere in modo affermativo alla quaestio e tutto ciò senza che una sola volta venga nominata, in questa parte, la parola «ostaggi». Anzi, l’uso della metafora della famiglia per indicare il legame che unisce vescovo e fedeli e dell’antonomasia di Israele per indicare il regno cristianizzato serve a dare la misura della gravità di una richiesta che scardina i legami sociali e a dare maggior forza al periodo che, chiudendo la parte probatoria, assume il tono di chiara minaccia: «utique qui hanc postponit sententiam, et filium pro patris, vel pro alicuius parentis culpa damnaverit, reus erit et non in Israhelitico populo computabitur*. Si tratta di un passaggio importante perché Attone può ora confutare le ragioni di coloro che mostrano di non valutare appieno «hanc sententiam»: in primo luogo, ed è un inaspettato mutamento di prospettiva, gli stessi re, poi i volontari al ruolo di ostaggi, infine i vescovi orientati a onorare la richiesta. Incomincia inoltre a questo punto a prendere corpo l’impressione che fin dall’inizio dell’argomentazione Attone si rivolga non solo ai destinatari espliciti ma anche ai re, cui il contenuto della lettera può facilmente arrivare. Nella forma della percontatio, cioè della finta osservazione di un anonimo avversario, il vescovo previene infatti la falsa coscienza dei sovrani: «et fortasse dicit aliquis: quicquid in huiusmodi hominem fecero, ad eum pertinet, qui eum mihi tradidit. °° Ver., f. 196v.; Vat., f. 28r.; P.L., 134, col. 121C, con la lettura scorretta «sumni». °° Vedi sopra, n. 21. ‘’ Ver., f. 196v.; Vat., f. 28r.; P.L., 134, col. 121D. Il riferimento è a Ez, Tua. °° Ver., f. 196v.; Vat., f. 28v., parzialmente

leggibile e con

la variante

«dampnaverit»:

«[u]tiq[ue] qui hanc post[ponit] sentenft]}iam, et filium pro patris, vel pro ali [cuius par]Je[n]ti[s] culpa dampnaverit, reus erit et non in Israhelitico populo computa[bi]tur»; P.L., 134, col. 122A, con la lettura scorretta «et filium patris». Per un confronto sull’uso della nozione di Israele, in questo volume, La memoria come legittimazione, par. 2.

L’IMPERFEZIONE

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DI VERCELLI

97

Certe revera quia ad aum pertinet, sed nec tu ideo excusaberis. Non enim suo peccato tuum evacuare poteris, sed si ille male dedit et tu male accepisti, ambos tenebit iniquitas»”’. E ancora rispondendo a un’altra percontatio condanna chi si vuole volontariamente offrire come ostaggio «pro alterius gratia (...) ut alter exinde lucrum adquirat, vel gloriam»”°, perché sarà egli pure colpevole del proprio eventuale omicidio. L'identità sociale di questi volontari è difficile da definire, anche perché non si può sapere se Attone fa un’ipotesi generica, se invece prevede da quale parte possa venire l’offerta al ruolo di ostaggi o se, ancora, ha presente qualche situazione concreta. Il fatto tuttavia che il soggetto dell’obiezione dica: «tu bene postulas, quia pie postulas;

ego autem non ita faciam, sed rectum iudicium iudicabo»” sembra suggerire che il vescovo non pensi a persone di livello sociale basso, le quali, d’altra parte, costituirebbero un deterrente troppo debole. Più in là non si può forse andare, anche se il tipo di ragionamento, per la presenza di quel «pie» contrapposto alla rivendicazione di volontà e giudizio autonomi, risulta alquanto strano se riferito ad esempio a un religioso. Infine ci sono i vescovi che pensano di aderire alla richiesta di ostaggi da parte dei re. Qui Attone non usa più la forma della percontatio ma identifica in tre tipi di caratteri i vescovi favorevoli. Dei primi due, coloro che darebbero ostaggi per paura o per proprio vantaggio, sostanzialmente non si occupa: troppo scoperte e basse devono evidentemente sembrare le loro motivazioni. Più pericolosi sono invece coloro che confidano a tal punto in sé da promettere cose «quae suae non sunt potestatis, et pro tali pollicitatione opsides

ponunt, quam illis vix adimplere permittitur»”?. L’esempio di Gesù abbandonato

da Pietro nel momento

cruciale è d’obbligo, a dimo-

strazione del fatto che non bisogna fare presunzioni su di sé, perché

saranno smentite dalla fragilità della carne, la quale può prevalere persino sulla fede e dunque, a maggior ragione, su una remora come gli ostaggi. Se solo il timore di Dio può rappresentare un freno, non

° Ver., f. 196v.; Vat.; f. 28v., «al[iq]uis»; P.L., 134, col. 122A, con la lettura scorretta «quiquid».

? Ver. f. 196v.; Vat., f. 28v.; PIL., 134; col. 122B-C. dlaVerjzafint96v. Vatsi fi 28w:50P.15 1134, col. :122B. ?? Ver., f. 196v.; Vat., f. 29r., parzialmente leggibile: «quae suae non sun[t] potesta[tis] et pro tal[i] pollicitatione [o]p[si]des po[nunt quam] illis vix adimplere permittit[ur]»; P.L., 134%:colanli22D*

;

CONTEMPLARE L’ORDINE

98

sempre sufficiente, al tradimento, la richiesta di ostaggi non può essere fatta a nessun cristiano e soprattutto a nessun vescovo ma solo a «stolidis et perversis Deumque non curantibus»”’. La prospettiva della comunicazione è qui tornata ad allargarsi e Attone sembra voler ammonire i vescovi e insieme indicare ai re, attraverso un passaggio altrimenti non comprensibile, coloro dai quali essi devono realmente guardarsi: ad esempio da quei falsi sacerdoti, da quegli apostati «qui ecclesiasticam deserentes censuram, ad militarem se conferunt actionem». Non può non tornare alla mente Manasse d’Arles, il cui comportamento spregiudicato — «dum miles esse inciperet, episcopus esse desineret»” — doveva avere imitatori, forse anche tra i destinatari

della lettera. La parte centrale del discorso di Attone volge ormai al termine e la questione della fedeltà chiude sulla sua origine il cerchio argomentativo percorso dal vescovo: «unum tamen scio procul dubio, quod ubique dicetur, quia si illud fidei vinculum, quod olim inter principes nostrosque valuit praedecessores, minime apud nos servari creditur, aut principes deteriores, aut nos nequiores esse probamur. Quia aut illi sua saevitia adeo exosi videntur, ut ad popularem iam non possint redire amorem, aut nos adeo perfidi suspicamur, ut nullum in nobis

fidei robur consistat, aut utrumque»”. Ma se l’inizio dell’argomentazione — «fidelitatem quoque nostrorum dominorum et regum pleniter in omnibus iudico observandam» — aveva la forza del dato teorico incontrovertibile, la fine ha la forza del

rigore logico applicato a una realtà problematica. A questo proposito va ricordato che il manoscritto CXKXXVIII della Biblioteca capitolare di Vercelli, risalente al secolo IX, contiene tra altre più comuni due opere che costituiranno alla fine del secolo X i primi testi del curriculum creato da Gerberto d’Aurillac per insegnare la dialettica e che avranno parte importante nella «Logica vetus»: 1’Isagoge di Porfirio nella traduzione di Boezio e i Praedicamenta o Categoriae di Aristote-

le”. Se dunque la cattedrale di Vercelli manteneva in vita tradizioni di Ver,

f£-197r.; Vat, f. 2913 PL

134; col; 129G;

".Ver., f. 197r., con la versione scorretta «militalem»; Vat., f. 29v., parzialmente leggibile: «[ad militarem se] confer[unt] actio[nem]»; P.L., 134, col. 123C, con la lettura scorretta «Ecclesiam» e con la correzione «militarem» adottata anche da me.

? Vedi sopra, n. 6. °° Ver., f. 197r.; Vat., f. 29v.; P.L., 134, col. 124A-B. "Sul contenuto del ms. CKXXVIII si veda D. A. Bullough, Le scuole cattedrali e la cultura dell’Italia settentrionale prima dei Comuni, in Vescovi e diocesi in Italia nel medioevo (sec. IX-XIII). Atti del II Convegno di storia della Chiesa in Italia, Padova 1964, p. 124. Sul curriculum di Gerberto a Reims, P. Riché, Le scuole e l’insegnamento nell’Occidente cristiano

L’IMPERFEZIONE

DELLA

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IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

99

dialettica, è possibile che Attone — probabile autore del Polittico,-che contiene tra l’altro un’interessante glossa sul sillogismo tripartito”® — avesse qualche dimestichezza con la materia, il che confermerebbe la sua attitudine a svolgere il discorso su un tono logico e raziocinante.

Con la fine dell’argomentazione il vescovo ha tuttavia anche raggiunto il punto limite di provocazione accettabile dai suoi interlocutori, diretti e non, e nella conclusione egli adotta un tono conciliante, giocato ancora su uno schema binario nel quale, su opposizioni scandite da omoteleuti, si fronteggiano, ma in una prospettiva di ricomposizione, le parti in causa, re e vescovi: «illis de nostra fidelitate

donet fiduciam, et nobis in eorum obsequio perseverandi praestet constantiam. Tribuat illos nobis tranquillos, nosque eis faciat esse

devotos»”.

s

La seconda lettera è indirizzata al vescovo Valdone di Como. Alcune notizie su di lui sono già state fornite: qui interessa piuttosto richiamare alcuni tratti caratteristici del personaggio, così come vengono forniti da Liutprando. Si sa che il vescovo di Cremona è lontano nei suoi scritti dall’obiettività, soprattutto là dove si occupa del suo idolo polemico, Berengario II. Nei confronti di Valdone non ha tuttavia particolari motivi di avversione e può dunque essere abbastanza attendibile: in fondo il vescovo di Como, dopo aver ottenuto questa carica grazie a Berengario, diventerà sostenitore di Ottone e perciò compagno di partito di Liutprando. Entrambi i fatti sono registrati da quest’ultimo. Nell’ Antapodosis l'appoggio di Berengario all’ascesa di Valdone al vertice della diocesi comasca viene così commentato: «quod quam bene fecerit, subditorum depopulatio, vitium incisio, arborum decorticacio, multorum oculorum excussio, simultatis saepissima repetitio cum signis tum gemitibus narra”. Nella Historia Ottonis poi, Liutprando racconta, come ho già ricordato, che Valdone segue Valperto nel regno teutonico: «Waldpertus (...) Ottonis (...) potentiam adiit, indicans se non posse ferre et pati Berengarii (...) saevitiam (...). Waldo Cumanus episcopus hunc pone

dalla fine del V secolo alla metà dell’XI secolo, Roma 1984, p: 273. Sulla sua figura, in questo volume, Ruolo dei linguaggi. I rapporti tra «Logica vetus» e retorica sono affrontati da McKeon, La retorica cit., p. 188 sg. Per un quadro generale dello sviluppo della retorica in rapporto con le altre arti del trivium: J. J. Murphy, La retorica nel medioevo. Una storia delle teorie retoriche da s. Agostino al Rinascimento, Napoli 1983.

#8 Frova, Il «Polittico» cit., p. 41. îo -Werof. (197r.;\Vat. fi 29v.30P.L.7134;.col.-124B. °° Liudprandi Antapodosis cit., 1. V, c. 29, p. 141.

CONTEMPLARE

IOO

est secutus,

non

disparem

L’ORDINE

a Berengario

(...) quam

Waldpertum

contumeliam clamitans se esse perpessum»" Il senso della prima testimonianza è chiaro: la tecnica di evocazione visiva induce il giudizio su Valdone, connotato come uomo brutale e dedito ad attività non certo adatte a un vescovo. È da notare tuttavia che il criterio in base al quale Liutprando sceglie ed enumera tali attività è solo in seconda istanza morale. Ciò che egli vuol farci “vedere” è infatti un paesaggio devastato, reso improduttivo dalla violenza sulla natura e sugli uomini proprio di chi dovrebbe forse avere, all’opposto, interesse al suo sviluppo: il giudizio morale sul personaggio, e indirettamente su chi lo ha appoggiato, si genera dunque, ed è fatto degno di nota, a partire da considerazioni inerenti alla gestione dissennata di risorse umane ed economiche. Nella seconda testimonianza il dato interessante è che mentre Valperto «parla», Valdone «grida»: potrebbe trattarsi certo di una scelta casuale di termini («indicans», «clamitans»), ma «clamitans» potrebbe anche essere traduzione, cosciente o meno da parte di Liutprando, dell’esuberanza e iracondia del vescovo di Como. Valdone non ha dunque un carattere facile. A questa considerazione si devono aggiungere elementi specifici sulla situazione nella quale nasce la lettera e che proprio da essa si deducono. Valdone, che si è ribellato al re, ha ricercato un incontro con il vescovo di Vercelli”. Non conosciamo i motivi, che anzi potrebbero essere opposti a seconda del re con il quale si preferisce collegare la

ribellione di Valdone e la lettera di Attone”. Se si tratta di Lotario l’incontro potrebbe essere stato richiesto per la posizione di privilegio che Attone occupa tra coloro che sono vicini al re. Valdone avrebbe cioè cercato un incontro con qualcuno in grado di fare da mediatore presso Lotario per essere da lui perdonato. Se si tratta, come è più probabile, di Berengario, l’incontro potrebbe essere stato richiesto più verosimilmente, visti i successivi sviluppi, per guadagnare il vescovo di Vercelli all’opposizione, se non per indurlo alla ribellione aperta. Di qualunque caso si tratti, Attone è in qualche modo ' Liudprandi Historia Ottonis cit., c. 1, p. 169. * «Mult[as vestrae caritati] mercedes referimus pro tam benivola legatione gratia fraternitatis suscepta. Quod autem [vos] nobiscum conloquium habere velle indicastis, vel cum nostro misso, Deus scit, quia si debita inter nos unitas permaneret, libenter in vestrum et veniremus et dirigeremus servitium. Sed quod peius est, tanta inter nostrum seniorem et vos excrevit discensio, ut nec loquendi, nec nostrum missum dirigendi in vestrum servitium absque eius licentia nobis nunc tempus conveniat»: Vat., f. 30r.; P.L., 134, col. 95B. * Vedi sopra, testo corrispondente alle n. 20-33.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

IOI

costretto a scrivere: egli non può, o non vuole, incontrare Valdone-e la lettera costituisce la risposta negativa alla richiesta di colloquio. Ma la lettera non è solo questo: nel momento in cui scrive, Attone cerca comunque di agire sul destinatario invitandolo a smettere la ribellione

nei confronti

del re e, per far ciò, costruisce

un

discorso di definizione dei rapporti agli alti livelli del regno. Se l’occasione dello scritto fosse tuttavia legato a una richiesta di mediazione, la posizione di Attone sarebbe innegabilmente di forza e potremmo ritrovare, nel testo, il tono assertivo e freddamente raziocinante

della lettera ai vescovi.

Se invece l’occasione

fosse diversa,

legata ad esempio al tentativo di staccare il vescovo di Vercelli dallo schieramento dei fedeli di Berengario, Attone si troverebbe a dover respingere la proposta di incontro e a invitare alla fedeltà in forme e modi che esprimano la sua posizione tenendo conto della personalità di Valdone e delle possibili ritorsioni che in mutate condizioni politiche gli potrebbero derivare. Struttura e tono della lettera rispondono meglio a questa seconda possibilità: l’efficacia del discorso non è qui tanto affidata alla forza intrinseca del ragionamento, quanto all’impatto del richiamo passionale. Nella lettera a Valdone, diversamente da quella ai vescovi, sono

così dilatate le parti che meglio si prestano al coinvolgimento emotivo del destinatario: quelle dell’esordio e dell’epilogo, che inquadrano, al loro interno, un segmento argomentativo. Ciò che all’inizio Attone fa è respingere con il maggior garbo possibile la proposta di colloquio di Valdone” e preparare il terreno per arrivare a un punto cruciale della lettera. Per questo costruisce tre periodi attentamente calibrati, nei quali si modificano via via le posizioni reciproche: «verumtamen quod magis in commune necessarium

esse

cognovimus,

debitae

caritatis

vinculo

constricti,

caelare

vobis minime valemus. Humiliter vestram rogantes celsitudinem, ut quae a me vestro fideli, quin et infimo confratre humiliter dicenda sunt, deposito supercilio pacifice audire dignemini. Non te, domine, ledat, quod quasi magistrando aliquid tibi insinuare praesumam, qui ut familiaris vernaculus suggerere vestrae magnificentiae oportuna desidero». Come si vede, nel primo periodo egli usa la prima e la seconda persona plurale per indicare se stesso e Valdone: non ci 4

beni 8 Vat., f. 30r.; P.L., 134, col. 95B. 8 Vat., f. 30r.; P.L., 134, col. 95B-C, con le letture scorrette «confratri», «quod aliquid quasi magistrando tibi insinuare».

CONTEMPLARE

102

L'ORDINE

sono formule di modestia, tra i due il piano è di parità. Nel secondo passa a parlare in prima persona singolare introducendo elementi di ricercata

modestia

e di inferiorità

retorica:

«vestram

celsitudinem»,

«vestro fideli», «infimo confratre». La posizione di Attone è qui volutamente subalterna ed è tale per considerazioni psicologiche: l'efficacia espressiva di quel «deposito supercilio» conferma il difficile carattere di Valdone. A questo punto, ed è il terzo periodo, Attone adotta anche nei confronti del suo interlocutore la persona singolare: il “tu” è usato in modo forte in inizio di enunciato ed è temperato, subito dopo, da «domine». Viene ribadita l’inferiorità retorica di Attone sul piano dei legami: egli parlerà «ut familiaris vernaculus» alla «vestrae magnificentiae», ma viene anche sottolineata la consapevolezza del fatto che egli può parlare «quasi magistrando». Appunto in virtù della sua superiorità culturale Attone prorompe in una triplice interrogazione anaforica che non può non scuotere emotivamente l’interlocutore, al quale torna a rivolgersi con il “voi”: «unde, domine mi, tanta vestro cordi subripere potuit temeritas? Unde tanta exquiri potuit occasio? Unde vestra mens tam cito potuit concitari, ut sacerdotalis immemores reverentiae, ex inprovisu a vestro discederetis seniore, vestrisque benivolis confratribus, et gratis

in ipsos insurgere non vereremini?»"”. In relazione a questo passo è da spiegare il valore che il termine «temeritas», di derivazione biblica, ha per Attone. Nel De pressuris ecclesiasticis egli citava l’episodio del laico Uzzà ucciso da Dio perché aveva toccato l’arca del Signore a uno scarto dei buoi che tiravano il carro sul quale era posta e, in triplice interrogazione anaforica anche lì, ìl vescovo istituiva queste uguaglianze: l’arca è la «sancta Ecclesia», i buoi sono i «dissidentes sacerdotes», Uzzà è da considerarsi «aliquem temerarium»”. Dunque «temeritas» ha il significato di insolenza blasfema da parte di forze secolari ed è non a caso attribuita a chi, poco dopo, è accusato di aver dimenticato il proprio stato sacerdotale, ribellandosi al re. Con queste tre interrogazioni la tensione è infatti salita e Attone rafforza lo stacco attraverso una litote che attenua nella forma ed esalta nella sostanza quella che è l’idea-base della lettera: «non leve est regalem inpugnare maiestatem, etsi iniusta in aliquo videatury® . °° Vat.; f. 30r.; AZ.,

134, col 95C,

“ «Quid enim per arcam melius quam sancta Ecclesia designatur? Quid per boves, quam dissidentes sacerdotes? Quid per Ozam, nisi aliquem temerarium intelligimus?»: P.L., 134, col. 64C.

Il riferimento

Wat, fi 380ry BL,

è a II Sam,

6, 1-9.

134; ‘col;95C-D.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

103

La parte argomentativa serve da appoggio a questa asserzione:i re, scrive Attone, sono sacri in quanto unti del Signore e non devono perciò essere toccati, anche se il favore di Dio non è più con loro. L’esempio di Davide e Samuele, che rispettarono Saul, ha per analogia il suo contrario: «sed nunc rebelles milites resistere domino suo manu armata non formidant, eumque a regni solio expellere omnimodis laborant»”. Al re è dovuta obbedienza perché l’autorità, come dissero Pietro e Paolo, è ordinata da Dio: dunque chi vi si

oppone

resiste all’ordine voluto da Lui”. Se poi un re sbaglia,

continua Attone, egli ne risponderà, come già teorizzava Cassiodoro, solo al Signore il quale, per parte sua, può mandare al popolo sia un re giusto sia uno ingiusto”. Il discorso si è così avvicinato al caso specifico:

i sacerdoti,

scrive

infatti Attone,

devono

difendersi

dai

principi iniqui solo pregando e affidandosi a Dio, poiché «armis defendi, depraedatione vel devastatione vindicari, praeda ditari, homicidio vel detruncatione timeri, non sacerdotum, sed demonum est». Questa sorta di resistenza passiva non deve tuttavia essere continuata a oltranza perché «si ira principis in tantum deseviat, vel si tam gravis fuerit culpa, ut ad eius gratiam redeundi aditus nullo modo reperiatur»”’ l’unica è fuggire: «est etenim naturale remedium, ut qui pro diversitate morum simul permanere non poterint, maiores minores expellant, minores ipsos maiores fugiant»®*. Ma affinché anche quest’ultima affermazione venga accolta nel giusto senso, Attone cita lungamente dai concili toletani e da una fonte non identificata, riconfermando l’anatema contro gli spergiuri della fedeltà al re e contro i sacerdoti che hanno connessioni con stranieri”. La parte argomentativa è dunque costruita su exempla a contrario e abbondanti citazioni di auctoritates che servono a dare fondamento alle affermazioni di Attone e a dare la misura di quanto la posizione

° Vat., f. 30v.; P.L., 134, col. 96C-D, con la lettura scorretta «eumque expellere a regni solio».

°° Vat., ff. 30v., 3lr.; P.L., 134, col. 97A-C. IVA STE 401970. °° Vat., f. 21v.; P.L., 134, col. 98D, con la lettura scorretta «praeda ditari, vel homicidio vel detruncatione». ® Vat., f. 32r.: «si ira principis in tantum deseviat, vel si tam gravis fuerit culpa, ut ad ei[us] grati[am redeundi] aditus nullo modo reperiatur»; P.L., 134, col. 99A. % Vat., f. 32r.; P.L., 134, col. 99B, con la lettura scorretta «est enim naturale remedium» e con la correzione «non poterunt). ,

® Vat., ff. 32r., 32v., 33r.; P.L., 134, coll. 99D-101A. I concili toletani sono ilIV e il VI:

Fonay Wemple, Atto of Vercelli cit., p. 216, anche a proposito della fonte non identificata.

CONTEMPLARE

104

L’ORDINE

del destinatario possa essere gravemente erronea, pur senza mai riferirsi in modo esplicito alla devianza di Valdone. Il luogo per tornare a farlo è l’epilogo, dove Attone usa di nuovo massicciamente figure atte ad alzare la carica emotiva del messaggio: ma questa volta in una prospettiva di pacificazione. Invitando perciò il vescovo di Como a tornare alla fedeltà giurata al re, Attone riprende, in forma esortativa, le interrogazioni dell’inizio: «memores estote regiae dignitatis, memores estote et vestri ordinis. Erimus enim in quantum possumus, si iubetis, in his fautores. Erimus et fidelissimi adiutores»°. Le anafore e gli omoteleuti, che procedono a coppie, creano un effetto di corrispondenze tra ciò che deve fare l’uno e ciò che si impegna, di conseguenza, a fare l’altro. Il fine è quello di ristabilire la pace: non quella «iniqua»”” che consiste nell’accettare quanto fanno i «mali homines», bensì quella vera”, che consiste nel fare di tutto per distoglierli dall’errore. La gerarchia dei doveri è così istituita: «ad tramitem ergo vere pacis (...) sincera mente conveniamus; fidelitatem regiam (...) firmiter teneamus; nosque in Dei omnipotenti servitio, nostrique senioris obsequio, hac fidelium confratrum suffragio paratissimos instituamus, et quoscumque possumus ad haec omnimodis invitemus»'. Tra coloro che devono essere invitati al rispetto, vi sono i «secundi ordinis milites» affinché «divina iugiter mandata custodiant, suique regis fidelitatem, quam iurando promiserant, inviolabilem teneant, et suae legis transgressores nullo modo

efficianv'””, È un punto delicato perché il vescovo può essere colui che connette o, all’opposto, che scardina il legame tra una componente sociale funzionale all’esercizio del suo potere e il re, che di quel potere, in quanto culmine della res publica Christiana, ha l’alta tutela. La posizione di Attone a questo proposito è espressa con veemenza, facendo seguire a un’interiezione una domanda retorica che vuole colpire l’interlocutore

nel vivo, rendendo

evidente

l’erroneità

di un comportamento che sarebbe a più livelli sovversivo: «heu, heu! Quid de episcopo qui sibi commendatos, quin etiam et commissos

°° "7 °° ”

Vat., f. 33r.; Vatsifi 33r. Vat., f. 33v.; Attone parla

101C),

«bona

P.L., P.Ly P.L., anche

pax»

134, col. 101B. 134; col 101C, 134, col; 102A. a questo proposito di «salutaris pax» (Vat., f. 33r.; P.L., 134, col.

(ibidem), «utilis pax»

(Vat., f. 33v.; P.L.,

134, col.

102A).

Pi Vat., f. 33v.; P.L., 134, col. 102A-B, con la correzione «ac fidelium confratrum». Vat., f. 34r

PL.

134; col.

103B.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

IOS

contra divini eloquii praeceptum, contraque promissum sacramentum, contra saecularem quoque legem, in qua etiam mortis adsigna-

tur periculum, regi praecipit repugnandum?»'®.

Tuttavia una tale

difesa della fedeltà al re può suonare sospetta e il vescovo, in chiusura di lettera, sottolinea in prima persona le proprie motivazioni profonde: «fateor enim coram Deo, plus propter divina praecepta, sanctorumque patrum monita, quam pro alicuius terreni comodi desiderio, aut rebellantis inimicitia me eius adsequi velle fidelitatem»!

Anche qui, come nella lettera ai vescovi, la questione della fedeltà marca l’inizio e la fine di un percorso che ha andamento circolare. Ma proprio questa fine, così lontana nel tono quasi intimista dagli enunciati analoghi della lettera ai vescovi, esalta la diversità delle

due

lettere:

giocata

una

sull’emozione,

sui cambiamenti

di

registro, sul rafforzamento degli stacchi, sulla dilatazione delle parti passionali e sull’uso di figure di stile patetico, costruita l’altra su un paradigma retorico rigoroso che segue le partizioni classiche. È così verificata la capacità, da parte di Attone, di piegare alle esigenze di particolari situazioni comunicative le regole della retorica: alla diversità tra le due lettere, immediatamente percepibile, una meno immediata lettura testuale ha consentito di attribuire significati sostanziali. La strada da percorrere ora è obbligata. Constatata la diversità, si tratta di vedere se essa resiste a una lettura incrociata che porti in superficie qualcosa di meno esplicito: ciò che Attone pensava

della società di quegli anni. 3. Si è già detto che nelle due lettere sono poste questioni relative alla convivenza civile in quel corpus permixtum che è la società del regno italico in una congiuntura di grande instabilità. Attori diversi, direttamente protagonisti o semplicemente evocati, vi compaiono: re, papa, vescovi, milites, milites secundi ordinis. Ognuno di loro entra in scena con un proprio corredo di definizioni e di funzioni che, insieme, costituiscono la visione del mondo del nostro vescovo: una

!°2 Vat., f. 34v.: «[heu, heu! Quid de episcopo qui sibi commendatos, quin etiam et commissos contra divini eloquii praeceptum, contraque promissum sacramentum, contra saecularem] quoque le[gem, in] qua [etiam] m[ortis a]dsignatur periculum, regi [praecipit repu]gnandu[m]?»; P.L., 134, col. 103C, con la lettura scorretta «mortis periculum assignatur).

193 Vat., f. 34v.; P.L., 134, col. 103C-D.

106

CONTEMPLARE L’ORDINE

visione del mondo nella quale immagini provenienti da altre, anche lontane, realtà sono messe costantemente alla prova da una realtà particolare. In altre parole, ogni componente sociale si definisce alla confluenza di sollecitazioni immediate e mediate: le prime sono date dalla situazione

concreta,

le seconde

da una

tradizione

che le ha

conservate, come rappresentazioni ideologiche, per la loro originaria efficacia operativa in una certa società. E dato che la forza d’inerzia dell’ideologia agisce in primo luogo per la funzione sociale più importante, quella regia, la quale è d’altra parte ampiamente compromessa dalla realtà, vediamo allora come questo intreccio fondamentale si risolve nelle due lettere. Si riprendano due passaggi: là dove Attone scrive, nella lettera ai vescovi, «fidelitatem quoque nostrorum dominorum et regum pleni-

ter in omnibus iudico observandam»'* e, in quella a Valdone, «non leve est regalem inpugnare maiestatem, etsi iniusta in aliquo videa-

tur»!°. Innanzitutto entrambi gli enunciati sono posti in posizione di rilievo per stacco di contrasto con quanto precede: nella lettera ai vescovi il periodo in questione compare, in forma vigorosamente assertiva, subito dopo l’affermazione retorica dell’inferiorità culturale dello scrivente

e, in quella a Valdone,

in forma

di litote dopo

la

provocazione violenta delle domande incalzanti. Tutti e due i periodi segnano poi l’inizio dell’argomentazione, la res certa che fa da cardine alla costruzione logica della lettera ai vescovi e alla dotta raccolta di auctoritates ed exempla della lettera a Valdone. Dunque, tutto converge a indicare che si tratta di momenti importanti: e non a caso vi è espressa con chiarezza l’idea dell’obbedienza dovuta al re come dato di fatto imprescindibile. Subito dopo tuttavia salta agli occhi un’altra cosa: quell’«etsi iniusta in aliquo videatur» della lettera a Valdone che esprime la circostanza nonostante la quale si compie quanto è detto nella proposizione reggente. Anche se sussunto nella forma della «maestà regale», il re è perciò passibile di ingiustizia: questo è l’elemento interessante, oggettivamente indotto dalla situazione concreta perché altrimenti, di fronte a un vescovo ribelle, non ci sarebbe bisogno di introdurre una precisazione tanto rischiosa. C’è qualcosa di simile nell’altro periodo? Sembrerebbe di no: apparentemente vi si afferma soltanto che la fedeltà ai re deve essere in ogni caso osservata. Ma 104

Vedi sopra, testo corrispondente

alla n. 63.

"° Vedi sopra, testo corrispondente alla n. 88.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

107

quei «domini et reges» sono stati già presentati all’inizio della lettera: si è già detto che essi «dicono di sospettare» un attacco nemico, che non si accontentano delle promesse fatte dai vescovi né si fidano

della loro fedeltà giurata e che, in sovrappiù, richiedono ostaggi”.

Quando perciò si dice «fidelitatem quoque nostrorum dominorum et regum pleniter in omnibus iudico observandam», si suggerisce nello stesso tempo l’idea che la fedeltà sia da osservare nonostante i re siano come siano. Che si parli di «maestà regale», per dare maggior risalto alla temerarietà di chi la contesta, o di «domini et reges», concordemente

con il tono pratico della lettera ai vescovi, c’è, a proposito della funzione regia, una scissione tra figura simbolica e persone concrete. Presente nei due punti-chiave, tale scissione permea di sé entrambe le lettere e si precisa, per il primo versante, in questi termini. Il re, come

simbolo,

è al vertice

della

res publica

Christiana:

su

di lui

converge, secondo la tradizione tardoantica mediata dall’esperienza carolingia, tutta quanta la società, che trova in lui l’elemento coordinante e la propria tutela, sulla base di un patto sociale di riconosci-

mento

del suo ruolo, voluto da Dio!”.

«Dei enim ordinatio est; Dei est dispensatio. Profanum est enim violare quod Deus ordinat»!*, scrive appunto il vescovo nella lettera a Valdone, sottolineando il fondamento divino dei poteri terreni, primo fra tutti quello regio, e, insieme, la finalità di ordine che il disegno di Dio proietta sulla società degli uomini. Una finalità di ordine che si realizza innanzitutto, nel solco dell’insegnamento di sacri testi e nel ricordo di santi esempi, attraverso il nesso pacecoesione intorno al ministero del sovrano: «et ideo pro illorum fidelitate regnique statu et pace nobis satagere convenit, quemadmodum sanctissimos preaesules, nostros siquidem praedecessores, pro

religiosorum principum novimus laborasse salute»'” (lettera ai vescovi); «ad tramitem ergo vere pacis, id est, Domini nostri Iesu Christi, sanctorumqgue patrum exempla, vel documenta, sincera mente conveniamus; fidelitatem regiam, ut ipsos docere cognoscimus, firmiter

teneamus»!!° (lettera a Valdone). E proprio in quest’ultima lettera !°° Vedi sopra, n. 21. !07 G. Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale nella

tradizione cristiana fino al secolo XIV, Torino

1950, pp. 85-134.

ie Var£030r PP 134 colw95D. !°.Ver., f. 196v.; Vat., f. 28r.; P:L., 134, col. 121C. LO Vat

sti 33v0PL.,

154%eol:3102A-B:

CONTEMPLARE

108

L’ORDINE

Attone ha già avuto modo di raccogliere, come in un florilegio, i passi neotestamentari che tradizionalmente costituiscono il fondamento dell’etica sociale cristiana nel rapporto con le autorità del mondo. Innanzitutto i brani famosi della prima lettera di Pietro («subiecti estote omni humanae creaturae propter Deum...»)!!! e da quella ai Romani di Paolo («non est potestas nisi a Deo: quae autem sunt, a Deo ordinata sunt...»)!!, poi, ancora un passo di Paolo: «obsecro igitur primum omnium fieri obsecrationes, orationes, postulationes, gratiarum actiones pro omnibus hominibus, pro regibus et omnibus qui in sublimitate sunt constituti»!! Ma,

secondo

in questa

stessa

lettera,

altre

auctoritates

ci riportano

al

aspetto della scissione che investe la regalità. Si tratta di

citazioni di Cassiodoro!!*, Agostino'!’, Gregorio Magno!

e dello

Pseudo-Crisostomo!! che, tutte, servono a corroborare l’idea che il re, pur ingiusto, non può essere contrastato con la ribellione: una volta sul trono, egli è responsabile dei suoi atti di fronte a Dio ma sfugge al giudizio degli uomini, i quali, per parte loro, devono imputare ai propri peccati l’esistenza del tiranno. Questo filone fa dunque da contrappunto al progetto di perfezione di una società che converge spontaneamente sul re: ma che sia più direttamente in rapporto con la realtà di quegli anni è provato da elementi che

rimbalzano dall’una all’altra lettera. Così, nella lettera a Valdone, i sintagmi nei quali è presente la regalità sono o generici («gratiam serenissimi regis»''*, «regiae dignita-

tisy'!*, «regum excellentia»') o connotati dalla presenza di termini negativi in contesti che sembrano alludere a situazioni concrete: «iniquos principes» («taliter sacerdotes Dei se contra iniquos princi-

I Pt, 2, 13-14, 17: Vat., f. 30v.; P.L., 134, col. 97A. è Rm; 13, 1-7; Vat., f. 3lr.; P.L., 134, col. 97B-C. "I Tm, 2, 1-2: Vat., f. 31r.; P.L., 134, col. 97C, con la lettura scorretta «qui sunt in sublimitate». Questi passi, e in particolare la lettera ai Romani di Paolo, costituiscono dall’età carolingia i fondamenti scritturali della riflessione intorno al potere: M. Cristiani, Dall’unanimitas all’universitas. Da Alcuino a Giovanni Eriugena. Lineamenti ideologici e Nurtocio politica della cultura del secolo IX, Roma 1978 (Studi storici, 100-102), pp. 0-104,

i Sligo UP; 134, col 07G=D. 15 Vaty f. Slv.ji PL,0134; col,.98C; f3lvio2DL, Î, 32ri Nati, fi 33ry

BL PIL;

134,00

98B-C!

.134,61a909 Gi 134, col 101B:

‘Ibidem. !°° Vat., f. 34r.; P.L., 134, col. 103B.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

IO9

pes munire debent»)'", «de perversis regibus» («igitur quae de perversis regibus servanda fidelitate huc usque diximus»)', «ira principis» («quod si ira principis in tantum deseviat»)!”, «furorem regis» («congruentius itaque fieri potest, ut aliquis procerum

furorem regis sui

fugiendo decline»). Anche nella lettera ai vescovi i re, quando

sono nominati in modo non formale, sembrano attirare intorno a sé termini che li caratterizzano negativamente, come nel finale dell’argomentazione dove, grazie allo schema «aut... aut), sono fatte nei loro confronti considerazioni pesantissime: «aut principes deteriores (...), aut illi sua saevitia adeo exosi videntur, ut ad popularem iam

non possint redire amorem»'°. O come nella perorazione conclusiva, il cui carattere di desiderata ci restituisce, per opposizione, la dimensione concreta di sovrani sospettosi e aggressivi: «illis de nostra

fidelitate donet fiduciam (...), tribuat illos nobis tranquillos»!°. Dalla riduzione dei re a individui pienamente esposti alle umane debolezze escono appannate le qualità che servono a reggere lo scettro e, prima fra tutte, il tradizionale senso della giustizia che il sovrano dovrebbe avere grazie al possesso, condiviso con i vescovi, della sapientia: «et si fragilitatis causa, aut ipsi in nobis, aut nos

contra illos aliquid iniquum commisimus, sic eius clementia deleatur,

ut nulla iam in posterum ultio exinde praeparetur»'’”. Tuttavia il re non regge soltanto lo scettro, ma anche la spada. E il «gladius» regio, simbolo della potenza coercitiva del sovrano, diventa nelle lettere strumento di persecuzione e di morte: adombrato nelle espressioni «ira principis», «furorem regis», compare, nella lettera ai vescovi, dopo che Attone ha prevenuto, con una finta osservazione, le giustificazioni che i sovrani potranno dare dell’omicidio degli ostaggi. «Ille Christianum tuo supponit gladio, tibi Christiano non ideo eum ferire licebit. Quid ut percuteretur peccavit? Quid mali fecit? Nempe si caritatis causa se obiecit, ut alterum liberaret, honorandus est, non perimendus»': l’assassinio di cristiani innocenti offerti in ostaggio al re cristiano è qui dato praticamente per scontato. Basterà un nulla !2! Vat., f. 3lv., con correzione

la versione

scorretta

«inicos»; P.L.,

134, col. 98C-D,

con

la

«iniquos» adottata anche da me.

122 123 124 125

Vat., Wat, Vat., Vedi

f. 32r., non leggibile; P.L., 134, col. 99A. f. 32r:3 P.L., 134, col. 99A. f. 32r.; P.L., 134, col. 99B. sopra, n. 76.

126

Vedi sopra, n. 79.

127 Ver., f. 197r.; Vat., f. 29v.; P.L., 134, col. 124B. ‘28 Ver., f. 196v.; Vat., f. 28v.; P.L., 134, col. 122A-B, con la lettura scorretta «male».

CONTEMPLARE

IIO

L’ORDINE

perché il re si liberi di loro, anche se può darsi che i vescovi gliene diano l’occasione. Stornati dalla loro funzione originaria di pacificazione e di ordine, gli attributi della regalità diventano dunque oggettivamente elementi perturbanti, tanto più pericolosi in quanto chi li detiene, detiene anche, egli solo legittimamente, la potestà di usarli’. Si tratta di un’aporia fondamentale che riemerge, irrisolta, nell’uso anomalo di un exemplum consueto alla letteratura carolingia: quello di Saul, non più ricordato, nella lettera a Valdone, come re cattivo ma come re che, pur cattivo, non può essere ucciso perché unto del

Signore!”°. Ciò che colpisce insomma nei due testi è che, nel momento in cui il concreto esprimersi della regalità si insinua nella rappresentazione ideologica, quest’ultima tende a perdere il carattere di costruzione compatta, di precisione nei contorni, mentre cresce un’impressione di relativismo, di non assolutezza dei princìpi fondanti quella stessa rappresentazione, di correzione di elementi in essa presenti. Alla fine, se si ricompone il quadro, la funzione regale appare destrutturata e irriconoscibile rispetto al modello ideale e la definizione dell’altro versante inerente alla regalità può essere finalmente precisata: come persone concrete i re appaiono sfidare, nelle due lettere, l’equilibrio sociale su cui fondano il consenso e finiscono per avere un ruolo destabilizzante. La richiesta di ostaggi mina il rapporto di fiducia sul quale poggia il delicato vincolo della fedeltà: non a caso è perciò rivendicata l'autonomia decisionale dei vescovi di fronte al re e addirittura ricordato il ruolo del pontefice come

condizionante il loro operato'”. Si tratta di un’accentuazione che, sfruttando l’ambiguità istituzionale intrinseca dell’episcopato nei confronti del regnum, tende a sottrarre i vescovi all’azione ingiusta

‘° G. Tabacco,

L’ambiguità

delle istituzioni nell’Europa

costruita dai Franchi,

in Id.,

Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, pp. 54-57. ‘° Per un uso analogo dell’esempio di Saul, con questa accentuazione del rispetto della sovranità nonostante il comportamento del sovrano, occorre ritornare a Incmaro di Reims e

a una fase drammatica della lotta tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico: Cristiani, Dall’unanimitas all’universitas cit., p. 152 sg. Cfr. anche Fonay Wemple, Azzo of Vercelli cit., p. 73 sg. Nel Polittico è stato invece notato che «con tratti più vicini ai modelli è delineata la vicenda di Saul, esempio di esercizio sfrenato del potere da parte di chi era stato scelto da Dio a vegliare su Israele»: Frova, Il «Polittico» cit., p. 55. Per le differenze tra Visigoti e Franchi nell’uso della storia di Saul (e di Davide) cfr., in questo volume, La memoria come legittimazione, par. 2.

‘’ Vedi sopra, testo corrispondente alla n. 65.

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

III

del re'”. Su questa base Attone può così minacciare, nei suoi riguardi, l’uso dello strumento di coercizione proprio ed esclusivo della dimensione ecclesiastica: l’estromissione dall’«Israhelitico popu-

lo”. Nell’altra lettera la manifesta ingiustizia del re spiega, anche se non legittima, la ribellione nei suoi confronti. Del rex iustus praticamente non si parla: si parla solo del re «perverso» e di come, con

mezzi legittimi, resistergli'’’. La scelta di campo di Attone è qui più obbligata di quel che non sembri: alle considerazioni morali si deve aggiungere quel «rebellantis inimicitia», che è riferito a una terza persona — Valdone non è mai detto espressamente ribelle e non gli si attribuirebbero espliciti sentimenti di ostilità nei confronti del mittente della lettera — e che può aver giocato, anche se negato, un ruolo importante nel costringere alla fedeltà il vescovo di Vercelli. Non solo i re ma anche i vescovi partecipano tuttavia, nei due testi, a una doppia natura: pastori di anime, padri di uomini, possono determinare, con il loro comportamento, l’uccisione degli ostaggi da parte dei sovrani, possono essere allettati da promesse materiali e da idee di prestigio, possono mobilitare contro il re forze a loro collegate e possono recarsi a combattere dimentichi del proprio stato sacerdotale. Naturalmente esiste una gerarchia della deviazione. Così, la potenza materiale dei vescovi è senz’altro giustificata, se solo si mantiene al di qua della superbia: «neque enim superfluum ducimus amicos adquirere, aedificia utiliter erigere, posessa custodire, et honesta in omnibus servata moderatione proficere, sed his fretus auxiliis aliquatenus superbire, incomodum utique iudicamus»! (lettera a Valdone). Ma il confine è spesso oltrepassato e il

giudizio è sospeso: su coloro che darebbero ostaggi «pro commodo, ut pro tali adulatione ditari videantur»'°° il vescovo non si sofferma e non solo perché si tratta di motivazione bassa, ma anche perché rischia forse di essere sentita, al contrario, come pienamente legit-

!3° Tabacco, L’ambiguità delle istituzioni cit., pp. 51-63. Vedi sopra, n. 68.

14 Appare dunque anche qui il «capovolgimento della prospettiva consueta agli specula»

già notato da Frova, // «Polittico» cit., p. 51, a proposito appunto del Polittico. Nello strano trattato solitamente attribuito al vescovo di Vercelli la parte che riguarda il re giusto ha «dimensioni e collocazione che lo caratterizzano come nettamente

mia dell’opera, a quello sul “tiranno”»:

subordinato, nell’econo-

ibidem.

15 Vat., f. 34r.; P.L., 134, col. 102D, con la lettura scorretta «neque enim ducimus

superfluum».

136 Ver., f. 196v.; Vat., f. 29r., leggibile solo «pro commod®»; P.L., 134, col. 122D, con la

lettura scorretta

«ditari vitant videantun.

CONTEMPLARE

II2

L’ORDINE

tima. Lo stesso Attone deve del resto, nella lettera allontanare da sé il sospetto che il suo interessamento

a Valdone, proceda da

mire materiali («pro alicuius terreni comodi desiderio») avendo

subito prima affermato con decisione l’importanza dei beni ecclesiastici e che-questi sopravviveranno al vescovo che li ha, per sua colpa, compromessi: «predia quoque et facultates ecclesiarum, sive res pauperum, cuius exigentibus culpis devastatae fuerint, ad ipsius interi-

tum praevalere poterunt»v!”*. Strano destino, quello di Attone: a lui, convinto assertore della tutela e dell’incremento delle ricchezze e dei diritti della Chiesa, succederà sul seggio episcopale di Vercelli Ingone, ricordato in un

diploma dell’imperatore Ottone III come colui che «pro adulterio sanctam Agatham cum servis et ancillis et ipsas mortuorum sepulturas ab ecclesia alienavit, monasterium sancti Stephani anullavit, quia Cabaliacam per cambium diabolicum ei abstulit, Lauceium monasterium disperdidit, quia Alite ab eo alienavit, ipsam civitatem Vercellensem ita populavit quod nec terras neque servos ibi esse permi-

sit’. Dunque località alienate, monasteri ridotti in rovina, Vercelli stessa devastata. Una tale politica di libero intervento sui beni ecclesiastici e di loro dispersione non è certo prevista da Attone, il quale sembra per il momento temere di più il desiderio di affermazione che componenti sociali dinamiche agganciano a espressioni di concreta potenza, in un gioco di tutti contro tutti il cui rischio è la perdita di quella stessa base, materiale e di prestigio, che ha loro permesso di inserirsi a pieno titolo nella competizione: «nullus quod alteri debetur, praesumat concupiscere, quia hinc solent semper iurgia crescere. Sufficiat unicuique quod suum est, nec invadere aliquem delectet quod non est. Qui enim iniuste gaudet adquirere, solet etiam quod

iuste tenet amittere»'‘ (lettera ai vescovi), «et dum praesumant inlicita, a debitis nihilhominus privantur honoribus»'!” (lettera a Valdone).

ca Vato t. 34v: Ph 34, col 1036: '* Vat., f. 34v., «poterunt» o «poterint; P.L., 134, col. 103C, con la correzione «potuerint»). 139

M.G.H.,

Diplomata regum et imperatorum

Germaniae,

Hannover 1893, doc. 383, p. 812. Il diploma, del 1 novembre

Il: Ottonis II et III diplomata, 1000, è in favore del vescovo

Leone di Vercelli, sul quale si veda, in questo volume, Orizzonti politici ed esperienze culturali, par. 3, e pure Ruolo dei linguaggi.

‘° Ver., f. 197r; Vat., f. 29v.; P.L., 134, col. 124C, con la lettura scorretta «solent iurgia semper crescere). ‘4! Vat., f. 3lv.; P.L., 134, col. 98B, con le correzioni «praesumunt»), «nihilominus».

L’IMPERFEZIONE

DELLA

SOCIETÀ

IN DUE

LETTERE

DI ATTONE

DI VERCELLI

113

Questa concorrenza è per Attone tanto più pericolosa-in quanto può approfittare di situazioni di contestazione dell’autorità regia per sfociare nell’uso indiscriminato della violenza e delle armi. L’esempio offerto nella lettera a Valdone da quei «rebelles milites» che «resistere domino suo manu armata non formidant, eumque a regni solio

expellere omnimodis laborant»' induce a fare alcune considerazioni.

Quello che concettualmente è un ossimoro (l’idea di milizia e quella di ribellione sono ripugnanti tra di loro) mostra invece in tutta evidenza che la concezione del servizio in armi prestato al re è in piena crisi. Ma tale crisi, che coinvolge probabilmente elementi laici di altissimo rango («de talibus — continua Attone — enim ait Domi-

nus: “Sinite illos, ceci sunt, et duces cecorum”»)!*, non ha intaccato, ha scritto Giovanni Tabacco, quella «tenace memoria delle responsabilità militari del regno, memoria vivace soprattutto nel mondo

ecclesiastico»:

di questa Attone è uno dei grandi depositari.

Si comprende allora come, nella sua scala di valori, la possibilità per nulla remota

di coinvolgimento,

sull’esempio dei milites, dei ve-

scovi e delle loro clientele militari in azioni armate di ribellione costituisca il pericolo supremo: «sacerdotes vero Dei, quibus divina sunt perscrutanda

mandata,

non

tantum

etiam alios quos valent, retrahere

se custodire a talibus, sed

convenit»!!.

Vi è tuttavia una

distinzione da fare. Quei «secundi ordinis milites» che si sono commendati ai vescovi devono anch'essi, secondo quanto attribuisce loro

Attone, la fedeltà giurata al re: se così è, e questa è un’affermazione politica di Attone, e se essi rompono il patto rivolgendo contro il sovrano le armi, la loro deviazione, che è tanto grave da perderli in questa e nell’altra vita, sta comunque all’interno di un uso aberrante della funzione militare, che si rivolge contro chi, quella funzione, fonda e legittima. Di sostanza profondamente diversa è il caso del vescovo che si solleva e combatte contro il re. Qui la deviazione coinvolge la funzione stessa episcopale, che ne esce stravolta in ciò che più ha di caratterizzante: il ruolo di integrazione dell’autorità civile nel perseguimento degli stessi fini, con mezzi peculiari che prescindono dall’uso delle armi. Gli appelli a Valdone («memores estote regiae dignitatis, memo-

142

Vedi sopra, n. 89.

15 Vat., f. 30v.; P.L.;:134; col. 96D.144 G. Tabacco, Gli orientamenti feudali dell’impero in Italia, in Id., Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel medioevo, Torino

145 Vat., fi 30v.5 P:L.;134,

col: 96D.

2000, p. 90.

CONTEMPLARE

II4

L’ORDINE

res estote et vestri ordinis»)'!° ci restituiscono appieno il senso di pericolo che Attone avverte. Forse il vescovo di Como non l’ha ancora materialmente fatto, ma nel momento in cui un sacerdote prende le armi imbocca una strada senza ritorno che lo porta ad assimilarsi al diavolo o, con pari gravità di significato, come nella lettera ai vescovi, all’apostata: «nam armis defendi, depraedatione vel devastatione vindicari, praeda ditari, homicidio vel detruncatione timeri, non sacerdotum sed demonum est»!‘, «apostatae dicuntur et sacerdotes, qui ecclesiasticam deserentes censuram, ad militarem se

conferunt actionem»"*. Di fronte a questa gamma di comportamenti negativi tutti possibili sta, in netto contrasto, l’idea di decoro che Attone connette alla funzione di vescovo: e non è un caso che, a tenere questa idea in vita, sembra sia rimasto solo lui, un intellettuale profondo conoscitore dei testi ai quali si alimentava la paideta antica. La rappresentazione del mondo che emerge dalle due lettere oppone dunque, alla perfezione dell’ideologia, l’imperfezione della realtà nelle sue componenti sociali più alte: nessuno più corrisponde ai modelli ideali, non c’è spazio che per l’isolamento. Il Polittico,

attribuito all’Attone della tarda maturità e straordinariamente

con-

forme alla visione delle due lettere'‘’, può aver rappresentato anche nel lessico e nella forma volutamente oscuri il punto-limite di una solitaria e impotente protesta nei confronti di una società sempre più

problematica. 146 147 148 149

Vedi sopra, n. 96. Vedi sopra, n. 92. Vedi sopra, n. 74. Frova, Il «Polittico» cit., pp. 57-75, ha messo

quest’opera:

il trattato è percorso

presente in ogni momento,

da una

in luce le caratteristiche sostanziali di

tensione

di fondo

«tra i dati di un’attualità

anche se citata in cifra, e gli schemi interpretativi» forniti dalla

tradizione tardoantica e carolingia sul tema dell’esercizio del potere (p. 60); «il richiamo ai legami di fedeltà come forza coesiva dell’intero assetto sociale, la condanna dello spergiuro come elemento di perpetua instabilità e di disordine sono posti al centro del discorso» (p. 68), ma, d’altra parte, «l’azione stessa del sovrano si connota di caratteristiche negative» (p. 69). Se a ciò si aggiunge il già accennato rovesciamento di prospettiva del discorso sul re giusto rispetto a quello sul re ingiusto che caratterizza il Polittico, le corrispondenze tra

quest’ultimo scritto e le lettere diventano davvero notevoli. A questo punto due sono le cose che si possono dire. A proposito della lettera a Valdone e del Polittico Frova, che accetta la datazione proposta da Keller, parla di «numerose affinità» ma di una prospettiva politica diversa della lettera per «il suo vibrante richiamo al dovere di fedeltà» (ibidem). Avendo dimostrato che la stessa scissione che investe il Polittico è anche della lettera a Valdone, e di quella ai vescovi, si può dire che quella prospettiva non è così diversa. In secondo luogo si può pensare che l’analisi delle due lettere abbia portato un argomento in più, esterno al Polittico, a favore dell’ipotesi che il trattato sia davvero di Attone.

CULTURA DOTTA E CULTURA FOLKLORICA A: VERCELLI NEL SECOLO X

1. Gli scritti di Attone, vescovo di Vercelli tra il 924 e il 960 circa, si prestano ad alcune considerazioni sugli scambi tra cultura dotta e cultura folklorica'. Come altri vescovi di area piemontese attivi nell’arco di tempo compreso tra i secoli VIII e XI — Claudio di Torino, Liutwardo e Leone di Vercelli, Benzone d’Alba° — anche Attone fu insieme un intellettuale e un politico; come gli altri, realizzò questa doppia vocazione soprattutto nel rapporto con il potere centrale. Diversa è tuttavia la condizione in cui egli si trovò a operare. La spinta al coinvolgimento ai più alti livelli della lotta culturale e politica venne per gli altri vescovi dall’idea imperiale, personificata da Carlo Magno e Ludovico il Pio per Claudio di Torino, Carlo il Grosso per Liutwardo di Vercelli, Ottone III per Leone di Vercelli, Enrico IV per Benzone d’Alba. L’impegno di Attone non trovò invece un riferimento altrettanto forte e le sue relazioni con i re italici Ugo e Lotario e con il marchese, e poi re, Berengario d’Ivrea ebbero luogo nel momento culminante della trasformazione degli assetti pubblici in direzione signorile. ! Per un inquadramento del periodo e per la bibliografia relativa ad Attone si veda, in questo volume, L’imperfezione della società. Per quanto riguarda la scelta terminologica di “cultura dotta” e “cultura folklorica” cfr. J.-C. Schmitt, Religion populaire et culture folklorique, in «Annales», 5 (1976), pp. 941-953 e, dello stesso autore, Introduzione a Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, Roma Bari 1988, pp. 1-27. Fondamentale sul tema è C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, soprattutto Introduzione, pp. XIII-XLV. ? Per un profilo intellettuale di Claudio, Leone e Benzone, A. Viscardi, Storia letteraria

d’Italia. Le origini, Milano 1950, p. 63 sg. (Claudio di Torino), p. 85 sg. (Leone di Vercelli), p.

122

(Benzone

d’Alba).

Per

Claudio

di Torino,’ G.

Sergi,

/l vescovo

Claudio

e l’età

carolingia, in Id., L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Roma 1994, pp. 176-181. Su Liutwardo e Leone di Vercelli, in questo volume: Orizzonti politici ed esperienze culturali e, a proposito di Leone, Ruolo dei linguaggi. Su Benzone G. Miccoli, Benzone d’Alba, in Dizionario biografico degli Italiani, 8, Roma 1966, pp. 726-728.

CONTEMPLARE

II6

L’ORDINE

Si tratta di un dato da tenere presente anche nell’affrontare l’esame degli scritti del vescovo sotto l’angolazione del rapporto con la cultura folklorica: se infatti per Claudio, Liutwardo, Leone e Benzone la presenza a fianco del proprio imperatore fu un’esperienza pressoché totalizzante, che determinò i loro interessi e ne influenzò l’attività come scrittori, per Attone la vicinanza al potere regio non escluse, anzi sollecitò altre direzioni di intervento. Il fatto cioè che il vescovo di Vercelli percepisse la tensione tra la propria cultura — insieme religiosa e politica — di ascendenza carolingia e il concreto funzionamento delle istituzioni e della società, agì su di lui come stimolo a ricercare soluzioni che ricomponessero quella medesima tensione nel nome di una rinnovata res publica Christiana. Fu uno sforzo notevole, testimoniato dal volume

134 della Patro-

logia Latina’: attraverso opere disparate — il Capitulare, il De pressuris ecclesiasticis, 1 Expositio epistolarum s. Pauli, le lettere e i sermoni, e forse l’oscuro Polypticum® — si esprime una costante volontà normativa nei confronti di una realtà che tende a sfuggire a ogni tentativo di razionalizzazione. Attone non è, come spesso si è detto, il primo dei riformatori, l’anticipatore, con Raterio di Verona”, della riforma gregoriana’: piuttosto, egli è ancora un intellettuale carolingio, un uomo che parla di argomenti diversi a interlocutori di diversi ambienti sociali, svolgendo, come aveva fatto Alcuino di York ma anche come farà nel secolo XI Adalberone di Laon, «un ròle de directeur de conscience, de maître à pensen'. Tra i temi toccati da Attone vi è quello di un insieme di

° Cfr. sui manoscritti e sulle edizioni delle opere di Attone S. Fonay Wemple, Atto of Vercelli. Church State and Christian Society in Tenth Century Italy, Roma 1979 (Temi e testi,

27), pp. 185-194. * Inserisce il problema della paternità del trattato nel contesto dell'ambiente culturale vercellese

e del particolare

ruolo

intellettuale

svoltovi

da Attone,

C. Frova,

Il «Polittico»

attribuito ad Attone vescovo di Vercelli (924-960 ca.): tra storia e grammatica, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 90 (1982-83), pp.

1-75. ° Che anche l’esperienza di Raterio non sia da ricondurre a esigenze riformatrici pregregoriane è la nota opinione di G. Miccoli, Raterio, un riformatore?, in Raterio di Verona, Todi 1973 (Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, X), pp. 95-136.

° Un giudizio più sfumato ma ancora nel solco dell’interpretazione “pregregoriana” dell’opera di Attone, è di A. Frugoni, Azzone di Vercelli, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma

1962,

" A. Chélini,

p. 568.

i

Le vocabulaire politique et social dans la correspondance

d’Alcuin, Aix-enProvence 1959, p. 8. Circa il carattere ancora carolingio di Adalberone, G. Duby, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti guerrieri e lavoratori, Roma Bari 1984, in particolare p. 20 Sgg.

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL

SECOLO

X

II7

comportamenti che non rientrano nei canoni dell’ortodossia-religiosa. Considerare questo tema pone alcuni problemi di natura particolare, che cercherò di dipanare muovendo dalla posizione assunta a questo proposito da Dieter Harmening®: l’analisi delle fonti ecclesiastiche nelle quali compare il termine superstitio — condotta a partire dal primo medioevo — lo ha persuaso dell’inerzia della nozione e del suo progressivo distacco da una realtà concreta. Sermoni, libri penitenziali, decreti conciliari e raccolte di canoni avrebbero dopo il secolo VI replicato se stessi, senza sostanziali interferenze con il mondo

dei tradizionali produttori

di superstizioni,

i rustici. Gran

parte della letteratura sulle superstizioni posteriore all’opera di Cesario di Arles sarebbe perciò nata non per vere esigenze pastorali, ma

per l’amore medievale nei confronti della compilazione e con motivazioni, per così dire, letterario-apotropaiche: per esorcizzare cioè, nel momento stesso in cui lo si tramandava, il comportamento religiosamente deviante. La tesi di Harmening

è stata contrastata

da coloro

che, come

Aron Gurevié e Jean-Claude Schmitt’, hanno fatto di quelle stesse fonti ecclesiastiche il proprio oggetto di studio, considerando le relazioni tra cultura dotta e cultura folklorica come «prodotto dell’incontro tra logiche culturali diverse, di quotidiani compromessi come,

talvolta, di conflitti veri e propri»'°. Alla base della discussa interpretazione complessiva di Harmening vi sarebbe dunque un’idea riduttiva del concetto di compilazione. La compilazione non fu mai, nel medioevo,

pratica

asettica

e fine a se stessa:

fu invece

altamente

selettiva, con inclusioni e scarti comprensibili solo in relazione a precise situazioni che possono così essere indagate. «Il tradizionalismo della letteratura religiosa medievale è noto, ma nulla giustifica che dietro gli stereotipi e la gran massa di citazioni non si voglia vedere l’espressione di esigenze contingenti, che imponevano la ne-

cessità di rivolgersi alle autorità antiche»'!: in tal modo

Gureviè

compone l’aporia tra un sapere tradizionalmente riprodotto, pur con varianti, e contingenze storicamente identificabili.

8 D. Harmening,

Superstitio.

Ùberlieferungs- und theoriegeschichiliche Untersuchungen zur

kirchlich-theologischen Aberglaubensliteratur des Mittelalters, Berlin 1979. ° A.J. Gurevié, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel medioevo, Torino 1986, in particolare Prefazione, pp. VII-XVI, e Supplemento, pp. 360-363; Schmitt, Introduzione a Religione, folklore e società cit., in particolare pp. 1-13.

O !! Gurevié, Supplemento cit., p. 361.

CONTEMPLARE

118

L’ORDINE

Le posizioni emerse nel dibattito hanno al centro, come

si vede,

il tema della compilazione. Tale centralità comporta tuttavia dei rischi: si potrebbe cioè ritenere che la compilazione avesse nel medicevo caratteristiche di autonomia che in realtà non ebbe. Essa fu invece una tecnica di organizzazione del materiale di supporto del discorso, come tale attraversava tutti i generi letterari ed era funzionale alle esigenze di comunicazione del genere cui partecipava". E perciò sulle modalità di comunicazione in rapporto con il sistema dei

generi che si deve spostare l’attenzione di chi voglia indagare sugli scambi

“acculturanti”!’

che intercorrono

tra culture

diverse.

Esaminiamo allora da questo punto di vista gli scritti di Attone: il tema del confronto con il mondo delle tradizioni folkloriche acquista piena autonomia solo nelle lettere e nei sermoni'*. Già questo è un dato rilevante: è difficile infatti pensare a generi maggiormente compromessi nella comunicazione e che più di questi prevedano destinatari reali. Talvolta i destinatari sono addirittura nominati: nelle tre lettere — su un totale di nove di argomento diverso" — nelle quali il tema è direttamente affrontato, Attone si rivolge «cunctis fidelibus in nostra parochia consistentibus»'°, «cuncto populo nostrae dioece-

sisy'”, «universis fidelibus nostrae ecclesiae»'*. In base alla teoria della !° B. Guenée, Storia e cultura storica nell’Occidente medievale, Bologna 1991, pp. 149-157, 261-266, sottolinea che il ricorso alle aucroritates, la loro citazione e il loro uso modulare garantivano la correttezza del metodo storico: ad esempio, l’autore dei Gesta Francorum,

attivo sotto Filippo Augusto, definiva se stesso «huius libri non auctorem, sed compilatorem» (cit. a p. 149). Per altri generi letterari si veda J. J. Murphy, La retorica nel medioevo. Una storia delle teorie retoriche da s. Agostino al Rinascimento, Napoli 1983, p. 345 sgg. '’ Sul concetto di «acculturazione interna» in relazione alla «coesistenza di livelli e di insiemi culturali distinti in una stessa area etnica» cfr., tra le prime riflessioni in ambito medievistico, J. Le Goff, Cultura clericale e tradizioni folkloriche nella civiltà merovingia, in Id., Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel medioevo, Torino 1977, pp. 193-207 (cit. a p. 196). Si veda anche J. Chiffoleau, La cultura popolare, in La storia. I grandi problemi dal medioevo all’età contemporanea, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, I, I! medioevo, 1: I quadri generali, Torino 1988, pp. 566-569.

‘* Di questi ultimi è disponibile la traduzione: Attone di Vercelli, Omelie, a cura di E. Arborio Mella, Magnano 1986. A proposito di accenni in tema di tradizioni folkloriche nelle altre opere di Attone si veda Fonay Wemple, Atto of Vercelli cit., pp. 164-166 e Frova, I/ «Polittico» cit., pp. 37-39. ‘’ L’epistolario attoniano conta undici lettere, nove di Attone e due a lui inviate rispettivamente da Gunzone di Novara — molto probabilmente lo stesso personaggio che sarà in seguito invitato nel regno teutonico da Ottone I per esercitarvi l’insegnamento — e dal prete milanese Ambrosio (su quest’ultima, e sulla risposta di Attone, L’imperfezione della società, par. 1, n. 10): epistola VI in P.L., 134, coll. 111C-112C ed epistola VII in Op. cit., coll. 112C-113C.

‘’ Epistola II, in op. cit., col. 104A. ‘’ Epistola III, in op. cit., col. 104C. '* Epistola IV, in op. cit., col. 105B.

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL

SECOLO

X

IIOQ

comunicazione, abbiamo dunque da una parte un emittente-= il vescovo Attone — e dall’altra un destinatario collettivo — l’insieme dei fedeli della diocesi vercellese — al quale è indirizzato il messaggio del vescovo,

in lingua

latina,

attraverso

il canale

della lettera.

Ma

la

semplicità della situazione comunicativa è solo apparente: in realtà le lettere di Attone rappresentano il momento centrale di una complessa dinamica di scambi culturali, la cui parziale conoscenza passa attraverso l’acquisizione preliminare di un importante elemento extratestuale. Si tratta della questione del bilinguismo. È difficile per noi pensare a una società che parli in una lingua e scriva in un’altra, ma tale era la situazione del pieno secolo X, quando la separazione tra volgari — romanzi e non — e latino era divenuta realtà pienamente operante’. Qualcosa di questo processo possiamo cogliere dalle fonti. Negli stessi anni di Attone, il vescovo di Cremona Liutprando così descriveva il proprio ruolo in un incontro a Roma tra l’imperatore Ottone I e la comunità cittadina, composta in primo luogo da religiosi: «imperator, quia Romani eius loquelam propriam — hoc est Saxonicam — intellegere nequibant, Liudprando Cremonensi episcopo praecepit ut Latino sermone haec Romanis omnibus quae secuntur exprimeret». Questo passo è interessante per diversi aspetti. In primo luogo perché ci dice che anche al massimo livello della società non si sa parlare il latino: la linea di demarcazione che divide coloro che sono in grado di esprimersi in questa lingua dagli altri parlanti non è infatti rigorosamente sociale, bensì di starus. Sono i religiosi, come i vescovi Liutprando e Attone, a detenere la possibilità di esprimersi oralmente in più lingue: e Liutprando, di origine pavese ma vissuto alcuni anni alla corte ottoniana, conosce evidentemente anche il sassone, così da svolgere funzioni d’interprete nel corso dell’importante missione romana. !° La «vera e propria alterità» tra lingua parlata e lingua scritta nell’alto medioevo è sottolineata da P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, p. 51 sgg. L’attestazione di lingue intermedie tra latino e volgare usate per facilitare le esigenze pratiche della comunicazione giunge fino al secolo IX; l’artificiosità di questi registri intermedi non permise loro di sopravvivere: D’A. S. Avalle, Latino «circa romangum» e «rustica romana lingua». Testi del VII, VIII e IX secolo, Padova 1970 (Vulgares eloquentes, 295 pp. IX-XI e, dello stesso autore, Bassa latinità. Il latino tra l’età tardo-antica e l’alto medioevo con particolare riguardo all’origine delle lingue romanze. Le strutture morfologiche del nome nel latino medievale, Torino 1971, pp. 39-41.

°° Liudprandi Cremonensis Historia Ottonis, in Liudprandi Opera omnia, a cura di P.

Chiesa, Turnhout

176.

1998

(Corpus Christianorum,

Continuatio Mediaevalis,



GIEVI)

step:

CONTEMPLARE

120

L’ORDINE

Ma soprattutto il brano di Liutprando propone un inatteso cambiamento di prospettiva: si dice infatti che il vescovo deve tradurre in latino il discorso non perché l’imperatore non conosce questa lingua, ma perché i Romani non capiscono il sassone. E vero che Liutprando può aver scelto questo tipo di consequenzialità causale anche per non gettare ombre sulla sapienzia imperiale, ma è d’altra parte molto probabile che la costruzione del periodo non sia così cosciente e che semplicemente rifletta un dato linguistico: e cioè che tra gli idiomi del tempo il latino parlato è d’uso occasionale, in particolare in situazioni, come

quella romana,

in cui

è dominante

la presenza

di

chierici”. È stato notato, proprio da Aron Gureviè, che la rappresentazione che noi abbiamo della società del pieno medioevo è in qualche modo sbilanciata dalla quasi esclusiva, anche se inevitabile, attenzione per lo scritto: si rischia così di dimenticare che «in una società la cui schiacciante maggioranza restava analfabeta, la letteratura scritta non era né l’unico né il determinante veicolo della comunicazione umana». Soprattutto se si pensa, si può aggiungere, che tale comunicazione umana avveniva di norma in lingue che non erano la versione orale del codificato latino scritto dei /zterati. Se ora spostiamo l’attenzione su quest’ultimo, occorre innanzitutto ricordare gli elementi distintivi che Erich Auerbach gli attribuisce in quanto lingua lettera-

ria, vale a dire la scelta, l’unitarietà, il conservatorismo?’. Queste tre qualità caratterizzano anche il latino del secolo X, che presenta una grande varietà di scelte stilistiche entro una sostanziale unitarietà del sistema, sistema che tende alla conservazione delle proprie strutture sintattiche e lessicali. È anche vero tuttavia che questa lingua letteraria è sottoposta

a sollecitazioni

affatto nuove,

che ne

contrastano

l’intrinseca inerzia e sono in relazione sia con la situazione di bilinguismo sia con le trasformazioni politiche e sociali in atto. Per quanto riguarda il primo aspetto e la pressione esercitata sulla lingua scritta dai volgari, vorrei proporre un paio di esempi, significativi perché sono ancora di Liutprando e di Raterio di Verona, vale a ©" Secondo

E. Auerbach,

medioevo, Milano

Lingua

letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel

1983, p. 256, «anche i vescovi e altri ecclesiastici di rango elevato negli

affari e nelle trattative non parlavano sempre latino tra di loro, molti non avrebbero potuto; sembra che neppure nei sinodi il latino fosse la lingua comunemente usata per le discussioni» (il riferimento è alla sinodo di Mouzon, del 995).

°° A. J. Gureviè, Cultura popolare e letteratura mediolatina da Cesario di Arles a Cesario di Heisterbach,

in Id., Contadini e santi cit., p. 6.

© Auerbach, Lingua letteraria cit., p. 227 sgg.

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL SECOLO

X

I2I

dire degli altri due vescovi che con Attone di Vercelli rappresentano l’apice letterario del secolo X. Nel suo scritto in difesa della politica ottoniana a Roma Liutprando riporta la minaccia di scomunica che papa Giovanni XII ha inviato all'imperatore: «nos audivimus dicere, quia vos vultis alium papam facere. Si hoc facitis, excommunico vos da Deum omnipotentem, ut non habeatis licentiam nullum ordinare et missam celebrare». Come si vede, qui la struttura del periodo ha molto della lingua parlata e sono presenti due netti volgarismi: «da» in funzione prepositiva e la doppia negazione «non habeatis (...) nullum». Qualcuno, a nome dell’imperatore — che peraltro, come abbiamo visto, non sa il latino —, può così rispondere sarcasticamente al papa, giocando sull’equivoco della doppia negazione che in latino afferma”. Nel resoconto che dell’episodio fa Liutprando il volgare appare dunque usato in modo cosciente e strumentale in un contesto insolito: la lingua letteraria. Un più forte effetto di straniamento riguarda Raterio. Occorre dire preliminarmente che la sua è una scrittura generalmente molto difficile per l’uso costante di un lessico ricercato e per la disposizione sintattica degli elementi della frase secondo i

principi della scinderatio”°. È allora indubbio il risultato espressivo che si verifica per contrasto quando leggiamo, in una sorta di autoritratto che ha molto del “flusso di coscienza” e il cui titolo è Qualitatis

?* Liudprandi Historia Ottonis cit., c. 13, p. 177. ? Op. cit., c. 14, p. 178: «est et aliud vestris in litteris scriptum quod non episcopum, sed puerilem ineptiam scribere deceret. (...) Ita enim scriptum erat: “Non habeatis licentiam nullum ordinare”. Nunc usque putavimus, immo vere credidimus, duo negativa unum facere dedicativum; nisi vestra auctoritas priscorum sententias infirmaret auctorum. Nos vero intentioni vestrae, non verbis respondeamus». Di epistola sgrammaticata parlava già F. Novati, L’influsso del pensiero latino sopra la civiltà italiana del medio evo, Milano 1899, p. 48, in un contesto di forte polemica con gli studiosi che non riconoscevano il basso livello culturale degli scrittori del secolo X: ma l’uso che Liutprando fa della lettera papale non rappresenta in realtà un argomento a favore della tesi del Novati. 2° Lo stesso Raterio giustifica la propria scelta stilistica in un suo scritto, Phrenesis. Disporrà in modo artificioso le parole per essere compreso solo da qualcuno: «difficillimam quae pariat, optimam licet intelligentibus, constructionis materiem», Ratherii Veronensis Phrenesis, a cura di P. L. D. Reid, Turnhout 1984 (Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, XLVI A). Su scinderatio, anastrofe, hyperbaton, figure dello spostamento di parole e di membri della frase per rendere difficile la costruzione e quindi la comprensione del discorso, cfr. H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna 1969, pp. 180-183; l’influenza degli insegnamenti della scuola di Liegi da cui Raterio proveniva sul suo stile è sottolineata

da Auerbach, Lingua letteraria cit., p. 126 sg.; si veda anche Frova, I/ «Polittico» cit., pp.

33-35, per analogie e differenze tra Phrenesis di Raterio e Polittico attribuito ad Attone, opere

entrambe volutamente

ermetiche.

CONTEMPLARE

122

coniectura

frasi come

cuiusdam”,

L’ORDINE

queste:

«nasum

semper

tenet

in

libro”; «manus tantum et labia cibum lavat sumpturus, (...) faciem raro)”; «quid vis iterum, diabole?»”°; «dicit, manduca (...), bibe saltem (...), sede, non tibi dicity’". E in un passo Raterio dice di se stesso,

ma

è un-vezzo,

che

adopera

termini

greci «cum

nec

sit saltem

Latinus»”. Dunque i massimi scrittori del secolo X mostrano di sapere quando, dalle forme proprie seppur varie del latino letterario, passano all’altra lingua, quella quotidiana dei parlanti appena mimetizzata in forma latina’’. Esiste tuttavia un altro tipo di operazione che costoro compiono e che rischia largamente di sfuggirci perché contenuta entro i parametri della lingua letteraria: si tratta della traduzione. L’analisi degli scritti di questi intellettuali deve perciò tenere conto anche del fatto che il loro vocabolario traduce nuove realtà attraverso vecchie parole. 2. Alla confluenza di tutte queste riflessioni intorno al bilinguismo stanno

le lettere e i sermoni

di Attone,

che sono

naturalmente

in

latino e pongono allora il problema della loro ricezione. E non solo di questa. Nelle lettere e nei sermoni il riferimento a pratiche non conformi al dettato dei canoni presuppone infatti che Attone ne sia venuto a conoscenza: si deve allora considerare anche un percorso comunicativo inverso, quello cioè che dai vu/gares va al vescovo. Occorre sottolineare che l’esistenza di quest’ultimo canale di comunicazione non è — e non può essere, in presenza della tesi Harmening — semplicemente ipotetica: è fondamentale dimostrare che ciò a cui Attone si riferisce non è una finzione letteraria, un’immagine stereotipata del mondo dei rustici e delle loro credenze. Oggetto dell’attenzione del vescovo devono essere invece esperienze realmente in atto, manifestazioni di mentalità di cui la cultura ecclesiastica tiene tradizionalmente conto.

°° In Ratherii Veronensis Opera minora, a cura di P. L. D. Reid, Turnhout 1976 (Corpus Christianorum,

Continuatio

Mediaevalis,

XLVI),

pp.

115-132.

aOprctitata de polli. * Qpw cita, Aspeld& “ Qpscity c;-3, pa l19; Opa Op;

citine,15,) pal 21 cità (0024 peLI&

Cammarosano,

Italia medievale cit., p. 51, sottolinea l’effetto della famosa

frase del

placito capuano del 960 («sao ko kelle terre...»): «non a tutti rimane forse chiaro come quelle parole si trovino per così dire annegate nel fluire di una redazione latina».

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL SECOLO

X

123

Verifichiamo dunque, alla luce di queste considerazioni, le lettere e i sermoni attoniani che trattano di comportamenti devianti dalla norma dei canoni. In un sermone in cui il vescovo proibisce gli

spettacoli teatrali e circensi degni degli «idolorum cultores»*‘, il riferi-

mento a «quidam Christiani adhuc in multis imitantum’ potrebbe sembrare troppo generico per vedervi la condanna di atteggiamenti davvero esistenti. Il fatto tuttavia che l’occasione del sermone sia la domenica «in albis» e che a Vercelli dall’inizio del secolo X sia attestata una fiera”°, fa ragionevolmente pensare che il vescovo intendesse colpire, usando la terminologia classica, rappresentazioni di strada effettuate in occasione di feste”. Un sermone, «in festo octavae Domini», e una lettera devono essere considerati insieme: nella lettera infatti Attone ricorda di aver rivolto «nuper in vigilia octavae Domini quemdam sermonem his qui praesentes erantv’*. Nel ser-

mone le usanze d’inizio d’anno e delle calende di marzo offrono lo spunto al vescovo per trattare il tema delle false credenze astrologiche, tema ripreso nella lettera: «heu! quia sunt multi in vestris partibus, qui divina servitia contemnunt,

et auguria, vel coeli signa,

seu vanas praecantationes intendunt)”. Come si vede il vescovo cerca di raggiungere i fedeli della diocesi eusebiana con gli strumenti di cui dispone e di allargare nello stesso tempo l’area di ricezione del suo messaggio: coloro «qui praesentes erant» sono probabilmente i convenuti a Vercelli, mentre in quel «vestris partibus» è da vedere designato il territorio non direttamente

afferente alla città che è sede episcopale e centro del comitato‘. Proprio questa cura dimostrata da Attone nell’indirizzare lo stesso contenuto attraverso mezzi di comunicazione diversificati induce a ritenere che egli intendesse così agire in risposta a usanze da lui conosciute e ritenute pericolose e fuorvianti. Il tema dei segni cui ci si affida per vincere la paura dell’esistenza # Sermone IX «in albis», in P.L., 134, col. 844C. ? Ibidem. # C. Violante, La società milanese nell’età precomunale, Bari 1953, p. 140. # «Nam ludus scenicus castitatis est raptor. Circi denique ludi Liberum et Venerem famosissimos daemones legimus fuisse auctores. Fugiat ergo omnis Christianus obsequium (...), maxime istis festis diebus, quia parum proficit hoc quadragesimali tempore nostras deplorasse ruinas, si nunc iterum ad easdem paschale festum polluendo dilabimum: sermone IX «in albis», in P.L., 134, col. 845A.

°* Epistola II, in op. cit., col. 104A. °° Ibidem. 4° Sul tema del comitato di Vercelli, in questo volume, Orizzonti politici ed esperienze culturali.

CONTEMPLARE

124

L’ORDINE

ricompare in un’altra lettera, dedicata questa volta ai falsi profeti: non solo, scrive il vescovo rivolgendosi «cuncto populo nostrae dioe-

cesis»”!, si crede a «prodigia diversaque signa»‘’, ma addirittura «non

tam facile iustum habetur cor, ut etiam quibusdam simplicia atque bruta referentibus tantummodo verba credere omnino festinetis, eos-

que, heu miserrimi! diabolico errore decepti, prophetas nominetis». L’uso di una serie di verbi al tempo presente, come nella lettera precedente, e le minuziose prescrizioni punitive che seguono nel caso si dia ancora credito a tali personaggi‘, ci parlano di una situazione di pericolo che Attone deve fronteggiare con durezza. Anche l’ultima lettera ha per oggetto un argomento di rilevanza sociale, vale a dire il rifiuto del lavoro il venerdì: «igitur audivimus inter vos novum quemdam surrexisse errorem, ut dicatis sexta feria otio esse vacandum,

et

epulis, vel conviviis abutendum»”. La presenza di «audivimus» fa ritenere che ad Attone sia oralmente giunta la notizia dell’osservanza di un nuovo giorno di riposo. Tale ipotesi può risultare fragile se si considera che «audivimus» compare con frequenza nelle fonti con significato spesso fraseologico e che lo stesso verbo introduce un tema analogo in un sermone di Cesario di Arles: «audivimus quod aliquos viros vel mulieres ita diabolus circumveniat, ut quinta feria nec viri opera faciant, nec mulieres laneficium (...): isti enim infelices et miseri, qui in honore Iovis quinta feria opera non faciunt, non dubito quod ipsa opera die

dominico facere nec erubescant nec metuantv!°. Ma qui vi è una

4! Epistola III, in P.L., 134, col. 104C. 4° Ibidem. 4 Op. cit., col. 104D. «Quocirca

his visis litteris, auditis

vel cognitis,

si quis vestrum

forte,

quod

absit,

deinceps huiuscemodi nefas perpetraverit, sciat se omnimodis damnandum, et non habeat licentiam manducandi quid coctum, nisi panem, nec bibendi vinum, quousque ad suam sanctam matrem, scilicet Vercellensem ecclesiam, nostramque praesentiam ad satisfactionem, veramque poenitentiae humilitatem iudicandus adveniat. Si quis autem superbia inflatus contra hoc agere tentaverit, sciat se ab ecclesiae liminibus pellendum, et a sancta communione extraneum»: op. cit., coll. 104D-105A (da notare la formula introduttiva che

copre tutti i possibili modi di venire a conoscenza del testo della lettera). Sulle sanzioni

alimentari M. G. Muzzarelli, Norme di comportamento «Quaderni medievali», 13 (1982), pp. 45-80.

alimentare

nei libri penitenziali,

‘ Epistola IV, in P.L., 134, col. 105B-C. ‘° Cesari Arelatensis Opera, I: Sermones, a cura di G. Morin, Turnhout Christianorum,

Series Latina, CIII), sermone

1953

in

(Corpus

XIII, p. 68; si veda anche un altro accenno,

questa volta solo a donne che il giovedì si astengono dalla tessitura, in Cesarii Arelatensis Opera, I/2: Sermones, a cura di G. Morin, Turnhout 1953 (Corpus Christianorum, Series Latina, CIV), sermone LII, p. 230 sg.

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL

SECOLO

X

125

differenza sostanziale rispetto al sermone attoniano: il nuovo giorno festivo è il giovedì e, da quanto scrive Cesario, sembra di capire che sopravvivenze pagane abbiano influito su questa scelta‘. Attone condanna invece l’uso di astenersi dal lavoro il venerdì, non fa alcun

riferimento a credenze idolatriche e pare anzi collegare la nuova pratica a una visione deviata del significato religioso del giorno della passione: «demens est, qui sextam feriam, qua Dominus crocifixus est, per omnes hebdomadas ob illius imaginem cum abstinentia et compunctione moeroris abnegat celebrandum. Labor denique impedimentum dicitur. In magno ergo eo die Christus fuerat labore, qui

tanta ab impiis tormenta pertuleraty'. Almeno due dati sono a questo punto da sottolineare: in primo luogo il fatto che lettere e sermoni sono molto probabilmente nati su sollecitazione di esperienze davvero in atto. Ciò non esclude naturalmente un uso successivo soprattutto dei sermoni, ma è comunque da ritenere che esista all’origine relazione diretta tra alcuni comportamenti e credenze e gli scritti di Attone in proposito. Il secondo elemento è direttamente connesso al primo ed è il fatto che gran parte delle informazioni di cui il vescovo dispone gli deve essere stata

fornita da qualcuno: l’identità di questi «intermediari culturali»°° non è accertabile, ma deve essere tenuto in conto il loro ruolo. Dobbiamo infatti pensare che soprattutto per quanto accadeva fuori città c’è stato qualcuno che ne ha riferito al vescovo: questo qualcuno ha largamente determinato il modo in cui Attone ha affrontato per iscritto la questione. Attone, per parte sua, ha tradotto le notizie a lui riportate attraverso il repertorio tradizionale della terminologia latina in tema di false credenze, superstizioni e atteggiamenti vicini all’idolatria. Se ora rivolgiamo la nostra attenzione al problema della ricezione e in particolare al percorso che dagli scritti di Attone porta ai destinatari, non è più del tutto ipotetica l’esistenza di mediatori culturali la cui funzione è porgere ai vu/gares, nei modi e nelle forme più adatte a loro, i contenuti che si vogliono trasmettere. Il sermone in onore di sant’Eusebio vescovo e patrono di Vercelli è senz’altro uno dei più rilevanti della raccolta attoniana per la Cfr., su questo sermone

di Cesario di Arles, R. Manselli, La religione popolare nel

medioevo, Torino 1974, p. 19; O. Giordano, Religiosità popolare nell’alto medioevo, Bari 1979, p. 20 sg.

‘ Epistola IV, in P.L., 134, col. 105D. 4° Schmitt, Introduzione cit., p. 10.

CONTEMPLARE

126

L’ORDINE

presenza di stilemi che danno effetti di forte ritmicità: vi è soprattutto costante uso di assonanze e omoteleuti, e anche di vere e proprie rime, che servono a fissarlo facilmente nella memoria. Fin dal passo iniziale le assonanze hanno infatti la funzione di strutturare il testo

in senso

mnemonico”:

«de

praecipuis,

fratres

charissimi,

solemnitatibus semper nobis aliquid dicendum est vu/garibus, ut nostro discere valeant sermone quod celebrare contendunt ex more: sed in hac festivitate nil eis pronuntiare possumus aprius, quam si nostri patroni disseramus artius»”. Dal punto di vista della situazione comunicativa le possibili interpretazioni di questo brano sono due. In base alla prima, «fratres charissimi» è rivolto genericamente all’uditorio di chierici e laici; «nobis», «nostro», «possumus», «nostri» e «disseramus», sono plurali maiestatici che si riferiscono ad Attone. In base alla seconda interpretazione, «fratres charissimi» è invece rivolto ai confratelli, cioè ai chierici, mentre tutti i plurali si riferiscono alla

comunità ecclesiastica nel suo insieme, dal vescovo ai presbiteri. Forse l’ambiguità del passo è in qualche modo voluta: ciò che conta, per il vescovo, è che le notizie su Eusebio raggiungano i vulgares e che si possa arricchire di significato la devozione popolare per il santo patrono. A questo scopo può allora servire sia la lettura o la recita del sermone in latino direttamente ai vu/gares — perché il suo andamento di cantilena è in grado di coinvolgerli — sia la sua

traduzione in volgare da parte di chierici”, dopo che questi lo hanno imparato a memoria

in latino grazie anche

alle tecniche usate da

Attone”. Tale ragionamento presuppone che gli scritti del vescovo potessero circolare tra il clero diocesano e anche — non è in alternativa — che vi fossero occasioni d’incontro tra vescovo e chierici.

°° E. Pasteris, Arrone di Vercelli ossia il più grande vescovo e scrittore italiano del secolo X, Milano 1925, pp. 178-185, rese evidente la struttura del sermone riportandolo in versi anziché in prosa e facendo così risaltare l’uguaglianza costante delle vocali a partire da quella tonica alla fine di ogni verso. °" Sermone XVI «in depositione beatissimi Eusebii Vercellensis episcopi», in P.L., 134 È) col. 853B. °° Sul problema della carenza di notizie a proposito della lingua dei sermoni e sulla necessità di tradurli in volgare agli ascoltatori si veda P. Riché, Education et culture dans

l’Occident barbare.

VI°-VIII® siècles, Paris 1962, p. 536 sgg. e M. Zink, La prédication en

langue romane avant 1300, Paris 1976, pp. 85-113, che riporta le disposizioni conciliari e sinodali in materia di predicazione in volgare.

” L’importanza della memoria come elemento che struttura l’esperienza in culture legate

all’oralità e le caratteristiche che il testo da ricordare deve avere (paratassi, aggregazione, ridondanza,

enfasi) sono

parola, Bologna

sottolineate da W. J. Ong,

1986, pp. 59-117.

Oralità e scrittura.

Le tecnologie della

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL

SECOLO

X

127

All’interno di quella collazione di canoni che è il Capitulure di Attone, esiste appunto una serie di norme che fissano i momenti

comunitari del clero a livello della diocesi e delle pievi”: il capitolo

XXV è dedicato infatti alle visite pastorali a scadenza annuale («ut dioeceses singulis annis visitentur»)”, il capitolo XXVII prescrive

«quod singulis annis synodus celebretur»?° e il capitolo XXVIII «qua-

liter maiores presbyteri ad synodum veniant»”” e per quanto riguarda le pievi il capitolo XXIX ordina «quod singulis calendis collatio in plebibus fiat». Dopo averle ricordate è comunque d’obbligo sottolineare che le norme del Capitulare rappresentano sì un progetto coerente di ristrutturazione amministrativa e religiosa della diocesi ma che il grado di realizzazione di tale progetto fu probabilmente molto lontano dalla compiutezza. Giocava contro Attone la situazione generale nella quale egli si trovò a operare e che fin dall’inizio aveva inciso sul suo episcopato: era infatti divenuto vescovo nel 924, una data doppiamente significativa per le vicende del regnum. Nei primi mesi di quell’anno l’imperatore Berengario I era stato assassinato e Pavia, capitale del regno, era stata incendiata dagli Ungari”: tra le fiamme erano morti così il vescovo pavese Giovanni e il vescovo di Vercelli Ragemberto che si trovava in quella città’. L’episcopato di Attone cominciava dunque quando, tramontata con Berengario l’idea imperiale, più convulsa si faceva la lotta al vertice del regno italico e più distruttive apparivano le incursioni di Ungari e Saraceni”. Sappiamo che queste vicende ?* Sulla vita comune del clero nella tradizione eusebiana cfr. C. Violante, Le istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale durante il medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel medioevo, a cura di G. Rossetti, Bologna 1977, p. 100 sgg.

2 In P.Lx 134;.col. 34A. MOpX.citAcola434B: ” Op. cit., col. 34C. * Op. cit., col. 34D. L’interesse di Attone per l’assetto plebano è testimoniato anche da un elenco delle pievi vercellesi, il più antico esistente, inserito nel manoscritto Vat. lat. 4322, f. 34v., che è il maggiore testimone delle opere attoniane e in cui compare il monogramma del vescovo: Fonay Wemple, Azto of Vercelli cit., p. 185.

°° V. Fumagalli, I! regno italico, Torino

1986, p. 191 sg.

© Siamo a conoscenza della morte del vescovo Giovanni attraverso la testimonianza di Liutprando e di quella di Ragemberto attraverso Flodoardo: si vedano le voci Ragemberto e Attone di F. Savio, Gli antichi vescovi d’Italia. Il Piemonte, Torino 1898, p. 450 sg. Attone stesso poi allude nel sermone III «in festo octavae Domini», in P.L., 134, col. 837B, a un recente incendio di Pavia: «de aedificiis autem, ‘ex praesenti saltem Papiensi incendio possumus colligere veritatem». °" Anche se occorre non analizzano gli effetti: cfr., a proposito soprattutto delle incursioni saracene, J. P. Poly, La Provence et la société feodale (879-1166).

Contribution à

l’érude des structures dites féodales dans le Midi, Paris 1976, p. 25 sgg.; A. A. Settia, Castelli e

CONTEMPLARE

128

L’ORDINE

accelerarono la trasformazione degli assetti pubblici e l’enuclearsi di nuovi ambiti di potere territoriale: si tratta di mutamenti strutturali ai quali parteciparono le istituzioni ecclesiastiche, oggetto di molteplici transazioni’ complicate a livello delle strutture locali dalla pratica del concubinato tra il clero delle campagne e dal coinvolgimento dei figli naturali dei chierici nell’esercizio e nel godimento delle funzioni ecclesiastiche”. Ecco allora che il quadro si fa più mosso: è infatti possibile che si siano rispettate almeno alcune scadenze d’incontro tra vescovo e clero previste dal Capitulare; è da pensare che in tali occasioni siano circolate informazioni anche su credenze e usi eterodossi; è anche da

ritenere che in queste e altre circostanze il clero periferico sia stato edotto, in forma culturalmente

a lui vicina; sulle risposte da dare a

tali devianze. Al ruolo oggettivo di mediazione culturale che i chierici devono aver svolto è tuttavia strettamente connesso un altro problema, quello della loro credibilità agli occhi dei vu/gares. Attone ne ha piena coscienza: nella lettera indirizzata «cunctis sacerdotibus eorumque ministris in nostra Vercellensi dioecesi commorantibus»® il vescovo tratta il tema del concubinato””. Vi è gente,

egli dice,

che

giunge

nuda

alla chiesa

benefici; una volta arricchita, si procura

e si arricchisce anche

donnacce:

dei

suoi

«et unde

meretrices ornantur, ecclesiae vastantur, pauperes tribulantur»°°. E fosse solo questo: queste donne e i loro figli rendono i chierici,

villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1984, p. 58 sgg. e, dello stesso autore, Monasteri subalpini e presenza saracena: una storia da riscrivere, in Dal Piemonte all’Europa: esperienze monastiche nella società medievale. Relazioni e comunicazioni presentate al XXXIV Congresso storico subalpino nel millenario di S. Michele della Chiusa, Torino 1988, pp. 293-310.

°° €. Violante, Pievi e parrocchie nell’Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII, in Le istituzioni ecclesiastiche della «Societas Christiana» dei secoli XI-XII. Diocesi, pievi e parrocchie. Atti della VI Settimana internazionale di studio, Milano 1977 (Miscellanea del Centro di studi medioevali, 8), pp. 657-680. ° Cfr. sul tema in generale G. Fornasari, Celibato sacerdotale e “autocoscienza” ecclesiale. Per la storia della «Nicolaitica Haeresis» nell’Occidente medievale, Udine 1981.

“ pistola IX, in P.L., 134, col. 115D. °° Nel secolo X il tema del concubinato, e anche della simonia, è raramente oggetto di prescrizioni regie o sinodali. Gli scritti di Attone e di Raterio, anche se diversamente motivati, sono perciò in pratica le sole testimonianze di un progetto di attività disciplinare nei confronti del clero: G. Tellenbach, Impero e istituzioni ecclesiastiche locali, in Le istituzioni

ecclesiastiche cit., p. 28 sg. Cfr. anche J. Ryan, St. Peter Damiani and his Canonical Sources, Toronto 1956 e i contributi di O. Capitani: Immunità vescovili ed ecclesiologia in età «pregregoriana» e «gregoriana». L’avvio alla «Restaurazione», Spoleto 1966 (Biblioteca degli «Studi medievali», 3), p. 42 sgg.; L’età «pregregoriana», in La Storia cit., I, 1, p. 369 sgg.

“ Epistola IX, in P.L., 134, col. 117A.

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DOTTA

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129

continua il vescovo, ricattabili ed esosi, dato che essi di conseguenza

cercano in ogni modo di rifornire di beni queste loro famiglie. Così, conclude Attone, «populus hoc considerans, decimas et primitias ipsis exigentibus reddere Deo contemnunt, (...) et inde populus

sacrilegus efficitur»”. Come

si vede, Attone istituisce un legame

diretto tra la condotta morale del clero, la sua credibilità nei confronti delle popolazioni e le devianze da queste praticate: si comprende così come, per raggiungere in modo efficace i vulgares, sia necessario agire adeguatamente sulla formazione dei chierici. È questo un tema collegato al filone centrale dell’opera di Attone, costituito dalla riflessione circa il corretto funzionamento o almeno la tenuta delle istituzioni ecclesiastiche’. Per gli aspetti che qui interessano, basterà ricordare ancora'il Capitulare: vi troviamo infatti un gruppo di norme che disegnano il comportamento ideale del chierico. Innanzitutto Attone insiste sulla sua preparazione culturale: il chierico deve evitare l’ignoranza, dedicarsi assiduamente alla «lectio» e all’«oratio», e quantomeno conoscere a memoria il «Credo»

(capp. III, IV, VI)°°. Egli deve risiedere nel luogo che gli è stato assegnato (cap. XXXII)", non deve accettare decime da fedeli di altre parrocchie né dare o ricevere oblazioni senza il consenso

del

vescovo (capp. XXXIII, XXXIV)", non può vivere con una donna né parlare con colei che, a torto o a ragione, lo ha compromesso

di

fronte all’opinione pubblica (capp. XXXVI, XXXVII)”, appena ordinato,

deve

fare

giuramento

di castità

al suo

vescovo

(cap.

XXXVIII)", non deve intraprendere affari la domenica (cap. XLI)", non

deve

assistere

a spettacoli

(cap. XLII)”,

frequentare

taverne

(cap. XLIII)"°, cantare e dire scurrilità (capp. XLIV, XLVI)", esercitare l’usura (capp. XLIX, L)”. Il chierico non deve inoltre, pena la

‘ Op. cit., col. 117B-C. © Fonay Wemple, Azto of Vercelli cit., pp. 109-144. © In PL., 134, col. 29A-D. Op. cito c0n435B; " Op. cit., col. 35C-D. ? Op. cit., col. 36A-C. ? Op. cit., col. 36D. i Opsicifay014B7A; CKOpycitltcol:=37B: °° Ibidem.

E. Opaicit}icola: 37: "8. ®p: cit, col:*38B-C!

CONTEMPLARE

130

L’ORDINE

scomunica, credere a maghi e indovini, ricercare divinazioni e accostarsi, per celebrare riti, ad alberi e fonti (cap. XEVIDI Da questa serie di prescrizioni e soprattutto di divieti filtra

l’immagine di quella che doveva essere la cultura dei chierici: scarsamente addottrinata, essa partecipava da una parte alla cultura “alta” dell’élite religiosa nelle versioni semplificate che questa le trasmetteva, ma non era d’altra parte qualitativamente molto diversa dalla cultura dei laici oggetto di cura pastorale. 3. L’accenno a culti arborei presente nel Capitulare a proposito dei chierici diventa tema centrale in un sermone che abbiamo fin qui trascurato: si tratta forse del più interessante tra quelli attoniani e sarà riportato estesamente perché può chiarire molti degli elementi emersi finora. Il sermone è per la nascita di Giovanni Battista, il 24 giugno”. Post evangelicam lectionem, fratres charissimi, beatissimi Ioannis praecursoris Domini nostri Iesu Christi nobis est denuntiata nativitas, de cuius praeparatione aliquid nunc iam edocendum esse videtur, quia omnimodis cavendum est ne vulgus polluat ignorantia, quod summa observare cogit obedientia; si autem nescientes deliquerint in talibus, una nos cum illis involvet sententia: si vero quae docuerimus contempserint,

sic alienum

deflebimus,

ut nostrum

exinde

non

timeamus

periculum. Cognoscat igitur prudentia vestra malam de tam gloriosa solemnitate

crebris

in locis

inolevisse

consuetudinem,

ut

quaedam

meretriculae ecclesias et divina officia derelinquant, et passim per plateas et compita, fontes etiam et rura pernoctantes, choros statuant, canticula componant, sortes deducant, et quidcquid alicui evenire debeat in talibus simulent augurari. Quarum superstitio adeo gignit

? Op. cit., coll. 37D-38B. * Sermone XIII «in annuntiatione beati praecursoris et martyris Domini nostri Iesu Christi, Ioannis Baptistae», in op. cit., coll. 850C-851B. Nonostante si parli di annunciazione del Battista, il giorno in questione non è il 24 settembre, ma il 24 giugno: il sermone è per uno dei momenti di preparazione alla principale festa del santo. Da ricordare è che le due feste di san Giovanni cadono in prossimità del solstizio d’estate e dell’equinozio

d’autunno, e che l’annunciazione di Cristo e la sua nascita cadono in prossimità dell’equinozio di primavera e del solstizio d’inverno. In particolare, intorno ai problemi liturgici posti dall’introduzione in Occidente, nella seconda metà del secolo VII, della festa dell’annunciazione di Cristo, che spesso cade in quaresima se non nella settimana santa, si veda la soluzione adottata all’inizio del secolo VIII sulla Croce in pietra di Ruthwell (Scozia), soluzione che dialoga con San Pietro di Roma e con San Martino di Tours attraverso personaggi inviati dal papa in terra anglosassone qualche decennio prima, al tempo della controversia sul monotelismo: E. O Carragàin, Rome, Ruthwell, Vercelli: «The Dream of the Rood» and the Italian Connection, in Vercelli tra Oriente e Occidente tra tarda antichità e medioevo, a cura di V. Dolcetti Corazza, Alessandria 1998, pp. 59-100.

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SECOLO

X

I3I

insaniam, ut herbas vel frondes baptizare praesumant, et exinde com-

patres vel commatres audeant vocitare, suisque domibus suspensas diu in postmodum quasi religionis causa studeant conservare. (...) Considerate ergo, fratres charissimi, quantum dedecus tales nobis prioribus, quantumque sibi inferant detrimentum, et sic unusquisque saltem domum suam a talibus purget erroribus. Partiamur onus, partiamur et praemium: debet enim unusquisque vestrum domui suae praeesse episcopus, quia episcopus superinspector dicitur.

È una storia notturna: la vigilia della festa di san Giovanni, gruppi di donne si radunano in piazze e crocicchi e anche vicino a sorgenti e nei campi. Trascorrono la notte intonando canti e prevedendo il futuro; a un certo punto si mettono a battezzare erbe e fronde che chiamano compari e comari: le portano poi a casa appendendole come fossero oggetti di culto e cercando di conservarle più a lungo possibile. Il racconto del complesso rito femminile è al centro di una struttura narrativa tripartita: la prima e la terza sequenza contengono gli elementi che dapprima interessano. Attone infatti si rivolge in queste parti direttamente al clero”' e ne definisce la funzione di intermediario culturale. Non si può, sostiene il vescovo in apertura di sermone, lasciare che il popolo contamini con la propria ignoranza la festa del santo precursore. È dunque doveroso indicare il modo corretto di trascorrerla: solo dopo aver ottemperato a tale dovere ci si può considerare in parte sollevati dalla responsabilità morale nei confronti di chi persevera nella superstizione. i È da notare come in questa prima sequenza Attone usi espressioni che sottolineano il ruolo didattico del clero — «aliquid (...) edocendum esse videtur, «si vero quae docuerimus contempse-

rintv’ — nei confronti di un vu/gus connotato negativamente: i chierici sono così sottratti, almeno teoricamente, alla cultura delle mererriculae, mentre li si fa partecipi a pieno titolo della cultura del vescovo. Anche l’epiteto di «prudentia vestra» con il quale Attone introduce la

narrazione del rito («cognoscat igitur prudentia vestra»)"* va nel senso di un innalzamento dei propri interlocutori: la stessa forma di cortesia compare

infatti, conformemente

all’uso, nella lettera inviata da

8! La ricerca di un legame personale con l’uditorio nell’esordio è una delle tecniche specifiche della predicazione: J. Longère, La prédication médiévale, Paris 1983, p. 165 sgg.

8 Sermone XIII, in P.L., 134, col. 850C. Sg Opcit:c0l#850D) 3 Ibidem.

132

CONTEMPLARE

L’ORDINE

Attone a un confratello, il vescovo Azzone”. L’assimilazione culturale tra vescovo e clero diviene ancora più esplicita nella terza sequenza, quando Attone spiega, usando l’etimologia del termine, che ognuno deve essere «episcopus»° nel proprio ambiente e deve sorvegliare affinché non si verifichino devianze. Ma l’educazione e il controllo nei confronti del vulgus sono possibili solo se si conosce esattamente ciò che si deve estirpare: qui dunque, più che in altri sermoni, il vescovo sembra sforzarsi di tradurre fedelmente, senza riferimenti colti;.le notizie di cui è in possesso. Culto delle acque, talora culminante in bagni notturni o

all’alba”, conoscenza del futuro attraverso pronostici e presagi, raccolta di erbe dai poteri particolari”, istituzione di comparatici tra giovani”: tutti gli elementi del racconto sono variamente attestati in Europa, in tempi anche molto diversi, in occasione della festa di san Giovanni. La forma che la ricorrenza presenta nella zona di Vercelli all’inizio del secolo X è tuttavia molto particolare: si tratta infatti di un rito esclusivamente

femminile,

che ha al centro

il battesimo

di

erbe e fronde con le quali le donne istituiscono un legame di parentela spirituale. Se il rito è stato esattamente riferito ad Attone o se egli lo ha ben compreso, la contraddizione formale tra l’atto di battezzare le erbe e chiamarle poi compari e comari non sembra ® Epistola V, in op. cit., col. 106B: «quod autem vestra prudentia nostram hebetem dignata est parvitatem».

* Sermone XIII, in op. cit., col. 851B. * «Ullus in festivitate sancti Iohannis aut in fontibus aut in paludibus aut in fluminibus nocturnis aut matutinis horis se lavare praesumat: quia ista infelix consuetudo adhuc de paganorum observatione remansitv: Cesarii Arelatensis Opera, I: Sermones cit., sermone XXXIII, p. 146. ** Secondo A. van Gennep, Manuel de Folklore francais contemporain, IV/1: Les cérémonies périodiques cycliques et saisonnières, 2: Cycle de Mai. La Saint-Fean, Paris 1949, p. 2000, le testimonianze sulla fissazione della raccolta di erbe a san Giovanni non risalirebbero molto in alto nel tempo: il riferimento più antico sarebbe in un testo del secolo XIII. Le proibizioni anteriori a raccogliere erbe pronunciando formule si riferiscono, secondo van Gennep, a giorni generici: in questa serie egli colloca erroneamente anche il sermone attoniano, sostendendo che vi è sì raccolta di erbe «mais sans mention aucune de la Saint-Jean, et par allusion visible aux sorcières». Il passo di Attone permette invece di

anticipare di almeno tre secoli il collegamento tra la festa di san Giovanni e la raccolta rituale di erbe. * A proposito dell’uso, in età recente, di contrarre comparatico nel giorno di san Giovanni e di considerare il vincolo sotto la protezione del santo si vedano i classici contributi di G. Pitrè, Spertacoli e feste popolari siciliane, Palermo 1881 (Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, 12), pp. 288-320 e Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo 1889 (Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, 15), pp. 253-283. Cfr. anche, sul comparatico tra ragazzi e ragazze senza matrimonio, G. Pola Falletti-Villafalletto, Associazioni giovanili e feste antiche. Loro origini, 4, Milano 1942, pp. 182-212.

CULTURA

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E CULTURA

FOLKLORICA

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NEL SECOLO

X

133

colpirlo: preoccupa il vescovo soprattutto la contaminazioné del sacramento del battesimo”, usato per entrare in rapporto con le forze della natura. Come la severa norma del Capitulare che scomunica i chierici «qui arbores colunt, aut ad fontes huiuscemodi religiose accedunt»”, anche il sermone di san Giovanni fa intravvedere una zona della società nella quale la distinzione tra culti leciti e non è tutt’altro che netta: coloro che sono coinvolti in due sistemi concorrenti di concezione del mondo non ne colgono spesso l’antagonismo di fondo, perché elementi di contatto sono possibili sul terreno del rito. Ai chierici, che parlano la stessa lingua dei vu/gares e hanno lo stesso retroterra culturale e psicologico, spetta il ruolo di intermediari tra i due sistemi: questo a condizione che li si doti, come tenta di fare Attone, di strumenti culturali che permettano loro di rivolgersi nelle forme e nei contenuti appropriati al pubblico dei vu/gares e siano nello stesso tempo elemento di distinzione dai vulgares stessi. Con quest’ultimo termine sono stati definiti fino a questo punto coloro ai quali sono indirizzati, direttamente o meno, le lettere e i sermoni di Attone. Vu/gares, e anche vulgus, sono termini usati dal vescovo: nel sermone di sant’Eusebio si dice che soprattutto nelle

grandi festività occorre dire qualcosa «vulgaribus»”°; nel sermone di san Giovanni, come abbiamo visto, si sottolinea l’ignoranza del «vulgus»”; esistono poi due versioni di un sermone sulla Pentecoste,

la seconda delle quali è abbreviata «ne vulgares fastidiarentur»°*. Sia vulgus, che ha una sfumatura spregiativa, sia vu/gares alludono a una cultura di cui si sottolinea, più di altri aspetti, la specificità linguistica: averli usati finora nel senso che anche Attone attribuì loro è servito a cercare di chiarire la situazione comunicativa. Schematizzando, questa risulta avere un andamento di andata e ritorno (dai vulgares al vescovo e viceversa) complicato, nei passaggi, da traduzioni e cambi di lingua, ma reso possibile dalla presenza di intermediari la cui fisionomia culturale, si è visto, ha contorni non netti. °° Sulle cui implicazioni religiose e culturali cfr. J.-P. Bouhot, Le baptéme et sa signification, in Segni e riti nella chiesa altomedievale occidentale, I, Spoleto 1987 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XXXIII), pp. 251-267.

IGRXIEVIM sin Pib134,a.c01+38B: ° Sermone XVI, in op. cit., col. 853B. ° Sermone XIII, in op. cit., col. 850C.

3

% Sermoni XI e XII, in op. cit., coll. 846D-849A, 849A-850C. A proposito del fatto che non si tratta di una rielaborazione del primo sermone ma di una versione uguale censurata in due

punti, uno

dei quali tratta

la questione

L’imperfezione della società, par. 2, testo e n. 42.

del «Filioque»,

cfr., in questo

volume,

CONTEMPLARE

134

L’ORDINE

Se ora non consideriamo più i vu/gares come comunità dei parlanti ma cerchiamo di definirne il profilo sociale, le informazioni che si possono avere dalle lettere e dai sermoni del vescovo sono piuttosto scarse. Non sappiamo ad esempio chi sono coloro che, in tempo pasquale, assistono a spettacoli forse collegati con la presenza di una fiera a Vercelli: la designazione collettiva e generica di «Christiani»”” può tuttavia alludere a una partecipazione sociale composita. Anche l’identità di chi rifiuta il lavoro di venerdì è alquanto oscura. Si è visto che la scelta del nuovo giorno di riposo sembra collegata a considerazioni di tipo religioso, legate al ricordo della passione di Cristo; ciò fa pensare a qualche spazio di autonomia sia culturale sia sociale: è difficile che l’idea dell’astensione dal lavoro il venerdì possa essere realizzata da chi è oggetto di controllo anche se non costante. L’ultima parte della lettera sembra confermare che Attone si riferisce a persone di livello sociale basso, ma che in qualche modo sfuggono a un inquadramento rigido, forse piccoli proprietari o concessionari privilegiati di terre curtensi”’: «sexta feria melius est laborare panem, unde et tuam et alienam reficere possis esuriem, quam otiosis mani-

bus sedens inanes fabulas garrulo ore iactare»”. Se la lettera sul venerdì può essere destinata a elementi che emergono dalla massa dei rustici, questi ultimi sono invece identificabili come protagonisti di altri sermoni e lettere. Nel sermone «in festo

octavae Domini» e nella lettera a esso collegata’’, si condannano le false credenze astrologiche: come le meretriculae nella notte di san Giovanni, anche i contadini investigano il futuro. Lo fanno osservando le stelle: i segni che credono di riconoscere li inducono a scegliere il momento per avere figli o a costruire case in determinati periodi e non in altri, perché non siano arse dal fuoco. E ancora soprattutto ai rustici si rivolge Attone nella lettera in cui minaccia di gravi sanzioni coloro che non soltanto credono a prodigi e segni del cielo, ma giungono a dare fiducia alle parole di certi pseudoprofeti «simplicia atque bruta

referentibus»"”. Il dato della povertà culturale sembra suggerire che questi personaggi appartengono talvolta allo stesso livello sociale di

°° Sermone IX, in P.L., 134, col. 844C. °° P. Toubert, Le strutture produttive nell’alto medioevo: le grandi proprietà e l'economia curtense, in La Storia cit., I, 1, p. 70 sgg.

‘’ °* * ‘©

Epistola Sermone Epistola Epistola

IV, in P.L., 134, col. 106A. III, in op. cit., coll. 835D-838A. II, in op. cit., col. 104A-C. III, in op. cit., col. 104D.

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E CULTURA

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X

135

coloro che li seguono: la presenza di pseudoprofeti è ricorrente per tutto l’alto medioevo!” ed è in rapporto con il peggioramento delle

condizioni materiali d’esistenza delle masse contadine!”.

Il peggioramento delle condizioni di vita dei rustici può derivare dalla generale situazione sociale e politica, ma anche da direzioni meno scontate. Nello stesso sermone «in festo octavae Domini» in cui critica le credenze astrologiche dei contadini, Attone condanna con forza le usanze delle calende di gennaio, soprattutto quella di

non accogliere nessuno in casa che non sia carico di doni'’. Un

passaggio del testo rivela a quale livello sociale fosse in uso questo antico costume: «melius tibi esset in domo tua Christum in hospitem suscipere vel pauperes, quam rusticos a te tuisque oppressos atque sic instructos, apophoreta vel oenophora baiulantes»'!°*. Faresti meglio — scrive il vescovo rivolgendosi a uno di coloro che poco prima

ha definito «falsi Christiani»'” — ad accogliere in casa i poveri piuttosto di pretendere che vengano con regali e vino i rustici da te e dai tuoi oppressi e così istruiti: dove «tuis» sembra indicare elementi subordinati ma comunque integrati in un ceto che oltre ai consueti mezzi di oppressione usa i riti d’inizio d’anno come occasione “be-

naugurale” di sfruttamento". E che questa sia la tendenza della !" Cfr. C. Lavarra, «Pseudochristi» e «pseudoprophetae» nella Gallia merovingia, in «Quaderni medievali»,

13 (1982), pp. 6-43.

'’2 J. Le Goff, I contadini e il mondo rurale nella letteratura dell’alto medioevo (secoli V e VI), in Id., Tempo della Chiesa cit., p. 111: «La classe contadina è nell’alto medioevo la classe pericolosa. (...) È soprattutto nella massa contadina che si reclutano gli pseudo-prophetae, sobillatori religiosi e popolari, e i loro adepti. E dal mondo contadino che sorgono quegli Anticristi, la figura e l’attività dei quali si precisano in quest’epoca in cui le calamità e il peggioramento delle condizioni fondamentali di sussistenza alimentano un’ondata apocalittica e millenaristica» (il riferimento è alla peste del secolo VI). Ma si veda anche, in questo volume, San Michele della Chiusa, par. I, per l’uso strumentale e culturalmente riduttivo della designazione rusticus.

!°? Cfr. Cesarii Arelatensis

Opera, I/2: Sermones cit., sermoni

CXCII

e CXCIII, pp.

779-786, anche per ciò che riguarda l’usanza di mascherarsi per le calende di gennaio: il

significato della metamorfosi animalesca — la «vetula» di cui parla Cesario è infatti non una vecchia ma una giovenca — è stato spiegato da Ginzburg, Storia notturna cit., p. 161 sgg.

!'% Sermone III, in P.L., 134, col. 836A. ! Op. cit., col. 835D. ‘°° Secondo H. C. Peyer, Viaggiare nel medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Roma Bari 1990, il brano allude al fatto che i contadini «quando erano ospitati nella città sede di mercato, dovevano versare al padrone di casa un compenso in natura» (p. 85 e si veda anche p. 53). L’interpretazione di una interessata ospitalità cittadina prescinde tuttavia dall’occasione del sermone, l’uso delle strenae per le calende di gennaio, e non ha agganci testuali se non intendendo «a te tuisque» come riferito agli abitanti di Vercelli. Ma l’uso del pronome possessivo ha, in testi coevi, un significato diverso: quando si parla, in relazione a un personaggio, dei “suoi”, il termine sottinteso è spesso «milites», in quanto il significato essenziale dell’essere «miles» è contenuto, nel pieno secolo X, nella nozione di appartenenza

CONTEMPLARE L’ORDINE

136

classe che si va definendo attraverso il radicamento territoriale e il controllo dei rustici, è detto dal vescovo nello stesso sermone. Il diavolo, scrive Attone, conosce le debolezze di ogni categoria di uomini e da quel versante li insidia: «sicut enim potentibus rapinam (...), sic stultis et rusticis incredulitatis vulnus obdurat, superstitionum venena diffundit, usus defendit, duritiam muniv!” In quest’ultimo brano è dunque istituita una corrispondenza tra due propensioni avvertite quasi come naturali: quella dei potenti a

impadronirsi con la forza dei beni altrui" — in questo senso serve

anche il capodanno — e quella dei contadini a trovare sollievo dalle condizioni materiali d’esistenza nel rapporto con forze soprannaturali e magiche". Gli elementi di differenziazione interna ai vu/gares che si sono potuti identificare fanno intravvedere tensioni e conflitti sociali anche sul terreno dei riti condannati da Attone. E a proposito delle usanze oggetto dell’attenzione del vescovo e degli scambi tra cultura dotta e cultura folklorica fin qui indagati in termini di analisi della situazione comunicativa, resta da affrontare un ultimo punto di vista,

quello di Attone, e vedere quale sia l’immagine cultura folklorica che egli mostra di avere.

complessiva

della

4. Sermoni e lettere attoniani presentano un’ampia varietà tipologica di comportamenti eterodossi. Se teniamo come guida la nozione di superstitio alcuni di questi comportamenti, ad esempio il rifiuto del lavoro il venerdì o il dare credito a falsi profeti, sfuggono a una classificazione unitaria e si può essere indotti a non notare nelle lettere e nei sermoni un’altra parola. Si tratta di error. Attone usa questo termine in molti contesti: rivolgendosi a chi sfrutta i rustici anche in occasione delle calende di gennaio («o infidelis et erronee.

melius tibi esset...»)!!°, alludendo nello stesso sermone ai nomi di origine pagana dei mesi («qui error in tantum frequentando crevit, ut a un qualche signore. Ho dimostrato questo dato nell’analisi delle occorrenze di aggettivi e pronomi possessivi nelle opere di Liutprando di Cremona, e mi sembra che in questo sermone attoniano il significato di «tuis» sia analogo: G. Gandino, Il vocabolario politico e sociale di Liutprando di Cremona,

Roma

1995

(Nuovi

studi storici, 27), pp.

143-148.

!©” Sermone III, in P.L., 134, col. 837C. ‘°* Sul tema tradizionale della protezione ecclesiastica dei pauperes dalle violenze dei potentes cfr. J. Chélini, Les laics dans la société ecclésiastique carolingienne, in I laici nella

“societas Christiana” dei secoli XI e XII. Atti della III Settimana internazionale di studio, Milano 1968 (Miscellanea del Centro di studi medioevali, 5), p. 40 sgg. ‘°° In generale, sul modo di sentire e di vivere di quegli uomini, V. Fumagalli, Quando il cielo s’oscura. Modi di vita nel medioevo, Bologna 1987.

!!° Sermone

III, in P.L., 134, col. 836A.

CULTURA

pene

DOTTA

ab omnibus

E CULTURA

coleretur

FOLKLORICA

A VERCELLI

subversis.

NEL

SECOLO

X

Et inde esse existimo

137

quod

hodieque durat in rusticis»)''', invitando a sorvegliare le meretriculae («unusquisque saltem domum suam a talibus purget erroribus»; «abstergamus errores, cunctas haereses repetlamus»)!!, condannando i seguaci dei falsi profeti («eosque, heu miserrimi! diabolico errore decepti, prophetas nominetis»)!!’, denunciando l’osservanza di un nuovo giorno di riposo («igitur audivimus inter vos novum quendam

surrexisse erroremi»)!!*. Queste attestazioni marcano l’esistenza di una percezione unitaria delle diverse usanze: la nozione di error costituisce il connettivo di esperienze di vario contenuto, accomunate dal significato di devianza dalla giusta strada, di «rifiuto di vedere

il mondo

come

intelligibi-

le»''°. Per Attone, come per molti suoi predecessori, intelligibile è il mondo letto attraverso la Scrittura, la sola che dia il giusto significato

a ciò che circonda l’uomo‘. Non a caso allora la condanna del venerdì come giorno in cui si ricorda la passione di Cristo astenendosi dal lavoro è posta sotto il segno della pazzia: «demens est» dice il vescovo, che si celebri quel giorno come festivo; «fugite, ergo, fratres, ab hac stultitia», prosegue Attone, chiudendo infine la lettera con un’immagine di ciarliera scempiaggine (il venerdì è meglio lavorare

«quam otiosis manibus sedens inanes fabulas garrulo ore iactare»)!!”. Attribuire mancanza di significato non è il solo modo per giudicare esperienze eterodosse: un altro è riconoscere loro un significato,

ma di segno negativo‘. In questo senso l’esempio più rilevante è la lettera sui falsi profeti. Vi è qui un’accumulazione

semantica

che

sian Opaicit. col 4830. !!? Sermone XIII, in op. cit, col. 851A-B. 113

Epistola III, in op. cit., col. 104D.

!!* Epistola IV, in op. cit., col. 105B-C. !!5 P. Brown, La società e il sacro nella tarda antichità, Torino 1988, p. 185 sg., nel quadro della distinzione tra rusticitas e reverentia in Gregorio di Tours: «la reverentia variava secondo un ampio spettro. Questo spettro poteva essere visto come tante forme diverse di etichetta verso il soprannaturale, che davano struttura alla vita, all’esperienza e agli avvenimenti di cui serbava ricordo. La sua naturale antitesi era la rusticitas, che si rende bene con “rozzezza”, “sciatteria”, cioè l’incapacità, o l’esplicito rifiuto, di strutturare la vita in termini di relazioni con specifici punti di riferimento soprannaturali».

116 I ’esistenza storica di un sistema letterario di rappresentazione del mondo entro le coordinate offerte dalla Scrittura è oggetto dell’analisi di N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino 1986. ;

!!” Epistola IV, in P.L., 134, coll. 105D-106A. 118 Sulle due tipologie oppositive (ordinato/non ordinato, corretto/errato) che segnano la

percezione della diversità cfr. J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Semiotica e cultura, Milano Napoli 1975, pp. 76-79.

CONTEMPLARE

13 8

L’ORDINE

costruisce un clima di grande pericolo e totale condanna:

«gravissi-

mum est», «subvertere a via veritatis», «in perniciem perducant», «falsa defendentibus», «heu miserrimi», «diabolico errore», «si quis vestrum

(...) nefas perpetraverit, sciat se omnimodis damnandum»,

«superbia

inflatus», «ab ecclesiae liminibus pellendum et a sancta communione extraneum», «omnibusque fidelibus abominandum», «tali abominatione». L’errore è credere al grande mentitore, scegliere il male assoluto invece del bene e della salvezza che dalla chiesa promanano. La minaccia sociale costituita dai falsi profeti e dai loro seguaci assume il significato coerente del disegno diabolico. Tuttavia, la nozione di alterità per mancanza di significato op-

pure per significato di segno negativo non riassume in sé e risolve il rapporto di Attone con la cultura dei vu/gares: vi è pure, da parte del vescovo, il riconoscimento della sua dignità. Nel sermone «in festo octavae Domini» il vescovo parla delle stelle. I filosofi pagani, egli dice, attribuirono loro dei nomi e chiamarono ad esempio una costellazione «Arcton, id est Ursam»: «hoc nostri rustici plaustrum

denominaverunt»!°. Il caso dell’Orsa e del carro non è il solo. I primi dicono che un gruppo di stelle assomiglia a una testa di toro, i secondi a una gallina e ciò che gli antichi chiamano cintura di Orione, è chiamato dai contadini falcetto: «quod autem ipsi caput tauri asserunt, hoc etiam isti gallinam dicunt. Sed quod balteum

Orionis notant, hoc nostri falcem sectoriam clamant”'. E non si può dire, continua Attone, che questi ultimi siano gente inferiore, che crede a peggiori assurdità, perché anzi la loro designazione è spesso

più appropriata: «nec ideo inferiores hos diiudicet quisquam, quasi peius assimilaverint nefas (...), quod autem balteum Orionis dicitur, omnibus patet quia melius quasi falci sectoriae quam balteo assimila-

tun)! Il lessico quotidiano e in volgare dei rustici — anzi dei «nostri rustici», così li chiama affettuosamente Attone — è qui elevato a dignità concettuale e letteraria: non è sbagliato secondo il vescovo

acquisire elementi dell’altra cultura se questi sono fondati'’. Le 119

Epistola III, in P.L., 134, coll. 104C-105A. Sermone III, in op. cit., col. 836C-D. Op. cit., col. 836D.

° Op. cit., coll. 836D-837A. Non si tratta naturalmente di vedere qui la «capitolazione delle élites illuminate Chiesa cristiana di fronte ai modi di pensare che in precedenza erano diffusi soltanto “volgo”», effetto di un «modello a due piani» diffuso tra gli storici e identificato Brown, I/ culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983,

della tra il da P. p. 25

CULTURA

DOTTA

E CULTURA

FOLKLORICA

A VERCELLI

NEL

SECOLO

X

139

stelle, prosegue Attone, sono state create perché servano agli uomini, sulla terra: «Deus omnipotens sidera constituit in coelis ut hominibus deservirent in terris. Haec quidem caliginem temperant, distinctionem horarum insinuant, iterantibus vel navigantibus mundi partes designant. Sunt etiam quaedam in quibus imbrium tranquillitatumve tempora aliquando prospicere possumus»'“. La premessa della creazione divina al servizio dell’uomo si stempera nell’idea dell’esistenza dell’uomo entro la natura. È giusto conoscere i significati del cosmo e leggere nella volta celeste i segni che indicano la strada da percorrere e l’avvicendarsi dei giorni e delle stagioni: anche Attone, come i rustici

e le meretriculae,

osserva

talvolta

le stelle.

sgg. Sul problema della dialettica tra diverse culture cfr., per l’età moderna, Science, Culture and Popular Belief in Renaissance Europe, a cura di S. Pumfrey, P. L. Rossi, M. Slawinski, Manchester 1991.

124 Sermone III, in P.L., 134, col. 837A.

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