Conferenze di Brema e Friburgo 8845916871, 9788845916878

Convinto che il sistema della tecnica non dipenda da una macchinazione dell'uomo né da una sua consapevole malvagit

174 90 1MB

Italian Pages 226 [203] Year 2002

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Indice......Page 2
Frontespizio......Page 3
CONFERENZE DI BREMA E FRIBURGO......Page 5
Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana......Page 6
Sguardo in ciò che è - Conferenze di Brema del 1949......Page 12
L’indicazione......Page 13
La cosa......Page 15
Appendice......Page 33
L’impianto......Page 35
Il pericolo......Page 58
La svolta......Page 81
Princìpi del pensiero - Conferenze di Friburgo del 1957......Page 92
Prima conferenza......Page 93
Seconda conferenza e riepilogo della prima conferenza......Page 108
Terza conferenza il principio di identità......Page 128
Quarta conferenza......Page 144
Quinta conferenza......Page 167
Nota della Curatrice dell’edizione tedesca......Page 190
Recommend Papers

Conferenze di Brema e Friburgo
 8845916871, 9788845916878

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Table of Contents Frontespizio Colophon CONFERENZE DI BREMA E FRIBURGO Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana Sguardo in ciò che è - Conferenze di Brema del 1949 L’indicazione La cosa Appendice L’impianto Il pericolo La svolta Princìpi del pensiero - Conferenze di Friburgo del 1957 Prima conferenza Seconda conferenza e riepilogo della prima conferenza Terza conferenza il principio di identità Quarta conferenza Quinta conferenza Nota della Curatrice dell’edizione tedesca

Martin Heidegger CONFERENZE DI BREMA E FRIBURGO A cura di Petra Jaeger Edizione italiana a cura di Franco Volpi Traduzione di Giovanni Gurisatti

Adelphi eBook

TITOLO ORIGINALE:

Bremer und Freiburger Vorträge 1. Einbkick nin das was ist 2. Grundsätze des Denkens

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2019 © 1994 VITTORIO KLOSTERMANN FRANKFURT AM MAIN © 2002 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-8073-2

CONFERENZE DI BREMA E FRIBURGO

AVVERTENZA DEL CURATORE DELL’EDIZIONE ITALIANA Il presente volume raccoglie i testi di due celebri cicli di conferenze tenuti da Heidegger a Brema nel 1949 e a Friburgo nel 1957, il primo incentrato sulla questione della tecnica intesa quale chiave essenziale per la comprensione del mondo odierno, il secondo dedicato a una problematizzazione dei tradizionali princìpi della logica. In merito al contenuto delle conferenze la parola va lasciata ovviamente a Heidegger. Qui è sufficiente ricordare che nella prima serie – all’indomani del secondo conflitto mondiale, dopo la crisi in cui era precipitato in seguito alla condanna per l’impegno nazionalsocialista del 1933 e dalla quale stava uscendo –1 Heidegger presenta le ragioni filosofiche per le quali si sente in dovere di lanciare l’allarme e reclamare una comprensione adeguata del fenomeno della tecnica. All’epoca egli fu tra i primi a riflettere sulla singolare circostanza che l’uomo d’oggi si mostra tanto abile nel costruire fabbriche e capannoni industriali, ma è apparentemente incapace di innalzare un tempio, un palazzo o una chiesa. Da dove trae origine questa palese sproporzione tra la potenza tecnica a sua disposizione e l’altrettanto evidente miseria spirituale in cui è decaduto? La tecnica – che sopperisce al carattere difettoso della natura umana, che prolunga la vita e lenisce il dolore, che abbrevia il tempo e accorcia lo spazio, che aumenta a dismisura la capacità di intervento dell’uomo e gli assicura un benessere impensabile fino a poco tempo fa – sembra avere impoverito la realtà umana nella sua componente spirituale. Essa ha portato ovunque non solo conquiste, ma anche fenomeni di degrado e decadenza. Anziché promuovere la realizzazione dell’uomo, ne minaccia il mondo naturale e culturale e lo depaupera delle sue risorse simboliche. Convinto che il sistema della tecnica non dipenda da una macchinazione dell’uomo né da una sua voluta malvagità, Heidegger ritiene che oggi «ciò che è veramente inquietante non è il fatto che il mondo diventi un mondo completamente tecnico. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non sia

affatto preparato a questa trasformazione del mondo».2 E soprattutto ritiene che il sistema della tecnica non sia sussumibile o governabile sotto una forma politica piuttosto che un’altra: «Il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza, storicamente determinante, non può essere affatto sopravvalutata. È per me oggi un problema decisivo come si possa assegnare un sistema politico – e quale – all’età della tecnica».3 Ecco perché Heidegger si affanna a cercare le remote radici del moderno sistema della tecnica nella storia stessa dell’essere e nella singolare dinamica del suo darsi e sottrarsi all’uomo. Ed ecco perché nel destino epocale della tecnica egli vede non soltanto un pericolo ma anche la possibilità di un altro inizio della storia. In questo senso, come canta Hölderlin, e come egli ci rammenta, «dove però è il pericolo, / anche ciò che salva cresce» (si veda sotto, p. 102). Questo avvicinarsi alle risorse simboliche del pensiero poetante, che Heidegger ha perseguito dopo la scoperta di Hölderlin, e in modo particolare nell’ultima fase della sua speculazione, rende indispensabile una riflessione approfondita sulla natura del pensiero e delle sue leggi. Che cosa significa pensare? E quali princìpi vanno seguiti nel farlo? È il tema svolto nel secondo ciclo di conferenze. Attraverso una vertiginosa messa in questione dei princìpi logici fondamentali sui quali si basa il pensiero corretto – il principio di identità, quello di non contraddizione e quello del terzo escluso – Heidegger si affanna a mostrare come questi non poggino affatto su un fondamento incontrovertibile, ma, all’opposto, se dovutamente problematizzati, aprano un abisso sopra il quale il pensiero è chiamato a librarsi con un coraggioso Grund-Satz, un «salto fondamentale» – come Heidegger suggerisce di intendere tale termine, che di solito in tedesco significa «principio». Motivo, questo, che egli svolge ulteriormente nel coevo Der Satz vom Grund [Il principio di ragione, 1957] che contiene il

corso universitario del semestre invernale 1955/56 e una conferenza tenuta al Club di Brema il 24 ottobre 1956. Prima di lasciare la parola a Heidegger, è opportuno richiamare l’attenzione sullo statuto del discorso svolto nelle presenti conferenze. Si tratta infatti di capire a quale livello di comunicazione esse si collochino. Ora, la modalità comunicativa della conferenza non è scelta a caso. In alcuni appunti relativi alla propria opera inedita e alla sua conservazione, Heidegger sembra distinguere diversi livelli di «comunicazione pubblica» del suo pensiero, quindi differenti gradi di iniziazione lungo il cammino esoterico da seguire per arrivare al suo cuore.4 Se ne può verosimilmente ricavare che la grande questione filosofica da lui rivendicata come propria, quella dell’essere, è elaborata e presentata su diversi piani: 1) nei corsi universitari (Vorlesungen), che secondo un intento protreptico e didattico la pongono e la spiegano attraverso il confronto con la tradizione della filosofia occidentale, specialmente greca e tedesca; 2) nelle conferenze pubbliche (Vorträge), che dosano con prudenza alcuni motivi della vera e propria meditazione di Heidegger sull’essere; 3) nei saggi (Aufsätze), che assumono, sia pure in forma abbreviata, il carattere della trattazione; 4) nei trattati (Abhandlungen), primo fra tutti i Beiträge zur Philosophie. Vom Ereignis (1936-1938) [Contributi alla filosofia. Dell’evento], che contengono lo svolgimento rigoroso del pensiero dell’essere. Ritenendo tuttavia che mancassero ancora le condizioni preliminari e la preparazione necessaria per entrare nel sacello del proprio pensiero, Heidegger tenne per sé questi trattati, destinandoli a una pubblicazione postuma. Alla luce di tale articolazione appare chiaro che le presenti conferenze – e così pure quelle pubblicate in Vorträge und Aufsätze (1954), alla lettera: Conferenze e saggi, titolo che in questa prospettiva acquista un senso più preciso – rappresentano una prima comunicazione pubblica

delle riflessioni sulla tecnica e sui princìpi del pensiero, che nei trattati Heidegger svolge in termini per così dire esoterici. Passando a questioni specifiche del presente volume, va richiamata l’attenzione su due problemi testuali che si incontrano, e che hanno importanti risvolti: sul piano speculativo nel primo caso, su quello politico nel secondo. Il primo problema riguarda gli espedienti grafici che Heidegger adotta per distinguere il proprio concetto di essere da quello pensato nella tradizione metafisica. È noto che fin dalla lettura giovanile della dissertazione di Franz Brentano Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles [Sul molteplice significato dell’ente secondo Aristotele, 1862] Heidegger si sforza di capire se, alla base della polisemia dell’ente, vi sia un significato unitario che regga tutti gli altri. Egli tende così a introdurre, fin dagli inizi, una differenza tra gli enti e l’essere, definita in seguito «differenza ontologica». A seconda del modo in cui nelle varie fasi del suo pensiero concepisce l’essere, egli assegna valenze di volta in volta diverse anche al concetto di differenza ontologica. Secondo una comunicazione orale riferita da Max Müller,5 Heidegger avrebbe inteso sviluppare una triplice differenza ontologica: 1) la transzendentale Differenz, ovvero differenza tra l’ente e il suo modo d’essere, la sua «enticità» (Seiendheit). È questa la differenza ontologica introdotta in Sein und Zeit, opera in cui Heidegger distingue tre fondamentali modalità d’essere dell’ente: anzitutto il Dasein, ossia l’«esserci», l’«esistenza», quale modo d’essere proprio dell’uomo; quindi la Zuhandenheit e la Vorhandenheit, cioè i due modi d’essere in cui si trovano le cose a seconda che l’uomo si rapporti a esse con un atteggiamento operativo-manipolante o semplicemente osservativo-constatativo; 2) la transzendenzhafte Differenz, cioè la differenza tra l’ente e la sua enticità, da un lato, e l’essere stesso, dall’altro. È questa una radicalizzazione del concetto di differenza ontologica attuata con la cosiddetta «svolta», cioè

con l’entrata in crisi dell’impianto filosofico di Sein und Zeit; 3) la transzendente Differenz, cioè la differenza tra ente, enticità ed essere, da un lato, e Dio, dall’altro. Ora, per sottolineare la diversità del proprio concetto di essere da quello della metafisica, Heidegger sperimenta – verosimilmente dal 1936 in poi – varie soluzioni grafiche. Nei Beiträge zur Philosophie adotta la grafia arcaica Seyn. Intende così segnalare che l’essere non va pensato alla stregua di un’ipostasi statica, come nella metafisica, bensì come un accadere, un Wesen inteso non nel senso di «essenza» o «entità» astratta, bensì come verbo (wesen è l’antica forma durativa di sein, rimasta nell’attuale participio gewesen). L’essere da pensare come Ereignis, termine che – come Heidegger spiega in una nota a margine del Brief über den «Humanismus» (1947) – indica l’«evento dell’appropriazione di essere e uomo» ed è «dal 1936 la parola-guida del mio pensiero».6 La grafia Seyn è mantenuta nei trattati inediti degli anni Quaranta, ma il primo testo pubblicato in cui Heidegger ne fa uso è a mio sapere Vom Wesen der Wahrheit [Dell’essenza della verità], risalente al 1930 ma edito nel 1943.7 Il capoverso in cui compare Seyn è stato però aggiunto nel 1949.8 Più tardi ancora, nel dialogo con Jünger Über die Linie [Oltre la linea, 1950, 1955], Heidegger introduce un’ulteriore sperimentazione grafica, cioè scrive il termine con una barratura a croce: . La barratura, segno di un perdurante imbarazzo filosofico, significa la cancellazione del senso tradizionale della parola, ma è nel contempo un’allusione al Geviert di cielo e terra, divini e mortali.9 Ebbene, il testo delle conferenze di Brema presenta un problema. Nel manoscritto autografo Heidegger adopera la grafia arcaica Seyn, ma non in modo coerente. Tanto che quando decise di pubblicare alcune delle conferenze di Brema in Vorträge und Aufsätze, rinunciò alla grafia Seyn adottando sempre quella comune Sein. Per la pubblicazione dell’intero ciclo nel vol. LXXIX della Gesamtausgabe, la Curatrice si è invece pedissequamente attenuta alla grafia

oscillante del manoscritto originale, anche là dove essa non aveva senso. Nella traduzione italiana, data l’impossibilità di rendere in maniera semplice ed efficace la distinzione tra Seyn e Sein, ci siamo attenuti alla semplificazione già voluta da Heidegger e abbiamo sempre tradotto con «essere». L’altro problema specifico da mettere in luce è relativo a un passo cruciale della seconda conferenza di Brema, quella sull’Impianto. Parlando dell’essenza della tecnica moderna Heidegger afferma: «L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso (das Selbe) della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno» (si veda sotto, pp. 4950; cfr. anche p. 83). L’affermazione, di per sé provocatoria, appare ancora più scandalosa se riportata all’epoca e al contesto in cui fu proferita: siamo all’indomani della seconda guerra mondiale, i processi di Norimberga si erano conclusi da poco, Heidegger era appena stato giudicato e condannato dalla Commission d’Épuration per il suo trascorso nazionalsocialista. Allorché nel 1954 egli pubblicherà il testo della conferenza in Vorträge und Aufsätze, espungerà prudentemente la frase. Naturalmente senza cambiare in nulla la sua convinzione di fondo. Sicché – quando comincerà a circolare la versione dattiloscritta originale della conferenza – il maldestro intervento gli sarà imputato come ambiguo tentativo di edulcorare o nascondere la sua impenitenza rispetto ai trascorsi politici del 1933. La presente edizione restituisce il testo nella sua integrità e lo affida così all’analisi critica e al giudizio storico che meritano di essere condotti finalmente sine ira et studio. La parola, ora, davvero a Heidegger.

SGUARDO IN CIÒ CHE È CONFERENZE DI BREMA DEL 1949

L’INDICAZIONE Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano. Oggi con l’aeroplano basta una notte di volo per raggiungere la stessa meta che in passato richiedeva settimane e mesi di viaggio. Attraverso la radio oggi si apprende ora per ora, all’istante, ciò di cui un tempo si aveva notizia soltanto dopo anni, se non addirittura mai. La ripresa cinematografica fa vedere adesso a tutti nell’arco di un minuto il germogliare e l’allignare delle piante che rimanevano celati nel corso delle stagioni. Il film mostra i luoghi remoti delle più antiche civiltà come se si trovassero proprio qui nel mezzo dell’odierno traffico stradale, e dà ulteriore prova di ciò che mostra facendoci vedere al tempo stesso la macchina da presa e gli operatori al lavoro. Il culmine dell’eliminazione di qualsiasi distanza è raggiunto dalla televisione, che presto attraverserà e dominerà tutta la rete e la ressa del traffico. Si percorrono i tragitti più lunghi nel tempo più breve. Si superano le più grandi distanze e così ci si rende tutto disponibile alla distanza minima. Sennonché, la precipitosa eliminazione di tutte le distanze non porta alcuna vicinanza, giacché la vicinanza non consiste nella minore distanza. Ciò che, grazie all’immagine cinematografica e al suono radiofonico, sta alla minima distanza da noi in termini spaziali, può rimanere per noi lontano. Ciò che, in termini spaziali, ci è infinitamente distante, può esserci vicino. Una piccola distanza non è già vicinanza. Una grande distanza (Entfernung) non è ancora lontananza (Ferne). Che cos’è la vicinanza, se rimane assente malgrado la riduzione dei tragitti più lunghi a distacchi (Abstände) più brevi? Che cos’è la vicinanza, se viene tenuta lontana perfino dall’incessante eliminazione delle distanze? Che cos’è la vicinanza, se con il suo rimanere assente viene a mancare anche la lontananza? Che cosa accade se con l’eliminazione delle grandi distanze ogni cosa si trova ugualmente lontana e vicina? Che cos’è questa uniformità in cui tutte le cose non sono né

lontane né vicine, e sono, per così dire, senza distacco (ohne Abstand)? Tutto si confonde nell’uniforme senza-distacco (das Abstandlose). Come? Questo compattarsi nel senza-distacco non è forse ancora più inquietante di un frantumarsi di tutto? Fissiamo attoniti ciò che potrebbe avvenire con l’esplosione della bomba atomica. Però non vediamo ciò che da lungo tempo è già avvenuto, ed è accaduto come ciò che produce da sé la bomba atomica e la sua esplosione ormai soltanto come suo ultimo scarto, per tacere di quella bomba all’idrogeno la cui sola carica d’innesco, intesa nella sua possibilità più ampia, sarebbe sufficiente a cancellare ogni forma di vita sulla terra. Che cosa aspetta ancora questa paura sgomenta, se il terrificante (das Entsetzliche) è già accaduto? Il terrificante è quello che pone fuori dalla sua essenza precedente tutto ciò che è. Che cos’è questo terrificante? Esso si mostra e si cela nel modo in cui ogni cosa è presente, nel fatto cioè che, malgrado ogni superamento delle distanze, la vicinanza di ciò che è rimane assente.

LA COSA Che ne è della vicinanza? Come possiamo esperire la sua essenza? La vicinanza, così sembra, non si lascia trovare immediatamente lì dinanzi. È più probabile che la troviamo se ci poniamo sulle tracce di ciò che è nella vicinanza. Per noi, nella vicinanza è ciò che siamo soliti chiamare cose. Ma che cos’è una cosa (Ding)? Da quanto tempo l’uomo ha considerato e interrogato le cose, in quanti modi diversi le ha usate e ne ha certo anche abusato? Con quanta efficacia egli ha poi spiegato le cose in base a tali scopi, ossia le ha ricondotte alle loro cause? È da molto tempo che l’uomo procede in questo modo con le cose, e continua a farlo, senza tuttavia mai pensare a fondo la cosa in quanto cosa. Finora l’uomo non ha pensato a fondo la cosa in quanto cosa e altrettanto poco ha pensato la vicinanza. Una cosa è la brocca. Che cos’è la brocca? Rispondiamo: è un recipiente, qualcosa che accoglie in sé qualcos’altro. Ciò che nella brocca accoglie sono il fondo e la parete. A sua volta, questo accogliente può essere afferrato per l’ansa. In quanto recipiente la brocca è qualcosa che sta in sé. Lo stare in sé caratterizza la brocca come qualcosa di autonomo. In quanto autonomia di qualcosa di autonomo la brocca si distingue da un oggetto (Gegenstand). Qualcosa di autonomo può diventare oggetto se ce lo poniamo dinanzi (vor uns stellen), sia nella percezione immediata sia nella rievocazione tramite il ricordo. Tuttavia, la cosalità (das Dinghafte) della cosa non riposa sul fatto che una cosa diventi oggetto di un rappresentare (vorstellen), né la cosalità di una cosa si lascia in genere determinare in base all’oggettualità dell’oggetto, nemmeno quando non addebitiamo lo stare di fronte (das Gegenstehen) dell’oggetto semplicemente al nostro rappresentare, bensì lo rimettiamo all’oggetto stesso come sua faccenda. La brocca rimane recipiente, che la rappresentiamo oppure no. In quanto recipiente la brocca sta in sé. Ma che cosa significa che l’accogliente sta in sé? Forse che lo stare in sé del recipiente definisce già la brocca come una cosa? In

verità, la brocca sussiste come recipiente solo nella misura in cui viene fatta stare. Questo certamente è accaduto e accade in virtù di un porre (stellen), ossia mediante il produrre (herstellen). Il vasaio fabbrica la brocca di terracotta con la terra appositamente scelta e preparata allo scopo. La brocca consiste di terra. In virtù di ciò di cui consiste, essa può anche stare sulla terra, sia direttamente, sia mediante il tavolo e il banco di lavoro. Ciò che sussiste in virtù di tale produrre è ciò che sta in sé. Se intendiamo la brocca come recipiente prodotto, allora – così sembra – la concepiamo pur sempre come una cosa e non già come mero oggetto. O non continuiamo forse anche adesso a intendere la brocca come un oggetto? Non v’è dubbio. Certo essa non vale più solo come oggetto del mero rappresentare, eppure è ugualmente un oggetto che un produrre fornisce, produce, ci pone di fronte e ci contrappone. Lo stare in sé sembrava caratterizzare la brocca in quanto cosa. In verità però noi pensiamo lo stare in sé in base al produrre. Lo stare in sé è ciò a cui il produrre mira. Lo stare in sé, quindi, continua ancora e nonostante tutto a essere pensato partendo dall’oggettualità, anche se lo stare di fronte di ciò che è prodotto non si fonda più sul mero rappresentare. Nondimeno, non c’è alcuna via che, dall’oggettualità dell’oggetto e di ciò che sta da sé (Selbststand), conduca alla cosalità della cosa. Che cos’è il cosale (das Dingliche) della cosa? Che cos’è la cosa in sé? Alla cosa in sé giungiamo soltanto se prima il nostro pensiero ha già raggiunto la cosa in quanto cosa. La brocca è una cosa in quanto recipiente. È vero che questo accogliente ha bisogno di una produzione, però l’essere prodotta per mano del vasaio non costituisce ciò che è proprio della brocca intanto in quanto è brocca. La brocca non è recipiente perché è stata prodotta, bensì ha dovuto essere prodotta perché è questo recipiente. Non c’è dubbio che la produzione faccia finire la brocca in ciò che le è proprio, sennonché questo proprio dell’essere

essenzialmente brocca (das Krugwesen) non è mai fabbricato dalla produzione. Una volta staccata dalla fabbricazione, la brocca si è riunita (versammelt) nell’accogliere. Nel processo della produzione la brocca deve certo mostrare in anticipo il suo aspetto (Aussehen) al produttore, però questo qualcosa che si mostra, l’aspetto (l’εἶδoς, l’ἰδέα), contrassegna la brocca unicamente nel senso che il recipiente sta di contro al produrre come ciò che è da produrre. Tuttavia, che cosa sia il recipiente con questo aspetto in quanto brocca, che cosa sia e come sia la brocca in quanto questa cosa-brocca (Krugding), non può mai essere esperito e tantomeno pensato in termini adeguati guardando all’aspetto, all’ἰδέα. Perciò Platone, che rappresenta la presenza di ciò che è presente partendo dall’aspetto, non ha pensato l’essenza della cosa così come non l’hanno pensata Aristotele e tutti i pensatori successivi. Anzi, Platone, e in modo determinante per la posterità, ha esperito tutto ciò che è presente come oggetto di colui che produce. Anziché «oggetto», «ciò che sta di fronte» (Gegenstand), diciamo quindi più precisamente «prodotto», «ciò che è venuto a stare» (Herstand). Nella piena essenza del pro-dotto (Herstand) domina un duplice «venire a stare» (herstehen): da un lato il venire a stare nel senso del «provenire da» (herstammen aus), sia esso un prodursi (sich hervorbringen) o un essere prodotto (hergestelltwerden); dall’altro il venire a stare nel senso dell’«entrare a stare» (hereinstehen) di ciò che è stato prodotto nella svelatezza (Unverborgenheit) di ciò che è già presente. Nessuna rappresentazione di ciò che è presente nel senso di ciò che è prodotto (das Herständige) e di ciò che è oggettivo (das Gegenständige) giunge tuttavia mai alla cosa in quanto cosa. La cosalità della brocca riposa sul fatto che essa è in quanto recipiente. Noi ci accorgiamo del carattere accogliente del recipiente quando riempiamo la brocca. Il suo fondo e la sua parete si incaricano manifestamente di accogliere. Attenzione però! Quando riempiamo di vino la

brocca, versiamo forse il vino nella parete e nel fondo? Tutt’al più lo versiamo fra le pareti sul fondo. Non c’è dubbio che la parete e il fondo siano ciò che il recipiente ha di impermeabile, sennonché l’impermeabile non è ancora l’accogliente. Quando riempiamo la brocca fino all’orlo, nell’operazione di riempimento il versato (Guß) fluisce nella brocca vuota. Il vuoto è l’accogliente del recipiente. Il vuoto, questo niente della brocca, è ciò che la brocca è in quanto recipiente che accoglie. Eppure la brocca consiste di parete e fondo. In virtù di ciò di cui consiste, la brocca sta diritta. Che mai sarebbe una brocca che non stesse diritta? Perlomeno una brocca malriuscita, dunque pur sempre brocca, ma tale che, pur accogliendo, lascerebbe tuttavia svuotarsi il recipiente cadendo costantemente a terra. Però solo un recipiente può svuotarsi. La parete e il fondo di cui la brocca consiste, e grazie a cui sta diritta, non sono ciò che propriamente accoglie. Se però questo accogliente riposa sul vuoto della brocca, allora il vasaio, che modella la parete e il fondo sul tornio, in senso proprio non fabbrica la brocca, bensì si limita a dare forma all’argilla. Anzi, dà forma al vuoto. Per esso, in esso e in base a esso egli modella l’argilla realizzando il manufatto. Il vasaio coglie sempre e anzitutto l’incoglibile del vuoto e lo realizza come ciò che accoglie nella forma del recipiente. Il vuoto della brocca determina ogni mossa del produrre. La cosalità del recipiente non riposa affatto sul materiale di cui consiste, bensì sul vuoto che accoglie. Ma la brocca è davvero vuota? La scienza fisica ci assicura che la brocca è piena d’aria e di quanto ne costituisce la miscela. Richiamandoci al vuoto della brocca ci siamo lasciati trarre in inganno da un modo per così dire poetico di considerare le cose. Non appena però acconsentiamo a indagare scientificamente la brocca reale guardando alla sua realtà, emerge uno stato di cose diverso. Quando versiamo il vino nella brocca, l’aria che già la riempie è solamente scacciata

e sostituita da un liquido. Dal punto di vista scientifico, riempire la brocca significa rimpiazzare un contenuto con un altro. Queste indicazioni della fisica sono corrette. Con esse la scienza rappresenta qualcosa di reale a cui si conforma in termini obiettivi. Ma questo qualcosa di reale è davvero la brocca? No. La scienza coglie sempre e soltanto ciò che il suo modo di rappresentare ha anticipatamente ammesso come l’oggetto per essa possibile. Si dice che il sapere della scienza è cogente. Certo. Ma in che cosa consiste il suo carattere cogente? Nel nostro caso nel costringerci ad abbandonare la brocca colma di vino e a sostituirla con uno spazio cavo in cui si espande un liquido. La scienza trasforma la cosa-brocca in qualcosa di nullo, in quanto non ammette che ciò che dà la misura (das Maßgebende) siano le cose. Il sapere della scienza, cogente nel suo ambito – quello degli oggetti –, ha annientato le cose in quanto cose ben prima che esplodesse la bomba atomica, la cui deflagrazione è solo la più rozza di tutte le rozze conferme di un annientamento della cosa già accaduto da molto tempo, la conferma cioè che la cosa in quanto cosa rimane nulla (nichtig). L’annientamento è così inquietante proprio perché comporta un duplice abbaglio: da un lato la convinzione che la scienza colga il reale nella sua realtà precedendo ogni altro tipo di esperienza; dall’altro l’illusione che, malgrado l’indagine scientifica della realtà, le cose possano essere ugualmente cose, nel presupposto che esse siano già sempre state cose essenti in modo essenziale. Se tuttavia le cose si fossero già sempre mostrate in quanto cose, la cosità (Dingheit) della cosa si sarebbe manifestata, avrebbe reclamato il pensiero. In verità, però, la cosa in quanto cosa rimane interdetta, nulla, e in tal senso annientata. Ciò è accaduto e accade in modo talmente essenziale che le cose non solo non sono più ammesse in quanto cose, ma finora non hanno mai potuto apparire in quanto cose. A che cosa si deve il non apparire della cosa in quanto

cosa? Forse che l’uomo ha semplicemente trascurato di rappresentare la cosa in quanto cosa? L’uomo può trascurare soltanto ciò che gli è già assegnato. Egli può rappresentare, non importa in che modo, soltanto ciò che già da prima si è da sé aperto nella radura (gelichtet) e gli si è mostrato nella luce (Licht) che, così facendo, ha portato con sé. Ma che cos’è dunque la cosa in quanto cosa, perché la sua essenza non sia mai potuta apparire prima? Forse che la cosa non è mai giunta abbastanza nella vicinanza, cosicché l’uomo non ha ancora imparato a prestare sufficiente attenzione alla cosa in quanto cosa? Che cos’è la vicinanza? Lo abbiamo già domandato. Per esperirlo, abbiamo interrogato la brocca nella vicinanza. Su che cosa riposa il carattere di brocca (das Krughafte) della brocca? D’improvviso l’abbiamo perso di vista, nell’attimo in cui ci siamo illusi che la scienza potesse fornirci una spiegazione circa la realtà della brocca reale. Abbiamo rappresentato la parte fungente (das Wirkende) del recipiente, il suo elemento accogliente, il vuoto, come uno spazio cavo riempito d’aria. Questo è il vuoto pensato in termini reali, fisici, ma non il vuoto della brocca. Non abbiamo lasciato che il vuoto della brocca fosse il suo vuoto. Non abbiamo prestato attenzione a ciò che, nel recipiente, è l’elemento accogliente. Non abbiamo pensato a fondo il modo in cui l’accogliere stesso essenzialmente è. Era inevitabile quindi che dovesse sfuggirci anche ciò che la brocca accoglie. Per la rappresentazione scientifica il vino è diventato mero liquido, uno stato d’aggregazione delle sostanze generalmente possibile. Abbiamo trascurato di meditare su ciò che la brocca accoglie e su come essa accoglie. Come accoglie il vuoto della brocca? Accoglie prendendo ciò che vi è versato. Accoglie trattenendo ciò che ha preso. Il vuoto accoglie in modo duplice: prendendo e trattenendo. La parola «accogliere» è quindi ambigua. Tuttavia, il prendere ciò che è versato dentro e il trattenere in sé il versato fanno

tutt’uno. Nondimeno, la loro unità è determinata partendo dal versare fuori (ausgießen) cui la brocca in quanto brocca è destinata. Il duplice accogliere del vuoto riposa quindi sul versare fuori. In quanto è questo versare, l’accogliere è propriamente così com’è. Versare dalla brocca è mescere. Nell’atto di mescere il versato l’accogliere del recipiente è in modo essenziale. L’accogliere ha bisogno del vuoto in quanto elemento accogliente. L’essenza del vuoto accogliente è riunita nell’atto di mescere. Più ricco però del semplice mescere (ausschenken) è il donare (schenken). Il donare in cui la brocca è brocca riunisce in sé il duplice accogliere nell’atto di versare. Chiamiamo «catena montuosa» la riunione delle montagne. La riunione del duplice accogliere nell’atto di versare, che solo in quanto insieme costituisce la piena essenza del donare, la chiamiamo «il dono» (das Geschenk). Il carattere di brocca della brocca è essenzialmente nel dono di ciò che è versato. Anche la brocca vuota ottiene la sua essenza dal dono, sebbene una brocca vuota non consenta un versare fuori. Questo non consentire, tuttavia, è proprio della brocca e solo della brocca, mentre una falce o un martello sono incapaci di non consentire tale versare. Il dono di ciò che è versato può essere una bevanda. Vi sono acqua e vino da bere.10 Nell’acqua del dono permane la sorgente. Nella sorgente permangono la roccia e ogni oscuro sopore della terra che assorbe la pioggia e la rugiada del cielo. Nell’acqua della sorgente permane lo sposalizio di cielo e terra. Esso permane nel vino, che ci è offerto dal frutto della vite, in cui il nutrimento della terra e il sole del cielo sono affidati l’uno all’altro. Nel dono dell’acqua, nel dono del vino permangono di volta in volta il cielo e la terra. Ma il dono di ciò che è versato è il carattere di brocca della brocca. Nell’essenza della brocca permangono la terra e il cielo. Il dono di ciò che è versato è la bevanda per i mortali. Esso ristora la loro sete, conforta il loro ozio, allieta la loro compagnia. Talvolta però il dono della brocca è anche

donato per la consacrazione. Se il versato è destinato alla consacrazione, non spegne una sete, bensì placa la celebrazione della festività conferendole un tono solenne. In questo caso il dono di ciò che è versato non si mesce in una mescita, né è una bevanda per i mortali. Il versato è la bevanda offerta agli dèi immortali. Il dono di ciò che è versato come bevanda è il dono autentico. Nell’atto di mescere la bevanda consacrata la brocca che versa è essenzialmente in quanto dono donante. La bevanda consacrata è ciò che la parola tedesca Guß, il «versato», nomina in senso proprio: offerta e sacrificio. Guß, «versato», e gießen, «versare», corrispondono al greco χέέἰν e all’indogermanico ghu, che significano «sacrificare». Dove è attuato in modo essenziale, pensato a sufficienza e detto genuinamente, «versare» significa offrire, sacrificare e quindi donare. Solo per questo il versare, non appena la sua essenza si impoverisce, può trasformarsi in mero versare dentro e versare fuori, fino a corrompersi da ultimo nella mescita abituale. Tuttavia l’atto del versare non è il semplice rovesciare dentro e rovesciare fuori. Nel dono di ciò che è versato, che è una bevanda, permangono a modo loro i mortali. Nel dono di ciò che è versato, che è una bevanda, permangono a modo loro i divini, che ricevono il dono del mescere come dono dell’offerta. Nel dono di ciò che è versato permangono in modo ogni volta diverso i mortali e i divini. Nel dono di ciò che è versato permangono la terra e il cielo. Nel dono di ciò che è versato permangono insieme e nello stesso tempo la terra e il cielo, i divini e i mortali. Questi Quattro (die Vier), da sé uniti, coappartengono (gehören zusammen). Prevenendo tutto ciò che è presente, essi sono congiunti in un unico «insieme dei Quattro» (das Geviert). Nel dono di ciò che è versato permane la semplicità dei Quattro. Il dono di ciò che è versato è dono nella misura in cui fa permanere (verweilt) la terra e il cielo, i divini e i mortali. Tuttavia il far permanere, ora, non è più il mero persistere di

qualcosa di lì presente. Il far permanere fa avvenire (ereignet). Esso porta i Quattro nel rado (das Lichte) del loro proprio (das Eigene). In virtù della sua semplicità essi sono affidati l’uno all’altro. Uniti in tale reciprocità, essi sono svelati (unverborgen). Il dono di ciò che è versato fa permanere la semplicità dell’insieme dei Quattro. Nel dono la brocca in quanto brocca è essenzialmente. Il dono riunisce ciò che appartiene al donare: il duplice accogliere, l’elemento accogliente, il vuoto e il versare fuori in quanto offrire. Ciò che è riunito nel dono raccoglie se stesso nel far permanere l’insieme dei Quattro facendolo avvenire. Questo riunire semplice in modo molteplice è ciò che essenzialmente è (das Wesende) della brocca. La lingua tedesca nomina la riunione con un’antica parola che suona thing. L’essenza della brocca è in quanto riunione pura, donante del semplice insieme dei Quattro in una permanenza (Weile). La brocca è essenzialmente in quanto cosa. La brocca è la brocca in quanto è una cosa. In che modo però la cosa è essenzialmente? La cosa coseggia (das Ding dingt). Il coseggiare riunisce. Facendo avvenire l’insieme dei Quattro esso ne raccoglie la permanenza in qualcosa che rispettivamente permane (das je Weilige): in questa, in quella cosa. All’essenza della brocca esperita e pensata in questo modo diamo il nome di cosa. Pensiamo tale nome in base alla questione della cosa, ossia al coseggiare inteso come ciò che, riunendo e facendo avvenire, fa permanere l’insieme dei Quattro (das versammelnd-ereignende Verweilen des Gevierts). Al tempo stesso, però, rammentiamo l’antica parola altotedesca thing. Questo richiamo alla storia della lingua induce facilmente a fraintendere il modo in cui ora pensiamo l’essenza della cosa. Potrebbe infatti sembrare che l’essenza della cosa come la intendiamo ora sia per così dire estorta dal significato ripreso a caso dell’antico nome altotedesco thing. Sorge il sospetto che l’esperienza dell’essenza della cosa che stiamo tentando sia fondata sull’arbitrio di un giochetto etimologico. Si consolida e

diventa già corrente l’opinione che qui, anziché pensare a fondo la questione, ci si limiti a fare uso del vocabolario. Invece accade esattamente il contrario di ciò che si paventa. Certo l’antica parola altotedesca thing significa la riunione, e precisamente la riunione allo scopo di dibattere una questione in discussione, una controversia. Le antiche parole tedesche thing e dinc diventano quindi i nomi che stanno per Angelegenheit, «questione»; esse nominano qualsiasi cosa che in un modo o nell’altro riguardi l’uomo e sia dunque in discussione. Ciò che è in discussione (das in Rede Stehende) è detto dai Romani res; ῥέέἰν, ῥῆμα significa in greco «discorrere» (reden) di qualcosa, «discutere» di qualcosa; res publica non significa lo «Stato», bensì ciò che riguarda (angeht) palesemente ciascun appartenente al popolo e che perciò è discusso pubblicamente. È solo perché res significa «ciò che riguarda» (das Angehende) che si possono avere le locuzioni composte res adversae, res secundae, la prima riferita a ciò che riguarda l’uomo in modo avverso, la seconda a ciò che lo concerne favorevolmente. Nondimeno, i vocabolari traducono res adversae con «sfortuna» e res secundae con «fortuna», senza dire nulla di ciò che le parole significano se pronunciate come pensate. In verità, quindi, in questo come negli altri casi non si può dire che il nostro pensiero viva dell’etimologia, bensì che l’etimologia, insieme ai vocabolari, pensa ancora troppo poco. La parola romana res nomina ciò che riguarda l’uomo, la questione, il caso controverso, il caso (Fall). Allo stesso scopo i Romani adoperano anche la parola causa, che anzitutto e in senso proprio non significa affatto «causa» (Ursache); causa vuole dire il «caso», dunque anche il caso che qualcosa si verifichi e accada (fällig wird). Soltanto perché causa, che è quasi sinonimo di res, significa il «caso», la parola causa può in seguito assumere il significato di causa nel senso della causalità di un effetto. Le antiche parole altotedesche thing e dinc, con il loro significato di «riunione» finalizzata alla discussione di una questione, sono

adatte più di ogni altra a tradurre in modo adeguato la parola romana res, «ciò che riguarda». Ma da quella parola della lingua romana che, all’interno di quest’ultima, corrisponde11 alla parola res, ossia dalla parola causa nel significato di caso e questione, derivano il termine romanico la cosa e il francese la chose; noi Tedeschi diciamo: das Ding. In inglese il termine thing ha conservato fino a oggi la piena forza semantica della parola romana res: he knows his things, «si intende delle sue faccende (Sachen)», ossia di ciò che lo riguarda; he knows how to handle things, «sa come si devono trattare certe faccende», ossia ciò con cui si ha a che fare caso per caso; that’s a great thing, «è una grossa (delicata, grandiosa, magnifica) faccenda», ossia qualcosa che, giungendo da sé, riguarda l’uomo. Ora, però, ciò che è decisivo non è la storia qui brevemente accennata del significato delle parole res, Ding, causa, cosa e chose, thing, bensì qualcosa di completamente diverso e che finora non è stato affatto pensato a fondo. La parola romana res nomina ciò che in qualche modo riguarda l’uomo. Il riguardante è il reale della res. La realitas della res è esperita in termini romani come riguardo (Angang). Tuttavia i Romani non hanno mai pensato espressamente nella sua essenza ciò che in tal modo hanno esperito, anzi, in base all’assunzione della tarda filosofia greca, la romana realitas della res è rappresentata nel senso dell’ὄν greco; ὄν, in latino ens, significa ciò che è presente nel senso di ciò che è venuto a stare. La res diventa ens, ossia qualcosa di presente nel senso di ciò che è stato prodotto e rappresentato. La realitas peculiare della res originariamente esperita in termini romani, il riguardo, rimane sepolta in quanto essenza di ciò che è presente. All’opposto, nel periodo successivo, in particolare nel Medioevo, il nome res serve a indicare ogni ens qua ens, vale a dire tutto ciò che in qualche modo è presente, anche se viene a stare solo nel rappresentare ed è presente in quanto ens rationis. Ciò che accade con la parola res accade con il nome dinc corrispondente a res, giacché dinc significa tutto

ciò che in qualche modo è. Meister Eckhart utilizza infatti la parola dinc sia per Dio sia per l’anima. Per lui Dio è das hoehste und oberste dinc,12 «la cosa più alta e suprema». L’anima è ein grôz dinc,13 «una grande cosa». Con ciò questo maestro del pensiero non intende affatto dire che Dio e l’anima sarebbero qualcosa come un blocco di pietra, un oggetto materiale, poiché qui la parola dinc è il nome avveduto e misurato per qualcosa che in generale è. Dice infatti Meister Eckhart riprendendo un’affermazione di Dionigi Areopagita:14 die minne ist der natur, daz si den menschen wandelt in die dink, die er minnet,15 «l’amore è di tal natura che trasforma l’uomo nella cosa che ama». Poiché nell’uso linguistico della metafisica occidentale la parola «cosa» nomina ciò che in generale e in qualche modo è qualcosa, il significato del nome «cosa» muta in termini corrispondenti all’interpretazione di ciò che è, ossia dell’ente. Kant parla delle cose nello stesso modo di Meister Eckhart, intendendo con tale nome qualcosa che è. Tuttavia per Kant ciò che è diventa l’oggetto del rappresentare, che si svolge nell’autocoscienza dell’io umano. La cosa in sé significa per Kant l’oggetto in sé. Il carattere dell’«in sé» (das «Ansich») indica per Kant che l’oggetto in sé è oggetto senza la relazione al rappresentare umano, vale a dire senza il «di fronte» (das «Gegen») in virtù del quale esso anzitutto «sta» per questo rappresentare. Pensata in termini rigorosamente kantiani, la «cosa in sé» significa un oggetto che non è tale, poiché esso deve «stare» senza un possibile «di fronte» per il rappresentare umano che gli si contrappone. Tuttavia, né il significato generale da lungo tempo logorato del nome «cosa» che si impiega in filosofia, né quello dell’antica parola altotedesca thing ci offrono il minimo aiuto ora che ci troviamo nella necessità di esperire e di pensare in modo adeguato l’essenza reale di ciò che stiamo dicendo circa l’essenza della brocca. Viceversa, non c’è dubbio che un elemento semantico derivante dall’antico uso linguistico della parola thing, vale a dire «riunire»,

alluda all’essenza della brocca precedentemente pensata. La brocca è una cosa, però non nel senso della res intesa in termini romani, né in quello dell’ens rappresentato in termini medioevali o addirittura in quello dell’oggetto rappresentato nei termini dell’età moderna. La brocca è una cosa non in quanto oggetto, sia esso un oggetto del produrre o del mero rappresentare. La brocca è cosa in quanto coseggia. Soltanto in base al coseggiare della cosa avviene e si determina anche l’essere presente dell’ente-presente (das Anwesende) del genere della brocca. Oggi tutto ciò che è presente è ugualmente vicino e ugualmente lontano. Domina il senza-distacco. Nondimeno, ogni riduzione e ogni eliminazione delle distanze non apportano alcuna vicinanza. Che cos’è la vicinanza? Per trovare l’essenza della vicinanza abbiamo pensato a fondo la brocca nella vicinanza. Cercavamo l’essenza della vicinanza e abbiamo rinvenuto l’essenza della brocca in quanto cosa. Eppure in questo rinvenimento scorgiamo al tempo stesso l’essenza della vicinanza. La cosa coseggia. Coseggiando, essa fa permanere la terra e il cielo, i divini e i mortali. Facendo permanere, la cosa porta i Quattro nelle loro lontananze l’uno vicino all’altro. Questo portare vicino (nahebringen) è l’avvicinare (nähern). L’avvicinare è l’essenza della vicinanza. La vicinanza avvicina ciò che è lontano (das Ferne) proprio in quanto è il lontano. La vicinanza salvaguarda la lontananza (die Ferne). Salvaguardando la lontananza, la vicinanza è essenzialmente nel suo avvicinare. Avvicinando in tale maniera, la vicinanza cela se stessa e rimane a suo modo più che mai vicina. La cosa non è «nella» vicinanza come se questa fosse un contenitore. La vicinanza domina nell’avvicinare inteso come il coseggiare della cosa. Coseggiando, la cosa fa permanere i Quattro uniti – la terra e il cielo, i divini e i mortali – nella semplicità del loro insieme dei Quattro, da sé unito. La terra è ciò che sorregge costruendo e nutrendo fruttifica, custodendo l’acqua e la roccia, le piante e gli

animali. Quando diciamo terra, già pensiamo insieme – se pensiamo – gli altri Tre in base alla semplicità dei Quattro. Il cielo è il corso del sole, il moto della luna, lo splendore delle stelle, le stagioni dell’anno, la luce del giorno e il suo crepuscolo, l’oscurità e il chiarore della notte, il favore e l’inclemenza del tempo, il movimento delle nubi e la profondità azzurrina dell’etere. Quando diciamo cielo, già pensiamo insieme – se pensiamo – gli altri Tre in base alla semplicità dei Quattro. I divini sono i messaggeri della divinità che fanno cenno (winkend). In base al latente dominio di quest’ultima il dio appare nella sua essenza, che lo sottrae a ogni paragone con ciò che è presente. Quando nominiamo i divini, pensiamo insieme – se pensiamo – gli altri Tre in base alla semplicità dei Quattro. I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano «i mortali» perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte cela-salva (birgt) in sé ciò che dell’essere è essenzialmente. In quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora «i mortali» i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte in quanto morte. I mortali sono quelli che sono, come mortali, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il rapporto essenzialmente essente con l’essere in quanto essere. All’opposto, la metafisica rappresenta l’uomo come animal, essere vivente. Anche se la ratio domina totalmente l’animalitas, l’essere-uomo continua a essere definito in base alla vita e al vivere. Gli esseri viventi razionali debbono anzitutto diventare i mortali.

Quando diciamo «i mortali», pensiamo insieme – se pensiamo – gli altri Tre in base alla semplicità dei Quattro. La terra e il cielo, i divini e i mortali, da sé uniti, coappartengono nella semplicità dell’insieme unito dei Quattro. Ciascuno dei Quattro rispecchia a modo suo l’essenza degli altri, e nel far ciò ognuno si rispecchia a modo suo nel suo proprio in seno alla semplicità dei Quattro. Questo rispecchiare non è il raffigurare proprio di una copia (Abbild). Aprendo nella radura (lichtend) ciascuno dei Quattro, il rispecchiare fa avvenire la loro propria essenza nella semplice traspropriazione (Vereignung) reciproca. Rispecchiando in questo modo che apre nella radura e fa avvenire (ereignend-lichtend), ciascuno dei Quattro si passa (spielt sich zu) a ognuno degli altri. Il rispecchiare che fa avvenire libera ciascuno dei Quattro nel suo proprio, ma vincola i liberi nella semplicità della loro essenziale reciprocità. Il rispecchiare che vincola nell’aperto (das Freie) è il gioco (Spiel) che affida ciascuno dei Quattro a ogni altro in base al sostegno congiungente della traspropriazione. Nessuno dei Quattro si irrigidisce nella sua separata particolarità. Nella loro traspropriazione, ciascuno dei Quattro è espropriato (enteignet) trasformandosi in qualcosa di proprio. Questo traspropriare che espropria (enteignendes Vereignen) è il «gioco di specchi» (Spiegel-Spiel) dell’insieme dei Quattro. In base a esso la semplicità dei Quattro è conchiusa. Il gioco di specchi della semplicità di terra e cielo, divini e mortali, che fa avvenire, lo chiamiamo il «mondo» (Welt). Il mondo è essenzialmente in quanto mondeggia (weltet). Ciò significa che il mondeggiare del mondo non è né spiegabile mediante qualcos’altro, né fondabile in base a qualcos’altro. Questa impossibilità non è dovuta al fatto che il nostro pensiero umano sia incapace di un tale spiegare e fondare. L’inspiegabile e l’infondabile del mondeggiare del mondo dipendono piuttosto dal fatto che qualcosa come le cause e i fondamenti rimangono inadeguati al mondeggiare del

mondo. Non appena il conoscere umano esige qui una spiegazione, esso non va affatto oltre l’essenza del mondo, bensì cade al di sotto di essa. La volontà umana di spiegare non è assolutamente in grado di pervenire al semplice della semplicità del mondeggiare. I Quattro uniti sono già soffocati nella loro essenza se li si rappresenta solo come una realtà isolata che dev’essere fondata reciprocamente e spiegata separatamente. L’unità dell’insieme dei Quattro è la quadratura (Vierung). Tuttavia la quadratura non si presenta come ciò che recinge i Quattro e che, come recingente così inteso, si aggiunge loro soltanto in un secondo momento. Altrettanto poco la quadratura si esaurisce nel fatto che i Quattro, una volta lì presenti, si limitino a stare l’uno accanto all’altro. La quadratura è essenzialmente in quanto gioco di specchi dei semplicemente affidati l’uno all’altro, che fa avvenire. La quadratura è essenzialmente come mondeggiare del mondo. Il gioco di specchi del mondo è il girotondo (Reigen) del fare avvenire. È per questo che il girotondo non circonda i Quattro soltanto come un cerchio (Reif), giacché esso è il circolo (Ring) che circola (ringt) giocando in quanto specchiare. Facendo avvenire, esso apre nella radura i Quattro nello splendore della loro semplicità. Risplendendo, il circolo traspropria ovunque apertamente i Quattro nell’enigma della loro essenza. L’essenza raccolta del così circolante gioco di specchi del mondo è il giro (Gering). Nel giro del circolo che gioca e rispecchia, i Quattro si adattano nella loro essenza unita e tuttavia sempre propria. Così adattabili essi, mondeggiando docilmente, ordiscono il mondo. Adattabile, malleabile, duttile, docile, facile si dice nella nostra antica lingua tedesca ring e gering. In quanto giro del circolo, il gioco di specchi del mondo che mondeggia libera (entringt) i Quattro uniti nel docile che è loro proprio, nel semplice (das Ringe) della loro essenza. In base al gioco di specchi del giro del circolare avviene il coseggiare della cosa.

La cosa fa permanere l’insieme dei Quattro. La cosa coseggia mondo (das Ding dingt Welt). Ogni cosa fa permanere l’insieme dei Quattro in qualcosa che rispettivamente permane della semplicità del mondo. Quando lasciamo che la cosa sia essenzialmente nel suo coseggiare in base al mondo che mondeggia, allora pensiamo alla cosa in quanto cosa. Così «pensando a» (andenkend) lasciamo che l’essenza mondeggiante della cosa ci riguardi; così pensando siamo toccati dalla cosa in quanto cosa. Noi siamo nel senso rigoroso della parola i «condizionati dalla cosa» (die Be-Dingten). Ci siamo lasciati alle spalle l’arroganza di tutto ciò che è incondizionato. Quando pensiamo la cosa in quanto cosa preserviamo l’essenza della cosa entro l’ambito in base al quale essa essenzialmente è. Coseggiare è avvicinare il mondo. Avvicinare è l’essenza della vicinanza. Nella misura in cui preserviamo la cosa in quanto cosa, abitiamo la vicinanza. L’avvicinare della vicinanza è l’unica e autentica dimensione del gioco di specchi del mondo. Il rimanere assente della vicinanza pur nella generale eliminazione delle distanze ha portato al potere il senzadistacco. Nel rimanere assente della vicinanza la cosa resta annientata in quanto cosa nel senso che si è detto. Ma allora, quando e come le cose sono in quanto cose? Così domandiamo nel mezzo del dominio del senza-distacco. Quando e come giungono le cose in quanto cose? Esse non giungono in virtù delle macchinazioni dell’uomo; però non giungono neppure senza la vigilanza dei mortali. Il primo passo verso tale vigilanza è il passo indietro (Schritt zurück) dal pensiero esclusivamente rappresentativo, cioè esplicativo, al pensiero rammemorante (das andenkende Denken). Ovviamente, il passo indietro da un pensiero all’altro non è un mero cambiamento di atteggiamento, e non può mai esserlo già per il fatto che tutti gli atteggiamenti, comprese le modalità del loro cambiare, rimangono prigionieri nell’ambito del pensiero rappresentativo. Invece il passo

indietro abbandona del tutto l’ambito del mero atteggiarsi. Il passo indietro soggiorna in un corrispondere che, entro l’essenza del mondo chiamato da tale essenza, le risponde dal suo interno. Un mero cambiamento di atteggiamento non può nulla in merito all’avvento (Ankunft) della cosa in quanto cosa, così come in genere tutto ciò che ora, in quanto oggetto, sta nel senza-distacco, non si può mai semplicemente trasporre in cose. Inoltre, le cose non giungono mai in quanto cose neppure in virtù del fatto che ci limitiamo a evitare gli oggetti che ci stanno di fronte, rievocando entro di noi (er-innern) vecchi oggetti di un tempo, che forse in passato erano sulla via di diventare cose e anzi di essere presenti in quanto cose. Ciò che diventa cosa avviene in base al giro del gioco di specchi del mondo. Soltanto quando, presumibilmente in modo repentino, il mondo mondeggia in quanto mondo, risplende l’anello (Ring) in cui il giro di terra e cielo, divini e mortali si libera nel semplice della sua semplicità. Conformemente a tale giro (Gering), il coseggiare stesso è di poco conto (gering), e la cosa che rispettivamente permane è semplice (ring), modestamente docile alla sua essenza. Semplice è la cosa (ring ist das Ding): la brocca e il banco, il ponticello e l’aratro. Tuttavia anche l’albero e lo stagno, il ruscello e la montagna, a modo loro, sono cosa. Sono cose, a modo loro rispettivamente coseggiando, l’airone e il capriolo, il cavallo e il toro. Sono cose, a modo loro rispettivamente coseggiando, lo specchio e il fermaglio, il libro e il quadro, la corona e la croce. Semplici e di poco conto sono però le cose anche quanto al loro numero, se paragonato all’infinità degli oggetti ovunque equivalenti, oppure alla dismisura del carattere di massa dell’uomo inteso come essere vivente. Soltanto gli uomini come mortali abitano il mondo come mondo. Solo ciò che, in base al mondo, è di poco conto, diventerà un giorno cosa.

APPENDICE In merito alla conferenza sulla cosa (per il contesto) Quanto alla cosa e al mondo, rinviare alla differenzaseparazione (Unter-Schied). Cfr. la lettera a Reisner.16 Da tale differenza-separazione ritornare alla differenza (Differenz), e da quest’ultima alla dimenticanza (Vergessenheit) dell’essere. Come va pensata tale dimenticanza? (Ἀ-λήθεια). Rimane anche una dimenticanza – solo mutata dopo la svolta. Il velamento (Verbergung) e il salvamento (Bergung) autentici avvengono allora addirittura in base all’enigma (Ratsal) stesso? Il rapporto-sostenente (das Ver-Hältnis) per il mondo in riferimento alla cosa e la cosa in base al mondo. Il rapportosostenente fa avvenire nell’evento-appropriazione (ErEignis). La cosa qui è riferita al mondo (Welt); Welt / wer-alt.17 Accenno alla differenza. Non si tratta di una parola con un altro significato, bensì di un’altra questione. Il rammemorare (andenken) è un pensiero che riporta (nach-holend); ri-portare – portare nella vicinanza. La differenza-separazione Da essa in quanto compagine dell’essere (Fuge des Seyns) – ogni combinazione del dire (Fügung der Sage) – ogni rigore della combinazione. Cosa Come tutto è presente. – Essere presente – έἰναἰ. Come «è» ogni cosa? Che ne è di questo «è»? Coseggiano le cose? Le cose sono in quanto cose? – oppure sono solo in quanto oggetti? E gli oggetti – come stanno (stehen)? Di che genere sono il loro stato (Stand) e la loro costanza (Ständigkeit)? – stanno forse in quanto sussistenza (Bestand)? Le cose sono svanite, se ne sono andate – dove? Che cosa è posto (gestellt) al loro posto (Stelle)? Le cose sono in quanto da lungo tempo svanite, eppure finora non sono mai state in quanto cose.

In quanto cose – la loro essenza di cose (Dingwesen) finora non è mai giunta espressamente alla luce e non è ancora mai stata espressamente custodita. Il terrificante si manifesta e si cela nel modo in cui nell’ovvio che giace vicino (das Naheliegende) la vicinanza rimane assente. Che cosa significa ciò? Significa che la cosa non coseggia; la cosa non è presente in quanto cosa. Il mondo non mondeggia. La cosa / il mondo non avviene; l’evento si nega. La differenza-separazione rimane dimenticata; la dimenticanza è essenzialmente! Il coseggiare non è aperto nella radura come essenza della cosa e non è scorto in quanto aperto. Anche ciò che giace lontano è presente – forse soltanto per noi, poiché [siamo] esserci (Dasein). Però non c’è via che conduca a esso; è qualcosa come esso stesso nel suo nascosto [?] essere presente. L’ovvio che giace vicino può senz’altro dirsi l’entepresente in un senso accentuato. Nell’ovvio che giace vicino la vicinanza rimane assente. In ciò che è presente l’essere presente si sottrae. Dal momento che esso si sottrae e si è sottratto non lo incontriamo mai – perlomeno nel modo in cui siamo abituati a incontrare qualcosa – nel rap-presentare (vorstellen). Ovvio che giace vicino è ciò che chiamiamo «le cose». – Che cos’è una cosa?

L’IMPIANTO All’inizio del nostro cammino si è visto che ogni superamento delle distanze non porta vicinanza da nessuna parte. Con la vicinanza viene a mancare anche la lontananza. Tutto è livellato nel senza-distacco. Adesso vediamo più chiaramente che la vicinanza è essenzialmente in quanto la cosa coseggia. La cosa coseggia mondo. Il coseggiare è avvicinare che mantiene nella vicinanza il mondo in quanto mondo. L’essenza della vicinanza riposa sull’avvicinare. La vicinanza non è la brevità della distanza, la lontananza non è la sua lunghezza. La lontananza non è in nessun caso l’abolizione della vicinanza. Solo nell’avvicinare della vicinanza la lontananza allontana e rimane salvaguardata in quanto lontananza. Per questo, dove la cosa non coseggia, e quindi la vicinanza non avvicina, anche la lontananza si mantiene lontana. La vicinanza e la lontananza rimangono contemporaneamente assenti. Domina il senza-distacco. Come è noto, chiamiamo distacco il tratto fra due punti. Se però usciamo di casa e ci mettiamo sotto l’albero, all’ombra di esso, il distacco fra la casa e l’albero lì dinanzi non si basa più, certamente, sulla misura del tratto che li separa. Il distacco consiste piuttosto nel fatto che, e nel modo in cui, la casa, l’albero e l’ombra ci riguardano insieme in base al loro riferimento reciproco. È questo riguardo che accorda il distacco (la distanza [Distanz]) tra ciò che è presente nell’orizzonte dell’essere presente. Tale riguardo accorda il distacco rispetto a noi di tutto ciò che è presente e assente. Ciò che, nel suo insieme, ha un tale distacco rispetto a noi, proprio in questo distare (abstehen) ci riguarda, sia che qualcosa ci stia lontano, sia che ci tocchi da vicino. Eppure, anche quello che, come si dice, non ci riguarda, a modo suo ci riguarda molto, giacché ciò che è indifferente ci riguarda nella misura in cui costantemente gli passiamo accanto e lo trascuriamo. Tutto ciò che è presente e assente sta nel carattere del riguardo. Il distacco si fonda sul riguardo. Il riguardo si fonda sulla vicinanza. Con troppa leggerezza affermiamo che

il distacco, dal nostro punto di vista, consiste nello stare di fronte (gegenüberstehen), per cui il distacco sembra essere raggiunto solo nel «di fronte» (das Gegenüber) ed essere assicurato in ciò che sta di fronte, l’oggettivo (das Gegenständige). Ma l’oggettivo è solo il termine ultimo e l’ultimo residuo di ciò che è distaccato (das Abständige). Quando l’ente-presente diventa l’oggettivo del rappresentare, già si instaura, sia pure in modo ancora inappariscente, il dominio del senza-distacco. Nell’oggettuale (das Gegenständliche) abbiamo posto dinanzi a noi ciò che ci riguarda, cosicché esso sta lontano da noi e noi stiamo lontani da esso. Tuttavia, questo rappresentare oggettuale, il quale soltanto in apparenza ci fa incontrare l’ente-presente, nella sua essenza è già un attacco a ciò che ci riguarda. Nella sembianza del puro presente, che è offerta dall’oggettivo e dall’obiettivo (das Objektive), si cela la brama di possesso (Hab-gier) del calcolare rappresentante. Dell’oggettivo fanno parte anche gli stati (Zustände) in cui siamo nei confronti di noi stessi e nei quali ci osserviamo e ci analizziamo. La psicologia e il dominio della spiegazione psicologica contengono l’inizio del livellamento dell’elemento psichico-spirituale a ciò che è accessibile a chiunque in qualsiasi momento ed è quindi in fondo già senza distanza. Il dominio dell’oggettivo non assicura il distacco, giacché in esso, al contrario, sta già in agguato l’assalto del senza-distacco. Se il distacco riposa sul riguardo, allora dove domina il senza-distacco nulla più ci riguarda espressamente. Ogni cosa acquista il tratto fondamentale dell’equi-valente (das Gleich-Gültige), per quanto varie cose possano di quando in quando starci ancora a cuore come frammenti perduti. Il riguardo dell’equivalente è lo strappo in avanti (Fortriß) nell’indifferente che non va e non sta, non sta e non cade né vicino né lontano. Il senza-distacco riguarda l’uomo in modo talmente deciso che egli è riguardato ovunque in termini uniformi dal monotono senza-distanza (das Distanzlose). L’uniformità di tale riguardo da parte del senza-distacco consiste nel fatto che

l’uomo così riguardato ne cade vittima in continuazione, sempre di nuovo nella stessa vuota maniera. Nondimeno, ciò che è presente senza distacco non è privo né di riguardo né di stato (Stand). Il senza-distacco ha invece il suo proprio stato. La sua costanza (Ständigkeit) si aggira nell’inquietante riguardo di ciò che è ovunque equi-valente. A esso si riferisce l’uomo cadendone vittima. Il senzadistacco non è mai senza stato. Esso sta, nella misura in cui tutto ciò che è presente è risorsa (Bestand). Dove la risorsa giunge al potere, crolla finanche l’oggetto come carattere dell’ente-presente. La risorsa sussiste (der Bestand besteht), e sussiste in quanto è posta in vista di un ordinare (bestellen). Convertita nell’ordinare, essa è posta nell’impiegare. L’impiegare pone in anticipo ogni cosa in modo tale che ciò che è posto insegua ciò che consegue (dem folgt, was erfolgt). Posto a questo modo, tutto è «in conseguenza di» (in Folge von). La conseguenza (Folge) è però ordinata in anticipo come risultato (Erfolg). Il risultato è quella specie di conseguenza che rimane a sua volta rinviata all’esito di conseguenze ulteriori. La risorsa sussiste in virtù di un porre peculiare che chiamiamo l’ordinare (das Be-Stellen). Che cosa significa stellen? Conosciamo questa parola dalle espressioni «porre dinanzi», «rap-presentare» (vorstellen) qualcosa, e «porre qui», «pro-durre» (herstellen) qualcosa. Però non dobbiamo credere che il nostro pensiero sia già all’altezza della portata semplice e a stento considerata di tali espressioni. Che cosa significa stellen? Pensiamolo anzitutto in base al porre-qui, al pro-durre. Il falegname produce un tavolo, ma anche una bara. Il pro-dotto non coincide con ciò che è meramente costruito. Ciò che è posto nel «qui» (das ins Her Gestellte) sta nell’ambito di ciò che ci riguarda. Esso è postoqui in una vicinanza. Il falegname del villaggio di montagna non fabbrica una cassa per un cadavere, giacché la bara è posta in anticipo là, nel luogo prescelto della fattoria, dove il contadino morto continua a permanere. Lassù la bara è

chiamata ancora Totenbaum, «albero del defunto». In essa alligna la morte del defunto. Tale allignare determina la casa e il podere, coloro che vi abitano, nonché la loro stirpe e il vicinato. Tutto è diverso in un’impresa motorizzata di pompe funebri della metropoli, in cui non si produce alcun «albero del defunto». Un contadino stellt, «mette sotto» il suo animale da tiro per trascinare i tronchi abbattuti fuori dal bosco, lungo il sentiero che lo attraversa. Egli non mette sotto l’animale perché se ne stia fermo da qualche parte; lo mette sotto perché esso si volti nella direzione del sentiero conformemente al suo impiego. Uomini e donne debbono sich stellen, «presentarsi» a un lavoro obbligatorio (Arbeitsdienst). Essi sono comandati, cioè colpiti da un ordine che li comanda, ossia li precetta. Uno comanda l’altro. Lo sollecita. Lo colloca. Pretende da lui ragguagli e gli chiede conto. Lo provoca. Assumiamo ora questo significato della parola stellen per esperire che cosa accade in quell’ordinare in virtù del quale la risorsa sta ed è così una risorsa. Stellen significa ora provocare, esigere, costringere a presentarsi. Questo stellen accade in quanto Gestellung, «presentazione obbligatoria», «obbligo a presentarsi». Nel comando di presentazione obbligatoria (Gestellungsbefehl) essa si indirizza all’uomo. Tuttavia l’uomo, in mezzo a ciò che è presente nel suo insieme, non è l’unico ente-presente a essere riguardato dall’obbligo a presentarsi. Una regione è gestellt, «presa di mira», in vista del carbone e del minerale metallifero che affiorano in essa. Presumibilmente l’affiorare delle rocce è già rappresentato entro l’orizzonte di un siffatto Stellen ed è anche rappresentabile solo in base a esso. Le rocce affioranti, e in quanto tali già valutate nella prospettiva di un presentarsi (Sichstellen), sono provocate (herausgefordert) e quindi estratte (herausgefördert). La terra è coinvolta in tale Stellen e ne è assalita. Essa è ordinata (be-stellt), cioè

obbligata a presentarsi. È così che ora e in seguito intendiamo la parola bestellen, «ordinare». In virtù di tale ordinare la campagna si trasforma in una zona carbonifera, il terreno in un giacimento minerario.18 Questo ordinare è già di genere diverso da quello mediante il quale un tempo il contadino coltivava (bestellte) il suo campo. Il lavoro del contadino non provoca il terreno, bensì affida la semina alle forze della crescita, proteggendola nel suo allignare. Nel frattempo, tuttavia, anche la lavorazione della terra si è convertita nel medesimo ordinare che assegna l’aria all’azoto, il terreno al carbone e al minerale metallifero, il minerale all’uranio, l’uranio all’energia atomica e quest’ultima a una distruzione che può essere ordinata. L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso (das Selbe) della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno. Ora, però, in vista di che cosa è posto, ad esempio, il carbone posto nella zona carbonifera? Esso non è posto là come la brocca sul tavolo. Proprio come il suolo terrestre riguardo al carbone, il carbone è a sua volta posto, cioè provocato, in vista del calore, che è già posto a fornire vapore, la cui pressione aziona il meccanismo che mantiene in funzione una fabbrica posta a fornire i macchinari e a produrre gli strumenti mediante i quali altri macchinari sono allestiti e mantenuti. Un porre provoca l’altro, lo assale con l’obbligo a presentarsi, che non avviene in una mera successione di azioni del porre, giacché esso, secondo la sua essenza, accade piuttosto in segreto e in anticipo. Solo per questo l’obbligo a presentarsi rende possibili una pianificazione e una disposizione, da esso utilizzabili, dei singoli intenti del porre particolare. E tuttavia, dove sbocca da ultimo la concatenazione dell’ordinare? La centrale idroelettrica è posta nella corrente del fiume.

Essa pone quest’ultima in vista della sua pressione idraulica, che pone in rotazione le turbine, rotazione che a sua volta aziona il macchinario il cui meccanismo pone la corrente elettrica mediante la quale la centrale elettrica interurbana e la sua rete elettrica sono poste in vista della fornitura di corrente.19 La centrale elettrica posta nella corrente del Reno, l’impianto di sbarramento, le turbine, i generatori di elettricità, l’impianto di distribuzione, la rete di diffusione – tutto questo e altro ancora, nella misura in cui sta immediatamente lì sul posto (auf der Stelle zur Stelle steht), è esclusivamente non per essere presente,20 bensì per essere posto al solo scopo di porre qualcos’altro. Soltanto ciò che è ordinato in modo tale da presentarsi immediatamente lì sul posto sussiste (besteht) come risorsa (Bestand) ed è stabile (beständig)21 nel senso della sussistenza (Bestand). Ciò che è stabile consiste nella totale ordinabilità all’interno di un obbligo a presentarsi così inteso. Torniamo a domandare: dove sbocca da ultimo la catena di un simile ordinare? Essa non sbocca in nulla, giacché l’ordinare non produce nulla che possa e a cui sia lecito avere una presenza per sé al di fuori del porre. Ciò che è ordinato è sempre già e sempre solo posto allo scopo di porre un altro nel risultato come sua conseguenza. La catena dell’ordinare non sbocca in nulla, anzi, essa entra soltanto nel suo corso circolare. Solo al suo interno l’ordinabile ha la sua sussistenza. La corrente del Reno, ad esempio, è solo come ciò che è ordinato dal suddetto ordinare. Non è la centrale idroelettrica a essere costruita nella corrente del Reno, bensì è la corrente del fiume a essere incanalata all’interno della centrale elettrica, e ciò che essa è in tal caso lo è in base all’essenza di quest’ultima. Per comprendere in certo qual modo il fatto immane che si impone qui, prestiamo attenzione per un solo istante al contrasto che si esprime nei due titoli: il Reno, incanalato all’interno della centrale elettrica – «il Reno», detto nell’opera d’arte dell’omonimo inno di Hölderlin.

La risorsa sussiste, e sussiste nell’ordinare. Che cos’è l’ordinare in sé? Il porre ha il carattere del provocare (herausfordern), e diventa quindi un estrarre (herausfördern), come accade con il carbone, il minerale metallifero, il petrolio greggio, ma anche con i fiumi, i mari e l’aria. Si dice che la terra sia sfruttata in vista dei materiali e delle energie che vi giacciono nascosti, sicché lo sfruttamento altro non sarebbe che l’attività umana. L’ordinare sarebbe dunque solo una macchinazione dell’uomo realizzata nel modo dello sfruttamento. In verità, l’ordinare la risorsa mantiene tale carattere solo se, e fintanto che, ce lo rappresentiamo entro l’orizzonte dell’opinare quotidiano. Anzi, la sembianza che l’ordinare sarebbe nell’essenza soltanto una macchinazione umana avente il carattere dello sfruttamento è addirittura inevitabile. Nondimeno,22 essa rimane una mera parvenza. L’ordinare pone. Provoca. Se però lo pensiamo a fondo nella sua essenza, e non secondo i suoi possibili effetti, l’ordinare non mira in nessun caso alla preda e al guadagno, bensì sempre a qualcosa di ordinabile. «Sempre», qui, significa «fin da principio», poiché in modo essenziale. L’ordinare passa rapidamente da un ordinabile al successivo soltanto perché ha anticipatamente trascinato e posto tutto ciò che è presente entro la completa ordinabilità, indipendentemente dal fatto che nel singolo caso tale entepresente sia già posto in modo particolare oppure no. Questo potere soverchio dell’ordinare altro non fa che tirarsi dietro gli atti separati dell’ordinare. Tale potere dell’ordinare induce a supporre che ciò che qui è chiamato «ordinare» non sia un fare meramente umano, quantunque l’uomo appartenga all’attuazione dell’ordinare. Rimane da chiedersi: in che modo l’uomo è già incluso nell’essenza dell’ordinare? Che cosa significa (però) qui «l’uomo»? «L’uomo» non esiste da nessuna parte. Posto tuttavia che gli uomini provochino l’energia idraulica della corrente del fiume in vista della sua capacità di pressione e pongano quest’ultima a generare corrente elettrica, possono

farlo soltanto nella misura in cui essi stessi sono già ordinati in questo ordinare. Nel loro rapporto con ciò che è presente gli uomini sono già provocati a rappresentare fin da principio, quindi ovunque e costantemente, ciò che è presente come l’ordinabile dell’ordinare. Nella misura in cui il rappresentare umano ha già messo ciò che è presente, inteso come l’ordinabile, sul conto dell’ordinare, l’uomo, secondo la sua essenza, rimane – consapevolmente o no – ordinato nell’ordinare per l’ordinare dell’ordinabile. L’uomo stesso è sottoposto ora23 a un simile obbligo a presentarsi. Egli si è presentato a tale chiamata per la sua attuazione e fa la coda (steht an) per assumersi questo ordinare e attuarlo. In tal senso l’uomo è l’impiegato (der Angestellte) dell’ordinare, ed è per questo che gli uomini sono distaccati singolarmente e in massa a tale scopo. L’uomo è ora colui che è ordinato nell’ordinare in base a esso e per esso. L’ordinare non è un artificio umano, giacché l’operare dell’uomo che di volta in volta coopera nell’ordinare dev’essere a tal fine già ordinabile da questo ordinare in vista di un comportamento corrispondente. Mediante l’obbligo a presentarsi l’ordinare non si limita ad assalire i materiali e le energie della natura, bensì assale nel contempo il destino dell’uomo. L’essenza dell’uomo è posta a contribuire ad attuare l’ordinare in modo umano. L’ordinare concerne la natura e la storia, tutto ciò che è, e in tutti i modi in cui ciò che è presente è. Ciò che è presente è posto come tale in vista dell’ordinabilità ed è così rappresentato in anticipo come quel24 costante (das Ständige) il cui stato è essenzialmente in base all’ordinare. Ciò che è costante ed è costantemente presente in questo modo è la risorsa (Bestand). È per questo, inoltre, che l’ordinare non si lascia mai chiarire in base a una qualche singola risorsa, e tantomeno lo si può rappresentare in base alla somma delle risorse reperibili come loro genere comune sospeso al di sopra di esse. L’ordinare non si lascia affatto chiarire, cioè ricondurre

a quella chiarezza nel nome della quale spacciamo subito per chiaro tutto ciò che ci è senz’altro e abitualmente noto e vale correntemente come non problematico. Ciò che siamo soliti chiarire in base a una simile chiarezza è così soltanto rimesso a ciò che non è pensato a fondo ed è privo di pensiero. Non possiamo pretendere di chiarire l’ordinare in cui la risorsa è essenzialmente.25 Dobbiamo invece tentare anzitutto di esperire la sua essenza ancora impensata. A questo scopo è necessario prestare attenzione al modo in cui l’ordinare assale fin da principio tutto ciò che è – natura e storia, umano e divino –, dato che se oggi una teologia mal consigliata si appropria dei risultati della moderna fisica atomica per porre al sicuro, con l’aiuto di questa, le sue prove dell’esistenza di Dio, allora Dio stesso, in tal modo, è posto entro l’ambito dell’ordinabile. L’ordinare concerne tutto ciò che è presente con l’obbligo a presentarsi riguardante la sua presenza.26 L’ordinare mira a una sola cosa, versus unum, cioè a porre come risorsa l’Uno Intero (das Eine Ganze) di ciò che è presente. L’ordinare è in sé universale. Riunisce in sé tutti i generi possibili del porre e tutti i modi della loro concatenazione. L’ordinare si è già raccolto in sé in vista della totale assicurazione della risorsa sussistente dell’ordinabilità di tutto ciò che è presente inteso come risorsa. Chiamiamo Gebirge, «catena montuosa», la riunione delle montagne che unita, da sé, e mai in un secondo tempo, è già raccolta. Chiamiamo Gemüt, «animo», la riunione dei modi in cui ci sentiamo e possiamo di volta in volta sentirci. Chiamiamo ora Ge-Stell, «impianto», la riunione da sé raccolta dello stellen, in cui tutto ciò che è ordinabile è essenzialmente nel suo essere risorsa sussistente. La parola Ge-Stell ora non nomina più un singolo oggetto isolato, tipo uno scaffale di libri o un pozzo a carrucola,27 e nemmeno qualcosa di stabile della risorsa ordinata. Ge-Stell, «impianto», nomina il da sé raccolto universale28 ordinare la completa ordinabilità di ciò che è presente nella sua interezza. Il corso circolare dell’ordinare avviene

nell’impianto e in quanto impianto. Nell’impianto l’essere presente di tutto ciò che è presente si trasforma in risorsa. L’impianto attrae costantemente l’ordinabile entro il corso circolare dell’ordinare, ve lo pone stabilmente e lo depone tra le risorse come ciò che, in tal modo, è stabile. Questo deporre (abstellen) non pone ciò che è stabile fuori dal corso circolare del porre, giacché si limita a deporre – quindi a porre via (wegstellen) e a porre là (hinstellen) – in una ordinabilità successiva, cioè a porre dentro (hineinstellen) e a riporre (zurückstellen) nell’ordinare. L’impianto pone. Esso trascina insieme tutto nell’ordinabilità, accumula tutto ciò che è presente nell’ordinabilità ed è in tal modo la riunione di tale accumulare (raffen). L’impianto è accumulo (Geraff). Tuttavia, questo accumulare non si limita mai ad ammassare le risorse sussistenti, anzi trascina costantemente via l’ordinato entro il corso circolare dell’ordinabilità, al cui interno l’una cosa pone l’altra: l’una spinge fuori l’altra, fuori però nel «via di qui» (in das Hinweg) dell’ordinare. Il porre in sé raccolto dell’impianto è la riunione del sospingere (treiben) in sé rotante. L’impianto è meccanismo (Getriebe). L’accumulo accumula, trascinando via nel meccanismo della fabbrica (Betrieb). L’impianto è essenzialmente in quanto accumulo del meccanismo che ordina la costante ordinabilità delle risorse sussistenti complete. Ciò che pensiamo in tal modo come l’impianto è l’essenza della tecnica. Diciamo «della tecnica» e intendiamo la tecnica moderna, che è solitamente definita come la tecnica motoristica. Questa definizione coglie un aspetto giusto, che però non contiene ancora una verità, poiché non ci indica l’essenza della tecnica moderna, per il semplice fatto che il modo di pensare da cui deriva la suddetta definizione della tecnica moderna come tecnica motoristica mai potrà indicare l’essenza della tecnica. Si crede che, a differenza di tutte

quelle che l’hanno preceduta, la tecnica moderna sia determinata dalla macchina. E se le cose stessero nel modo opposto? La tecnica moderna non è ciò che è in virtù della macchina, bensì è la macchina che è ciò che è, e com’è, soltanto in base all’essenza della tecnica. Non si dice quindi nulla circa l’essenza della tecnica moderna se la si rappresenta come tecnica macchinistica. L’impianto in quanto tale pone in anticipo ogni risorsa sussistente appunto solo affinché essa sussista esclusivamente in virtù della macchina. In che senso? L’impianto è la riunione dell’accumulo del meccanismo della stabilizzazione (Beständigung) dell’ordinabile, che è esso stesso posto unicamente allo scopo di stare immediatamente lì sul posto. L’impianto è la riunione dell’in sé rotante ordinare l’ordinabile. L’impianto è in sé l’accumulante, sospingente circolazione (Zirkulation) dell’ordinare l’ordinabile nell’ordinare. L’impianto pone tutto in vista di questo Uguale (das Gleiche) dell’ordinabile, affinché esso torni costantemente a ripresentarsi nella stessa forma nell’Uguale dell’ordinabilità. In quanto circolazione dell’ordinare, l’impianto racchiude in sé l’essenza della macchina, cui appartiene la rotazione senza che essa abbia necessariamente la forma della ruota, giacché è la ruota a essere determinata dalla rotazione e non la rotazione dalle ruote. La rotazione è il movimento rotatorio in sé ritornante che attiva un ordinabile (il carburante) nell’ordinare un ordinabile (la forza motrice). La rotazione della macchina è posta, ossia provocata e stabilita nella circolazione, che riposa sul meccanismo, quindi sul carattere essenziale dell’impianto. L’impianto – l’essenza della tecnica – era già in moto, in maniera latente, molto tempo prima che, verso la fine del diciottesimo secolo in Inghilterra, fosse inventato e messo in moto il primo motore. Ciò significa che l’essenza della tecnica dominava già da prima, nel senso che fu anzitutto tale essenza ad aprire nella radura l’ambito entro cui in

generale qualcosa come l’invenzione di macchine produttrici di energia poteva iniziare la sua ricerca e mettersi alla prova.29 Possiamo quindi descrivere con quanta competenza vogliamo la più moderna delle macchine e spiegarne esattamente la costruzione, però così concepiamo la macchina sempre solo in termini tecnici, cioè non la pensiamo mai in base all’essenza della tecnica. Sennonché l’essenza stessa della tecnica non è niente di tecnico. Ogni costruzione di ciascuna macchina si muove già entro lo spazio essenziale della tecnica. Nondimeno, in quanto costruzione tecnica essa non è mai in grado di progettare l’essenza della macchina. Ciò è altrettanto impossibile quanto il tentativo di calcolare con mezzi matematici l’essenza della matematica, o di definire l’essenza della storiografia mediante indagini storiografiche. Sulla via da noi percorsa dev’essere sufficiente indicare il luogo essenziale della macchina. La macchina non è nulla che sia separatamente presente per sé. Essa non è affatto soltanto una specie più complicata di strumento e di attrezzo, solo un ingranaggio che – a differenza dell’arcolaio della contadina o della noria nelle risaie cinesi – fa funzionare se stesso. La macchina non si limita affatto a sostituire gli attrezzi e gli strumenti, e tantomeno è un oggetto che sta lì dinanzi. Essa sta solo in quanto va, e va in quanto funziona. Funziona nel meccanismo della fabbrica. Il meccanismo sospinge in quanto attività dell’ordinare ciò che è ordinabile. Quando la macchina si ferma, il suo arresto è uno stato del meccanismo, il suo essere spento oppure guasto. Le macchine sono all’interno di un macchinismo, che però non è un ammasso di macchine. Il macchinismo funziona in base all’accumulo del meccanismo, poiché è come tale che l’impianto ordina le risorse. Anche se ciò non diventa percepibile direttamente e immediatamente, l’impianto ha già fin da principio eliminato tutti i luoghi in cui un tempo stavano l’arcolaio e il mulino ad acqua. Mediante il suo macchinismo l’impianto ordina in

anticipo un’altra specie e un’altra disposizione di luoghi, nei quali giunge a stare soltanto ciò che, in quanto ordinabile, sta immediatamente lì sul posto in modo uniforme. Per questo anche il modo in cui la macchina stessa produce qualcosa è essenzialmente diverso dal fare artigianale, ammesso che all’interno dell’impianto vi sia in generale ancora qualcosa come un produrre. I trattori e le automobili sono immessi sul mercato (herausgebracht), sfornati in serie, pezzo per pezzo. Dove sta fuori (wo draußen steht) questo qualcosa che è stato messo fuori (herausgestellt) in tal modo? Dove, in che stato è portato? L’automobile è messa fuori in modo da essere disponibile immediatamente lì sul posto, vale a dire subito e costantemente. Essa non è prodotta per stare lì e rimanere ferma come la brocca: piuttosto, è posta per andarsene via come qualcosa di ordinabile, che a sua volta può essere provocato (herausgefordert) in vista di un ulteriore trasporto (Weiterbeförderung) che si presenta per facilitare (fördern) il traffico. Ciò che la macchina mette fuori pezzo per pezzo (Stück für Stück), essa lo immette nel Bestand, tra le «risorse», nella «riserva» dell’ordinabile. Ciò che è messo fuori è dunque Bestand-Stück, alla lettera «pezzo di riserva». Il termine Bestand-Stück è assunto ora in un senso nuovo e rigoroso. Il pezzo (Stück) è qualcosa di diverso dalla parte (Teil). La parte si spartisce con altre parti nell’intero, prende parte all’intero e gli appartiene.30 Invece il pezzo è separato, e lo è in quanto pezzo che è addirittura segregato dagli altri pezzi. Esso non si spartisce mai con questi in un intero. Il «pezzo di riserva» non si spartisce nemmeno con il suo simile nella riserva, anzi, questa è ciò che è spezzettato (zerstückt) nell’ordinabile. Lo spezzettamento (Zerstückung) non frantuma, bensì crea la riserva dei «pezzi di riserva». Ciascuno di essi è incastrato e ingabbiato in un corso circolare dell’ordinabilità. La segregazione di un pezzo

dall’altro corrisponde all’ingabbiamento di ciascun 31 segregato in una fabbrica dell’ordinare. Se si volesse mettere insieme pezzo per pezzo e riporre da qualche parte i «pezzi di riserva» di una «risorsaautomobile» (Kraftwagenbestand), i pezzi sarebbero strappati via dal corso circolare della loro ordinabilità e ne deriverebbe una specie di cimitero delle automobili. Diversamente nel caso dell’autoparco, in cui ciascuna vettura è presente sul posto nella sua ordinabilità ed è il pezzo posto di una riserva di ordinazione che è stata ordinata. I «pezzi di riserva» sono, pezzo per pezzo, gli stessi. Il loro carattere di pezzo esige tale uniformità. In quanto uguali, i pezzi si trovano nella massima segregazione l’uno rispetto all’altro, e proprio in tal modo accrescono e assicurano il loro carattere di pezzo. L’uniformità dei pezzi consente che un pezzo possa essere senz’altro, cioè immediatamente rimpiazzato con l’altro, e quindi essere presente sul posto. Un «pezzo di riserva» è sostituibile dall’altro. In quanto pezzo, il pezzo è già posto in vista della sostituibilità. «Pezzo di riserva» significa che ciò che è segregato in quanto pezzo è ingabbiato in modo rimpiazzabile in un ordinare. Pensato in senso rigoroso, anche ciò che chiamiamo «parte meccanica» non è mai parte. È vero che esso è inserito nel meccanismo, ma lo è come pezzo rimpiazzabile. Invece la mia mano non è un pezzo di me. Io stesso sono totalmente me stesso in ogni gesto della mia mano, sempre ogni singola volta. Nel caso del termine «pezzo» siamo abituati a immaginare qualcosa di inanimato, benché si parli di «pezzi» anche nel caso di animali vivi. Tuttavia i «pezzi di riserva» sono di volta in volta inseriti in un ordinare e posti da esso. A ciò che così è posto appartiene certamente, seppure a suo modo, anche l’uomo, sia che manovri la macchina, sia che, all’interno dell’ordinare del macchinismo, la costruisca e la fabbrichi.32 Nell’evo del dominio della tecnica, l’uomo, a

partire dalla propria essenza, è nell’essenza della tecnica, nell’impianto, e ne è ordinato. A suo modo egli è «pezzo di riserva» nel senso stretto delle parole «riserva» e «pezzo». L’uomo è rimpiazzabile all’interno dell’ordinare la sussistenza. Il fatto che egli sia «pezzo di riserva» rimane il presupposto perché possa diventare funzionario di un ordinare. Nondimeno, l’uomo appartiene all’impianto in un modo completamente diverso dalla macchina, un modo che può diventare inumano.33 Tuttavia l’inumano (das Unmenschliche) è pur sempre inumano (unmenschlich). L’uomo non si trasformerà mai in macchina. Certo, questo inumano che mantiene ancora il carattere dell’umanità è più inquietante, poiché più malvagio e funesto di un uomo che fosse soltanto macchina. L’uomo di questo evo è però posto nell’impianto anche quando non sta direttamente dinanzi a macchine e al servizio di un macchinario. Per esempio, il guardaboschi, che nel bosco misura i tronchi abbattuti e in apparenza percorre ancora come faceva suo nonno gli stessi sentieri nel medesimo modo, oggi è posto lì dall’industria dello sfruttamento del legno. Che lo sappia o no, egli è a suo modo «pezzo di riserva» delle riserve di cellulosa e dell’ordinabilità di questa per la carta che è fornita ai giornali e alle riviste illustrate, i quali puntano sul pubblico per essere divorati. Alle risorse di quell’ordinare da cui il pubblico è posto, provocato e soltanto così organizzato in quanto tale, appartengono la radio e il cinema. I loro macchinari sono «pezzi di riserva» di quella risorsa che porta tutto in pubblico, ordinando così il pubblico indistintamente per qualsiasi cosa. «Pezzi di riserva» di questa risorsa dell’organizzazione e del controllo del pubblico sono non solo i macchinari, bensì anche, a modo loro, gli impiegati di questa fabbrica, fino al membro del consiglio di amministrazione della radio. Questi è posto lì da quella risorsa che prende il nome di radio, è cioè provocato all’ordinazione di questa fabbrica. In quanto «pezzo di

riserva» di tale risorsa egli vi rimane ingabbiato. Proviamo un po’ a ipotizzare l’improbabile caso di un dirigente della radio che si pronunciasse a favore della sua abolizione: egli sarebbe immediatamente destituito, giacché è ciò che è soltanto in quanto è colui che è posto lì (der Gestellte) da una risorsa nell’impianto dell’ordinazione del pubblico. Segregato nel carattere di pezzo del «pezzo di riserva» è qualunque ascoltatore della radio che gira il suo interruttore, segregato in quanto pezzo di quella risorsa in cui egli rimane ingabbiato anche quando continua a ritenere che l’atto di accendere e spegnere l’apparecchio sia completamente affidato alla sua libertà, giacché egli è ancora libero solo nel senso che deve ogni volta liberarsi da una costrizione esercitata dalla pressione del pubblico, che rimane comunque inevitabile. Oggi gli uomini non sono incidentalmente anche «pezzi di riserva» della radio, poiché nella loro essenza essi sono già posti in vista del carattere di essere «pezzo di riserva». Ipotizziamo di nuovo il caso, ancora più improbabile, che d’improvviso, ovunque sulla terra, svanissero da ogni ambiente gli apparecchi radiofonici: chi potrebbe immaginare lo sgomento, la noia e la vuotezza che assalirebbero di colpo gli uomini, stravolgendo da cima a fondo la loro vita quotidiana? Beninteso, qui non si vuole fare il processo agli ascoltatori della radio, e nemmeno alla radio. Si tratta solo di far notare che nella risorsa che prende il nome di radio dominano un ordinare e un porre che si sono installati nell’essenza dell’uomo. Poiché è così, e poiché l’uomo non decide mai da sé e solo in base a sé della sua essenza, l’ordinare la risorsa, nonché l’impianto, l’essenza della tecnica, non possono essere nulla di soltanto umano. Si va quindi definitivamente fuori strada quando si cerca di far discendere la tecnica dall’intelligenza umana e addirittura da quella artistica (artistisch). L’artistico (das Artistische) presuppone l’ars, l’ars presuppone la τέχνη, e quest’ultima presuppone l’essenza di ciò che ha il carattere di téchne (das

Technehafte). Le risorse sussistenti dell’impianto consistono nei «pezzi di riserva» e nella modalità della loro ordinazione. I «pezzi di riserva» sono ciò che, delle risorse sussistenti, è stabile, ed è per questo che dobbiamo pensare la loro stabilità in base all’essenza della risorsa, ossia in base all’impianto. Di solito si rappresenta ciò che è stabile come ciò che persiste (das Beharrende), che è ciò che è presente in modo permanente. Però ciò che è presente può riguardare l’uomo secondo modalità differenti della presenza, le quali determinano le epoche della storia dell’essere occidentale. Ciò che è presente può essere essenzialmente come ciò che viene fuori e si fa avanti da sé: fuori dalla velatezza (Verborgenheit), avanti nella svelatezza (Unverborgenheit). Ciò che è presente in questo modo lo chiamiamo, nel suo essere presente, «ciò che è venuto a stare» (Herstand). Ciò che è presente può manifestarsi come il creato del Creatore, che è a sua volta Colui che è costantemente e ovunque presente in ogni cosa. Ciò che è presente può offrirsi come ciò che è posto nel rappresentare umano, per esso e di fronte a esso. In questo caso, ciò che è presente è l’oggettivo, ciò che sta di fronte al rappresentare che, in quanto percipere, è il cogitare dell’ego cogito della conscientia, della coscienza, dell’autocoscienza in quanto coscienza del soggetto. L’oggetto è l’obietto (Objekt) per il soggetto. Ciò che è presente può però anche essere come ciò che è stabile nel senso dei «pezzi di riserva» delle risorse sussistenti che, essendo ciò che è costantemente ordinabile, sono poste in quel porre nella cui forma domina l’impianto. L’impianto è l’essenza della tecnica. Il suo porre è universale. Esso si rivolge all’Uno dell’Intero di tutto ciò che è presente. L’impianto pone il modo in cui ciascun entepresente, ora, è presente. Tutto ciò che è, è – nei modi più vari e nei loro mutamenti, manifestamente o ancora di nascosto – «pezzo di riserva» della risorsa nell’ordinare dell’impianto. Ciò che è stabile consiste nella ordinabile

sostituibilità tramite l’uguale ordinato. L’essenza della tecnica è l’impianto. L’impianto ordina. Esso ordina ciò che è presente tramite l’obbligo a presentarsi. L’impianto ordina ciò che è presente come risorsa. Ciò che è stabile delle risorse sussistenti sono i «pezzi di riserva», la cui stabilità consiste nella ordinabile sostituibilità tramite ciò che è costantemente uguale ed è immediatamente presente sul posto. Sorge qui però una perplessità. Se l’essenza della tecnica consiste nell’impianto, e tuttavia la tecnica mira a porre le energie e i materiali della natura, cioè a provocarli come ciò che, una volta estratto, convoglia tutto in ciò che risulta in vista del risultato, allora, proprio partendo dalla sua essenza, appare evidente che la tecnica non è universale. Le energie e i materiali della natura pongono alla tecnica un limite talmente netto da farla rimanere dipendente dalla natura in quanto fonte e supporto della risorsa tecnica. Non possiamo quindi affermare che tutto ciò che è presente sia presente nella modalità di quello stabile che viene a stare nell’ordinare dell’impianto. L’impianto non riguarda tutto ciò che è presente. La tecnica è soltanto qualcosa di reale fra altri reali. Essa rimane ben lungi dal costituire addirittura la realtà di tutto ciò che è reale. Che ne è dell’essenza della tecnica? È universale oppure no? Qual è il rapporto fra la tecnica e la natura? Ma che cos’è la natura che dovrebbe essere presente al di fuori dell’ambito della risorsa tecnica come ciò a cui l’ordinare deve sempre di nuovo ritornare? In che modo è presente la natura, nella misura in cui la tecnica, da essa dipendente, ne trae le energie delle sue centrali e i materiali? Che cosa sono le energie naturali poste nella tecnica? La risposta la dà la scienza naturale. La disciplina fondamentale della scienza del mondo fisico è la fisica, la quale, in verità, non ci dice nulla sull’essenza dell’energia, eppure offre al pensiero un’occasione per approfondire il modo in cui la scienza naturale rappresenta quella cosa che essa chiama energia. Dal punto di vista fisico l’energia

naturale è accessibile soltanto nel suo effetto (Wirkung), poiché solo nel suo effetto l’energia mostra l’aspetto calcolabile della sua grandezza. Nel calcolo l’energia diventa oggettuale, ed è solo questo oggetto di calcolo che importa alla scienza naturale. La natura è rappresentata come il reale posto in misura e numero, e oggettualmente presente nei suoi effetti (das Gewirkte). A loro volta, questi effetti sono considerati presenti solo nella misura in cui essi stessi producono effetti (wirken) e si dimostrano efficaci (wirkfähig). L’ente-presente della natura è il reale effettivo (das Wirkliche). Il reale effettivo è l’efficace (das Wirksame). L’essere presente della natura consiste nell’efficacia (Wirksamkeit). In essa la natura può portare immediatamente qualcosa lì sul posto, può cioè farlo risultare. L’energia è quella cosa che pone qualcosa affinché, in un modo calcolabile, ne risulti qualcos’altro. Le energie naturali sono rappresentate dalla fisica nel senso di quel porre mediante il quale l’impianto pone ciò che è presente. La natura sta di fronte alla tecnica in un solo modo, quello secondo cui essa, intesa come un sistema dell’ordinare risultati, consiste nell’efficace che è stato posto. Questa essenza della natura è stata pensata per la prima volta e in modo decisivo da Kant, quantunque senza riferimento all’impianto. L’efficacia del reale – ossia della natura – non è nient’altro che l’idoneità a essere ordinato (Bestellfähigkeit) in vista del risultare. Ciò significa che la natura non sta di fronte alla tecnica come qualcosa di indeterminato presente in sé. Essa non le sta di fronte come oggetto che occasionalmente è sfruttato. Nell’evo della tecnica la natura appartiene fin da principio alle risorse dell’ordinabile all’interno dell’impianto.34 Si replicherà che ciò può valere semmai per le energie della natura che le vengono per così dire spillate dalla tecnica. Invece i materiali naturali si trovano da molto tempo al di fuori delle risorse tecniche, da ben prima che la tecnica avesse inizio. La chimica stabilisce ciò che i materiali sono in

sé, nella loro realtà oggettiva. Ma in che modo la scienza assume il materiale (Stoff) della natura? Essa lo rappresenta come la «materia» (Materie). Qual è il tratto fisico fondamentale della materia? È l’inerzia. Che cosa intende la fisica per inerzia? Rappresentata in termini fisici, l’inerzia è il persistere nello stato di moto. Lo stesso si può dire della quiete, che dal punto di vista fisico-calcolatorio vale come caso limite del moto. L’inerzia è resistenza al mutamento del moto. L’inerzia è un’azione contraria che si oppone all’accelerazione. Inteso come materia, il materiale è rappresentato entro l’orizzonte del moto e in vista di ciò che è efficace, vale a dire partendo dall’energia che dev’essere impiegata, cioè posta, per modificare lo stato di moto rispettivo, ossia per ordinarne un altro. Per la fisica la natura è la riserva di energia e materia, che sono quindi i «pezzi di riserva» della natura. Considerata dal punto di vista dell’inerzia, la materia è determinata partendo dall’energia. Però l’energia è ciò che è efficace, ossia idoneo a essere ordinato per il porre ordinato di un risultare. L’energia stessa è l’ordinabile idoneo a essere ordinato, ordinabile cioè in relazione alla sua idoneità a essere conservato, trasformato e immagazzinato – tutti caratteri relativi a una ordinabilità dell’energia costantemente suscettibile di essere posta. Non solo le energie naturali, ma anche i materiali naturali sono rap-presentati (vor-gestellt) in termini fisicochimici in quanto ordinanti-ordinabili (bestellend-bestellbar); rappresentati in un essenziale doppio senso del termine vorgestellt, vale a dire «posti fin da principio» (im vorhinein gestellt) nella prospettiva del calcolare. La natura, che in apparenza sta di fronte alla tecnica, in base all’essenza della tecnica è già installata (eingestellt) tra le risorse dell’impianto in quanto risorsa fondamentale (Grundbestand). L’essenza della tecnica moderna inizia storicamente a dominare con la nascita della scienza naturale dell’età moderna, tre secoli e mezzo fa. Che cosa

significa ciò? Non significa che la tecnica moderna sarebbe stata dapprima soltanto scienza naturale e sia nata solamente in seguito come sua applicazione, quanto piuttosto che l’essenza della tecnica moderna, l’impianto, ebbe inizio con l’atto fondamentale ed essenziale dell’ordinare, nella misura in cui esso, prima di tutto, pose al sicuro fin da principio la natura in quanto risorsa fondamentale. La tecnica moderna non è scienza naturale applicata, anzi è la scienza naturale dell’età moderna a essere applicazione dell’essenza della tecnica, entro cui quest’ultima si volge alla sua risorsa fondamentale allo scopo di porla al sicuro nell’utilizzabilità. Per la scienza naturale qualcosa può essere considerato presente soltanto se e nella misura in cui è calcolabile in anticipo. Questa precalcolabilità dei processi naturali, che è determinante per ogni rappresentare della scienza naturale, è l’ordinabilità conforme alla rap-presentazione (vorstellungsmäßig) della natura in quanto risorsa di un risultare. Sia che tale calcolabilità risulti univoca e certa, sia che rimanga soltanto probabile, quindi coglibile solo in termini statistici, non cambia assolutamente nulla nell’essenza della natura in quanto risorsa ammessa esclusivamente a partire dall’essenza della tecnica.35 È vero che la fisica atomica, dal punto di vista sperimentale e calcolatorio, è diversa dalla fisica classica, eppure, se pensata in base alla sua essenza, rimane la stessa fisica. Nell’evo della tecnica la natura non è un limite della tecnica. La natura è qui piuttosto il «pezzo di riserva fondamentale» (Grundbestandstück) della risorsa tecnica – e nient’altro. La natura non è nemmeno più qualcosa che sta di fronte (ein Gegen-stand). In quanto «pezzo fondamentale» (Grundstück) delle risorse nell’impianto, essa è un qualcosa di stabile il cui stato e la cui costanza si determinano unicamente in base all’ordinare. Tutto ciò che è presente, anche la natura, è presente nel modo della stabilità della risorsa ordinata dall’impianto.

Nel suo porre, l’impianto è universale. Esso riguarda tutto ciò che è presente; tutto, non solo nella sua somma e successione, bensì tutto nella misura in cui ciascun entepresente, in quanto tale, è posto nel suo sussistere in base all’ordinare. E a nulla importa se noi ogni volta e in modo immediato già constatiamo e notiamo espressamente questo carattere dell’essere presente, oppure se per molto tempo non ce ne accorgiamo e – come accade per lo più – continuiamo a rappresentare la realtà del reale in un modo abituale che, pensato in termini rigorosi, è senz’altro confuso.36 Nell’evo della tecnica tutto ciò che è presente lo è secondo la modalità della costanza dei «pezzi di riserva» nelle risorse sussistenti. Anche l’uomo è presente in questo modo, per quanto a tratti e isolatamente possa ancora sembrare che la sua essenza e la sua presenza non siano riguardate dal porre dell’impianto. Ciò che è stabile dei «pezzi di riserva» è caratterizzato dall’uniformità. Nell’impianto tutto è posto in vista della costante sostituibilità dell’uguale tramite l’uguale. Solo così l’impianto rimane completamente accumulato nella costanza del suo meccanismo. L’impianto accumula in anticipo tutto ciò che è ordinabile nell’uguale dell’illimitata ordinabilità delle risorse sussistenti complete. L’uguale costantemente rimpiazzabile vale ugualmente in tutto ciò che è stabile. L’equi-valente (das Gleich-Giltige) in tutto ciò che è stabile assicura a quest’ultimo la costanza mediante la sostituibilità immediatamente ordinabile. La risorsa sussiste in base all’ordinare dell’impianto. Nella risorsa sussistente tutto sta nell’equi-valente. La risorsa sussistente ordina il senzadistacco. Tutto ciò che è reale si stringe nell’uniforme senzadistacco. La vicinanza e la lontananza di ciò che è presente rimangono assenti. Con questa indicazione ha preso avvio la nostra meditazione. L’aeromobile e tutti i mezzi di trasporto, la cui velocità cresce continuamente, accorciano le distanze. Oggi chiunque ne è al corrente. Tutti assicurano che la terra

diventa più piccola. Ognuno sa che la causa di tutto ciò è la tecnica. Ne siamo convinti anche senza avere bisogno di imbarcarci in lunghi giri come quelli da noi percorsi fin qui meditando sulla cosa e il suo coseggiare, sull’impianto e il suo porre, sulla risorsa e i suoi «pezzi di riserva». Perché allora, per ottenere lo sguardo in ciò che è, seguiamo ugualmente questa via del pensiero? Perché non intendiamo affatto limitarci a constatare ancora una volta, tramite una quantità di percezioni aumentabile a piacere, ciò che chiunque, nell’epoca della tecnica, conosce. Il fatto decisivo non è che con l’aiuto della tecnica le distanze si riducono, bensì che la vicinanza rimane assente. Ma anche questo non ci limitiamo a constatarlo, giacché pensiamo a fondo l’essenza della vicinanza per esperire in che misura essa rimanga assente e per approfondire che cosa avvenga in questo assentarsi.37 Non indaghiamo gli effetti esteriori della tecnica per descriverne le conseguenze, bensì ci addentriamo pensando nell’essenza della tecnica per esperire in che modo, conformemente a tale essenza, il rimanere assente della vicinanza si combini con lo sviluppo essenziale della tecnica. Le macchine della tecnica possono accorciare le distanze senza contemporaneamente portare alcuna vicinanza soltanto perché l’essenza della tecnica non ammette fin da principio né vicinanza né lontananza. Noi però non meditiamo sull’essenza della tecnica per erigere o anche solo progettare l’edificio di una filosofia della tecnica. La tecnica è essenzialmente in quanto impianto. Ma che cosa domina nell’impianto? Da dove e come avviene l’essenza dell’impianto?38

IL PERICOLO L’impianto ordina le risorse. Nel contempo, e prima ancora, esso impedisce la vicinanza. Il fatto che nell’impianto, che ordina ovunque il senza-distacco dell’equivalente, la vicinanza rimanga assente offre un cenno circa l’essenza dell’impianto, giacché tale essenza implica presumibilmente che in essa il rimanere assente della vicinanza avvenga proprio perché l’impianto è essenzialmente in modo tale da impedire la vicinanza. Che cosa avviene se la vicinanza è celata? In tal caso, com’è essenzialmente l’essenza dell’impianto? La vicinanza avvicina (Nähe nähert). La vicinanza avvicina mondo (Nähe nähert Welt).39 Il mondo però è il gioco di specchi ancora latente dell’insieme dei Quattro, cielo e terra, mortali e divini. L’avvicinare mondo è il coseggiare della cosa. Se la vicinanza che avvicina è impedita, la cosa rimane celata in quanto cosa. L’universale ordinare dell’impianto fa essere presente tutto ciò che è presente solo come «pezzo di riserva» delle risorse sussistenti. Tra queste ultime non è più ammesso nemmeno l’oggetto, e tantomeno lo è già la cosa in quanto cosa. L’impianto è essenzialmente nella misura in cui non salvaguarda (wahrt) ancora la cosa in quanto cosa. Nell’essenza dell’impianto la cosa rimane non salvaguardata (ungewahrt) in quanto cosa. L’essenza dell’impianto lascia la cosa senza salvaguardia (ohne die Wahr). Nella lingua tedesca, dove essa parla ancora in modo originario, la parola Wahr significa Hut, «protezione». In dialetto svevo die Wahr significa «i figli affidati alla protezione materna». Nel suo porre, l’impianto lascia la cosa senza la protezione, ossia senza la salvaguardia della sua essenza di cosa.40 L’essenza dell’impianto non salvaguarda la cosa in quanto cosa. L’impianto è essenzialmente nella misura in cui lascia la cosa priva di salvaguardia (wahrlos). Tuttavia, dato che l’impianto, sia pure in modo latente, domina da molto tempo e mediante il suo ordinare strappa via in maniera sempre più

decisa tutto ciò che è presente trascinandolo tra le risorse, si ha che sotto il dominio essenziale dell’impianto da tempo la cosa in quanto cosa diventa sempre più priva di salvaguardia. Nell’accumulo del suo meccanismo, che assicura ovunque soltanto le risorse ordinabili, l’impianto strappa via la cosa inizialmente non salvaguardata nella sua essenza trascinandola nel «diventare più priva di salvaguardia» (das Wahrloserwerden). Nell’essenza dell’impianto avviene l’«incuria» (Verwahrlosung) della cosa in quanto cosa. La parola «incuria» è presa qui alla lettera, cioè è detta in base a una questione pensata prima, perché ciò che è ben pensato è ben detto, e ciò che è ben detto è ben pensato. «Incuria» non significa qui né lo scivolare nella trascuratezza né lo scadere nel disordine. La parola «incuria» da noi ora usata non è un rimprovero e non contiene alcun giudizio di valore. L’incuria della cosa nomina ciò che succede nell’essenza dell’impianto che ci indica l’essenza della tecnica. Che cosa avviene nell’incuria della cosa? Che cosa è già accaduto, se la cosa non può ancora coseggiare in quanto cosa? Coseggiando, la cosa avvicina mondo e fa permanere mondo. Se però la cosa, priva com’è di salvaguardia, non coseggia, il mondo rimane rifiutato in quanto mondo. Nell’incuria della cosa avviene il rifiuto (Verweigerung) del mondo. Il mondo però è il gioco di specchi ancora latente dell’insieme dei Quattro, cielo e terra, mortali e divini. Il mondo mondeggia. Tuttavia non soltanto il mondeggiare del mondo non è esperito espressamente né pensato in modo adeguato, ma per di più noi siamo ancora del tutto incapaci sia di pensare il mondeggiare del mondo puramente in base a esso stesso, sia di corrispondergli.41 Perciò abbiamo bisogno di ausili, che ci portano necessariamente, com’è ovvio, a rappresentare il mondeggiare del mondo partendo da qualcos’altro, anziché a

pensarlo in base a esso stesso in una modalità di pensiero adeguata. Nondimeno, è anche vero che questo altro, in base al quale, ora, pensiamo in termini rappresentativi il mondeggiare del mondo, a sua volta non può essere nemmeno del tutto estraneo all’essenza del mondo. A noi invece accade qui di scambiare questo altro – partendo dal quale comprendiamo il mondeggiare del mondo – per l’essenza stessa del mondo, mentre in verità il mondeggiare del mondo è l’essenza nascosta proprio di ciò che adduciamo per definirlo. In tal modo ci incamminiamo adesso, consapevoli, per una strada inevitabilmente sbagliata. Poiché però la seguiamo sapendo ciò che facciamo, a tempo debito potremo anche tornare indietro. Il mondo è l’insieme dei Quattro, terra e cielo, divini e mortali. Il gioco di specchi della Quadratura salvaguarda tutto ciò che, coseggiando in esso fra i Quattro, è presente e assente, nell’intero unificante della sua presenza. Fin dai tempi antichi l’essere presente di ciò che è presente si dice τὸ έόν, l’essente (das Seiend); τὸ έἰναἰ è l’essere, vale a dire l’essere degli έόντα, dell’ente (das Seiende), l’esse entium. Il mondo fa avvenire, aprendolo nella radura e salvaguardandolo (es lichtend-wahrend), il coseggiare della cosa. Il mondo salvaguarda così l’essenza dell’essere presente in quanto tale. Mondeggiando, il mondo salvaguarda l’essenza di ciò che è essenzialmente in quanto essere dell’ente. Rappresentiamo ora il mondo facendo riferimento all’essere dell’ente che ci è noto. Così rappresentato, il mondo è ciò che salvaguarda l’essere nella sua essenza. In quanto salvaguarda in tal modo, il mondo è la salvaguardia (Wahrnis) dell’essenza dell’essere. Invece di Wahrnis, «salvaguardia», diciamo anche Wahrheit, «verità», e in tal senso pensiamo questa parola fondamentale in modo più iniziale in base al mondeggiare del mondo. L’ancora latente gioco di specchi nell’insieme dei Quattro, terra e cielo, divini e mortali, mondeggia in quanto mondo. Il mondo è la verità dell’essenza dell’essere.

In tal modo caratterizziamo ora il mondo dalla prospettiva che guarda all’essere. Così rappresentato, il mondo è sottoposto all’essere, mentre in verità è l’essenza dell’essere a essere essenzialmente in base al latente mondeggiare del mondo.42 Il mondo non è un modo dell’essere a esso sottomesso. L’essere possiede come propria la sua essenza in base al mondeggiare del mondo. Ciò indica che il mondeggiare del mondo è il fare avvenire in un senso ancora non esperito della parola. Soltanto se il mondo avviene espressamente, l’essere – ma con esso anche il nulla – svanisce nel mondeggiare. Soltanto se il nulla, sparendo nella sua essenza basata sulla verità dell’essere, scompare in quest’ultima, il nichilismo è superato. Tuttavia, il mondo in quanto mondo ancora si rifiuta, ancora si sottrae nella latenza (Verborgenheit) che gli è propria. «Rimanere latente, velato» (verborgen bleiben) si dice in greco λανθανέἰν. Λήθη è la latenza, la velatezza. Il mondo, rifiutandosi nel suo mondeggiare, rimane velato in quanto provenienza essenziale (Wesensherkunft) dell’essere. Sennonché il mondo rimane nella velatezza (Λήθη) in modo tale che proprio questa sua velatezza concede una svelatezza (Unverborgenheit):43 l’Ἀλήθεια. Quest’ultima è il celaresalvare (bergen) che apre nella radura l’essere presente di ciò che è presente nella svelatezza. L’ente nel suo essere è essenzialmente in quanto ente-presente in base all’Ἀλήθεια. Sulla svelatezza di ciò che è presente in quanto tale, ossia sull’Ἀλήθεια, si fonda – e da essa si dispiega – la piena ricchezza essenziale del destino (Geschick) dell’essere di tutto l’ente. L’Ἀλήθεια destina se stessa (schickt sich) nel celaresalvare che apre nella radura l’essere presente, si dispone a dispiegare ciò che è presente nella dimensione destinale (das Geschickliche) del suo essere presente. L’Ἀλήθεια è il destino dell’essere, ed è come destino così inteso che la pienezza della storia dell’essere si dispone nelle sue epoche. Nondimeno, l’Ἀ-λήθεια, ossia la svelatezza di ciò che è

presente in quanto tale, è essenzialmente solo quando e solo finché avviene come velatezza, Λήθη, dato che l’Ἀλήθεια non elimina la Λήθη. La svelatezza non esaurisce la velatezza, bensì la svelatezza esige sempre la velatezza, in tal modo confermandola come la fonte essenziale dell’Ἀλήθεια, la quale si attiene alla Λήθη e si mantiene in essa. E ciò avviene in maniera così decisa che addirittura l’Ἀλήθεια stessa, come tale,44 ricade prematuramente nella velatezza a favore di ciò che è presente in quanto tale. Ciò che è presente prende il sopravvento su ciò entro cui soltanto esso essenzialmente è. Infatti l’essere presente – vale a dire il giungere a perdurare e il rimanere durevolmente (das Her- und Hereinwähren) nella radura (Lichtung) di un aperto avente carattere di mondo (ein welthaft Offenes) – può essere essenzialmente soltanto in quanto avviene la svelatezza, indipendentemente dal fatto che essa sia espressamente esperita e addirittura rappresentata oppure no. In effetti l’Ἀλήθεια non si conserva espressamente nella sua propria essenza, bensì decade nella velatezza, nella Λήθη. L’Ἀλήθεια cade nella dimenticanza (Vergessenheit). Quest’ultima, tuttavia, non consiste per nulla nel fatto che un rappresentare umano si limiti a non tenere a mente qualcosa nel ricordo: la dimenticanza, il decadere nella velatezza, avviene invece assieme all’Ἀλήθεια stessa a favore dell’essere essenzialmente di quell’entepresente che è presente entro la svelatezza. La Λήθη è la dimenticanza della salvaguardia dell’essenza dell’essere. In tal senso la Λήθη è proprio la fonte e la provenienza essenziali del dominio di ogni modo dell’essere. L’espressione sintetica, dunque facilmente equivocabile, Seinsvergessenheit, «dimenticanza dell’essere», significa che l’essenza dell’essere, l’essere presente, unitamente alla sua provenienza essenziale dall’Ἀλήθέἰα in quanto evento dell’essenza di quest’ultima, decade, assieme all’Ἀλήθεια stessa, nella velatezza.45 Con questa decadenza nella velatezza si sottraggono l’essenza dell’Ἀλήθεια e dell’essere presente. Sottraendosi, esse rimangono46 inaccessibili al percepire e al rappresentare umani. Per questo il pensiero

umano non può pensare all’essenza della svelatezza e dell’essere presente in essa. Incapace in tal modo di rammemorare, il pensiero umano ha dimenticato fin da principio l’essenza dell’essere. Ma esso si trova in tale smemoratezza (Vergeßlichkeit) dell’essenza dell’essere solo perché questa stessa essenza è avvenuta in quanto dimenticanza e decadenza nella velatezza.47 Questo evento riposa sul fatto che il mondo, inteso come la salvaguardia dell’essenza dell’essere, si rifiuta. Il cenno che indica l’evento di tale rifiuto si cela nel destino dell’essere, destino che si dispone nelle epoche della dimenticanza dell’essere in modo tale che esse, proprio in quanto epoche dello svelamento (Entbergung) dell’ente nella sua enticità, determinano la storia occidentale-europea fin nel suo attuale sviluppo verso la totalità planetaria. È questo il presupposto del fatto che la lotta dell’età moderna per il dominio della terra si concentri sulle posizioni delle due attuali potenze-«mondiali» («Welt»- Mächte). Il rifiuto del mondo avviene in quanto incuria della cosa.48 Rifiuto del mondo e incuria della cosa si trovano in un rapporto singolare. In quanto rapporto così inteso esse sono lo Stesso (das Selbe), benché non l’Uguale (das Gleiche). Ma in che modo avviene il rifiuto del mondo in quanto incuria della cosa? In questo modo: che l’impianto dispiega la sua essenza. Esso ordina tutto ciò che è presente come ciò che è stabile dei «pezzi di riserva» delle risorse sussistenti. Così ordinando le risorse, l’impianto pone tutto ciò che è presente nel senza-distacco. L’impianto riguarda l’essere presente di tutto ciò che è presente come tale, ed è quindi nella sua essenza l’essere dell’ente nel suo destino estremo e probabilmente compiuto. L’impianto è l’essenza della tecnica moderna. L’essenza dell’impianto è l’essere stesso dell’ente: non in generale e non da sempre, bensì ora che la dimenticanza dell’essenza dell’essere giunge a compimento. L’evento di questo compimento della dimenticanza dell’essere determina anzitutto l’epoca nella misura in cui ora l’essere è

essenzialmente nella modalità dell’impianto. È l’epoca della compiuta incuria della cosa da parte dell’impianto. Però il mondo, che mondeggiando fa avvenire il coseggiare della cosa, rimane velato, sebbene la sua velatezza conceda proprio la svelatezza di ciò che è presente e, così, l’essere presente, l’essere dell’ente. Custodendo la verità dell’essenza dell’essere, e inviando l’essere nel suo destino, il mondo è l’essere stesso. Dominando totalmente ciò che è presente in quanto tale nella modalità dell’incuria della cosa, l’impianto è l’essere stesso. Il mondo e l’impianto sono lo Stesso. Ma, daccapo, lo Stesso non è mai l’Uguale. Tantomeno esso è solo l’indifferenziato coincidere dell’Identico (das Identische). Lo Stesso è piuttosto il rapporto della differenza. «Stesso» (selbig) è ciò che è necessariamente mantenuto, cioè protetto, ossia custodito in questo rapporto (Verhältnis) che avviene, rimanendo così trattenuto (verhalten) in senso stretto. Il mondo e l’impianto sono lo Stesso e sono quindi contrapposti l’uno all’altro fin nell’estremo della loro essenza. Tuttavia, la contrapposizione fra mondo e impianto non è un’antitesi soltanto lì presente, dunque rappresentabile, fra due oggetti lì presenti. La contrapposizione avviene, e avviene nello Stesso come ciò che è essenzialmente dell’essere stesso. Ordinando tutto l’ente-presente a rientrare nelle risorse sussistenti, l’impianto pone l’essere presente dell’ente-presente fuori dalla sua provenienza essenziale, ossia dall’Ἀλήθεια. Ordinando le risorse sussistenti, l’impianto fa dominare il senza-distacco. Tutto ha uguale valore. All’equi-valente non importa più se e come esso stesso sia ancora presente come qualcosa di svelato contrapposto a qualcos’altro di velato. Ordinando le risorse sussistenti, l’impianto fa decadere la svelatezza e la sua essenza nella completa dimenticanza. In quanto essenza dell’essere, l’impianto pone l’essere fuori dalla verità della sua essenza, depone l’essere dalla sua

verità. In quanto l’impianto è essenzialmente, l’essere stesso si depone dalla verità della propria essenza, benché in questo de-porre (ent-setzen) e dimettersi (sichabsetzen) non possa mai separarsi dall’essenza dell’essere. In quanto l’impianto è essenzialmente, la salvaguardia dell’essenza dell’essere, il mondo, si destituisce (setzt sich weg) diventando dominio dell’impianto, che rifiuta il mondo mediante l’incuria della cosa. È così che nell’essere essenzialmente e nel dominare dell’impianto è tenuta in serbo la provenienza del mondeggiare del mondo. Sennonché l’evento di tale tenere in serbo il mondo mantiene, appunto, una velata lontananza rispetto al mondeggiare del mondo.49 Nell’impianto inteso come il destino compiuto della dimenticanza dell’essenza dell’essere riluce in modo poco appariscente un raggio del lontano avvento del mondo. In quanto il mondo rifiuta il suo mondeggiare, non è che, del mondo, non accada nulla, ma il rifiuto irradia la grande vicinanza della lontanissima lontananza del mondo. Il mondo e l’impianto sono lo Stesso. Essi sono, in modo differente, l’essenza dell’essere. Il mondo è la salvaguardia dell’essenza dell’essere; l’impianto è la compiuta dimenticanza della verità dell’essere. Lo Stesso, ossia l’essenza in sé differente dell’essere, si trova da sé in una contrapposizione, nel senso che il mondo, velatamente, si depone nell’impianto. L’impianto però non si limita a dimettersi dal velato mondeggiare del mondo, bensì, ordinando tutto l’ente-presente a rientrare nelle risorse sussistenti, incalza (zusetzt) il mondo con il compimento della dimenticanza del suo mondeggiare. Incalzando in tal modo,50 l’impianto insegue (setzt nach) la verità dell’essenza dell’essere con la dimenticanza. Questo «dare la caccia» (nachstellen) è lo Stellen vero e proprio che avviene nell’essenza dell’impianto. Solo su questo dare la caccia51 riposa quel porre dell’impianto che, nel modo dell’ordinare le risorse sussistenti di tutto ciò che è presente, pone

nell’incuria della cosa. Il dare la caccia così caratterizzato costituisce l’intima essenza di quel porre in forma del quale l’impianto essenzialmente è. In antico altotedesco, nachstellen, «dare la caccia», si dice fara. Il porre in sé raccolto inteso come dare la caccia è die Gefahr, «il pericolo». Il dare la caccia è il tratto fondamentale dell’essenza del pericolo. Nella misura in cui l’essere, in quanto impianto, dà la caccia a se stesso con la dimenticanza della sua essenza, l’essere in quanto essere è il pericolo della sua propria essenza. Pensato in base all’essenza dell’impianto e nella prospettiva del rifiuto del mondo e dell’incuria della cosa, l’essere è il pericolo.n L’essere è in sé, da sé e per sé il pericolo per antonomasia. In quanto è il dare la caccia che tende insidie alla sua propria essenza con la dimenticanza di tale essenza, l’essere in quanto essere è il pericolo. Questo essenziale carattere di pericolo (Gefahrwesen) è il modo in cui lo Stesso – mondo e impianto –, in quanto elemento essenziale di volta in volta differente dell’essere, depone se stesso inseguendosi. Il pensiero che l’essere in sé sia essenzialmente come il pericolo di se stesso rimane per noi ancora strano e, poiché strano, anche fin troppo facilmente equivocabile. Pensiamo infatti in modo adeguato ciò che abbiamo detto solo se meditiamo a fondo quanto segue: pensato partendo dall’essenza dell’impianto che dà la caccia, l’essere non è affatto rivestito esteriormente del carattere di essere pericoloso, bensì, al contrario, l’essere, che fino a oggi nella metafisica si dispiegava a partire dall’idea, secondo la sua essenza finora velata appartiene a ciò che adesso domina totalmente l’essere in quanto pericolo. Il pericolo è il dare la caccia che si raccoglie in sé, poiché è come tale che l’impianto – nella modalità dell’incuria della cosa – dà la caccia al mondo che si rifiuta tramite la dimenticanza della sua verità. L’essenza della tecnica è l’impianto. L’essenza dell’impianto è il pericolo. L’essere è nella sua essenza il pericolo di se stesso. Soltanto perché è il pericolo nel senso

qui inteso, il pericolo è in sé contemporaneamente la pericolosità (Gefährlichkeit) per il pensiero umano dell’essere. La zona di questa pericolosità del pericolo, che il pensiero deve attraversare per esperire l’essenza dell’essere, è ciò che altrove e in precedenza si è chiamato l’«erranza» (Irre), con la specificazione che tale erranza non è un errore della conoscenza, bensì appartiene all’essenza della verità nel senso della svelatezza dell’essere. L’essenza dell’erranza si fonda sull’essenza dell’essere in quanto pericolo. Da questo punto di vista l’aspetto più pericoloso del pericolo consiste nel fatto che esso si cela come quel pericolo che è. Dando la caccia all’essenza dell’essere, l’impianto occulta il suo essenziale carattere di pericolo. È per questo che noi, di tale essenza dell’essere – consistente nell’essere in sé essenzialmente come il pericolo della verità della sua essenza –, innanzitutto e per molto tempo non ci accorgiamo affatto e, quando ce ne accorgiamo, lo facciamo solo con difficoltà. Noi non esperiamo ancora il pericolo in quanto pericolo. Non esperiamo l’impianto come l’essenza dell’essere che dà la caccia a se stessa e, nel farlo, si nasconde. Entro il riferimento all’essere che ci domina, non esperiamo nell’essere stesso il suo essenziale carattere di pericolo, nonostante l’ente sia ovunque colmo di pericoli e di necessità. Anzi, sono proprio i rischi e le tribolazioni che, invece di indirizzarci verso il pericolo presente nell’essenza dell’essere, ci rendono ciechi nei confronti del pericolo stesso, il cui aspetto più pericoloso consiste nel non mostrarsi come pericolo. Sembra infatti che l’essere stesso sia innocuo e in sé privo di pericolo, giacché per gli uni esso è ancor sempre e soltanto il più generale e vuoto dei concetti – e che cosa c’è di più inoffensivo di un vuoto concetto? –, mentre per gli altri fa tutt’uno con il più essente (das Seiendste) degli enti, cioè Dio.52 Il pericolo, nella cui forma l’essenza dell’impianto avviene nel dominio della tecnica, raggiunge il suo culmine quando,

nel mezzo dell’unico pericolo, si diffonde ovunque e solamente l’innocuo (das Ungefährliche) sotto l’aspetto delle numerose tribolazioni casuali. Ogni pericolo comporta una necessità (Not). La necessità necessita (nötigt). Essa costringe a entrare in ciò che sgomenta, obbliga a imboccare una via senza uscita. Ovviamente, dove il pericolo si cela, si nasconde anche la necessità, ed è per questo che essa non è esperita come necessità. Ora, non c’è dubbio che ci capitino molte specie di necessità e di avversità: le si elimina e le si allevia caso per caso in base a una elementare forma di solidarietà che, con un operare inapparente, non lascia intentato alcun mezzo, lenendo così le varie sofferenze e mitigando le necessità. Eppure non si presta attenzione alla necessità. In riferimento alla necessità, nel mezzo dell’estrema necessità del sommo pericolo domina l’assenza di necessità (Notlosigkeit). In verità, ma in modo nascosto, l’autentica necessità è l’assenza di necessità. Tutti hanno necessità, però nessuno sta nella necessità, poiché il pericolo non sembra sussistere. Ci sono nondimeno occasioni in cui possiamo notare la necessità, ossia il dominio dell’assenza di necessità? Ci sono i segni caratteristici, solo che non prestiamo loro attenzione. Centinaia di migliaia muoiono in massa. Muoiono? Periscono. Sono uccisi. Muoiono? Diventano «pezzi di riserva» di una riserva della fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Sono liquidati con discrezione nei campi di sterminio. E anche senza arrivare a tanto, in questo momento in Cina a milioni cadono in miseria e crepano di fame. Morire però significa portare a conclusione (austragen) nella sua essenza la morte. Poter morire significa essere capaci (vermögen) di tale conclusione (Austrag). E noi ne siamo capaci soltanto se la nostra essenza desidera (mögen) l’essenza della morte. Tuttavia, nel mezzo delle innumerevoli morti l’essenza della morte rimane occultata. La morte non è né il vuoto

nulla, né soltanto il passaggio da un ente all’altro. La morte appartiene all’esserci dell’uomo fatto avvenire in base all’essenza dell’essere. In tal senso essa cela-salva (birgt) l’essenza dell’essere. La morte è il supremo ri-paro nascosto (Gebirg) della verità dell’essere stesso, il riparo nascosto che cela-salva in sé la velatezza dell’essenza dell’essere e riunisce il salvamento (Bergung) della sua essenza. È per questo che l’uomo è capace di morte solo e anzitutto se l’essere stesso, in base alla verità della sua essenza, traspropria l’essenza dell’uomo nell’essenza dell’essere. La morte è il riparo nascosto dell’essere nel poema del mondo. Essere capaci di morte nella sua essenza significa «poter morire». Soltanto coloro che possono morire sono i mortali nel senso fondamentale della parola. Ovunque si vedono travagli in massa di innumerevoli morti orribilmente nonmorte (ungestorben) – eppure l’essenza della morte è occultata all’uomo. L’uomo non è ancora il mortale. Sofferenze enormi serpeggiano e dilagano sulla terra, e la marea della sofferenza continua a salire, eppure l’essenza del dolore si cela. Il dolore è lo schizzo (Riß) in cui è disegnato lo schema (Grundriß) dell’«insieme dei Quattro» del mondo. In base a questo schema ciò che è grande riceve quella grandezza che è troppo grande per l’uomo. Nello schizzo del dolore ciò che è altamente concesso salvaguarda il suo perdurare. Lo schizzo del dolore tratteggia (reißt) il velato andare del favore (Gunst) in un inusato avvento della grazia (Huld). Ovunque ci tormentano innumerevoli e incommensurabili sofferenze. Noi però siamo privi di dolore, non siamo traspropriati nell’essenza del dolore. Un terribile immiserimento si sta diffondendo. L’esercito dei poveri continua a crescere. Eppure l’essenza della povertà si cela. In essa avviene che il semplice e mite di tutto ciò che ha carattere essenziale si trasforma in modo inappariscente nella proprietà in cui le cose di un mondo concesso desiderano abitare. La morte, il riparo nascosto dell’essere; il dolore, lo schema dell’essere; la povertà, la liberazione nella proprietà

dell’essere: sono segni caratteristici in cui il pericolo fa capire che nel mezzo delle enormi necessità rimane assente la necessità e che il pericolo non è in quanto pericolo. Il pericolo si cela occultandosi mediante l’impianto. Questo a sua volta si vela in ciò che esso fa essere essenzialmente, nella tecnica. Da ciò dipende anche il fatto che il nostro rapporto con l’essenza della tecnica sia così strano. In che senso è strano? La ragione per la quale proprio ora, dove tutto è comunque sempre più permeato da fenomeni tecnici e da effetti della tecnica, continuiamo ovunque a fraintendere la tecnica stessa, è che non vengono alla luce né l’essenza della tecnica in quanto impianto, né l’essenza dell’impianto in quanto pericolo, né il pericolo in quanto l’essere stesso. Noi pensiamo alla tecnica in modo o troppo riduttivo o troppo affrettato. A quanto è stato ora discusso circa la tecnica, l’impianto e il pericolo potremmo essere tentati di replicare senza mezzi termini che il fatto che la tecnica sia un pericolo lo si proclama oggigiorno dappertutto in modo insistente e a gran voce. Molti anzi si spingono già oltre nel loro giudizio. Si sostiene che la tecnica sia la sventura per la civiltà superiore poiché trascinerebbe tutto nella mera civilizzazione. Si dice che la tecnica sia la catastrofe del mondo moderno, il cui sicuro tramonto è attribuito all’inarrestabile dominio della tecnica. Oggi simili giudizi sono ora proclamati con passione e in tono di monito, ora esternati in modo titubante e timoroso. Essi determinano in varie maniere l’opinione corrente sulla tecnica, malgrado al tempo stesso si insegua avidamente l’ultimo progresso tecnico, e forse addirittura non si possa non rincorrerlo. Tuttavia, il fatto che qui il giudizio e l’atteggiamento in rapporto alla tecnica si contraddicano, e che tale contraddizione costituirebbe un’obiezione, conta poco: che cosa mai infatti non si contraddice nella nostra esistenza e ciò nondimeno è reale, più reale forse di ciò che è piattamente coerente? Quanto ai giudizi sulla tecnica che abbiamo riportato, occupiamoci ora solo del modo in cui la

rappresentano. Essi non considerano la tecnica riguardo alla sua essenza e alla sua provenienza, ma mirando ai suoi effetti su tutto quel reale di cui si dice che si presenterebbe da sé al di fuori dell’ambito essenziale della tecnica: la cultura, la politica, la morale, la religione. Si calcola in che modo la tecnica, che si suppone essere una realtà fra le altre, riguardi tutte le realtà rimanenti. Si incalza la tecnica indagando come essa provochi le realtà rimanenti, come le ponga e le assalga con l’obbligo a presentarsi e, nel far questo, ne determini lo sviluppo o il degrado nel senso dell’utilità o del danno. Si considera la tecnica in termini tecnici. È ovvio che quest’ottica corrisponda alla tecnica visto che si sottomette già al potere dell’analisi tecnica. Proprio per questo però il formulare giudizi tecnici sulla tecnica non giunge mai a penetrare nell’essenza della tecnica, anzi si preclude addirittura fin da principio la via che conduce al suo ambito essenziale. Le prese di posizione citate non hanno mai pensato a fondo l’essenza della tecnica, e poiché le loro asserzioni non parlano a partire di là, le valutazioni rimangono esteriori. Perciò non cambia nulla esecrare la tecnica come sventura o elogiarla come il maggiore progresso dell’umanità, proclamandola redenzione dell’uomo. L’atteggiamento nei confronti della tecnica rimane confuso, dunque contrastante. Senza azzardare il passo del pensiero che espone il nostro essere umano all’essenza della tecnica (e non soltanto alla sua applicazione e al suo utilizzo), ci si affanna caso per caso, situazione per situazione, ad aprirsi un varco fra i contrasti. Ed esattamente a causa di tale affanno ci si lascia sfuggire la possibilità di ciò a cui in fondo si anela, ossia di padroneggiare la tecnica mediante il fare umano e di indirizzarla in modo degno dell’uomo. Ma come potrà mai accadere tutto ciò su larga scala, sul piano dell’umanità e in senso storico, finché neppure la domanda sull’essenza della tecnica e sul suo rapporto essenziale con l’essere umano è presa seriamente? Finché non ci rendiamo minimamente conto che solo pensando possiamo schiudere l’ambito

essenziale della tecnica ed entrare in esso, per poi, entro questo spazio essenziale, agire e riflettere espressamente in termini tecnici, non siamo in grado di prendere decisioni adeguate riguardo alla tecnica. Sennonché ci sono teorie della tecnica che affermano che essa non è né qualcosa di buono né qualcosa di cattivo. Si dice che la tecnica è neutrale e che tutto dipenderebbe da ciò che l’uomo combina con essa e fa di essa, nonché dalla sua capacità di tenerla in pugno e dalla sua volontà di sottometterla a fini superiori. Tutto si deciderebbe in base alla capacità o incapacità umana di padroneggiare moralmente e religiosamente la tecnica. A questa presa di posizione nei confronti della tecnica nessuno disconoscerà la serietà della responsabilità. Eppure nemmeno questa considerazione della tecnica, al pari di quelle summenzionate, la pensa nella sua essenza; infatti chi spaccia la tecnica per qualcosa di neutrale la rappresenta, a maggior ragione, soltanto come uno strumento mediante il quale qualcos’altro è prodotto e ordinato. Chi prende la tecnica per qualcosa di neutrale torna a rappresentarla in termini solo strumentali, cioè tecnici. Però l’essenza della tecnica non consiste in ciò che essa ha di tecnico, bensì si limita a celarsi in esso. L’essenza della tecnica non è essa stessa niente di tecnico. Ovviamente, coloro che ritengono la tecnica qualcosa di neutrale suscitano l’insidiosa impressione di essere loro a considerarla in termini obiettivi, se non addirittura in sé, ossia in modo scevro di ogni giudizio di valore. Però l’apparenza inganna. Si può intendere la tecnica come qualcosa di diabolico, di divino o di neutrale, ma in tutto questo valutare e rappresentare si è fin da prima e inconsapevolmente già d’accordo sul fatto che essa sia un mezzo per uno scopo. Assunta come mezzo, la tecnica è posta in mano all’uomo. Rappresentata come mezzo, essa vale come un reale in mezzo a molti altri reali. Colui che, consapevolmente o inconsapevolmente, assume la tecnica come mezzo, sembra in effetti stimarla in ogni caso in modo

positivo, adottando nei suoi confronti una dignitosa divisione dei ruoli; in verità, però, dove ha valore strumentale di mezzo, o addirittura di attrezzo, la tecnica risulta degradata nella sua essenza. Essa vale come qualcosa di essente fra molti altri enti, mentre all’opposto è l’essere stesso a essere essenzialmente entro la tecnica e in quanto tecnica. Se invece un pensiero tenta di esperire l’essenza della tecnica nella riunione dominante di un porre universale, vale a dire nell’impianto da pensarsi in questi termini, allora non v’è dubbio che un pensiero siffatto contenga l’implicita pretesa di apprezzare l’essenza della tecnica in un modo che, all’interno del pensiero attuale, può essere superato a stento. Non menzioniamo qui le opinioni correnti sulla tecnica per rinfacciare loro di trascurare il pensiero, o per rimproverare loro di non arrivare mai a penetrare nell’essenza della tecnica, o addirittura per confutarle come giudizi sbagliati. L’opinare sulla tecnica, dominante in molteplici versioni e storicamente necessario, è nominato ora soltanto perché risulti chiaro in che senso il dominio dell’essenza della tecnica ordini entro il suo accumulo anche e proprio il rappresentare umano che la concerne. Il potere essenziale della tecnica non riposa in primo luogo sull’effetto delle apparecchiature ad alta frequenza, bensì sul fatto che al rappresentare umano la tecnica si presenta anzitutto e per lo più in termini soltanto tecnici. L’essenza della tecnica, l’impianto, produce il suo stesso occultamento (Verstellung). A questo occultarsi (sichverstellen) dell’impianto si è esposti anche nel caso in cui, di quando in quando, si avverta confusamente, e per un istante si ammetta chiaramente, che la tecnica si è da molto tempo sottratta alla mera utilizzazione come mezzo e che, al contrario, è essa stessa a trascinarsi dietro l’uomo come suo strumento, sia che egli segua ciecamente questo strappo in avanti, sia che si sforzi in continuazione di indirizzare la tecnica, quanto ai suoi effetti, verso ciò che è propizio e utile. Si è comunque esposti all’enigmatico velarsi dell’essenza della tecnica

anche nel caso in cui si riconosca che essa, alla fine, è pur sempre qualcosa di più e di diverso da un mezzo in mano all’uomo. Sennonché, la tecnica non si limita a non essere più un mero strumento soltanto alla fine, bensì, al contrario, mai fin dal suo inizio essenziale è stata un mezzo in mano all’uomo. Essa si è sottratta fin da principio all’essere trattata come mezzo, sebbene la sembianza quotidiana delle prestazioni e delle operazioni tecniche dia a intendere tutt’altro. Se però di tanto in tanto si ha il confuso presentimento che la tecnica potrebbe essere in verità qualcosa di diverso da un mezzo, è pur sempre solo con l’aiuto di parole altisonanti, ma non pensate, che ci si sottrae alla malia di un impeto oscuro che, provenendo dall’essenza della tecnica, ha assalito l’essere umano. Si dice che la tecnica sia qualcosa di demoniaco e che questa sua natura demoniaca conduca il volere e l’agire dell’uomo in un tragico intrigo. In un tempo di miseria come il nostro non si dovrebbero tirare in ballo parole che provengono dalla lingua di un’epoca che pensava in grande e in cui proprio ciò che era pensato in grande, e solo esso, apriva nella radura e salvaguardava l’ambito di manifestazione degli dèi, i δαίμoνες, e del destino, la τύχη. In verità, il terrore e lo sgomento di fronte al presunto carattere demoniaco della tecnica e alle sue presunte conseguenze tragiche altro non è che la paura del pensiero che pensa a fondo ciò che è, un pensiero che, al di fuori dei virtuosismi e dell’acume dell’intelletto, ma anche di ogni sentimentalismo, cerca sobriamente i suoi sentieri in ciò che è da pensare. La tecnica non è nella sua essenza né un mezzo per uno scopo, né uno scopo essa stessa. La sua essenza domina al di fuori dell’ambito di mezzo e scopo, ambito che è determinato dall’operare per cause ed effetti e che in tal modo si delimita come l’ambito del reale effettivo. La tecnica, nella sua essenza, non è affatto qualcosa di reale accanto a un altro reale, giacché essa è il tratto fondamentale latente della realtà effettiva di tutto ciò che ora è effettivamente reale. Il tratto fondamentale della realtà

effettiva è la presenza. L’essere presente appartiene all’essenza dell’essere stesso. L’essenza della tecnica è l’essere stesso nella forma essenziale dell’impianto. Ma l’essenza dell’impianto è il pericolo. Pensiamo tuttavia a fondo e con chiarezza: l’impianto non è il pericolo in quanto è l’essenza della tecnica e in quanto dalla tecnica possono scaturire effetti minacciosi e pericolosi. L’impianto è il pericolo non in quanto tecnica, bensì in quanto essere. L’elemento essenziale del pericolo è l’essere stesso, nella misura in cui dà la caccia alla verità della sua essenza con la dimenticanza di questa essenza. L’essenza della tecnica è chiamata con lo strano nome di Ge-Stell, «impianto», proprio perché tale essenza non è niente di meno che l’essere stesso. Dopo avere pensato a fondo in alcuni suoi tratti la questione, ossia l’essenza della tecnica intesa come l’essere di ciò che ora è, ci è consentito dire in breve qualcosa anche in merito al nome da noi attribuito a tale essenza, cioè alla parola Ge-Stell. La parola tedesca stellen, «porre», corrisponde alla parola greca θέσἰς, posto che pensiamo θέσἰς in greco. Che cosa significa in questo caso pensare in greco? Significa prestare attenzione a quale radura (Lichtung) dell’essenza dell’essere abbia reclamato (in den Anspruch genommen) l’esserci degli antichi Greci, e in che modo l’abbia fatto; significa pensare a fondo anticipatamente in quale destino di quale svelatezza dell’essere stavano i Greci, poiché è in conformità all’appello (Anspruch) di tale destino che la loro lingua parlava e che parla ogni parola di questa lingua. Una simile attenzione dedicata al greco è un po’ più difficile dell’esercizio della filologia classica ed è quindi anche più esposta all’errore rispetto a tale scienza. Pensare in greco non significa regolarsi semplicemente sulle dottrine della filologia classica. Se così fosse, correremmo il pericolo di consegnare il pensiero, e ciò che in esso è da pensare, a un rappresentare storiografico che, in quanto scienza, vive del fatto di non conoscere i suoi capziosi presupposti. Che cosa significa dunque la parola θέσἰς, se la pensiamo in greco?

Θέσἰς significa stellen, «porre». Questo porre corrisponde alla Φύσις nel senso che si determina a partire dalla Φύσις all’interno del suo ambito e in vista di essa. Ciò significa che nella Φύσἰς stessa si cela un certo carattere di θέσἰς. Nel mondo della grecità, mediante le parole ϕύσει e θέσέἰ è espressa una differenza capitale, che riguarda il modo in cui ciò che è presente è presente in quanto tale. Questa differenza riguarda l’essere presente di ciò che è presente, cioè l’essere. Le parole θέσει e θέσἰς sono pensate in riferimento all’essere. Il rapporto fra essere e porre si annuncia quindi già nella prima epoca della storia dell’essere. Se prestiamo attenzione a ciò, fin da principio non ci può più sorprendere se una volta, in un’epoca successiva, l’essere avviene secondo la modalità di un porre nel senso dell’impianto, laddove – cosa che va sempre di nuovo sottolineata – dobbiamo pensare il termine Ge-Stell analogamente al termine Ge-wächs, «pianta», e precisamente Ge-Wächs in quanto riunione, nella pianta, di ciò che cresce e si sviluppa (Wachstum). L’impianto è dunque la riunione del porre nel senso in cui abbiamo caratterizzato il dare la caccia e l’ordinare. Strano non è che l’essenza dell’essere giunga a un rapporto essenziale con il porre, ma soltanto che per secoli non si sia mai domandato di tale rapporto. In che senso e in che modo già agli albori del destino dell’essere emerge il fatto che nell’essere, cioè nella Φύσἰς, è essenzialmente presente un carattere di θέσἰς? La parola Φύσἰς dice: lo schiudersi che da sé si apre nella radura e schiudendosi porta-dinanzi (vor-bringt), fuori dalla velatezza, nella svelatezza, qualcosa di presente. La Φύσις è il «portare fuori lì dinanzi» (her-vorbringen) che da sé si apre nella radura e si schiude. Qui tuttavia non dobbiamo intendere la parola hervorbringen, «portare fuori», nel significato approssimativo e troppo corrente che non sembra aver bisogno di alcuna delucidazione, ma dobbiamo pensare il «portare fuori lì dinanzi» rigorosamente nella dimensione unitaria che è disposta dalla velatezza (Λήθη) e dalla

svelatezza (Ἀ-λήθεια), e che entrambe trattengono reciprocamente in modo conforme all’essenza, cioè si preservano vicendevolmente nella loro essenza. Pensato in greco nel senso della Φύσἰς, «portare fuori lì dinanzi» significa: portare fuori dalla velatezza, lì dinanzi nella svelatezza. Questo «portare» vuole dire: lasciare che qualcosa giunga e sia presente da sé.53 Solo se domina la Φύσις è possibile e necessaria la θέσἰς. Infatti, solo se è presente qualcosa di portato alla presenza (das Angebrachte) in base a un «portare fuori», è possibile che, in virtù di un porre (θέσἰς) umano, su questo alcunché di presente (ad esempio la roccia) e in base a esso (la roccia), un altro alcunché di presente (una scala di pietra e i suoi gradini) sia prodotto e posto là, sotto ciò che è già presente (la rupe naturale e il terreno). Questo alcunché di presente (la scala di pietra) è presente nel modo di ciò che diventa costante in virtù di un porre (θέσἰς) umano, il produrre. Ciò che è venuto a stare θέσει (das θέσει Herständige) è presente in modo diverso da ciò che è stato portato fuori φύσει (das φύσέἰ Hervorgebrachte). Nondimeno, sembra ovvio rappresentare come qualcosa di venuto a stare (ein Her-ständiges) anche «ciò che è stato portato fuori e lì dinanzi» (das Her- und Vor-gebrachte) nella Φύσις ed è presente a questo modo. Ciò che è stato portato fuori nella Φύσις non è venuto a stare nello svelato in virtù di un produrre umano,54 bensì in virtù del portarsi fuori da sé. Il portare nel modo della Φύσις è ora l’addurre (beistellen) da sé, un porre che, da sé, stabilisce (aufstellt) nella svelatezza qualcosa di presente. La Φύσἰς, ossia lo stabilire nello svelato da sé, è il lasciar essere presente qualcosa di presente nella svelatezza.55 Il lasciar essere presente qualcosa di presente è l’essere dell’ente. In tal senso la Φύσἰς, ossia il portare fuori lì dinanzi che si schiude da sé, si mostra per tempo nel carattere di un porre che non è un’operazione umana, anzi, al contrario, apporta esso stesso al pro-durre e al rap-presentare umani qualcosa di presente come tale, offrendo nel contempo a disposizione dell’uomo

una svelatezza, e così, portando e offrendo, fornisce un riparo nella svelatezza. Tuttavia questo porre, cioè il lasciarperdurare e mettere al riparo che da sé porta-fuori lì dinanzi, non ha ancora nulla dei tratti che l’essenza dell’essere (Sein) mostra nel destino che lo fa avvenire in quanto impianto.56 Nondimeno, il porre secondo il modo dell’impianto che dà la caccia e ordina è essenzialmente entro una velata provenienza dal porre nel senso della Φύσις e in un’affinità essenziale con esso. La parola «impianto» nomina l’essenza della tecnica. La tecnica però non è essenzialmente secondo il modo dell’ordinare e del dare la caccia per il fatto che l’operare tecnico utilizza e costruisce apparecchi che ci appaiono ancora come «impianti» (Gestelle) nel senso di «impalcature» e «attrezzature». L’essenza della tecnica porta il nome di «impianto» perché lo Stellen, il porre, nominato nel Ge-Stell, nell’impianto, è l’essere stesso, ma l’essere, all’inizio del suo destino, si è aperto nella radura in quanto Φύσἰς, ossia come quel fornire (zu-stellen) che, schiudendosi da sé, porta-fuori lì dinanzi. Da questa essenza dell’essere, dalla Φύσἰς, l’essere che è essenzialmente in quanto impianto ottiene in feudo il suo nome. La genealogia essenziale dell’impianto, cioè dell’essenza della tecnica, raggiunge e indica la provenienza essenziale del destino dell’essere occidentale-europeo, e oggi planetario, dalla Φύσἰς, entro cui la svelatezza dell’essere presente chiama in quanto essenza iniziale velata dell’essere. Fin dagli albori della grecità questo appello non smette più di risuonare. Da ultimo ha parlato in ciò che Nietzsche esprime come volontà di potenza che è essenzialmente nell’eterno ritorno dell’uguale. Ciò che il pensatore dice dell’essere non è il suo parere personale. Il detto è l’eco, che parla attraverso di lui, dell’appello in forma del quale l’essere stesso essenzialmente è, e nel quale Esso si fa parola. Essere un’eco è più difficile e quindi più raro che avere pareri e sostenere punti di vista. Essere un’eco è il

patimento (Leiden) del pensiero, la cui passione (Leidenschaft) è la silenziosa sobrietà. Essa è infinitamente più difficile, poiché maggiormente in pericolo, della tanto celebrata oggettività (Sachlichkeit) della ricerca scientifica. Essere un’eco dell’appello dell’essere richiede un’accuratezza del linguaggio di cui certo lo stile linguistico tecnico-terminologico delle scienze non può sapere assolutamente nulla. L’internazionalità del linguaggio scientifico è la prova più consistente della sua sradicatezza e spaesatezza (Boden- und Heimatlosigkeit), il che peraltro non significa affatto che il carattere autoctono e domestico del linguaggio possa minimamente essere già concesso e determinato o addirittura istituito dalla mera nazionalità. Il carattere domestico (heimisch) di un linguaggio eminente prospera soltanto nell’ambito dello spaesante (unheimlich) appello del silenzio essenziale nell’essenza dell’essere. Detto e udito in riferimento alla tecnica, e pensando, il nome «impianto» dice che la sua essenza determina un’epoca dell’essere, giacché tale essenza, il porre, si fonda sul destino iniziale dell’essere (Φύσἰς-Θέ-σἰς). Della Θέσἰς, il porre, che all’alba del destino dell’essere si cela nell’essenza della Φύσἰς, si parla espressamente nell’epoca più tarda del destino dell’essere dell’età moderna là dove Kant – pura eco dell’appello dell’essere dell’ente che lo riguarda – esprime l’essenza dell’essere in quanto «posizione (Position) assoluta», ossia come l’essere-posato (Gesetztheit) e l’essere-posto (Gestelltheit) dell’oggettivo, cioè dell’entepresente.57 Pronunciato come nome pensato dell’essenza della tecnica, e non nominato in modo superficiale con il tono sgradevole dell’ostilità – come la parola altrimenti corrente –, il termine Ge-Stell, «impianto», dice: la tecnica non è un semplice prodotto della civiltà né un mero fenomeno della civilizzazione. Secondo la sua essenza, la tecnica è la riunione da sé dominante del porre nel senso dell’ordinare tutto ciò che è presente nelle risorse sussistenti. Il tratto fondamentale del porre che ordina consiste però

essenzialmente nel dare la caccia, poiché è come tale che l’essere stesso tende insidie alla sua propria essenza con la dimenticanza di essa.58 L’essere stesso è essenzialmente in quanto si volge via (kehrt sich weg) dalla sua essenza, rivolgendosi (indem es sich zukehrt) a essa con la dimenticanza di essa.

LA SVOLTA L’essenza dell’impianto è il porre in sé raccolto che, con la dimenticanza, dà la caccia alla sua propria verità essenziale, un dare la caccia che si occulta dispiegandosi nell’ordinare tutto ciò che è presente in quanto risorsa, installandosi in essa e dominando in quanto risorsa. L’impianto è essenzialmente in quanto pericolo. Ma il pericolo è già in quanto pericolo? No. Non c’è dubbio che rischi e necessità incalzino ovunque e in ogni momento gli uomini oltre misura, eppure il pericolo, vale a dire l’essere stesso che si mette in pericolo nella verità della sua essenza, rimane nascosto e occultato. Questo occultamento è ciò che il pericolo ha di più pericoloso. Conformemente all’occultamento del pericolo dovuto all’ordinare dell’impianto sembra ancora, e sempre di nuovo, che la tecnica sia uno strumento in mano all’uomo. In verità è invece l’essenza dell’uomo che, ora, è ordinata a dare una mano all’essenza della tecnica. Ciò significa forse che l’uomo sia, impotente, in balia della tecnica nella buona e nella cattiva sorte? No. Significa esattamente l’opposto, anzi, non solo questo, bensì essenzialmente di più, poiché si tratta di qualcosa di diverso. Se l’impianto è un destino essenziale dell’essere stesso, possiamo supporre che esso muti come un modo essenziale dell’essere fra gli altri. Infatti il carattere destinale nel destino consiste nel fatto che esso si destina in una destinazione (Schickung) sempre unica. Destinarsi significa avviarsi a disporsi alla consegna (Weisung) che è stata indicata ed è attesa da un altro destino ancora nascosto. Il carattere destinale tende in sé di volta in volta a un attimo eccezionale che lo destina a un altro destino, in cui però esso non si limita semplicemente a tramontare e ad andare perduto. Noi siamo ancora troppo inesperti e sconsiderati per pensare l’essenza del destinale in base al destino, alla destinazione e al destinarsi. Siamo ancora troppo inclini alla leggerezza, poiché siamo abituati a rappresentare il destinale in base all’accadere, e quest’ultimo come un

decorso di avvenimenti storiograficamente (historisch) constatabili. Noi poniamo la storia (Geschichte) nell’ambito dell’accadere, anziché pensarla secondo la sua provenienza essenziale dal destino. Il destino però è essenzialmente destino dell’essere, nel senso che l’essere stesso si destina, è sempre essenzialmente in quanto destino e si muta in termini destinali. Quando avviene un mutamento nell’essere, cioè ora nell’essenza dell’impianto, ciò non significa affatto che la tecnica – la cui essenza riposa sull’impianto – sia eliminata. Essa non è né repressa né tantomeno distrutta. Se l’essenza della tecnica, ossia l’impianto inteso come il pericolo nell’essere, è l’essere stesso, allora la tecnica non si lascerà mai padroneggiare, né in termini positivi né negativi, da un fare umano basato solo su se stesso. La tecnica, la cui essenza è l’essere stesso, non si lascia mai superare dall’uomo, poiché ciò significherebbe che l’uomo è il padrone dell’essere. Tuttavia, poiché l’essere in quanto essenza della tecnica si è destinato nell’impianto, e però all’essenza dell’essere appartiene l’essere umano (das Menschenwesen) – nella misura in cui l’essenza dell’essere ha bisogno dell’uomo per rimanere salvaguardata in quanto essere, secondo la propria essenza, in mezzo all’ente, e così essere essenzialmente in quanto essere –, l’essenza della tecnica non può essere guidata nel mutamento del suo destino senza la cooperazione dell’uomo. In questo modo, però, la tecnica non è oltrepassata (überwunden) in termini umani, bensì, al contrario, l’essenza della tecnica è superata (verwunden) nella sua verità ancora velata. Questo superare è simile a ciò che accade quando in ambito umano si supera un dolore. Tuttavia, il superamento (Verwindung) di un destino dell’essere – qui e ora il superamento dell’impianto – avviene ogni volta in base all’avvento di un altro destino, che non si lascia né calcolare in anticipo in termini logico-storiografici, né costruire metafisicamente in quanto decorso di un processo della storia; infatti a determinare il destino non è mai ciò che è storico, e tantomeno l’accadere rappresentato

in termini storiografici, bensì, al contrario, l’accadere è ogni volta già il destinale di un destino dell’essere. Certo, per il superamento dell’essenza della tecnica c’è bisogno dell’uomo, però ce n’è bisogno nella sua essenza corrispondente a tale superamento. L’essenza dell’uomo deve quindi prima aprirsi all’essenza della tecnica, ma questo è un evento completamente diverso dal processo in base al quale gli uomini affermano e favoriscono la tecnica e i suoi mezzi. Tuttavia, affinché l’essere umano presti attenzione all’essenza della tecnica, ovvero affinché fra la tecnica e l’uomo, in riferimento alla loro essenza, si stabilisca un rapporto essenziale, l’uomo dell’età moderna deve prima ritornare anzitutto nella distesa del suo spazio essenziale (Wesensraum). Nondimeno, questo spazio essenziale dell’essere umano riceve la sua dimensione, che lo dispone, unicamente in base a quel rapporto in forma del quale la salvaguardia dell’essere stesso è trasmessa in proprietà all’essenza dell’uomo come a ciò di cui l’essere ha bisogno. Diversamente, cioè se l’uomo non si insedia dapprima e anzitutto nel suo spazio essenziale e vi prende dimora, egli non è in grado di compiere niente di essenziale all’interno del destino ora dominante. Consideriamo, riflettendo su ciò, una parola di Meister Eckhart, pensandola in base al suo fondamento. Essa dice: die nitt von grossem Wesen sind, was werk die wirkend, da wirt nit us, «coloro la cui essenza non è grande, qualsiasi cosa facciano, non ne vien fuori nulla» (Reden der Unterscheidung [Discorsi della differenza], n. 4).59 La grande essenza dell’uomo riposa sul fatto che essa appartiene all’essenza dell’essere e che quest’ultimo ne ha bisogno per salvaguardare l’essenza dell’essere nella sua verità. Per questo è anzitutto necessario che pensiamo dapprima a fondo l’essenza dell’essere soprattutto e in primo luogo come ciò che è degno di essere pensato (das Denkwürdige), che la esperiamo dapprima in termini pensanti e che a tale esperire apriamo dapprima un sentiero, spianando la strada su un terreno finora impraticabile.

Tutto ciò lo possiamo attuare soltanto se, circa la domanda «che fare?», apparentemente sempre prossima e unica urgente, pensiamo a fondo anzitutto e soltanto questo: «Come dobbiamo pensare?». Infatti il pensare è l’autentico agire, se agire (Handeln) significa dare una mano (Hand) all’essenza dell’essere per preparare a quest’ultimo il posto in cui esso e la sua essenza si fanno parola. Senza il linguaggio qualsiasi volontà di riflessione rimane priva di via e di sentiero. Senza il linguaggio ogni fare rimane privo di qualsiasi dimensione in cui poter operare e darsi da fare. Il linguaggio non è mai anzitutto espressione del pensare, del sentire e del volere; esso è piuttosto la dimensione iniziale entro la quale soltanto l’essere umano è in generale in grado di corrispondere all’essere e al suo appello e, in tale corrispondere, di prestare ascolto all’essere. Attuato espressamente, questo corrispondere iniziale è il pensiero. Solo pensando impariamo ad abitare nell’ambito in cui avviene il superamento del destino dell’essere, ossia il superamento dell’impianto. L’essenza dell’impianto è il pericolo. In quanto pericolo, l’essere si volge via dalla sua essenza nella dimenticanza di essa, volgendosi così al tempo stesso contro la verità della sua essenza. Nel pericolo domina questo volgersi (sich kehren) non ancora pensato a fondo. Nell’essenza del pericolo si cela dunque la possibilità di una svolta (Kehre) nella quale la dimenticanza dell’essenza dell’essere si rivolta in modo tale che con questa svolta la verità dell’essenza dell’essere si raccoglie (einkehrt) espressamente nell’ente. È presumibile però che questa svolta – la svolta della dimenticanza dell’essere per la salvaguardia dell’essenza dell’essere – avvenga solo se il pericolo, volubile (kehrig) nella sua essenza velata, è prima di tutto espressamente come quel pericolo che è. Forse noi stiamo già nell’ombra, gettata in anticipo, dell’avvento di tale svolta, però nessuno sa quando e come essa avverrà in termini destinali. E non è nemmeno necessario saperlo. Anzi, un sapere di tal genere sarebbe addirittura il più funesto per l’uomo, poiché la sua

essenza è di essere l’attendente (der Wartende), ossia colui che «attende e accudisce» (wartet) l’essenza dell’essere nel momento in cui, pensando, la custodisce. Solo se l’uomo, in quanto pastore dell’essere, attende e accudisce la verità dell’essere, può in genere aspettarsi un avvento dell’altro destino dell’essere senza incorrere nel mero voler sapere. Ma come stanno le cose dove il pericolo avviene in quanto pericolo ed è, soltanto così, svelatamente il pericolo? Per udire la risposta a questa domanda prestiamo attenzione al cenno che è tenuto in serbo in un detto di Hölderlin. Nella versione tarda dell’inno Patmos, all’inizio, il poeta dice: Wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch. Dove però è il pericolo, Anche ciò che salva cresce.60 Se ora pensiamo questo detto in modo ancora più essenziale di quanto il poeta l’abbia poetato, se cioè lo consideriamo a fondo fino all’estremo, esso dice: dove il pericolo è in quanto pericolo, c’è già ciò che salva. Ciò che salva non compare di passaggio. Non sta accanto al pericolo. Il pericolo stesso, se è in quanto pericolo, è ciò che salva. Il pericolo è ciò che salva in quanto in base alla sua essenza porta ciò che salva. Che cosa significa «salvare»? Significa sciogliere, affrancare, liberare, avere riguardo, celaresalvare, prendere in custodia, salvaguardare. Lessing utilizza la parola Rettung, «salvezza», ancora chiaramente nel senso di Rechtfertigung, «giustificazione», intesa come «rimettere nel giusto, nell’essenziale, e in ciò salvaguardare». Ciò che autenticamente salva è il salvaguardante, la salvaguardia. Ma dov’è il pericolo? Qual è il luogo (Ort) per esso? In quanto il pericolo è l’essere medesimo, esso è ovunque e da nessuna parte. Esso non ha luogo, è in sé la località senza

luogo (die ortlose Ortschaft) di tutto ciò che è presente. Il pericolo è l’epoca dell’essere che è essenzialmente in quanto impianto. Se il pericolo è in quanto pericolo, la sua essenza avviene espressamente. Ma il pericolo è quel dare la caccia in forma del quale l’essere stesso, nel modo dell’impianto, incalza la salvaguardia dell’essere con la dimenticanza. Nel dare la caccia è essenzialmente presente il fatto che l’essere depone la sua verità nella dimenticanza in modo tale da rifiutare la sua stessa essenza. Se dunque il pericolo è in quanto pericolo, avviene espressamente quel dare la caccia nella cui forma l’essere stesso tende insidie alla sua verità con la dimenticanza. Se avviene espressamente questo dare la caccia con la dimenticanza, quest’ultima si raccoglie (kehrt ein) in quanto tale. Così strappata mediante il raccoglimento (Einkehr) al venire meno, essa non è più dimenticanza. In tale raccoglimento la dimenticanza della salvaguardia dell’essere non è più la dimenticanza dell’essere, bensì, raccogliendosi, essa si volge (kehrt sich) nella salvaguardia dell’essere. Se il pericolo è in quanto pericolo, con la svolta della dimenticanza avviene la salvaguardia dell’essere, avviene il mondo. Il fatto che il mondo avvenga in quanto mondo, e che la cosa coseggi, costituisce il remoto avvento dell’essenza dell’essere stesso. Il rifiutarsi della verità dell’essere che dà la caccia a se stesso con la dimenticanza cela e salva il favore (Gunst) ancora non concesso che tale darsi la caccia si volga, e che in tale svolta la dimenticanza si rivolti, mutandosi nella salvaguardia dell’essenza dell’essere, anziché lasciare che essa decada nell’occultamento. Nell’essenza del pericolo è essenzialmente presente e abita un favore, il favore della svolta della dimenticanza dell’essere nella verità dell’essere. Nell’essenza del pericolo, dove esso è in quanto pericolo, c’è la svolta verso la salvaguardia, c’è questa salvaguardia stessa, c’è ciò che salva l’essere. Se nel pericolo avviene la svolta, ciò può accadere solo in modo immediato, poiché l’essere non ha un suo pari accanto

a sé. Esso non è causato da qualcos’altro, né causa esso stesso. L’essere non procede mai secondo una connessione di causa ed effetto. Il modo in cui l’essere stesso si destina non è preceduto da nulla di causante in quanto essere e non è seguito da nessun effetto in quanto essere. Emergendo d’un tratto dalla sua propria essenza di velatezza, l’essere avviene nella sua epoca. Dobbiamo quindi prestare attenzione al fatto che la svolta del pericolo avviene in modo repentino. Nella svolta si apre repentinamente la radura dell’essenza dell’essere. L’aprirsi repentino nella radura è il lampeggiare (blitzen). Esso porta se stesso nella propria luminosità che reca in dono con sé. Quando nella svolta del pericolo lampeggia la verità dell’essere, l’essenza dell’essere si apre nella radura, e la verità dell’essenza dell’essere si raccoglie. Dove avviene il raccoglimento? In nessun altro luogo se non nell’essere stesso che finora è essenzialmente in base alla dimenticanza della sua verità. Però l’essere stesso è essenzialmente in quanto essenza della tecnica. L’essenza della tecnica è l’impianto. Il raccoglimento in quanto evento della svolta della dimenticanza si raccoglie in ciò che, ora, è l’epoca dell’essere. Ciò che è non è affatto questo o quell’ente. Ciò che è in modo autentico, cioè abita ed è essenzialmente presente espressamente nell’«è» (im Ist), è soltanto l’essere. Soltanto l’essere «è», solo nell’essere e in quanto essere avviene ciò che l’«è» nomina; ciò che è, è l’essere in base alla sua essenza. Alla lettera e in termini obiettivi, blitzen, «lampeggiare», è blicken, «guardare». Nella vista (Blick) e in quanto vista l’essenza entra nel suo proprio illuminare (leuchten). Attraverso l’elemento del suo illuminare, la vista torna nuovamente a celare-salvare nel guardare ciò che ha scorto; il guardare, però, nell’illuminare salvaguarda al tempo stesso l’oscuro velato della sua provenienza come ciò che non è aperto nella radura (das Ungelichtete). Il raccogliersi del lampo (Blitz) della verità dell’essere è «sguardo» (Einblick). Abbiamo pensato la verità dell’essere nel mondeggiare del mondo come il gioco di specchi dell’insieme

dei Quattro, cielo e terra, mortali e divini. Quando la dimenticanza si volge, quando il mondo si raccoglie come salvaguardia dell’essenza dell’essere, avviene il lampo (Einblitz) del mondo nell’incuria della cosa, che avviene a sua volta nella modalità del dominio dell’impianto. Il lampo del mondo nell’impianto è il lampo della verità dell’essere nell’essere privo di salvaguardia. Il lampo è l’evento nell’essere stesso. Sguardo in ciò che è – questo titolo nomina ora l’evento della svolta nell’essere, la svolta del rifiuto della sua essenza nel far avvenire la sua salvaguardia.61 Sguardo in ciò che è è l’evento stesso, poiché è come tale che la verità dell’essere si rapporta e si pone nei confronti dell’essere privo di salvaguardia. Sguardo in ciò che è – nomina la costellazione nell’essenza dell’essere. Tale costellazione è la dimensione in cui l’essere è essenzialmente in quanto pericolo. In un primo momento, e quasi fino all’ultimo, è sembrato che «sguardo in ciò che è» significasse soltanto uno sguardo che noi uomini, da noi stessi, gettiamo in ciò che è. Ciò che è lo si scambia di solito per l’ente, dato che, dell’ente, si asserisce comunque l’«è». Ora però tutto si è voltato. Lo sguardo non nomina la visione (Einsicht) che noi abbiamo dell’ente: lo sguardo in quanto lampo è l’evento della costellazione della svolta nell’essenza dell’essere stesso nell’epoca dell’impianto. Ciò che è non è affatto l’ente, dal momento che l’«esso è» e l’«è» sono attribuiti all’ente soltanto nella misura in cui esso è chiamato ente in riferimento al suo essere. Nell’«è» è espresso l’«essere»; ciò che è, nel senso che costituisce l’essere dell’ente, è l’essere. L’ordinare dell’impianto si rappresenta la cosa, la lascia non salvaguardata e priva di salvaguardia in quanto cosa. In tal modo l’impianto occulta l’avvicinante vicinanza del mondo nella cosa. Anzi, esso occulta anche il suo occultare, così come il dimenticare qualcosa dimentica se stesso sottraendosi nel vortice della dimenticanza. L’evento della dimenticanza non fa solo decadere nella velatezza, ma questa stessa decadenza decade contemporaneamente nella

dimenticanza, che in tale cadere cade a sua volta via anch’essa. Nondimeno, in tutto l’occultare dell’impianto si apre ancora nella radura lo spiraglio di luce (Lichtblick) del mondo, lampeggia la verità dell’essere, e precisamente quando l’impianto, nella sua essenza, si apre nella radura come pericolo. Anche nell’impianto, inteso come un destino essenziale dell’essere, è essenzialmente presente una luce proveniente dal lampo dell’essere. Quantunque in maniera velata, l’impianto è ancora vista e non già un cieco destino nel senso di una fatalità completamente nascosta. Sguardo in ciò che è – così si chiama il lampo della verità dell’essere nell’essere privo di salvaguardia. Quando avviene lo sguardo, gli uomini sono coloro che sono colti nella loro essenza dal lampo dell’essere. Gli uomini sono coloro che, nello sguardo, sono scorti (erblickt). Solo quando l’essere umano, nell’evento dello sguardo, in quanto ciò che da questo è scorto, rinuncia all’umana ostinatezza e si getta verso lo sguardo, via da sé, liberandosi di se stesso – solo allora l’uomo cor-risponde (ent-spricht) nella sua essenza all’appello dello sguardo. Corrispondendo, l’uomo è adatto a essere colui che, nell’elemento salvaguardato del mondo, volge lo sguardo, in quanto mortale, al divino. Non può essere altrimenti, dal momento che anche il dio, se è, è un ente, e in quanto ente sta nell’essere e nella sua essenza che avviene in base al mondeggiare del mondo. Solo quando avviene lo sguardo l’essenza della tecnica in quanto impianto si apre nella radura e noi riconosciamo in che senso, nell’ordinare le risorse, rimanga rifiutata la verità dell’essere in quanto mondo, e solo allora notiamo che ogni mero volere e fare nel modo dell’ordinare permane nell’incuria. Di conseguenza, anche ogni mero ordinamento del mondo rappresentato in termini di storia universale rimane privo di salvaguardia e sradicato. Ogni mera caccia al futuro, allo scopo di calcolarne l’immagine prolungando nel venturo nascosto qualcosa di presente pensato in modo

superficiale, si muove anch’essa ancora nell’atteggiamento del rappresentare tecnico-calcolante. Tutti i tentativi di computare in senso morfologico e psicologico la realtà sussistente in termini di decadenza e perdita, sventura e catastrofe, ovvero di tramonto, sono solo un comportamento tecnico, che opera con l’apparecchiatura della enumerazione di sintomi, la cui entità può essere ampliata all’infinito e sempre di nuovo variata. Queste analisi della situazione non si accorgono di lavorare soltanto nel senso e nel modo del frazionamento tecnico, fornendo così alla coscienza tecnica l’esposizione tecnico-storiografica dell’accadere a essa conforme. Ma nessuna rappresentazione storiografica della storia come accadere porta nel riferimento destinale al destino. Tutto ciò che è soltanto tecnico non giunge mai a penetrare nell’essenza della tecnica. Anzi, non è in grado di conoscerne nemmeno l’anticamera. È per questo che nel nostro tentativo di dire lo sguardo in ciò che è non descriviamo la situazione del tempo. Lasciamo che la costellazione dell’essere ci chiami. Noi però non udiamo ancora – noi, ai quali, sotto il dominio della tecnica, l’udire e il vedere vengono meno a causa della radio e del cinema. La costellazione dell’essere è il rifiuto del mondo in quanto incuria della cosa.62 Tale rifiuto63 non è «nulla», bensì è il mistero supremo dell’essere entro il dominio dell’impianto. Se Dio viva, oppure rimanga morto, non si decide mediante la religiosità degli uomini, e ancora meno mediante le aspirazioni teologiche della filosofia e della scienza naturale. Se Dio sia Dio avviene sulla base e all’interno della costellazione dell’essere. Finché non esperiamo, pensando, ciò che è, non potremo mai appartenere a ciò che sarà. Avviene lo sguardo in ciò che è? In quanto coloro che sono scorti, siamo ripresi nello sguardo essenziale dell’essere in modo da non sfuggirgli più? Giungiamo così nell’essenza della vicinanza, la quale, coseggiando nella cosa, avvicina mondo? Abitiamo

nativamente (einheimisch) nella vicinanza in modo tale da appartenere inizialmente all’insieme dei Quattro, cielo e terra, mortali e divini? Avviene lo sguardo in ciò che è? Corrispondiamo allo sguardo mediante un guardare che guarda nell’essenza della tecnica, salvaguardando in essa l’essere stesso? Vediamo il lampo dell’essere nell’essenza della tecnica? Quel lampo che viene dalla quiete (Stille) essendo questa stessa quiete? La quiete acquieta (die Stille stillt). Che cosa acquieta? Acquieta l’essere nell’essenza del mondo.64 Che il mondo, mondeggiando, sia quel più vicino di tutto ciò che è vicino, che si avvicina in quanto avvicina all’essere umano la verità dell’essere, traspropriando così l’uomo all’evento.

PRINCÌPI DEL PENSIERO CONFERENZE DI FRIBURGO DEL 1957

PRIMA CONFERENZA I princìpi del pensiero guidano e regolano l’attività del pensiero. Per questo li si chiama anche leggi del pensiero. Tra di essi si annoverano il principio di identità, il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso. È opinione corrente che le leggi del pensiero valgano per ogni pensare, indifferentemente da ciò che di volta in volta è pensato e a prescindere dal modo in cui il pensiero rispettivamente procede. Le leggi del pensiero non avrebbero bisogno di tenere conto né del contenuto degli oggetti di volta in volta pensati, né della forma, cioè del tipo di procedimento di pensiero. Vuote di contenuto, le leggi del pensiero sono pure forme. Entro tali forme del pensiero si muovono la formazione di concetti, la formulazione di giudizi, il trarre conclusioni. Le vuote forme del pensiero si possono quindi esporre in formule. Il principio di identità ha la formula: A = A; il principio di non contraddizione dice: A ≠ non A; il principio del terzo escluso esige: X è o A o non A. Le formule delle leggi del pensiero si intrecciano in un modo singolare, al punto che si è anche tentato di dedurle l’una dall’altra, in varie maniere. Il principio di non contraddizione, A ≠ non A, è rappresentato come la forma negativa del principio di identità, A = A, che è positivo. E viceversa: il principio di identità, in quanto riposa su una contrapposizione nascosta, vale come la forma non ancora dispiegata del principio di non contraddizione. Il principio del terzo escluso si dà o come conseguenza immediata dei primi due, oppure è concepito come il loro termine medio. Quali che siano gli aspetti e le modalità della discussione sulle leggi del pensiero, le si ritiene immediatamente evidenti, anzi, spesso si sostiene addirittura che dovrebbero essere tali, poiché i princìpi, a ben vedere, non si possono dimostrare. Ogni dimostrazione non è forse già un’attività del pensiero? Quindi la dimostrazione è già sottoposta alle leggi del pensiero. Come può dunque pretendere di stare al di sopra di esse per legittimarne la verità? Nondimeno, anche se ritenessimo inadeguata la particolare domanda

circa la dimostrabilità o l’indimostrabilità delle leggi del pensiero, continua a sussistere la difficoltà che, nella considerazione di tali leggi, ci invischiamo in una contraddizione. Rispetto alle leggi del pensiero ci troviamo in una situazione singolare, dal momento che ogni qualvolta tentiamo di enunciare i princìpi del pensiero essi diventano inevitabilmente tema del nostro pensiero – e delle sue leggi. Dietro di noi, per così dire alle nostre spalle, stanno già in ogni momento le leggi del pensiero e guidano ogni passo della meditazione su di esse. Questa indicazione appare evidente al primo sguardo, tanto che sembra sventare d’un sol colpo qualsiasi tentativo che intenda pensare in modo adeguato le leggi del pensiero. Tuttavia questa parvenza si dissolve non appena prestiamo attenzione a quanto è accaduto nella storia del pensiero occidentale. Calcolato in termini storiografici, tale accadimento si è verificato non più di un secolo e mezzo fa. Esso consiste nel fatto che, grazie allo sforzo – preparato da Kant – di pensatori come Fichte, Schelling e Hegel, il pensiero è portato in un’altra, per certi aspetti suprema, dimensione delle sue possibilità. Il pensiero diventa consapevolmente dialettico. Nell’ambito di tale dialettica si muove anche, toccata in modo ancora più vivo dalle insondate profondità di questa, la meditazione poetica di Hölderlin e di Novalis. Lo spiegamento teoretico-speculativo completamente attuato della dialettica nella compiutezza della sua cerchia si realizza nell’opera di Hegel intitolata Scienza della logica. L’accadimento grazie al quale il pensiero entra nella dimensione della dialettica è storico e sembra quindi stare alle nostre spalle. Tale parvenza sussiste perché siamo abituati a rappresentare la storia in termini storiografici. Nel corso di queste conferenze il nostro rapporto con la storia si ripresenterà sempre di nuovo, sicché, in previsione di ciò, consideriamo quanto segue. Finché rappresentiamo la storia in termini storiografici, essa appare come accadere, inteso però nella successione

del prima e del dopo. Noi stessi ci troviamo in un presente (Gegenwart) attraverso cui l’accadere fluisce. È partendo da esso che ciò che è passato è calcolato in relazione a ciò che è presente, ed è per quest’ultimo che si progetta ciò che è futuro. La rappresentazione storiografica della storia come successione dell’accadere impedisce di esperire in che termini la storia autentica è sempre at-tesa (Gegen-wart) in un senso essenziale. Con la parola Gegenwart qui non intendiamo ciò che è lì presente proprio in quest’ora momentaneo. L’at-tesa è ciò che ci at-tende incontro (was uns entgegenwartet) e che attende se e come noi ci esponiamo a essa, oppure ci chiudiamo a essa. Ciò che ci attende incontro e viene verso di noi (kommt auf uns zu) è l’av-venire (Zu-kunft) rettamente pensato. Quest’ultimo domina totalmente l’at-tesa come una pretesa (Zumutung) che riguarda l’esser-ci dell’uomo e lo impressiona (anmutet) in questo o in quel modo, affinché egli presuma (vermute) l’av-venire nel suo appello. Soltanto nel clima di un presumere così concepito prospera il domandare, ossia quel domandare essenziale che appartiene alla creazione di ogni opera accurata, quale che sia il suo campo. Un’opera è opera solo nella misura in cui corrisponde alla pretesa dell’av-venire, tramandando così il già-stato (das Gewesene) liberato nella sua essenza celata. La grande tradizione viene verso di noi in quanto avvenire. Tramite il mero calcolo di ciò che è passato essa non diventa mai ciò che è: pretesa, appello. Esattamente come ogni grande opera deve essa stessa anzitutto risvegliare e formare l’umanità che, di volta in volta, porta all’aperto il mondo in essa latente, così la creazione dell’opera deve a sua volta ascoltare prima la tradizione che a essa si è rivolta. Ciò che si è soliti chiamare l’elemento creativo e geniale di un’opera non deriva da un erompere di sentimenti e di idee provenienti dall’inconscio, quanto piuttosto dalla vigile ubbidienza alla storia, ubbidienza che si fonda sulla pura libertà del saper udire. La storia autentica è at-tesa. L’at-tesa è l’avvenire in

quanto pretesa dell’iniziale (das Anfängliche), ossia di ciò che già perdura, che è essenzialmente essente, e della sua celata riunione. L’at-tesa è l’appello del già-stato che, a noi diretto, ci riguarda. Quando si dice che in fondo la storia non porta niente di nuovo, questa asserzione è falsa se intende dire che ci sarebbero sempre e soltanto le medesime cose; se invece la frase «non c’è nulla di nuovo sotto il sole» vuole dire che «c’è solo l’antico nella inesauribile potenza metamorfica dell’iniziale», allora essa coglie l’essenza della storia, che è l’avvento del già-stato. Solo ciò che è già essenzialmente (das Schon-Wesende), e soltanto esso, ci viene incontro. Nondimeno, ciò che è passato se ne va via da noi. Per il calcolo storiografico la storia è il passato, mentre il presente è l’attuale. Però l’attuale rimane l’eternamente privo di futuro. Noi siamo inondati di storiografia e solo di rado troviamo lo sguardo che penetra nella storia. Stampa, radio, televisione e libri tascabili sono le forme oggi decisive e nel contempo planetarie del calcolo storiografico del passato, cioè della sua attualizzazione nell’attuale. Sarebbe un abbaglio voler rigettare questi processi, ma lo sarebbe anche favorirli ciecamente anziché pensarli a fondo nella loro essenza, dato che appartengono alla nostra storia, ossia a ciò che ci viene incontro. Chiamiamo dunque «storico» anche l’accadimento consistente nel fatto che il pensiero è entrato nella dimensione della dialettica. Che cosa significa che la dialettica è una dimensione? Per il momento rimane oscuro che cosa sia la dialettica e che cosa intenda il discorso della dimensione da noi qui proposto. Sappiamo che cosa sono le dimensioni dall’ambito dello spazio. «Dimensione» (Dimension) può significare lo stesso di «estensione» (Ausdehnung): un impianto industriale di grandi dimensioni, cioè misure. Noi però parliamo anche dello spazio tridimensionale, a noi familiare. Nella sua differenza dalla linea, la superficie è un’altra dimensione. Tuttavia quest’ultima non si limita affatto ad avvicinarsi gradualmente alla linea, bensì, in riferimento alla

molteplicità delle linee, la superficie è un altro ambito della donazione di misura (Maßgabe) per tale molteplicità, che la accoglie entro di sé. Lo stesso vale per il corpo fisico in riferimento alla molteplicità delle superfici. Corpo, superficie, linea contengono una donazione di misura di volta in volta differente. Se lasciamo cadere la limitazione allo spazio, la dimensione risulta essere l’ambito di una donazione di misura. Al tempo stesso, la donazione di misura e l’ambito non sono due cose distinte o addirittura separate, bensì la stessa medesima cosa. La donazione di misura apporta e apre di volta in volta un ambito in cui essa è a casa e può, così, essere ciò che è. Se definiamo la dialettica come dimensione del pensiero, e dobbiamo anzi riconoscerla come la sua dimensione suprema nel corso storico della metafisica, ciò significa ora che, per il fatto di diventare dialettico, il pensiero perviene in un ambito, finora chiuso, della donazione di misura per la delimitazione della sua propria essenza. Mediante la dialettica il pensiero raggiunge quell’ambito entro il quale può pensare compiutamente se stesso, giungendo, soltanto così, a se stesso. Entro la dimensione della dialettica diventa fondatamente manifesto che e in che modo al pensiero appartenga non solo la possibilità, bensì la necessità di pensare se stesso, di rispecchiarsi in se stesso, di riflettere. Solo nella dimensione della dialettica vengono completamente alla luce il perché e il modo in cui il pensiero è riflessione. Tuttavia, il fatto che il pensiero pensi se stesso e debba pensarsi come pensiero non comporta che il pensare in quanto rappresentare si separi dai suoi oggetti, giacché, al contrario, solo così raggiunge la mediazione e la conciliazione a essi adeguata. Perciò il processo dialettico del pensiero non è una mera successione di rappresentazioni nella coscienza umana che si possano osservare in senso psicologico. Il processo dialettico è il movimento fondamentale nell’intero dell’oggettuale di tutti gli oggetti, cioè nell’essere inteso nel senso dell’età moderna. L’accadimento consistente nel fatto che il nostro pensiero

occidentale-europeo ha raggiunto la dimensione della dialettica, che gli era stata già indicata da Platone in poi, ha una portata storico-mondiale. In quanto presente, esso viene ovunque, in forme differenti, verso l’uomo di quest’epoca. Ora, però, che significato ha il suddetto accadimento per il compito che ci riguarda qui, ossia per la meditazione sulle leggi del pensiero? Riassunta nella concisione che ci è imposta, la risposta suona: mediante l’ingresso del pensiero nella dimensione della dialettica si è aperta la possibilità di collocare le leggi del pensiero nell’ambito di una donazione di misura più fondamentale. Entro l’orizzonte della dialettica i princìpi del pensiero acquistano una forma mutata. Hegel mostra che le suddette leggi del pensiero pongono qualcosa di più e qualcosa d’altro rispetto a ciò che il rappresentare corrente trova immediatamente nelle loro formule. Anzi, tale rappresentare non vi trova proprio nulla, tanto che per l’intelletto comune la formula del principio di identità, A = A, è una proposizione che non dice niente. Hegel mostra tuttavia che questa tesi (Satz), A = A, non potrebbe porre ciò che pone se non avesse già spezzato la vuota identicità (Selbigkeit) di A con se stesso e quantomeno contrapposto A a se stesso, ad A. La tesi non potrebbe essere nemmeno una proposizione (Satz), cioè sempre una composizione, se prima non abbandonasse ciò che finge di porre, ossia A inteso come l’identicità completamente vuota, dunque anche mai ulteriormente dispiegabile, di qualcosa con se stesso, ovvero A in quanto identità (Identität) astratta. Hegel può quindi affermare: «Vi è dunque nella forma della proposizione in cui è espressa l’identità più che la semplice, astratta identità».65 Ora, però, Hegel nella sua Logica non si è limitato a rendere visibile la verità più ricca, e riportata al suo fondamento, delle leggi del pensiero, bensì ha dimostrato al tempo stesso e in modo inconfutabile che il nostro pensare corrente, proprio là dove si spaccia per corretto, non segue affatto le leggi del pensiero, ma le contraddice di continuo. Ciò si dimostra essere, tuttavia, solo una conseguenza del fatto che tutto ciò che è ha la contraddizione come suo

fondamento, cosa che Hegel afferma spesso e in vari modi. Per esempio, una volta con la proposizione: «La contraddizione è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione».66 Più noto, perché più comprensibile e quindi citato spesso, è il pensiero hegeliano circa il rapporto fra la vita e la morte. Quest’ultima, la morte, è solitamente intesa come l’annientamento e la distruzione della vita. La morte sta in contraddizione con la vita. La contraddizione separa violentemente la morte e la vita, è la lacerazione di entrambe. Hegel però (nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito) dice: «Ma non la vita che paventa la morte, schiva della distruzione, bensì quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare se stesso nell’assoluta lacerazione [cioè nella contraddizione]».67 E la tarda poesia di Hölderlin In lieblicher Bläue blühet [In amabile azzurro fiorisce] si chiude con le parole: «La vita è morte, e anche la morte è una vita».68 Qui la contraddizione si rivela come ciò che concilia e perdura. A questo sembra opporsi quanto scrive Novalis in uno dei suoi frammenti: «Annientare il principio di contraddizione è forse il compito supremo della logica superiore».69 Tuttavia, il poeta pensante vuole dire che il principio della logica abituale, cioè la legge della non contraddizione, dev’essere distrutto, mentre proprio la contraddizione va messa in risalto come il tratto fondamentale di tutto ciò che è reale. Novalis dice qui esattamente lo Stesso di ciò che pensa Hegel: annientare il principio di non contraddizione per salvare la contraddizione in quanto legge della realtà del reale. Mediante l’indicazione relativa all’interpretazione dialettica hegeliana delle leggi del pensiero, secondo la quale esse dicono di più delle loro formule – l’enunciato delle quali non è mai seguito dal pensiero dialettico –, vengono alla luce fatti stimolanti la cui adeguata conoscenza e la cui decisiva esperienza non giungono ancora all’orecchio del

pensiero comune. Di ciò non dobbiamo certo stupirci. Se infatti già lo stesso Hegel definisce la parte della sua Logica che tratta delle leggi del pensiero quella «più difficile»,70 come potremmo mai noi, senza alcuna preparazione, trovare la strada per quella dimensione in cui, tramite la dialettica, le leggi del pensiero e la loro fondazione diventano degne di domanda (fragwürdig)? È vero d’altra parte che oggi, non appena si parla di dialettica, si fa notare che c’è un materialismo dialettico. Lo si ritiene una visione del mondo e lo si spaccia per ideologia. Con questa constatazione, però, eludiamo la meditazione invece di riconoscere che oggi la dialettica è una realtà mondiale, forse addirittura quella eminente. La dialettica di Hegel è uno di quei pensieri che, intonati da lontano, «guidano il mondo», ed è ugualmente potente sia dove si crede al materialismo dialettico, sia dove – solo con una lieve variazione di stile del medesimo pensiero – lo si confuta. Dietro questa disputa ideologica, come la si definisce, infuria la lotta per il dominio della terra. Eppure dietro questa lotta regna una contesa in cui lo stesso pensiero occidentale si impiglia in se stesso. Il suo ultimo trionfo, in cui esso inizia a diffondersi, consiste nell’aver costretto la natura a cedere l’energia atomica. È dunque ancora errato, o addirittura fuori dal mondo, il nostro pensare al pensiero tentando una meditazione sui suoi princìpi? Forse così giungiamo al fondamento del pensiero, o forse soltanto sulle sue tracce, in modo però da avvertire ancora in tempo quel potere del pensiero che supera infinitamente, cioè secondo l’essenza, ogni possibile quanto di energia atomica. La natura infatti non potrebbe mai apparire quale risorsa energetica, come oggi la si rappresenta, se l’energia atomica non fosse stata nel contempo provocata, cioè posta dal pensiero. L’energia atomica è l’oggetto di un calcolo e di un controllo attuati da una tecnica scientifica che prende il nome di fisica nucleare; il fatto però che la fisica giunga a porre la natura in questo modo è – ammesso che non sia ancora qualcos’altro – un

accadimento meta-fisico. Ora, però, se si arrivasse al punto che gli esseri pensanti fossero cancellati dall’energia atomica, dove rimarrebbe il pensiero? Insomma, che cos’è più potente: l’energia naturale nella sua forma tecnico-macchinistica o il pensiero? Oppure nessuno dei due, che in questo caso coappartengono, ha una preminenza? C’è ancora qualcosa se ogni essenza mortale dell’uomo sulla terra «è» cancellata? Più dominante della potenza dell’energia naturale e del pensiero naturalistico è già, e rimane in anticipo, quel pensiero cui è seguito un pensare che ha perseguitato la natura in vista dell’energia atomica. Simili pensieri non sono creati anzitutto dal nostro pensare mortale, giacché, al contrario, è sempre soltanto quest’ultimo a essere reclamato da quei pensieri, sia che esso corrisponda all’appello sia che vi rinunci. Non siamo noi, gli uomini, che arriviamo ai pensieri, bensì sono i pensieri che giungono a noi mortali, la cui essenza è basata sul pensiero quale suo fondamento. «Ma chi pensa questi pensieri che ci fanno visita?» – così ci affrettiamo a domandare, supponendo che questa domanda sia opportunamente formulata già per il fatto che si impone a noi immediatamente. «Noi»: chi siamo noi, se intendiamo noi stessi in modo così immediato? Come possiamo pretendere di essere coinvolti in simili pensieri senza essere esperti dei princìpi del pensiero? «Princìpi del pensiero». Iniziamo con una delucidazione del titolo delle conferenze mediante la quale può aprirsi la via per i ragionamenti successivi. La delucidazione (Erläuterung) cerca ciò che è puro (das Lautere). Chiamiamo pure l’aria e l’acqua nella misura in cui non sono torbide e sono quindi trasparenti. Però c’è anche l’oro puro, che rimane del tutto intrasparente. Il puro è ciò che non è torbido nel senso che ogni frammischiarsi di elementi estranei viene a cadere. Noi chiarifichiamo (läutern) il titolo «princìpi del pensiero» per tenerne lontani gli elementi estranei, e ciò accade in quanto giungiamo a quelle determinazioni che il titolo vorrebbe nominare come titolo

delle conferenze che seguono. La delucidazione del titolo ci porta quindi sulla via di un pensiero che medita al seguito del pensiero (dem Denken nach-denkt). «Princìpi del pensiero» significa anzitutto: leggi per il pensiero. Quest’ultimo, con tutti i suoi giudizi, i suoi concetti e le sue deduzioni, è sottoposto a leggi e da esse è regolato. Il pensiero è l’oggetto cui i princìpi si riferiscono. Il genitivo presente nella frase del titolo «princìpi del pensiero» significa «princìpi per il pensiero». È un genitivus obiectivus. Tuttavia, emerge subito un secondo elemento. Tesi del tipo A = A, A ≠ non A sono forme fondamentali del pensiero, pro-posizioni mediante le quali esso porta se stesso nella sua forma. I princìpi risultano essere dunque l’oggetto posto dal pensiero, il quale si mostra in quanto soggetto della posizione (Setzung) dei princìpi. Basandosi sul procedimento di Descartes, Kant, nella Critica della ragione pura, ha messo in luce che, e in che modo, tutto il pensiero sia essenzialmente un «io penso». Tutto ciò che è rappresentato in qualsiasi pensiero è, in quanto tale, riferito a un «iopenso»; detto in termini più precisi, tutto ciò che è rappresentato è anticipatamente collocato in tale riferimento all’io-penso. Se nel nostro pensiero non dominasse sempre questo stesso riferimento riflessivo (Rückbezug) al medesimo io che pensa, noi non saremmo mai in grado di pensare qualcosa. Per ogni pensare, l’io dev’essere concorde con se stesso ed essere lo stesso nell’«io penso». Fichte ha espresso questo stato di cose nella forma «Io = Io». A differenza della formula del principio di identità A = A, che vale formalmente per qualsivoglia rappresentabile, la tesi «Io = Io» è determinata in riferimento al contenuto, analogamente alla proposizione che possiamo dire, ad esempio, di ogni singolo albero: «albero = albero». Ora, però, Fichte, nella sua Dottrina della scienza del 1794, mostra che la proposizione «l’albero è albero» non può essere affatto equiparata alla tesi «Io sono Io». No, certo, diremo noi, poiché un albero e il mio «Io» sono qualcosa di diverso contenuto. Però, è anche vero che tutte le

proposizioni aventi questa forma: albero = albero, punto = punto, Io = Io, rientrano nella tesi formalmente vuota, quindi generalissima, A = A. Sennonché, questo è proprio ciò che Fichte esclude. La tesi «Io sono Io» è piuttosto l’asserzione corrispondente a quell’azione effettiva (Tathandlung) dell’Io, cioè del soggetto, mediante la quale soltanto la tesi A = A è posta. La tesi Io = Io è più ampia della tesi formalmente generale A = A, uno stato di cose, questo, che suscita scandalo e in merito al quale non esageriamo affermando che ciò da cui deriva non è stato finora messo in chiaro, cioè portato, sempre per il pensiero, nella sua iniziale problematicità (Fragwürdigkeit). Il pensiero non è anzitutto l’oggetto per i princìpi, bensì è il loro soggetto. Il genitivo presente nel titolo «princìpi del pensiero» è un genitivus subiectivus. Però i princìpi sono pur sempre tali anche per il pensiero, lo riguardano. Il genitivo presente nel titolo è anche un genitivus obiectivus. Diciamo dunque, con maggiore prudenza, che il titolo «princìpi del pensiero» annuncia qualcosa di equivoco. È per questo che esso ci pone di fronte alle seguenti domande, collegate l’una all’altra: possiamo e dobbiamo portare il titolo a una univocità, interpretandone quindi il genitivus o come obiectivus oppure solo come subiectivus? O dobbiamo viceversa abbandonare questo «aut-aut» e far valere al suo posto il «sia-sia»? Il «sia-sia» è una scappatoia che il pensiero cerca volentieri quando conta di ripiegare nel non problematico (das Fraglose). Tuttavia, il mero «sia-sia» è solo il pretesto per evitare di continuare a pensare. Invece, dove si tratta di meditare sul pensiero e sui suoi princìpi, il «sia-sia» non può essere una risposta, bensì soltanto il punto di partenza per la domanda: come va inteso il pensiero stesso, se esso dev’essere sia il soggetto dei suoi princìpi sia il loro oggetto? Princìpi del pensiero. Già una rozza delucidazione del titolo crea un’inquietudine che non vorremmo tacitare. Affinché essa risvegli la nostra meditazione, ripercorriamo ancora una volta il ragionamento precedente con una

variazione. Domandiamo: il principio di identità è valido nella formula A = A perché il pensiero, in quanto «io penso», lo pone, oppure il pensiero deve porre tale principio perché A = A è? Che cosa significa qui «è»? I princìpi del pensiero derivano dal pensiero? Oppure il pensiero deriva da ciò che i suoi princìpi pongono? Che cosa significa qui «porre»? Noi diciamo ad esempio «posto il caso che», e intendiamo «supposto che qualcosa si comporti così e così». È evidente però che il porre dei princìpi non è una mera supposizione. I princìpi stabiliscono qualcosa (setzen etwas fest) in anticipo (zum voraus) e per tutti i casi. Essi sono dunque presupposizioni (Voraussetzungen). Non c’è dubbio, eppure anche con questa parola prendiamo la cosa in modo troppo disinvolto e superficiale, senza pensare a fondo chi o che cosa, qui, e in che modo, «pone», e in che senso ciò che così è posto lo è «in anticipo». Nondimeno, i princìpi del pensiero, in quanto leggi del pensiero, pongono ciò che pongono in modo irrevocabilmente stabile. Essi formano per così dire la roccaforte entro cui il pensiero mette fin da principio al sicuro tutte le sue iniziative. Oppure i princìpi del pensiero – rammentiamo ciò che Hegel dice di essi – non costituiscono affatto un solido rifugio (Burg) per il pensiero? Forse che questi princìpi hanno bisogno a loro volta di protezione (Geborgenheit) e di riparo (Bergung)? Ma dove sono celatisalvati (geborgen)? Da dove derivano? Qual è il luogo di provenienza dei princìpi del pensiero? Chiunque oggi volesse sostenere che tale questione sia unanimemente risolta racconta frottole. Egli spaccia per scienza qualcosa che non è tale né può esserlo, poiché non c’è scienza che possa giungere là dove il luogo (Ort) di provenienza dei princìpi del pensiero potrebbe forse essere localizzato (erörtert). Ammettiamolo tranquillamente: la provenienza dei princìpi del pensiero, il luogo del pensiero che pone questi princìpi, l’essenza del luogo qui nominato e della sua località (Ortschaft) – tutto ciò rimane per noi avvolto nell’oscuro, un’oscurità (Dunkelheit), questa, che forse è sempre in gioco in ogni pensiero. L’uomo non può eliminarla,

anzi deve imparare a riconoscere l’oscuro come l’inevitabile, tenendone lontani i pregiudizi che ne distruggono l’alto dominio. L’oscuro si mantiene quindi separato dalla tenebra (Finsternis) intesa come la mera, completa assenza di luce (Licht). L’oscuro è il mistero dell’aprire nella radura (lichten). L’oscuro trattiene presso di sé il rado (das Lichte), e questo appartiene a quello. Perciò l’oscuro ha la sua propria purezza (Lauterkeit). Hölderlin, che conosceva davvero l’antica sapienza, dice nella terza strofa della poesia Andenken [Ricordo]: Es reiche aber, Des dunklen Lichtes voll, Mir einer den duftenden Becher. Ma mi si offra quella coppa inebriante Colma di luce oscura.71 La luce non è più radura (Lichtung) se il rado si scompone in una mera luminosità (Helle), «più luminosa di mille soli». Resta difficile salvaguardare la purezza dell’oscuro, cioè tenere lontano il frammischiarsi di luminosità impropria, rinvenendo quell’unica luminosità che è conforme all’oscuro. Dice Lao-tzu: «Chi conosce la sua luminosità si avvolge nel suo oscuro».72 A ciò aggiungiamo la verità che tutti conoscono, ma di cui pochi sono capaci: il pensiero mortale deve calarsi nell’oscuro della profondità del pozzo per vedere la stella durante il giorno. Salvaguardare la purezza dell’oscuro rimane più difficile che procacciare una luminosità che vuole soltanto rilucere come tale. Ciò che vuole soltanto rilucere non illumina. Eppure, l’esposizione scolastica della dottrina delle leggi del pensiero vuole apparire come se il contenuto di tali leggi e la loro validità

assoluta fossero immediatamente evidenti a chiunque. Intanto, già la prima delucidazione del titolo «princìpi del pensiero» ci ha subito condotti nell’oscuro. Da dove derivino i princìpi – se dal pensiero stesso o da ciò che il pensiero deve pensare a fondo, oppure addirittura da nessuna di queste due fonti che ci si offrono immediatamente – è cosa che ci rimane nascosta. Per giunta, a causa dell’interpretazione dialettica hegeliana del pensiero, le leggi del pensiero hanno perso la forma e il ruolo invalsi finora. Ma, soprattutto, l’ingresso del pensiero nella dimensione della dialettica ci impedisce di parlare in futuro ancora così, alla leggera, «del» pensiero. «Il» pensiero non c’è comunque da nessuna parte. Se rappresentiamo il pensiero come una facoltà umana universale, esso si trasforma in una creazione fantastica. Viceversa, se ci appelliamo alla circostanza che nella nostra epoca ovunque, sulla terra, giunge al potere storico-mondiale un modo di pensare uniforme, allora, e in modo altrettanto deciso, non dobbiamo perdere di vista il fatto che questo pensiero uniforme è soltanto la forma livellata e resa utilizzabile di quella figura storica del pensiero che chiamiamo occidentale-europeo, di cui siamo a stento in grado di esperire, e assai raramente vogliamo ammettere, l’unicità destinale. In uno scritto giovanile pubblicato postumo, Karl Marx spiega che «tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano, null’altro che il divenire della natura per l’uomo».73 Molti respingeranno questa interpretazione della storia mondiale e la rappresentazione dell’essenza dell’uomo che ne sta a fondamento, però nessuno può negare che oggi la tecnica, l’industria e l’economia, in quanto lavoro dell’autoproduzione dell’uomo, determinino in modo decisivo tutta la realtà del reale. Sennonché, con questa constatazione cadiamo già fuori dalla dimensione del pensiero in cui si muove l’asserzione di Marx circa la storia mondiale in quanto «lavoro dell’autoproduzione dell’uomo».

Infatti la parola «lavoro», qui, non significa la mera attività e operatività. Tale parola parla nel senso del concetto hegeliano di lavoro, che è pensato come il tratto fondamentale del processo dialettico mediante il quale il divenire del reale sviluppa la sua realtà. Il fatto che Marx, in contrasto con Hegel, veda l’essenza della realtà non nello spirito assoluto che comprende se stesso, bensì nell’uomo che produce se stesso e i suoi mezzi di sussistenza, lo pone senz’altro in estremo contrasto con Hegel, eppure proprio in virtù di tale contrasto egli rimane all’interno della metafisica del suo antagonista; infatti la vita e il dominio della realtà sono ovunque il processo lavorativo inteso come dialettica, cioè come pensiero, in quanto l’elemento effettivamente produttivo di ogni produzione rimane il pensiero, sia esso inteso e realizzato come metafisico-speculativo o come scientificotecnico, oppure come miscuglio e imbarbarimento di entrambi. Ogni pro-duzione (Pro-duktion) è in sé già riflessione (Re-flexion), è pensiero. Se dunque osiamo cimentarci con ciò che il titolo annuncia, ossia con il pensare a fondo il pensiero, allora il discorso circa il pensiero ha un senso attendibile solo se lo esperiamo ovunque ed esclusivamente come quel pensiero che determina il nostro esserci storico. Non appena tentiamo di seguire in linea di principio tale pensiero ci troviamo già consegnati al contesto e ai riferimenti della nostra storia, ossia della storia mondiale attuale. Solo quando saremo sufficientemente esperti nel nostro pensiero, inteso nella sua ampiezza essenziale, saremo in grado di riconoscere un altro pensiero come estraneo (fremd) e di ascoltarlo come ciò che è straniante (das Befremdende) nella sua feconda capacità di straniare (Befremdlichkeit). Tuttavia, il pensiero che, esso stesso storico, determina oggi la storia mondiale non deriva dall’oggi, è più antico di ciò che è meramente passato e ci alita incontro, nei suoi pensieri più antichi, da una vicinanza di cui non percepiamo la traccia proprio perché crediamo che ciò che ci riguarda autenticamente – cioè nell’essenza – sia l’attuale.

SECONDA CONFERENZA E RIEPILOGO DELLA PRIMA CONFERENZA Nessuno può pretendere da noi che pensiamo come i filosofi. Tuttavia ci si potrebbe aspettare, non si sa da parte di chi, che impariamo a distinguere, poiché emergono differenze attraverso le quali ritorniamo e ci raccogliamo in ciò che è semplice in maniera da non abbandonarlo mai più, giacché il semplice è lo stupefacente. In qualche modo tutti noi pensiamo, eppure siamo tutti inesperti circa il fatto che, e la maniera in cui, le tesi fondamentali muovono o addirittura portano alla quiete il pensiero. L’uragano della lotta storico-mondiale per il dominio della terra, che imperversa nell’epoca attuale, ha come centro la calma di una contesa in cui il pensiero occidentale-europeo è rimasto catturato fin dal suo inizio. Si tratta della contesa essenziale del pensiero con ciò da cui esso è chiamato a pensare ciò che pensa e a pensare così come pensa. Ma i capestri da cui esso è stato catturato in questa contesa originaria (Ur-Streit) sono del genere di quelli che Hölderlin nomina una volta, quando, riferendosi al rapporto fra gli dèi e i mortali, domanda poeticamente: Wer war es, der zuerst Die Liebesbande verderbt Und Stricke von ihnen gemacht hat? Chi fu colui che primo Ha guastato i legami dell’amore E ne ha fatto capestri?74 Quali che siano il momento e il modo in cui tentiamo di meditare sul pensiero, ogni volta già una riflessione

approssimativa ci mostra che «il pensiero» non c’è. Il solo pensiero di cui si può parlare è l’intimo e latente caso controverso della nostra storia. Il pensiero è ciò che è storico di questa storia ed è quindi in se stesso storico. In un primo momento il titolo «princìpi del pensiero» si è dimostrato ambiguo nel senso della equivocità indotta dal genitivo inteso come genitivus obiectivus e genitivus subiectivus. Ora però diventa chiaro che il genitivo presente nel titolo è ambiguo, quindi insidioso, anche in un modo del tutto diverso. Il pensiero i cui princìpi potrebbero riguardarci sembra essere il pensiero tout court, preso in termini assoluti e universali. In verità, però, questo pensiero è limitato alla storicità della storia occidentale-europea, anche se, in quanto così limitato, esso si amplia al tempo stesso nel tratto fondamentale della moderna tecnica mondiale della nostra epoca planetaria. Quando diciamo «il» pensiero, ciò può significare due cose: o il pensare in quanto attività universalmente umana, oppure il pensiero in quanto destino, unico nel suo genere, dell’umanità occidentale. L’ambiguità (Mehrdeutigkeit) del titolo «princìpi del pensiero» richiamata in un primo momento è un’equivocità (Doppeldeutigkeit) del genitivo, all’apparenza solo grammaticale. L’ambiguità richiamata ora è invece una duplicità di senso (Zweideutigkeit) che cela un’indecisione di portata storico-mondiale riguardo l’essenza del pensiero. Nondimeno, questa duplicità di senso non si limita affatto a stare accanto a quella equivocità: piuttosto l’una e l’altra ambiguità derivano dalla medesima fonte di cui noi dobbiamo domandare. Di conseguenza, se ora gli prestiamo ascolto in modo più meditativo, il titolo per più versi ambiguo delle conferenze è un cenno in direzione della domanda circa il nostro atteggiamento nei confronti del pensiero, se cioè siamo disposti a esperire quest’ultimo in base a princìpi. Posto quindi che il pensiero sia in se stesso non soltanto storicamente determinante, bensì a sua volta destinalmente

determinato, allora ogni meditazione sul pensiero in sé storico non deve forse partecipare a sua volta della medesima eventualità, cioè essere storica? Ma questo non significa forse che, stando così le cose, prima di poter osare cimentarci in una meditazione sul pensiero, dovremmo procurarci anzitutto una visione d’insieme, ampia e penetrante, sulla storia del pensiero occidentale? No. Le conoscenze storiografiche non ci consentono di accedere alla storia dei pensieri che guidano il mondo. Le conoscenze storiografiche rappresentano come passato ciò che è stato pensato un tempo, offrono documenti giustificativi per il passato, però non testimoniano ancora alcuna storicità. Anche se le rappresentazioni riguardanti il passato sono corrette in termini storiografico-filologici, e sono quindi assicurate entro i confini della scienza, e anche se, allo scopo di confrontarle con l’attualità, le applichiamo a essa, non riusciamo comunque ancora a far sì che ciò che è stato pensato un tempo ci riguardi, dal momento che esso, proprio in base alle rappresentazioni storiografiche, ci eleva oltre e al di fuori del pensiero. Al di fuori verso dove? Prese per sé e accumulate, le conoscenze storiografiche riguardanti ciò che è stato pensato in passato non garantiscono ancora che ci conformiamo con la nostra intera essenza al pensiero che i pensieri più antichi del pensiero occidentale, scavalcandoci, pensano indirizzandosi a noi (uns zu-denken), venendoci così incontro (uns zu-kommen). Nel frattempo essi giungono: rimangono in cammino nell’avvento (Ankunft) anche quando non prestiamo loro attenzione, posseduti come siamo dal solo fatto di analizzare la situazione attuale per poter pianificare la successiva. Una cosa è l’attività di ininterrotta analisi della situazione, un’altra è il trattenuto sguardo storico nella costellazione. Questo è il presente che ci si rivolge per dirci che, e in che modo, i più antichi pensieri occidentali – regnando silenziosi come al loro primissimo giorno – determinino e definiscano l’essenza della moderna tecnica planetaria. Dei pensieri che «guidano il mondo», Nietzsche dice che

«incedono con passi di colomba».75 C’è bisogno quindi di un udito fine per percepire l’incedere e la provenienza del pensiero che guida il mondo. Fine è l’udito storico quando rivolge la parola (anspricht) al richiamo (Zuspruch). Per rivolgere la parola in questo modo, l’udire dev’essere libero, cioè aperto all’ampiezza del destino cui l’udito è assegnato. Tale udire, che presta ascolto alla provenienza del pensiero indirizzato a noi, deve prima di tutto avere abbandonato quella forma del rappresentare secondo cui l’udire in quanto tale si intende solo come l’atto di un soggetto che attira nella sua sfera i suoi oggetti o – il che è lo stesso – altri soggetti. In questo schema della relazione soggetto-oggetto, ovvero soggetto-soggetto, rientra anche la relazione io-tu, oggi assai abusata. Le rappresentazioni determinanti in questo caso rimangono impigliate nella concezione dell’uomo come soggetto, ossia nel cartesianesimo. Finché si rimane schiavi di questa rappresentazione dell’uomo come un soggetto o una persona, il pensiero si chiude nei confronti dell’avvento del destino che ci è assegnato. Si può dunque coerentemente sostenere che ogni parlare con la storia, essendo comunque opera di un soggetto, sia sempre soltanto un monologo fatto da sé. Un’opinione, questa, che è tranquillamente accettata da chiunque, giacché si è abituati a rappresentare l’uomo come un soggetto. L’affrancamento da questa rappresentazione inadeguata dell’uomo non riesce finché ci dedichiamo a procurarci le prove della sua falsità. L’affrancamento da tale rappresentazione esige piuttosto da noi il semplice atto di abbandonarla a favore di un’esperienza in cui già soggiorniamo e che si può brevemente delineare così: noi scorgiamo soltanto ciò da cui noi stessi siamo già guardati. Affinché questo rapporto tra sguardo e scorgere possa imporsi in modo puro dobbiamo avere abbandonato la posizione nell’uomo come soggetto, quindi la relazione soggetto-oggetto, e averla ritrovata in una dimensione più originaria dell’essere umano. Noi scorgiamo solo ciò che, senza che lo sapessimo e senza il nostro intervento, ci ha già

guardato. Noi udiamo solo ciò a cui già prestiamo ascolto nella misura in cui stiamo nel suo appello. Ma proprio in questo rapporto fra sguardo e appello da un lato, scorgere e udire dall’altro, dimora il pericolo che nell’udire udiamo male e nello scorgere scorgiamo in modo errato e ci sbagliamo, cadendo vittima di un arbitrio. Il rapporto con ciò che, in quanto sguardo e appello, ci riguarda e ci viene incontro, ed è at-tesa, quindi autentico destino e storia, ovvero il rapporto con la storia, rimane tanto semplice quanto per noi uomini d’oggi ancora difficile da raggiungere e da mantenere. Il motivo di questa difficoltà non sta solo nella rappresentazione dell’uomo come soggetto, ma anche nella rappresentazione della storia come oggetto e creazione della storiografia e della coscienza storiografica. Entrambe le modalità di rappresentazione, quella dell’uomo come soggetto e quella della storia come storiografia, coappartengono nella medesima affinità. Entrambe nascono nell’età moderna e raggiungono il loro estremo dispiegamento unitario nella dialettica. Nel Medioevo non esiste una coscienza storiografica in senso stretto così come l’antichità non conosce la rappresentazione dell’uomo in quanto soggetto. Il fatto che, nonostante ciò, non ci si faccia scrupolo di proiettare sul Medioevo e sull’antichità entrambe le modalità rappresentative – per tacere delle relative spiegazioni – ha la sua semplice ragione nel dominio ininterrotto del rappresentare storiografico e soggettivo. Il soggetto della rappresentazione storiografica della storia va cercato nell’autocoscienza più moderna della nostra epoca. Dato il dominio ininterrotto della soggettività e della storiografia, è un caso fortunato se, attraversando la nostra epoca, percepiamo i passi leggeri del pensiero che guida il mondo, per seguirli, in base al loro av-venire, nella loro provenienza, in modo tale che il loro avvento ci riguardi. Il pensiero che determina attualmente la storia mondiale, ed è in sé conforme al destino più di quanto non lo sia il corso degli avvenimenti storico-mondiali, ci chiama alla

meditazione soltanto quando si tramanda a noi nel suo appello. Mentre diciamo queste parole ci si impone un dubbio che ci appare chiaro in modo talmente immediato da non poterlo più accantonare oltre. Si rende quindi necessario pensare a fondo quanto segue. Come può una tradizione giungere a noi, se non tramite la storiografia? Come può la storiografia lavorare con sicurezza, se non nella forma metodica delle scienze storicofilologiche? Sennonché la tradizione, ossia il fatto che un appello del già-stato si porti nell’aperto e, quindi, la storia ci rivolga la parola – una tradizione così concepita non riposa su conoscenze storiografiche che noi ci procuriamo, ma, al contrario, ogni storiografia è di volta in volta solo una particolare specie di messa in forma e di esposizione tecnicopratica della tradizione. Ogni storiografia ha bisogno della storia, mentre la storia non ha necessariamente bisogno della storiografia. È per questo che popoli che non conoscono alcuna storiografia vivono nondimeno in modo storico, forse addirittura in un senso più profondo. Ovviamente, noi uomini d’oggi siamo fin troppo abituati soltanto a intendere i termini «storia» e «storiografia» indistintamente ora in senso oggettivo, ora in senso cognitivo. Il Paese che annovera fra i suoi grandi pensatori Descartes, il fondatore della dottrina della soggettività dell’essere umano, non possiede nella sua lingua alcuna parola per indicare la «storia» in modo da delimitarla rispetto alla storiografia, e nessuna persona ragionevole vorrà sostenere che si tratti di un caso. Là dove una lingua deve dire ciò che ha di essenziale il caso non esiste. Proprio perché noi, superficialmente, e incapaci di operare una distinzione essenziale, confondiamo di continuo le parole «storia» e «storiografia» con le relative modalità di rappresentazione e le questioni che ne derivano, ha potuto radicarsi l’opinione che le generazioni e i popoli che non conoscono una storiografia vivrebbero per questo anche senza storia. Di stile identico – solo che ne è il rovescio – è

l’opinione secondo cui con la negazione o il superamento della supremazia della storiografia risulterebbe già cancellata anche la storicità di un esserci, e sia la storia sia la sua tradizione diventerebbero inessenziali. Noi invece ripetiamo – e tentiamo di farlo esperire mediante quanto segue – che quel pensiero che, in quanto è esso stesso storicamente dis-posto (ge-stimmt), de termina (be-stimmt) la storia mondiale attuale, rivolge la parola alla nostra meditazione solo se si tramanda a noi nel suo appello. Il nostro proposito di esperire il pensiero in base ai suoi princìpi si dimostra quindi un’impresa storica rischiosa. Essa è ben lungi dalla presunzione di proclamare leggi «del» pensiero assolutamente valide. Ora, però, appare fin troppo evidente anche il fatto che il titolo «princìpi del pensiero» annuncia il proposito storico di queste conferenze in modo assai vago. La delucidazione del titolo ci ha portati tutt’al più «vicini alla» via, però di certo non «sulla» via delle conferenze. Inoltre, per sua natura una delucidazione che si limita al titolo non può ancora assolutamente penetrare a fondo nella cosa in questione. La delucidazione fornita rimane di necessità una misura preliminare per il procedere, ma non diventa ancora il raccoglimento nella cosa in questione, ossia nella contesa in cui il pensiero occidentale è inizialmente coinvolto. Bisognerebbe dunque che il titolo «princìpi del pensiero» parlasse la sua lingua del tutto peculiare, una lingua che toglie al titolo il ruolo di mero titolo, attribuendogli il carattere linguistico di un appello. A questo punto, stiamo già parlando di pensiero da troppo tempo senza prima avere fornito una spiegazione utile di ciò che «pensiero» significa. Perfino se ammettiamo, sia per convinzione e liberamente, sia controvoglia e continuando a dubitare, che il nostro pensiero occidentale non solo abbia una storia, bensì sia esso stesso un tratto, e forse il tratto fondamentale, della storia mondiale attuale, prima di ogni ulteriore procedere, e in vista di esso, dobbiamo pretendere ragguagli riguardo a ciò che in generale si intende per pensiero. Lo

dobbiamo addirittura pretendere se non vogliamo andare barcollando qua e là in un impiego confuso della parola «pensare». Al tempo stesso, ovviamente, non dobbiamo perdere di vista il fatto che perfino la rappresentazione corrente e logora del pensiero vive della tradizione storica, ed è per questo che dobbiamo prepararci a giungere sulla via che la tradizione, prendendo le mosse dagli albori della storia del pensiero, ha imboccato e mantiene in direzione del nostro presente. Ora, però, come possiamo trovare la via per una adeguata caratterizzazione di ciò che, secondo la tradizione, è il pensiero? Esiste un segnavia (Wegweiser) per questa via? Senza dubbio. Esso ci sta dinanzi in modo così inappariscente e libero che facilmente gli passiamo accanto senza leggere bene la sua indicazione (Weisung). (Del resto, è tipico dei segnavia fornire un’indicazione, rimanendo però indietro lungo la strada: invece di accompagnarci, essi ci abbandonano al nostro personale tentativo di seguire la via). Sin dai tempi antichi, e per la dialettica dell’età moderna ancora fino ai giorni nostri, la riflessione sul pensiero porta il nome di «logica». La parola «logica» è il segnavia. «Logica» è il nome usato per indicare il sapere che concerne il λόγoς. Nondimeno, essa è considerata la dottrina del pensiero. Il tratto fondamentale del pensiero ci si mostra quindi nel λόγoς. Quando un pensiero è logico si mantiene entro il suo ordinamento. Per il pensiero odierno la logica è diventata ancora più logica, ed è per questo che ha cambiato il nome in «logistica». Con questo nome la logica si procura presumibilmente la sua ultima, ossia universale, planetaria forma di dominio, che nell’evo della tecnica si manifesta nella forma della macchina. Le macchine calcolatrici che sono impiegate nell’economia e nell’industria, negli istituti per la ricerca scientifica e nelle centrali della politica, non possiamo ovviamente rappresentarcele solo come apparecchiature utili ad accelerare il calcolo. Anzi, la macchina pensante (Denkmaschine) è in sé già la conseguenza di una traduzione del pensiero in quel modo di

pensare che, in quanto mero calcolo, provoca la trasposizione nel macchinismo di quelle macchine. Per questo, finché non ci si aprirà lo sguardo per vedere che il pensiero doveva diventare logistico poiché esso è inizialmente logico, non riusciremo a vedere ciò che qui avviene come mutamento del pensiero. In che senso il pensiero dev’essere logico? «Logico», qui, significa «conforme al λόγoς». Il pensiero dev’essere logico poiché la sua essenza è determinata in base al λόγoς. Il λόγoς ci proviene, nella cosa in questione e nella parola, dagli antichi Greci. Che cosa dice la parola greca λόγoς? Come parola, spiegata in termini grammaticali, è il sostantivo riferito al verbo λέγέἰν, che significa raccogliere (sammeln), mettere insieme (zusammenlegen). Nel λόγoς si tratta per così dire di un raccogliere e di un mettere (legen). Tuttavia, al fine di poter meditare le parole tedesche sammeln e legen in quanto traduzione di λόγoς, è necessario sottoporre a tali termini il modo di esperire greco. Il greco λέγέἰν rimane presente anche nel nome «dialettica»; δἰαλέγέσθαἰ significa: «percorrere qualcosa mettendo insieme». Questo legen, che percorre tutto, si dice in tedesco überlegen, che significa: «meditare su qualcosa e in tal modo attestare (belegen) ciò che si è pensato». Se ancora non lo si vuole notare, possa allora questa indicazione mostrare di nuovo che, secondo il detto della lingua tedesca, il pensiero in quanto überlegen, «meditare», darlegen, «presentare», auslegen, «esporre», belegen, «attestare», festlegen, «stabilire», ha inevitabilmente a che fare con il legen, il «mettere» nel senso del λέγέἰν e del λόγoς. Ovviamente, in base all’indicazione relativa al nesso fra λόγoς, legen e pensiero non esperiamo ancora in che senso la logica esponga (aus-legt) e, quindi, stabilisca (fest-legt) il λόγoς in quanto tratto fondamentale del pensiero. Non appena domandiamo di ciò, sembra che finiamo per perderci in un resoconto storiografico sugli sforzi compiuti dagli antichi pensatori greci per determinare il pensiero in base al λόγoς. Sennonché il λόγoς del pensiero antico è

talmente poco antiquato da rimanere presente tanto nei fenomeni antichi quanto in quelli più moderni della storia del mondo. Senza il λόγoς che cosa sarebbero la teologia, la sociologia, la fisiologia, la zoologia, la mineralogia? Il λόγoς parla attraverso tutte le scienze, sia che le loro denominazioni rechino in sé la parola λόγoς oppure no. Il λόγoς parla più che mai nella tecnologia, se per essa intendiamo l’insieme delle scienze che fondano la tecnica in senso stretto. Esso però non parla solo nelle scienze di quel tipo, bensì di regola nel nostro rappresentare, calcolare, volere e operare, così come in ogni nostra aspirazione. Anche se suona sgradevole, e per qualche orecchio quasi insopportabile, va comunque espresso questo fatto: sia che viaggiamo in tram o in automobile, che voliamo con l’aereo o sediamo al cinema o davanti al televisore, sia che utilizziamo il frigorifero o l’aspirapolvere, ovunque ci troviamo entro l’ambito di quel λόγoς che la logica per la prima volta, e da molto tempo, cerca di concepire. Ciò che oggi ci viene incontro in quanto essenza nascosta della tecnica moderna – questa essenza, e non già i singoli dispositivi tecnici, reca il volto e l’impronta del λόγoς. A noi mancano ancora gli occhi per vedere già il volto essenziale (Wesens-Gesicht) del λόγoς, per sopportare il suo sguardo e trovare per esso il contro-sguardo (Gegenblick) adeguato. Riguardo alla possibile esperienza della provenienza essenziale di ciò che la parola λόγoς nomina, vale una parola di Stefan George del 1919, che pensa in direzione di un tempo futuro: Horch was die dumpfe erde spricht: Du frei wie ein vogel oder fisch – Worin du hängst – das weißt du nicht. Vielleicht

entdeckt ein späterer mund: Du saßest mit an unserem tisch Du zehrtest mit von unserem pfund. Dir kam ein schön und neu gesicht Doch zeit ward alt. Heut lebt kein mann Ob er je kommt das weißt du nicht Der dies gesicht noch sehen 76 kann. Ascolta la voce della cupa terra: Tu libero come un uccello o un pesce – Che cosa ti regge – ciò non lo sai. Forse in futuro una bocca rivelerà: Sedesti con noi al nostro desco Consumasti con noi il nostro pane. Ti venne incontro un volto bello e nuovo Ma il tempo si

fece vecchio. Oggi non vive alcun uomo, Né sai se mai verrà, Che possa ancora vedere questo volto. Il λόγoς è esposto dalla logica in quanto dottrina del pensiero. L’essenza del pensiero riposa e risuona nell’essenza del λόγoς. Che cosa insegna la logica sul λόγoς? Si renderebbe qui necessaria una risposta dettagliata, se per il percorso di queste conferenze non dovessimo limitarci alla definizione del λόγoς rimasta dominante dall’antichità greca in poi. Essa proviene, dopo il precedente di Platone, da Aristotele, che si è soliti definire il padre della logica occidentale. Che cosa vede Aristotele nel λόγoς quando lo osserva nella prospettiva che, pur rimanendo in certo modo decisiva per la logica successiva, tuttavia non può essere mantenuta nella sua originarietà? Ciò che Aristotele vede nel λόγoς della logica lo apprendiamo dall’aggettivo con cui egli lo determina. Il λόγoς della logica, cioè il tratto fondamentale del pensiero, è chiamato da Aristotele λόγoς ἀπoφαντικός. Questo aggettivo deriva dal verbo ἀπoφαίνεσθαι, che significa «portare alla luce qualcosa da esso stesso». In quanto ἀπoφαντικός il λόγoς è quel raccogliente mettere dinanzi (vorlegen) che è capace di portare alla luce qualcosa. Il λόγoς porta alla luce qualcosa che finora e rispettivamente non appariva in modo esplicito, eppure sta già dinanzi (vorliegt). Atteniamoci a un esempio. Un λόγoς del tipo di quello cui Aristotele si riferisce lo adduciamo quando diciamo: «il cammino è lungo». Prestiamo ora attenzione a questo λόγoς, «il cammino è lungo», nella semplice forma in cui, durante un’escursione, lo pensiamo silenziosamente in cuor nostro. Questo λόγoς è απoφαντικός nella misura in cui ci porta alla

luce il lungo cammino, lo raccoglie dinanzi a noi, lo fa stare dinanzi a noi. E d’un tratto notiamo che la delucidazione del pensiero, cioè del λόγoς e del λέγέἰν, in quanto legen, «mettere», non è affatto così strana e fuorviante come poteva sembrare in un primo momento. Pensato in greco, legen, «mettere», significa «far stare dinanzi» (vorliegenlassen) ciò che sta già dinanzi, che è già presente, in modo tale che esso si mostri, così, come ciò che sta dinanzi. L’aggettivo ἀπoφαντικός, che significa «capace di far apparire qualcosa da esso stesso», non è niente di meno che l’interpretazione adeguata di ciò che il λόγoς della logica compie in quanto mettere raccogliente: un far stare dinanzi. Pertanto Aristotele può chiamare senz’altro ἀπoφαντικός questo λόγoς, ossia l’atto fondamentale del pensiero. La parola ἀπoφαντικός è quasi intraducibile; in modo prolisso e meno bello dovremmo dire: far apparire qualcosa di presente da esso stesso. In termini più adeguati, e con una sola parola, traduciamo λόγoς ἀπoφαντικός con Darlegung, «presentazione», e nel dar-legen, «presentare», udiamo nel contempo il senso greco del λέγέἰν come «far stare dinanzi ciò che appare». È già abbastanza se ora ci risulta chiaro che per i Greci il λόγoς della logica – dunque il pensiero – è un far apparire (scheinenlassen). Gli antichi Greci pensano con gli occhi, ossia con gli sguardi. Il λόγoς, il pensiero, è un far apparire ciò che, da sé, è venuto alla luce e, fuori dall’oscuro-velante, è portato nel rado. Il pensiero diventa quindi vero in virtù del fatto che, in quanto far apparire, svela e apre nella radura, di volta in volta secondo una prospettiva, ciò che è velato. Peraltro, l’oscuro non si dissolve in pura luminosità, bensì, al contrario, l’oscuro-velante permane, giungendo soltanto così da sé all’apparire. La luce rimane sempre una luce oscura.77 L’atto fondamentale del λόγoς è il far apparire ciò che sta dinanzi. Questo λόγoς è l’atto fondamentale del pensiero. Se esperiamo il pensiero in base al λόγoς nella sua essenza logica, emerge che il pensiero dimora inizialmente nello spazio essenziale della luce oscura. È questa la località in cui

per i Greci erano presenti gli dèi. È questa la località in cui dobbiamo riportare ciò che per i Greci era il λόγoς ἀπoφαντικός, ossia il pensiero: la svelante presentazione di ciò che è presente. Nel frattempo si è soliti rappresentare il λόγoς della logica, il tratto capitale del pensiero, come una proposizione (Satz). Il λόγoς addotto in precedenza, «il cammino è lungo», può valere come modello di proposizione semplice, finendo così in compagnia di proposizioni come: il cerchio è rotondo; il gesso è bianco; la casa è alta – tutte frasi che nei manuali di logica e di grammatica si aggirano qua e là come esempi senza vita. Presa come esempio della abituale teoria della proposizione, la frase «il cammino è lungo», silenziosamente pensata in cuor nostro durante un’escursione, cade al di fuori del suo ambito, sicché non siamo più in grado di scorgerne il carattere di proposizione concretamente viva. Se vogliamo perciò utilizzare adeguatamente la parola Satz come traduzione per il λόγoς della logica, e comprendere nel modo dovuto il discorso sulle proposizioni fondamentali o princìpi (Grund-Sätze), dobbiamo ora – daccapo nella forma più concisa – delucidare che cosa essa intende. Nel tedesco più antico la parola Satz significa Zusammensetzung, Komposition, «composizione» – tanto che an-che in musica si dice Satz, «composizione», di una sonata. Alla luce di questa definizione, che intende il Satz come una composizione, consideriamo l’esempio di λόγoς addotto in precedenza: «il cammino è lungo». Qui ci imbattiamo manifestamente e facilmente in una composizione che ci è nota fin dalla scuola. La frase semplice compone (setzt zusammen) un soggetto della proposizione, «il cammino», con il suo predicato, «lungo». Il cammino è lungo. La parola per la composizione, ossia per il collegamento di soggetto e predicato, la troviamo nell’«è», che prende quindi il nome di «copula». Se ci atteniamo esclusivamente a questa interpretazione della proposizione, che si delinea già all’inizio della logica, non torneremo mai più all’originario carattere di proposizione (Satzcharakter) che è proprio del

λόγoς concepito come la svelante presentazione di ciò che sta dinanzi. La parola greca per Satz è σύνθέσἰς, θέσἰς. Tutto però dipende dal fatto di pensare la θέσἰς in modo greco, cioè in quanto posare (setzen), porre (stellen), nel senso di stabilire (aufstellen), portare a stare (zum Stand bringen), far stare ciò che è presente così come esso sta. Nella θέσἰς intesa in modo greco risuona il senso del far-stare-dinanzi (vor-liegenlassen). La parola θέσἰς, posizione (Setzung) – che a noi suona affatto strana –, in greco può significare lo stesso di «posto» (Lage): ciò che sta lì (das Vorliegende). Se prestiamo attenzione al fatto che, pensati in greco, il posare e la tesi significano lo stesso che far stare dinanzi, ci si offre la possibilità di cogliere l’autentico carattere di tesi del λόγoς. In tal senso la proposizione non è originariamente la composizione di soggetto e predicato, bensì, per restare al nostro esempio, è il far stare dinanzi il lungo cammino che sta dinanzi. In tal modo il lungo cammino – che appare in virtù della ἀπόφανσις – è fatto incontrare con noi che lo pensiamo secondo la modalità del λόγoς inteso come ἀπόφανσἰς: il lungo cammino è raccolto in quanto tale in riferimento a noi. L’autentica proposizione – la composizione originaria – è questo raccogliere in riferimento a noi il lungo cammino che sta dinanzi, raccogliere il far incontrare il cammino con noi. Nel caso della proposizione citata, il soggetto autentico, cioè, alla lettera, ciò che sta già dinanzi, non è il cammino o addirittura il concetto di cammino, bensì il lungo cammino presente in quanto tale. È quest’ultimo che sta a fondamento dell’intera proposizione «il cammino è lungo». La proposizione semplice fa dunque stare dinanzi ciò che sta a fondamento del suo posare. Ciò che sta dinanzi e a fondamento della proposizione è il suo fondamento. In base a esso è attestato (be-legt) ciò che il λόγoς semplice presenta (dar-legt). Questo attestare il fondamento (Grund) è il fondare (begründen). In tal senso ogni proposizione di questo tipo, pensata in termini rigorosi, sarebbe una tesi fondamentale (Grund-Satz).

Il λόγoς della logica, il tratto capitale del pensiero, in quanto presentare svelante è un sondare (ergründen) il fondamento e, quindi, un fondare la proposizione. Si ritiene del tutto ovvio che chi pensa e formula pensieri li fondi anche. In buona fede riteniamo che debba essere così. Adesso però diventa evidente che, poiché il pensiero, in quanto λόγoς, è la presentazione di ciò che sta a fondamento, la fondazione appartiene al pensiero per sua natura e non solo come aggiunta necessaria. Si ha così che ogni λόγoς della logica, in quanto proposizione, è una tesi fondamentale nel senso assai ampio, sopra delucidato, che esso fa stare dinanzi ciò che sta già dinanzi e a fondamento, portandolo in tal modo ad apparire. Ora, se già ogni proposizione semplice, in quanto proposizione – ossia in quanto svelante presentazione di ciò che sta a fondamento – è una proposizione che mira di volta in volta a un fondamento, ed è quindi, in senso assai ampio, un Grund-Satz, una «tesi fondamentale», qual è allora l’essenza di quei Grundsätze, di quei «princìpi» noti con la denominazione di «leggi del pensiero»? Quale «stante a fondamento», quale fondamento presentano le tesi fondamentali nominate così espressamente? Evidentemente non uno «stante dinanzi e a fondamento» come il lungo cammino, l’alta montagna, il largo fiume, la limpida notte, il bimbo gaio, il dio lontano – niente di tutto questo, e allora? La risposta alla domanda cui siamo giunti a questo punto la apprendiamo non appena prestiamo attenzione al carattere di formula dei princìpi del pensiero precedentemente elencati. Il principio di identità dice: A è A. Il principio ha la forma di un λόγoς. Che cosa presenta il principio? Quale «stante dinanzi» porta alla luce? Non questo o quel qualcosa di particolare? Dunque qualcosa di generale? Dunque qualsiasi cosa che sta vagamente dinanzi? Assolutamente no. Il principio A è A presenta A in quanto A. Il principio vaga tanto poco nel vuoto indeterminato che, anzi, si vincola a una singolare determinatezza. A è A. A che cosa mira questa presentazione? Al fatto che a ogni «stante

dinanzi» appartiene l’essere identico con se stesso (selbig mit ihm selbst). O meglio: questa identicità (Selbigkeit) non appartiene, come una qualità generale, a ogni «stante dinanzi», bensì, al contrario, ogni «stante dinanzi» appartiene alla identicità con se stesso, poiché altrimenti alcunché di stante dinanzi non potrebbe mai, esso stesso, stare dinanzi da se stesso. L’identicità con se stesso di ciò che sta dinanzi, ossia l’identità (Identität) così intesa, non sta anch’essa dinanzi e di volta in volta accanto a ciascuno «stante dinanzi». L’identità non è essa stessa nulla di stante dinanzi, però contribuisce a costituire lo stare dinanzi in quanto tale. Ciò che sembra stare a fondamento del principio A è A, il fondamento che questa proposizione presenta – l’identicità di qualcosa con se stesso –, non è nulla di stante dinanzi, nulla di stante a fondamento e, in questo senso, non è più fondamento. Dal momento però che non è più Grund, «fondamento», parliamo in senso rigoroso e sobrio di Abgrund, «fondo abissale». Le proposizioni che in un senso eminente si chiamano princìpi del pensiero ci conducono – se le pensiamo adeguatamente – al fondo abissale. Tuttavia un fondo abissale non si lascia più presentare, se presentare significa portare alla luce qualcosa che sta a fondamento e sta dinanzi in quanto fondamento. Ma allora, in quale altro modo dobbiamo pensare le proposizioni che conducono il pensiero al suo fondo abissale? Il pensiero giunge al suo fondo abissale soltanto se si scosta (sich absetzt) da ogni fondamento, uno scostarsi in cui le modalità del posare e della tesi si sono già mutate. Satz, ora, non significa più θέσἰς, bensì saltus. La tesi (Satz) si trasforma in salto (Sprung). I Grund-Sätze sono salti che si distaccano da ogni fondamento e saltano nel fondo abissale del pensiero. Nella parola Grund-Satz ora delucidata emerge necessariamente qualcosa di paradossale: Grund-Sätze, ossia salti (Sätze) nel fondo abissale (Ab-grund) del pensiero. Sennonché, il paradosso che qui emerge per un momento non è né inventato né simulato, e non è nemmeno un nonsenso. Il

risultato è invece un altro, e cioè che solo ora la delucidazione del titolo Grundsätze des Denkens, «princìpi del pensiero», giunge alla meta, togliendo al titolo il ruolo di mero titolo. Grundsätze del pensiero: ciò parla ora in quanto appello a salti del pensiero nel suo abisso (Abgrund). Se i princìpi del pensiero nominati in primo luogo, cioè le leggi del pensiero addotte in precedenza, siano, da parte loro, già tali salti nell’abisso, è una questione che rimane aperta. L’interpretazione hegeliana delle leggi del pensiero, che è stata sfiorata nella prima conferenza, impedisce comunque che esse si trasformino in salti nel fondo abissale del pensiero. Princìpi del pensiero. Adesso traspare la precisione del titolo. L’articolo determinativo «i» (princìpi) non è infatti tralasciato perché debbano essere trattate solo alcune leggi del pensiero anziché tutte, bensì perché il titolo così com’è ci chiama a osare salti ancora non esperibili e non calcolabili del pensiero nel suo abisso. Presumibilmente, quelli che siamo abituati a chiamare «princìpi del pensiero» possono costituire per noi un’occasione a tale scopo. (La prossima conferenza, intitolata «Il principio di identità» e che sarà tenuta giovedì 27 giugno presso la Stadthalle durante la settimana del giubileo dell’Università, assume tale principio come occasione per un tentativo di preparare almeno un salto del pensiero nel suo abisso). Ora, il discorso circa il salto nell’abisso suscita subito l’impressione che si tratti di un proposito particolarmente profondo, terribile o addirittura distruttivo. Invece si intende una cosa che può certo mutare in modo radicale la nostra mente, ma non spingerci in una torpida confusione. Con il salto si intende la metamorfosi del pensiero che determina la nostra epoca in senso storico-mondiale. Se mai una simile metamorfosi può accadere, perché accada essa ha bisogno di un saltare via (Absprung) da quel pensiero che è diventato calcolo. Ora, se è vero che un salto inizia con il saltare via, è anche vero che quest’ultimo è già determinato in anticipo

dal salto e solo per suo mezzo determina come e in che direzione, nel salto, si salta. Se e in che misura un simile salto del pensiero riesca all’uomo, non dipende da lui. Viceversa, a noi spetta la preparazione del salto, che consiste nel portare il nostro pensiero al saltare via. È una cosa assolutamente sobria. Il sobrio lo percepiamo come ciò che è asciutto, se non addirittura scialbo. Nüchtern, «sobrio», deriva da nocturnus, «notturno» (nächtlich). Di una specie di notturno (Notturno) si tratta nel caso della preparazione di Grund-Sätze del pensiero, ossia di salti del pensiero nel suo fondo abissale. Secondo quanto si è detto, quest’ultimo sarà soltanto un fondo abissale per il pensiero, qualcosa in cui il pensiero, in quanto mutato, trova l’ambito che gli è assegnato. Nondimeno, questo fondo abissale è vicino a noi mortali più di quanto non diremmo. Canta Hölderlin in uno degli ultimi inni: Nicht vermögen Die Himmlischen alles. Nemlich es reichen Die Sterblichen eh’ an den Abgrund. Non tutto possono I Celesti. Prima I mortali raggiungono l’abisso.78 Teniamolo ben presente: sono comunque i mortali che raggiungono prima il fondo abissale, coloro che abitano nel riparo nascosto della morte e perciò possono morire. Un animale non può morire, cessa di vivere. Da ciò potrebbe dipendere il fatto che l’animale non può pensare. Il pensiero vive di un’affinità elettiva con la morte. Ci vediamo posti di fronte a una differenza:

Grundsätze del pensiero nel senso di quelle leggi del pensiero di cui Hegel ha mostrato che nessun pensiero le segue – e Grund-Sätze del pensiero nel senso di salti del pensiero nel suo fondo abissale. Ora, però, il fondo abissale del pensiero non è lo stesso abisso nominato dal poeta.

TERZA CONFERENZA IL PRINCIPIO DI IDENTITÀ Secondo una formula corrente, il principio di identità dice: A = A. Questo principio vale come la suprema legge del pensiero. Su questo principio tentiamo di meditare un po’. Noi udiamo il principio come un’asserzione sull’identità. Per suo mezzo vorremmo esperire che cosa significa identità. Quando il pensiero, chiamato da una questione, la segue, durante il cammino può accadergli di mutare. Per questo è consigliabile, qui di seguito, prestare attenzione alla via, e meno al contenuto. La possibilità di soffermarci a dovere su di esso ci è già negata dallo sviluppo della conferenza. Che cosa dice la formula A = A, in cui si è soliti presentare a noi il principio di identità? La formula nomina l’uguaglianza di A e A. A un’equazione appartengono almeno due termini. Un A è uguale a un altro. È questo che intende asserire il principio di identità? Evidentemente no. L’identico, in latino idem, si dice in greco τὸ αὐτό. Tradotto in tedesco, τὸ αὐτό significa das Selbe, «lo Stesso». Quando uno dice ripetutamente lo Stesso – ad esempio: la pianta è pianta – parla in una tautologia. Affinché qualcosa possa essere lo Stesso è sufficiente di volta in volta un solo termine. Non c’è bisogno di due come nel caso dell’equazione. La formula A = A parla di uguaglianza. Essa non nomina A come lo Stesso. In tal modo la formula corrente del principio di identità occulta proprio ciò che il principio vorrebbe dire: A è A, vale a dire ogni A è esso stesso lo stesso (ist selber dasselbe). Mentre circoscriviamo in questo modo l’identico, risuona un’antica parola con cui Platone chiarisce l’identico, una parola che rinvia a un termine ancora più antico. Nel Sofista Platone parla di στασἰς e κίνησις, stasi e mutamento. Egli fa dire qui allo straniero: Oὐκoῦν αὐτῶν ἕκαστoν τoῖν μὲνδυoῖν ἑτερóν ἐστιν, αὐτὸ δ’ ἐαυτῷè ταὐτόν.79 «Ora, è certo che, di essi, ciascuno dei due è un altro, però esso stesso a se stesso (ihm selbst) lo stesso». Platone non si limita a dire ἔκαστoν

αὐτό ταὐτόν, «ciascuno esso stesso lo stesso», bensì dice αὐτό έαύτῷ ταὐτόν, «ciascuno esso stesso a se stesso lo stesso». Il dativo significa: ciascun qualcosa stesso è restituito a se stesso, ciascuno stesso è lo stesso – e precisamente per se stesso, con se stesso. La lingua greca, esattamente come la tedesca, offre qui il vantaggio di chiarire l’identico mediante la medesima parola, in una fuga delle sue diverse forme. La formula più adeguata per il principio di identità, A è A, non dice quindi soltanto «ogni A è esso stesso lo stesso», bensì «ogni A è esso stesso con se stesso (mit ihm selbst) lo stesso». Per la stessità (Selbigkeit) dello Stesso c’è bisogno in verità sempre soltanto di uno, però nella stessità dell’uno stesso viene ugualmente in luce una relazione, giacché l’uno stesso è sempre lo stesso con se stesso. Nella stessità è contenuta questa relazione del con, dunque una mediazione, un nesso, una sintesi, l’unificazione in un’unità. Ne deriva il fatto che lungo la storia del pensiero occidentale l’identità appaia nel carattere dell’unità. Ma tale unità non è per nulla la scialba vuotezza di un’uniformità priva di relazioni. Tuttavia, affinché la relazione nello Stesso in quanto mediazione con se stesso – che domina e risuona già precocemente nell’identità – venga decisamente in luce in forma compiuta, e per questo emergere della mediazione all’interno dell’identità sia addirittura individuato un asilo, il pensiero occidentale ha bisogno di più di duemila anni. Soltanto la filosofia dell’idealismo speculativo – preparata da Kant – attraverso Fichte, Schelling e Hegel istituisce un asilo per l’essenza in sé sintetica dell’identità. Tale asilo non può essere descritto qui. Una cosa soltanto va tenuta a mente: a partire dall’epoca dell’idealismo speculativo rimane interdetta al pensiero la possibilità di rappresentare l’unità dell’identità solo in maniera vuota come una mera uniformità, prescindendo dalla sintesi e dalla mediazione che dominano all’interno di tale unità. Dove ciò accade, l’identità è rappresentata solo in termini astratti. Anche nella formula migliorata «A è A» viene in luce

solamente l’identità astratta. In base a ciò diventa chiaro che il principio di identità non ci dice nulla riguardo all’identità e presumibilmente non vuole nemmeno dire nulla in proposito. Esso vale come la suprema legge del pensiero. In quanto «insieme di ciò che è posto» (Ge-setz) – ascoltiamo questa parola come la parola Gebirg, l’«insieme delle montagne» –, in quanto legge (Gesetz), dunque, il principio di identità riunisce ogni porre (setzen) di tutti i princìpi in un modo che dà la misura (maßgebend). Quale? Udiamo la donazione di misura (Maßgabe) se prestiamo attenzione al tono fondamentale del principio di identità e accentiamo la sua formula in modo corrispondente: non diciamo più, così, alla leggera, A è A, bensì A è A. Che cosa udiamo? Il principio parla dell’«è», di come ogni ente è, vale a dire: esso stesso con se stesso lo stesso. Il principio di identità parla dell’essere dell’ente. In quanto legge del pensiero, il principio vale solo nella misura in cui è una legge dell’essere, che dice: a ogni ente in quanto tale appartiene l’identità, l’unità con se stesso. Ciò che il principio di identità, udito in base al suo tono fondamentale, asserisce è precisamente ciò che l’intero pensiero occidentale-europeo pensa, vale a dire che l’unità dell’identità costituisce un tratto fondamentale dell’essere dell’ente. Di conseguenza, ogni nostro comportamento nei confronti dell’ente di ogni specie è sottoposto all’appello dell’identità. Se tale appello non parlasse, l’ente non potrebbe mai apparire nel suo essere. Non ci sarebbe quindi nemmeno una scienza, dal momento che se non le fosse garantita in anticipo la stessità del suo oggetto, essa non potrebbe essere ciò che è. La ricerca scientifica pretende ovunque tale garanzia. Nondimeno, la rappresentazioneguida dell’identità non è mai di concreta utilità per le scienze. Eppure l’appello dell’identità dell’oggetto ha già sempre parlato prima che nelle scienze si giunga – e mentre si giunge – allo sviluppo di rappresentazioni e modalità di procedimento produttive. (Le

scienze debbono corrispondere all’appello dell’identità dell’oggetto dal loro primo passo fino all’ultimo, non importa se odano espressamente o meno tale appello). L’appello dell’identità parla dall’essere dell’ente. Secondo l’insegnamento della filosofia l’identità è un tratto fondamentale dell’essere. Tuttavia, dove l’essere dell’ente giunge per la prima volta ed espressamente al linguaggio nel pensiero occidentale, vale a dire in Parmenide, τὸ αὐτό, l’identico, non parla soltanto nel senso ricordato, bensì in un senso ancora ulteriore, quasi eccessivo. Uno dei frammenti dice: τὸ γαῥ αὐτό νoεῖν έστίν τέ καἰ εἶναι.80 «Lo Stesso infatti è sia percepire (pensiero) che essere». Qui, qualcosa di differente, ossia pensiero ed essere, è rinviato allo Stesso. Che cosa significa questo? Significa qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che conosciamo come l’insegnamento fondamentale del pensiero occidentale, cioè che l’identità appartiene all’essere. All’opposto, la tesi di Parmenide dice: l’essere appartiene con il pensiero allo Stesso. Sarebbe quindi l’essere un tratto dell’identità? Ma che cosa significa qui, allora, identità? Che cosa dice nel frammento di Parmenide la parola τὸ αὐτó, lo Stesso? Parmenide non dà alcuna risposta. Noi non esperiamo in che modo qui τὸ αὐτó, lo Stesso, sia da pensare. Dove parla l’identità stessa, e non anzitutto il principio di identità, il suo detto esige che pensiero ed essere coappartengano (zusammengehören) nello Stesso. Improvvisamente, interpretando la stessità come coappartenenza (Zusammengehörigkeit), abbiamo ora già spiegato τὸ αὐτó, lo Stesso. Eppure con tale interpretazione non chiamiamo forse in soccorso la successiva definizione dell’identità, secondo cui essa è quell’unità che unifica qualcosa con se stesso? Ma la tesi di Parmenide parla del pensiero e dell’essere. Essa parla di due, che in effetti sono differenti, e proprio in quanto differenti sono lo Stesso. Si potrebbe ritenere che Parmenide pensi qui già quell’identità cui appartiene una

duplicità che è pensata solo nell’idealismo speculativo. Appare ovvio interpretare la stessità di pensiero ed essere nominata nella tesi di Parmenide nel senso di quell’identità che è stata pensata in seguito e che ci è nota. Che cosa potrebbe impedirci di farlo? Niente di meno che la tesi stessa che leggiamo in Parmenide. Essa dice: l’essere appartiene con il pensiero allo Stesso. In base a un’identità, l’essere è determinato come un tratto di essa. All’opposto, l’identità pensata in seguito è rappresentata come un tratto fondamentale dell’essere. Dunque sulla base di questa identità non possiamo voler interpretare quell’identità da cui perfino l’essere stesso è determinato. La stessità di pensiero ed essere pensata da Parmenide proviene da più lontano rispetto all’identità rappresentata nella metafisica, derivante anzitutto dall’essere. La parola-guida della tesi di Parmenide, τὸ αὐτó, lo Stesso, rimane oscura. Noi la lasciamo oscura, però al tempo stesso consentiamo che la tesi di Parmenide ci faccia un cenno. Così la via lungo la quale meditiamo sull’essenza dell’identità evita l’arbitrio. Nel frattempo abbiamo però definito la stessità di pensiero ed essere come la coappartenenza di entrambi. Siamo stati troppo precipitosi, forse costretti dalla necessità. Dobbiamo quindi revocare questo risultato prematuro, e lo possiamo fare se non riteniamo che la coappartenenza ora nominata sia l’interpretazione definitiva, o anche solo decisiva, della stessità di pensiero ed essere. Se pensiamo il coappartenere (das Zusammengehören) nei termini abituali, allora, come già indica l’accentazione della parola, il senso dell’appartenere (gehören) è determinato in base al «co-», all’«insieme» (das Zusammen), cioè alla sua unità. In tal caso «appartenere» significa essere inserito e correlato nella riunione di un «insieme», sistemato nell’unità di un molteplice, composto nell’unità del sistema, mediato nel centro unificante di una sintesi che dà la misura. La filosofia rappresenta questo coappartenere come nexus e connexio, ossia come la necessaria connessione dell’uno con

l’altro. Però il coappartenere si può pensare anche come coappartenere (Zusammengehören), e ciò vuol dire che il «co -», l’«insieme», è ora determinato in base all’appartenere. Qui rimane allora da domandare che cosa significhi «appartenere» e in che modo solo in base a esso si determini l’«insieme» a esso peculiare. La risposta ci è più vicina di quanto crediamo, ma non è a portata di mano. È già sufficiente se ora, grazie a questa indicazione, prestiamo attenzione alla possibilità di pensare non più l’appartenere in base all’unità dell’insieme, bensì l’insieme in base all’appartenere. Ma il riferimento a questa possibilità non si esaurisce forse in un vuoto gioco di parole che simula qualcosa cui manca ogni appoggio in uno stato di cose verificabile? Sembra che sia così fino a che non guardiamo con maggiore attenzione e facciamo parlare la cosa in questione. In effetti, l’indicazione riferita al coappartenere nel senso del coappartenere scaturisce dallo sguardo a uno stato di cose che è già stato nominato e che solo per la sua semplicità è difficile tenere sott’occhio. Eppure tale stato di cose ci si fa subito più vicino se badiamo al fatto che, nella delucidazione del coappartenere in quanto coappartenere, la localizzazione si trova in vista di quella stessità alla quale, secondo la tesi di Parmenide, appartengono pensiero ed essere. Pensiamo quindi a fondo il coappartenere in base a ciò che vi coappartiene, ossia pensiero ed essere. Se intendiamo il pensiero come ciò che distingue l’uomo, allora è a tema il coappartenere di uomo ed essere. Subito ci vediamo incalzati da ovvie domande: che cosa significa essere? Chi o che cosa è l’uomo? Chiunque vede facilmente che senza una risposta soddisfacente a queste domande ci viene a mancare il terreno su cui poter stabilire qualcosa di attendibile riguardo al coappartenere di pensiero ed essere. Eppure, finché domandiamo in questo modo restiamo prigionieri del tentativo di sistemare e di spiegare la correlazione fra uomo ed essere partendo o dall’uomo o

dall’essere, sicché i punti d’appoggio per tale correlazione rimangono le rappresentazioni tradizionali di uomo ed essere. In tal modo noi pensiamo in base all’unità di una coordinazione rappresentabile determinata partendo o dall’uomo o dall’essere, invece di chiederci una buona volta se, e come, in questo co appartenere possa essere in gioco soprattutto un appartenere. Ci rifiutiamo ostinatamente di badare al fatto che tale coappartenere ci ha già chiamato. In che senso è così? La possibilità di percepire anche solo di lontano l’appello predominante del coappartenere di uomo ed essere si offre già meditando più accuratamente su ciò che le definizioni correnti dell’essenza dell’uomo e dell’essere propriamente contengono. L’uomo è qualcosa di essente e, come tale, appartiene all’intero dell’essere. «Appartenere», qui, significa ancora essere «inserito» (eingeordnet) nell’essere. Ma ciò che distingue l’uomo consiste nel fatto che egli, essendo l’essere che pensa, comprende l’essere dell’ente, poiché, chiamato dall’essere, gli corrisponde. L’uomo è questo rapporto di corrispondenza ed è soltanto questo. Nell’essere umano domina un appartenere all’essere, appartenere (gehören) che ascolta (hört) l’essere poiché gli è assegnato. E l’essere? Pensiamo l’essere, secondo il suo senso iniziale, in quanto essere essenzialmente presente (anwesen). L’essere non è presente per l’uomo occasionalmente o eccezionalmente: esso, invece, è essenzialmente e durevolmente solo nella misura in cui ri-guarda (an-geht) l’uomo. Infatti soltanto l’uomo, aperto all’essere, lo lascia advenire (ankommen) in quanto essere essenzialmente presente. L’essere essenzialmente presente ha bisogno dell’aperto di una radura ed è perciò affidato (übereignet) all’essere umano. Il che non significa affatto che l’essere sia posto solo e anzitutto tramite l’uomo. Al contrario, risulta evidente che uomo ed essere sono entrambi completamente dominati da un «appartenere l’uno all’altro» (zu-einandergehören). Solo e anzitutto in base a questo coappartenere,

non ulteriormente pensato a fondo, l’uomo e l’essere hanno ricevuto le determinazioni essenziali entro cui sono concepiti in termini metafisici dalla filosofia. Sennonché, questo predominante coappartenere di uomo ed essere non lo esperiamo mai finché ci tratteniamo nel mero rappresentare ordinamenti e mediazioni. Un simile rappresentare ci mostra sempre soltanto una connessione che è stretta partendo o dall’essere o dall’uomo e che pensa nella prospettiva del co-, dell’insieme dei due così determinato. Il rappresentare però non ci consente di raccoglierci nel coappartenere. Ma come si giunge a esso? Come possiamo esperirlo più da vicino? Staccandoci dall’atteggiamento del mero rappresentare connessioni. Tale staccarsi è un Satz nel senso di un salto che salta via, via dalla rappresentazione corrente dell’uomo inteso come l’animal rationale e come un soggetto per oggetti, via dall’essere inteso come il fondamento dell’ente. Dove salta il saltare via quando salta via dal fondamento? Salta forse in un abisso? Sì, se rappresentiamo il salto ancora entro l’orizzonte del pensiero metafisico. No, se saltiamo e ci lasciamo andare. Dove? Là dove siamo già ammessi, ossia nell’appartenere all’essere, però all’essere che appartiene esso stesso a noi, nella misura in cui soltanto presso di noi esso può essere essenzialmente in quanto essere, può cioè essere essenzialmente presente (an-wesen). Dunque, per esperire espressamente il coappartenere di uomo ed essere si rende necessario un salto. Tale salto è il repentino (das Jähe) del discontinuo raccoglimento in quell’appartenere che ha, esso solo, anzitutto la possibilità di concedere un volgersi l’uno all’altro (das Zueinander) di uomo ed essere e, quindi, una costellazione di entrambi. Il salto è il repentino raccoglimento nell’ambito in base al quale l’essere e l’uomo si sono sempre già raggiunti l’un l’altro nella loro essenza. Strano salto, che probabilmente ci fa capire che non ci soffermiamo ancora abbastanza là dove propriamente già siamo. Dove siamo? In quale costellazione di uomo ed

essere? Quale coappartenere, quale identità, comunque fatta, domina assolutamente l’essenza dell’essere e dell’uomo? Da quale regione parla l’appello di questa identità, quella pensata in quanto coappartenere? Oggi – così almeno sembra – non c’è più bisogno, come ancora anni fa, di indicazioni dettagliate per scorgere la costellazione in base alla quale uomo ed essere coappartengono. È sufficiente – così si potrebbe dire – nominare la parola «èra atomica» per consentirci di esperire quale essere sia oggi presente a noi. Ma allora dobbiamo identificare il mondo tecnico e l’essere? No, è evidente, nemmeno se, in termini di rappresentazione, concepiamo tale mondo, in quanto intero dell’energia atomica liberata, insieme alla pianificazione e all’automatizzazione calcolanti che plasmano totalmente ogni ambito dell’abitare umano. Ma perché l’indicazione relativa al mondo tecnico non ci permette ancora di scorgere l’attuale costellazione di uomo ed essere? Perché essa pensa in modo troppo angusto, dato che l’intero ora ricordato del mondo tecnico è rappresentato in anticipo in base all’uomo e come sua creatura. Inteso nel senso più ampio e nelle sue molteplici manifestazioni, ciò che è tecnico vale come il piano che l’uomo progetta e che da ultimo spinge l’uomo a decidere se vuole diventare lo schiavo oppure rimanere il padrone del suo stesso piano. Con questa rappresentazione dell’intero del mondo tecnico si riduce tutto all’uomo e, al massimo, si giunge a esigere un’etica del mondo tecnico. Prigionieri di tale rappresentazione, si sostiene che la tecnica è solo una questione riguardante l’uomo e che in essa non parla nessun appello dell’essere. Posseduti da questa opinione non prestiamo ancora la minima attenzione all’insieme di uomo ed essere, e tantomeno tentiamo di metterci all’ascolto di quell’appartenere che, esso solo, porge (zureicht) l’uno all’altro uomo ed essere. Stacchiamoci una volta per tutte dal rappresentare ciò che è tecnico soltanto in termini tecnici, ossia partendo dall’uomo e dalle sue macchine! Prestiamo attenzione

all’appello cui in quest’epoca sottostanno non soltanto l’uomo, ma ogni ente – natura e storia – in riferimento al suo essere! Di quale appello stiamo parlando? Il nostro intero esserci si trova ovunque provocato a ricorrere alla pianificazione e al calcolo di ogni cosa. Che cosa parla in questa provocazione? Scaturisce forse essa da uno stato d’animo personale dell’uomo? Oppure ogni ente ci riguarda già e soltanto in modo tale da chiamarci nella sua pianificabilità e calcolabilità? Che cosa viene alla luce qui? Niente di meno che questo: l’uomo è provocato, cioè posto, nella stessa misura in cui lo è l’essere. L’essere dell’ente è esso stesso provocato, cioè posto, a far essere presente ogni ente nella pianificabilità e nella calcolabilità, ma, prima di tutto, a far sì che l’uomo ponga al sicuro come risorsa del suo pianificare e calcolare l’ente che lo riguarda, sviluppando questo ordinare fin nell’imprevedibile. L’appello che da un lato fa apparire l’ente nella pianificabilità e nella calcolabilità, e dall’altro provoca l’uomo a ordinare l’ente che così appare, costituisce la costellazione in cui ci troviamo e in base alla quale si determina l’intero essenziale del mondo tecnico moderno. Il nome per la riunione del provocare che fornisce (zustellt) l’uno all’altro uomo ed essere in modo tale che si pongano reciprocamente è Ge-Stell, «impianto». A torto ci si scandalizza di questa parola. Anziché stellen, «porre», diciamo anche setzen, «stabilire», e non troviamo nulla di male nell’usare la parola Gesetz, «legge». Noi intendiamo la parola Ge-Stell in modo corrispondente alla parola Gesetz. L’impianto è dunque la riunione della donazione di misura per ogni stabilire, porre e ordinare in cui uomo ed essere si riguardano l’un l’altro. L’impianto fa appartenere l’uno all’altro l’uomo e l’essere in un modo sorprendente: sorprendente perché ciò che assume il nome di «impianto» non lo troviamo più entro l’orizzonte del rappresentare che ci fa pensare l’essere dell’ente. Per una volta, infatti, ciò che è da-pensare (das zu-Denkende) nella parola «impianto» non sta di fronte all’uomo. L’impianto non ci riguarda più come

l’essere in quanto essere essenzialmente presente, bensì determina anzitutto l’essere in un «insieme» con l’uomo. Tuttavia, ciò che è da-pensare nella parola «impianto» è sorprendente soprattutto perché esso stesso non è qualcosa di ultimo, ma si limita a procurarci Quello che domina totalmente l’attuale costellazione di uomo ed essere. Il coappartenere di uomo ed essere nella modalità della provocazione reciproca ci fa capire in modo sconcertante che e come l’uomo sia traspropriato (vereignet) all’essere, mentre l’essere è appropriato (zugeeignet) all’uomo. Nell’impianto dominano un traspropriare e un appropriare. Questo appropriare (eignen), in cui uomo ed essere sono appropriati (ge-eignet) l’uno all’altro, va esperito semplicemente, cioè raccolto in ciò che chiamiamo l’evento (Ereignis). La parola Ereignis, «evento», è tratta dal tedesco ormai formato. Originariamente, er-eignen significa er-äugen, ossia scorgere (erblicken), chiamare a sé nel guardare, fare proprio (an-eignen). Ora, pensata in termini più originari, la parola Er-eignis, «evento-appropriazione», è assunta come parola-guida al servizio di un pensiero che tenta di tenere a mente l’oscura espressione di Parmenide τὸ αὐτó: «Lo Stesso è pensiero ed essere». La parola Ereignis è intraducibile al pari della parola-guida greca λóγóς o della parola cinese tao. La parola Er-eignis, «eventoappropriazione», qui non intende più ciò che solitamente definiamo come un qualsiasi avvenimento, un fatto che accade. La parola è utilizzata ora come nome invariabile. L’evento-appropriazione nomina ciò che in base a esso è da-pensare ed è perciò quell’autentico far appartenere che traspropria l’uno all’altro uomo ed essere. Ciò che noi esperiamo nell’impianto, inteso come l’essenza della costellazione nel moderno mondo tecnico, è un preludio di ciò che prende il nome di evento-appropriazione. L’evento non rimane necessariamente e soltanto nel suo preludio, in virtù del quale, secondo la modalità dell’impianto, fa coappartenere uomo ed essere. Nell’evento-appropriazione

si annuncia la possibilità che esso superi l’evento inteso come mero dominio dell’impianto in un fare avvenire più iniziale. Un simile superamento dell’impianto in base all’evento-appropriazione comporterebbe il passaggio eventuale (ereignishaft), dunque mai producibile dall’uomo soltanto, del mondo tecnico dalla sua posizione di dominio alla sottomissione entro un ambito grazie al quale l’uomo perviene in modo più autentico all’evento-appropriazione. Sembra che corriamo il pericolo di indirizzare con troppa leggerezza il nostro pensiero verso qualcosa di generale un po’ distante, laddove al contrario ciò che ci si rivolge immediatamente sotto il nome di evento è soltanto il più vicino di quel vicino in cui già ci troviamo. Ma che cosa potrebbe esserci più vicino di ciò che ci avvicina a ciò cui apparteniamo e in cui siamo appartenenti, vale a dire l’evento-appropriazione? L’inizio della conferenza impartiva la consegna di prestare attenzione alla via. Dove ha condotto questa via? Al raccoglimento del nostro pensiero in quel semplice che noi, nel senso rigoroso della parola, chiamiamo eventoappropriazione. Esso fa appartenere uomo ed essere in un «insieme». Appartenere significa ora: traspropriato, appropriato. In base alla sua essenza, l’uomo è traspropriato – poiché a esso necessario – a ciò che per il momento si chiama ancora «essere». L’essere, in quanto essere essenzialmente presente, è appropriato all’essere umano. Chi autenticamente siamo noi uomini e che cosa autenticamente sia l’essere lo potremo domandare e presumere nel modo dovuto solo quando il pensiero si sarà raccolto nell’ambito in cui dominano appropriazione (Eignung), traspropriazione (Vereignung), proprietà (Eigentum) e appropriatezza (Eigentlichkeit), vale a dire appunto nell’evento-appropriazione. L’evento-appropriazione è l’ambito in sé risonante grazie al quale l’uomo e l’essere si porgono-e-raggiungono l’un l’altro (einander er-reichen), ottengono ciò che è loro essenziale, nella misura in cui perdono le determinazioni che

la metafisica ha assegnato loro. Pensare l’evento-appropriazione in quanto eventoappropriazione significa contribuire costruttivamente alla costruzione di quest’ambito. Il materiale da costruzione per questo edificio in sé sospeso, il pensiero lo riceve dal linguaggio, dato che il linguaggio è la risonanza più delicata, che tutto trattiene, nell’edificio in sé sospeso dell’evento. Ma che cosa ha a che fare quanto abbiamo detto finora con il principio di identità? Rispondiamo ripercorrendo il cammino compiuto. L’evento-appropriazione traspropria uomo ed essere nel loro «insieme» essenziale. Un primo apparire, che oggi ci incalza, dell’evento lo scorgiamo nell’impianto. L’impianto, però, costituisce l’essenza del mondo tecnico moderno. L’impianto ci riguarda ovunque in modo diretto. Ammesso che a questo punto ci sia ancora lecito parlare in tale modo, l’impianto è più essente di tutte le energie atomiche e di qualsiasi meccanica, più essente di ogni forma di organizzazione, informazione e automatizzazione. Nell’impianto scorgiamo un coappartenere di uomo ed essere in cui è anzitutto il far appartenere a determinare la modalità dell’«insieme» e della sua unità. L’impianto provoca l’uomo al calcolo dell’essere, che è esso stesso reclamato nella calcolabilità. L’impianto pone entrambi, l’uomo e l’essere, affinché si provochino l’un l’altro nell’ordinare l’ente in quanto sussistenza ordinabile. Abbiamo affrontato la domanda circa un coappartenere in cui l’«appartenere» ha il primato sul «co-», sull’«insieme», facendo riferimento alla tesi di Parmenide: «Lo Stesso infatti è sia pensiero che essere». La domanda circa il senso di questo Stesso, ossia la stessità di ciò che è differente, è la domanda sull’essenza dell’identità. Secondo quanto insegna la metafisica, l’identità è da ritenersi un tratto fondamentale dell’essere dell’ente. (Questo però lo dice anche il principio di identità, sempre che udiamo la sua formula «A è A» nell’accentazione autentica. Il principio di identità non offre alcun ragguaglio circa l’essenza dell’identità). Viceversa la

tesi di Parmenide, in cui, attraverso il τὸ αύτó, parla l’identità stessa, contiene un cenno. Ma la parola τὸ αὐτó, lo Stesso, rimane una parola enigmatica, e lo rimane finché il pensiero non riesce a pensare in direzione di quella regione da cui il coappartenere ci chiama in quanto coappartenere. La provenienza essenziale dell’identità sarebbe da esperire in tale regione. Ci è lecito cercare il luogo della provenienza dell’identità in ciò che potrebbe giungere più vicino al nostro sguardo pensante (Denkblick) sotto il nome di «eventoappropriazione»? L’essenza dell’identità è una proprietà (Eigentum) dell’evento-appropriazione. Di ciò che è autentico possiamo dire sensatamente soltanto se pensiamo in base all’eventoappropriazione. Se dunque nel tentativo di guidare il nostro pensiero nel luogo della provenienza essenziale dell’identità può esserci qualcosa di sostenibile, che ne sarebbe a questo punto del titolo della conferenza? Il senso del titolo Der Satz der Identität, «il principio di identità», sarebbe mutato. Il Satz di identità si presenta in primo luogo come un Grundsatz, un «principio» che, dell’identità, asserisce che essa è un tratto dell’essere, cioè del fondamento dell’ente. Durante il cammino questo Satz inteso nel senso di un’asserzione si è trasformato in un Satz del genere di un salto, che si stacca dall’essere in quanto fondamento dell’ente, saltando nell’abisso. Questo abisso però non è né il vuoto nulla, né un’oscura confusione, bensì è l’eventoappropriazione. Nell’evento-appropriazione risuona l’essenza di ciò che parla in quanto linguaggio, la cui essenza, una volta, è stata chiamata la casa dell’essere. Satz di identità dice ora: un «salto» che l’eventoappropriazione, cioè l’essenza dell’identità, esige, poiché ne ha bisogno, se mai il coappartenere di uomo ed essere deve giungere nella luce essenziale dell’evento-appropriazione. Lungo la via che porta dal Satz in quanto asserzione sull’identità al Satz in quanto salto nella provenienza essenziale del coappartenere, il pensiero si è mutato. È per questo che lo sguardo pensante rivolto al presente scorge, al

di là della situazione dell’uomo, la costellazione di essere e uomo in base a ciò che anzitutto appropria entrambi l’uno all’altro, ossia all’evento-appropriazione. Posto che ci at-tenda incontro la possibilità che l’impianto, cioè la provocazione di uomo ed essere nel calcolo del calcolabile, ci si riveli come quell’evento che, esso solo, traspropria l’uomo e l’essere nel loro proprio, sarebbe aperta così una via lungo la quale l’uomo esperisce in modo più iniziale l’ente, l’intero del mondo tecnico moderno, la natura e la storia e, prima di tutto ciò, il loro essere. Finché l’attuale riflessione sul mondo dell’energia atomica, per quanto seria sia la responsabilità, non soltanto si limita a sollecitare la pratica di un utilizzo pacifico delle energie, ma si acquieta in tale esortazione, la meditazione si arresta a metà strada. Così il mondo tecnico risulta ulteriormente e a maggior ragione assicurato dall’uomo nella sua supremazia metafisica. Ma dov’è deciso che la natura debba rimanere per ogni futuro la natura della fisica moderna, e che la storia debba presentarsi solo come oggetto della storiografia? È vero che non possiamo rigettare il mondo tecnico attuale come opera del demonio e che non ci è lecito distruggerlo, ammesso che non lo faccia da sé. Ancor meno però dobbiamo abbandonarci all’opinione che il moderno mondo tecnico sia tale da impedire in assoluto un saltare via da esso. Questa opinione scaturisce dall’ossessione per l’attualità intesa come l’unica realtà. Non c’è dubbio che si tratti di una fantasia, mentre non lo è affatto la meditazione che guardaincontro (entgegenblickt) a ciò che, in quanto appello dell’essenza dell’identità di uomo ed essere, ci viene incontro. Qualunque cosa tentiamo di pensare, e comunque la pensiamo, noi pensiamo nell’alveo della tradizione. È essa che domina quando, dal meditare, ci libera in quel memorare (vordenken) che non è più un pianificare. Tuttavia, soltanto quando ci rivolgiamo al già pensato siamo impiegati per ciò

che è ancora da-pensare.

QUARTA CONFERENZA La meditazione seguente, saltando l’ultima conferenza in cui si è discusso il principio di identità, richiama il cammino della seconda conferenza per ripercorrerlo – dopo la terza – con altre prospettive. Tuttavia, dato che la conferenza sul principio di identità, sia nella versione scritta che in quella orale, è fissata in un modo particolare, si rende necessaria una breve postilla. Tale postilla è già scritta da molto tempo, dunque in anticipo, e la troviamo nel Fedro di Platone. Verso la fine del dialogo Socrate porta il discorso sulla έύπῥέπεια καἰ ἀπρέπεια τῆς γραφῆς,81 ossia sul carattere conveniente e non conveniente dello scrivere e dello scritto, narrando a questo proposito una storia originaria dell’antico Egitto.82 Socrate: «Dunque, ho appreso che presso Naucrati, in Egitto, risiedeva uno degli antichi dèi di quella terra, cui è dedicato anche il sacro uccello chiamato ibis, e che porta il nome di Theuth. Egli sarebbe il primo inventore del numero e del calcolo, della geometria e dell’astronomia, inoltre dei giochi del tavoliere e dei dadi, e soprattutto della scrittura. Re dell’intero Egitto era a quel tempo Thamus, che regnava nella grande città, situata nel territorio settentrionale, che i Greci chiamano Tebe egizia, mentre chiamano Ammon il dio. Theuth fece visita al re, gli mostrò le sue arti e dichiarò necessario metterne a parte tutti gli Egizi. Thamus però volle conoscere l’utilità di ciascuna arte, e quando l’altro gli fornì le sue spiegazioni, dispensò lode o biasimo a seconda se un’affermazione lo convinceva oppure lo contrariava. Molte cose, nell’uno e nell’altro senso – e che sarebbe troppo lungo ripetere – deve avere detto Thamus a Theuth su ciascuna arte. Tuttavia, quando giunse alla scrittura, Theuth disse: “Questa conoscenza, o re, renderà più sapienti gli Egizi e rafforzerà la loro memoria, poiché è stata inventata quale strumento della memoria e della sapienza”. E l’altro rispose: “O tu, magistrale tecnico Theuth! L’uno è capace di inventare abilità tecniche, ma l’altro sa giudicare quale danno o vantaggio esse portino a coloro che debbono

utilizzarle. Ora, tu, in quanto padre della scrittura, per affetto hai asserito il contrario di ciò che essa è in grado di fare, giacché, col trascurare la memoria, essa creerà dimenticanza nelle anime di coloro che la apprendono; confidando nella scrittura, infatti, costoro potranno permettersi di ricordare dall’esterno, grazie a forme estranee, e non dall’interno, in base a ciò che è loro proprio. Hai dunque inventato uno strumento, non per la memoria, bensì per il ricordare. Ai discenti però tu impartisci soltanto la parvenza della sapienza, non la verità, infatti, diventati molto eruditi senza insegnamento, essi sembreranno ricchi di saggezza, mentre sono per lo più ignoranti, ed è difficile conversare con loro, trasformati come sono in pseudosapienti anziché in sapienti”». Fedro: «Ah, Socrate, certo che ti riesce facile inventare storie dell’Egitto o di dove ti piaccia!». Nel corso delle riflessioni su questo racconto, Socrate dice a Fedro (275 c 5-d 6): «Chi poi ritiene di lasciare traccia della sua arte [cioè l’arte del discorso] in ciò che è scritto, e anche chi, viceversa, lo accoglie [lo scritto] come se ne potesse scaturire qualcosa di chiaro e di attendibile, sono, l’uno e l’altro, pieni di ingenuità e non hanno invero alcuna conoscenza del detto del dio Ammon, giacché credono che i discorsi scritti abbiano anche un’altra utilità oltre a quella di soccorrere il sapiente [che appunto sa già ciò che lo scritto vuole dire], consentendogli di ritornare a ciò che è scritto». A queste parole di Socrate, Fedro si limita a osservare: ’Oρθóτατα, «giustissimo». Socrate prosegue: «Infatti, caro Fedro, lo scrivere e il suo scritto hanno in sé qualcosa di inquietante, assomigliando in ciò davvero alla pittura, giacché anche le creazioni di questa se ne stanno lì come fossero vive, però se le interroghi conservano in tutto e per tutto un dignitoso silenzio. E lo stesso fanno i discorsi scritti. Crederesti che essi dicano qualcosa di ciò che, per così dire, pensano, però, se li interroghi con l’intento di esperire qualcosa del loro detto, έν τἰ σημαίνει μóνον ταὐτὸν αέἰ, una certa unità indica solo

una cosa e sempre la stessa. [Non esce da una indefinita uniformità]. E una volta scritto, ogni discorso vaga indifferentemente sia da coloro che hanno orecchi per intenderlo, sia da quelli che non se ne curano affatto, sicché il discorso scritto semplicemente non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi esso è maltrattato o addirittura oltraggiato a torto, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, poiché non è in grado né di difendersi né di aiutarsi da sé». Attraverso il dialogo fra Socrate e il suo giovane amico Fedro parla Platone stesso. Egli, il maestro poeta della parola pensante, parla qui in verità solo della scrittura, ma al tempo stesso allude a ciò che lungo tutto il suo cammino speculativo tornò sempre di nuovo a colpirlo: il fatto che ciò che è pensato nel pensiero non si lascia esprimere. Sarebbe tuttavia avventato dedurne che il pensato sia indicibile. Piuttosto, Platone sapeva che il compito del pensiero consiste nell’avvicinare al pensiero, mediante un dire, il non detto come la cosa da pensare. Quindi, anche in ciò che Platone ha scritto non è mai direttamente leggibile quello che pensava, benché si tratti di dialoghi scritti: noi però solo di rado possiamo liberarli nel movimento puro di un pensiero raccolto, giacché troppo avidamente, e sbagliando, andiamo alla ricerca di una dottrina. Si tratta ora di collegare la meditazione con la seconda conferenza. Al suo inizio essa recava queste parole: «In qualche modo tutti noi pensiamo, eppure siamo tutti inesperti circa il fatto che, e la maniera in cui, le tesi fondamentali (Grund-Sätze) muovono o addirittura portano alla quiete il pensiero». Questa osservazione intendeva già la parola Grund-Sätze nel senso mutato di salti nel fondo abissale; «muovere il pensiero» significa: costruire al pensiero la sua via; «portare alla quiete» significa: portare là dove ogni movimento anzitutto si raccoglie, non per finire, bensì per iniziare dalla sorgente. Nondimeno, nessuno di noi – senza eccezioni – ha esperienza di che cosa sia richiesto al pensiero, ammesso che esso trovi il modo di districarsi dalla rete del calcolo e della dialettica in cui si trova impigliato.

Entrambi, il pensiero calcolante e quello dialettico, sono in fondo (im Grunde) lo Stesso, sulla base di quel fondamento (Grund) che il principio di ragione (Satz vom Grund) nomina senza pensare la sua essenza. Ma si è già ottenuto abbastanza se prendiamo atto dell’ignoranza ora menzionata. Possa portarci a ciò la via di queste conferenze. La seconda conferenza nominava il segnavia su cui si può leggere «logica». Così si chiama la dottrina del pensiero. Letto con la dovuta accuratezza, il segnavia ci conduce lontano oltre ogni aspettativa. In un primo momento lo abbiamo seguito senza prestare particolare attenzione al carattere peculiare della via indicata. In verità, doveva apparire evidente che – come sembrava – ci eravamo persi nella spiegazione dell’ambiguità del titolo «princìpi del pensiero». In realtà l’unico compito è la spiegazione del titolo, anche se ovviamente dobbiamo prevenire il fraintendimento secondo cui, in questo caso, si tratterebbe solo di mostrare in quali differenti significati si possano intendere le parole che compongono il titolo. Dietro l’ambiguità del titolo «princìpi del pensiero» si cela una quantità di domande che riguardano il pensiero nella misura in cui esso domina completamente la nostra essenza e, quindi, il riferimento a noi dell’essere in sé. Così esperito, il pensiero significa: lasciar essere l’ente nel suo essere. Così esperito, il pensiero offre anzitutto al poetare uno spazio di azione. Così esperito, il pensiero esige per sé una modalità propria, più nel senso di una melodia i cui musicisti si chiamano perciò pensatori. Le domande che si celano nel titolo «princìpi del pensiero» esigono una risposta che dica come seguiamo il pensiero, in che modo aderiamo a esso ed entriamo in relazione con esso, quali vie che vi conducono siano già aperte, quali debbano prima essere spianate nell’abbandono (Gelassenheit) al pensiero, e su quali sia dunque necessario costruire. Simili domande nascono dalla supposizione che, in un tempo che non conosciamo, al pensiero sarà ancora riservata un’alta destinazione nel destino essenziale

dell’essere. Quanto, al proposito, possa fare, o meglio non fare, lo sforzo attuale, nessuno lo sa. Molti elementi, addirittura la maggior parte, indicano che la devastazione dell’esistenza nel pensiero ormai soltanto calcolante continuerà ad aumentare. Sostenere che il nichilismo sia superato è probabilmente l’errore fondamentale dell’epoca presente. Resta vera la parola di Nietzsche scritta a Torino pochi anni prima del tracollo, che dice: «Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene costui, il più inquietante fra tutti gli ospiti?».83 Per il fatto che ancora oggi si continua a eludere la domanda sulla provenienza essenziale di questo ospite, ci si limita a spalancargli la porta da Oriente come da Occidente, infatti questi due mondi sono incapaci di rivolgersi l’un l’altro la parola in una dimensione in cui entrambi dovrebbero anzitutto lasciarsi liberi per esperire che cosa è e in base a quale essenza dell’essere tutto l’ente parli. Il tentativo di chiarire l’ambiguità presente nel titolo «princìpi del pensiero» suscita l’impressione che si tratti di una faccenda provvisoria e superficiale. Se tuttavia si pensa entrando nella cosa in questione, è in gioco qualcos’altro. La meditazione sul titolo non si limita a scomporre nei loro elementi semantici parole e concetti già dati. La conferenza localizza (erörtert) il luogo (Ort) a cui il nostro pensiero appartiene. Per conoscere chiaramente e nella sua interezza questo proposito è opportuno considerare in modo unitario il percorso compiuto finora, cosicché la prospettiva offerta dalla via che porta al luogo del pensiero si allarghi e l’oscurità diminuisca. Osando parlare in modo ancora più chiaro, si può dire che la cosa in questione nelle conferenze è solo il loro titolo. Sotto il titolo non sta nulla, nulla nel senso di una sfilza di asserzioni su un tema. Sotto il titolo non sta nulla, poiché tutto è contenuto al suo interno. Il titolo non è dunque nemmeno un titolo, non è cioè una sovra-scrittura (Überschrift), bensì una post-scrittura (Nachschrift) che, discutibile come tutto ciò che è scritto, mette per iscritto

qualcosa che il nostro pensiero vorrebbe seguire, cui vorrebbe giungere via via sempre più vicino nel tentativo di ritrasformare lo scritto in udito e l’udito in qualcosa di scorto. Solo ciò che abbiamo scorto, infatti, lo vediamo e lo custodiamo come ciò che è visto (il bello). Solo ciò che è visto lo sappiamo, dove «sapere», qui, è inteso nell’antico senso di: avere visto e trattenere ciò che si è visto in quanto ciò che continuamente ci vede. Ciò che Platone pensa nella parola ἰδέα ha la sua origine in questa esperienza, giacché l’«idea», pensata in greco, è quell’aspetto (Aussehen) delle cose in base al quale esse vedono noi uomini. Eppure non penseremmo tutto ciò ancora in modo sufficientemente greco se volessimo interpretare i riferimenti all’aspetto e al vedere solo in termini ottici in base al senso della vista. L’aspetto nel senso dell’ἰδέα non è un volto (Gesicht) rigido, bensì è lo spirare della χαῥἰς, della grazia. Ciò che una volta in un’elegia Hölderlin canta dei suoi compatrioti coglie l’essenza del riferimento greco degli uomini all’essere dell’ente, trattato da Platone nei suoi componimenti dialogici. Dice Hölderlin: ... und zu athmen die Anmuth, Sie die geschickliche, schenkt ihnen ein göttlicher Geist. ... e di respirare la grazia, leggiadra, dà loro un divino 84 spirito. Perché questa digressione? Non si tratta di una digressione, bensì del sempre di nuovo necessario rammemorare l’elemento essenziale dell’essere, di cui non avvertiamo più il respiro se rovistiamo fra i morti concetti della filosofia senza badare al fatto che una parola come

«idea» (e ἰδέα) parla ancora, posto che il pensiero le presti ascolto nel modo dovuto. È ovvio peraltro che fin troppo spesso oggi ci appaia inutile rivolgere ancora lo sguardo a questi semplici rapporti, facendo vedere al tempo stesso in che modo essi illuminino l’intero pensiero occidentale fino alla grandiosa sezione conclusiva della Logica di Hegel intitolata L’idea. Finché, impediti da letture solo superficiali, irrigiditi dalle teorie, prematuramente appagati da dottrine, stregati dalla molteplice varietà di quanto ogni giorno c’è di più nuovo, ci precludiamo lo sguardo che penetra nel semplice risplendere dell’essere; finché il nostro pensiero rimane privo di radicamento in un luogo specifico, manca la condizione preliminare che consente di avvicinarci anche solo approssimativamente all’ambito che la localizzazione dei princìpi del pensiero tenta di indicare. L’ambiguità del discorso riguardante i «princìpi del pensiero» è triplice: 1) una equivocità; 2) una duplicità di senso; 3) un mutamento di senso. Se pensiamo a fondo in una volta sola questa triplice ambiguità, non solo giungiamo alla tradizione della storia del pensiero, ma questa stessa tradizione ci libera per una diversa appropriazione della sua essenza. Se a tratti ripetiamo qui intenzionalmente qualcosa di già detto, non dimentichiamo però che la ripetizione dello Stesso in ciò che è ogni volta più iniziale appartiene all’arte del pensare. Pensiamo a fondo il primo tipo di ambiguità del discorso sui «princìpi del pensiero», ossia l’equivocità. Concepita in termini grammaticali, essa riguarda il genitivo. «Princìpi del pensiero» significa quindi, da un lato, «princìpi per il pensiero». Così intesi i princìpi sono quelle leggi cui il pensiero rimane sottoposto in quanto loro oggetto. Dall’altro lato, il genitivo parla in quanto genitivus subiectivus, e allora i princìpi sono princìpi regolativi posti dal pensiero stesso. La posizione si realizza tramite l’io che, in quanto soggetto, pensa gli oggetti. L’equivocità del genitivo indica che il pensiero è al tempo stesso il soggetto e l’oggetto dei suoi

princìpi intesi come regole. Il pensiero è l’oggetto di se stesso in quanto oggetto del soggetto. Ora, per poter avere sott’occhio lo stato di cose in base al quale parla la locuzione «princìpi del pensiero», dobbiamo anzitutto guardare al di là delle rigide e in verità inadeguate distinzioni grammaticali concernenti il genitivo. Quale stato di cose? Il pensiero riguarda se stesso nei suoi princìpi da esso posti e, quindi, illumina se stesso. Il pensiero procede e sta in una luce che – a quanto sembra – è esso stesso ad avere acceso. In tal modo, però, il pensiero procede nel contempo in un’ombra, che tuttavia non può mai scorgere solo in forza della facoltà che gli è di volta in volta data. Quanto alla sua provenienza, il riferimento del pensiero a se stesso sta, per il pensiero, in un’ombra. Quest’ultima, nonostante ogni relazione riflessiva del pensiero con se stesso, lo segue sempre alle spalle, come se fosse il pensiero medesimo a gettarla. E in effetti la getta, eppure è esso a essere anzitutto gettato nell’ombra. Nella equivocità quasi monotona del genitivo «princìpi del pensiero» si celano riferimenti fra rischiaramento e oscuramento che dominano totalmente il pensiero e che in quanto tali sono a stento pensati, anzi non lo possono nemmeno essere finché il pensiero è posto come attività dell’anima, dello spirito, del soggetto, dell’uomo, ed è quindi tagliato e limitato a misura del riferimento all’essere in cui è di casa. Ogni dialettica è il tentativo di integrare questa limitatezza del pensiero – che, sebbene notata da certi punti di vista, non è stata abbandonata, ma mantenuta –, vale a dire di determinare il pensiero in base a un intero della sua essenza razionalmente intesa. Tuttavia tale intero rimane pur sempre in ultima analisi la luce senz’ombra della ragione e della soggettività assolutamente certa di se stessa. E dove l’ombra è vista, è intesa solo come confine della luminosità. Ma l’ombra è più e altro che confine. Il detto di Leonardo: la luce mostra, l’ombra vela,85 si avvicina di più allo stato delle cose. Però la domanda decisiva deve cercare l’unità originaria di svelare e velare. In

verità, fin dai tempi antichi si è posto il pensiero in riferimento alla luce. Si parla del lume naturale della ragione. Causa la determinazione del rischiarare e dell’illuminare che si attribuisce alla ragione e al pensiero, ci si è scordati l’ombrosità (Beschattung) da cui il pensiero deriva. Tale ombrosità non scaturisce da un regno delle tenebre e degli spettri, né si lascia liquidare tramite il facile rimando al fatto che accanto al razionale vi sarebbe anche l’irrazionale; infatti quest’ultimo rimane sempre e soltanto il figlio nato morto del razionalismo. Il riferimento predominante, e in definitiva sovrastante ogni cosa, del pensiero alla luce, all’illuminare e all’apparire emerge nel precoce riconoscimento di un carattere del pensiero che si chiama «riflessione» (Re-flexion). Da un lato ciò significa: ripiegamento (Rückbeugung) su se stesso. Nella misura in cui il pensiero, in quanto rappresentare, rappresenta qualcosa, in certo modo appare a se stesso in ciò che da esso è rappresentato e vi trova l’occasione per ripiegarsi all’indietro (sich zurückbeugen), cioè per riflettersi (sich re-flektieren) sul suo stesso rappresentare. Facciamo alcuni esempi quotidiani: quando guardiamo la brocca o qualsiasi altra cosa conosciuta – una mela sul piatto, la pipa sulla sedia di vimini –, e nel far questo prestiamo attenzione solo a ciò che è dato otticamente, risulta chiaro che questi oggetti ci si presentano sempre e soltanto in una determinata veduta. La rispettiva veduta dipende dalla prospettiva in cui guardiamo gli oggetti, che è una modalità del nostro rappresentare. La rispettiva veduta dell’oggetto ci fa riflettere sulla nostra prospettiva. Sembra che l’oggetto sia una X attorno alla quale, per poterla cogliere compiutamente, si può e si deve formare una raccolta di visioni. Se però pensiamo agli oggetti nominati in quanto cose, cioè li esperiamo rammemorando, essi non ci rinviano alle nostre prospettive e rappresentazioni, bensì accennano a un mondo in base al quale sono ciò che sono. Quando per esempio Cézanne fa apparire ripetutamente la Montagne St.

Victoire nei suoi quadri, e la montagna come montagna è presente in modo sempre più semplice e poderoso, ciò non dipende soltanto, e non in primo luogo, dal fatto che egli padroneggi in modo vieppiù deciso la tecnica pittorica, bensì dal fatto che il «motivo» muove, cioè parla, in maniera sempre più semplice, e l’artista è capace di udire il suo appello in maniera via via più pura, sicché è tale appello a guidargli il pennello e a porgergli i colori. Il pittore dipinge ciò che ode in quanto richiamo dell’essenza delle cose. Ogni arte, non soltanto la poesia, si muove entro l’ambito nella cui forma il linguaggio parla, ed esige ben altro che non la riflessione sugli oggetti e la loro rappresentazione. Viceversa, nella misura in cui il pensiero è esperito in quanto rappresentare che pone dinanzi a sé e porta verso di sé ciò che è presente, al pensiero appartiene la relazione riflessiva (Rückbeziehung) con se stesso, vale a dire la riflessione. Solo in seguito al dispiegarsi del dominio della riflessione l’ente si trasforma in oggetto. In termini diversi e più chiari, «riflessione» significa: il ri-lucere (zurückscheinen) sul pensiero di ciò che in esso è pensato e, viceversa, del pensiero sul suo pensato. Questo rilucerein-sé (insichscheinen) del pensiero, presentito nell’interpretazione platonica dell’essere in quanto ἰδέα, viene interamente alla luce per il pensiero soltanto quando la riflessione, nel primo senso, entra in gioco completamente secondo tutte le prospettive possibili. Ciò accade là dove la soggettività del soggetto è pensata in termini assoluti, ossia nell’idealismo speculativo. L’esile distinzione fra genitivus subiectivus e genitivus obiectivus nel discorso riguardante i «princìpi del pensiero» riacquista vitalità e indica ciò che propriamente nomina solo se ci proiettiamo con il pensiero nel carattere di riflessione del rappresentare. In qualche modo ogni pensiero, per quanto indeterminato possa essere, pensa se stesso, e tuttavia non è un mero autorispecchiamento. In base alla relazione riflessiva con se stesso che lo caratterizza, il pensiero può – ovviamente in un senso ora alto ora basso – ruotare intorno a se stesso e, da

ultimo, addirittura tracciare da sé in grande stile il cerchio entro cui, nel suo ruotare, ruota intorno a se stesso. Percorrendo una via lunga e complessa, il pensiero occidentale-europeo giunge infine in modo consapevole nel cerchio luminoso totalmente tracciato da esso e dal suo carattere di riflessione. Questa dimensione luminosa è la dialettica speculativa che, dopo il precedente di Kant, si sviluppa in sistema nel pensiero di Fichte, Schelling e Hegel. Il sistema su cui occorre meditare qui rimarrebbe disconosciuto se lo volessimo rappresentare solo come una rete di concetti gettata sulla realtà. Inteso come «il pensiero» (der Gedanke) il sistema è l’essere stesso, che risolve in sé ogni ente, delineando così la forma preliminare di ciò che ora viene alla luce come l’essenza del mondo tecnico. Il fatto che il mondo plasmato dalla metafisica di Karl Marx potesse trasformarsi in un – dico un – ambito di raccolta, che non è né l’unico né quello autentico, per l’intero del moderno mondo tecnico, ha il suo fondamento nell’essenza della cosa. Infatti la metafisica di Marx dipende dall’idealismo speculativo della metafisica di Hegel in modo più deciso di quanto si creda, e ne dipende nella forma più drastica della dipendenza, quella della mera antitesi. Essa viene alla luce nel fatto che la metafisica del marxismo rimane, e deve rimanere, dialettica. In entrambi i casi la dialettica e il suo sistema non sono involucri concettuali che siano stati escogitati, bensì vita e realtà, e lo sono anche, sia pure in un modo completamente diverso, per i due poeti amici dei pensatori speculativi Fichte, Schelling e Hegel, ossia per Hölderlin e Novalis. Nei loro «inni alla notte» essi hanno visto la luce oscura in cui la luminosità razionale della logica assoluta è tolta, però al tempo stesso presupposta e confermata. Il carattere di riflessione del pensiero e il suo dispiegarsi in dialettica coappartengono. Entrambi, e la loro coappartenenza, affondano le radici nel fatto che già ai suoi albori il pensiero occidentale ha ricevuto un’impronta in

virtù della quale il fondare e il calcolare in senso ampio prendono il sopravvento. Alla nostra coscienza storiografica la dialettica dell’idealismo speculativo si presenta facilmente come il prodotto di una ragione che pone se stessa in termini assoluti. Si può dichiarare tale dialettica non degna di fede dal punto di vista teologico; giudicando nello spirito di Kierkegaard, si può sospettare l’idealismo speculativo di suprema mistificazione, resta però il fatto che la dialettica speculativa domina totalmente l’attuale realtà del mondo, in modo palese o nascosto, energico o logoro, sclerotizzato o rinnovato. Dietro l’innocua equivocità del genitivo «princìpi del pensiero» si cela la potenza del pensiero dialetticoriflettente che, in quanto originariamente europeo, si è nel frattempo propagato in varie forme su tutta la terra. Con ciò siamo rinviati alla seconda forma dell’ambiguità del discorso sui «princìpi del pensiero», ossia alla duplicità di senso presente nel discorso sul pensiero. Riconsiderando quanto detto, la si può ora ricondurre all’univocità. «Il pensiero» non c’è da nessuna parte, giacché ogni pensiero possiede la sua impronta destinale. La locuzione «princìpi del pensiero» può dunque riferirsi soltanto a quel pensiero cui da molto tempo siamo destinati. Detto per inciso, la credenza in un pensiero globale (Allerweltsdenken), che solo in apparenza è universale e dovrebbe essere lo stesso in tutti i tempi, è una delle origini della diffusione del nichilismo e della tenacia della sua inavvertibile forza di affermazione in tutte le regioni del mondo. Non appena abbiamo a che fare con princìpi del pensiero e meditiamo su di essi, ci vediamo dunque costretti anzitutto a esperire il nostro pensiero nella sua provenienza essenziale, per essere espressamente là dove, in quanto esseri pensanti, da molto tempo già siamo. La via che porta a tale esperienza ci è indicata dal segnavia più volte richiamato, su cui leggiamo il nome «logica», il che indica che il pensiero è determinato come λóγος. In verità questa indicazione rimane nel vago finché non possiamo mostrare

come e perché accada che il tratto capitale del pensiero sia individuato nel λóγος. Il fatto che le cose stiano così non può essere ritenuto né ovvio né naturale. È un destino unico quello che determina in modo di volta in volta differente tanto la Scolastica del Medioevo quanto la scienza dell’età moderna e, da ultimo, il mondo tecnico odierno. Questo destino cela in sé la domanda se la logica comandi definitivamente, cioè a buon diritto, il pensiero, oppure se il pensiero non sia ancora portato nel modo dovuto sotto la custodia del λóγóς e della sua essenza ancora da sviluppare. Ci limitiamo qui a prendere in considerazione quanto segue: in che senso il pensiero determinato in base al λóγóς ha a che fare con ciò che chiamiamo «princìpi del pensiero»? Questa connessione è possibile e necessaria solo in virtù del fatto che il nostro pensiero è, in termini letterali, di tipo fondamentale, ossia che il λóγος in quanto tale ha il carattere della tesi fondamentale. In che senso esso si comporta così? Nella nostra risposta dobbiamo accontentarci di pochi accenni. Il verbo corrispondente al sostantivo λóγος è λέγέἰν, e significa lesen, legere nel senso di «raccogliere» (sammeln) e «mettere insieme» (zusammenlegen). Aristotele definisce il λóγος della logica come λóγος ἀποφαντικóς, vale a dire come quel mettere insieme la cui capacità mira a far apparire, attraverso ciò che è messo insieme («il cammino è lungo»), ciò che sta già dinanzi-insieme (das Zusammenschon-Vorliegende), cioè il «lungo cammino» in quanto tale. Aristotele chiama questa forma fondamentale del pensiero anche semplicemente ἀπóφανσις, una parola intraducibile nella sua forza nominativa, che significa: il portare all’apparire (das Zum-Scheinen-Bringen) da esso stesso ciò che sta dinanzi. Se traduciamo la parola ἀπóφανσις con Darlegung, «presentazione», sottolineiamo bensì il lasciar stare dinanzi, però l’elemento specificamente greco – il portare all’apparenza (das Zum-Schein-Bringen) – va perduto. Se prestiamo attenzione a ciò che è stato osservato circa l’ἰδέα di Platone, la quale determina l’essere presente di ciò che è presente – cioè l’essere – come aspetto e sembiante,

balza agli occhi l’intreccio adeguato di ἰδέα e ἀπóφανσις in quanto essere e pensiero, a meno che, a causa delle molte conoscenze storiografiche in materia di filosofia, i nostri occhi non siano diventati troppo miopi per riuscire ancora a vedere questi stati di cose sconcertanti nella loro semplicità e per non dimenticare mai più questa visione. Eppure il fatto più strano che si è verificato nella storia essenziale del pensiero occidentale è che il tratto del λóγος della logica su cui tutto si regge, l’ἀπóφανσις, lo svelante portare all’apparire, scompare subito a favore dell’altra forma portante del λóγος, situata originariamente nell’ἀπóφανσις. Aristotele la pone in luce in modo conciso quando definisce il λóγος come λέγέἰν τἰ κατα τινος,86 che, tradotto alla lettera, significa: presentare qualcosa in direzione di qualcosa, e precisamente in direzione di ciò a cui e su cui il presentare giunge quando si rivolge a ciò che è presente. Questo «su cui» (das Worüber) sta sotto e dinanzi al presentare. Riprendendo il nostro esempio: il lungo cammino è ciò che sta dinanzi, ciò che è presentato nel λóγος ἀποφαντικóς «il cammino è lungo». Il «lungo» non è apposto al «cammino» – come la forma linguistica dell’asserzione potrebbe farci credere –, bensì è espressamente messo insieme con il lungo cammino in modo tale che il cammino si mostri come quel cammino che sta dinanzi. Il cammino viene in luce in quanto «lungo». Sembra che stiamo parlando di cose banali, invece non si tratta di cose banali, bensì di cose semplici la cui importanza è difficile stimare. La necessità di un continuo rinvio alla distinzione fra ciò che è banalmente comune e ciò che è sorprendentemente semplice coglie uno stato di difficoltà del nostro pensiero che gli impedisce di porsi nell’aperto in modo opportuno. Oggi è invalsa particolarmente l’abitudine di considerare scoperte ormai soltanto i risultati che si ottengono là dove i macchinari più potenti e le apparecchiature più complesse procurano qualcosa di utilizzabile, mentre non si attribuisce alcun valore allo sguardo schietto gettato su semplici stati di fatto. È strano,

ma questa stranezza è un’abitudine antichissima dell’opinare umano, per il quale il prodotto del proprio operare vale ben più del dono di un richiamo (An-ruf) o di una visione (Anblick). Ed è per questo che solo a fatica troviamo la giusta comprensione per il silenzioso avvenimento consistente nel fatto che, con la determinazione del λóγος della logica, cioè del pensiero, immediatamente si sottrae il carattere che sorregge tutto. Infatti, nella misura in cui – cosa che succede prematuramente – svanisce nella dimenticanza il carattere di ἀπóφανσις, cioè il fatto che il pensiero è un far apparire, balza in primo piano la forma portante del λóγος nominata in precedenza, ovvero il λέγέἰν τἰ κατα τινος; in seguito esso è stato separato dal carattere di presentazione e rappresentato per sé in quanto relazione. Ci troviamo trasportati così nella rappresentazione del λóγος della logica tramandata da tempo, secondo cui esso è il nesso di un soggetto, «il cammino», con il predicato, «lungo»: una rappresentazione del λóγος che è perfino corretta, e la cui correttezza è ovunque dimostrabile mediante la considerazione grammaticale. Gli stati di cose ora menzionati si presentano in un primo momento come temi propri dell’erudizione storiografica impegnata a narrare una storia della logica. Ma in verità, con l’inappariscente ritrarsi e svanire del carattere di ἀπóφανσις nel λóγος accade – sia detto senza esagerazione – qualcosa di inquietante. Che cosa accade? È spianata la strada allo sviluppo del pensiero come calcolare, fondare, dedurre. Ed è su ciò che poggia il mondo tecnico moderno, la cui essenza non può mai essere pensata compiutamente finché non ci impegniamo in una meditazione che mostri che cosa è insito sia nella caratterizzazione del pensiero in quanto λóγος, sia nello svanire del carattere di ἀπóφανσις. Il fatto che il λóγος così caratterizzato diventi il destino del mondo tecnico moderno è soltanto un aspetto. L’altro aspetto, ovvero che cosa si prepari nella sottrazione del carattere di ἀπóφανσις, ci riguarda in modo ancora più essenziale. Su ciò possiamo meditare solo se seguiamo in

maniera ancora più decisa, e tornando ancora più indietro, il segnavia che dice che il pensiero è determinato in base al λóγος, giacché non è delle conseguenze della sottrazione del carattere di ἀπóφανσἰς che, in questo momento, ci possiamo occupare. Ci troviamo piuttosto chiamati a domandare che cosa propriamente sia questo scomparire dell’essenza inizialmente mostrantesi del λóγος – e che cosa esso sia ancora, qui e ora. Sulle tracce di questa domanda, lungo una via forse un po’ fuori mano, ci poniamo discutendo l’ambiguità del discorso sui «princìpi del pensiero». Nel frattempo, il secondo tipo di tale ambiguità – la duplicità di senso del discorso riguardante «il» pensiero – si è serrato in una univocità. «Il» pensiero – questo è il nostro pensiero occidentale, determinato in base al λóγος e accordato con esso. Ciò non significa affatto che il mondo dell’antica India, della Cina e del Giappone sia rimasto privo di pensiero (gedanken-los). Piuttosto, l’accenno al carattere di λóγος del pensiero occidentale contiene il comando a noi rivolto in base al quale, nel caso in cui osassimo prendere in considerazione quei mondi estranei, dovremmo chiederci anzitutto se, in generale, abbiamo l’orecchio per ascoltare ciò che laggiù è pensato. Tale domanda appare tanto più scottante quanto più il pensiero europeo minaccia di diventare planetario anche in questo senso, che spesso gli Indiani, i Cinesi e i Giapponesi di oggi ci riferiscono le loro esperienze ormai soltanto nel nostro modo di pensare europeo. Così, a partire sia di là che di qua, tutto è rimestato in un gigantesco guazzabuglio entro cui non è più possibile riconoscere se gli antichi Indiani fossero empiristi inglesi e Lao-tzu un kantiano. Dove e come può esservi allora un dialogo che risvegli e sia in grado di richiamare ciascuno alla propria essenza, se da entrambe le parti è l’assenza di sostanza a condurre la conversazione? Nondimeno, l’univocità ora constatata del discorso riguardante «il» pensiero diventa completa solo se si

chiarisce in che senso tale pensiero non sia solamente assegnato a princìpi, ma sia nel contempo da se stesso richiamato a darsi espressamente da fare circa questi princìpi come tali, ossia a meditare (meditieren) su di essi. Meditare è la stessa parola che compare nel forestierismo tedesco Medizin; medear significa «darsi da fare per qualcosa», «prendersene utilmente cura». Uno dei detti più antichi dei pensatori greci, quello di Periandro, dice: μελέτα τὸ πᾱν,87 «prenditi cura dell’intero dell’ente», ovvero: pensa a fondo l’essere! Il pensiero si attiene a princìpi e li pensa espressamente a fondo proprio perché la semplice struttura del λóγος ha già il carattere della tesi fondamentale. Questa supposizione perde il suo aspetto sorprendente solo se pensiamo la parola Grund-Satz in greco, cioè in base all’essenza intatta del λóγος in quanto λóγος αποφαντικóς. Satz si dice in greco θέσἰς. Conosciamo questa parola dal linguaggio dell’idealismo speculativo, la cui dialettica può essere caratterizzata in base a tesi, antitesi e sintesi. In questo caso però la parola Thesis, Satz, ha il senso della spontaneità, dell’azione, dell’atto effettivo. Pensiamo a Fichte che dice: «L’Io pone il Non-io».88 Nella parola greca θέσἰς si impone invece qualcos’altro, poiché θέσἰς significa: «far (lassen) stare dinanzi»: «ciò che sta dinanzi». Ovviamente questo lassen non è una mera passività, bensì un fare di genere più originario e più alto di quanto potrebbe mai essere pensato e realizzato nel moderno concetto di tesi, cioè di posizione. Nella storia successiva del pensiero il λóγος ἀποφαντικóς è spesso definito come proposizione semplice, intesa però in termini grammaticali in base alla predicazione, vale a dire come intreccio e connessione fra soggetto e predicato della proposizione. Tutto ciò si prepara già in Platone e in Aristotele – argomento che non può essere affrontato qui, dove si tratta invece di caratterizzare la proposizione semplice come principio partendo dalla θέσἰς compresa in modo greco. Il λóγος ἀποφαντικóς è presentazione che

mette insieme (zusammenlegende Darlegung). Esso è θέσἰς in quanto far stare dinanzi quel qualcosa che sta già dinanzi e sta quindi al fondamento della presentazione. «Fondamento» (Grund) significa qui lo stesso di «suolo, fondo, terreno» (Boden). Parliamo di suolo terrestre (Erdboden) e di fondo del mare (Meeresboden). Tra i suoi campi il contadino conosce cattivi terreni (Böden), ossia quel tipo di terreno (Grund) che produce soltanto una cattiva crescita. Nel nostro esempio, «il lungo cammino» è ciò che sta dinanzi, è cioè il terreno e il fondamento che la proposizione «il cammino è lungo» fa stare dinanzi, portandolo così all’apparire. Qui «fondamento» significa lo stesso di «ciò che è rispettivamente presente». Ogni proposizione semplice che fa stare dinanzi qualcosa di presente è, nel senso appena illustrato, un Grund-Satz, una «tesi fondamentale». Ma come vanno intesi allora quei Grundsätze, ossia quei «princìpi», che sono chiamati così in modo da porli in evidenza proprio perché non si tratta di semplici Sätze, cioè di «proposizioni» qualsiasi, come l’esempio addotto «il cammino è lungo» oppure «il cielo è azzurro»? In che senso il principio di identità e il principio di ragione possono, dopo quanto abbiamo appena detto, chiamarsi ancora princìpi? In che relazione stanno con le proposizioni correnti? I princìpi tradizionalmente chiamati in questo modo riguardano manifestamente ogni proposizione in quanto proposizione, cioè al tempo stesso quel qualcosa che è posto da una proposizione corrente, dunque ciò che sta a fondamento e che sta dinanzi. Tuttavia, ciò che il principio di identità pone – l’identità – non sta affatto dinanzi come il cammino, la montagna, l’albero, il ruscello, e così via. L’identità non è nulla di presente, non è un fondamento e un terreno in questo senso. Nondimeno ogni ente-presente, in quanto tale, cioè nell’essere presente, è esso stesso lo stesso con se stesso. L’identità appartiene all’essere presente in quanto tale e non ce la troviamo mai dinanzi come qualcosa fra altri enti-presenti. Ma allora, quell’essere presente che non è

esso stesso un ente-presente può ancora chiamarsi, come quest’ultimo, un fondamento? Non soltanto può, ma addirittura deve chiamarsi così, ed è da molto tempo che si chiama così; infatti, che cosa sarebbe mai un ente-presente se non avesse il suo fondamento nell’essere presente? Che cosa sarebbero tutti i fondamenti e i terreni se in essi non regnasse quel fondare che riguarda ogni stante-dinanzi nel suo stare dinanzi, ogni ente-presente nel suo essere presente? Se fossimo capaci di pensare una buona volta ciò che è nominato nella parola «essere presente» secondo quella sua intera pienezza e ampiezza che fiorì nell’esperienza greca del mondo, allora e soltanto allora ci sarebbe lecito, anziché «essere presente», dire anche essere. Diversamente, ossia senza il vigoroso, pieno e profondamente pensato rammemorare il destino dell’essere partendo dal mondo greco, la parola «essere» rimane un termine vacuo, un guscio vuoto, oppure il nome per una rappresentazione confusa. Quei «princìpi» così chiamati in modo eminente concernono l’essere dell’ente. Tuttavia, fin dai tempi antichi l’essere è pensato, in modo più o meno deciso e chiaro, come fondamento. Viene qui alla luce che la stessa parola Grund, «fondamento», ha un doppio senso, nella misura in cui da un lato indica qualcosa di stante dinanzi inteso come il terreno e fondamento che è presente, dall’altro non intende alcun ente-presente, bensì l’essere presente stesso. I princìpi sono princìpi dell’essere dell’ente. Però tali princìpi si chiamano anche princìpi del pensiero, e precisamente del pensiero che si determina in base al λóγος ἀποφαντικóς. Seguendo il segnavia siamo giunti a una univocità del discorso sui «princìpi del pensiero». Al tempo stesso, però, questa univocità ci trasporta nel mezzo del succedersi delle domande che muovono l’intero pensiero occidentale proprio a causa del fatto che esso è determinato in base al λóγος. Queste domande chiedono: i princìpi del pensiero valgono perché sono princìpi dell’essere inteso come fondamento dell’ente? Oppure sono princìpi siffatti perché, in quanto

leggi del pensiero, sono essi a porre anzitutto ciò che sta dinanzi nel suo stare dinanzi, ciò che è presente nel suo essere presente, in tal modo fondando (stiften) prima di tutto l’essere? O ancora, i princìpi del pensiero sono contemporaneamente i princìpi dell’essere? Che cosa significa allora, qui, «contemporaneamente»? I princìpi sono entrambe le cose in una concordia o in base a una discordia? Oppure nemmeno il domandare in tal senso circa i princìpi del pensiero giunge ancora al cuore della cosa in questione? Ma quale cosa? È la cosa del pensiero occidentale, la cosa che è in sé controversa. Controverso è infatti il primato fra pensiero ed essere – controverso se e come l’uno sia superiore all’altro, oppure se siano addirittura dello stesso rango: una possibilità, questa, cui il pensiero non ha ancora aderito. Ora, nel caso in cui pensiero ed essere dovessero essere dello stesso rango, potrebbe bastare già una composizione tramite un Terzo, che verrebbe a porsi al di sopra o al di sotto di entrambi, rimanendo di conseguenza il Primo rispetto a entrambi? Su di esso bisognerebbe meditare, dato che finora non è stato possibile appianare la contesa fra essere e pensiero per la supremazia dell’uno sull’altro. Tuttavia, anche se questa contesa fra pensiero ed essere fosse essenziale, la contesa originaria per così dire, proprio in tal caso il nostro pensiero dovrebbe cercare una via che ci consentisse di giungere prima di tutto a esperire e a riconoscere come tale questa contesa originaria. Eppure noi stiamo già percorrendo questa via, su cui ci ha condotto il segnavia che indica che la logica è la dottrina del pensiero, poiché esso è definito come λóγος. Noi però andiamo avanti sulla via che ci è stata indicata e domandiamo: perché e in che modo accade che il tratto capitale del pensiero sia individuato nel λóγος? Il pensiero fa apparire ciò che è presente nel suo essere presente, si attiene all’essere presente, all’essere dell’ente, al fondamento. E quest’ultimo? Agli albori del pensiero occidentale, ossia per Eraclito, l’essere stesso si rivela come Λóγος. Maggiori particolari in proposito saranno forniti

altrove. Nel pensiero di Eraclito la parola Λóγος parla già nel medesimo tempo come nome sia per l’essere sia per il pensiero. Λóγος è la sola e unica parola per essere e per pensiero; essa nomina entrambi nel loro riferimento reciproco ed è dunque la parola per la contesa originaria fra i due. Se quindi, da questo punto di vista, attribuiamo alla parola «logica» il senso adeguato, essa non è più il nome per una branca della filosofia scolastica: la logica nomina in questo caso il luogo in cui di volta in volta si accende la contesa originaria fra pensiero ed essere. Il nome «logica» acquista un’enorme risonanza. Soltanto se lo udiamo in questo modo comprendiamo che non può essere un caso se la vetta suprema cui giunge la metafisica occidentale, ossia la Logica di Hegel, porta questo nome. Ora, improvvisamente, ci accorgiamo che anche la capacità di indicazione del segnavia che abbiamo scelto giunge un po’ più in là di quanto avessimo supposto in un primo momento. Dapprima, infatti, ci siamo guardati attorno alla ricerca di un filo conduttore che ci consentisse di dire brevemente che cosa significhi «il» pensiero nella locuzione «princìpi del pensiero». Nel frattempo, però, è venuto alla luce qualcos’altro, che può essere detto così: il pensiero non è mai anzitutto «logico» perché segue le leggi del pensiero, bensì queste leggi esistono come princìpi perché il pensiero è per natura «logico», cioè ponente-fondamento (Grundsetzend), ed è così rinviato al fondamento, vale a dire al Λóγος inteso come l’essere dell’ente. Anche se cogliamo queste connessioni in modo soltanto approssimativo, deve ugualmente esserci divenuto chiaro in quale luogo – vale a dire nel campo del Λóγος – si svolga la meditazione sui princìpi del pensiero. Questa meditazione attraversa varie epoche della storia del pensiero occidentale, fino a quando può prepararsi lo spazio di azione che le è destinato. È opportuno prestare attenzione a ciò se non vogliamo prendere troppo alla leggera il passaggio, da noi tentato riguardo al principio di identità, da una meditazione

sul principio alla localizzazione di ciò che esso pone. Sulla via che ora stiamo seguendo, questo passaggio – ammesso che qui si possa ancora chiamare così – è indicato dal fatto che adduciamo un terzo tipo di ambiguità nel discorso sui Grundsätze des Denkens, i «princìpi del pensiero». Tuttavia, già il fatto di nominare questo terzo «mutamento di senso» potrebbe voler dire che ciò che Sätze, «princìpi», Grund, «fondamento», e Denken, «pensiero», ora dicono va esperito in modo diverso: il Satz in quanto salto (Sprung), il Grund in quanto abisso (Abgrund), e precisamente abisso del pensiero che si determina in base a ciò verso cui salta. Il salto si può esperire soltanto nel saltare, non già mediante asserzioni su di esso. Nondimeno, tali asserzioni possono preparare il salto se parlano di ciò da cui esso salta via e a cui di conseguenza è vincolato per giungere nell’aperto. Il campo del saltare via è fornito dalla tradizione. In verità, tracce di una meditazione sui princìpi le troviamo già per tempo e subito in forma mutevole; eppure, soltanto con l’inizio della filosofia dell’età moderna tale meditazione prende avvio espressamente e su una strada sicura, e anche qui dapprima in modo solo esitante, benché significativo. Solo con Leibniz la meditazione sui princìpi raggiunge un terreno – qui va detto – fondamentale, dal quale scaturisce la dottrina dei princìpi di Kant e dell’idealismo speculativo. Non essendo questa la sede per un’esposizione più dettagliata, riportiamo l’avvertenza preliminare che Leibniz prepone a uno dei suoi brevi trattati, di appena tre pagine e privo di titolo. L’avvertenza dice: «Cum animadverterem plerosque omnes de principiis meditantes aliorum potius exempla quam rerum naturam sequi, et praejudicia etiam cum id maxime profitentur, non satis evitare, de meo tentandum aliquid altiusque ordiendum putavi»;89 «Quando notai che la grande maggioranza di coloro che meditano sui princìpi prendono a esempio le rappresentazioni altrui anziché seguire la natura delle cose, e in tal modo, anche se lo proclamano a gran voce, non riescono a evitare i

pregiudizi, ritenni più opportuno tentare qualcosa da me stesso, assumendo un punto di partenza superiore e più fondamentale». Si tratta del punto di partenza per il meditare de principiis. Principium significa id quod primum capit, ossia ciò che afferra, trattiene, e in tal modo tiene dinanzi (vorhält) quel Primo da cui qualcos’altro si diparte basandosi e fondandosi su di esso. I princìpi sono formulazioni dei primi fondamenti, ed è su di essi e sulla loro natura che Leibniz vuole meditare, salendo più in alto nell’ordine della meditazione. Ciò significa che egli si attiene all’ordine in cui essere e pensiero – e nel contempo i princìpi di entrambi apparsi qui e là – sono riferiti l’uno all’altro. Egli cerca per quest’ordine una fondazione più profonda, basata sull’essenza dell’essere (esse) e del pensiero, cioè sulle proposizioni vere, sulle veritates. Ciò vuol dire che, quando medita sui princìpi, Leibniz rimane entro la sequenza e l’ordine dei possibili passi tracciati dall’essenza della metafisica e della logica. Per lui e per i pensatori successivi la meditazione sui princìpi rimane di tale fatta che non le si presentano alcuno stimolo e alcuna occasione che possano indurre a saltare via dal campo della tradizione. Viceversa, dove nella costellazione attuale di essere e pensiero si rende necessario un saltare via, esso non rinnega affatto la tradizione. Anzi, a suo modo la riporta addirittura più liberamente, quindi più eloquentemente alla sua provenienza. Questo ci si manifesta nel fatto che l’ambito in cui giunge il salto del pensiero – in riferimento alla tradizione da cui esso salta via – è bensì il fondo abissale del pensiero, e tuttavia, in se stesso, è quella cosa che è indicata dagli stessi primissimi inizi del destino occidentale, posto che si riesca a esperirli in modo più iniziale. Ci limitiamo quindi a seguire ancora più indietro il segnavia, finché esso conduce a un incrocio.

QUINTA CONFERENZA La meditazione svolta in queste conferenze segue una via lungo la quale tentiamo di localizzare la locuzione Grundsätze des Denkens, «princìpi del pensiero». Questa meditazione intende indicare la località in cui i princìpi del pensiero giungono se udiamo quella locuzione in modo che dica: salti90 del pensiero nell’abisso, vale a dire nell’abisso del pensiero. Perciò è molto importante sapere che cosa significhi «il pensiero».91 Come mostra il segnavia, il pensiero è quel nostro pensiero che dobbiamo alla tradizione e che fin dai tempi antichi è destinato dal λóγος a ciò che è. In che senso il pensiero così definito è caratterizzato da una relazione essenziale con il fondo abissale? Risposta: nel senso che il pensiero ha il carattere del fondare. Questa risposta suona paradossale. Pensato in modo greco, «fondare» si dice λóγον δἰδóναι, ossia fornire il λóγος, il fondamento, anzi, non solo addurlo, bensì presentarlo, consegnarlo, renderlo: far stare dinanzi il fondamento, ciò che sta sotto, il terreno. Il pensiero in quanto fondare è quindi evidentemente riferito al fondamento e in nessun caso al fondo abissale. Quest’ultimo dev’essere tutt’al più evitato dal pensiero, giacché presso il fondo abissale esso è minacciato dalla caduta della sua essenza, cioè dalla perdita della possibilità di trovare ancora un fondamento su cui fondarsi per poter essere a sua volta un fondare che fondi qualcosa.92 Potrebbe sembrare così. Intanto, è forse arrivato finalmente il momento di domandare se il pensiero possa mai giungere alla sua essenza conforme al λóγος, cioè al fondare, finché rimane ovunque riferito solo a fondamenti. Finché questo accade, infatti, il pensiero assume sì come misura (Maß) la sua essenza, cioè il fondare, però non può pensare a fondo la misura stessa e la donazione di misura (Maßgabe). Se il pensiero deve pensare a fondo il riferimento al fondamento e il fondamento in quanto tale, non può a sua volta attenersi a un fondamento, né tantomeno voler essere un fondare. È per

questo che, per poter liberare l’ambito essenziale per il fondamento e per il riferimento a esso, il pensiero deve pervenire espressamente al fondo abissale. Se prestiamo maggiore attenzione a ciò, la tesi che il pensiero, in quanto fondare, abbia una relazione essenziale con il fondo abissale perde la sua paradossalità. Nel fondo abissale il pensiero non trova più alcun fondamento. Esso cade nel senza-fondo (das Bodenlose), dove non c’è più nulla che sorregga (trägt). Ma il pensiero dev’essere necessariamente sorretto? Evidentemente sì, poiché esso non è un’attività autarchica, in sé isolata, né un meccanismo che funziona da sé. Il pensiero rimane per natura rinviato a ciò che è da-pensare, e da esso chiamato. Ma allora ciò che sorregge (das Tragende) deve forse avere in ogni caso il carattere di un supporto (Träger), che la metafisica rappresenta come sostanza o come soggetto?93 Certamente no. Qualcosa come il pensiero può essere sorretto restando sospeso (indem es schwebt). Ovviamente, per determinare in che modo il pensiero sia capace di stare sospeso, e da dove gli derivi lo stare sospeso, sono necessarie un’esperienza e una meditazione specifiche, entrambe tanto particolari da svilupparsi presumibilmente solo in base all’evento. Solo finché ciò che è da-pensare ci riguarda nel carattere del fondamento il pensiero è il fondare in base alla corrispondenza a esso necessaria. Da che cosa dipende il fatto che da molto tempo e in ogni circostanza sia il fondamento a dare la misura per qualsiasi pensiero e per il suo modo di procedere? Il segnavia ci ha indirizzato verso il luogo da cui possiamo aspettarci la risposta a questa domanda. Agli albori del pensiero greco, quel qualcosa da cui dipende il fatto che ciò che sta dinanzi stia dinanzi, che ciò che è presente sia presente, e che l’ente sia, è definito come Λóγος. Così dice Eraclito. Noi dobbiamo semplicemente riconoscerlo, non tanto come il detto decisivo di un’autorità, ma come una parola che il nostro pensiero deve rammemorare e

verificare. Che cosa significa «verificare»? Ancora oggi, infatti, suona sconcertante – ammesso che ci scrolliamo di dosso ciò a cui siamo abituati – che l’essere dell’ente sia definito come Λóγος. Sennonché, la definizione «essere in quanto Λóγος» si pone al tempo stesso nella più stretta prossimità con l’esperienza dell’essere che Parmenide percepisce in esso quando lo pensa come ’Ἕν, ossia come l’unità unica semplicemente unificante. L’Uno-Tutto Unificante e il Λóγος inteso come riunione nel senso dello ῍ν Πάντα appartengono, in base a un’inappariscente armonia, allo Stesso. Questo Stesso è il Primo a partire dal quale l’ente in quanto tale è di volta in volta un ente (Essere? Presenza). Entrambi, lo ῝ν e il Λóγος, parlano ancora e con rinnovata energia dall’unità della mediazione dialettica, nella cui forma l’essere, fondandolo, condiziona tutto l’ente e, in quanto incondizionato, è il sistema dell’Assoluto stesso. Il Primo «a partire dal quale», τὸ πρῶτον ὅθεν, si chiama ἀρχή: è, in quanto Λóγος, il fondamento che fonda. Né Eraclito né un altro dei grandi pensatori dicono qualcosa di sensazionale, bensì il semplice dell’inesauribile Stesso. È per questo che diventeremo maturi per il pensiero solo quando avremo perso il gusto per il sensazionale. L’essere dell’ente si dirada nel carattere del Λóγος, cioè del fondamento. Per questo un principio come il principio di identità – che dice: all’essere di ogni ente appartiene «esso stesso con se stesso lo stesso» – può definirsi in senso eminente una tesi fondamentale. Ora, se il pensiero definito a partire dal λóγος si vede posto di fronte al compito di meditare, ai fini della propria assicurazione, sui princìpi per esso decisivi, in base al pensiero inteso come fondare ciò può accadere solo riconducendo a loro volta anche i princìpi a un primo e ultimo fondamento. Il pensiero plasmato dal λóγος e definito in quanto fondare non può quindi in nessun caso correre il pericolo di giungere a un abisso, giacché vede e trova ovunque soltanto fondamenti su cui e con cui fare conto.

L’attuale gigantesca parata del calcolismo (Rechnerei) nella tecnica, nell’industria, nell’economia e nella politica testimonia la potenza del pensiero posseduto dal λóγος della logica in una forma che confina quasi con la follia. Tutto il peso del pensiero calcolante si raccoglie nei secoli dell’età moderna: al suo inizio prende inoltre avvio, in particolare in Leibniz, la sistematica meditatio de principiis. Con questa osservazione ci limitiamo peraltro a constatare in termini storiografici un avvenimento interno alla sequenza di fatti accaduti nella scienza e nel pensiero. Se però pensiamo la constatazione storiografica in termini storici, dobbiamo dire che solo la sistematica meditatio de principiis dà una nuova impronta alla metafisica, inaugurando così il corso storico dell’età moderna. In questa situazione è opinione assai diffusa che siano stati soprattutto la nuova posizione e il nuovo sviluppo della matematica all’interno della ricerca scientifica a condurre a riflettere espressamente su regole, leggi, metodi e assiomi, nonché a cercare di stabilirli. Si potrebbe citare qui l’opera di Descartes che reca l’eloquente titolo di Regulae ad directionem ingenii, regole per la guida dell’ingegno. Anche se le connessioni non sono evidenti, questo scritto è in effetti un testo fondamentale del moderno pensiero tecnico, e quindi matematico. Fin dai tempi antichi la matematica occidentale implica la formulazione di assiomi. Tuttavia la matematica non riflette sui princìpi perché è matematica, ma perché la matematica greca si mantiene conforme in un senso eminente al carattere di λóγος e di ἀρχή del pensiero. Se teniamo conto di ciò, anche il giudizio sopra ricordato circa il ruolo della matematica e il suo significato per il pensiero metafisico trova una sistemazione. Dobbiamo domandare: da che cosa dipende il fatto che nell’età moderna la matematica torni nuovamente a svilupparsi in una forma decisiva del pensiero? Certamente non soltanto dall’efficacia della matematica in quanto strumento metodico, e nemmeno dal fatto che da molto tempo, e di nuovo, la misura, il numero e le figure geometriche diventino

«la chiave di tutte le creature». Ciò che è matematico è ammesso in modo così deciso nella metafisica dell’età moderna perché all’interno di tale metafisica, e per essa, si è deciso qualcosa di essenziale, ossia il mutamento dell’essenza della verità in certezza. Tale mutamento determina la verità94 come l’autoconsapevole, cioè autofondantesi fondazione di tutto il conoscibile in base all’unità del fondamento incondizionato.95 Questo mutamento dell’essenza della verità, che qui delineiamo solo per sommi capi, non è una conseguenza dell’influsso del modo di pensare matematico, bensì, al contrario, è proprio tale mutamento essenziale della verità ad avere anzitutto aperto alla matematica lo spazio di azione metafisico che le consente di dominare totalmente la scienza dell’età moderna in una determinata direzione. La matematica di per sé non può dire, ma neanche soltanto domandare, che cosa siano i suoi assiomi e princìpi secondo la loro essenza, e il fatto che, ciò nondimeno, oggi, in seno alla matematica e alla sua logica, tentativi in questo senso siano non solo intrapresi, ma ritenuti decisivi – ossia fondamentalmente esaurienti – getta una luce sui processi autenticamente storici in corso nella nostra epoca. Tali tentativi causano un crescente accecamento riguardo ai princìpi del pensiero e alla loro provenienza essenziale, poiché ritengono che il carattere di λóγος del pensiero, e quest’ultimo nella sua moderna forma matematizzata, siano incondizionati e i soli determinanti. Come nel caso della meditatio de principiis, anche il primo, decisivo impulso a una trasformazione della logica che oggi è pienamente in corso, e in seguito alla quale la logica, in quanto logica matematica e logistica, svolge un ruolo essenziale nella guida del moderno mondo tecnico, viene dal pensiero di Leibniz. Osserviamo qui brevemente che il segnavia non indica solo all’indietro verso la provenienza del pensiero dal λóγος, ma anche in avanti verso la configurazione estrema del pensiero calcolante e il crescente consolidamento del suo dominio. Il segnavia reca il nome «logica». Esso ci indica la via che

ci consente di riconoscere che il pensiero è determinato partendo dal λóγος. Quale indicazione ulteriore, il segnavia ci mostra che ora la «logica» si rivela essere il nome che designa la meditazione sul Λóγος, il luogo della contesa originaria fra pensiero ed essere. Indicando ancora più in là, il segnavia dovrebbe condurci, come si è detto, a un incrocio. È, questo, un luogo in cui la via che la nostra meditazione sulla provenienza essenziale del pensiero sta già percorrendo è attraversata (durchquert) da un’altra. La parola tedesca querfeldein significa «attraverso i campi». Dinanzi alla via che abbiamo percorso finora se ne mette di traverso un’altra. Che alla nostra via sarebbe capitato qualcosa del genere dovremmo averlo già notato, se abbiamo seguito in modo abbastanza attento la prima caratterizzazione del percorso della localizzazione. In primo luogo si è detto che il compito consiste nel chiarire l’ambiguità della locuzione «princìpi del pensiero». Abbiamo enumerato tre tipi di ambiguità: 1) l’equivocità del genitivo; 2) la duplicità di senso del discorso riguardante «il» pensiero; 3) un mutamento di senso. È facile notare che quanto nomina il terzo punto, pensato in modo rigoroso, non è a sua volta un tipo di ambiguità, bensì qualcosa di completamente diverso che concerne la locuzione «princìpi del pensiero» nel suo insieme, e che sta per così dire di traverso rispetto all’equivocità e alla duplicità di senso nominate in precedenza. In base al mutamento di senso, infatti, Satz non significa più «composizione» nel senso del λóγος ἀποφαντικóς, bensì Sprung, «salto». A sua volta il Grund è inteso, in modo del tutto trasversale (verquer) ma necessario, come Ab-Grund, «fondo abissale», poiché l’essenza del fondamento stesso non può più essere un fondamento, ma qualcosa da cui la determinazione «fondamento» rimane assente. La locuzione Grund-Sätze significa ora Sprünge in den Abgrund, «salti nell’abisso», salti del pensiero nell’abisso del pensiero. Il pensiero salta via dal fondamento, cioè dal carattere del fondare concepito come il solo finora determinante, via dal

fondamento inteso come l’essere che, per ogni rappresentare fondante-calcolante l’ente, rimane ciò che è da-pensare e quindi anche sempre ciò che è già pre-meditato (vorgedacht). Il pensiero salta via dal pensiero e dall’essere, via dalla definizione, conforme al Λóγος, che suscita fra i due la contesa originaria la quale già in Eraclito è nominata mediante l’unica parola Λóγος – che, inteso come ῝Eν Παντα, significa anche ἜἝῥἰς: la contesa. Nel saltare via, il pensiero non si lascia alle spalle la contesa originaria non conciliata, bensì la prende per così dire con sé per esperire in modo iniziale il semplice del coappartenere di pensiero ed essere. Il pensiero cerca quindi di vedere se e come, nel salto, si apra l’ambito in cui la stessità medesima essenzialmente è. Mediante il suo saltare nell’abisso il pensiero abbandona allora in certo modo il carattere di λóγος, però non dimentica di essere per natura determinato dal Λóγος. Si è detto infatti che il segnavia che indica in direzione della provenienza dal λóγος indirizza ancora più in là, oltre la contesa originaria, risalendo fino a un incrocio. Qui il percorso lungo la via seguita finora subisce un arresto in virtù del quale soltanto il Λóγος è colto integralmente, cioè in base all’intero della sua provenienza essenziale, ammesso che il percorso, presso l’incrocio, debba fermarsi in se stesso. In effetti è così. Che cos’è che si pone, per così dire, di traverso? È il fatto che la parola λóγος, originariamente96 non significa né «pensiero» né tantomeno «essere». Agli albori della grecità λóγος significa piuttosto «discorso» (Rede), e λέγέἰν «discorrere» (reden). Al cospetto di questo λóγος che ci attraversa la strada domandiamo: che cosa significa «discorso»? In che cosa i Greci scorgono il tratto capitale del discorso, per concepire il discorrere come λέγέἰν? Fin dall’antichità, infatti, λέγέἰν significa altrettanto incontestabilmente lo stesso di «raccogliere», «mettere insieme», nonché «portare dinanzi» e «far stare dinanzi» ciò che è stato raccolto e messo al riparo. In verità, la filologia si

ostina a sostenere che λóγος, «in senso proprio», significa discorso. Questa affermazione è tanto corretta quanto incompleta. D’abitudine il discorso e il discorrere rientrano per noi nell’ambito di ciò che è noto come linguaggio e parlare. Attribuendo il discorso al linguaggio ci comportiamo come se sapessimo che cosa significhi «linguaggio» e in che cosa consista la sua essenza, mentre siamo ben lungi da tale sapere. Perciò qui usiamo la parola «linguaggio» con tutte le riserve, perché potrebbe darsi che il discorso e il discorrere, quindi il λóγος e il λέγέἰν, non si lascino mai definire in base al parlare e al linguaggio. E in effetti le cose stanno proprio così. Già la nostra lingua tedesca, di cui non conosciamo quasi più la ricchezza, testimonia chiaramente che la parola Rede, «discorso», non significa in senso proprio ciò che rappresentiamo come Sprache, «linguaggio». Ancora nel medio altotedesco, e a maggior ragione prima, la parola Rede significa evidentemente ciò che anche noi intendiamo oggi quando diciamo: einen zur Rede stellen, «chiedere conto a qualcuno», ossia chiedergli ragione di qualcosa, volere da lui un ragguaglio, cioè che porti dinanzi ciò che sta dinanzi. «Discorso» e «discorrere» non significano «parlare» e «linguaggio» nel senso della comunicazione verbale di espressioni. «Discorso» significa esattamente ciò che fin dai tempi antichi significano λέγέἰν e λóγος, ossia «portare dinanzi», «portare alla luce raccogliendo». La testimonianza più bella di questo senso del discorso e del λóγος è al tempo stesso la più antica che la tradizione ci riserva. Essa97 si trova nel primo libro dell’Odissea di Omero, al verso 56. La parola λóγος compare nell’intera opera di Omero solo in questo passo, al plurale, con due aggettivi, nella frase: μαλακοὶ καἰ αἱμύλιοι λóγοι, «discorsi soavi e seducenti».98 Ἀἰμύλιος significa «seducente», «affascinante», «incantevole». Il λóγος può avere questo tratto solo nella misura in cui fa apparire ciò che, in sé raccolto, attrae (anzieht). «Trarre» (ziehen) è «trarre fuori» (zücken). Egli trae fuori, trae improvvisamente la spada. Ciò che

improvvisamente at-trae a sé (das an sich Ziehende) è l’attraente (das Entzückende), ciò che rapisce e quindi seduce. Solo nella misura in cui, secondo la sua essenza, fa comparire e apparire qualcosa – e in tal senso la procura e la fa apparire per magia (zaubert) – il λóγος può anche talora incantare e ammaliare, il che non è nient’altro che una modalità eminente del raccogliere, cioè del λέγέἰν. È per questo che λóγος e λέγέἰν, in senso proprio e fin dai tempi antichi, non significano «discorso» e «discorrere» nel senso di «parlare» – ma che cosa? In tedesco abbiamo una sola parola adeguata a ciò, ed è sagen, «dire». Un tratto capitale del dire è il far apparire raccogliendo. Ogni parlare, discorrere e scrivere è una modalità del dire, però il dire non è necessariamente un parlare nel senso dell’utilizzo degli organi vocali. Mαλακóς e αἱμύλιος, «soave» e «seducente», non sono tratti dei λóγοι intesi come discorsi nel senso del parlare; essi non riguardano l’elemento fonetico, bensì il λóγος inteso come il dire che fa apparire e che soltanto così può sedurre e affascinare.99 Che cosa esperiamo all’incrocio, grazie allo sguardo gettato sulla più antica testimonianza riguardante il λóγος? Questo: il λóγος domina in quanto dire nel senso del far apparire e del portare dinanzi (vorbringen). Il dire è portare (bringen) in quanto apportare (zubringen) che al tempo stesso porta via (wegbringt) e ci porta al riparo (einbringt) in ciò che è detto. La soave violenza del portare domina totalmente il dire. Soltanto partendo di qui riconosciamo in che senso il λóγος sia potuto diventare il carattere determinante del pensiero. Pensare è100 νοεῖν, «percepire» (vernehmen), ovvero accettare e accogliere, cioè raccogliere, portare alla luce ciò che è presente nel suo essere presente. Proprio perché è essenzialmente il dire (portare), il λóγoς ha potuto svilupparsi anche in quella forma fondamentale del pensiero che conosciamo come asserzione, proposizione, e che nella logica riconosciamo come l’unica determinante. Eppure

l’asserzione intesa nel senso della ἀπóφανσις è soltanto una modalità del dire, quella che porta alla luce e stabilisce ciò che è presente nel suo aspetto contingente. Ogni asserire è un dire; però non ogni dire è necessariamente un asserire nel senso della proposizione logica. È per questo che non si può mai assumere il λóγóς in quanto asserzione come filo conduttore di una meditazione che si pone sulle tracce dell’essenza del dire. Viceversa, anche il dire, che abbiamo definito come il «portare», non è mai solo l’espressione linguistica successiva al pensiero, bensì, al contrario, il pensiero è per natura un dire, ed è probabilmente il dire iniziale che domina tutte le modalità del dire. Qui cogliamo il cenno decisivo ai fini del tentativo di parlare del linguaggio e della sua essenza. Quando parliamo di linguaggio intendiamo ora la sua essenza determinata partendo dal dire, ossia dal λóγος esperito in modo iniziale. In quanto dire, il pensiero è riferito all’essere presente di ciò che è presente, cioè all’essere. La casa dell’essere – si è detto in precedenza – è il linguaggio, pensato ovviamente in base alla sua essenza, che si cela nel dire. Essere e pensiero, nonché la contesa originaria fra i due, hanno la loro dimora nel linguaggio, la cui essenza risuona nel λóγος e va pensata a fondo in riferimento al dire. Appartiene ai misteri del destino cui è sottoposto il pensiero della grecità il fatto che l’essenza del linguaggio risuoni precocemente in quanto λóγος, e che però questo risuonare non sia percepito in quanto tale e pensato espressamente a fondo, ma, anzi, si smorzi presto. All’opposto, la riflessione greca sul linguaggio prende una direzione che, con varie trasformazioni, è rimasta fino a oggi decisiva sia per ogni indagine scientifica del linguaggio sia per l’interpretazione filosofica dell’essenza linguistica. Si tratta della rappresentazione fonetico-linguistica del linguaggio, che si definisce in base alla φωνή, il suono, e alla γλῷσσα, la lingua (Zunge), in latino lingua. La concezione metalinguistica del linguaggio che sta attualmente assumendo la supremazia nei paesi anglosassoni, la

creazione della «metalingua», non costituisce la liberazione dalla linguistica, ma ne è anzi il perfetto consolidamento, così come la metafisica è la perfezione della fisica. Secondo la rappresentazione tradizionale, né l’essenza del linguaggio è pensata partendo dal λóγος esperito in modo iniziale, né l’essenza stessa del λóγος è portata nell’aperto, giacché il λóγος è costretto piuttosto entro l’angusto orizzonte della «logica», che a sua volta dà l’impronta alla grammatica intesa come dottrina del linguaggio nel senso della linguistica. Soltanto ora leggiamo per intero il segnavia, e in un modo ancora diverso. La logica non è solo la dottrina del pensiero né soltanto il luogo della contesa originaria tra pensiero ed essere. La logica – pensata ora partendo dal λóγος inteso come dire, a sua volta esperito in quanto risuonare essenziale del linguaggio – la logica, appunto, è il «soliloquio» (Selbstgespräch) del linguaggio con la sua essenza.101 L’abisso in cui il pensiero salta è l’essenza del linguaggio. Questa essenza si cela nell’essenza del dire. Mediante il suo saltare il pensiero muta, nella misura in cui si raccoglie in modo più iniziale nella sua essenza in quanto dire, mentre il discorso riguardante l’«essenza» riceve un senso mutato in termini corrispondenti. Ora, non c’è bisogno di prove dettagliate per dimostrare che, in ogni tentativo di saltare entro l’essenza del linguaggio, ci troviamo anzitutto circondati dalla ressa di rappresentazioni, prospettive e domande che sono rimaste determinanti per ogni riflessione linguistica avutasi finora, trasformandosi in abitudini consolidate. Le abbiamo appena ricordate. È ormai quasi impossibile averne una visione complessiva e ordinarle in modo proficuo, a meno di non ricondurle un po’ forzatamente a pochi orizzonti dominanti, cosa che travalica i limiti di questa conferenza. D’altronde, giacché ogni salto rimane un saltare via dalla tradizione, e poiché però quest’ultima è sempre più ricca di doni nascosti di quanto possa ritenere una mera smania di

innovazione, non possiamo svincolarci subito dalle rappresentazioni abituali del linguaggio. Non ci è lecito farlo nemmeno se il nostro meditare sull’essenza del linguaggio ne sarà temporaneamente sviato tanto che arriveremo a coglierla solo in ritardo. Dove qualcosa è così accerchiato come l’essenza del linguaggio, già la preparazione del salto entro di essa diventa necessariamente meticolosa, ancora più meticolosa – se ci si consente il paragone – dei più bei dialoghi di Platone, i quali, come si può constatare, nel muoversi qua e là, avanti e indietro, del loro dire e domandare, non portano a nessun risultato per colui che, anziché porsi all’ascolto del non-detto nel dire dei dialoghi, va alla caccia di asserzioni e di una dottrina. Il non iniziato pensa naturalmente che il non-detto sia soltanto il residuo che rimane dimenticato dietro il detto. Invece il non-detto ha il suo luogo soltanto nel detto e può diventare ed essere ciò che è solo in virtù della forza suprema del dire. Soltanto attraverso il non-detto scorgiamo anzitutto la cosa (Sache) del pensiero in tutto il suo carattere di cosa (Sachheit). Per ottenere un primo sguardo che entri nell’aperto, e per rendere più chiaro lo sguardo nell’essenza del linguaggio che abbiamo già tentato, ci limitiamo a un solo stato di cose che si è già reso visibile all’incrocio in cui si incontrano il λóγος in quanto pensiero nel senso del λóγος ἀποφαντικóς e il λóγος in quanto discorso nel senso del dire. Per esprimerci con una formula, si tratta della relazione fra pensiero e linguaggio. Le discussioni su questo tema non hanno fine, poiché mancano del giusto inizio. Che cosa manca? Manca la consapevolezza del fatto che il pensiero non può essere localizzato separatamente per sé, giacché senza considerare il riferimento del pensiero all’essere abbiamo di fronte a noi sempre e soltanto un frammento dell’essenza del pensiero. Se già mettiamo a tema la relazione fra linguaggio e pensiero, dobbiamo rivolgere la nostra meditazione al rapporto fra pensiero, essere e linguaggio. In tal caso, però, emerge di colpo tutto l’imbarazzo in cui viene a trovarsi il

nostro intento, poiché è evidente che pensiero, essere e linguaggio non si possono mettere insieme come tre cose. Il rapporto fra pensiero, essere e linguaggio non si dà mai soltanto in base al fatto che siamo noi a intrecciare le relazioni reciproche fra i tre. Piuttosto, il rapporto che li stringe l’uno all’altro consiste in quel qualcosa di ancora inesperito entro cui risuona il coappartenere di pensiero, essere e linguaggio. Per questo rapporto ci manca ancora lo sguardo, ma anche l’udito per ciò che la parola, qui, dice. Per mettere ugualmente in luce il rapporto fra i tre che abbiamo nominato, andiamo alla ricerca di aiuti, e facendolo ci rendiamo conto che noi stessi apparteniamo a tale rapporto, in quanto, essendoci bisogno di noi al suo interno, lo abitiamo e lavoriamo alla sua costruzione. Il rapporto fra pensiero, essere e linguaggio non ci sta quindi di fronte, ma noi stessi vi siamo inclusi. Non lo possiamo né superare né soltanto raggiungere, poiché coloro che sono raccolti in tale rapporto siamo noi stessi. Va notato che la prolissità e la goffaggine che gravano sulla nostra meditazione non derivano soltanto dalle nostre limitate capacità, ma sono essenziali. Il che peraltro non giustifica un lamento sulla miseria umana, ma è anzi un’occasione per esultare della quantità di enigmi che rimangono tenuti in serbo per il pensiero. Ora, però, come si articola il rapporto fra pensiero, essere e linguaggio a cui apparteniamo in quanto pensanti? Non dobbiamo perdere di vista ciò che il segnavia ha indicato da ultimo e che con una formula può definirsi così: l’essere e il pensiero, nel loro coappartenere, sono riportati al λóγος inteso come dire, quindi al linguaggio. Il linguaggio si mostra come il fondamento – il pensiero e l’essere come le sue manifestazioni. Pensiero ed essere si fondano sul linguaggio. È quest’ultimo che fa da sostegno al rapporto.102 Eppure, presentando in questo modo lo stato dei fatti, non ricadiamo forse nelle rappresentazioni del fondamento e del fondare proprio ora che ci dobbiamo tenere nelle vicinanze dell’abisso? Viceversa, anche se per adesso non ci lasciamo

disturbare da questa ricaduta, non ci ribelleremo forse ugualmente all’asserzione che ci impone di rappresentare il linguaggio come fondamento dell’essere e del pensiero? Comunque sia inteso, come parlare, discorrere o dire, il linguaggio è un’attività dell’uomo. È evidente, invece, che l’essere non potrebbe mai essere chiarito come prodotto dell’uomo. Potrebbe esserlo già di più il pensiero, nella misura in cui l’uomo pensa poiché parla. Oppure parla poiché pensa? O nessuna delle due alternative si dimostra adeguata? C’è in verità un’altra via per accordare al linguaggio un ruolo preminente in seno all’intero della relazione fra pensiero, essere e linguaggio. Se si rappresenta il linguaggio come espressione di qualcosa e segno per qualcosa, ne risulta che l’essere è linguaggio nella misura in cui è pronunciato tramite il linguaggio. Il pensiero è linguaggio nella misura in cui si esprime nel parlare. Fin dai tempi antichi, e non senza ragione, per rappresentare il carattere linguistico del linguaggio si è fatto ricorso all’immagine del segno. Non ci è lecito, quindi, tenere in poco conto questa concezione tradizionale in cui il linguaggio ci si presenta quasi come da sé quando chiediamo che cosa esso sia, nemmeno una volta riconosciuto che questa prospettiva, che ci pone di fronte il linguaggio in quanto espressione, rimane l’ostacolo più insidioso per il raccoglimento103 nell’essenza del linguaggio. Tuttavia, va ora osservato che la funzione complessiva che certo spetta al linguaggio in quanto espressione per l’essere e per il pensiero non coglie però ciò a cui noi pensiamo quando diciamo che l’essenza del linguaggio è ciò che fa da sostegno nel rapporto che stringe l’uno all’altro l’essere e il pensiero nel loro coappartenere. Questa asserzione, sempre che sia tale, mantiene il suo carattere sorprendente. Siamo piuttosto propensi a disporre diversamente quel rapporto e a dire: il linguaggio e il pensiero hanno il loro fondamento nell’essere, giacché, mentre entrambi sono qualcosa di essente, l’essere ha invece il carattere del fondamento. Linguaggio e pensiero hanno il

loro fondamento nell’essere, e senza di esso non sarebbero nulla. Tuttavia, nel medesimo istante ci sovviene anche che è l’essere in quanto fondamento che destina il pensiero al fondare. Questa relazione tra fondamento e fondare trae origine dalla contesa originaria del Λóγος. Il Λóγος, però, secondo l’indicazione del segnavia che risale più indietro, è il discorso, il dire. Di conseguenza, in seno alla contesa originaria del Λóγος domina, come ciò che è propriamente controverso, il λóγος nel senso del dire. Per quanto oscuro e sorprendente ci possa apparire il rapporto fra linguaggio, pensiero ed essere, esso mostra un’impronta e una struttura cui dobbiamo volgere lo sguardo se non vogliamo trascurare arbitrariamente il segnavia e la sua capacità di fornire indicazioni. Guardando dunque in modo più persistente in direzione di ciò che ci è stato indicato non può sfuggirci il fatto che il λóγος non appare come linguaggio nel senso della comunicazione verbale, come espressione. Il λóγος è il dire nel senso del far apparire. Se siamo alla ricerca dell’essenza del linguaggio, dobbiamo104 localizzarlo in riferimento al dire e non possiamo più delucidarlo e chiarirlo solo in quanto attività linguistica. La localizzazione che si rende ora necessaria cela-salva (birgt) in sé il salto del pensiero nel suo abisso, ossia nell’essenza del linguaggio. La parola «essenza», qui, non significa più il fondamento della possibilità, l’essentia, l’entità astratta (Wesenheit) come genere supremo, non è più il τὸ τἰ ἦν έἰναἰ di Aristotele o l’essenza nel senso della Logica di Hegel: qui «essenza» è il perdurare in quanto concedere, che a sua volta è il fare avvenire. Ciò che essenzialmente è del linguaggio inteso come dire è l’«ambito del porgere» (Be-reich). Questa parola è reclamata qui come nome invariabile e nomina qualcosa di unico, ovvero quel qualcosa entro cui tutte le cose e tutti gli esseri sono porti (zu-gereicht) e consegnati (überreicht) gli uni agli altri, in modo tale da raggiungersi (erreichen) reciprocamente e da

portarsi a vicenda salvezza o disgrazia (zum Heil und Unheil gereichen), bastando (ausreichen) ed essendo sufficienti gli uni agli altri.105 Solamente in quest’ambito106 è di casa anche l’irraggiungibile (das Unerreichbare). L’ambito che va ora esperito come ciò che essenzialmente è del dire è il regno (Reich) del gioco in cui tutte le relazioni delle cose e degli esseri giocano l’una con l’altra e si specchiano l’una nell’altra. Dire è porgere (reichen) nel senso dell’«ambito del porgere». L’indicazione a questo riguardo ci consente di presagire solo alla lontana l’essenza del linguaggio in quanto dire. L’ambito è la località in cui pensiero ed essere coappartengono. La località è a sua volta il rapporto-sostenente (Verhältnis) di entrambi. In precedenza tale rapportosostenente è stato indicato con la locuzione «il linguaggio è la casa dell’essere». «Casa», qui, significa esattamente ciò che dice la parola, ossia «protezione», «salvaguardia», «contenitore», «rapporto-sostenente». Nel discorso riguardante la casa dell’essere il termine «essere» intende l’essere stesso.107 Questo però significa appunto il coappartenere con il pensiero, dove è anzitutto tale coappartenere che determina l’essere in quanto essere. Nella locuzione cui facciamo riferimento, «il linguaggio» non è inteso come parlare, quindi in quanto mera attività dell’uomo, bensì come casa, ossia in quanto protezione, rapporto-sostenente. A questa situazione ci si è riferiti più volte mediante un’altra indicazione che dice: è il linguaggio che parla e non l’uomo. L’uomo parla soltanto nella misura in cui corrisponde al linguaggio. Il linguaggio parla. Ciò suona a prima vista come una tautologia, nella quale per di più non si può capire in che modo il linguaggio possa parlare, visto che non è certo dotato di organi vocali. Nondimeno, quella che sembra una tautologia – «il linguaggio parla» – indica invece che l’insieme del linguaggio (Sprachwesen) gioca in se stesso e

in tal modo, ovviamente, non si imprigiona in se stesso, bensì si libera nell’aperto della libertà iniziale che è soltanto esso stesso a determinare. A questo stato di fatto ci avviciniamo se meditiamo sul rapporto che, in quanto ambito, regge il coappartenere di pensiero ed essere. Ma nella locuzione «il linguaggio parla» che cosa significa questo «parla», se non può riferirsi al «parlare» nel senso dell’attivazione degli organi vocali? Il linguaggio parla in quanto detto (Spruch), richiamo (Zuspruch) e appello (Anspruch). Il linguaggio è talmente flessibile (spielerisch) che «parlare», come in questo caso, significa lo stesso di «dire». In genere però la grammatica insegna diversamente, giacché afferma che i verbi sprechen, «parlare», e reden, «discorrere», possono essere utilizzati in senso assoluto, intransitivo, a differenza del verbo sagen, «dire». Il dire implica sempre la relazione con qualcosa dadire e di detto cui esso si riferisce. Se pensiamo a fondo con maggior precisione il senso dei verbi «parlare», «discorrere» e «dire», dobbiamo sottolineare invece, contro la grammatica, che solo e anzitutto nel dire viene alla luce – e in tal senso in modo assoluto – l’intera essenza del linguaggio. Soltanto rappresentati in modo esteriore, grammaticale, il parlare e il discorrere sono assoluti, il che qui significa utilizzati in modo staccato e separato dall’insieme del linguaggio. Uno parla. Qualcuno discorre... Forse discorre a ruota libera perché non ha niente da dire. E uno parla ininterrottamente, però le sue parole non dicono nulla. Viceversa, uno può tacere e, in questo modo, dire molto, laddove peraltro il tacere eloquente è raro. Anche e proprio il gesto (Gebärde) muto risuona nel dire, non perché vi sia un linguaggio dei gesti e delle forme, ma perché l’essenza del linguaggio riposa sul dire. I gesti non sono dapprima meri gesti che in un secondo momento esprimono qualcosa, diventando così un linguaggio, bensì sono in sé ciò che sono in base al dire, entro cui il loro portare (tragen), sopportare (ertragen) e apportare (zutragen) rimangono già sempre

riuniti. Il portare nel modo dei gesti è pre-disposto (bestimmt) in base al dire ed è quindi sempre un risuonare del rapportare-sostenere (ver-halten). È il gestuale (das Gebärdenhafte) che dispone in primo luogo tutti i movimenti. La malaessenza (Unwesen) del gesto è il gesto codificato (Geste). I puri gesti sono senza linguaggio (sprachlos), ma non sono senza parola (wortlos), e lo sono tanto poco da essere porti108 sempre in base a un dire ed entro di esso. L’essenza non linguistica del linguaggio risuona nel dire. Il dire dice sempre qualcosa, ed è solo per questo che talvolta può anche non dire nulla. Dire qualcosa è sempre al tempo stesso dire a qualcuno, a un ascoltatore. Il linguaggio parla in base al sagen, al «dire». L’essenza del linguaggio è la Sage, la «saga». Come nel caso di molte altre parole della nostra lingua, noi utilizziamo oggi la parola «saga» per lo più in un senso riduttivo, intendendo cioè la saga come mera saga, ossia qualcosa di non garantito e, quindi, di inattendibile. Qui invece la saga, se deve accennare all’essenza del linguaggio, non è intesa così. Si può concepirla piuttosto nel senso della saga che, in quanto storia (Mär), è connessa con la favola (Märchen). Probabilmente l’essenza del linguaggio è ciò che è autenticamente favoloso (das eigentlich Märchenhafte). Noi uomini possiamo dire soltanto nella misura in cui siamo già ad-detti (zugesagt), ossia promessi, all’essenza del linguaggio inteso come saga. Ma che cosa significa propriamente sagen, «dire»? Abbiamo ottenuto una prima risposta prestando ascolto a quanto dicono il λέγέἰν e il λóγος greci: apparire – e far apparire –, far apparire per magia. La stessa cosa dice la parola tedesca sagan, che significa mostrare, indicare, vedere – e far percepire. Il dire è lo svelante-velante (entbergend-verbergend) mostrare e indicare, il così determinato «porgere a... e porgere qui e là» (dar-reichen zu... und hin- und her-reichen). La saga è l’«ambito del porgere» di questo porgere che mostra e fa cenno (zeigend-winkend). Conformemente alla sua essenza originaria,109 il mostrare

non ha bisogno proprio dei segni, e ciò significa che esso non consiste solo nell’utilizzo di segni, ma è anzitutto il mostrare in quanto far apparire che rende possibile la creazione e l’utilizzazione110 di segni. Soltanto perché il linguaggio, nell’essenza, è saga, ossia mostrante in senso originario,111 vi sono segni fonetici e grafici per il discorrere e il parlare. Soltanto perché il linguaggio, nell’essenza, è saga e, come tale, mostra, questo mostrare può diventare un far vedere visioni e vedute, ovvero ciò che chiamiamo immagini e ciò che la scrittura evoca in quanto scrittura non solo alfabetica, ma anche ideografica.112 Solo in base alla sufficiente localizzazione del dire comprendiamo l’originario carattere di λóγoς del pensiero. Il pensare è, nell’essenza, il dire. Il poetare è il cantare. Ogni cantare è un dire, però non ogni dire è cantare. La radice verbale di sagen è fatta risalire all’indogermanico sequ, che ritorna nel greco έπ – ἒπoς – ένέπέ, e può essere udita nel primo verso dell’Odissea: Ἄνδῥα μoι ἒννεπε, Moύσα, πoλύτῥoπoν...;113 «Dimmi, o Musa, l’uomo astuto...». La Musa canta nel momento in cui dice e narra (zu-sagt) al cantore la saga. In questo senso, dunque, il canto e il pensiero, ossia le rispettive raccolte del cantare e del pensare, sono entrambe di casa nella medesima essenza, cioè nel carattere dicente (das Sagenhafte) della saga. Da questo punto di vista, ad esempio Antigone, Edipo e Tiresia, nelle tragedie di Sofocle, non hanno parlato da oratori abili che conoscano la psiche, bensì hanno detto e, quindi, cantato. Nel dire essi facevano apparire ciò che scorgevano, ovvero ciò che guardava loro stessi. Pensati in base a quanto abbiamo ora discusso, diventano comprensibili certi pensieri sul linguaggio che abbiamo udito provenire dall’epoca del Classicismo tedesco e del Romanticismo, ad esempio il detto di Johann Georg Hamann: «Poesia è la lingua madre del genere umano».114 L’essenza del linguaggio dovrebbe quindi essere compresa in base all’essenza della poesia. Così si è detto nella conferenza su

Hölderlin e l’essenza della poesia, tenuta nel 1936.115 Ma a partire da dove va pensata l’essenza della poesia? Essa va pensata partendo dal carattere dicente di quell’ambito che per primo consegna il pensare e il poetare alla loro essenza di volta in volta peculiare. Per appropriarcene in modo completo, abbiamo dovuto pensare saltando più in profondità anche il detto ricco di allusioni di Hölderlin: «Poeticamente abita / L’uomo su questa terra».116 L’uomo abita poeticamente perché, in modo conforme al dire, egli è addetto all’essenza del linguaggio inteso come saga. Non ci avvicineremo mai al rapporto che distingue e stringe l’uno all’altro il poetare e il pensare finché lo sottoporremo alla tortura della relazione fra poesia e filosofia. I Grund-Sätze del pensiero sono salti in quell’essenza del linguaggio che noi chiamiamo la saga. Il suo carattere dicente è quel molteplice porgere nella cui forma l’ambito risuona in se stesso. L’ambito è la località dell’identità fra pensiero ed essere. Pensare è dire, ma non necessariamente discorrere, parlare e scrivere. Pensare è dire, ma non necessariamente asserire nel senso del λóγoς ἀπoφαντικóς della logica, non necessariamente comunicare nel senso del λέγέἰν inteso come il διαλέγεσθαι della dialettica. Certo, riguardo all’essenza della saga e al suo carattere dicente abbiamo ancora ben poco da dire. Anzitutto dobbiamo esperire e sopportare il fatto più di tutti sorprendente che l’essenza del linguaggio, prima di ogni essere e pensare, e prima del coappartenere di entrambi, è per quest’ultimo il gioco in sé risonante della località, ossia dell’ambito nella cui forma la saga consegna gli uni agli altri tutti gli esseri e tutte le cose,117 porgendoli qui per noi in modo tale che ovunque li raggiungiamo e li manchiamo. Ancora più sorprendente sarebbe, in effetti, se ciò che desta sorpresa dell’ambito che gioca in sé e ha carattere dicente, ossia l’insieme del linguaggio, non lampeggiasse

tuttavia qua e là, e se noi non imparassimo – percorrendo certo lunghi cammini – a scorgere di quando in quando il rilucere notturno di simili lampi. Riportiamo qui, in conclusione, la testimonianza di uno di questi lampi. Il titolo è Monologo e il testo dice: «Nel parlare e nello scrivere accade in realtà qualcosa di folle; il vero dialogo è un semplice gioco di parole. L’errore ridicolo sta però nel meravigliarsi che la gente creda – di parlare per le cose. Nessuno sa che la peculiarità del linguaggio è proprio quella di preoccuparsi soltanto di se stesso. Perciò esso è un mistero così portentoso e fecondo, – se infatti si parla soltanto per parlare allora si pronunciano le verità più splendide e originali. Se invece si vuol parlare di qualcosa di determinato, allora il linguaggio, questo spiritoso, ci fa dire le cose più ridicole e insensate. Da qui discende anche l’odio che alcune persone serie provano nei confronti del linguaggio. Ne riconoscono la vivacità, ma non invece che il disprezzabile ciarlare rappresenta l’aspetto infinitamente serio della lingua. Potessimo far capire alla gente che per il linguaggio accade lo stesso che per le formule matematiche. – Costituiscono un mondo a sé – Giocano soltanto con se stesse, non esprimono altro che la loro meravigliosa natura, e proprio perciò sono così espressive – proprio perciò vi si rispecchia l’insolito gioco dei rapporti tra le cose. Soltanto attraverso la loro libertà esse sono membri della natura e soltanto nel loro libero moto si manifesta l’anima del mondo, che ne fa un criterio delicato e una proiezione delle cose. Lo stesso è con il linguaggio – chi possiede un sentimento raffinato della sua diteggiatura, della sua cadenza, del suo spirito musicale, chi percepisce interiormente la lieve azione della sua natura riposta, e muove poi conformemente la propria lingua o la propria mano, sarà un profeta; chi invece è ben in grado di scrivere verità come queste, ma non possiede orecchio e sensibilità sufficienti per esso, sarà preso in giro dal linguaggio stesso e la gente lo deriderà, come i Troiani Cassandra. Pur ritenendo di aver indicato con ciò, nel modo più chiaro, l’essenza e la funzione della poesia,

so però anche che nessuno può comprenderle, e di aver detto delle sciocchezze, perché appunto ho voluto dirle, e così non nasce nessuna poesia. E se dovessi però parlare? e se quest’impulso linguistico al parlare fosse il contrassegno dell’ispirazione del linguaggio, dell’efficacia del linguaggio in me? e se poi la mia volontà volesse tutto ciò che io dovessi, ciò non potrebbe infine essere, senza che io lo sapessi o vi credessi, poesia, e non potrebbe rendere comprensibile un mistero del linguaggio? Sarei dunque così uno scrittore nato, visto che lo scrittore non è che un entusiasta del linguaggio?». Questa testimonianza è di Friedrich von Hardenberg (Novalis) e costituisce l’abbozzo di un contributo per la rivista «Athenäum» scritto nel 1799-1800.118 In questo monologo del λóγoς molte cose rimangono oscure e sconcertanti, tanto più che il suo autore pensa in un’altra direzione e parla in un’altra lingua rispetto a quelle che abbiamo tentato di sviluppare in queste conferenze. Nel frattempo si è certamente già radicata la perplessità che qui il linguaggio, o quantomeno la sua essenza, siano assolutizzati. Così sembra, in effetti, finché, permanendo nel rappresentare, prendiamo l’insieme del linguaggio come qualcosa di lì presente e di già dato, invece di saltare nel rapporto119 che la saga, in quanto ambito, è – rapporto nel quale noi stessi siamo trattenuti. Questa prospettiva espone tuttavia il nostro pensiero all’esigenza di verificare se gli stati di cose nominati nelle parole «rapporto», «ambito», «saga», «evento» possano ancora essere rappresentati mediante concetti. Si comincia a meditare se non sia richiesto un pensiero il cui linguaggio corrisponda all’essenza della saga e alla saga dell’essenza, e che quindi non possa nemmeno utilizzare una terminologia della metafisica mutata. Questo altro pensiero deve riascoltare a ritroso (zurückhören) il patrimonio linguistico ancora intatto del nostro linguaggio, in seno al quale un dire inadoperato attende per poter aiutare il pensiero dell’impensato a farsi parola. Mai però tale patrimonio

linguistico potrà di per sé già sottrarre al pensiero l’azzardo del suo cammino. Neanche il pensiero tuttavia si abbandona al linguaggio, bensì localizza l’insieme del linguaggio nella provenienza essenziale della saga, ossia nel rapporto in cui siamo trattenuti. Su questa terra noi rimaniamo insediati nel relativo. Uno che, anziché all’esperienza della cosa e del suo appello, mira solo a ottenere ragione, potrebbe obiettare che allora il relativo è l’assoluto. È corretto. Resta però da chiedersi se nel pensiero ce la caviamo con cose semplicemente corrette e se con il loro aiuto possiamo mai dire che cosa poi significhi «assoluto». Maggior peso ha per il momento un’altra perplessità. Se diciamo: l’abisso del pensiero è l’essenza del linguaggio; l’essenza del linguaggio è la saga; la saga è l’ambito del porgere che mostra e fa cenno; l’ambito è in quanto località del coappartenere di pensiero ed essere – se diciamo tutto ciò, sembra che ci limitiamo a seguire una catena di asserzioni. Tuttavia, ciò che così sembra, e che in ogni momento può anche essere inteso esclusivamente in tal modo, è nel contempo un cenno in direzione di un dire che circonda (umringt) da se stesso, e che proprio in virtù di ciò rimane aperto, precisamente come un cerchio (Ring) che, in quanto cerchio, è sì chiuso, ma in quanto chiuso conserva tutt’intorno un rado e un aperto entro cui, forse, chiama un non detto, senza di per sé mostrarsi. C’è un dialogo sulla pittura che discute in che senso sia il colore dipinto a formare e a contenere il disegno e il profilo di un’immagine, eppure debba contenerli in modo tale che il disegno, nell’immagine, non si mostri espressamente. In questo dialogo Cézanne dice: «Non bisogna tirare la gente per la manica».120

NOTA DELLA CURATRICE DELL’EDIZIONE TEDESCA Il presente vol. LXXIX della Gesamtausgabe contiene la versione completa del ciclo di conferenze di Brema, intitolato Einblick in das was ist [Sguardo in ciò che è] e tenuto nel 1949, e del ciclo di conferenze di Friburgo, intitolato Grundsätze des Denkens [Princìpi del pensiero] e tenuto nel 1957. Al momento della loro esposizione orale, come delle successive pubblicazioni parziali (si veda sotto), entrambi i cicli fornirono per la prima volta a un pubblico più vasto uno scorcio, per quanto ancora limitato, sul pensiero relativo alla storia dell’essere del tardo Heidegger e destarono quindi una corrispondente attenzione. Le Conferenze di Brema documentano al tempo stesso la prima apparizione pubblica di Heidegger dopo la seconda guerra mondiale. Heidegger tenne il ciclo di conferenze Sguardo in ciò che è il 1° dicembre 1949 presso il Club di Brema e lo ripropose il 25 e il 26 marzo 1950 alla Bühlerhöhe. Le quattro conferenze sono intitolate Das Ding [La cosa], Das Ge-Stell [L’impianto], Die Gefahr [Il pericolo] e Die Kehre [La svolta]. La prima conferenza su La cosa, con il titolo Über das Ding [Sulla cosa] e in una versione leggermente ampliata, fu tenuta da Heidegger anche a Monaco, il 6 giugno 1950, presso l’Accademia Bavarese delle Belle Arti. La prima pubblicazione ebbe luogo nel 1954 nella raccolta Vorträge und Aufsätze [Conferenze e saggi], alle pp. 163 sgg. Parti della seconda conferenza su L’impianto servirono come base della conferenza Die Frage nach der Technik [La questione della tecnica], peraltro completamente riveduta e ampliata, che Heidegger tenne il 18 novembre 1953 nell’ambito della serie, organizzata dalla medesima Accademia monacese, su Le arti nell’età della tecnica, e che apparve nel 1954 nel vol. III (pp. 70 sgg.) dell’Annuario di tale istituzione (R. Oldenbourg, München [trad. it. a cura di Maurizio Guerri, Mimesis, Milano, 2001]). Ulteriori pubblicazioni ebbero luogo già nello stesso anno in Vorträge und Aufsätze, alle pp. 13 sgg., e successivamente, nel 1962, in Die Technik und die Kehre [La tecnica e la svolta], «Opuscula», I, Neske,

Pfullingen, pp. 5-36. La terza conferenza su Il pericolo non venne riproposta al di fuori del ciclo e rimase inedita, tuttavia fu citata più volte senza autorizzazione sulla base delle trascrizioni in circolazione. La quarta conferenza su La svolta apparve nel 1962 in Die Technik und die Kehre (pp. 37-47) secondo la versione orale. La prima stesura delle Conferenze di Brema, che non presenta ancora la ripartizione nelle quattro conferenze, è registrata da Heidegger «ottobre 1949, alla baita». La prima copia in pulito, manoscritta, contenente la suddivisione menzionata, fu eseguita a Friburgo e a Meßkirch nel novembre 1949, mentre una seconda copia in pulito, anch’essa manoscritta, fu eseguita nel marzo 1950. In quest’ultima i primi sette capoversi della conferenza su La cosa sono separati dal seguito con il titolo Der Hinweis [L’indicazione], fungendo così da introduzione all’intero ciclo di conferenze. Il testo qui presentato si basa sulla seconda copia manoscritta di Heidegger e su due trascrizioni dattiloscritte da lui rivedute e annotate a margine. Nel testo a stampa tali annotazioni sono state riportate in nota contrassegnate da lettere corsive minuscole. Della quarta conferenza su La svolta è disponibile, oltre al manoscritto, soltanto una trascrizione dattiloscritta. Il manoscritto e le trascrizioni dattiloscritte sono stati collazionati dalla Curatrice, che ha anche corretto alcuni piccoli errori di trascrizione. Alla conferenza su La cosa sono stati allegati un’aggiunta alla pagina manoscritta 9 (si veda sopra, p. 28, nota a) e alcuni appunti appena abbozzati relativi all’argomento trattato (si veda sopra, pp. 41-43). La quarta conferenza su La svolta è, nella versione qui proposta, quasi identica alla versione già pubblicata. In due soli luoghi quest’ultima presenta una frase e una parte di frase in più (cfr. «Opuscula», I, cit., pp. 44 e 46). Le cinque Conferenze di Friburgo, che costituiscono la seconda parte del presente volume, furono tenute da

Heidegger nel semestre estivo del 1957 con il titolo Princìpi del pensiero nell’ambito dello Studium Generale presso l’Università di Friburgo. La prima conferenza fu pubblicata da Heidegger in forma rimaneggiata con il titolo dell’intero ciclo Princìpi del pensiero nel volume in onore di Victor von Gebsattel apparso nello «Jahrbuch für Psychologie und Physiotherapie», VI, 13, 1958, pp. 33-41. La terza conferenza, quella più nota, fu tenuta da Heidegger il 27 giugno 1957 presso la Stadthalle di Friburgo con il titolo Der Satz der Identität [Il principio di identità] come discorso celebrativo in occasione del giubileo per i cinquecento anni della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo. La conferenza fu pubblicata nel primo dei quattro volumi in cui si suddivide l’opera celebrativa promossa dalla Albert-Ludwigs-Universität, alle pp. 69-79, e apparve quello stesso anno immutata nel volume Identität und Differenz [Identità e differenza] pubblicato presso l’editore Neske di Pfullingen. La seconda, la quarta e la quinta conferenza del ciclo di Friburgo sono rimaste inedite. Come nel caso delle Conferenze di Brema, anche qui la base dei testi presentati è costituita, con una sola eccezione, dal manoscritto di Heidegger e dalle trascrizioni da lui rivedute. Il manoscritto e le trascrizioni sono stati collazionati dalla Curatrice, mentre le note manoscritte a margine sono state riportate, nel testo a stampa, a piè di pagina. Il manoscritto della terza conferenza su Il principio di identità è invece andato perduto: la base testuale per la pubblicazione è costituita quindi dalla trascrizione dattiloscritta del manoscritto fortemente rimaneggiata da Heidegger. Riguardo alla quinta conferenza, una seconda trascrizione dattiloscritta contiene numerosi miglioramenti testuali di pugno di Heidegger, che sono stati riportati in nota dalla Curatrice. In tutti i testi raccolti in questo volume si sono mantenute le peculiari forme ortografiche di Heidegger anche laddove contravvengono o si pongono in alternativa alle relative regole dell’ortografia. Ciò riguarda in particolare la modalità

di scrittura Sein/Seyn, che non è stata uniformata, come accade nei volumi già pubblicati, alla grafia Sein. Fa eccezione il termine GeStell, che prevale nettamente in questa grafia per distinguersi dal concetto corrente di Gestell. La punteggiatura è stata leggermente integrata. Si sono verificate per quanto possibile le citazioni nelle copie di lavoro di Heidegger, mentre le indicazioni bibliografiche, che nel testo originale compaiono solo in forma abbreviata, sono state integrate e completate nelle note a piè di pagina. Sotto il titolo Sguardo in ciò che è, e seguendo il filo conduttore della domanda sulla piena essenza della cosa e sulla sua incuria nell’epoca della tecnica intesa come dominio dell’«impianto», in cui l’ente appare ormai soltanto in forma di risorsa ordinabile, le Conferenze di Brema sviluppano la domanda essenziale circa l’accadere fondamentale di questa costellazione della storia dell’essere e del pericolo in essa nascosto, nonché del suo possibile superamento. Il pericolo autentico consiste per Heidegger nel compiuto oblio dell’accadere della svelatezza dell’ente, che ha il suo luogo nel vicendevole gioco storico-epocale di svelamento e velamento, radura e velatezza dell’essere nell’evento. Come tentativo di esperire il pensiero in base ai suoi princìpi, le Conferenze di Friburgo rappresentano la rischiosa impresa storica di affrontare l’incertezza storicomondiale del pensiero e la contesa di quest’ultimo con ciò da cui è comandato a pensare ciò che pensa e a pensare così come pensa. Questo tentativo interroga a fondo i princìpi del pensiero tradizionalmente così definiti – come il principio di identità, il principio di non contraddizione e il principio di ragione – entro una tradizione di pensiero che ci libera per una diversa appropriazione, rendendo così possibile una metamorfosi del pensiero che domina la nostra epoca. Esso domanda retrospettivamente del luogo di provenienza delle leggi del pensiero, che nessuna scienza è in grado di raggiungere, vale a dire di quell’altro ambito della località

dell’identità di essere e pensiero, e, quindi, di quell’altra identità, intesa come coappartenere, che, in quanto appropriazione reciproca di uomo ed essere, è essenzialmente nell’evento della radura dell’essere. A Hermann Heidegger, curatore del lascito di Heidegger, va il mio ringraziamento per la fiducia dimostratami nell’affidarmi l’edizione di questo volume. A FriedrichWilhelm von Herrmann e a Hartmut Tietjen sono grata per i numerosi suggerimenti e per le indicazioni utili all’allestimento testuale e formale del volume. Ringrazio inoltre Mark Michalski e Hartmut Tietjen per l’aiuto fornitomi nella ricerca delle fonti dei passi citati e nell’integrazione dei riferimenti bibliografici. Per l’indicazione riguardante le parole di Cézanne ringrazio François Fédier (Parigi). Per la cura dimostrata nella lettura delle bozze sono grata a Peter Krumholz e, di nuovo, a Hartmut Tietjen. Düsseldorf, maggio 1994

PETRA JAEGER

1 La storia delle conferenze di Brema, il loro contesto, l’evento che rappresentarono per la città e per il pubblico di non specialisti cui erano destinate, infine la loro accurata preparazione da parte di Heidegger sono evocati e illustrati da Heinrich Wiegand Petzet, Auf einen Stern zugehen. Begegnungen und Gespräche mit Martin Heidegger 1929-1976, Societäts-Verlag, Frankfurt a. M., 1983, pp. 59-83. Si vedano anche le interessanti affermazioni contenute nello scambio epistolare di quegli anni tra Gottfried Benn e l’amico Oelze (un commerciante di Brema): G. Benn, Briefe an F.W. Oelze, a cura di H. Steinhagen e J. Schröder, 2 voll. (in 3 tomi), Limes, Wiesbaden, 1977-1980.

2 M. Heidegger, Gelassenheit, Neske, Pfullingen, 1959, p. 20 (trad. it. L’abbandono, a cura di A. Fabris, Il melangolo, Genova, 1983, p. 36).

3 M. Heidegger, Nur noch ein Gott kann uns retten, in Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Neske, Pfullingen, 1988, p. 96 (trad. it. Ormai soltanto un dio ci può salvare, a cura di A. Marini, Guanda, Parma, 1987, p. 131).

4 Cfr. Beilage zu Wunsch und Wille (Über die Bewahrung des Versuchten), in Gesamtausgabe, vol. LXVI, Klostermann, Frankfurt a. M., 1997, pp. 419-28.

5 Cfr. M. Müller, Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart, terza ediz., Kerle, Heidelberg, 1964, pp. 66-67.

6 Trad. it. Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano, 1995, p. 35, nota.

7 In Segnavia, trad. it. Adelphi, Milano, 1987, pp. 133-57, specialmente p. 156.

8 Ibid., p. 476.

9 Cfr. E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 1989 (nuova ediz. ampliata, 1998), pp.146-47, 151, 153, 162, 165.

10 Aggiunta alla p. 9 del manoscritto: Come accoglie il vuoto della brocca? Esso riceve ciò che vi è versato dentro per conservarlo in vista del versare fuori. Il vuoto prende e dà il versato di un tale versare. Il versato e il tipo di versato plasmano il vuoto della brocca. Il versato determina il carattere di brocca della brocca. Tuttavia, l’elemento peculiare del versato consiste nel versare fuori. Esso o trasferisce il versato in qualcos’altro, il recipiente per bere, oppure il versato può essere bevuto direttamente nel versare fuori della brocca. Il versato della brocca è bevanda. Ogni bevanda che esce dalla brocca è versato, però non ogni versato della brocca è bevanda. Ciò vale proprio per l’autentico versato, che nel versare fuori è bensì elargito, ma non bevuto.

Anche la brocca vuota resta definita partendo dal versato e in vista di esso. Il versato può essere una bevanda, nella misura in cui è un fiotto d’acqua o di vino.

11 più di ogni altra.

12 Meister Eckhart, Sermone LI, in Deutsche Mystiker des vierzehnten Jahrhunderts, a cura di F. Pfeiffer, vol. II: Meister Eckhart, Leipzig, 1857, p. 169.

13 Ibid., p. 141 (Sermone XLII).

14 [Più probabilmente di sant’Agostino]. [Tutti gli interventi tra quadre, salvo dove indicato, sono della Curatrice dell’edizione tedesca. N.d.T.].

15 Cfr. a senso ibid., p. 199 (Sermone LXIII) e p. 86 (Sermone XX).

16 Lettera al professor Reisner del 3 novembre 1950 [inedita].

17 [Espressione in antico altotedesco].

18 Il terreno, la campagna – lo spaesamento della risorsa!

19 Risorsa.

20 In che modo?

21 La centrale intesa nel senso di risorsa che sussiste in quanto ordinabile (bestellbarer Bestand), vale a dire non come costante perdurare.

22 riferita alla tecnica in quanto τέχνη – ἀλήθεια (Ἀ-λήθεια).

23 non chiaro – essenzialmente pensato ora nel modo dell’impianto (Ge-Stell).

24 così posto e in tal senso.

25 in che senso il chiarire allontana dalla cosa in questione.

26 il suo essere presente – Perché? Come?

27 distinguere in modo ancora più netto rispetto a montatura (Montage), impalcatura (Gestänge) e massa di detriti (Geschiebe); scheletro (Gerippe).

28 riunente.

29 una conseguenza essenziale di tale radura (Lichtung) è la fisica dell’età moderna, che riposa sull’oggettualità – la sfera stessa della inventabilità (Erfindbarkeit).

30 integra la sua interezza.

31 unità della riserva – come?

32 questo modo eccellente – malgrado ogni uniformità.

33 e lo è diventato.

34 fisica atomica.

35 le macchine – i rifiuti atomici e i metodi corrispondenti.

36 cfr. Scienza e meditazione [cfr. M. Heidegger, Wissenschaft und Besinnung, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen, 1954, pp. 41-66; trad. it. in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1976, pp. 28-44. N.d.T.].

37 perché proprio vicinanza? Vicinanza e differenza-separazione (Unter-schied)!

38 l’impianto come «essenza» in senso ampio.

39 distanza e vicinanza.

40 solo questo! Nel destino non avviene forse il rimanere assente dell’essenza della verità (Wahrheit)?

41 evento.

42 (evento).

43 svelamento (Entbergung).

44 salvaguarda, rimane indietro – e quindi solo allora l’ὀρθóτης.

45 permane in essa.

46 nell’immediato.

47 Dimenticanza della differenza: incuria della cosa – rifiuto del mondo.

48 dell’essere presente.

49 possibile soltanto nella misura in cui l’impianto è l’evento.

50 riferito troppo unilateralmente al mondo.

51 questa espressione è usata qui in modo diverso che nella teoria e nella contemplazione, quantunque non senza riferimento di questo significato all’altro. n. all’opposto.

52 Posto tuttavia che Dio sia non l’essere stesso, ma il più essente, chi potrebbe già ora azzardarsi ad affermare che questo Dio così rappresentato sia il pericolo per l’essere?

53 Λόγoς: portare allo stare dinanzi (zum vor-liegen-bringen), lasciar stare dinanzi (vor-liegen-lassen).

54 πoίησις.

55 «Portare-vicinanza» («Nähe-Bringen»); essenzialmente» presente (an-«wesen»).

perdurare

(währen)

nell’«essere

56 ambiguo!

57 ma posato da chi? Dal soggetto dell’uomo? Con che diritto?

58 per quale motivo? Come va pensato in base all’evento?

59 Meister Eckharts Reden der Unterscheidung, a cura di E. Diederichs (ristampa anastatica dell’edizione del 1913), Markus und Weber, Bonn, 1925, p. 8.

60 F. Hölderlin, Sämtliche Werke, a cura di N. von Hellingrath, F. Seebass e L. von Pigenot, seconda ediz., Propyläen, Berlin, 1923, vol. IV, 2, p. 227 [trad. it. Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano, 1977, tomo II, p. 261, Patmo (traduzione modificata)].

61 rapporto-sostenente (Ver-Hältnis).

62 Dimenticanza della differenza; il linguaggio.

63 rapporto-sostenente.

64 linguaggio!

65 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, a cura di G. Lasson, Leipzig, 1923, vol. II, libro secondo, sez. I, cap. II, p. 31 [trad. it. Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari, 1978, vol. II, p. 36].

66 Ibid., p. 58 [trad. it. cit., p. 71].

67 Hegel, Phänomenologie des Geistes, a cura di J. Hoffmeister, quarta ediz., Leipzig, 1937, pp. 29-30 [trad. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. I, p. 26].

68 Hölderlin, Sämtliche Werke, cit., vol. IV, p. 27 [trad. it. in Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Mondadori, Milano, 2001, pp. 350-51].

69 Novalis, Briefe und Werke, a cura di E. Wasmuth, Berlin, 1943, vol. III, p. 330, fr. 1125 [trad. it. Opera filosofica, a cura di G. Moretti e F. Desideri, 2 voll., Einaudi, Torino, 1993, vol. II, p. 654].

70 Hegel, Encyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, a cura di G. Lasson, seconda ediz., Leipzig, 1911, p. 128, par. 114 [trad. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari, 1973, vol. I, p. 113].

71 Hölderlin, Sämtliche Werke, cit., vol. IV, p. 61 [trad. it. in Le liriche, cit., tomo II, p. 155 (traduzione modificata)].

72 Laò-Tsè’s Taò Te King, a cura di V. von Strauss, Leipzig, 1924, cap. XXVIII, p. 140.

73 K. Marx, Die Frühschriften, a cura di S. Landshut, 2 voll., Stuttgart, 1932, vol. I, p. 307 [trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1968, p. 125].

74 Hölderlin, Der Rhein, in Sämtliche Werke, cit., vol. IV, p. 175 [trad. it. Il Reno, in Le liriche, cit., tomo II, p. 219].

75 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (parte seconda, Die stille Stunde), in Werke (Großoktavausgabe), vol. VI, Leipzig, 1923, p. 217 [trad. it. Così parlò Zarathustra, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI, tomo I, Adelphi, Milano, 1968, p. 180 (L’ora senza voce)]. Cfr. anche Der Wille zur Macht, Prefazione, in Werke, cit., vol. XV (terza ediz., 1922), p. 4 [cfr. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., vol. VIII, tomo II, 1971, pp. 392-93, fr. 11 (411)].

76 S. George, Das neue Reich, in Gesamt-Ausgabe der Werke, Berlin, 1928, vol. IX, p. 129.

77 Verità – ἀλήθεια – svelamento (Entbergung), e cioè, al tempo stesso, custodia di ciò che è velato.

78 Hölderlin,

Mnemosyne

(prima

versione),

in

Sämtliche

Werke.

Große

Stuttgarter Hölderlin-Ausgabe, a cura di F. Beißner, Cotta Stuttgart, 1943-1985, vol. II, tomo I, p. 193 [trad. it. in Le liriche, cit., tomo II, p. 289].

79 Platonis Opera, a cura di J. Burnet, 5 voll., Oxford, 1899-1907, vol. I, 254 d 14 sgg.

80 H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, quinta ediz. a cura di W. Kranz, Berlin, 1934, vol. I, p. 231, fr. 3.

81 Platonis Opera, cit., vol. II, 274 b 6.

82 [Per l’esposizione orale Heidegger, con le parole «... che qui non può essere riportata», ha rinunciato per motivi di tempo a leggere questa storia. Tuttavia negli appunti manoscritti si trova la seguente traduzione di Heidegger del passo del Fedro, 274 c-275 b 4, che qui viene inserita].

83 Nietzsche, Der Wille zur Macht, libro primo, Der europäische Nihilismus, in Werke, vol. XV, cit., p. 141 [trad. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., vol. VIII, tomo I, 1975, p. 112].

84 Hölderlin, Stutgard, vv. 11 sg., in Sämtliche Werke, ed. Hellingrath, cit., vol. IV, p. 114 [trad. it. Stoccarda, in Le liriche, cit., tomo II, p. 105 (traduzione modificata)].

85 Cfr. Leonardo da Vinci, Das Buch von der Malerei, ediz. ted. a cura di H. Ludwig, Wien, 1882, parte quinta, p. 277, n. 549 (550) [Libro di pittura, Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di C. Pedretti, Giunti, Firenze, 1995, vol. II, p. 362, n. 549, Che cosa è ombra e lume: «Ombra è di natura delle tenebre, lume è di natura della luce; l’uno nasconde e l’altro dimostra»].

86 Cfr. Aristotele, Analitici primi, I, 1, 24 a 16 sg.

87 Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, cit., p. 65 (I sette sapienti; Periandro), fr. 10 (73 a) ζ.

88 Cfr. J.G. Fichte, Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (1794), in Sämtliche Werke, a cura di I.H. Fichte, Berlin, 1845, vol. I, p. 103.

89 G.W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, a cura di C.J. Gerhardt, vol. VII, Berlin, 1890, p. 299.

90 Sul «salto» nelle successive pp. 200-201, cfr. i miei appunti in margine a Identität und Differenz [Neske, Pfullingen, 1957. N.d.T.] – «principio» e «salto». Irruzione – raccoglimento.

91

Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: … che cosa significhi «il pensiero». Abbiamo un segnavia che indica in direzione della risposta, vale a dire il titolo «logica» inteso come nome per la dottrina del pensiero. Come mostra il segnavia…

92 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: … cioè della perdita della possibilità di trovare ancora qualcosa su cui basare, quindi fondare, qualcos’altro.

93 «Sorreggere» nel senso di concedere – appropriare.

94 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: la quale si è dispiegata…

95 Il fondamento è incondizionato nella misura in cui è esso stesso per se stesso fondamento di se stesso e non necessita più di nessun altro fondamento. (In che modo è essenzialmente l’«identità» nell’unità del fondamento incondizionato?).

96 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: inizialmente (anziché: originariamente).

97 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: La parola λóγος.

98 Homeri Opera, Scriptorum classicorum Bibliotheca Oxoniensis, Oxonii e typographeo clarendoniano Londini et novi eboraci apud Humphredum Milford (senza data).

99 Il termine λóγοι non intende anzitutto o addirittura soltanto l’«elemento fonetico» del discorso, giacché anche quest’ultimo riceve il proprio carattere sempre in base alla modalità del dire.

100 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: (a partire da Parmenide).

101 In che senso è un dialogo? In che senso soli-loquio (Selbst-Gespräch)? Che cosa significa con la sua essenza?

102 Cfr. ora Kants These über das Sein (1961), 1963, pp. 32 sgg. [in M. Heidegger, Wegmarken, in Gesamtausgabe, vol. IX, Frankfurt a. M., 1976, pp. 445-80; trad. it. La tesi di Kant sull’essere, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1987, pp. 393-427].

103 dunque niente «salto»!

104 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione:

perché «dobbiamo»?

105 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: il porgente (das Zu-reichende), il «tendente» (das «Hinreichende»), il raggiungere-arricchire (accrescere) (das Er-reichern [mehren]).

106 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: così pensato.

107 e la differenza ontologica.

108 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: da compiere il loro porgere.

109 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: più propria (anziché: originaria).

110 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: impiego (anziché: utilizzazione).

111 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: ossia il mostrare indicante-il-mondo (Welt-weisend) (anziché: ossia mostrante in senso originario).

112 L’essenza dell’immagine in base al «pertinente» («Gehörig»).

113 Omero, Odissea, si veda sopra, p. 202, nota 1.

114 J.G. Hamann, Aesthetica in nuce, in Sämtliche Werke, a cura di J. Nadler, Wien, 1950, vol. II: Schriften über Philosophie/Philologie/Kritik 1758-1763, p. 197 [trad. it. in Scritti sul linguaggio 1760-1773, Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 113].

115 M. Heidegger, Hölderlin und das Wesen der Dichtung, in Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, ora in Gesamtausgabe, vol. IV, Frankfurt a. M., 1981, pp. 33-48 [trad. it. Hölderlin e l’essenza della poesia, in La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano, 1988, pp. 39-58].

116 [Hölderlin, In lieblicher Bläue blühet..., in Sämtliche Werke, ed. Hellingrath, cit., vol. VI, pp. 24 sgg.; trad. it. in Tutte le liriche, cit., pp. 346-47. Cfr. M. Heidegger, «... Dichterisch wohnet der Mensch...», in Vorträge und Aufsätze, cit., pp. 181-98; trad. it. cit., pp. 125-38. N.d.T.].

117 Variante conforme all’integrazione heideggeriana della seconda trascrizione: ... è il gioco risonante, nella cui forma la saga, ossia l’ambito di tutte le cose e di tutti gli esseri...

118 Novalis, Briefe und Werke, cit., pp. 11 sg. [trad. it. Opera filosofica, cit., vol. I, pp. 619-20].

119 Detto in termini metafisici: saltando non possiamo ottenere nulla. Soltanto in una ricerca d’altra natura ci è lecito trovare.

120 Cfr. E. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne, in «Mercure de France», sett.ott. 1907 [si tratta probabilmente di una traduzione libera, in forma di sentenza, che Heidegger stesso ha fatto della frase di Cézanne: «Personne ne me touchera... ne me mettera le grappin dessus. Jamais! Jamais!» («Nessuno mi toccherà... mi metterà addosso il rampino. Mai! Mai!»). L’espressione proverbiale francese, tratta dal linguaggio marinaro, significa: «Nessuno mi prenderà con la forza»].