Di Shakespeare e Congreve
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Perché è importante la bibliografia? Se dobbiamo considerarla qualcosa di più di una lista di titoli, qual è la sua funzione? L’interrogativo ha acquistato nuova

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McKenzie è stato l’unico bibliografo in grado di impugnare opinioni consolidate operando su due distinti registri bibliografici, quello enumerativo e quello analitico. Ma non ebbe l’ultima parola. Né del resto avrebbe voluto. McKenzie ha insegnato che la bibliografia può travalicare l'ambito dei libri. Seguendo le sue orme, i suoi successori hanno dimostrato che essa costituisce una maniera di comprendere

la riptoduzione di forme culturali di ogni tipo, purché passibili di descrizione rigorosa. Nel frattempo, gli storici dell'editoria hanno fatto nuova luce sui misteri che avvolgono Gutenberg e le origini della stampa. Nel 2000, in occasione del seicentesimo

anniversario della sua nascita — ipoteticamente fissata al 1400: del padre del libro sappiamo ancora meno del poco che si sa di Shakespeare — un profluvio di pubblicazioni ha attestato la vitalità degli studi bibliografici. Attraverso nuove tecniche di analisi della carta, dell'inchiostro e dei caratteri tipografici, esperti come Paul Needham, Richard Schwab e Blaise Agùera y Arcas hanno trasformato le nostre conoscenze riguardo alle modalità di produzione dei primi volumi a stampa. Sembra ormai chiaro, a uno sguardo retrospettivo, che le dispute degli anni Settanta sui limiti di demarcazione non hanno nuociuto alla disciplina e che i bibliografi hanno tutto da guadagnare a unire i propri sforzi con filologi e storici dell'editoria. I problemi di oggi vanno ben

IL SAPERE DEL LIBRO

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/dishakespeareeco0000mcke

Donald F. McKenzie

Di Shakespeare e Congreve

Con il saggio Le eresie della bibliografia

di Robert Darnton

EDIZIONI SYIWESTRE BONNARD

In base alle leggi sull’editoria ogni riproduzione di quest'opera, anche parziale e realizzata con mezzi fotomeccanici e/o su supporto informatico, è illegale e vietata.

Typography and Meaning: the Case of William Congreve (in Buch und Buchhandel in Europa im achtzebnten Jahrbundert, Hamburg, 1981);

When Congreve Made a Scene (in “Transactions of the Cambridge Bibliographical Society”, vi, 1979);

Six Readings in a Recent Edition of Congreve's Comedies (in “Notes and Queries”, 3,

1984); The Game of Quadrille (in “The Book Collector”, 2, 1985);

Shakespearian Puntuaction. A New Beginning (in “Review of English Studies”, 40, 1959); Compositor's B Role in ‘The Merchant of Venice’ 02 (1619) (in “Studies in Bibliography”, xIl, 1959); Indenting the Stick in the First Quarto of “King Lear” (in “Papers of the Bibliographical Society of America”,

Lxvm, 1973);

John Milton, Alexander Turnbull and Kathleen Coleridge (in “Turnbull Library Record”, 2, 1981).

© 2004 Christine Ferdinand Traduzione dall'inglese di Maria Letizia Fabbrini

The Heresies of Bibliography (in “The New York Review of Books”, 29 maggio 2003; apparso con il titolo Le licenze del tipografo in “La Rivista del Libri”, maggio 2004). © 2003 Robert Darnton Traduzione dall'inglese di Alessio Catania

Progetto grafico e copertina: Gregorietti Associati srl

Fotolito: Cromographic - Milano Stampa e legatura: Monotipia Cremonese - Cremona

© 2004 Edizioni Sylvestre Bonnard sas, largo Treves 5, 20121 Milano

[email protected] - http://vww.edizionibonnard.it ISBN: 88-86842-66-X

INDICE

Le eresie della bibliografia di Robert Darnton

7

Abbreviazioni

27

Tipografia e significato: il caso di William Congreve

23

Quando Congreve faceva una scena

Ve

Sei varianti di una edizione recente delle commedie

di Congreve

83

‘Il gioco del Quadriglio. Una allegoria’. Un’opera attribuita a Congreve The game of Quadrille. An allegory

Il gioco del Quadriglio. Una allegoria

DÌ 95

96

La punteggiatura shakesperiana. Un nuovo inizio

DA

Il ruolo del compositore B nel secondo in-quarto di Tbe Merchant of Venice (1619) Appendice

tl 129

‘Intaccando il compositoio’ nel primo in-quarto

di King Lear (1608)

151

John Milton, Alexander Turnbull e Kathleen Coleridge

139

LE ERESIE DELLA BIBLIOGRAFIA di Robert Darnton

Perché è importante la bibliografia? Se dobbiamo considerarla qualcosa di più di una lista di titoli, qual è la sua funzione? L’interrogativo ha acquistato nuova pregnanza da che Internet ha reso i testi più accessibili e allo stesso tempo meno affidabili. Gli studenti scaricano abitualmente materiale documentario dal computer senza preoccuparsi della sua provenienza, e molto spesso si ritrovano tra le mani autentica spazzatura. Vediamo di seguito un passaggio dalla prima versione a stampa del King Lear (edizione in-quarto del 1608, atto m, scena IV): «switbald

footed thrice the old a nelltbhu night more and her nine fold bid her, O light and her trotb plight and arint thee, witb arint thee. Un esempio di immondizia secentesca, probabilmente non meno incomprensibile ai lettori dell’epoca di quanto lo sia oggi a noi. Per trovargli un qualche significato, gli studiosi hanno fatto ricorso a folklore, filologia, paleografia, storia delle religioni e intuito personale. Per poi concludere che nel passo Shakespeare evocava una notte tempestosa in cui San Vittoldo scaccia una malefica diavolessa con tutta la sua genia. Questo tipo di critica testuale, accompagnata dal relativo apparato di varianti e di commento nelle note in calce e appendici, è ben noto a qualsiasi lettore di Shakespeare. Ma quale contributo può darvi la bibliografia? ! Il passo è riportato in F.P. Wilson, Shakespeare and the New Bibliography, a cura di H. Gardner, Oxford, Clarendon Press/Oxford University Press, 1970, p. 121. Nel primo in-folio, il passo si presenta come segue: «Swithold footed th-

rice the old,/ He met the Night-Mare, and her nine-fold;/ Bid her a-light/ And ber troth-plight,/ And aroynt thee Witch, aroynt thee. («Tre volte San Vittoldo percorse le campagne/ e quando vide l'incubo e le nove compagne,/ le fece sprofondare e il diavolo abiurare,/ e disse, brutte streghe, andatevene via!» — Re Lear, a cura di G. Melchiori, Milano, Mondadori, 1976). Per un commento al passo, in cui Edgar canta di un demone muliebre, si veda William Sakespeare: The Complete Works, a cura di S. Orgel e A.R. Braunmuller, Londra-New York, Penguin, 2002, p. 1533.

Introduzione

Si prenda un altro esempio di ciarpame shakespeariano, l'edizione inquarto del Merchant of Venice, anno di grazia 1619. Nella scena terza del 1 atto, Antonio chiede a Bassanio se Shylock sia al corrente di quanto denaro egli voglia farsi prestare: «are you resolu’d, How much he would haue?. Nell'edizione originale del Merchant of Venice, un inquarto del 1600, il passo risulta come segue: «is bee vet possest How much ve would +. Quale dei due preferire? Impossibile accertare le intenzioni dell’autore, vista l’assoluta assenza di autografi dei suoi testi teatrali — eccezion fatta per tre pagine, forse di suo pugno, del Sir Yhbomas More, tragedia mai portata sulla scena. Pure, è possibile identificare i passi meno attendibili nelle prime edizioni a stampa. Da un’analisi delle copie originali, i bibliografi hanno accertato che il testo tipografico dell’edizione in-quarto del 1619 era opera dello stesso compositore, un artigiano particolarmente impreciso denominato Com-

positore B, che allestì nello stesso anno nove altre edizioni in-quarto di drammi shakespeariani o pseudoshakespeariani, trascrivendo da edizioni precedenti. Ogni volta che una frase gli sembrava difettosa, la “migliorava”. Pertanto, i versi citati dall'edizione del 1619 sono da ascrivere alla sua mano, mentre il testo complessivo del dramma (con una media di un errore rilevante ogni ventitré righe) è uno Shakespeare decisamente impuro. Perdipiù, B ha composto anche circa la metà del testo del primo in-folio, principale fonte per ricostruire l’opera del drammaturgo di Stratford-on-Avon. Per comprendere Shakespeare, pertanto, non basta essere critici letterari; bisogna anche essere bibliografi, o almeno intendersene abbastanza di bibliografia da sapere in che modo si sfornavano i libri tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.?

Questo tipo di bibliografia — cui si dà nome di “descrittiva” o “analitica” per distinguerla da quella “enumerativa”, ovvero l'elenco di titoli — assurse a strumento di lavoro di primo piano nelle discipline classiche durante la prima metà del xx secolo. Ma di cosa si trattava esattamente, e quali le sue eventuali implicazioni al di là dell’allestimento di edizioni critiche? Sir Walter Greg, massima autorità a riguardo, definiva la bibliografia «a scienza della trasmissione materiale dei documenti letterari».$ Formulazione contestata da alcuni, che trovavano il termine 2 Su questo problema specifico e sulla bibliografia in generale, si veda P. Gaskell,

A New Introduction to Bibliography, Oxford, Oxford University Press,

1972, pp. 336-60.

è La definizione di Greg, che probabilmente non voleva essere un pronunciamento ex cathedra sulla scienza, apparve in un suo articolo del 1914, Wbat Is Bibliography?, “Transactions of the Bibliographical Society”, vol. 12. Per un'a-

Introduzione

“scienza” troppo incline al positivismo e l’attributo “letterario” troppo limitativo, potendo l’analisi bibliografica applicarsi in linea di principio a qualunque tipo di testo e a qualsiasi forma di comunicazione. Ma l'enfasi sull’aspetto materiale risultò unanimemente gradita, poiché tutti i biografi studiavano i libri in quanto oggetti fisici. Apprendendo le modalità con cui i testi si imprimevano sulla carta sotto forma di segni tipografici trasmettendosi ai lettori sotto forma di pagine rilegate in volumi, essi nutrivano la speranza di comprendere un aspetto fondamentale della letteratura stessa. Greg e R.B. McKerrow cominciarono a elaborare i concetti e le tecniche base di questa “nuova bibliografia”, come fu battezzata in seguito, quando erano studenti al Trinity College di Cambridge nell’ultimo decennio del xix secolo. Con la pubblicazione di An Introduction to Bibliography for Literary Students di McKerrow nel 1928 e dei Principles of Bibliographical Description di Fredson Bowers nel 1949, la bibliografia si è costituita in disciplina autonoma con tanto di ortodosso apparato normativo. Nel 1950, in molti dipartimenti inglesi assurgeva a requisito indispensabile per il dottorato. Insieme alla filologia e ad altre capacità professionali, i dottorandi imparavano a riconoscere i formati, a confrontare grafie, a individuare le pagine inserite in sostituzione di altre contenenti errori o passi potenzialmente ingiuriosi, a distinguere i vari tipi di carattere tipografico, a rintracciare le filigrane, ad analizzare la grafica e a identificare le rilegature. Di un tale contesto accademico si giovarono in particolare gli studi shakespeariani, tenuto conto che le prime edizioni dei drammi, pubblicate in una fase poco gloriosa della storia della stampa, sono piene di errori e non possono essere corrette sulla scorta di un manoscritto originale. Per quanto ci è dato sapere, Shakespeare non ebbe parte alcuna nella loro pubblicazione. Per lui, a quanto pare, contava solo la rappresentazione scenica, e probabilmente modificava i testi da uno spettacolo all’altro o li riscriveva in vista di nuovi allestimenti. Possiamo immaginarci i suoi scartafacci e i suoi taccuini per il sug-

geritore, ma per risalire ai testi dobbiamo destreggiarci tra le difettose edizioni messe insieme alla carlona nelle tipografie del suo tempo. Amleto apparve per la prima volta in una rozza edizione in-quarto del

1603, quindi in un’altra del 1604-1605, lunga il doppio, quindi nell’infolio del 1623, che presentava ottantacinque versi in più e differenze notevoli rispetto a entrambe le edizioni precedenti. Tali, poi, sono gli nalisi, vedi G.Th.

Tanselle,

graphy”, vol. 27 (1974), p. 62.

Bibliography

and Science,

“Studies

in Biblio-

Introduzione

enigmi proposti dal Re Lear che i suoi curatori più recenti ne hanno dato alle stampe due distinte versioni,' le quali, benché radicalmente diverse, obbediscono entrambe ai più rigorosi criteri bibliografici, ciascuna potendo rappresentare una versione che l’autore considerò, in fasi diverse, come quella definitiva. Così, oltre a una serie di edizioni

più antiche e mescidate, oggi abbiamo due Re Lear: la bibliografia ci ha indubbiamente arricchito. Enigmi testuali di questo tipo portarono generazioni di studiosi a raggiungere vette di sempre più raffinato virtuosismo. Attraverso la paziente disamina delle antiche edizioni, essi rintracciarono una vasta

gamma di indizi tipografici: incoerenze ortografiche, irregolarità delle spaziature, scheggiatura dei caratteri, e qualunque altra cosa potesse aiutarli a ricostruire i processi produttivi delle tipografie elisabettiane e ad avvicinarsi così al perduto manoscritto shakespeariano. Molti appresero personalmente la composizione tipografica e diventarono stampatori dilettanti. Nella loro immaginazione, i dottorandi divennero colleghi degli artigiani che per primi rilegarono in volume le parole di Shakespeare. Un’idea inebriante, che ebbe vita breve. Benché non scomparsa, la bibliografia è stata messa da parte dalle più recenti tendenze dell’erudizione letteraria. Dal New Criticism degli anni Quaranta al decostruzionismo degli anni Sessanta, al nuovo storici-

smo degli anni Ottanta, lo studio dei testi è andato progressivamente staccandosi dal loro inveramento libraceo. La bibliografia è andata via via profilandosi come una disciplina arcana forse utile per allestire un’edizione attendibile dei drammi di Shakespeare, ma di ben poco peso per comprendere la letteratura moderna. Sebbene

non mancassero

le opere moderne,

da Pamela all’ Ulys-

ses, che ponevano notevoli problemi bibliografici, la maggior parte di esse abbisognava di un quanto mai scarno apparato di varianti testuali. Nel 1968, Edmund Wilson sollevò uno scandalo denunciando per aberrazione bibliografica le iniziative editoriali della Modern Language Association, citando il progetto di un'edizione del Tom Sawyera cura di un’équipe di diciotto persone che leggeva il testo a rovescio. Al placarsi della polemica, la bibliografia aveva perso buona parte del suo fascino: scomparve dai programmi di dottorato e perfino da tante scuole di biblioteconomia. Per una generazione che aveva assistito al tracollo del corpus ufficiale e all'ascesa di In1 The Complete Oxford Shakespeare, a cura di S. Wells e G. Taylor, Oxford, Oxford University Press, 1986; e William Shakespeare: The Complete Works, a cura di Orgel e Braunmuller, cit.

10

Introduzione

ternet, l’analisi raffinata dei libri antichi presentava ormai ben poche attrattive. Nel pieno di questa messa in discussione, accadde l’inevitabile: l’eresia. Da che mondo è mondo, le ortodossie generano eretici, ma il Martin Lutero della bibliografia, Donald F. McKenzie, rappresentava una minaccia particolarmente insidiosa per la vecchia guardia, poiché era in grado di battere i suoi migliori rappresentanti al loro stesso gioco. Assimilati i princìpi di Bowers e divenuto anche un esperto stampatore, McKenzie lasciò la natia Nuova Zelanda per l'Inghilterra. A Cambridge scrisse il dottorato sotto gli auspici di un bibliografo di vaglia come Philip Gaskell. Il libro che ne risultò, 7be Cambridge University Press, 1696-1712 (1966), fu salutato come una delle opere più rigorose mai scritte nella tradizione di Greg e di McKerrow. Ma con un aspetto inquietante. Perché l’autore non solo forniva un’analisi bibliografica di ogni libro edito dalla CUP in quei sedici anni, ma chiamava in causa ogni volta le fonti manoscritte degli archivi di stampa, le quali rivelavano che le cose non erano andate come avrebbero dovuto stando all’opinione tradizionale. I compositori non consegnavano le “forme” (pagine di caratteri fissati entro una cornice di ferro, pronte per andare in macchina) agli stampatori secondo un ordine stabilito. Al contrario, il compositore faceva recapitare la forma completa alla prima macchina libera. Così, in momenti diversi, tutti gli stampatori della bottega producevano copie di uno stesso libro. Inoltre, i compositori passavano frequentemente da un lavoro all’altro. Magari preparavano una forma per un trattato come i Principia di

Newton, pubblicato dalla CUP nel 1713, quindi si occupavano di una fattura di carico o di una ricevuta, per poi passare a un libro di prediche. Alcuni lavori richiedevano più tempo di altri, alcuni erano più urgenti, per cui il capofficina cercava di distribuirli nella maniera più efficace, e diversi libri si trovavano in produzione allo stesso tempo, ciascuno secondo il proprio ritmo intermittente. La regolarità della produzione complessiva della bottega compensava le irregolarità di mansioni del singolo artigiano, maniera di organizzare il lavoro che McKenzie denominò «produzione simultanea». L'idea poteva sembrare alquanto innocente, ma svelandone tutte le implicazioni, lo studioso parve minare di fatto le fondamenta dell’ortodossia bibliografica. In precedenza i bibliografi ipotizzavano che ogni libro passasse per una catena produttiva secondo un criterio coerente e lineare: un certo compositore passava le forme agli addetti a una stampatrice specifica, i quali sfornavano l’edizione, lasciando spesso tracce della loro attività nel diverso tipo di intestazione, nelle indicazioni a piè di pagina, o nei

Li

Introduzione

dati di stampa (solitamente cifre apposte in basso a identificare il lavoro dei singoli tipografi). Pertanto, sarebbe stato possibile costruire una serie di deduzioni muovendo a ritroso attraverso il processo produttivo dal volume alla macchina al compositore e, almeno in certa misura, al manoscritto originale, anche se mancante,

come nel caso di Shake-

speare. Soprattutto di Shakespeare. Forza motrice dell'intera disciplina era precisamente la ricerca di testi attendibili delle sue opere. I massimi bibliografi shakespeariani, in particolare Greg e Charlton Hinman, avevano tenuto conto di alcune irregolarità. Il sommo studio di un libro di epoca shakespeariana, 7be Printing and Proof-Reading of the First Folio of Shakespeare (1963) di Hinman, illustrava la genesi del primo in-folio forma per forma, simultaneamente alla stampatura di altri libri nella stessa bottega. A un certo punto, Hinman impiegava addirittura il sintagma di “produzione simultanea”. Ma la maggior parte dei bibliografi prese a unità di analisi il singolo libro più che la produzione dell’intera officina, e questa linea di ragionamento, non immotivata entro il proprio ambito, li condusse a formulare ipotesi discutibili su coloro che stamparono i primi volumi shakespeariani. Al posto di operai in carne e ossa — artigiani preindustriali che lavoravano a man-

date intermittenti e staccavano per fare due chiacchiere con i pari di Falstaff e di Mistress Quickly — immaginarono fantasmatiche astrazioni come il compositore B circondato da A, C e altri, che avrebbero sfornato edizioni in-quarto e in-folio a ritmi regolari secondo i dettami della scienza bibliografica. Non che questi esseri immaginari lavorassero come robot. Al contrario, si è potuto dimostrare che uno aveva un’ortografia particolarmente imprecisa, che un altro confondeva spesso gli omonimi, un terzo lavorava con una serie di caratteri inadeguata, e che tutti e tre disseminaro-

no le pagine di tracce individuali secondo configurazioni che rivelano una mano diversa da quella di Shakespeare. Identificando i passi storpiati — nel caso del Mercante di Venezia del Compositore B, quaranta fra parole e sintagmi sostituiti a quelli di Shakespeare — i bibliografi speravano di riuscire a isolare gli elementi alieni nelle massime opere in lingua inglese. Si trattava di un processo per eliminazione, le cui scoperte erano di carattere sostanzialmente negativo, ma che ha avvicinato il lettore moderno a ciò che Shakespeare aveva scritto veramente. Se tuttavia le botteghe di stampa lavoravano secondo il principio della produzione simultanea, sarebbe arduo determinare precisi schemi produttivi: risulterebbe impossibile abbinare con certezza assoluta passi specifici a specifici compositori, e la catena di illazioni rischierebbe di

dz

Introduzione

rompersi nei punti più delicati. A,B,C e compagnia potrebbero essere i parti di surriscaldate immaginazioni bibliografiche, meri «stampatori della mente. Questo il titolo dato da McKenzie a un saggio del 1969, che scosse come un terremoto le sale dei libri rari. Nel decennio seguente gli studiosi discussero sui princìpi della bibliografia con tutta la passione che gli accademici sanno profondere in accademiche questioni — tra la totale indifferenza del resto del mondo, che in quegli anni aveva ben altro a cui pensare. Ma per i bibliografi la posta in palio era enorme. Era come se McKenzie avesse portato alla luce una faglia sismica che attraversava per intero la loro disciplina. I bibliografi ortodossi difendevano la loro posizione con due argomenti: primo, che una piccola azienda specializzata e di provincia quale era all’inizio del xvm secolo la Cambridge University Press non poteva esemplificare il tipo di lavoro che veniva svolto nelle grandi tipografie di Londra quasi cento anni prima; secondo, che i dati d'archivio non

invalidavano il principio base dell'impiego dell’analisi del libro come oggetto fisico onde giungere a conclusioni relative al suo processo di stampa — in particolare nel caso delle prime edizioni shakespeariane, considerato che su di esse si era prevalentemente incentrata la polemica. Se non era in grado di fornire un metodo attendibile per ricostruire i testi di Shakespeare, allora a che cosa serviva la bibliografia? Al primo argomento McKenzie rispose attingendo ad alcuni documenti di un importante stampatore londinese, William Bowyer, scoperti nel 1963. Essi confermavano il principio della produzione simultanea e attestavano anzi l’esistenza di sistemi produttivi ancor più complessi e irregolari, che prevedevano in molti casi la condivisione di un medesimo incarico tra varie tipografie e diversi artigiani. Qualche anno più tardi, Jacques Rychner dimostrava la validità dell’analisi di McKenzie anche per la produzione libraria della bottega di stampa della Société Typographique de Neuchîtel in Svizzera. È pur vero che i documenti di Cambridge, Londra e Neuchtel risalgono tutti al xvm secolo; ma tra il 1500 (e forse già ai tempi di Gutenberg) e il 1800 l’arte della stampa non conobbe rivolgimenti tecnologici di rilievo. Tutte e tre le fonti manoscritte — e ulteriore materiale documentario appartenente a due altri stampatori londinesi settecenteschi, William Strahan e Charles Ackers — dimostravano che McKenzie aveva ragione: nelle stamperie di epoca protomoderna la produzione libraria non seguiva affatto lo schema regolare attribuitole dalla bibliografia ortodossa. Ma del materiale manoscritto settecentesco poteva confutare tesi basate sull'analisi empirica di edizioni shakespeariane in-quarto e in-

lo

Introduzione

folio? McKenzie non si spinse mai a tanto. Di fatto, egli si limitò a illustrare nel modo più dettagliato come il Compositore B avesse raffazzonato Il mercante di Venezia. Non c’era nulla di male, in linea di principio, ad ascrivere determinati passi a compositori A o B 0 co-

munque li si volesse chiamare. Sappiamo addirittura qualcosina sulle persone che lavoravano nella bottega di stampa di William Jaggard dove tra il 1622 e il 1623 vide la luce il primo in-folio — compreso il fatto che tra il 1610 e il 1617 un certo John Shakespeare (a quanto pare privo di legami di parentela con William) vi lavorò da apprendista. Attraverso la minuziosa disamina del volume, quaderno per quaderno, Hinman pensò di aver scoperto un modo per identificare i compositori alla base del testo e per «avvicinarsi un po’ di più alle autentiche parole di Shakespeare».5 Quarant'anni dopo la pubblicazione di The Printing and ProofReading of the First Folio of Shakespeare, pare proprio che anche lui avesse ragione. Lo studio più recente dell’in-folio, a opera di Peter Blayney, di scuola mckenziana, ha confermato praticamente tutte le conclusioni di Hinman. Blayney ha identificato qualche altro compositore e modificato il resoconto di Hinman sulla lettura delle bozze. Secondo la nuova indagine, gli attori della troupe di Shakespeare avevano corretto le bozze prima che i compositori aggiungessero le ultimissime correzioni a stampa in corso. La prima tiratura comprendeva tre diversi volumi: il primo presentava trentacinque drammi; il secondo trentasei, compreso il Troilo e Cressida ma senza il prologo; il terzo trentasei, con il Troilo e relativo prologo. Gli stampatori lasciarono nel testo diversi indizi di queste irregolarità. In qualche caso cancellarono una pagina in esubero del Romeo e Giulietta; in altri, lasciarono dov'erano gli interventi a mano dall’ultimo correttore. Tra una fase e l’altra, il testo mutava continuamente

in un’incessante de-

gradazione morfologica.

La lezione impartita dal «volume più importante nella storia della letteratura inglese, per dirla con Helen Gardner, si riallacciava a una più vasta questione sollevata dalle presunte eresie di McKenzie. Se la bi° Ch. Hinman,

7he Printing and Proof-Reading of the First Folio of Shake-

speare, Oxford, Clarendon Press/Oxford University Press, 1963, vol. 1, p. VII.

° Si veda la sua prefazione a Wilson, Shakespeare and the New Bibliography, i Aly yjok os

14

Introduzione

bliografia poteva risolvere alcune difficoltà di allestimento testuale specifiche di Shakespeare, in che modo poteva contribuire alla conoscenza generale della letteratura? Lo stesso McKenzie affrontò questo problema in un saggio del 1977, 7ypography and Meaning: The Case of William Congreve,* la cui influenza sarebbe risultata quasi analoga a quella di Printers of the Mind. Congreve ha rappresentato un caso di studio particolarmente interessante, trovandosi a cavallo di due ere tipografiche. Le prime edizioni dei suoi drammi, volumi in-quarto superficialmente stampati nell’ultimo decennio del xvi secolo, erano quasi altrettanto rozzi di quelli di Shakespeare, mentre l’edizione in-ottavo delle sue opere, tre tomi usciti nel 1710, trasudava la magnificenza di un classico. A quale delle due accordare la preferenza? McKenzie affrontò la questione in vista dell'allestimento di un’edizione critica. Per prima cosa, respinse la famosa distinzione di Greg tra “sostanza”, ovvero il testo base dell’opera, e “accidenti”, ingredienti tipografici quali decorazioni o spaziature aggiunte in sede di stampa onde separare le diverse scene di un dramma. Per Greg, gli accidenti rientravano nel mero ambito della presentazione, senza influire minimamente sul significato del testo. Per McKenzie, invece, avevano un valore decisivo

nel mediare la differenza tra due diversi tipi di fruizione: assistere a una rappresentazione scenica e leggere un testo scritto. Quali che fossero

gli effetti che il drammaturgo si era proposto durante la stesura, il dramma assumeva nuovo significato nella trasformazione cartacea, poiché a quel punto l’azione drammatica poteva solo essere immaginata dal lettore sulla base degli indizi tipografici. Congreve, che nel 1710 aveva smesso di scrivere per la scena per concentrarsi sulla pubblicazioni dei suoi drammi, partecipò consapevolmente a questo passaggio. L’edizione in-ottavo delle sue opere stabilì un nuovo formato di libro destinato ad avere grande fortuna nel Settecento. A differenza delle ingombranti edizioni in-folio e degli abborracciati in-quarto di epoca precedente, il nuovo tipo di volume aveva dimensioni abbastanza contenute da poter essere tenuto comodamente in mano e sufficientemente elegante da venire incontro ai gusti di una nuova società dei consumi. Se anche purgò qualche passo particolarmente osceno, il drammaturgo conservò in massima parte i testi originali. A dar loro nuovo significato fu l’originale forma del libro, progetto elaborato da Congreve assieme al * Traduzione italiana: Tipografia e significato: il caso di William Congreve, in questo stesso volume alle pagine 23-73.

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suo editore nonché grande amico, Jacob Tonson, e all’abile tipografo di questi, John Watts. Impiegando fogli più grandi (ma pagine più piccole poiché, prima di essere assemblato in volume, un foglio in-ottavo veniva piegato tre volte a differenza delle due di un in-quarto) e una spaziatura più equilibrata, conferirono al libro un’elegante simmetria. Al posto delle risicate indicazioni delle vecchie edizioni in-quarto — solitamente scarni “enter” o “exit” — per dare risalto alle diverse scene fecero ricorso a numerazioni, ornamenti tipografici ed elenchi di personaggi. Il lettore, pertanto, sapeva ogni volta chi si trovava sulla scena e poteva avere un'immagine chiara della rispondenza tra il tutto e le sue parti. Scene, drammi e corpus erano disposti in limpida struttura, secondo una trasfusione editoriale dell’architettura neoclassica. Congreve prendeva posto così accanto a Shakespeare — apparso in analoga veste tipografica l’anno prima — in quello che si profilava come un primo canone di classici. A questo punto, il discorso di McKenzie entrava in un campo coltivato da un settore di ricerca contiguo, la storia dell'editoria. A differenza dei bibliografi, gli storici dei libri studiavano tutti gli aspetti relativi alla produzione e alla diffusione della parola stampata, compreso il rapporto con i mutamenti politici e sociali. Per loro, il 1710 rappresentava un punto di svolta nella storia del copyright. Quell'anno il Parlamento approvava il primo decreto sul diritto d’autore, così intitolato: “Legge per l’incoraggiamento dell'istruzione attraverso l’attribuzione di possesso delle copie dei volumi a stampa agli autori, o acquirenti, di tali copie nei tempi sottocitati”. Come si evince dal titolo, la legge conferiva nuovo risalto alla figura autoriale. Pur non facendone esplicita menzione nel testo, essa ne riconosceva i diritti di proprietà sui prodotti della sua immaginazione. Alexander Pope dimostrò che un autore era in grado di sostentarsi attraverso la vendita di quei diritti. Alla metà del secolo, Samuel Johnson esemplificava la figura dello scrittore professionista, in grado di vivere del proprio lavoro intellettuale e non più di mecenatismo, e che traeva vanto dal suo ruolo: venire incontro alla domanda del mercato letterario. La stessa letteratura andava profilandosi quale sistema semiautonomo organizzato attorno al libro a stampa, in contrasto col mondo letterario cinque-seicentesco.

Sotto i Tudor e gli Stuart, la comunicazione nella sfera pubblica avveniva principalmente sotto forma di esibizione — sulla scena, dai pulpiti, a corte e nelle strade. Nell’Inghilterra georgiana si assistesal predominio della parola stampata, per quanto il mercato dei volumi mano-

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scritti restasse florido (in caso di tiratura inferiore alle cento copie, poteva essere più economico affidare un libro agli amanuensi che agli stampatori) e le notizie circolassero ancora per passaparola. La pubblicazione di Congreve rientrava pertanto in un processo generale, la trasformazione delle lettere in letteratura, e McKenzie proclamava la necessità di un’interpretazione del fenomeno da una prospettiva più ampia, da lui definita «sociologia dei testi». Nel trascorrere dalla scienza alla sociologia, l'approccio di McKenzie non avrebbe potuto essere più distante dalla disciplina di Greg e McKerrow; ma consentì alla bibliografia anglo-americana di congiungersi con la francese bistoire du livre, la variante disciplinare a largo spettro elaborata da Lucien Febvre e Henri-Jean Martin. Ne L’'Apparition du livre (1958),* essi illustravano l’impatto dell’invenzione di Gutenberg su fenomeni sociali ed economici a lungo termine come l’organizzazione delle sale di scrittura, il prezzo degli stracci e della cartapecora e lo sviluppo delle vie commerciali. Sottolineavano la necessità dei dati quantitativi per misurare gli elementi di continuità in un quadro di cambiamento. E da bravi adepti della scuola storica delle Annales, individuavano stabili configurazioni strutturali che li portarono a mettere in discussione giudizi comunemente accettati, tra cui l’idea che Gutenberg avesse provocato

un'immediata rivoluzione nell’industria editoriale. McKenzie provò a fare qualcosa di simile passando dall’analisi minuziosa di singoli libri allo studio dell’intera situazione del commercio librario a Londra, rastrellando a tappeto tutto il materiale superstite di

tre anni: 1644, 1668 e 1689. Una ricerca di questa portata richiese una prodigiosa quantità di lavoro, poiché McKenzie abbinava il lavoro di quantificazione dalla sua fonte principale, il catalogo D.G. Wing dei libri stampati tra il 1641 e il 1700, alla disamina di ogni copia che riusciva a localizzare nelle principali biblioteche. Contando il numero di fogli di ciascuna copia, era in grado di compiere una stima più esatta della tiratura totale che non attraverso un semplice conteggio dei titoli, e poteva guardare all'intero paesaggio letterario dal punto di vista della produttività e dell'aspetto economico. Per il 1668, Wing e alcune altre fonti annoveravano un totale di 491 titoli, 458 dei quali materialmente visionati da McKenzie. Pur non potendo eseguire una completa descrizione analitica di ciascuno di essi, il suo occhio esperto era in grado di scorgervi tendenze e anomalie di ogni ti* L. Febvre e H.-J. Martin, La nascita del libro, a cura di A. Petrucci, RomaBari, Laterza, 20027.

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Introduzione

po. Il nome degli stampatori appariva sì e no nella metà dei frontespizi. Le ristampe equivalevano a circa un terzo della tiratura totale. E solo cinquantadue libri recavano un qualche tipo di licenza o di permesso ufficiale di pubblicazione, malgrado i dettami stabiliti dal licensing act del 1662. I librai si preoccupavano soprattutto della salvaguardia del copyright, al che potevano assolvere attraverso informali “associazioni” tra loro, come accordi comuni per la distribuzione e per la vendita. Era un po’ come se librai e stampatori badassero ai propri affari senza far troppo caso alla politica e senza nutrire una particolare sete di innovazione. Anche in epoca rivoluzionaria il settore continuò a essere dominato dai più tradizionali interessi commerciali. Nel passare al vaglio praticamente ogni volume pubblicato nel 1644, al culmine della guerra civile, McKenzie riscontrò un sorprendente livello di continuità nella produzione complessiva. Respinse la tesi, avanzata da Christopher Hill e Keith Thomas, di un’esplosione senza precedenti di testi politici all’inizio degli anni ‘40 quale conseguenza della nuova libertà di stampa. Né l'abolizione del controllo statale nel 1641, né il suo ripristino nel 1643 ebbero particolari effetti sul commercio librario, sosteneva McKenzie,

poiché i librai continuavano a perseguire il profitto nei modi consueti senza occuparsi dei rivolgimenti giuridici. Perfino l Areopagitica di Milton, solitamente celebrato come un manifesto a favore della libertà di stampa, non era una protesta contro il licensing act del 1643 ma piuttosto una risposta alle vessazioni di cui l’autore era stato fatto oggetto per i suoi opuscoli sul divorzio. Anche quando la Rivoluzione del 1688 provocò un nuovo cambiamento nelle regole del gioco e, nel 1695, venne abolita la censura ante-pubblicazione, più che il trionfo della libertà McKenzie continuava a riscontrare il predominio degli interessi economici all'insegna della continuità. La Stationer's Company perse il monopolio del commercio librario, ma i suoi membri continuarono a dominare il settore attraver-

so associazioni denominate congers. Ai mutamenti di clima politico restarono sordi perfino gli autori quando si trattò di assumersi il rischio di presentarsi apertamente al pubblico mettendo il proprio-nome sul frontespizio. Nel 1644, solo il 40% dei titoli recava anche il nome dell’autore; percentuale di soli tre punti superiore nel 1668. In Inghilterra come in Francia, la quantificazione portava a un atteggiamento revisionista: le tendenze socioeconomiche a lungo termine sembravano più importanti di momentanee trasformazioni politiche.

McKenzie è stato l’unico bibliografo in grado di impugnare opinioni consolidate operando su due distinti registri bibliografici, quello enumerati-

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Introduzione

vo e quello analitico. Ma non ebbe l’ultima parola. Né del resto avrebbe voluto. Due libri usciti dopo la sua morte, nel marzo del 1999, danno la misura dei suoi conseguimenti e delle strade che il suo lavoro ha aperto a beneficio di altri. Il primo, Making Meaning: “Printers of the Mind” and Other Essays, a cura di due suoi ex discepoli, Peter D. McDonald e Michael F. Suarez, $.J., raccoglie in un unico volume i suoi saggi principali, sapientemente disposti per argomento e presentati in modo da sottolinearne l'originalità. Essi ci fanno vedere la mente di McKenzie al lavoro, impegnata a smontare idées fixes e a ricavare idee nuove dal materiale più indocile, sollevando altresì la questione dell'importanza della bibliografia al di là di quella critica testuale che ne fu la culla.* Il secondo volume, Books and Bibliography: Essays in Commemoration of Don McKenzie illustra come tale questione sia stata affrontata dall'ultima generazione di bibliografi e storici dell'editoria, impegnati a dar la caccia alle lepri liberate dal maestro nel corso degli ultimi trent'anni. Li vediamo portare lo studio della produzione libraria fin dentro le tipografie ottocentesche, analizzare l'interazione reciproca tra mezzi di comunicazione orale e a stampa, e investigare sulla trasmissione dei “testi” in senso lato — in musica, fotografia e architettura. McKenzie ha insegnato che la bibliografia può travalicare l'ambito dei libri. Seguendo le sue orme, i suoi successori hanno dimostrato che es-

sa costituisce una maniera di comprendere la riproduzione di forme culturali di ogni tipo, purché passibili di descrizione rigorosa. Nel frattempo, gli storici dell'editoria hanno fatto nuova luce sui misteri che avvolgono Gutenberg e le origini della stampa. Nel 2000, in occasione del seicentesimo anniversario della sua nascita — ipoteticamente fissata al 1400: del padre del libro sappiamo ancora meno del poco che si sa di Shakespeare — un profluvio di pubblicazioni ha attestato la vitalità degli studi bibliografici. Attraverso nuove tecniche di analisi della carta, dell’inchiostro e dei caratteri tipografici, esperti come Paul Needham, Richard Schwab e Blaise Agiera y Arcas hanno trasformato le nostre conoscenze riguardo alle modalità di produzione dei primi volumi a stampa. Nel 1991, la Folger Library ha allestito una mostra dei suoi tesori, illustrati da Peter Blayney in un libriccino, 7be First

Folio of Shakespeare, che riepiloga lo stato attuale degli studi shakespeariani in un linguaggio accessibile anche al profano, dimostrando che la bibliografia non ha esaurito la sua carica vitale ed è in grado di parlare anche al grande pubblico. * Molti fra questi saggi sono stati tradotti in italiano dalle Edizioni Sylvestre Bonnard nei volumi Bibliografia e sociologia dei testi, Il passato è il prologo, Stampatori della mente nonché in questo stesso Di Shakespeare e Congreve.

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Introduzione

Sembra ormai chiaro, a uno sguardo retrospettivo, che le dispute degli anni Settanta sui limiti di demarcazione non hanno nuociuto alla disciplina e che i bibliografi hanno tutto da guadagnare a unire i propri sforzi con filologi e storici dell’editoria. I problemi di oggi vanno ben oltre i testi di Shakespeare. Si presentano nei più svariati sistemi di comunicazione, compreso Internet, dove i testi digitalizzati si trovano avulsi dai loro ormeggi di colla e inchiostro e i messaggi e-mail lasciano tracce quanto mai labili e di pronta evaporazione. Erano questi i problemi che affascinavano la mente di Donald McKenzie quando è venuto a mancare, prematuramente, nel 1999. Lungi dal minare la bibliografia, le sue eresie le hanno dato nuova vita.

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DISFITAKESPEARE E CONGREVE

ABBREVIAZIONI

EI

Prima edizione in-folio delle opere di Shakespeare. Pubblicata nel 1623 e citata anche come First Folio,

costituisce la base del canone shakespeariano. OMOZZOZICEE

Edizioni in-quarto dei singoli drammi di Shakespeare, numerati secondo l’ordine di pubblicazione. La terminologia è stata estesa ai testi teatrali del periodo della stampa manuale che spesso venivano pubblicati in edizioni in-quarto subito dopo la prima rappresentazione.

Qg

Gruppi di edizioni in-quarto. Ad esempio, Qq1-3 indica le prime tre edizioni in-quarto dell’opera.

ARBRGICCO.

Così vengono contrassegnati i compositori che lavorarono alla prima edizione in-folio e in parte anche ad alcune edizioni in-quarto delle opere di Shakespeare.

The Winter's Tale Troilus and Cressida Henry IV

Twelfth Night The Old Bachelor The Double Dealer Love for love The Way of the World

The Mourning Bride

dd

TIPOGRAFIA E SIGNIFICATO: IL CASO DI WILLIAM CONGREVE*

L'ultima commedia di Congreve, 7be Way of the World, venne rappresentata ai primi di marzo dell’anno 1700 e, sebbene Dryden ritenesse che aveva ottenuto un «successo moderato», Congreve rimase abbastanza soddisfatto. In seguito scrisse: «Che avesse successo sulle scene andava quasi oltre le mie Aspettative, poiché poche parti erano scritte per quel Gusto generale che oggi sembra predominare nel Palato del nostro Pubblico». La data, 1700, si confà ai nostri scopi; i commenti di Congreve sui nuovi gusti dei frequentatori del teatro ci ricordano opportunamente che con l'avvento del secolo nuovo il mondo stava cambiando. Congreve, il drammaturgo in attività, appartiene all’ultima decade del xvi secolo; Congreve, l’autore di libri, amico intimo del grande editore-libraio Jacob Tonson! e raffinato curatore dei propri Works, appartiene senza ombra di dubbio al xvi secolo. Il passaggio da un secolo all’altro, così come si riflette nelle differenze fra le edizioni in-quarto, nelle quali apparvero in prima istanza le commedie di Congreve, e l'edizione del 1710 in-ottavo e in tre volumi dei Works, è oltremodo istruttivo per la storia del libro. Una spiegazione della forma dei Works del 1710 ha radici profonde nel xvi secolo. In altra sede ho tentato di rintracciarne alcune, ma devo

dedicare qualche minuto a richiamare nelle linee generali parte della tesi più ampia che lì sostenevo.? In breve, le commedie furono stampate * D.F. McKenzie, 7ypography and Meaning: the Case of William Congrerve, in Buch und Buchbandel in Europa im achtzebnten Jahrbunderi, a cura di Giles Barber

e Bernhard Fabian, Hamburg, Dr. Ernst Hauswedell und Co., 1981,

pp. 81-125.

! McKenzie usa, per Jacob Tonson, il termine ‘bookseller’ che letteralmente significa libraio. In realtà, come appare chiaro anche dal testo, Tonson (1656?1736) era un editore-libraio che pubblicò, oltre ai Works di Congreve, molti autori inglesi fra i quali Dryden, Milton, Addison, Steele (N.d.T.). 2 D.F. McKenzie,

The London Book Trade in the Later Seventeenth Century,

cioè le Sandars Lectures del 1975-76. Il presente saggio amplia la tesi della terza conferenza.

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Di Shakespeare e Congreve

e ristampate in edizioni in-quarto in forma probabilmente abbastanza fedele al manoscritto autografo di Congreve. In queste edizioni le suddivisioni degli atti e delle scene e le didascalie seguono le convenzioni editoriali e tipografiche del periodo elisabettiano. Nell'edizione del 1710 in tre volumi in-ottavo dei Works, Congreve rivide i testi delle edizioni in-quarto, eliminò le espressioni scurrili e adottò la divisione in scene e il raggruppamento dei personaggi di stile neoclassico. Controllò di persona le fasi di stampa di questa edizione lavorando il più possibile in stretta collaborazione con il suo editore-libraio e amico Jacob Tonson e con lo stampatore di questi, John Watts. L’autorevolezza della prefazione di Congreve, che raccomanda questa edizione come «l’Impressione meno difettosa che sia stata Stampata fino ad oggi», e che sottolinea la cura impiegata «sia nel Controllare la Stampa che nel Rivedere e Correggere molti Passi degli Scritti», merita il nostro rispetto. Forse ancora più rilevante è l'aver concepito i Works come atto di autostima: È difficile negare che sia al tempo stesso un Rispetto dovuto al Pubblico e un Diritto che ogni uomo deve riconoscere a se stesso, sforzarsi di far comparire ciò che ha scritto, per quanto gli è possibile, con un minimo di Errori. Questa considerazione, da sola, è stata sufficiente a motivare questa Edizione.

L’integrità, in tutti i particolari, dell'edizione completa dei Works di Congreve è ciò su cui vogliamo innanzitutto richiamare l’attenzione. La

prefazione dell'autore, le varianti stesse dei testi, le suddivisioni in atti e scene secondo lo stile neoclassico, l’uso di testate e finalini decorativi, i capilettera all’inizio di ogni atto, gli ornamenti tipografici che separano le scene, le dimensioni e gli stili dei caratteri tipografici, le maiuscole, la punteggiatura, i corsivi, la mise-en-page, la carta, le minori dimensioni e il minor peso del formato in-ottavo in tre volumi e la distribuzione del contenuto all’interno dei tre volumi e in ciascuno di essi: lo sfruttamento perfettamente consapevole di tutte queste risorse rende del tutto impossibile, a mio avviso, separare la sostanza.del testo dalla forma materiale della sua presentazione. Il libro in sé stesso è un mezzo di espressione. Le pagine offrono all'occhio un aggregato di significati sia linguistici che tipografici da trasferire all'orecchio: ma dobbiamo anche imparare a riconoscere che la forma del libro, quando lo teniamo tra le mani, è una voce che ci giunge dal passato. La piena esplicazione di questi significati, in tutta la loro ricchezza contestuale, è la funzione testuale primaria della bibliografia storica. Un'edizione delle opere di Congreve che, per esempio, non prendesse in conside-

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Tipografia e significato

razione il modo in cui i più sottili dettagli delle intenzioni dell'autore furono veicolati dall'attività libraria ad un pubblico di lettori precostituito e definito con precisione, non potrebbe evitare errori testuali grossolani. Congreve, e in verità il xvm secolo, un periodo nel quale la forma del libro è una preoccupazione esplicita e onnipresente, costituisce un punto di partenza utile per far convergere le attenzioni linguistiche della critica letteraria e testuale, quelle materiali della bibliografia storica e le dimensioni economiche e sociali della produzione e del pubblico di lettori. La teoria generale che le abbraccia tutte e che si propone di mostrarne le intime interrelazioni forse può essere descrit-

ta al meglio come ‘una sociologia del testo”. La forma delle edizioni in-quarto delle commedie di Congreve, sulla scena e a stampa; è strettamente connessa da un lato alla tradizione teatrale e dall’altro a una serie di convenzioni editoriali relative ai testi teatrali. Per tutto il xvi secolo, però, queste due tradizioni hanno ben poco in comune. C'è una separazione professionale netta fra drammaturghi e stampatori. Prima dell’onnipresenza delle gazzette negli anni ‘40 del xvi secolo, l’unico mezzo laico di comunicazione di massa era il palcoscenico; la sua sede, il teatro, era il luogo secolare primario per i dibattiti pubblici. Gli scrittori che vi operavano — Marlowe, Shakespeare, Jonson — erano i cronisti del tempo, coloro che analizzavano gli avvenimenti relativi alle persone e alla società per un pubblico non acculturato; era loro dovere etico, come sostenne Jonson, parlare degli intenti, dei consigli, azioni, ordini, ed eventi dello stato, e censurarli.

Tutto questo si concretava oralmente e visivamente.

Gli strumenti

espressivi della sua arte erano le voci e i gesti degli attori la cui abile articolazione, quando al meglio di sé, trasformava la parola scritta in un’esperienza vissuta della quale il pubblico si appropriava. Era ovvio che la stampa non era uno strumento adatto ai drammi; la maggior parte di essi arrivava in tipografia in modo fortuito e clandestino, e poiché l’attività libraria londinese era priva di ogni genere di idealismo letterario in grado di riconoscere che il teatro popolare meritava rispetto da parte del tipografo, pochi drammi rivelavano una qualche curatela intelligente e significativa per la stampa. Ne consegue che i modelli testuali che abbiamo adottato per il dramma riflettono unicamente l’opportunismo commerciale dei tipografi dei primi decenni del xvi secolo, un periodo in cui il teatro era vitale e sicuro delle sue precipue mo-

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Di Shakespeare e Congreve

dalità orali e visive. Più avanti, nel corso del secolo, ci sarà spazio sol-

tanto per la tipografia stereotipata di una attività libraria essenzialmente indifferente, al momento di progettare il libro, alle esigenze assai specifiche dei testi teatrali. Pertanto ritengo che la forma delle edizioni in-quarto di Congreve, in netto contrasto con i Works, sia espressione

diretta di condizioni storiche che non tengono conto delle intenzioni dell’autore e che sono insensibili ai problemi inerenti la mediazione in forma di libro di un’esperienza teatrale. Ci fu un momento storico in cui Congreve e Tonson, due persone intelligenti, sensibili e originali, decisero di far parlare le pagine, di pubblicare e progettare le commedie in una maniera che desse voce alla parola stampata in quel teatro che si può tenere in una mano che è il libro?

Adesso vorrei passare ad alcune considerazioni teoretiche. Ritengo che sia stato il riconoscimento di condizioni storiche come quelle che ho illustrato a indurre il compianto Sir Walter Greg a distinguere tra, e cito: le varianti significative del testo o, come le chiamerò, ‘sostanziali’, quelle cioè che influenzano il significato dell’autore o l'essenza della sua espressione, e le altre come, in genere, la grafia, l’interpunzione, la divisione delle parole e simili, che concernono soprattutto la presentazione formale del testo, che possono essere considerate dei suoi accidenti o, come le chiamerò, ‘accidentali’ del testo.3

In una nota collegata Greg, naturalmente, riconosce che l’interpunzione incide sul significato ma aggiunge che «tuttavia rimane propriamente un problema di presentazione, come la grafia, nonostante la sua

utilità nel distinguere gli omonimi. La distinzione che sto cercando di tracciare è pratica, non filosofica». Questa distinzione pratica, però, quasi non occorre ricordarlo, ha avuto un'influenza enorme nella prassi delle edizioni delle opere teatrali dei primi decenni del xvi secolo,

per quelle del xvm, compreso il mio autore, Congreve, e per gli autori americani del xx secolo. La prassi editoriale attuale, basata su questa distinzione, ha avuto l’effetto di inibire lo sviluppo di una teoria generale della critica testuale che includesse la storia del libro. Quando applicata da altri, la distinzione pratica di Greg ha ingenerato discordia, è W.W. Greg, The Rationale of Copy-Text, in Collected Papers, a èura di Ke Maxwell, Oxford, 1966, p. 376.

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Tipografia e significato

mandando in frantumi il concetto di integrità del libro come forma organica, come materializzazione a cui partecipano tutti i suoi elementi, come struttura retorica globale articolata in un insieme estremamente complesso di relazioni fra autore, editore, stampatore e lettore in con-

testi storici specifici e definibili. Naturalmente non sono mancate voci critiche nei confronti della distinzione di Greg, per lo meno riguardo all’uso che ne hanno fatto altri; tuttavia, prima di passare alle obiezioni, vorrei isolare un altro elemento della sua affermazione. I termini di Greg, ‘sostanziali’ e ‘accidentali’, di fatto sono traslati; il primo è un’abbreviazione di «le varianti significative che influenzano il significato dell'autore o l'essenza della sua espressione, il secondo riguarda «la sua presentazione formale». Il primo si è concretato nella nozione semplicistica delle intenzioni dell’autore, che sta alla base di definizioni della critica testuale quali: «stabilire un testo il più possibile vicino a quello voluto dall'autore». Le parole «significato dell’autore» e «essenza della sua espressione» contribuiscono a creare il senso di un ‘testo ideale’. A ciò però si contrappone «la sua presentazione formale», rafforzando la distinzione, direi quasi platonica, fra l’idea o l'essenza da un lato e la sua materializzazione deformante dall'altro. Dal momento che mi propongo di suggerire una tesi diametralmente opposta, nella quale il controllo da parte dell’autore delle forme materiali rende manifesto l'ideale, nella quale l’essenza del significato dell’opera è distillata nel dettaglio della sua presentazione formale, devo fornire qualche ulteriore commento alle implicazioni teoriche della posizione di Greg. Sarà utile farlo prendendo in considerazione tre trattazioni di scrittori i cui termini di riferimento sono biblio-testuali. Ciascuno di loro rifiuta l’idea che si possano recuperare o ricostruire le intenzioni dell’autore in una edizione ‘ideale’ o ‘definitiva’. Ciascuno di loro si rifiuta anche di considerare significativa la distinzione operata da Greg fra varianti sostanziali e accidentali. Morse Peckham, per esempio, in Reflections on the Foundations of Modern Textual Editing, dichiara: «non esiste nessuna versione ‘definitiva’ alla quale [un curatore] debba o possa arrivare. Non esiste nessun insieme di istruzioni che possano guidare il suo comportamento con l’esclusione di tutti gli altri insiemi». 4M. Peckham, Reflections on the Foundations of Modern Textual Editing, in “Proof: The Yearbook of American Bibliographic and Textual Studies”, 1, 1971, pp. 122-155, in particolare pp. 126, 131, 142, 155. Peckham mette in risalto in maniera appropriata i limitati termini di riferimento di Greg: «Greg aveva bisogno di operare una distinzione per una classe specifica di testi in un periodo

particolare e limitato della storia del teatro» (p. 124).

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Di Shakespeare e Congreve

Per un attimo sembra che ammetta alcuni controlli storici nella costituzione di certe versioni di un’opera, insistendo sul fatto che «chi si occupa di bibliografia analitica è uno storico e non dovrebbe dimenticarlo mai», ma si tratta solo di un gesto, perché aggiunge subito: «’oggetto della sua ricerca non sono i manufatti a stampa in quanto oggetti materiali ma il comportamento umano nel passato, comportamento umano che non esiste più e che adesso non puo essere esaminato» (corsivo mio). Più avanti insiste su questo punto: «le situazioni sono in-

definibili, la percezione e la cognizione di una situazione da parte di un individuo sono inaccessibili e non possono essere recuperate». In realtà non nutre fiducia nella storia e nello studio storico del comportamento umano. Perciò era inevitabile che Peckham esprimesse anche insoddisfazione riguardo alle implicazioni pratiche del ‘Criterio’ di Greg e rifiutasse la distinzione fra varianti sostanziali e accidentali.

«Colui che cura l’edizione del testo dovrebbe ignorare questa terminologia da adepti su varianti sostanziali e accidentali e parlare in modo semplice e chiaro di parole, interpunzione, grafia, uso delle lettere maiuscole e quant'altro occorre. Queste cose sono lì, sotto i nostri 0c-

chi; accidentalità e sostanzialità non ci sono». L’avvertimento è salutare, come molti altri punti dell’articolo ma, in assenza di una valida teoria della storia, non è costruttivo. Pochi storici lo ringrazierebbero per la logica della sua tesi secondo cui le intenzioni dell’autore e la ricezione del lettore, dal momento che sono ambedue forme di comportamento umano, non possono essere esaminate, né tanto meno ricostruite. Sebbene consenta di presentare un testo eclettico per ogni classe specifica di lettori, questa posizione teoretica nega la possibilità di accesso a una qualche edizione che possa rappresentare le intenzioni storiche dell'autore così come si sono concretate nella sua opera per il pubblico a lui contemporaneo, o nega la possibilità dell’accuratezza maggiore di una tale edizione. : Una dichiarazione di dissenso articolata con maggiore cura si trova nell’articolo del professore Hans Zeller, 7he Critical Constitution of Literary Texts} focalizzato soprattutto sul problema della ricostruzione di un testo a partire da documenti autorevoli che differiscono fra loro a causa di revisioni dell’autore. Di fatto lo studioso reputa il problema insolubile, e ciò lo induce a formulare due proposte assai radicali, ciascuna delle quali riguarda il ‘Criterio’ di Greg. La prima concerne il rifiuto della distinzione fra varianti sostanziali e accidentali: «dL'autorevolezza di un testo non dovrebbe basarsi in eguale misura sulla struttura del testo, © Hans Zeller, 7be Critical Constitution of Literary Texts, in “Studies in Biblio-

graphy”, xxvmi, 1975, pp. 231-264, in particolare pp. 237, 240, 244, 256 nota 38.

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Tipografia e significato

sulle interrelazioni dei suoi elementi con l'insieme, e quindi su ciò che costituisce un testo in quanto tale, su ciò che ne fa una versione particolare». «La mia concezione si basa sull’idea linguistica del testo in quanto complesso di elementi che vanno a formare un sistema di segni che denotano (signifiani) e insieme sono denotati (signifi). Il fatto che si tratti di un sistema implica che un’opera consista non dei suoi elementi ma delle loro interrelazioni». Questa idea del testo porta inevitabilmente alla seconda tesi radicale: ogni variante testuale, per quanto minima, dà vita a una versione distinta, poiché modifica l’interrelazione fra gli elementi costitutivi dell’opera. Di nuovo, quindi, non si può par-

lare di copia ideale, migliore di tutte o definitiva, e non esiste alcun fondamento logico per operare una fusione di versioni. «Soltanto la storia del testo è a disposizione del curatore: note, estratti, bozze, se sono sopravvissuti, e poi le versioni in sequenza cronologica, una successione diacronica di sistemi semiotici discreti». «Il curatore, nella misura in cui

identifica la propria funzione con quella dello storico, ha a disposizione ampia libertà nella scelta della versione per il testo che cura, ma deve riprodurre tale testo senza contaminazioni». All’interno di ciascuna versione «le relazioni esistono non solo fra elementi contigui ma per tutto il testo e a tutti i livelli: fonologico, metrico, ritmico, simbolico ecc».

Nonostante l’accenno di facciata al curatore come storico, e alla qualità storica dei documenti pervenuti fino ad oggi e, in vero, alla storicità di ciascuna versione in quanto struttura a sé, l’opinione di Zeller della storia, come quella di Peckham, non è sufficientemente valida. Ancora una volta ci viene detto che il comportamento umano nel passato è di gran lunga troppo complesso perché lo si possa studiare con profitto: Quando un’opera viene rivista, non è possibile (o lo è solo di rado, in casi eccezionali) fornire un resoconto dettagliato della misura in cui la ricezione della prima versione, un mutamento della società o dello stesso autore, della sua relazione con l’ambiente, un diverso in-

centivo o scopo per la pubblicazione, possono avere avuto un ruolo nella revisione, e ciò è tanto più vero dal momento che fin dall'inizio, perfino prima che gli venisse in mente di scrivere, l’autore era esposto a questo influsso di forze da ogni lato. Ciò che definiamo volontà dell’autore è una parte inseparabile di tutte queste forze, pertanto appare egualmente inadatta come criterio per decisioni editoriali o per la valutazione di opere letterarie.

Da un punto di vista critico e storico, anche il concetto di struttura di Zeller, la base stessa della teoria dell’edizione critica, è discutibile. Si po-

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Di Shakespeare e Congreve

trebbe ritenere che il concetto di relatività storica, che relega la volontà dell’autore a una versione distinta, e la concomitante insistenza sull’in-

tegrità strutturale bale della critica sibile costitutiva reciproche, ogni

di ciascuna versione, aprano la strada a una teoria g/otestuale, tale da accogliere ogni relazione storica posdella versione. Poiché ogni struttura implica relazioni revisione da parte dell'autore implica necessariamente

una volontà di modificare quelle relazioni. Volontà che, a sua volta, ha

necessariamente una causa finalizzata a produrre un effetto. Nessuna teoria della struttura complessa, quindi, può escludere ricerche sul mutamento personale o sociale o su un qualche aspetto di quella fragile rete di interrelazioni che collega la volontà dell'autore e la ricezione del lettore. Il concetto di struttura del professor Zeller, tuttavia, non offre questa apertura: «...per motivi metodologici, trovo preoccupante l’idea» scrive «che il curatore debba sentirsi obbligato non solo a formulare supposizioni sulla volontà definitiva di un autore, ma anche sulle cause alla base di tale volontà. Non riesco a considerare la psiche dell’autore, e l’analisi di essa, fondamenti sostanziali per un’edizione critica. Tutti i casi di reale e sospetta auto-censura inducono a questo tipo di analisi».. Nonostante il gesto di apertura a una teoria complessa dei segni nell’accenno ai «sistemi semiotici», la teoria delle versioni di Zeller comporta un campo strutturale estremamente limitato. Essa, inoltre, esclude qualunque attenzione a quella struttura estesa che è formata dalle relazioni fra versioni distinte. La fusione dei testi, che come la ‘contaminazione’ è definita inaccettabile, è un semplice atto di analisi storica e ricostruzione all’interno di un campo strutturale più com-

plesso. Zeller, allarmato dalla sua stessa logica, demanda il compito ai lettori, presentando loro le versioni e abbandonando la scena prima del delicato compito di estrarre da esse una struttura storicamente accurata e complessa dell’esperienza letteraria. In verità la descrizione dell'apparato critico che propone, fatto di contrassegni nel testo e note a piè di pagina «per richiamare l’attenzione del lettore sui problemi di critica testuale e sulle soluzioni possibili, mentre sta leggendo il testo...», rende ovvia la sua indifferenza nei confronti di un sistema semiotico che includa una certa attenzione storica alla forma del libro. Quale allievo, ancora alle prime armi, del dottor F.R. Leavis a Cambridge, ero abituato a ritenere che un'edizione di un’opera letteraria avesse la funzione di guidare i lettori attraverso l’esperienza letteraria, non di distrarli facendo loro ammirare le incèrtezze critiche

del curatore. Qualsiasi cosa abbia inteso un autore nello scrivere un'opera, non era certo che il lettore dovesse studiarne la genesi. Ma ahimè, questa è una moda insensata dovuta principalmente all’igno-

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Tipografia e significato

ranza diffusa dei curatori di edizioni critiche nei confronti della storia della stampa e del progetto grafico del libro. La debolezza di fondo nella reazione di Zeller a Greg, sta nella sua riluttanza ad accettare appieno le implicazioni della sua definizione di ‘versione’ quale struttura che, perfino all’interno di una singola opera, va ben oltre i limiti verbali che egli prescrive. Nel caso di Congreve, la sua teoria escluderebbe la fusione delle edizioni in-quarto con l’edizione dei Works del 1710. Potremmo avere o le une o l’altra, ma non entrambe, poiché non ammette un'idea dell’opera come ricostruzione della volontà dell’autore che sia superiore a quella fornita da qualsiasi versione superstite. Una teoria simile, dato il disinteresse che mostra

verso le testimonianze storiche del tipo che fornirò sull’attività libraria in relazione alla volontà di Congreve, ci darebbe un ‘testo’ molto impoverito della ‘opera’ dell’autore. Il terzo critico che desidero citare è Tom Davis$ il quale scrive, con ri-

ferimento alle implicazioni della distinzione di Greg per i testi pubblicati sotto l'egida del Centre for Editions of American Authors: Il problema è di notevole importanza per coloro che si occupano di critica del testo, dal momento che essi propongono di riprodurre ogni singolo segno costitutivo dell’opera in sé, ma di omettere o normalizzare tutti quelli non costitutivi. Se la loro distinzione fra le due classi non è sufficientemente chiara, può verificarsi che omettano intere aree costitutive che hanno veramente un significato rilevante [...] o che diano importanza eccessiva e ossessiva a elementi irrilevanti.

Queste parole mettono bene a fuoco il problema ma concorrono ben poco a risolverlo. Davis ammette che «può accadere che i segni che di solito non influenzano il significato spesso lo influenzino o che gli autori ritengano che lo influenzino»; ma il modo in cui acconsente su questo punto ci induce a sospettare che vi sia alla base un certo scetticismo. In relazione a un caso, nel quale una dichiarazione esplicita delle volontà dell’autore ci è pervenuta (le direttive di Harington a Richard Field per la disposizione tipografica di una sezione della sua traduzione dell’Orlando Furioso), Davis sostiene che esse possono essere ignorate, dal momento che «non influenzano ciò che i lettori riterrebbero costitutivo dell’opera» (corsivo mio). Ancora una volta ci troviamo di fronte alla solita mancanza di immaginazione sia critica che storica. Naturalmente non esiste alcuna classe unica e indifferenziata di lettori, ma 6T. Davis, The ce44 and Modern Textual Editing, in “The Library”, quinta se-

rie, xxxIl, 1977, pp. 61-74, in particolare pp. 64-65.

Sl

Di Shakespeare e Congreve

solo una varietà infinita di individui che portano nella loro comprensione della letteratura vari gradi di intelligenza e di sensibilità. Ciò che dobbiamo continuare a tentare di definire sono le condizioni della ricezione informata al meglio di un testo a stampa. Davis indica la confusione che è al centro delle edizioni della CEAA: La conseguenza più assurda dell’adesione troppo rigida, ed erronea, alla distinzione di Greg è che tutti i curatori cEAA si impegnano nella ricerca puntigliosa della grafia e dell’interpunzione dell'autore, pur ritenendo che questi fenomeni siano privi di significato.

Tuttavia, Davis si condanna da solo alla stessa pena quando dà il coup de gràce: Il metodo consueto di aggirare ciò è di parlare della ‘tessitura degli accidentali’, una nozione intrinsecamente priva di significato che ha avuto la propria apoteosi nell’affermazione secondo cui «i problemi relativi agli ‘accidentali’ [...)] dovrebbero indurci a pensare più alla funzione e al significato della ‘tessitura’ di un autore — magari prendendo lezione dalla critica delle arti grafiche e plastiche».”

Questa derisione riduttiva del linguaggio della presentazione visiva è tipica della prassi corrente che nega con decisione la rilevanza, il significato della forma tipografica. Al contrario, suggerirei che lo studio della divisione in scene di Congreve, sostanzialmente un problema di progetto grafico del libro, di risorse tipografiche e di disposizione degli spazi, è assolutamente fondamentale per la sue intenzioni di drammaturgo e quindi per il significato della sua opera. Se vogliamo dare vita a una teoria generale che includa la forma del libro, è fondamentale risolvere le confusioni e le contraddizioni di cui so-

no una spia queste reazioni a Greg, e trovare il modo dî controllare con metodi storici la nostra percezione soggettiva di quelli che potrebbero essere modelli affatto arbitrari: proprio ciò che Greg tentò di compiere nei confronti dei testi stampati agli inizi del xvi secolo. L'applicazione del 7 Qui Davis cita Thomas L. McHaney, 7be Important Questions are Seldom Raised, in “Studies in the Novel”, vit, 1975, pp. 400-401. Ai commenti di Davis sulle direttive di Harington al suo stampatore e su ciò che «i lettori riterrebbero costitutivo di un’opera» risponde, in vero, lo stesso Harington nel suo fonda-

mentale Avviso al lettore, prima che legga questo poema, su alcuni punti da osservare sia relativi alla sostanza di questa opera che alla sua esecuzione a stampa con l'uso di Figure, Tavole, e note indicizzate. Esaminerò più avanti l’Avviso di Harington.

32

Tipografia e significato

tutto antistorica dei suoi commenti ad altri testi di altri periodi e la corsa al falso filosofeggiare, che Greg tentò chiaramente di prevenire, lo avrebbero colpito come atti di monumentale mancanza di pertinenza. Le due questioni precipuamente testuali emerse fino a qui sono: primo, un profondo scetticismo sulle possibilità di stabilire la volontà dell'autore, donde una riluttanza a fondere testi autorevoli indipendenti per creare una forma dell’opera eclettica e ideale; secondo, il rifiuto di accettare una distinzione fra varianti sostanziali e accidentali accompagnato da un eguale rifiuto di accettare il corollario di questa tesi, e cioè che tuttii segni hanno uguale significato, che ogni elemento della struttura a cui contribuiscono — intendo il libro — è, di diritto, di competenza della critica testuale. Può essere che alcuni di questi segni siano completamente inariditi, meri scheletri di una tipologia un tempo vitale, e che altri siano innovazioni significative. Ma dal momento che i segni mutano significato nelle menti degli autori e dei lettori, e nella prassi dei progettisti grafici e degli stampatori, il loro studio è storico. Tuttavia questa succinta analisi di tre discussioni tipiche sui principi e le prassi editoriali correnti, mi fa capire chiaramente che al momento non abbiamo nessun corpus di teorie critiche che ci incoraggi a riunire le attività distinte che formano la storia del libro. L'idea di testo come struttura complessa di significati che inglobi ogni dettaglio della sua presentazione formale e materiale in un contesto storico specifico è molto lontana dalla prassi corrente. Anche l’idea di opera come atto di ricostruzione storica che trascende le varie versioni superstiti è fuori moda. La riluttanza a definire con rigore analitico i motivi che costituiscono la volontà dell’autore, o i contesti storici dell'impresa tipografica e del mercato librario che hanno influenzato la mediazione formale di quella volontà, o le teorie sulla ricezione del lettore implicite in ogni elemento formale del libro, nega implicitamente l’utilità testuale dell’analisi storica. Peckham, va ricordato, fu assolutamente esplicito: tale «comportamento umano non esiste più e adesso non può essere esaminato».

Ritengo che questa conclusione sia del tutto fuori luogo da due punti di vista. Primo, occorre tenere presenti gli sviluppi della teoria critica, in stretta connessione con la necessità di mettere a punto tecniche di analisi per lo studio dei fenomeni sociologici. Secondo, dobbiamo guardare nel passato non solo per le testimonianze tangibili della documentazione delle imprese tipografie, ma per qualunque riferimento a tutto ciò che esprima il modo in cui il libro era concepito o in cui chiedeva ai lettori di interpretare i suoi segni in modi particolari. Parliamo innanzitutto della teoria critica. Il dibattito spazia dalla volontà dell'autore alla ricezione del lettore e si focalizza sulla domanda:

DO

Di Shakespeare e Congreve

è possibile una storia letteraria? La nostra domanda è parallela: è possibile una storia biblio-testuale quale unione sottile di storia della lette ratura, della cultura, della società, dell'economia materiale e dei comportamenti, espressi nella forma del libro? Il germanista J.P. Stern, affrontando il problema della storia della letteratura, scrive:

Ogni racconto, poesia e dramma è stato scritto nel tempo, appartiene al tempo, e riflette il proprio tempo, per cui, in un modo o nell’altro (e non sempre alla stessa maniera) è databile; [...] questa datazione non è una semplice contingenza del testo (come la scoperta del carbonio 14), ma è una funzione di un qualche aspetto dell’opera che ha importanza. La databilità, cioè la storicità delle opere letterarie è dimostrabile e quindi ovvia; nondimeno, non è banale. Essa sola rende possibile la storia della letteratura, è una delle condizioni che permettono alla storia di contribuire alla nostra comprensione di un periodo letterario e alla storia della letteratura di contribuire alla nostra comprensione del passato.3

Alastair Fowler afferma l’importanza di dimostrare un'intenzione storica; egli sostiene che l'ipotesi sulla quale va basata ogni storia della letteratura è la rilevanza del significato e del valore originali, e mette in risalto la natura delle opere letterarie quali «forme semiologiche pubbliche [modellate secondo una] retorica schematica».? Fowler è rigoroso nella sua applicazione dei controlli storici ma, sfortunatamente, dà troppo per scontato il problema della convalida delle nostre reazioni soggettive. Una storia della letteratura, scrive, e potremmo aggiungere, una storia delle tipologie, «che dipende da una inesistente storia della sensibilità e di eventi psicologici, non è molto pratica». Il problema consiste nella mancanza di dati: «de uniche reazioni dei lettori di cui possiamo avere una conoscenza dettagliata sono le nostre». Quindi, nonostante la sua posizione formale, questa opinione allinea anche Fowler al semplice pragmatismo sottilmente disfattista di Peckham e Zeller. Ritengo che la loro sensazione di difficoltà derivi in parte dalla nostra fedeità al metodo induttivo e al suo uso nelle scien8 J.P. Stern, From Family Album to Literary History, in “New Literary History”, vII, 1975, pp. 113-133, in particolare p. 115. Tutto il numero della rivista costi-

tuisce una fonte utile per mettere a fuoco le problematiche attuali della storia della letteratura. 9? A. Fowler, 7he Selection of Literary Constructs, in “New Literary History”,

vit, 1975, pp. 39-55, in particolare pp. 41-45.

34

Tipografia e significato

ze naturali: un metodo che ci induce a presupporre che le uniche prove che contano sono quelle materiali, non quelle relative ai comportamenti. Ne consegue che siamo indotti a dare enfasi eccessiva alle immagini simboliche delle forme delle parole, scritte a mano o stampate, e non all'atto interpretativo di recepirle. Tuttavia, ogni dettaglio osservato è naturalmente di per sé l'affermazione di un atto interpretativo (esso stesso delimitato nel tempo); e quell’insieme di testimonianze assommate, come la generalizzazione che ingenera, non può essere scevro da giudizio, non può essere altro che un modello interpretativo. La consapevolezza di ciò mi porta all'osservazione espressa da Gòran Hermerén secondo cui, come sostengono recenti lavori filosofici, occorre che l’analisi del significato sia collegata all’uso della lingua a scopi comunicativi, producendo una teoria di atti discorsivi e facendo del testo una forma di azione sociale.!° Nel suo aspetto più intimo, questa azione si colloca nel testo come materializzazione delle intenzioni primarie dell’autore e della ricezione informata dell’autore in qualità di lettore di sé stesso e rappresentativo di chi, come lui, è destinatario dell’opera: «Hypocrite lecteur, mon semblable. La parola «hypocrite» ci ricorda che il lettore è un attore. Questa teoria, forse è il caso che qui lo dica, è alla base della mia comprensione dell’atteggiamento di Congreve nei confronti della tipologia delle sue opere. Invece di accettare supinamente la negazione della conoscenza sostenuta da Peckham e Zeller, possiamo volgerci a un crescente corpus di lavori di critica letteraria (compresa la storia della letteratura), di filosofia e di socio-linguistica che contribuiscono a chiarire che le intenzioni — la chiave per comprendere il significato di un testo o di una affermazione — devono essere sempre interpretate «in rapporto a un ambiente di convenzioni, attese, pratiche e procedure umane e «nei termini della funzione che svolgono conformandosi a quel contesto più ampio».!! La delucidazione dei significati intenzionali si attua nello stu-

dio delle «convenzioni linguistiche, stilistiche e simboliche [...] nel periodo e nel luogo in cui l’opera è stata creata».!? In questo modo la lingua, e non solo la lingua verbale ma quella visiva, è posta saldamente all’interno di un contesto assai più ricco di quello concepito da Peckham, Zeller o Davis. 10 G. Hermerén, Intention, Communication,

and Interpretation, in “New Li-

terary History”, vii, 1975, pp. 57-82. 11 Citato da Quentin Skinner, Hermeneutics and the Role of History, in “New Literary History”, vi, 1975, p. 217, tratto da A.J. Close, ‘Don Quixote’ and the Intentionalist Fallacy, in “British Journal of Aesthetics”, x11, 1972, pp. 321-330. 1? G. Hermerén, /Intention, Communication, and Interpretation, cit., pp. 75-76.

5»)

Di Shakespeare e Congreve

Lo spunto per la fase seguente della mia argomentazione è offerto da Stanley Fish in Self-Consuming Artifacts. Secondo Fish tutta la cultura è un testo nel quale ciascun elemento diviene attivo nella mente del lettore. Come dichiara, le sue ipotesi si basano sulla convinzione che la lettura è un'attività, e che il significato, nella misura in cui può essere specificato, coincide con quella attività e non è, come vorrebbero alcuni, il suo prodotto. Alle domande «Di che cosa tratta quest'opera? e «che cosa dice, tendo a sostituire la domanda «che cosa accade? e a fornire la risposta rintracciando la forma dell’esperienza di lettura, vale a dire, concentrandomi sulla mente nell'atto di comprendere il senso piuttosto che sul senso che finisce (spesso in modo riduttivo) per trovare.!5

Questa visuale sposta la pressione e l’attenzione «dall’opera ai suoi effetti, da ciò che accade nella pagina a ciò che accade nel lettore». Considero questa teoria, che ci indirizza, come fa, verso il comportamento del lettore, oltremodo feconda per lo studio dei testi teatrali. Al centro del dibattito sulle intenzioni, abbiamo due opinioni radicalmente opposte. Una vuole universalizzare la ricezione, specialmente dei testi letterari: essa è espansiva e tende a rendere mitica un’opera a tal punto che è il significato ciò che risulta irriducibilmente comune. L'altra vuole intensificare la ricezione, ricercando accuratezza storica e contestuale nel recupero di ogni possibile elemento di significato così come l’autore lo ha inteso e un lettore intelligente e sensibile del suo tempo lo ha recepito. Entrambe le tesi sono soggette ad analisi storica poiché anche le teorie generali sul valore hanno una storicità che dobbiamo ricostruire, dal momento che influenzano la nostra comprensione dei mutamenti sociali. Qui vengono messi in questione il passaggio da una cultura orale a una scritta, con tutto ciò che comporta per la forma del libro, la correlazione fra vocalizzazione e simboli visivi, e quindi i gradi di sensibilità mostrati, nel corso della storia, per la tipologia del libro (incluso il nostro senso ridotto di essa). Hayden White, scrivendo sul problema del cambiamento nella storia letteraria, osserva che le tradizioni principali della critica letteraria ci indirizzano al contesto storico, al pubblico, all’artista e all'opera stessa quali elementi costitutivi del campo letterario. Potremmo cioè intendere che

!3 S. Fish, Self-Consuming Artifacts: The Experiencing ofSeventeenth-Century Literature, Berkeley, 1972, pp. xx, anche pp. 3-4.

36

Tipografia e significato

ogni studio globale dei mutamenti che si verificano nel campo dovrebbe tener conto delle trasformazioni nelle relazioni riguardanti gli elementi distinti in questo modo. Se potessimo concordare che i mutamenti in uno qualsiasi di questi elementi devono comportare mutamenti nei modi di interrelazione esistenti fra tutti, potremmo concepire un'analisi storica coscientemente responsabile del campo generale. [...] Ciò ci permetterebbe di delineare le varie fasi attraverso le quali il campo, visto come una struttura storica in un processo distintivo di evoluzione, è passato, nel suo sviluppo, dalle prime manifestazioni a quelle più recenti.!4

Le osservazioni di White sono applicabili al cambiamento quale dinamica delle attività librarie, ma non mi risulta che alcuno abbia sviluppato in modo ordinato e globale una teoria generale che metta ordine nella nostra ricerca sull’intenzione dell'autore, la sua mediazione e la ricezione del lettore. Allo stesso modo, però, la critica testuale è del

tutto ignara delle implicazioni di tali questioni e, perseverando nella sua ritrosia intellettuale e nel suo zelo meccanicistico mentre in altri campi si verificano questi progressi, garantirà il suo imminente oblio.

II

Adesso passo all’altro filone di ricerca, lo studio storico delle concezioni del libro e dei mezzi materiali volutamente scelti e stabiliti, da au-

tori, editori, stampatori e librai per veicolare il significato e stimolare la ricezione. Non posso fare altro, naturalmente, che indicare in modo

semplice le classi di testimonianze che occorre studiare se vogliamo individuare una tradizione di consapevolezza del libro. Le Opere complete sono, molto semplicemente, una di queste classi. Le condizioni del tutto particolari concernenti la stampa di testi teatrali agli inizi del xvir secolo, e il nostro eccessivo interesse per Shakespeare come problema focale di riferimento della teoria testuale, hanno prodotto non solo gli sterili dibattiti sulle varianti sostanziali e gli accidentali (e la correzione delle bozze); cosa più grave, hanno distolto la

nostra attenzione da una corretta considerazione delle aspettative degli scrittori non legati all’effimera arte drammatica. Eppure, perfino la prima edizione in-folio di Shakespeare pone un problema di progetto grafico che avrebbe dovuto ricevere un trattamento molto più serio. Se 14 H. White, 7be Problem of Change in Literary History, in “New Literary History”, vil, 1975, pp. 97-111, in particolare pp. 97-98.

SY

Di Shakespeare e Congreve

ci fossimo chiesti con una certa tenacia perché 7be Tempest, l’ultimo dramma di Shakespeare, debba aprire i Works del 1623, avremmo

po-

tuto imparare a essere più sensibili al concetto di Opere complete inteso come qualche cosa di più della somma delle sue parti. Di sicuro avremmo dovuto esaminare in modo molto più approfondito la composizione di altri libri. Uno studio recente sugli Epigrammes di Jonson dimostra che essi formano un insieme microcosmico sociale ben organizzato.!5 Così anche i suoi Foreste Underwoods sono raccolte di poesia strutturate secondo un concetto di forma naturale. L’edizione in-folio del 1616 di Jonson, alla cui stampa egli si dedicò con tanta cura, ha una architettura simile? In che senso alcuni autori concepiscono il progetto grafico globale delle loro Opere complete come espressione di una integrità personale di esperienze, di una vita vissuta in modo creativo? Montaigne, ricordiamo, scrisse degli Essais: «è me stesso che dipingo [...] sono io stesso la materia del mio libro», e noi apprezziamo il suo sfruttamento comico del libro come espressione di sé in una relazione intima fra le parti. Anche Marvell si avvicina allo stesso concetto: «dove tu stesso sei l’esperimento è come se vivisezionassi il tuo corpo e vi leggessi la Lezione di Anatomia». Il libro come ‘anatomia’ sia del soggetto che dell’uomo non potrebbe essere più esplicito in Anatomy of Melancholy di Burton. Jonson stava solo compiacendosi di un preziosismo (sebbene un preziosismo in delicata relazione con la sistemazione materiale delle sue poesie nei preliminari) quando chiese ai lettori di Shakespeare di «osservare, non nella sua Immagine ma nel suo Libro» l’uomo? L'uso comune della parola Remaines come termine per designare opere postume, suggerisce in maniera ambigua sia le unità che restano da pubblicare sia, come i resti mortali di un'anima dipartita, l'identità precisa del corpo di un uomo e delle sue opere stampate. I Works di John Jewel, così come editi da Featley nel 1606, conferiscono vita duratura al suo pensiero mettendo in atto la dialettica dei suoi dibattiti in modo da ricondurre le controversie originali nel loro ambiente storico. Sembra che arniche l’edizione degli LXXX Sermons di Donne pubblicata da Walton nel 1640 segua un progetto grafico espresso deliberatamente, modulato in modo da conferire una definizione ordinata alle opere in quanto vita. L'autore come frontispiece è un modo emblematico di rendere chiaro questo concetto. Oggi l'equivalente più prossimo forse è Festschrift.16 !5 Edward B. Partridge, Jonson's ‘Epigrammes’: The Named and the Nameless, in “Studies in the Literary Imagination”, vi, aprile 1973, pp. 153-198.

!© Una ulteriore lacuna nella tesi di Hans Zeller sta nel fatto che ignora quel-

la struttura estesa, le Opere complete, un’opera più grande delle parti che la for-

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Tipografia e significato

Questa identità di libro e persona, o meglio, l’idea che gli elementi materiali del libro siano un mezzo di espressione, è usata brillantemente da Otello quando interroga Desdemona: «questo candido foglio, questo nobilissimo libro / Era forse fatto per scriverci sopra ‘Puttana’?» (IV.ii.71-72). L'idea del libro come espressione dell’anima è frequente in Shakespeare. Così Orsino: «Io ti ho dischiuso / il libro dei miei pensieri segreti» (12N 1.iv.13-14); o nei sonetti: «I fogli ancora deserti recheranno il segno della tua mente» (77) e «Siano dunque i miei libri l’eloquenza / E i messaggeri muti del mio petto che parla» (23). Anche la sequenza dei sonetti è indubbiamente un esempio chiaro del modo in cui si riteneva che i libri unificassero l’esperienza personale imponendole un ordine materiale oltre che una forza espressiva. Dal momento che i libri continuavano a definire e ordinare ciò che altrimenti era effimero, diventava possibile citare, individuare e impa-

rare di nuovo. Perciò Riccardo II di Shakespeare legge «proprio il libro / In cui sono scritti tutti i miei peccati, e cioè me stesso» (1v.i.274-275);

per Amleto l’ordine del fantasma vivrà «nel libro e nel volume della [sua] mente» (1.v.103). Perfino il valore di presagio di un frofitespizio quale affermazione del carattere ottiene la sua espressione appropriata nei versi: «La fronte di questo uomo, come un frontespizio, / Presagisce la natura di un volume tragico» (1H v1.i.60-61). Questo antropomorfismo è inestricabilmente connesso all'idea di una affermazione strutturata nelle parole di Nestore: ... in questi indici, sebbene siano piccoli segni Ai volumi che essi precedono, si scorge Il pargoletto simbolo della gigantesca massa Di cose che verranno per disteso. (TC 1.iii.343-346)

Volumnia fa una paragone simile a proposito del figlio di Coriolano: «Questa è una delle vostre misere epitomi, / Che, nell’interpretazione del tempo, / Potrà mostrare come tutto te stesso» (v.iii.68-70). Il libro come fanciullo si rispecchia nei commenti di Paolina su Perdita mano e articolata da molti autori nel corso della vita, in un atto finale di auto-

definizione. L’antiporta (frontispiece), la pagina che precede il frontespizio, spesso contiene un motto, a volte un emblema o anche un ritratto. Con il termine Fest-

schrift (pubblicazione commemorativa) si fa riferimento a una raccolta di saggi e contributi pubblicati in onore di una persona o di un'istituzione, generalmente in occasione di una celebrazione anniversaria (N.d.T.).

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Di Shakespeare e Congreve

la quale, «Sebbene la stampa sia piccola», è «la sostanza completa / E la copia del padre» e nelle parole di Leonzio a Florizel, la cui madre «impresse nella stampa il vostro regale padre, / Nel concepirvi» (WT

n.iii.97-98, v.i.125-126). Anche quando era eguagliato meno direttamente all'esperienza intima dell'autore, il libro risultava essere insieme una mappa del mondo da lui creato e il tbeatrum mundi stesso. Non sarebbe utile, allora, chiedersi, quando parliamo di Rinascimento, se gli scrittori e i lettori concepivano il libro non solo come mente, corpo, fanciullo, ma come un sistema di memoria, un mondo, uno stato ben governato, un giardino, un teatro, un Tempio? Come osserva il curatore di George Her-

bert a proposito dell'edizione del 1633 stampata da Buck: Per The Templefu una fortuna essere stampato per la prima volta da Thomas Buck, il migliore stampatore che Cambridge avesse mai avuto. La disposizione del testo era così ovviamente corretta che per le quattordici edizioni successive, vale a dire per 76 anni, rimase immutata.!7

Il libro come strumento di potere, che pertanto non può essere arbitrario nella propria forma, forse è l’immagine centrale della Tempesta di Shakespeare. Mirror of Maiestie di Godyere (1618) raffigura il principe di uno stato ben governato. La parte sinistra porta una toga accademica e un tocco, la destra un’armatura. In una mano ha un libro, nell’altra una lancia.!8

Non è facile afferrare l’idea che un libro possa essere di per sé una struttura intellettuale espressiva, nello stesso modo in cui un edificio manifesta direttamente forme architettoniche astratte. Ma libri come 7be Faerie Queene di Spenser, per lo meno nell’atto in cui vennero concepiti, aspiravano a strutturare in modo elaborato e armonico le virtù etiche e politiche (anche se si limitavano a sette peccati o a sette giorni). Gli Essays or Counsels, Civil and Moral di Bacon, perfino il suo modo di concepire ia Casa di Salomone e il Collegio dei Sei Giorni, l'opera molto popolare di Bartas, Divine Weekes, implicano una disposizione ordinata dello scibile. Frances Yates ha scritto pagine chiarificatrici sulla forma di libri quali la traduzione di Euclide fatta da Billingsley, stampata da John Day nel 1750, con la lunga prefazione di John Dee, e le va-

rie opere di Robert Fludd, degne di nota per il loro tentativo di tradurre materialmente in forma di libro le sue strutture mentali.!° Nicolas Barker !7 The Works of George Herbert, a cura di FE. Hutchinson, Oxford,

st. 1964, p. LXXVI.

18 Citato da Robert J. Clements, Picta Poesis, Roma, 1960, p. 145.

1941,

ri-

!9 Si vedano, ad esempio, F. Yates, Ybeatre of the World, London, 1969, Pp.

40

Tipografia e significato

ha richiamato l’attenzione su un'edizione della metà del xv secolo di Comenius, sulle sue rozze xilografie e sulla disposizione del testo quadrilingue su quattro colonne. Ancora più interessante della disposizione di superficie è la concezione del libro come un insieme unitario. L'organizzazione di Orbis Pictus esemplifica bene la credenza nell’unità di tutte le esperienze umane e un modo particolare di interpretare il mondo dei sensi. Per Comenius la relazione fra parole e immagini esprime la dipendenza del mondo delle idee da quello dell’esperienza sensoriale, e pertanto è una realizzazione politica, religiosa ed educativa. «È un libriccino, come vedete, di dimensioni ridotte, e tuttavia un sunto del mondo intero...» Il suo Janua Linguarum Reserata del 1631, con i suoi 98 argomenti, le sue 100 sezioni e 1000 frasi, non ha raggiunto per caso simili dimensioni. I manuali, in numero impressionante, ideati da Comenius — Encyclopaedia sensualium, Panbistoria, Pansophiae opus— contemplano tutti una unità complessiva, e la loro forma doveva essere tale da rifletterla. La sua Opera didactica omnia (1657) sostituiva la strutturazione formale e logica con una sistemazione psicologica tratta

dalla conoscenza dello sviluppo mentale.?° L'ideale sociale del suo Col42-59 e 190-197; Id., 7be Rosicrucian Enlightenment, St. Albans, 1975, pp. 103114. Anche 7be Art of Memory, Routledge & Kegan Paul, London, 1966 (trad. it. L'arte della memoria, Einaudi, Torino, 1972) è rilevante per la questione generale della presentazione schematica delle strutture mentali. 20 Su Comenius si veda Waldemar Voise, Le Livre, ‘instrument primaire de l’éeducation’ aux yeux des adeptes de Comenius, in “Revue Frangaise d’Histoire du Livre”, v, 1975, pp. 221-227; l'introduzione di James Bowen all’edizione da lui curata della terza edizione londinese (1672) di Orbis Sensualium Pictus, Sydney, 1967. The Great Instauration di Charles Webster (London, 1975) offre un resoconto inestimabile di questi schemi della metà del xvi secolo volti a codificare lo scibile e a istruire il popolo. Forse si è prestata attenzione al fatto, soprattutto (e un ulteriore lavoro di grande valore sta per uscire ad opera di Ro-

bert Darnton) in relazione alla nascita delle enciclopedie sistematiche, e al prospetto di Diderot del 1750 per la Encyclopédie come un ‘tableau général’ delle imprese umane. Le fasi precedenti del libro come compendio o tesaurus delle opere della natura, soprattutto in un lavoro come An Anatomy of Melancholy di Burton, garantiscono uno studio indipendente da questo punto di vista. Una questione strettamente collegata, e un luogo ottimo per discussioni sulla percezione del lettore in un contesto storico specifico, è il tentativo compiuto da diversi altri scrittori del xvi secolo di rendere la lingua il più possibile prossima ai fenomeni naturali che designava. Si veda R.F. Jones, Science and Language in England in the mid-Seventeenth Century, in The Seventeenth Century, Stanford, 1951, rist. 1969, pp. 143-160. Fra questi scrittori, John Wilkins, in particolare il suo Essay towards a Real Character (1668), ripagherebbe lo studio sia per la teoria della percezione ivi espressa sia per l'articolazione tipografica di quella teoria. Un altro scrittore, William Petty, nel suo schema per un Dizionario di Parole Sensate, «tradurrebbe tutte le parole usate in Argomentazio-

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Di Shakespeare e Congreve

legio Pansofico era organizzare lo scibile in modo da renderlo di facile accesso alla gente: in che modo quel principio veniva applicato nel progetto grafico dei suoi libri per raggiungere questo scopo? Uno dei punti su cui la Yates si sofferma a proposito di John Dee è la sua comprensione profonda del basilare principio rinascimentale di ‘progetto grafico’, e ciò che Dee dichiara riguardo a «’intera realizzazione dell’Architettura nella costruzione» è altrettanto valido per i libri. Lo stesso Dee prende molto da Vitruvio e Alberti. Si può dire la stessa cosa di Geofroy Tory, il cui Chbampfleury collega la tipografia all'architettura in modo abbastanza esplicito. Ogni arte implica l’esatta distribuzione di forme nello spazio, e ogni giudizio si basa su un profondo rispetto del numero e dell’analogia. Diùrer condivide questi presupposti sulla «giusta forma delle lettere e collega le proporzioni delle sue lettere a quelle del corpo umano. Tory porta avanti una sua critica di Diùrer ma nel farlo amplia l’idea delle ventitré lettere attiche che rappresentano le nove muse, le sette arti liberali, le quattro virtù cardinali e le tre grazie. La lettera ‘Y° è l'emblema di Ercole al bivio, il piede della ‘L’ corrisponde al rapporto fra il corpo umano eretto e la sua ombra proiettata dal sole nella Bilancia. I nostri «0cchi richiedono che questa maestria adorni la loro arte. Anche se forse abbiamo perduto la capacità di discernere queste corrispondenze tra forme inanimate e valori umani, non dobbiamo dare per scontata la loro assenza in tempi più remoti. L’esortazione di Tory, quindi, dovrebbe risuonare anche oggi alle nostre orecchie: «Osservate bene, perciò, voi giovani e non lasciatevi alle spalle la conoscenza delle lettere ben fatte». Preoccupazioni simili caratterizzano l’opera dei tipografi e dei progettisti grafici dei nostri giorni. Secondo Stanley Morison per il bibliografo la forma dei simboli, principalmente di quelli alfabetici, può significare molte cose della cui importanza lo storico è ignaro. [...] Il bibliografo, grazie al suo studio della forma materiale di un'iscrizione, di un manoscritto, di un libro, di un giornale © altro mezzo di registrazione, può evidenziare momenti che attengono alla storia di qualche cosa che è distinto dalla religione, dalla politica e dalla letteratura: la storia dell’uso dell'intelletto?! ni e Questioni Importanti in parole che siano Signa Rerum e Motuum. Ma il Te-

soro di Parole Sensate sono le carte Miscellanee della mia Scrittura, che aggiungo e sottraggo, Compongo e distribuisco come fanno gli Stampatori con i loro caratteri». 2! Stanley Morison, Politics and Script, a cura di Nicolas Barker, Oxford, 1972, p. 1. Un altro lavoro rilevante per questa parte della discussione è Nicolette Gray, Lettering as Drawing, Oxford, 1971.

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Tipografia e significato

L’intera ultima grande opera di Morison, Politics and Script, costituirebbe una lettura proficua per molti di coloro che scrivono di varianti sostanziali e di accidentali. Ciò vale anche per 7be Fleuron Anthology, un'utile raccolta di meditazioni di esperti progettisti grafici e di artigiani, i veri eredi di uomini come Tory, che sono in grado di parlare senza vergognarsene dello ‘spirito’ di un libro e delle regole per cercare di esprimerlo. Regole che, come osserva D.B. Updike, sebbene «possano apparire prive di sostanza e difficili da rendere a parole, senza dubbio vengono osservate e sentite nella mente del tipografo mentre lavora. Sono regole sfuggevoli, eppure una persona basa il proprio lavoro su di esse con la stessa certezza che se fossero messe nero su bianco». Anche solo leggere ciò che scrive Percy Smith sull’uso che fa Tory di un fondo punteggiato per un'iniziale grande, allo scopo di dare inchiostrazione uniforme sia all’iniziale che ai caratteri del testo, è una lezio-

ne di sensibilità estetica e nello stesso tempo tecnica, volta a comunicare il significato, la creazione di un’esperienza distinta di lettura di quella opera e di nessun’altra. Ancora una volta è Percy Smith, l’artigiano esperto, che può dichiarare, senza l'imbarazzo di un Tom Davis su Thomas McHaney, che «probabilmente il successo di Tory con le iniziali era dovuto in gran parte alla sua grande capacità di comprensione. Aveva «sufficienti capacità di scorgere il vero e l’abilità di servirsi con successo del materiale spirituale, intellettuale e terreno che costituiva il suo ambiente».?2 Per una applicazione storica immediata, anche se più letterale, di quello spirito di ricerca, non si può fare di meglio che citare la discussione della Yates sulla prima edizione inglese di Acts and Monuments di Foxe (1563) in cui mette a confronto i regni della regina Elisabetta e di Costantino, il primo imperatore cristiano. Il confronto richiede l’ulteriore identificazione di Foxe e di Eusebio. Il punto è che l’iniziale della prima parola, Costantino, racchiude un ritratto della regina e la parte inferiore della lettera è formata dal corpo del Papa. Nell’edizione del 1570, la prima parola della nuova prefazione è Cristo, la frase è tale da affer-

mare il ruolo divino di Elisabetta e di nuovo viene usata l’iniziale ‘C’ che ne racchiude l’immagine. Troviamo un'interessante estensione dell'uso di questa iniziale ‘C’ in General and rare memorials pertayning to the Perfect Arte of Navigation di Dee (1577), pure stampato da John Day. L'idea dell’opera come insieme unitario, osserva la Yates, era che que22 The Fleuron Antbology, a cura di Francis Meynell, London, 1973. Le parole

di Updike sono a p. 82, ma va anche osservato il suo commento a p. 87 secon-

do cui «do studio dei modelli antichi deve essere minuzioso — non soltanto nel carattere usato, ma in tutti i dettagli della sua gestione». Per Smith, vedi p. 60.

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sta avrebbe dovuto essere, secondo le parole di Dee, un «Hexameron or

Plat Politicall of the Brytish Monarchi®, e il libro di Dee di Tables Gubernaticke contiene una traduzione latina (che inizia «Cum in navi gubernator») del consiglio di Gemisto Pletone all’ultimo imperatore greco, qui rivolto a Elisabetta. Non solo l’iniziale ‘©’ racchiude, come prima, la sua immagine, ma l’antiporta da amplia per coprire il tema del libro». Uno studioso che si è dedicato con ottimi risultati all'analisi delle implicazioni teoretiche di questi rapporti fra parola e immagine è AlainMarie Bassy.24 Posso solo fare eco al suo auspicio di una semiologia che riconosca tutti isegni scelti per veicolare informazioni in forma stampata. Come chiarisce Bassy quando cerca di definire un momento storico particolare (1668), le parole e le immagini visive non hanno avuto la medesima interrelazione in tutti i tempi: cambia la proporzione fra la funzione puramente estetica delle immagini e la funzione puramente intellettuale delle parole. Quando, leggendo, si cessa di pronunciarle, le parole diventano immagini. Trattando la crisi del libro illustrato negli anni 1660-1670, egli ipotizza che essa abbia avuto origine dalla convergenza di due mezzi di comunicazione in un unico corpo espressivo. Le incisioni mostrano scene successive sulla stessa tavola, in tal modo acquistano temporalità, diventano parte integrale del testo in quanto richiedono di essere /ette secondo la sua linearità. La soluzione di questa crisi viene attribuita ai primi sei volumi delle Fables di La Fontaine del 1668: le parole cessano di essere così pesantemente e retoricamente morali e diventano più suggestive, le figure si distaccano dalla tradizione delle immagini emblematiche. Confermando in maniera rilevante l’opinione di Stanley Fish sulla ricezione del lettore nell’atto di leggere, Bassy parla del libro illustrato non come un oggetto (objed ma come i/ luogo (le lieu) nel quale si compie l’atto di leggere. In Inghilterra un'analisi simile potrebbe prendere avvio con profitto dalla Omelia sul pericolo dell’idolatria e sul lusso superfluo delle chiese del 1563, dai dibattiti fra Moro e Tyndale del 1529-1533, fra Ridley e Gardner del 1549 e fra Jewel e Harding del 1564-1568, che sono tutti pieni di implicazioni relative alle funzioni delle immagini in contesti comportamentali complessi.?5 Per gli apologisti cattolici, l’immagine 23 Frances A. Yates, Astraea: The Imperial Theme in the Sixteenthb Century,

London, 1977, pp. 42-48. Per un interessante resoconto di un esempio del XIX

secolo, si veda Joan Stevens, 7backeray's Pictorial Capitals, in “Costerus”, nuova serie, 11, 1974, pp. 113-140. 24 Alain-Marie Bassy, /conograpbie et littérature: essai de réflexion critique

et méthodologique, in “Revue Francaise d'Histoire du Livre”, m, 1973, pp. 4-33. 2 Sono oltremodo grato al mio collega, dottor B.J. Opie, per aver richiama-

to la mia attenzione su questo materiale e per avermi permesso di leggere il suo

Ad

Tipografia e significato

conduce direttamente alla comprensione del Divino, per i protestanti ciò è possibile solo grazie alla fede, alla dottrina — alla Bibbia — e alle opere di Dio. Il cattolico Sander preferisce le immagini che parlano in modo diretto alla mente; con le parole, dichiara, «devo essermi preso la pena di aver cambiato la forma delle parole in un’altra foggia e quindi di essermene fatto un'immagine visiva». Dunque la comprensione è collegata non ad astrazioni bensì a immagini del mondo materiale. Per il protestante, invece, qualsiasi intermediario visivo, come la materializzazione di un concetto, per definizione, deve falsarlo. Se si deve par-

lare di imitazione, questa consiste nel dare forma alla forza espressiva di un’argomentazione

o, in verità, di un intero dibattito, tramite stru-

menti tipografici. Naturalmente in entrambi i casi l'elemento di mediazione è la forma del libro, emblematico o tipografico, e le sottigliezze di ciascuna modalità diverranno rilevanti per la nostra comprensione del passato. In più di un senso il dibattito verte semplicemente sulle condizioni dell’alfabetismo in fase di cambiamento: l'opinione dei cattolici (come le forme recitate e mimetiche del dramma) presuppone una popolazione largamente analfabeta. Un versante dell’attacco protestante culminò nella chiusura dei teatri nel 1642, un altro nella pubblicazione di Eikonoclastes, il distruttore di immagini, di Milton, e nel-

l'esecuzione capitale del re nel 1649. La vittoria non fu più assoluta nella forma del libro, di quanto lo fu nella politica o nella religione. Come

per le Fables di La Fontaine del 1668, o i libri di Ogilby della stessa data in Inghilterra, si finì per capire che la parola e l’immagine erano mezzi di comunicazione reciprocamente espressivi, di sostegno l’uno al-

l’altro. Ciò che mi preme soprattutto dimostrare, però, è che i dibattiti qui menzionati hanno al loro centro il libro e che danno accesso a teorie distinte sulla percezione e la ricezione del lettore in precisi contesti storici. La forma complessiva di un libro è in sé stessa una testimonianza storica significativa. L’uso di immagini per ornare o illustrare un testo, che siano integrate ad esso in modo raffinato o semplicemente parallele, forse è la componente più evidente del progetto grafico di un libro; essa, però, ci sprona anche a farci domande sulle risorse espressive a disposizione di un autore per il tramite del suo stampatore, impone che si indaghi sui loro scopi e, in quanto criterio funzionale significativo, sul costo da sostenere per raggiungerli.?0 lavoro su di esso. Sono suo debitore per la sostanza di questa parte del mio intervento come pure per le mie citazioni dai Works di Jewel e, qui di seguito, da A logical analysis di Temple. 26 La Yates chiarisce bene questo punto quando tratta i motivi per i quali

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La Cronaca di Norimberga è il caso più documentato di preparazione elaborata del lavoro di progetto grafico di un libro antico a stampa, ma il suo maggior pregio forse consiste nel costringerci a ricostruire

quel procedimento per i libri i cui progetti di impostazione grafica non sono sopravvissuti.27 Molto possiamo dedurre. Bassy cita il Terentius, Strasburgo 1493, di Trechsel con le sue 150 illustrazioni mirate a permettere a coloro che non erano in grado di leggere di seguire l’azione dei drammi guardando le figure (in verità, questa caratteristica di mobilità — seguire un’azione — è inerente al movimento stesso della lettura che, riga dopo riga, pagina dopo pagina, anima le parole). Nel 7erentius di Strasburgo del 1496 ogni illustrazione è formata da cinque parti, tre personaggi e due motivi decorativi, posti in combinazioni differenti per scene successive. Si potrebbe proseguire ampliando il discorso al lavoro grafico di Dùrer, ai margini dei frontespizi di Holbein per Froben a Basilea, ai disegni di Poussin per la Imprimerie Royale a Parigi, ai lavori di Matisse, Picasso e Chagall ai giorni nostri. Come sostiene Bassy, la relazione fra parole e immagini cambia: l'equilibrio delle Fables di La Fontaine del 1668 cede il passo alla disintegrazione funzionale delle forme implicita nella frase, comune nel xvm secolo, «adornato con eleganti sculture».28 Un atto significativo di reintegrazione si verifica nelle illustrazioni di Thackeray per le sue opere; il loro preciso allineamento con il testo al quale si riferiscono ha un’importanza sostanziale, compresa solo di recente dai suoi curatori. Il problema imRobert Fludd fece stampare i suoi libri all'estero da De Bry, anche se i commenti dello stesso Fludd insistono più sul costo che sulla carenza di risorse in Inghilterra per i diagrammi, i geroglifici e le rappresentazioni di simboli: «Li ho mandati oltre Mare perché i Tipografi di casa nostra pretendevano da me cinquecento sterline per Stampare il primo Volume e per trovare i fregi

in rame; ma di là dal Mare, è stato stampato senza costo alcuno per me, e come volevo io: E mi hanno spedito 16 copie assieme a 40 sterline in Oro quale Inaspettata ricompensa.» — Doctor Fludds Answer vntò M. Foster,

1631, pp. 21-22.

;

27 Si veda Adrian Wilson, 7he Making of the Nuremberg Chronicle, Amsterdam, 1978.

28 Anche William Ivins, Prints and Visual Communication,

Cambridge,

Mass., 1969, scrive in modo pertinente su questo argomento. Una paragonabi-

le perdita di equilibrio è evidente nel lavoro di Jacob Tonson il giovane, negli anni venti del xvi secolo. I suoi libri ricercano un’eleganza sontuosa in casi

estremi, non in armonia con la funzione più importante e abituale di un /ettore. Il passaggio da in-folio a in-quarto e in-ottavo e la maneggevolezza ottenuti da suo zio ai primi del secolo vengono rifiutati a favore di effetti gonfiati, troppo rigogliosi e della ostentazione puramente decorativa con tutta la falsa dignità di spazi bianchi e dimensioni eccessive. i 2° Si veda Joan Stevens, Woodcuts dropped into the Text: The Illustrations in

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mediato da chiarire, comunque, è che la progettazione e la produzione di libri è sempre stata un'attività raffinata che richiede capacità notevoli e dispendio di tempo e denaro. Gli studiosi del libro illustrato sono in aumento, ma il punto che mi preme stabilire qui riguarda piuttosto l'esigenza di comprendere le più minute intenzioni che ne hanno determinato le varie forme. Ignoriamo a nostro discapito la rilevanza storica di tutto ciò che il ‘progetto grafico’ comporta per il significato, per la sua trasmissione e comprensione.

M.H. Black, scrivendo nel 1961, osserva che si sono avuti pochi studi, o nessuno, sul modo in cui il tipografo dei primi tempi della stampa si accingeva a trasferire il manoscritto nei caratteri a stampa, o sulle influenze che condizionavano la sua scelta di una convenzione [...] nessuno ha analizzato queste convenzioni delle prime forme di progetto grafico nei dettagli, o ne ha seguito l'evoluzione per un certo periodo di tempo.

I suoi studi sull’evoluzione delle forme della Bibbia in-ottavo, dal manoscritto all’edizione di Ginevra e poi alla Bibbia in-folio del 1560, sono oltremodo istruttivi proprio in relazione a questo problema della suddivisione materiale del testo finalizzato al controllo di tutte le esigenze espressive.3° Una necessità funzionale immediata per alcune classi di libri era la portabilità. La Bibbia di Douai era proibita e quindi limitata all’uso privato e, forse proprio per questo motivo, quasi sempre in edizioni in-quarto. Anche la Bibbia di Ginevra era maneggevole e restò popolare fino al xvi secolo grazie al formato, alla guida fornita dalle glosse e alle illustrazioni. Ai contributi della Black si sono aggiunti, per il libro manoscritto, quelli di M.B. Parkes nel recente studio The Influence of the Concepts of ‘Ordinatio’ and ‘Compilatio’ on the Development of the Book.3! La sua discussione sulle influenze all’opera nel modellare la mise-en-page del libro manoscritto illustra lo stesso principio che è alla base del progetto grafico per articolare il testo in ‘The Old Curiosity Shop’ and Barnaby Rudge”, in “Studies in Bibliography”, xx,

1967, pp.113-134. 30 M.H. Black, 7be Evolution of a Book-Form: The Octavo Bible from Manuscript to the Geneva Version, in “The Library”, quinta serie, xvI, 1961, pp. 15-28; ...d., The Evolution of Book-Form: II The Folio Bible to 1560, in “The Library”,

quinta serie, xv, 1963, pp. 191-203. È) 31 M.B. Parkes, 7be Influence of the Concepts of ‘Ordinatio’ and ‘Compilatio on the Development of the Book, in Medieval Learning and Literature: Essays presented to R.W. Hunt, a cura di j.J.G. Alexander e M.T. Gibson, Clarendon

Press, Oxford, 1976, pp. 115-141.

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Di Shakespeare e Congreve

modo più raffinato. Tuttavia, dal momento che il processo era evolutivo, siamo perfettamente consapevoli della specificità storica di ogni suo momento particolare. Il vocabolario proprio dello stampatore e del responsabile del progetto grafico si è arricchito in modo da divenire il linguaggio straordinariamente flessibile dei caratteri tipografici nei loro diversi disegni e differenti corpi dello stesso disegno, della carta di diverso spessore, colore, qualità e misura, dell'inchiostro leggero o spesso, rosso o nero,

del formato, del frontespizio, dell’antiporta, delle illustrazioni figurative, con diagrammi

e ideogrammi,

della dimensione,

delle divisioni

strutturali dei volumi, ‘libri’, sezioni, titoli di sezione, capitoli, paragrafi, versi, numerazione

dei versi, misura della riga, colonne, interlinee,

note a margine e a piè di pagina, titoli correnti, numerazione delle pagine con numeri romani e arabi, intestazioni, lettere iniziali, testate e finalini, parentesi graffe, filetti, margini rientrati, fleurons, epitomi, indici e, più importante di tutti, lo spazio bianco.5? (I libri moderni, al contrario, sono ben noti per appiattire il testo, e attutire la nostra percezione dello spazio quale strumento d’ordine). A logicall analysis of twentie select Psalmes (1605) di William Temple dispiega deliberatamente tutti i meccanismi: disposizione lineare del testo, rientro del margine, corsivo, numerazione e dicotomie racchiuse entro parentesi quadre, per rappresentare la sua interpretazione rami-

sta. Mettendo in risalto tipograficamente la struttura logica nei suoi «i3 Sembra che la prima codifica di questi elementi sia La Science Pratique de l’Imprimerie di Fertel (St. Omer, 1722) ma non sono a conoscenza di studi sulle ipotesi in esso implicite o sulle fonti dei suoi modelli ed esempi. L'autore riconosce che il suo stile è semplice, adatto ai contenuti («Per quanto concerne il mio stile, so che è semplice, tale da essere appropriato al materiale») e dice di non prefiggersi altro scopo che fornire istruzioni a coloro che desiderano apprendere la scienza della stampa e perfezionarsi in essa. Però è abbastanza originale nel selezionare (cosa che, per esempio, non fa-Moxon) un'intera gamma di preoccupazioni di ordine estetico che influenzano la scelta delle dimensioni del carattere, l’uso delle maiuscole, del corsivo, della spa-

ziatura, delle decorazioni, della disposizione del testo per differenti tipologie di libri o di lavori tipografici. È oltremodo attento alla anatomia del libro, specialmente nella Parte 1. Il libro è diviso in quattro parti e ogni parte suddivisa ulteriormente in capitoli. La separazione di una parte dall’altra, di un capitolo

dall’altro, l’uso del contrasto fra caratteri romani e corsivi, di maiuscole e mi-

nuscole, di rientri del margine e così via, attestano una strategia altamente raffinata. Fu ideato come raccolta di modelli, ma quanto influsso abbia avuto è un problema di altro tipo. In questa sede è direttamente rilevante in quanto te-

stimonianza di una consapevolezza

molto approfondita degli elementi, della

terminologia, della produzione libraria.

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Tipografia e significato

neamenti naturali», ogni salmo diviene un tentativo di persuadere Dio secondo la ragione, rendendo chiaro a Lui l'ordine razionale dell’orante che lo supplica; la tipografia però rende quell’ordine immediatamente accessibile a chiunque prenda in mano il libro, in particolare a un pubblico non accademico, privo della cultura esoterica indispensabile per comprendere i termini della logica formale. Non è il caso, in questa sede, di approfondire oltre l’intera questione, posta inizialmente da W.J. Ong e ripresa da Marshall McLuhan, del passaggio dalle parole in quanto suoni alla loro forma visiva di elementi disposti nello spazio.53 Si tratta di una teoria generale bene esemplificata nei libri di logica ramista: ma neppure quelli riuscirono a far tacere la voce dell'autore. Come mostra l'esempio di Temple, le emozioni del lettore venivano plasmate in modo più raffinato ed espresse in maniera più intensa dalla sollecita retorica della stampa. Ong e McLuhan hanno insistito troppo sul nesso fra visualizzazione e quantificazione, dando dignità di discorso scientifico a una funzione della ‘stampa’ intesa in modo molto limitativo e a un’interpretazione del libro come luogo adibito alla visualizzazione superficiale e alla dimostrazione logica. Il dialogo non cessò di esistere. Importanza uguale riveste il rapporto fra visualizzazione e rappresentazione teatrale che nulla ha a che fare con la quantificazione o la logica. Ciò si verifica soprattutto nella letteratura — nella quale la lingua parlata è la vera essenza della poesia — nel teatro e nel romanzo, che quasi richiedono una lettura ad alta voce. Questo implica una concezione del libro come teatro nel quale ha luogo una rappresentazione. Per il dottor Johnson: «La lettura di un dramma influenza la mente quanto la sua rappresentazione». Il lessico tipografico serve a molti fini. Lo stesso Ong si è reso conto dell’importanza ininterrotta delle forme del libro, per tutti i secoli passati, nel veicolare all’ascoltatore la voce 33 Si veda W.J. Ong, Ramus, Method, and the Decay of Dialogue, New York, 1958, in particolare la sezione 8 del capitolo 4; Id., System, Space, and Intellect

in Renaissance Symbolism, in “Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance Travaux et Documents”, xv, 1956, pp. 222-239; Id., Ramist Method and the Commercial Mind, in Rbetoric, Romance and Technology, Ithaca, 1971. Ovviamente è centrale H.M. McLuhan, The Gutenberg Galaxy, Toronto, 1962 (trad. it. La galassia Gutenberg, Armando, Roma, 19842), un lavoro innovativo che

ormai dovrebbe aver stimolato confutazioni più decise da parte di storici del libro di quanto abbia fatto in passato. 34 Il teatro, potremmo dire, è una lettura pubblica da scrittore a lettore. Jacques Schérer, Le ‘Livre’ de Mallarme, Paris, 1957, p. 38, cita l’elogio di Zola da

parte di Mallarmé per avere «laissé parler le papier», e commenta: «La recherche du Livre est donc aussi une recherche du Théatre».

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Di Shakespeare e Congreve

dell'autore, evidenziando che una parola non è soltanto un segno di qualche ‘cosa’, bensì un’enunciazione, un farsi sentire in ultima analisi esistenziale, un evento psicologico: ecco perché, in letteratura, «nessuna disposizione tipografica del testo può essere soltanto formale, non più di quanto possa essere meramente decorativa».5> Sermoni, poesia e teatro continuarono a sfruttare la finzione di un io parlante e di un pubblico. Areopagitica: A speech... di Milton se ne serve in maniera efficacissima e le epistole di dedica nei libri dei secoli xVI, xvIr e xv rispecchiano un assiduo tentativo di assicurarsi le simpatie personali del lettore. In vero Swift in 7be Tale ofa Tube Sterne in Tristram Shandy sono storicamente interessanti, almeno in parte, per ciò che implicano

sulle aspettative della ‘dedica’ da parte dei loro lettori; ambedue sfruttano la tipografia e la forma del libro come strumento essenziale di invettiva. L'ironia può essere efficace soltanto se esiste una teoria della ricezione e se si presuppone nel lettore stesso la consapevolezza di essere sottilmente manipolato. In noi le basi del divertimento e dell’istruzione sono psicologiche ed estetiche e presuppongono un contesto fertile; se così non fosse The Dunciad non esisterebbe.3° Un autore co-

me Spenser, che si dilettava di numerologia, probabilmente non era indifferente alla forma in cui la sua opera veniva presentata (in senso letterale, alla regina). Ma, in assenza di un’analisi della disposizione grafica dei Libri 1-m di 7be Faerie Queene, così come furono stampati, possiamo osservare il suo uso esperto di strumenti poetici che creano un'illusione di narrazione orale all’interno delle forme simboliche ed emblematiche della stampa.57 «I libri non sono affatto oggetti inanimati...» ma, stampati, possono parlare in vari modi. 3 Per questa più recente enfasi sul libro come atto discorsivo, si veda W.J. Ong, Media Transformation: The Talked Book, in “College English”, xxx1v, dicembre 1972, pp. 405-410, nel quale vengono messe a confronto le tendenze attuali nella scrittura come dizione stampata e le pratiche del passato. Tuttavia, in The Writer's Audience is always a Fiction, in “PMLA”, xc, 1975, pp. 9-21, Ong chiude il cerchio e, nonostante Ramus, riconosce che gli autori si sono sempre espressi per mezzo della stampa. 30 Questo studio sulla ricezione del lettore è stato avviato dai linguisti e dai critici letterari più che dai curatori e da coloro che si occupano di critica del testo, ma adesso qualsiasi teoria generale sulle edizioni critiche ne deve tenere presente i risultati. Gli storici del libro, le cui ricerche si basano proprio sui materiali che conferiscono forma al significato e alla sua ricezione pilotata, hanno l'obbligo di contribuire agli studi della storia della lettura. Oltre a Self-Consuming Artifacts di Stanley Fish (vedi sopra, nota 12), altre opere di rilievo sull'argomento sono: Wolfgang Iser, 7be Implied Reader, Baltimore, 1974, e Um) berto Eco, Opera Aperta, Milano, 1962. 37 Si veda John Webster, Oral Form and Written Craft in Spenser's Faerie

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Tipografia e significato

La poesia di Herbert 7be Collarcrea una forte tensione drammatica fra la voce parlante del personaggio e lo spazio che la circoscrive. I suoi ideogrammi e, in generale, la lirica barocca, sfruttano lo spazio come elemento che concorre alla forma dell'esperienza di lettura. Forse però 7hanksgivings for tbe Body di Traherne ci offre l'esempio più bello di poésie concrète del xvi secolo.38 In questa poesia gli elenchi sono metafore dell’esplorazione e della scoperta, il controllo della loro correlazione logica lineare è assicurato dalla collocazione di un singolo articolo, di una singola preposizione e parentesi graffa che dà ordine allo spazio e assicura che si esplori il corpo per mezzo delle parole, non come una successione di elementi ma come un tutto dinamico ed organico. In questo modo tutte le parti manifestano la cosa in sé e, per converso, la Parola è manifesta in ogni parola. L’allusione al Salmo 139.16 («nel tuo libro sono scritti tutti i miei membri») è pertinente non solo con questa parte della poesia di Traherne ma con tutta la sua tesi: *Ps.:1359.16.

*Enshrined in thy Libraries,

The Amazement of the Learned, The Admiration of Kings and Queens,

Are

The Joy of Angels; The Organs of my Soul, The Wonder of Cherubims.

Those blinder parts of refined Earth, Beneath my Skin; Are full of thy Depths,

For

Many thousand Uses, Hidden Operations, Unsearchable Offices.

But for the diviner Treasures wherewith thou hast endowed My Brains, My Heart, My Tongue,

Mine Eyes, Mine Ears, My Hands,

Queene, in “Studies in English Literature”, xVI, 1976, pp. 75-93; e, per l’abitudi-

ne persistente di leggere ad alta voce (e di ascoltare la lettura), si veda William Nelson, From ‘Listen, Lordings’ to ‘Dear Reader’, in “University of Toronto

Quarterly”, xvi, 1976-1977, pp. 110-124.

38 Sono oltremodo riconoscente al mio collega, dottor A.F. Bellette, per avermi fornito questo esempio.

51

Di Shakespeare e Congreve O what Praises are due unto thee, Who hast made me

A living Inhabitant Of the great World. And the Centre of it! A sphere of Sense, And a mine of Riches,

Which when Bodies are dissected fly away.5°

Dalla raffinatezza di questo esempio nel quale il libro, come parole della mente, crea, tramite forme spaziali, un'esperienza del corpo come spirito, potremmo passare alla semplice nozione del libro come carta stampata, pura mole tattile e di un certo peso; ne troviamo la forma estrema nel campione del piazzista che è solo mole. Chiarito questo punto, tuttavia, il fattore portabilità e la dimensione del carattere e del formato in relazione al prezzo e al grado di alfabetizzazione possono essere ben illustrati da un libro come 7be Pilgrim's Progress di Bunyan (1678). Nessuna edizione erudita di cui io sia a conoscenza ha ritenuto opportuno ri-presentare con un minimo di fedeltà la forma materiale di questo libro così come fu pubblicato la prima volta. Si trattava di un dodicesimo, stampato in caratteri romani in corpo 12, per una giustezza di

soli 14 em, o quadrati del corpo.. È il principio della riga breve di prosa, al quale si attengono anche oggi i giornali a grande tiratura come ausilio per i lettori meno colti. Così pure le note in testa al margine, di appendice al testo, come i sottotitoli in una colonna di giornale, assicurano che il lettore sprovveduto venga «edificato dal contenuto a margine: impartiscono la lezione e localizzano il testo biblico.'° Il corredo degli studi let39 *Salmo 139.16. *Custoditi nelle tue Biblioteche, / Sono / Lo Stupore dell’Erudito, / L'Ammirazione di Re e Regine, / La Gioia degli Angeli; / Gli Organi della mia Anima, / La Meraviglia dei Cherubini. / Queste parti più cieche della raffinata Terra, / Sotto la mia Pelle; / Sono colme delle tue Profondità, / Per / Molte migliaia di Usi, / Operazioni nascoste, / Uffici insondabili. / Ma per il Tesoro più divino per mezzo del quale tu hai concesso / Il mio Cervello, I miei Occhi, / Il mio Cuore, Le mie Orecchie, / La mia Lingua, Le mie Mani, / Oh quali Lodi ti sono dovute, / Tu che hai fatto di me / Un Abitante vivente / Dell’immenso Mondo. / E il Centro di esso! / Una sfera di Senso, / E una miniera di Ricchezze, / Che volano via quando i Corpi si disseccano (N.d.T.). 19 Un lavoro paragonabile, scritto da un editore esperto per un pubblico specifico è Crums of Comfort di Michael Sparkes, un libriccino di preghiere. Come suggerisce la dedica al lettore, il titolo e lo stile del libro sono un tutto unico, le dimensioni e la stampa sono studiate per una lettura facile e semplice! Pubblicato la prima volta intorno al 1623, ebbe almeno 42 edizioni.

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Tipografia e significato

terari e testuali moderni è soltanto zavorra se cancella queste caratteristiche della forma dell'originale così ovvie, permettendo che si allunghi la riga, che le note a margine si incuneino nel testo, che il formato e il peso del libro lo rendano inadatto ad essere tenuto in mano e in tasca. Per un autore serio, definire il proprio pubblico è un atto sociale e culturale, per l’editore forse è soprattutto un fattore commerciale. Ma le decisioni che essi prendono o che impongono l’uno all’altro, nello scegliere la carta, i caratteri tipografici, la disposizione del testo, le illustrazioni, le decorazioni e il tipografo, probabilmente non sono casuali. La tiratura e la velocità con cui un libro viene prodotto sono, in fondo, decisioni che attengono alla natura relativamente stabile o instabile del pubblico di lettori e/o acquirenti (coprendo l’intera gamma dalle gazzette ai classici). Nell’autore o editore desideroso di fare proseliti, idee relative al bene comune, sia esso politico, religioso o culturale, condizioneranno le decisioni sulla tiratura e il prezzo, così come la va-

lutazione del livello di alfabetismo e delle abitudini di lettura (ad alta voce?) determinarono la forma, la disposizione del testo e la struttura tipografica di 7be Pilgrim's Progress. Si attende con interesse la pubblicazione delle Lve// Lectures su Pope e le attività librarie del xvm secolo di David Foxon per una testimonianza che da allora in poi renderà centrali questi fattori per la critica testuale. Fortunatamente la ‘norma’ shakespeariana di ignorare i dettagli minuti della stampa (per lo meno nei testi dei drammi, se non delle poesie giovanili) inizia a svanire via via che si presta maggiore attenzione ad altri scrittori in altri generi letterari.'! Anche chi, come Herbert e Milton, non si è trovato irretito nella scomoda separazione fra teatro e stampa, deve essere tenuto in conto in una qualsiasi teoria editoriale generale che formuli ipotesi sulle intenzioni dell’autore e sulle pratiche delle imprese ti-

pografiche. Abbiamo già messo in risalto l'accuratezza della prima edizione di Buck di 7be Temple, ma le sue edizioni seguenti di questo autore (deceduto) sono ugualmente degne di nota per la «correzione attenta di qualsiasi imperfezione rimanente nell’interpunzione, nella spaziatura e nell'uso del corsivo» come pure per la sostituzione della ‘u’ consonantica con la ‘v’ e per la differenziazione coerente di ‘of e ‘off .42 41 È ironico che Shakespearian Punctuation di Percy Simpson (Oxford, 1911) dovesse ricercare le sottigliezze della interpunzione espressiva in quei testi a stampa che avevano meno probabilità di contenerle; tuttavia lo stesso esercizio

è risultato efficacissimo quando è stato applicato ai testi di Jonson. Per un esempio illuminante, si vedano i suoi commenti su Sejanus in Ben Jonson, a cura di

C.H. Herford e P. Simpson, 11 volumi, Oxford, 1925-1954, rv, pp. 338-344. 42 Works, a cura di Hutchinson, p. LXXVI. Un esempio francese di una certa im-

portanza (dal momento che Tonson ne regalò una copia a Congreve) è l’edi-

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Di Shakespeare e Congreve

Sia il concetto che la cura nel realizzarlo sono riconoscibili ad ogni passo verso il Tempio. Sebbene il suo esempio e quello di Milton non abbiano avuto un ruolo significativo nella teoria dell’edizione critica, dovremmo per lo meno ricordare i commenti a Paradise Lost di Helen Darbishire: «Poiché per [Milton] ogni suono e sillaba, ogni pausa e silenzio fra i suoni era importante, egli finì per usare grafia e interpunzione per trasmettere il suono, il movimento e il significato dei versi». Inoltre, sul modo minuzioso di Milton di indirizzare la reazione dei lettori, scrive:

«Nella sua arte Milton mirava alla perfezione e cercava di aiutare i lettori a leggere i versi come lui voleva che fossero letti».4 Quest'ultimo commento è centrale in tutto il mio discorso. Non parliamo necessariamente delle forme private autografe di uno scrittore, ma del fatto di dare forma ad ogni dettaglio delle proprie opere per una funzione pubblica. Per l’ultimo esempio di questa sezione adesso vorrei volgere ancora una volta l’attenzione alla traduzione dell’Ariosto di Sir John Harington (1591) e, in particolare, alla sua Avvertenza al lettore prima che legga questo poema (v. pag. 55). Come mi ha fatto osservare Simon Cauchi, è una dichiarazione, notevolmente ricca di informazioni, sulla gamma

di reazioni del lettore che Harington pensa di suscitare: «(poiché tutti coloro che forse leggeranno questo libro non hanno le stesse capacità) cercherò di spiegare in un modo più semplice di quello che si richiederebbe per gli eruditi». Harington spiega le diverse funzioni delle nozione di Corneille in-folio, stampata a Rouen nel 1664. I commenti introduttivi di Corneille sulle sue innovazioni ortografiche (le distinzioni di i, j, u, v) in relazione alla pronuncia e al significato, sono veramente pertinenti. La particolare cura nella stampa, si augura, renderà «un piccolo servizio alla nostra Lingua e al Pubblico». 43 The Poetical Works of John Milton, a cura di Helen Darbishire, London,

1958, rist. 1961, pp. ui, ix. John T. Shawcross, One aspect ofMilton's spelling: Idle final ‘E’, in “PMLA”, Lxvm, 1963, pp. 501-10, ha criticato seriamente; se non rifiutato del tutto, il presupposto espresso dalla Darbishire e da altri, che Mil-

ton usasse una ortografia enfatica. Tuttavia, uno studio della composizione di Paradise Lost potrebbe fornire nuove prove. Le osservazioni generali della Darbishire sono assolutamente giuste nel caso specifico dell’interpunzione di Milton, come ha dimostrato Mendele Treip in Milton's Punctuation (London, 1970). Alastair Fowler, sebbene rifiuti l'ortografia enfatica come una delle caratteristiche di Paradise Lost, è colpito dalle possibilità di una numerologia nel computo dei versi nel poema; naturalmente questo è di nuovo un aspetto connesso intimamente e deliberatamente

alla architettura dei ‘libri? separati, al li-

bro nel suo insieme che li contiene e alla formazione, da parte dell'autore, delle reazioni dei lettori. Si veda l'edizione di Fowler di Paradise Lost, London,

1971, pp. 23-24.

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Tipografia e significato

te a margine, dalla segnalazione di «similitudini felici e frasi cariche di significato o adagi» alla lettura selettiva delle varie storie «degne di una seconda lettura». Gli argomenti che precedono ogni libro non solo permettono al lettore «di ricordare meglio la storia» ma «di capire ancora meglio la figura». Le figure che precedono ogni libro «sono tutte incise nel rame e per la maggior parte dai migliori artisti che ci siano mai stati in questo paese da molti anni; ma non voglio elogiarle troppo perché ho dato io le direttive per la loro realizzazione». Esprime commenti su altri libri illustrati ma aggiunge, «se si eccettua un trattato approntato da maestro Broughton, un uomo profondo, l’anno scorso sulla Rivelazione, la maggior parte dei libri inglesi ha illustrazioni «intagliate nel legno e nessuna in metallo e, da questo punto di vista, inferiori a queste, per lo meno stando al vecchio adagio secondo cui maggiore è il costo, maggiore è il merito». Più avanti: L'uso della figura è evidente: (avendo letto tutto il libro) è possibile leggerlo (per così dire di nuovo) nella figura stessa. Va osservata inoltre una cosa che (forse) non tutti notano, e cioè la prospettiva di ogni figura. Perché le immagini degli uomini, le forme dei cavalli e simili sono ritratti più grandi in basso e più piccoli in alto come se osservassimo tutto ciò in una pianura: ciò che è più vicino sembra più grande e ciò che è più lontano appare più piccolo, che è l’arte per eccellenza della pittura.

La sua «tavola esatta e necessaria» colloca le persone, i luoghi, le cose e contemporaneamente, in virtù del suo metodo di indicizzazione, riassume gli episodi nei quali appaiono «i personaggi principali». Vengono anche descritte con cura le funzioni delle note relative a «da Morale, la Storia, la Allegoria e la Allusion®, con cui si chiude ogni canto.

Harington aggiunge una biografia di Ariosto, «Una breve sommaria allegoria», un elenco di «Storie principali [...] che si possono leggere separatamente, e una «Nota degli argomenti contenuti nell'intero volume». Quest'ultima aggiunge uno spazio fra «I primi xxII canti» e «Gli altri xx canti». Con ciò mette in evidenza la natura in crescendo, in quel punto, della pazzia di Orlando e in tal modo aiuta a comprendere perché Harington indicò al tipografo di lasciare «un foglio bianco» esattamente in quel punto della narrazione (in cui il lettore, come Orlando, potrebbe fermarsi a riflettere sulla pazzia?). Il punto più importante di tutto questo, tuttavia, sta nel modo in cui la Avvertenza al lettore prima che legga il poemalo guida a leggerlo in al-

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Di Shakespeare e Congreve

meno una delle tre modalità delia narrazione (tutto d’un fiato da cima a fondo, selettivamente, visivamente) e in ciascuna delle quattro modalità del senso (morale, storia, allegoria, allusione). Ciò mostra chiaramente

la natura intenzionale, pianificata con eleganza, del lavoro tipografico. Questo, a sua volta, assicura con fermezza e porta alla fruizione dei presupposti letterari e morali in base ai quali offre la sua «Prefazione o piuttosto, una breve apologia della poesia» sulla quale basa il motivo dell’intero lavoro. Greg, nel suo famoso articolo An Elizabethan Printer and his Copy, non fa menzione dell’ Avvertenza

al lettore di Harington.

Per ricapitolare: la distinzione di Greg fra varianti ‘sostanziali’ e ‘accidentali’ (basata sulla storia e accurata nell’uso che /ui ne fa) non offre nessuna base per una teoria generale, e i tentativi di usarla come tale riflettono quella mancanza di immaginazione storica che ha reso sterile la maggior parte del lavoro recente di bibliografia testuale. Il presupposto migliore è l'integrità del testo in tutti i suoi dettagli, compresa la forma del libro, con una estensione del significato di ‘errore’ che includa tutti i difetti. Quindi ogni enfasi sulla struttura integrata del testo è ben accolta, ma va estesa fino ad includere le forme non linguistiche del testo e deve ammettere le strutture più complesse implicite in ‘opera’ (l’edizione come fusione di versioni radicalmente diverse o di ‘testi’).4 Infine, dobbiamo estendere la nostra comprensione di quelle strutture definendo, con maggiore accuratezza storica, i comportamenti connessi al-

la lettura che esse ingenerarono; in particolare, dobbiamo mirare a una comprensione più completa delle decisioni storiche assunte da autori, tipografi-progettisti e artisti nel dispiegare i molti linguaggi visivi, e perfino tattili, della forma del libro per aiutare a orientare la ricezione da

parte dei loro lettori della lingua verbale del testo. ‘4 Il concetto di ‘opera’ riferito a quanto sopra (vedi nota 15) è trattato anche da Roland Barthes, ma, se lo comprendo correttamente, egli usa la parola ‘opera’ per l’item più specifico e la parola ‘testo’ per i suoi significati più estesi, mentre in inglese i termini sono usati in modo inverso. Così: *l'epera è un frammento di sostanza, che occupa una parte dello spazio di libri (in una biblioteca, per esempio), il Testo è un campo metodologico» e «In opposizione alla nozione tradizionale di Opera a lungo — e tutt'ora — intesa, per così dire, in modo newtoniano, adesso abbiamo l'esigenza di un oggetto nuovo, ottenuto spostando o capovolgendo le categorie precedenti. Quell’oggetto è il Testo. Si veda il suo saggio From

Work to Text, in Image-Music-Text,

tradu-

zione ed edizione a cura di Stephen Heath, London, 1977, pp. 155-164. Anche Jaques Schérer, in Le ‘Livre’ de Mallarmé, si occupa della relazione fra item discreti, occasionali per natura e circostanze, e l’opera o il libro come concezione metafisica, che trascende i limiti fisici del libro come artefatto (ma modellato dalle sue forme materiali). Per Mallarmé il libro era una qualità viva, evolutiva piuttosto che statica.

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Il

Ho accennato prima al fatto che le edizioni in-quarto dei drammi di Congreve seguono lo stereotipo del mercato librario del tardo xv secolo e riflettono la mancanza di qualsiasi comprensione relazionale fra scrittore (o compagnia teatrale), editore e stampatore, e che il modo sbrigativo di presentarli a stampa nasconde la struttura dei drammi. Nei cambiamenti compiuti da Congreve nel 1710 ci sono due particolari degni di attenzione. Il primo riguarda l’auto-censura di Congreve; il secondo l'adozione dello stile tipografico che ho già menzionato succintamente, ma, specialmente, l’uso della divisione in sce-

ne neoclassica. Per trattare ambedue gli aspetti dobbiamo lasciarci guidare da uno studio del contesto sociale, e in particolare della percezione che di quel contesto avevano Congreve e il suo editore-libraio. L'opinione che Congreve aveva dei suoi lettori, il modo in cui Tonson valutava il mercato, condizionato da valori morali ed estetici che stavano cambiando, determinarono le loro scelte relative al linguaggio, agli strumenti tipografici, alle competenze umane essenzia-

li per metterli in pratica nel modo più efficace. Congreve e Tonson erano concordi nella definizione e attuazione di un fine comune: evocare nei lettori, per mezzo degli artifici del libro, le migliori qualità dell’arte di Congreve come drammaturgo. Tratterò innanzitutto i cambiamenti nel linguaggio dovuti al procedimento di auto-censura, un caso che Zeller, visti i suoi principi, sarebbe impossibilitato a discutere. Di seguito esaminerò gli elementi non linguistici: raggruppamento delle scene e azione drammatica, la cui mediazione mi sembra che dipenda, in maniera abbastanza cruciale, da un uso raffinato della presentazione del testo sulla pagina. Sia che Congreve abbia agito per libera scelta, sia che, sebbene riluttante, abbia agito seguendo condizionamenti di natura sociale, possiamo in ogni caso iniziare ad osservare che le sue correzioni cancellano un numero così elevato di parole ed espressioni di tipo piuttosto volgare da togliere un bel po’ di vivacità alle prime due commedie, ridu-

cendone la verve in un aspetto dell’esperienza teatrale che era fondamentale per la commedia del tempo. In realtà, Congreve aveva iniziato a moderare il proprio linguaggio già dal 1694 con The Double Dealer, una commedia stampata da Tonson. Perciò fu sorpreso e amareggiato dalla pessima accoglienza che ricevette la commedia e scrisse una dedica di difesa nella quale confutava l’accusa che il suo linguaggio fosse ingiustificatamente scurrile:

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Di Shakespeare e Congreve

Ho udito alcuni mormorare, come se volessero accusare questa Commedia di Scurrilità e Sconcezza. Ma io dichiaro che ho avuto cura di evitarlo, e se ce ne trovano è opera loro, perché non ho voluto che fosse intesa in questa maniera.

Tuttavia, la commedia conteneva ancora alcune parole che, in seguito, ritenne più opportuno sopprimere. In realtà esistono almeno quattro motivi per questa auto-censura. Uno è, semplicemente, la crescente meticolosità di Congreve e il desi-

derio di lavorare con maggiore economia di mezzi per delineare personaggi tratteggiati in modo più delicato. Il secondo motivo riguarda la struttura stessa della commedia, una attenzione per la stabilità e la regolarità, nella quale un ideale letterario di proprietà si coniuga a un ideale sociale di ordine. È indubbio che 7be Double Dealer è in debito letterario diretto con Terenzio, e non sorprende trovare Congreve che mette in risalto la regolarità della commedia nella dedica: Confesso che ho progettato [...] di scrivere una vera Commedia regolare [...] ho ideato una Trama forte, perché era singola, e l'ho voluta tale per evitare confusione ed ero deciso a rispettare le tre Unità del Dramma, il che ho fatto, come si vede, con il massimo rigore.

Ciò che sta a cuore a Congreve è la forma della sua commedia, ma le intenzioni vanno ben oltre. Potremmo dire che l’unità di tono — una voce educata, o per lo meno politica — fosse un fattore concomitante alle altre tre unità. Vorrei mettere l'accento su entrambi gli aggettivi: educata e politica. Il primo è testimoniato dalla purezza di Love for Love (1695) e The Way of the World (1700). In quest'ultima soltanto due omissioni più tarde potrebbero essere espurgazioni. Quando vi elogia Terenzio come «lo Scrittore più corrette che esista» e «la Purezza del suo Stile, la Delicatezza delle sue Variazioni e la Proprietà dei suoi Personaggi», Congreve cerca deliberatamente e ottiene finezza e regolarità. Ma questa evoluzione era anche di natura politica, e ciò mi porta al terzo motivo che è anche il più ovvio: pesavano su di lui anche condizionamenti esterni. Il Lord Ciambellano ordinò, nel gennaio 1696, che tutti i drammi venissero autorizzati, e ancora, nel giugno 1697, che le espressioni impudiche venissero omesse nelle rappresentazioni. Ri-

spondendo, senza dubbio, agli orientamenti della Corte, Congreve dedicò la commedia Mourning Bride (1697) a Sua Altezza Reale la Principessa, con le parole:

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Tipografia e significato

un Dramma può essere così congegnato con Studio (nonostante la Pratica licenziosa del Teatro Moderno) da diventare un Intrattenimento innocente e non vano...

Si trattava di una mossa dal tatto delicato in difesa del Teatro. La regina Anna, poco dopo l'ascesa al trono, emise un proclama per d'Incoraggiamento della Devozione e della Virtù», «in particolare fra coloro che operano accanto alle nostre Reali Persone. Si tratta di una storia in gran parte nota, ma di importanza cruciale per il nostro tratta-

mento del testo di Congreve il quale deve aver finito per essere influenzato in modo personale da queste pressioni sociali. Nel dicembre 1704 era stato autorizzato, per ordine di Sua Maestà, a fondare assieme a Vanbrugh una nuòva compagnia teatrale, e una delle condizioni della licenza era che la compagnia venisse costituita «secondo un Regime e Regolamenti più severi di quelli abituali». Per ossequio alla Regina, in difesa dei suoi attori, nell'interesse di salvaguardare il suo stesso teatro dalla minaccia di chiusura e, senza dubbio, anche perché i suoi gusti erano diventati più raffinati con il passare degli anni, Congreve seguì il consiglio datogli da Nahum Tate che «tutti i Drammi (passibili di emendamenti) fossero emendati dagli Autori se ancora in Vita — e da Persone competenti ad Alterare ed emendare Quelli di Autori Deceduti...».45 Congreve però subiva anche una quarta, e assai diversa, forma di pressione. Mi riferisco al suo amico intimo, l’editore-libraio Jacob Tonson. Sappiamo che Congreve viveva a casa di Tonson nel 1695 e che probabilmente aveva iniziato a farlo dal 1693. È certo che dal 1694, con The Double Dealer, Tonson aveva iniziato ad assicurarsi il maggiore interesse

editoriale sulle opere di Congreve. Sappiamo anche che Tonson nel 1691 espurgò le poesie di Rochester. La quarta, Poetic Miscellany, pubblicata da Tonson nel 1694, non è scevra da espressioni licenziose, ma la quinta

e la sesta del 1704 e del 1709 mostrano emendamenti significativi. Dobbiamo anche tener conto della maggioranza Whig nel Parlamento della Regina Anna del 1708 e delle aspirazioni di Tonson a incarichi governativi nel periodo in cui i Works del 1710 venivano curati per la stampa. Ritengo che queste condizioni inquadrino le lezioni soppresse di Congreve in una categoria molto particolare di revisioni d’autore. In ef45 Joseph Wood Krutch, Comedy and Conscience after the Restoration, New

York, 1961, pp. 177-78, 186. Tutto il capitolo 7, The Reformation of Manners and the Stage, è oltremodo utile per stabilire il contesto nel quale agivano Congreve e Tonson. 46 ].M. Treadwell, Congreve, Tonson and Rowe's ‘Reconcilement’, in “Notes

and Queries”, giugno 1975, pp. 265-269.

Bed

Di Shakespeare e Congreve

fetti sono limitate a 7be Old Bachelore The Double Dealer, e appare chiaro che egli fu costretto a compiere molte di queste revisioni. Tuttavia il problema è complicato dalle prove che, perfino durante gli anni 990, i suoi gusti stavano cambiando. Non c'è modo di eludere il fatto che in questo caso stiamo studiando un comportamento umano del passato e che quel comportamento, nella sua interazione sensibile con il contesto sociale, ha conseguenze sul testo. Un curatore che si trova di fronte a una simile gamma di lezioni varianti non può deporre le armi. Naturalmente ogni variante va esaminata con cura in funzione di ciò che fa guadagnare e che fa perdere al testo, in termini di vitalità dei personaggi ed efficacia del linguaggio. Anche ogni modifica dell’azione scenica deve essere valutata in modo critico in base a ciò che essa acquista in economia o perde in espressività. Nell’interesse sia del suo autore che dei suoi lettori, il curatore de-

ve operarsi per presentare il dramma nella forma migliore e più completa, recuperando una lezione quando ritiene che Congreve l'abbia soppressa più per motivi meramente moralistici che per motivi lettera-

ri. Non si può ignorare il problema, come il Professor Zeller vorrebbe facessimo, prendendo le edizioni in-quarto come una versione e includendo le prime lezioni, oppure prendendo l’edizione del 1710 come una versione differente ed escludendole. La fusione dei testi è inevitabile. Però, il curatore è responsabile anche criticamente e storicamente soltanto nella misura in cui le cause delle lezioni varianti sono state spiegate, in questo caso, da quel peculiare complesso di modi di pensare e di comportarsi — personali, sociali e commerciali — prevalenti in Congreve e Tonson nel primo decennio del secolo xvi. Adesso affronterò gli elementi non linguistici: il raggruppamento delle scene e l’azione drammatica, che sono parti essenziali e costitutive del dramma. Come si potevano veicolare aspetti così elusivi per mezzo della forma del libro? Quali testimonianze abbiamo che Congreve, seguendo l'esempio di Ben Jonson del 1616, compì dei tentativi-di palesare la qualità delle sue opere, in quanto opere teatrali, quando ne curò l'edizione a stampa nel 1709-1710? La suddivisione in scene neoclassica ha davvero la funzione che le ho attribuito e rappresenta un tentativo deliberato e intelligente da parte di Congreve nei Works del 1710 di dare vita a un’edizione delle sue commedie tale che gli aspetti tipografici, la mera disposizione dello spazio, potessero veicolare l’azione e l'immagine sul palcoscenico (specialmente in forma scenica) per coloro i quali, come lettori, potevano solo ricrearla mentalmente? La sua curatela delle opere per la stampa migliora la nostra sensazione di teatralità? Lo stesso mercato librario possedeva la consapevolezza

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Tipografia e significato

raffinata della forma del libro, le abilità e le risorse per considerare significativi questi problemi? Lo sviluppo più notevole dell’attività libraria londinese alla fine del xvII secolo è il modo brillante con cui Jacob Tonson definisce e utilizza il mercato per le belles lettres negli anni 80 e ‘90. Tonson non avrebbe potuto scegliere un momento più favorevole per iniziare la propria at-

tività. La nascita dell'editore di pubblicazioni periodiche proprio in quel periodo, il nuovo ottimismo commerciale che seguì l'Accordo costituzionale del 1688, l’imminente abrogazione del Licensing Act,47 perfino il crescente riconoscimento del diritto d’autore, furono sviluppi che Tonson volse a proprio vantaggio. Fu il primo a servirsi del sistema delle sottoscrizioni per pubblicare e vendere testi della letteratura inglese, quando lo usò per il Paradise Lost del 1688. Fu Tonson che suggerì a Dryden di tradurre l’Eneidee fu lui che pubblicandola sostenne il maggiore poeta inglese vivente. Negli anni '90 Tonson strinse amicizie e assunse un modo di condurre gli affari che associava una carriera personale di successo a un servizio incalcolabile fornito alla letteratura inglese. In quegli anni, per lo meno a partire dal 1693, era in rapporti intimi con Congreve, se ne serviva come consulente legale per i suoi affari e lo ospitava nella sua casa. Ciò di cui Tonson non disponeva negli anni ’90 del Seicento era uno stampatore capace e disposto a entrare interamente in società con lui,

in grado di conferire ai suoi libri eccellenti qualità tecniche. Questa partecipazione si ebbe soltanto quando Tonson iniziò a servirsi di John Watts: i suoi primi frutti autentici furono lo Shakespeare di Rowe del 1709 e, con quel precedente teatrale assolutamente appropriato, i Works di Congreve agli inizi del 1710. In questi lavori le risorse e le convenzioni della stampa mostrano la consapevolezza del concetto di lettore e offrono l’opportunità di orientarne la ricezione secondo modalità che i testi manoscritti del tempo non avevano motivo di utilizzare. Una volta che un autore si trova in reciproca empatia con il proprio editore-libraio e con lo stampatore, come nel caso di Congreve, si può pianificare un libro in tutte le sue forme, con decisione e discernimento, per quanto attiene a costi, alla funzione e alla progettazione grafica. Contrariamente a quanto accadeva per le pubblicazioni teatrali all’epoca di Shakespeare, ci troviamo di fronte a una forma nuo47 Si tratta della legge sul privilegio che sottoponeva a controllo e a censura preventiva tutti i libri pubblicati e tutte le opere scritte per essere rappresenta-

te, legge che fu abrogata nel 1695 (N.d.T). 48 Si veda John Barnard, Dryden, Tonson, and Subscriptions for the 1697 Virgil, in “Papers of the Bibliographical Society of America”, xm, 1963, pp. 129-151.

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Di Shakespeare e Congreve

va e intima di lavoro di gruppo fra autore o curatore, editore e tipografo. È possibile indicare la portata di quel momento ricordando che l’Act for the Encouragement of Learning by vesting the copies of Printed Books in the Author? entrò in vigore nell’aprile del 1710, il mese in cui furono pubblicati i Works di Congreve. Non esiste alcun archetipo palese della stampa minuziosa dei Works del 1710, o dell’ulteriore edizione del 1719-1720 in dodicesimo. Mi ri-

ferisco all'uso che Congreve fa delle maiuscole lapidarie spaziate e del maiuscoletto per le titolazioni e per i gruppi dei personaggi, delle maiuscole corsive centrate per i nomi dei personaggi nell’edizione del 1719, delle testate incise, dei capilettera ornamentali e di elementi decorativi per separare le scene. Per i motivi che ho addotto, le normali edizioni inglesi in-quarto di opere teatrali, comprese quelle di Congreve, per tutto il secolo non mostrano nessuna delle raffinatezze introdotte da Congreve nei suoi Works. Si è tentati di accettare, sullo sfondo di questa situazione di fatto, né le sue innovazioni siano dovute a imitazione diretta della prassi tipografica francese; questa influenza è innegabile, ma non va sottovalutata la forza della tradizione neoclassica inglese che trae origine dai Works di Ben Jonson del 1616, una serie ininterrotta per tutto il xvi secolo di testi drammatici dei classici, di versioni a stampa dei masques inglesi e, verso la fine del secolo, di testi di opere liriche serie rappresentate a Londra. Questi esempi riflettono una tradizione mista, non puramente francese o

puramente classica. Edizioni di Terenzio, Plauto, Corneille, Racine e Molière, come pure di drammaturghi inglesi, che Congreve aveva nella propria biblioteca; presi nel loro insieme, mostrano una gamma così ampia di combinazioni da impedire ogni formulazione di regole precise. Il testo stesso, però, riflette una certa francesizzazione nella revisione (si os-

servi il cambiamento da «Lodgings» ad «Apartment» nelle figure 1A e 1B), e i precedenti francesi devono

aver svolto un ruolo decisivo nell’in-

fluenzare le opinioni sulla tipografia sia di Congreve che di Tonson, come pure nel determinare il tipo di risorse che Tonson mise a disposizione di Watts intorno al 1707. Le edizioni in-quarto dei classici Cambridge, con le incisioni di Simon Gribelin che Tonson commissionò nel 1699, e

che Congreve sottoscrisse, sono significative sia come testimonianza di una nuova moda nella tipografia inglese sia per il modo in cui riflettono, con tatto, i precedenti francesi e olandesi.

Certamente, entro il 1700 Tonson stava iniziando a pensare all’euro19 Si tratta del decreto con il quale venne stabilito il diritto d'autore (N.d.T.)).

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Tipografia e significato

pea per lo stile della sua produzione libraria. Prese atto delle risorse a sua disposizione, prese la decisione motivata culturalmente che erano inadeguate, compì azioni selettive nell'acquistarne di nuove e intraprese un programma di progettazione grafica del libro allo scopo deliberato di rendere il design dei suoi libri una dichiarazione significativa della loro importanza culturale e una raffinata articolazione del loro significato letterario. Fu nell’anno 1700 che lui, Congreve e Charles Mein si recarono assieme nei Paesi Bassi.50

I tre volumi e il formato in-ottavo dei Works di Congreve erano molto più una manifestazione diretta di un nuovo sviluppo nella prassi delle attività librarie che di vaste influenze culturali. Molto semplicemente: le dimensioni del foglio di stampa aumentarono. Tanto per cominciare i volumi in-folio diventarono più grandi e un in-quarto della fine del secolo non era molto più piccolo di un in-folio di Jonson precedente di circa ottanta anni. Servendosi di un formato in-quarto grande, invece che di un in-folio, per i classici Cambridge del 1698-1702, Tonson iniziò a riportare le cose nella giusta prospettiva; e adottando formati più piccoli gli editori come Tonson trovarono conveniente introdurre edizioni in più volumi.51 Nel 1697 le Letters di Rochester invece di uscire in un volume grande furono pubblicate in due volumi più piccoli. Lo spartiacque furono gli anni 1700-1701; nel 1700 uscì per l’ultima volta l’in-folio dei Works di Cowley e nel 1701 uscirono i Plays di Dryden. La volta seguente (1707) Cowley apparve in due volumi in-ottavo. Si era imposto un modello. Nel 1708 il Virgi/ di Dryden uscì in tre volumi in-ottavo. Se prendiamo in considerazione solamente i drammaturghi inglesi, troviamo una sequenza interessante: per Shakespeare non un quinto in-folio ma l'edizione pubblicata da Rowe (1709) inottavo, in più volumi illustrati, i tre volumi in-ottavo di Congreve (1710), Beaumont e Fletcher in sette volumi in-ottavo (1712), Otway in

due volumi (1712), Jonson in sei volumi (1716), Dryden in sei volumi (1717), Vanbrugh in due volumi ‘tascabili’ (1719-1720), di nuovo Congreve in due volumi (1719-1720) e Shadwell in quattro (1720). Gli autori inglesi erano di nuovo nelle mani e nelle tasche dei loro lettori. La serie di autori inglesi di Tonson è ragguardevole secondo qualsiasi standard; all’elenco di drammaturghi or ora segnalati vanno aggiun50 William Congreve: Letters and Documents, a cura di John C. Hodges, Lon-

don, 1964, pp. 13-18. 51 Graham Pollard, Notes on the Size of the Sheet, in “The Library”, quarta serie, xx1I, 1941-1942, pp. 105-137; Id., Changes in the Style of Bookbinding, in

“The Library”, quinta serie, x1, 1956, pp. 71-94.

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Di Shakespeare e Congreve

ti Milton, Prior, Spenser, Pope, Gay, Addison, Cibber, tutti pubblicati in testi curati nuovamente e con serietà nel caso degli autori deceduti e con la collaborazione dell’autore nel caso di quelli viventi. Tutto ciò, inoltre, eseguito in poco più di un decennio dallo Shakespeare di Rowe: un esempio pratico per i curatori moderni di edizioni critiche; riguardo al formato, una lezione di progettazione ad un tempo elegante e stringata, di grande leggibilità; e infine una lezione pratica anche per gli editori di oggi. La ceAA dovrebbe tenerne conto. Le edizioni di Tonson indicano la sua reazione intelligente agli sviluppi del mercato riguardo al formato dei libri; indipendentemente dal suo debito verso l'Europa per quanto concerne gli strumenti e lo stile di stampa, Tonson conferì nuova dignità e diffusione non solo ai classici ma anche alla letteratura della sua nazione. Per questi motivi Tonson era lo strumento perfetto, rafforzato dall’amicizia, per dare una forma pubblica alle intenzioni autorali di Congreve. Per parte sua questi aveva finalmente a disposizione per i suoi

Works del 1710 una gamma di strumenti e un senso della propria identità come poeta e drammaturgo che gli permise di dare forma al libro in quanto espressione di sé e delle sue creazioni. I Works sono in tre volumi in-ottavo, e il frontespizio, nella colonna centrale, stabilisce emblematicamente la realizzazione artistica globale: The MOURNING BRIDE. The Way of the WORLD. The Judgment of PARIS. SEMELE.

Tragedy. Comedy. Masque. Opera.

Vi è un’originalità attorno a questo momento che riscontriamo nel modo in cui le forme materiali del libro trasmettono il senso di auto-stima di Congreve, le sue opinioni sulla letteratura, la sua dedizione — come autore neo-classico — all'arte drammaturgica di Plauto e-Terenzio. Allo stesso tempo illustra anche, assieme allo Shakespeare di Rowe, una fase del tutto nuova nell'economia delle attività librarie e nelle aspirazioni culturali e sociali della figura centrale in esso, Tonson. Passiamo adesso alla questione della suddivisione neoclassica in scene, perché il punto essenziale

è che adesso, tramite John Watts, lo

stampatore di Tonson, Congreve può fare uso di un insieme più ampio di materiale decorativo per mezzo del quale intensificare la sua conce-

zione della scena teatrale, e mettere in risalto il raggruppamento scenico dei personaggi nelle loro interrelazioni sociali prestabilite, non le loro entrate ed uscite di scena. In questo modo egli esprime un'attitudi-

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Tipografia e significato

ne sociale inscindibile dai suoi principi neoclassici per la costruzione di un dramma. Voglio dire: l’importanza del gruppo stabile, l'equilibrio conquistato a fatica, non gli imbarazzanti cambiamenti. La dedizione di Congreve alla struttura neoclassica si riscontra nei suoi drammi fin dagli inizi. Possiamo farla risalire all’influenza di opere come La pratique du théatre di Hédelin, Abbé d’Aubignac, della quale Congreve possedeva sia l'edizione francese che quella inglese, ai commenti di Madame Dacier a Terenzio, o più semplicemente all’ammirazione e imitazione di Terenzio da parte dello stesso Congreve, che è ciò che in realtà implicano le sue prefazioni a 7be Double Dealere a The Way of the World. Un punto della teoria neoclassica che Congreve rispetta con varietà sapiente e coerenza quasi assoluta è la liaison des scénes. Quasi sempre, all’interno del dialogo, vi è qualche accenno a un imminente arrivo o a una uscita di scena, di modo che la messa in scena è compenetrata nella struttura del dramma in maniera tale da far

apparire pografia ta la sua qualcosa le scene

le didascalie semplicistiche e senza dubbio superflue. La tiantica celava tutto questo, la nuova tipografia fa rifulgere tutarte. Queste perle preziose si trovano ovunque. Si rivelano in di elementare come il gioco di parole su beart per collegare terza e quarta dell’Atto 1 in 7be Old Bachelor:

Sharp. And here comes one who swears as heartily he hates all the Sex. EKEEEEEEREEE

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SCENE IV. [To them) HARTWELL. Bell. WHo Hartwell! Ay, but he knows better things — How....°%

. da questo si passa alla forma elaborata e stupendamente ricercata di The Way of the World quando Mrs. Fainall chiude una scena con «Ecco la tua Signora». Nuova SCENA, e Millamant fa il suo ingresso a piene vele alle parole di Mirabell: «Eccola che arriva a vele spiegate, con il ventaglio aperto e Pennoncelli in mostra, e uno Sciame di Stolti per Scialuppa...», cioè Witwood e Mincing. Alla fine della scena seguente, Millamant si congeda da Mirabell con le parole «e quando hai finito di pensare a quello, pensa a me. Con52 Sbarp. Ecco che viene uno che giura / Con tutto il cuore di odiare tutte le Donne. / scena Iv / [A Joro] HARTwELL. / Bell. cui Hartwell! Si, chi se non lui /

conosce cose migliori -Come... (N.d.T.)

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Di Shakespeare e Congreve

frontate, se volete, la presentazione tipografica di questa parte nell’edizione in-quarto (p. 70, ill. 8A) con quella nei Works (8B). Nella seconda la nuova scena esprime chiaramente lo stupore solitario di Mirabell mentre è da sola sul palcoscenico, la sua voce giunge a Millamant che si sta allontanando attraverso la divisione tipografica che lascia immaginare lo spazio scenico. «Ho qualche cos'altro — Andato [da sola] Pensare a te». Così come il verso di Millamant che esce mette in risalto la loro separazione, qui siamo di fronte a un trattamento superbo della tecnica del cambio di scena in senso neoclassico. C'è continuità ed eleganza, sono convinto che il lettore venga aiutato a capire quell’esperienza teatrale grazie al fatto che è isolata tipograficamente. Per contro, l’entrata di Mirabell, più avanti, e l’abilità non solo di Con-

greve ma del suo personaggio, di collegare le divisioni — Atto rv, scena Vv — è preparata in modo accurato. Le ill. 9A e 9C (p. 71) mostrano le versioni delle edizioni in-quarto del 1700 e in-dodicesimo del 1719. Nella scena precedente il povero Sir Wilful può mettere in mostra solo la sua rozzezza quando Millamant lo invita a completare la sua citazione da un poesia di Sir John Suckling. La poesia rivela che, se desidera essere amante, deve mostrare di possedere «Potenza e Arte». Sir Wilful viene disonorato e quando, mortificato, esce, Millamant lo congeda con una risata e un ultimo verso per completare la scena: Come Febo cantava il non meno amoroso

Giovane.

La scena nuova, e l’abbellimento tipografico, acuisce abilmente la nostra sensazione di un uomo nuovo e di un potere nuovo. Entra Mi-

rabell a completare il distico rimato e anche l'accoppiamento con Millamant, perché è lui quello con il potere e l’arte di dare completezza all’amore di Millamant — Come Dafne lei, altrettanto Bella

e Modesta.

È uno splendido intersecarsi, sulla linea di divisione di scena, di Millamant con Febo e di Mirabell con Dafne. In Congreve questa dedizione veniva da lontano, ed era fondamentale nella sua idea dell’arte scenica. Se realmente concepì le scene — e abbiamo prove per crederlo — nella forma in cui le scrisse, alla stessa maniera forse le divise e numerò perfino nei manoscritti; ed allora le prime versioni in-quarto devono essere di fatto considerate meno fedeli alle sue intenzioni proprio in relazione a questo punto. Di fatto si può dimostrare che l’imposizione trasandata del vecchio stile tipografico fuo-

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Tipografia e significato

ri moda e comunque inappropriato, in uso per i testi teatrali ordinari,

oscurava significativamente le intenzioni di Congreve. In Amendments of Collier del 1698 — cioè 12 anni prima dei Works del 1710 — Congreve cita 7be Old Bachelor, la sua prima commedia, in un modo che dimostra che contava le scene alla maniera neoclassica. Localizza una citazione come «Dalla Scena 3. del 4° Atto» e un’altra in «Atto 5. Scena 2»,

mentre nell’edizione in-quarto gli atti quarto e quinto hanno entrambi una sola scena. In una citazione da Love for Love Congreve dice: Se il Lettore si pregia di consultare il Quarto Atto di quella Commedia, vi troverà una Scena, nella quale Valentine si finge pazzo.

Ancora una volta nessuna

‘scena’ simile compare distinta nell’in-

quarto. Queste citazioni concordano perfettamente con un’altra prova,

perfino anteriore, nella dedica di Love for Love nel 1695: Ecco alcuni Versi a Stampa [...] che sono stati omessi a Teatro, e in particolare, un'intera Scena nel Terzo Atto... Quella in questione è un'intera scena neoclassica, quasi di sicuro At-

to IV, scena xi come appare a stampa nei Works del 1710.53 Non è distinta nell'edizione in-quarto. Quindi è chiaro che Congreve, come drammaturgo in attività e a metà della carriera, quindici anni prima che venissero stampati i Works del 1710, organizzava scenicamente le sue commedie avendo in mente questa struttura delle scene e nessun'altra. Devo anche ammettere, tuttavia, che in altri casi le scene di Congreve ci pongono di fronte a des liaisons dangereuses, per cui richiamo la vostra attenzione su alcune conseguenze meno auspicabili derivanti dall'adozione della divisione in scene neoclassica. Che sia giusto o sbagliato — ancora una volta, il curatore non può sottrarsi all’obbligo di compiere scelte critiche — ogni caso dimostra la straordinaria ricchezza di significato degli elementi non linguistici della disposizione del testo.5 5 Antony Gosse, The Omitted Scene in Congreve's ‘Love for Love’, in “Modern Philology”, Lx, 1963, pp. 40-42, propone che la scena in questione sia Atto Iv, scena xi. 54 Sono fortemente indebitato, per i commenti relativi a questa parte del saggio, con il dottor Peter Holland di Trinity Hall, Cambridge. Mi ha fornito numerosi esempi dei tentativi falliti di Congreve di render conto adeguatamente di alcune azioni teatrali quando formalizzava le sue divisioni di scena per i Works; il suo studio delle relazioni tra il testo e la rappresentazione aiuterebbero a chiarire molti aspetti ancora oscuri della questione.

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Di Shakespeare e Congreve

In 1A per esempio, la versione in-quarto di 7be Old Bachelor, l’azione di Belinda che chiama Betty, l’entrata di Betty e il motivo della sua domanda sono chiari. In 1B invece, Congreve la include nell’elenco in testa alla scena sottolineandone la presenza per tutta la scena; cancella la chiamata di Belinda insieme alla didascalia «Chiama», ma facendo

questo rende privo di senso e praticamente ridondante il verso «Sua Signoria ha chiamato, Madama».

In 2B il verso di Vainlove «Bene, vi la-

scio con il vostro Ingegnere richiede «Esce» dato in 1A oppure una scena nuova.

In 3A un’azione scenica comica è perfettamente a tempo

poiché il potenziale adultero fugge a nascondersi proprio prima che entri il marito, mentre in Works (3B) Congreve fa capire che Bellmour non si nasconde fino al compimento della scena e quindi non si ha nessun indugio prima che Laetitia apra la porta a Fondlewife. In 4A le parole di Heartwell «Lasciami» e l’uscita del giovane, come indicato, lasciano Heartwell al suo soliloquio. Ma Works (4B) stranamente omette le parole e la didascalia, in tal modo implicando che il giovane rimanga sul palcoscenico nonostante la raccomandazione di Congreve, nella prefazione di The Double Dealer, secondo cui, per amore della verosimiglianza, un attore in soliloquio deve ritenere di essere da solo sulla scena: «Perché, se presuppone che ci sia qualcuno nelle vicinanze, è oltremodo mostruoso e ridicolo». In 5B l’omissione della didasca-

lia «Esce di corsa» lascia Lady Touchwood sul palcoscenico durante le osservazioni su di lei di Lord Touchwood. Ciò altera completamente la nostra interpretazione dei due personaggi: se rimane presente subisce

una pesante umiliazione e suo marito si gode una 1710 Congreve omette dalla didascalia anche la della Scena» che per noi è una chiara indicazione dell'attenzione del pubblico da un lato all’altro giunge a conclusione una parte della trama e ne

vittoria su di lei. Nel frase «dall’altro lato di uno spostamento nel momento in cui inizia un’altra. In GA,

Love for Love, si ha una breve pausa fra l'uscita di scena impetuosa, ci-

vettuola e invitante di Miss Prue e l'uscita ferma e decisa di Tattle che la insegue. La scena è magnificamente regolata a tempo, in un modo

che non risalta in Works (6B). Per finire, in 7A, le parole e l’uscita di Sir Sampson, così come le leggiamo, lo inducono a precipitarsi fuori in uno stato di ira furibonda anche se quasi inespressa a parole. In 7B il personaggio parla meno, sembra solo che rifletta con afflizione sulla propria follia, e rimane sul palcoscenico: se davvero Congreve vuole che sia così, ciò implica un cambiamento sostanziale del personaggio e una variazione significativa della struttura etica di tutto il dramma. Nella sua prima opera in assoluto, Incognita, Congreve esprime una

forte dedizione personale all'esperienza drammatica. «dl Dramma»

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scri-

Tipografia e significato

ve, «porta in vita i Concetti della Mente. Minerva cammina sul Palco-

scenico dinanzi a noi, e siamo più consapevoli della presenza dell’Intelletto quando è proferito viva voce». Poiché tutte le Tradizioni devono cedere il posto al Dramma, e dal momento che non si ha possibilità alcuna di dare alla Scrittura o alla Ripetizione di un Racconto la vita che ha nell’Azione, ho deciso per bellezza diversa, di imitare la Scrittura Drammatica, vale a dire nella

Progettazione, Strutturazione ed Esito della Trama. Congreve rivendica una certa originalità per avere inserito nel ro-

manzo alcune qualità del dramma e aggiunge: «Non l'ho rilevato prima d’ora in un romanzò». Congreve, come drammaturgo, non solo mostra nei suoi drammi il proprio senso del progetto grafico nell’uso del linguaggio e nella padronanza della struttura, ma con la sua sensibilità raffinata nel modulare linguaggio, personaggi, movimento, stile tipografico, rende la lettura un’esperienza teatrale. Anche Ben Jonson, prima di lui, aveva tentato di risolvere il problema che tutti gli autori, i tipografi che progettano libri e i curatori di testi teatrali si trovano di fronte: come far rivivere sulla pagina bidimensionale l’azione scenica tridimensionale. Questa preoccupazione di esprimere la specificità della rappresentazione teatrale risalta molto decisamente nell’edizione curata da Jonson dei suoi masques: Tale era l’eccelsa rappresentazione che (oltre alla pompa e alla magnificenza, o ciò che potremmo chiamare addobbi di queste Rappresentazioni) da sola (anche in assenza di tutto il resto) aveva il potere di sorprendere e deliziare, e di rapire gli spettatori. Né mancava cosa alcuna che potesse conferire agli arredi o all’'ambientazione, sia nella ricchezza o nella stranezza dei costumi, che nella delicatezza delle danze, nel-

la magnificenza delle scene o nel divino incanto della musica. L'unico rimpianto era che non durava per sempre o (una volta passato) non si poteva far rivivere almeno in parte con la fantasia, tanto meno con una descrizione, lo spirito che la pervadeva durante il suo svolgimento. Tuttavia, per non privare ulteriormente il Lettore delle sue aspettative, mi sono deciso a conferire alle opere quei brevi cenni che forse lasciano intravedere un’eco di ciò che era...95 55 Hymenaei, versi 567-582; Ben Jonson, a cura di Herford e Simpson, vI, p. 229. Il mio collega, il dottor Peter Walls, ha richiamato la mia attenzione sul si-

gnificato del tempo verbale presente per ciò che ci dice della rappresentazione in alcuni testi dei masques di Jonson.

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