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Italian Pages [1670] Year 2020
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Concorso CNR 110 Funzionari di amministrazione Materie giuridiche per la prova preselettiva e le prove scritte
Indice Accedi ai servizi riservati Concorso CNR 110 Funzionari di amministrazione Copyright Premessa
Libro I
Diritto amministrativo Capitolo 1
La Pubblica Amministrazione e il diritto
amministrativo 1.1 L’amministrazione pubblica 1.1.1
La
nozione
amministrazione
e
di di
Pubblica diritto
amministrativo 1.1.2 La Pubblica Amministrazione nella Costituzione 1.2 Le fonti del diritto amministrativo 1.2.1 I regolamenti 1.2.2 Tipologie di regolamenti 1.2.3 Il procedimento di formazione dei regolamenti 1.3 Le altre fonti del diritto amministrativo 1.3.1 Gli atti amministrativi generali 1.3.2 Le ordinanze di necessità e urgenza
1.3.3 Gli atti interni e le circolari amministrative 1.3.4 La prassi amministrativa 1.4 L’attività amministrativa 1.4.1 Caratteri generali 1.4.2 Atti e provvedimenti amministrativi 1.4.3 Gli atti politici 1.4.4 Gli atti di alta amministrazione Capitolo 2
Le situazioni giuridiche soggettive
2.1 Cenni introduttivi 2.2 Il diritto soggettivo 2.3 L’interesse legittimo 2.4 Interessi pretensivi e interessi oppositivi 2.5 Interessi diffusi e interessi collettivi 2.6
Gli
interessi
semplici
(o
amministrativamente protetti) e gli interessi di fatto Capitolo 3
L’organizzazione amministrativa
3.1 Nozioni di ente, organo e ufficio 3.2 L’organo amministrativo 3.2.1
Definizioni
e
caratteristiche
dell’organo amministrativo 3.2.2 Le diverse tipologie di organi 3.2.3 La competenza 3.2.4 L’incompetenza 3.2.5 Il funzionario di fatto 3.2.6 La prorogatio
3.3 Il decentramento amministrativo 3.3.1 Le disposizioni costituzionali 3.3.2
Le
possibili
forme
di
decentramento 3.4 Gli enti pubblici 3.4.1 Profili generali 3.4.2 Le principali tipologie di enti pubblici 3.4.3
Gli
enti
privati
di
interesse
pubblico 3.4.4 I rapporti tra gli enti 3.5 L’ organismo di diritto pubblico e l’impresa pubblica 3.6 L’articolazione burocratica dello Stato 3.6.1 Il ruolo del Governo 3.6.2 La funzione del Presidente del Consiglio dei Ministri 3.6.3 I Ministeri 3.6.4 Il Ministro 3.6.5 Le Agenzie 3.7 Le Autorità indipendenti 3.7.1
Indipendenza,
neutralità
e
imparzialità delle Autorità 3.7.2 Le Autorità attualmente operanti 3.8 L’Amministrazione statale periferica e le Amministrazioni statali non territoriali 3.9 Gli enti locali
Capitolo
4
L’attività
della
Pubblica
Amministrazione 4.1
I
principi
generali
dell’attività
amministrativa 4.1.1 Il principio di legalità 4.1.2 I principi di buon andamento e imparzialità 4.1.3 Il principio di ragionevolezza 4.1.4 Il principio di sussidiarietà 4.1.5 Il principio di proporzionalità 4.1.6
Il
principio
di
pubblicità
e
trasparenza 4.1.7 Il principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini contro la Pubblica Amministrazione 4.1.8 Il principio di responsabilità 4.2
Discrezionalità
amministrativa,
discrezionalità tecnica e merito 4.2.1 La discrezionalità amministrativa 4.2.2 La discrezionalità tecnica 4.2.3 Il merito dell’azione amministrativa 4.2.4 Il sindacato giurisdizionale delle scelte
discrezionali
della
Pubblica
Amministrazione 4.3 L’attività vincolata Capitolo 5 al digitale
I documenti amministrativi: dal cartaceo
5.1 Il Testo Unico sulla documentazione amministrativa (D.P.R. 445/2000): finalità e ambito applicativo 5.2 Il certificato quale atto amministrativo 5.2.1 Nozione 5.2.2 Tipologie 5.2.3 Validità 5.3 Le autocertificazioni 5.3.1 Funzione, tipologie e validità 5.3.2 La dichiarazione sostitutiva di certificazioni 5.3.3 La dichiarazione sostitutiva di atti di notorietà 5.3.4 L’obbligo della sottoscrizione 5.3.5 I controlli sulle autocertificazioni 5.3.6 La violazione dei doveri d’ufficio 5.4 L’acquisizione diretta dei documenti 5.5 La “decertificazione” nel rapporto tra P.A. e cittadini 5.6 L’autentica di copie 5.7 La legalizzazione di firme e di documenti 5.8 La dematerializzazione dei documenti amministrativi 5.9 L’informatizzazione e la digitalizzazione dell’attività amministrativa 5.9.1 Il quadro normativo di riferimento 5.9.2 La Carta della cittadinanza digitale 5.9.3 La firma digitale
5.9.4 Il documento informatico Capitolo 6
Atti e provvedimenti amministrativi
6.1 I concetti di atto e di provvedimento amministrativo 6.2 Atti di amministrazione attiva, consultiva e di controllo 6.3 Il provvedimento amministrativo 6.3.1 Le caratteristiche 6.3.2 Gli elementi essenziali 6.3.3 Gli elementi accidentali 6.3.4 Struttura, contenuto e fine 6.3.5 La motivazione 6.3.6 L’efficacia 6.4 Le autorizzazioni 6.4.1 L’autorizzazione e le figure affini 6.4.2 La segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) 6.5 La concessione 6.6 I provvedimenti ablatori Capitolo 7
Il procedimento amministrativo
7.1 Il procedimento amministrativo 7.2 I principi del procedimento 7.3 Le fasi del procedimento 7.4 Il responsabile del procedimento 7.4.1 Il ruolo del responsabile 7.4.2 I compiti del responsabile
7.5
La
comunicazione
di
avvio
del
procedimento 7.6 Il preavviso di rigetto 7.7 L’obbligo di conclusione esplicita del procedimento 7.8 Il silenzio della Pubblica Amministrazione 7.8.1 Concetti generali 7.8.2 Il silenzio assenso 7.8.3 Il silenzio procedimentale 7.8.4 Il silenzio diniego 7.8.5
Il
silenzio
I
rimedi
inadempimento
(o
rifiuto) 7.8.6
avverso
il
silenzio
amministrativo 7.9 La conferenza di servizi 7.9.1 Le tipologie di conferenze di servizi 7.9.2 Le modalità di svolgimento della conferenza di servizi 7.10 Gli accordi procedimentali (o integrativi) e gli accordi sostitutivi 7.11 Gli accordi fra Pubbliche Amministrazioni 7.12 Gli accordi di programma Capitolo 8
L’accesso ai documenti amministrativi
8.1 Il diritto di accesso: nozione, natura giuridica e oggetto 8.1.1 Nozione 8.1.2 Natura giuridica
8.1.3 Il documento amministrativo come oggetto del diritto di accesso 8.2 Le parti nel procedimento di accesso 8.2.1 Gli interessati 8.2.2 I controinteressati 8.2.3 Le amministrazioni pubbliche e gli altri soggetti obbligati a consentire l’accesso 8.3 I limiti al diritto di accesso 8.4 Modalità di esercizio del diritto di accesso 8.4.1 Accesso formale e informale 8.4.2 Attività istruttoria 8.4.3 Accoglimento, rifiuto e differimento della richiesta 8.5 La tutela del diritto di accesso 8.5.1
Il
ricorso
al
Tribunale
Amministrativo Regionale 8.5.2
La
Commissione
statale
per
l’accesso ai documenti amministrativi 8.5.3 Il ricorso al Difensore civico (tutela giustiziale) 8.6 L’accesso civico 8.6.1 Profili generali 8.6.2
Limiti
all’accesso
civico
generalizzato 8.6.3 Differenza tra diritto di accesso e l’accesso civico 8.6.4 Modalità di esercizio del diritto
Capitolo 9
La patologia dell’atto amministrativo
9.1 Gli stati patologici e l’invalidità dell’atto 9.1.1 Gli stati patologici dell’atto 9.1.2 La disciplina dell’invalidità 9.2 La nullità dell’atto 9.2.1 Il regime giuridico della nullità 9.2.2 La carenza di potere 9.2.3 Nullità e inesistenza 9.3 L’annullabilità dell’atto 9.3.1 I vizi di legittimità 9.3.2 L’incompetenza relativa 9.3.3 L’eccesso di potere 9.3.4 La violazione di legge e la mera irregolarità 9.4 L’istituto dell’autotutela 9.5 L’autotutela decisoria 9.5.1 Gli atti di ritiro 9.5.2 Gli atti di convalescenza 9.5.3 Gli atti di conservazione Capitolo
10
I
contratti
della
Pubblica
Amministrazione 10.1 L’attività di diritto privato della Pubblica Amministrazione 10.1.1
L’autonomia
negoziale
delle
Amministrazioni Pubbliche 10.1.2 Contratti di diritto comune, diritto speciale e ad oggetto pubblico
10.1.3 Contratti attivi e passivi 10.2 La legislazione nazionale ed europea dei contratti pubblici 10.2.1 Le fonti della contrattualistica pubblica 10.2.2 Il Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/216) 10.2.3 La distinzione tra appalti e concessioni 10.3 La formazione del contratto e l’obbligo dell’evidenza pubblica 10.3.1 Inquadramento dell’istituto 10.3.2 L’evidenza pubblica negli appalti 10.4 La deliberazione (o determinazione) a contrarre 10.5 La scelta del contraente 10.5.1 Le tradizionali procedure di gara 10.5.2 Le procedure innovative 10.5.3 Gli strumenti dell’e-procurement 10.5.4 I criteri di aggiudicazione della gara 10.6 L’aggiudicazione, l’approvazione e la stipula del contratto 10.7 L’esecuzione del contratto 10.8 La collaborazione tra pubblico e privato 10.8.1 Il partenariato pubblico-privato (PPP) 10.8.2 Gli strumenti del partenariato
10.9 Il contenzioso 10.9.1
Gli
strumenti
deflattivi
del
contenzioso e le procedure stragiudiziali 10.9.2 Le procedure giudiziali Capitolo 11
I beni pubblici e l’espropriazione per
pubblica utilità 11.1 Definizione 11.2 I beni demaniali 11.3 I beni patrimoniali indisponibili 11.4 I beni patrimoniali disponibili 11.5 L’uso dei beni pubblici 11.6 I beni privati e la potestà ablatoria dell’amministrazione pubblica 11.7 L’espropriazione per pubblica utilità 11.7.1 Ambito applicativo 11.7.2 I beni oggetto di esproprio 11.7.3 I soggetti 11.7.4 La dichiarazione di pubblica utilità 11.7.5 L’indennità di espropriazione 11.7.6 La retrocessione del bene 11.8 La cessione volontaria 11.9 L’occupazione legittima e l’occupazione senza titolo 11.9.1 L’occupazione legittima 11.9.2 L’occupazione senza titolo 11.9.3
L’acquisizione
sanante
e
il
procedimento espropriativo semplificato
11.10 Le requisizioni Capitolo
12
Controlli
e
responsabilità
nella
Pubblica Amministrazione 12.1 I controlli pubblici 12.2 La responsabilità per lesione di interessi legittimi 12.3 Gli elementi costitutivi dell’illecito della Pubblica Amministrazione 12.4
La
responsabilità
della
Pubblica
Amministrazione per lesione di diritti soggettivi 12.4.1 Responsabilità cd. aquiliana o extracontrattuale 12.4.2 Responsabilità contrattuale 12.4.3 Responsabilità precontrattuale 12.5 Ulteriori ipotesi di responsabilità della Pubblica Amministrazione 12.5.1 La responsabilità derivante da atto lecito 12.5.2 Il danno da ritardo 12.5.3 Il danno da disturbo 12.6 Le tecniche risarcitorie Capitolo 13
Il sistema delle tutele
13.1 La tutela dei diritti e degli interessi 13.2 I ricorsi amministrativi 13.2.1 Tipologie 13.2.2 La definitività dell’atto 13.2.3 Profili procedurali
13.3
La
tutela
in
sede
giurisdizionale
amministrativa 13.3.1
Il
sistema
di
giurisdizione
amministrativa 13.3.2
Il
Codice
del
processo
amministrativo e gli organi di giustizia amministrativa 13.3.3 La giurisdizione del giudice amministrativo 13.3.4 Profili formali 13.3.5 La sentenza 13.3.6 Le impugnazioni 13.3.7 La class action nei confronti delle Amministrazioni Pubbliche 13.4 La giurisdizione del giudice ordinario 13.5 Le giurisdizioni amministrative speciali
Libro II
Diritto civile con particolare riferimento alle obbligazioni ed ai contratti Capitolo 1
Il rapporto giuridico e le situazioni
giuridiche soggettive 1.1 Diritto pubblico e diritto privato 1.2
Il
codice
civile
e
la
legislazione
complementare 1.3 Il rapporto giuridico 1.4 Le situazioni giuridiche soggettive 1.5 Situazioni giuridiche attive
1.5.1 I diritti soggettivi 1.5.2 Acquisto e successione nel diritto soggettivo 1.5.3 Perdita ed estinzione del diritto soggettivo 1.5.4 Altre situazioni giuridiche attive 1.6 Situazioni giuridiche passive 1.7 L’influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi 1.8 La tutela dei diritti 1.8.1 La pubblicità dei fatti giuridici 1.8.2 La tutela giurisdizionale dei diritti 1.8.3 La prova dei fatti giuridici Capitolo 2
I soggetti di diritto
2.1 La persona fisica 2.2 La capacità giuridica 2.3 La capacità di agire 2.4 L’incapacità legale 2.5 L’incapacità naturale 2.6 Parziale incapacità di agire 2.7 Istituti di protezione degli incapaci 2.7.1 La responsabilità genitoriale 2.7.2 La tutela 2.7.3 L’assistenza 2.7.4 L’amministrazione di sostegno 2.8 Cessazione della persona fisica 2.8.1 La scomparsa e l’assenza
2.8.2
La
dichiarazione
di
morte
presunta 2.9 Le persone giuridiche 2.10
Classificazioni
delle
organizzazioni
collettive 2.11 Le persone giuridiche private 2.11.1 Le associazioni 2.11.2 Le fondazioni 2.11.3 Differenze tra associazioni e fondazioni 2.11.4 Le associazioni non riconosciute 2.12 I comitati 2.13 Il rapporto organico 2.14 L’estinzione delle persone giuridiche Capitolo 3
La famiglia
3.1 La nozione giuridica di famiglia 3.2 La riforma del diritto di famiglia 3.3
I
rapporti
familiari
riconosciuti
dall’ordinamento giuridico 3.4 L’obbligo alimentare 3.5 La famiglia di fatto e le convivenze dopo la L. 76/216 3.6 Il matrimonio 3.6.1 Requisiti, impedimenti e cause di invalidità del matrimonio 3.7 Gli effetti del matrimonio 3.8 I rapporti patrimoniali
3.8.1 Il regime legale: la comunione dei beni e la sua amministrazione 3.8.2
I
beni
che
non
cadono
in
comunione 3.8.3
Gli
obblighi
gravanti
sulla
comunione e le obbligazioni contratte dai coniugi 3.8.4 Lo scioglimento della comunione 3.9 Le convenzioni matrimoniali e i regimi convenzionali 3.10 Il fondo patrimoniale 3.11 L’impresa familiare e il patto di famiglia 3.12 La separazione personale dei coniugi 3.13 La cessazione del rapporto matrimoniale 3.13.1 Lo scioglimento del matrimonio per morte del coniuge 3.13.2 Il divorzio 3.13.3 La convenzione di negoziazione assistita 3.13.4 Separazione, divorzio e modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi all’ufficiale dello stato civile 3.14
Affidamento
dei
figli
in
caso
di
separazione o divorzio 3.15 Affidamento dei figli e sindrome di alienazione parentale 3.16 Le unioni civili
3.16.1 La disciplina della L. 76/216 3.16.2 Cause impeditive 3.16.3 Diritti e doveri delle parti e regime patrimoniale 3.16.4 Scioglimento dell’unione 3.17 La filiazione 3.17.1 Concetti introduttivi 3.17.2 I figli nati nel matrimonio 3.17.3 I figli nati fuori del matrimonio 3.17.4
La
filiazione
nella
coppia
omosessuale: cenni 3.18 La responsabilità genitoriale 3.19 Diritti e doveri dei figli 3.20 Gli effetti della filiazione 3.21 L’adozione e l’affidamento del minore Capitolo 4
Le successioni e le donazioni
4.1 La successione a causa di morte 4.1.1 Il procedimento successorio 4.1.2 Eredità e legato 4.1.3 Il divieto dei patti successori 4.1.4 L’eredità prima dell’acquisto 4.1.5 L’eredità giacente 4.2 La capacità di succedere e l’indegnità 4.3 I momenti della successione 4.3.1 L’acquisto dell’eredità 4.3.2 L’accettazione dell’eredità 4.3.3 La petizione ereditaria 4.3.4 La rinunzia all’eredità
4.4 La successione dei legittimari 4.4.1 Disciplina dell’istituto 4.4.2 Singole categorie di legittimari e loro quote 4.4.3 La lesione di legittima e l’azione di riduzione 4.4.4 Legato in sostituzione di legittima 4.4.5 Legato in conto di legittima 4.5 La successione legittima 4.6 La successione testamentaria 4.6.1 Caratteristiche dell’istituto 4.6.2 La capacità di disporre per testamento 4.6.3 La forma del testamento 4.6.4
L’invalidità
del
testamento:
annullabilità e nullità 4.7 La divisione ereditaria 4.7.1 La comunione ereditaria 4.7.2 I debiti e i crediti ereditari 4.7.3 La divisione dell’eredità 4.7.4 Forme e modalità della divisione 4.7.5 La collazione 4.7.6 Rimedi contro la divisione: nullità, annullabilità e rescissione 4.8 La donazione e gli atti di liberalità 4.8.1 Definizioni introduttive 4.8.2 Gli elementi del contratto di donazione
4.8.3 La revocazione della donazione Capitolo 5
I beni e i diritti reali
5.1 Gli oggetti del diritto: i beni 5.1.1 Beni immobili e beni mobili 5.1.2 Ulteriori distinzioni tra i beni 5.2 I diritti sui beni: i diritti reali in generale 5.3 La proprietà 5.3.1 I limiti al diritto di proprietà 5.3.2 I modi di acquisto della proprietà 5.3.3 Le azioni a tutela della proprietà 5.3.4 La comunione e il condominio 5.4 I diritti reali su cosa altrui 5.4.1 Generalità 5.4.2 L’usufrutto, l’uso e l’abitazione 5.4.3 La superficie e la proprietà superficiaria 5.4.4 L’enfiteusi 5.4.5 Le servitù prediali 5.5 Il possesso e l’usucapione 5.5.1 Il possesso: nozione, fondamento e principi 5.5.2 La regola del “possesso vale titolo” in materia di beni mobili 5.5.3 Le azioni a tutela del possesso 5.5.4 Le azioni di nunciazione 5.5.5 L’usucapione
Capitolo 6
Il rapporto obbligatorio: struttura e
vicende dell’obbligazione 6.1
Il
rapporto
obbligatorio:
nozione
ed
elementi 6.2 Classificazione delle obbligazioni 6.2.1 Le obbligazioni soggettivamente complesse 6.2.2 Obbligazioni civili e naturali 6.2.3
Obbligazioni
cumulative,
alternative e facoltative 6.2.4 Obbligazioni indivisibili e divisibili. Obbligazioni generiche e specifiche 6.2.5 Obbligazioni pecuniarie 6.3 Le fonti delle obbligazioni 6.3.1 Il contratto 6.3.2 Il fatto illecito 6.3.3 Atti o fatti idonei a produrre un’obbligazione 6.4 L’adempimento 6.5 La mora del creditore 6.6 Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento 6.6.1 Modi satisfattori: compensazione e confuzione 6.6.2 Modi di estinzione non satisfattori: impossibilità sopravvenuta, novazione, remissione del debito
6.7 Le modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio 6.7.1 Generalità 6.7.2
Modificazioni
nel
lato
attivo:
cessione del credito e surrogazione 6.7.3 Modificazioni del lato passivo: delegazione, espromissione e accollo Capitolo 7
L’inadempimento dell’obbligazione e la
responsabilità patrimoniale 7.1 L’inadempimento 7.2 La mora del debitore 7.3
Il
risarcimento
del
danno
da
inadempimento 7.4 La clausola penale e la caparra 7.5
La
responsabilità
patrimoniale
e
le
garanzie del credito 7.5.1 La garanzia patrimoniale generica 7.5.2 I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale 7.5.3 Parità di trattamento e cause legittime di prelazione 7.5.4 I privilegi 7.5.5 I diritti reali di granzia: il pegno e l’ipoteca 7.5.6
Le
fideiussione Capitolo 8
Il contratto
garanzie
personali:
la
8.1 I fatti, gli atti giuridici, il negozio 8.2 La nozione di contratto e l’autonomia privata 8.3 Gli elementi essenziali del contratto 8.3.1 Introduzione 8.3.2 L’accordo e la simulazione 8.3.3
I
vizi
della
volontà:
errore,
violenza morale e dolo 8.3.4 La causa 8.3.5 L’oggetto 8.3.6 La forma 8.4 Gli elementi accidentali del contratto 8.4.1 La condizione 8.4.2 Il termine 8.4.3 Il modo (o onere) 8.5 La rappresentanza 8.5.1 Disciplina generale 8.5.2 Capacità, vizi della volontà e stati soggettivi rilevanti 8.6 La formazione del contratto 8.6.1 Proposta, accettazione e accordo 8.6.2 Il contratto formato mediante esecuzione 8.6.3 L’offerta al pubblico 8.6.4 Il contratto per adesione 8.7
Le
trattative
e
precontrattuale 8.8 Il contratto preliminare
la
responsabilità
8.9 Gli effetti del contratto in relazione alle parti 8.10 La relatività del contratto 8.11 La cessione del contratto Capitolo 9
La patologia del contratto e il suo
scioglimento 9.1 L’invalidità del contratto 9.2 La nullità 9.3 L’annullabilità 9.4 La rescissione 9.5 Lo scioglimento 9.5.1 La risoluzione per inadempimento 9.5.2 La risoluzione per impossibilità sopravvenuta 9.5.3 La risoluzione per eccessiva onerosità Capitolo 10
I principali contratti tipici
10.1 La compravendita 10.1.1 Disciplina generale 10.1.2 La vendita obbligatoria 10.1.3 La compravendita con patti speciali 10.2 La locazione 10.3 Il comodato 10.4 Il mutuo 10.5 L’assicurazione 10.6 Il mandato
10.7 L’agenzia 10.8 La mediazione
Libro III
Normativa in materia di rapporto di lavoro pubblico Capitolo 1
La disciplina generale e l’instaurazione
del rapporto di lavoro 1.1 Il rapporto di lavoro pubblico 1.1.1 Caratteristiche generali 1.1.2 La privatizzazione 1.2 Il sistema delle fonti 1.2.1 Le fonti pubblicistiche 1.2.2 La disciplina costituzionale 1.2.3 La disciplina legislativa 1.2.4 La disciplina applicabile agli enti locali 1.2.5 I livelli di contrattazione 1.2.6 Il CCNL 19 aprile 2018 del comparto Istruzione e ricerca 1.2.7 Il riparto fra i vari livelli di contrattazione 1.3 L’instaurazione del rapporto di lavoro e le modalità di reclutamento 1.3.1 Il Piano dei fabbisogni 1.3.2 Le procedure di assunzione 1.4 Il lavoro dipendente e l’utilizzo del lavoro flessibile
1.5 Inquadramento del personale 1.5.1 Il sistema di classificazione del personale
negli
enti
di
ricerca
e
sperimentazione 1.5.2 Le progressioni orizzontali e verticali 1.5.3 Le posizioni organizzative Capitolo 2
Diritti, doveri e mobilità dei dipendenti
2.1 Lo svolgimento del rapporto di lavoro 2.1.1 I diritti patrimoniali dei dipendenti 2.1.2
I
diritti
non
patrimoniali
dei
dipendenti 2.1.3 Doveri dei dipendenti 2.1.4 Le responsabilità 2.2 Mutamenti nel rapporto di lavoro 2.2.1 Nozione di mobilità 2.2.2
La
mobilità
volontaria
(o
individuale) 2.2.3
La
mobilità
obbligatoria
(individuale o collettiva) 2.2.4
L’equiparazione
dei
livelli
di
inquadramento 2.2.5 Il comando, il distacco e il collocamento fuori ruolo Capitolo 3
Il sistema di gestione delle performance
3.1 Il Sistema di misurazione e di valutazione 3.2 Le strutture e i soggetti coinvolti
3.2.1 Quadro d’insieme 3.2.2 Gli organismi indipendenti di valutazione (OIV) 3.2.3 Le funzioni del Dipartimento della funzione pubblica (DFP) 3.3 Il ciclo della performance 3.4 Gli obiettivi di performance 3.5 Il Piano triennale della performance e la Relazione annuale 3.6 Il trattamento accessorio collegato alla performance Capitolo 4
Il sistema sanzionatorio e la cessazione
del rapporto di lavoro 4.1
Le
sanzioni
disciplinari
senza
licenziamento 4.1.1 I criteri di determinazione delle sanzioni 4.1.2 Le sanzioni applicabili 4.1.3 Determinazione concordata della sanzione 4.2 La cessazione del rapporto di lavoro e il licenziamento 4.2.1 Cause generali di cessazione del rapporto di lavoro 4.2.2 Il licenziamento con preavviso 4.2.3 Il licenziamento senza preavviso 4.3 Il procedimento disciplinare 4.3.1 Titolarità del potere disciplinare
4.3.2 Fasi del procedimento disciplinare dinanzi all’UPD 4.3.3
Il
procedimento
disciplinare
accelerato 4.3.4
Il
rapporto
fra
procedimento
disciplinare e procedimento penale 4.4 La sospensione cautelare del dipendente Capitolo 5
Le figure dirigenziali
5.1 I dirigenti 5.2 La separazione governo-amministrazione 5.3 L’inconferibilità degli incarichi dirigenziali 5.4 La rotazione del personale dirigenziale 5.5 Gli obblighi di trasparenza
Libro IV
Normativa in materia di trattamento dei dati personali Capitolo 1
Il trattamento dei dati personali
1.1 Il diritto alla riservatezza 1.1.1
La
privacy
come
diritto
costituzionalmente tutelato e limite alla trasparenza 1.1.2 La protezione dei dati personali: dal Codice della privacy al regolamento europeo 1.2 L’oggetto e la finalità della disciplina del Codice della privacy
1.3
Ambito
oggettivo
e
territoriale
di
applicazione 1.4 Le principali definizioni in materia 1.5 I principi generali del trattamento dei dati 1.6 Il consenso al trattamento dei dati personali 1.7 Il trattamento dei dati personali 1.7.1 Il trattamento dei dati connessi ad un compito di interesse pubblico 1.7.2
Il
trattamento
di
categorie
particolari di dati personali 1.7.3 Il trattamento dei dati genetici, biometrici e relativi alla salute 1.7.4 Il trattamento dei dati relativi a condanne penali e reati 1.7.5 Il trattamento dei dati in ambito pubblico 1.8 Le informazioni all’interessato 1.9 I diritti dell’interessato titolare dei dati 1.9.1 Le modalità per l’esercizio dei diritti dell’interessato 1.9.2 I diritti dell’interessato 1.9.3
Le
limitazioni
ai
diritti
dell’interessato 1.10 I soggetti interessati al trattamento 1.10.1 Il titolare del trattamento 1.10.2 Il responsabile del trattamento ed il suo rapporto con il titolare
1.10.3 Il Responsabile della protezione dei dati personali 1.10.4 I contitolari del trattamento 1.11 Gli strumenti di valutazione e analisi del rischio: le misure di accountability di titolari e responsabili 1.12 Ulteriori adempimenti da parte di titolari e responsabili del trattamento 1.12.1
Il
Registro
dell’attività
di
trattamento 1.12.2 Le misure di sicurezza dei dati personali Capitolo 2
Le attività di controllo
2.1 Le Autorità di controllo 2.1.1 Le previsioni del regolamento 2.1.2 Il Garante per la protezione dei dati personali 2.2 Le tutela amministrativa e giurisdizionale 2.2.1 I mezzi di ricorso degli interessati 2.2.2 Il reclamo
Libro V
Normativa in materia di trasparenza e anticorruzione Capitolo 1
Gli obblighi di trasparenza e le misure
per prevenire la corruzione 1.1 Quadro normativo e definizione del concetto di corruzione
1.2
Soggetti
e
ruoli
della
strategia
di
prevenzione 1.2.1
Soggetti
della
strategia
di
prevenzione a livello nazionale 1.2.2
Soggetti
della
strategia
di
prevenzione a livello decentrato 1.3
L’Autorità
Nazionale
Anticorruzione
(ANAC): composizione e attribuzioni 1.4 Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) 1.5 Gli strumenti operativi per la lotta alla corruzione 1.5.1 Il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 1.5.2 Il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (PTPCT) 1.6 La trasparenza dell’attività amministrativa 1.6.1 La trasparenza in funzione di prevenzione della corruzione 1.6.2 Ambito soggettivo del decreto trasparenza 1.6.3 Ambito oggettivo: gli obblighi di pubblicazione per finalità di trasparenza 1.6.4 La qualità dei dati, decorrenza e durata dell’obbligo di pubblicazione 1.6.5
Trasparenza
dell’attività
di
pianificazione e governo del territorio e
del Servizio Sanitario Nazionale 1.6.6 Gli obblighi di pubblicazione: vigilanza e procedimento sanzionatorio 1.7 Il sistema di vigilanza delle norme anticorruzione 1.8
Il
Segretario
Responsabile
per
dell’ente la
locale
quale
prevenzione
della
corruzione e della trasparenza Capitolo 2
La gestione delle risorse umane e le
misure anticorruzione 2.1
Le
risorse
umane
e
le
misure
di
prevenzione della corruzione 2.2 Il Codice di comportamento 2.2.1 Finalità e destinatari 2.2.2 Obblighi a carico dei dipendenti 2.3 La segnalazione di illeciti e la tutela del dipendente (il cosiddetto whistleblower) 2.3.1 La gestione della segnalazione e l’obbligo di anonimato 2.3.2
Le
misure
di
tutela
del
whistleblower 2.4 Le ulteriori misure di contrasto alla corruzione nel pubblico impiego 2.4.1
La
rotazione
del
personale
addetto alle aree a rischio di corruzione 2.4.2 L’astensione in caso di conflitto di interesse
2.4.3
Formazione
in
tema
di
anticorruzione 2.5 Le misure di contrasto alla corruzione nelle varie fasi del rapporto di lavoro 2.5.1 Trasparenza e anticorruzione nei concorsi pubblici e nelle procedure di selezione 2.5.2
Il
dovere
di
esclusività
del
dipendente: la disciplina in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (art. 53 D.Lgs. 165/2001) 2.5.3 Le disposizioni sull’inconferibilità degli incarichi e sulle incompatibilità (D.Lgs. 39/213) 2.5.4 La cessazione del rapporto di lavoro
e
il
divieto
di
pantouflage
(cosiddette revolving doors) 2.6 L’affidamento di incarichi di collaborazione autonoma a personale esterno
Libro VI
Contabilità degli Enti Pubblici non Economici Capitolo 1
Le fonti normative della contabilità
pubblica 1.1 Oggetto di studio della contabilità pubblica 1.2 La contabilità pubblica e la Costituzione
1.2.1 L’articolo 81 e il principio del pareggio di bilancio 1.2.2 L’art. 97 e l’equilibrio di bilancio delle pubbliche amministrazioni 1.2.3 Gli articoli 100 e 103 e la Corte dei conti 1.2.4 Gli enti territoriali: l’articolo 119 1.3 Le principali norme in materia di contabilità pubblica 1.3.1 La legge 196/2009 di riforma della contabilità e finanza pubblica 1.3.2
Altre
norme
rilevanti
per
il
processo di bilancio dello Stato 1.3.3 I vincoli europei: il Patto di stabilità e crescita, il “fiscal compact” 1.4 Gli enti soggetti alle norme di contabilità pubblica 1.5 Altre fonti normative per gli enti pubblici 1.6 I bilanci pubblici 1.7 I principi del bilancio 1.7.1 Principio dell’annualità 1.7.2 Principio dell’integrità 1.7.3 Principio dell’universalità 1.7.4 Principio dell’unità 1.7.5 I principi di veridicità e pubblicità 1.7.6 Il pareggio di bilancio 1.7.7
Principio
finanziaria
e
della della
competenza competenza
economica 1.7.8 Altri principi e postulati dei bilanci pubblici 1.7.9 I Principi contabili internazionali per il settore pubblico: gli IPSAS Capitolo 2
La manovra di bilancio
2.1 Il processo di bilancio 2.2 Il Documento di economia e finanza (DEF) 2.2.1 Il Programma di Stabilità (prima sezione del DEF) 2.2.2 La seconda sezione del DEF 2.2.3 Il Programma nazionale di riforma (terza sezione del DEF) 2.3 La manovra di finanza pubblica 2.3.1 La prima sezione del bilancio di previsione 2.3.2 La seconda sezione del bilancio di previsione 2.3.3 Il disegno di legge di bilancio: dalla
circolare
del
MEF
alla
presentazione alle Camere 2.3.4 La struttura della seconda sezione e le unità di voto parlamentare 2.3.5 Il quadro generale riassuntivo 2.4 La manovra di finanza pubblica in Parlamento 2.5 Il bilancio di assestamento
Capitolo 3
L’esecuzione del bilancio
3.1 La gestione delle entrate 3.1.1 L’accertamento 3.1.2 La riscossione 3.1.3 Il versamento 3.2 La gestione delle spese 3.2.1 L’impegno 3.2.2 La liquidazione 3.2.3 L’ordinazione 3.2.4 Il pagamento 3.3 La gestione di tesoreria 3.4 I residui 3.5 Variazioni del bilancio e ricorso ai fondi di riserva Capitolo 4
Il rendiconto generale dello Stato
4.1 Le funzioni 4.2 Struttura 4.2.1 Il Conto del bilancio 4.2.2 Il Conto generale del patrimonio 4.3 Il giudizio di parificazione e l’approvazione parlamentare Capitolo 5
La responsabilità amministrativa e
contabile 5.1 La responsabilità in genere 5.2 La responsabilità civile 5.3 La responsabilità amministrativa
5.4 La responsabilità contabile e il giudizio di conto 5.5 Il giudizio di responsabilità Capitolo 6
Il sistema dei controlli
6.1 Definizione di attività di controllo 6.2 I controlli interni 6.2.1
Il
controllo
di
regolarità
amministrativa e contabile 6.2.2 Il controllo di gestione 6.2.3 La valutazione della dirigenza 6.2.4 L’attività di valutazione e controllo strategico 6.3 La Ragioneria Generale dello Stato 6.3.1 Il controllo preventivo degli uffici di ragioneria 6.3.2 Il controllo successivo 6.4 I controlli esterni: la Corte dei Conti 6.4.1 Il controllo preventivo di legittimità 6.4.2
Il
controllo
successivo
sulla
gestione 6.4.3 Il controllo sugli enti sovvenzionati 6.4.4 Il controllo finanziario e contabile nei confronti di Regioni e Autonomie locali Capitolo 7
L’ordinamento contabile degli enti
pubblici istituzionali
7.1 Le amministrazioni pubbliche: definizione e disciplina contabile 7.2 Il D.P.R. 97/2003 7.2.1 Il bilancio previsionale e gli altri documenti di programmazione 7.2.2 Il rendiconto generale 7.3 L’armonizzazione contabile: il D.Lgs. 91 del 211 7.3.1 Ambito di applicazione 7.3.2
Principi
contabili
generali
e
applicati 7.3.3
Sperimentazione
dell’avvicinamento
tra
finanziaria
e
contabilità
contabilità economico-
patrimoniale 7.3.4 Il piano dei conti integrato 7.3.5 Articolazione del bilancio per missioni e programmi 7.3.6 Le Amministrazioni pubbliche in regime di contabilità civilistica 7.3.7 Il piano di budget
Libro VII
Normativa fiscale e tributaria Capitolo 1
Il diritto tributario
1.1 La definizione di tributo 1.2 La classificazione dei tributi 1.2.1 Imposta
1.2.2 Tassa 1.2.3 Contributi 1.2.4 Monopoli fiscali 1.3 Evasione, elusione e risparmio d’imposta 1.3.1 Evasione fiscale 1.3.2 Elusione fiscale 1.3.3 Risparmio d’imposta Capitolo 2
Le fonti del diritto tributario
2.1 Le fonti di produzione del diritto tributario 2.2 La Costituzione e le leggi costituzionali 2.2.1 La riserva di legge in materia tributaria 2.3 Le fonti primarie: leggi ordinarie e atti aventi forza di legge 2.3.1
Lo
Statuto
dei
diritti
del
contribuente 2.3.2 I decreti legge 2.3.3 I decreti legislativi 2.3.4 Il divieto di referendum abrogativo in materia tributaria 2.4
Le
fonti
secondarie
dell’ordinamento
nazionale 2.4.1 Regolamenti governativi 2.4.2
Regolamenti
ministeriali
ed
interministeriali 2.4.3 Provvedimenti dei direttori delle Agenzie fiscali
2.5 La ripartizione della potestà legislativa tributaria tra lo Stato e le autonomie territoriali 2.5.1 La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni 2.5.2 La potestà legislativa in materia di tributi degli enti locali 2.6 La potestà regolamentare delle Regioni e degli enti locali 2.7 Le fonti dell’ordinamento europeo 2.8 Le convenzioni internazionali 2.9 L’efficacia delle norme tributarie nel tempo 2.9.1 Entrata in vigore delle norme tributarie 2.9.2 Criterio cronologico 2.9.3 Il principio di irretroattività delle norme tributarie 2.10 L’interpretazione delle norme tributarie 2.10.1
Interpretazione
dell’Amministrazione finanziaria 2.10.2 L’interpretazione analogica del diritto tributario Capitolo 3
I principi costituzionali
3.1 I tributi nella Costituzione 3.2 Il principio della capacità contributiva (art. 53, c.1) 3.2.1 Definizione e fattori costitutivi di capacità contributiva
3.2.2
Applicabilità
del
principio
di
capacità contributiva alle tasse 3.2.3
L’effettività
della
capacità
contributiva 3.2.4
Attualità
della
capacità
contributiva 3.2.5
Capacità
contributiva
e
uguaglianza sostanziale 3.3 Il principio di progressività (art. 53, c.2) Capitolo 4
La fattispecie tributaria
4.1 La fattispecie tributaria: elementi costitutivi ed effetti 4.2 Il presupposto d’imposta 4.2.1 Imposte dirette e indirette 4.2.2 Imposte istantanee e periodiche 4.2.3 Imposte generali e speciali 4.2.4 Il restringimento e l’ampliamento del presupposto d’imposta 4.3 La quantificazione del tributo 4.3.1 Base imponibile 4.3.2 Tasso 4.3.3 Aliquota marginale e aliquota media 4.4 L’obbligazione tributaria Capitolo 5
I soggetti passivi
5.1 La soggettività passiva tributaria 5.1.1 Il domicilio fiscale
5.2 La solidarietà passiva tributaria 5.3 Gli effetti della solidarietà tributaria 5.3.1
Notifica
dell’avviso
di
accertamento 5.3.2
Altri
effetti
della
solidarietà
tributaria 5.4 La sostituzione d’imposta 5.4.1 Obblighi del sostituto d’imposta 5.4.2 La sostituzione a titolo d’imposta 5.4.3 La sostituzione a titolo di acconto 5.5 La traslazione 5.6 L’accollo dell’imposta 5.7 La responsabilità solidale degli eredi Capitolo 6
La dichiarazione tributaria
6.1 La dichiarazione tributaria 6.2
Natura
giuridica
ed
effetti
della
dichiarazione 6.3 La dichiarazione dei redditi 6.3.1 La dichiarazione dei redditi delle persone fisiche 6.3.2 La dichiarazione dei redditi delle società di persone 6.3.3 La dichiarazione dei redditi dei soggetti IRES 6.3.4 Obblighi di conservazione ed esibizione 6.3.5 I requisiti formali, modalità e termini di presentazione
6.4 La rettifica delle dichiarazioni 6.5 Visto di conformità, asseverazione e certificazione tributaria 6.5.1 Visto di conformità 6.5.2 Asseverazione 6.5.3 Certificazione tributaria Capitolo 7
L’attività istruttoria dell’Amministrazione
finanziaria 7.1
La
struttura
dell’Amministrazione
finanziaria 7.1.1 Ministero dell’Economia e delle Finanze 7.1.2 Agenzie fiscali 7.1.3 Guardia di Finanza 7.1.4 Garante del contribuente 7.2 Il modello di attuazione dei tributi 7.3 Il procedimento tributario 7.3.1 L’autotutela 7.4 Il diritto di interpello 7.5 L’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria e l’Anagrafe tributaria 7.6 Il controllo formale delle dichiarazioni 7.6.1 Liquidazione 7.6.2 Controllo formale 7.6.3 Iscrizione a ruolo 7.6.4 Definizione in via breve 7.7 L’attività di controllo sostanziale
7.7.1 Le richieste di informazioni e documenti 7.7.2 Accessi, ispezioni, verificazioni e ricerche 7.8 Diritti e doveri del contribuente sottoposto a verifiche fiscali Capitolo 8
L’accertamento tributario
8.1 L’avviso di accertamento 8.2 Il contenuto dell’avviso di accertamento 8.2.1 Disposizioni dello Statuto del contribuente 8.2.2 La motivazione 8.3 Esecutività degli avvisi di accertamento 8.4 La notificazione 8.5 Le patologie dell’avviso di accertamento 8.5.1 Nullità 8.5.2 Annullabilità e irregolarità 8.5.3 Divieto di doppia imposizione 8.6 Il termine per l’accertamento 8.7 Le diverse tipologie di accertamento 8.8 L’accertamento analitico 8.9 L’accertamento sintetico nei confronti delle persone fisiche 8.10 L’accertamento nei confronti di imprese e professionisti 8.10.1 contabile
L’accertamento
analitico-
8.10.2
L’accertamento
analitico-
induttivo 8.10.3 Gli indici sintetici di affidabilità fiscale 8.10.4
L’accertamento
induttivo-
extracontabile 8.11 L’accertamento d’ufficio 8.12 L’accertamento parziale e l’accertamento integrativo 8.13 Partecipazione dei Comuni all’attività di accertamento 8.14 Gli istituti deflativi del contenzioso 8.14.1 L’accertamento con adesione 8.14.2 La definizione agevolata delle sanzioni 8.14.3 L’adempimento collaborativo 8.14.4 Procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata (cd. web tax) Capitolo 9 9.1
La riscossione e il rimborso dei tributi Riscossione
volontaria
e
riscossione
coattiva 9.1.1 Agente della riscossione 9.1.2 Conto fiscale 9.1.3 Riscossione dei tributi locali 9.2 Il pagamento volontario delle imposte 9.2.1 La ritenuta diretta 9.2.2 Il versamento diretto 9.2.3 Il ruolo
9.3 La cartella di pagamento 9.3.1 Notifica della cartella 9.3.2 Interessi di mora 9.3.3 Dilazioni di pagamento 9.3.4 cartelle
Definizione di
agevolata
pagamento
accertamenti rottamazione
e
delle degli
esecutivi delle
(cd.
cartelle
di
pagamento) 9.3.5
Istanza
di
sospensione
amministrativa del ruolo 9.4 L’esecuzione forzata 9.5 Le misure cautelari patrimoniali del credito tributario 9.5.1 Privilegi 9.5.2 Ipoteca e sequestro conservativo 9.5.3 Fermo amministrativo dei beni mobili registrati 9.5.4
Contrasto
all’evasione
da
riscossione 9.6 I rimborsi d’imposta. La cessione dei crediti d’imposta a terzi e altre alternative Capitolo 10
Le sanzioni tributarie
10.1 Illeciti amministrativi e illeciti penali 10.2 Il sistema sanzionatorio amministrativo 10.2.1 Principi fondamentali 10.2.2 Elemento soggettivo 10.2.3 Cause di non punibilità
10.2.4 Le sanzioni 10.2.5 Le modalità di irrogazione delle sanzioni 10.2.6 Il ravvedimento 10.2.7 Principali fattispecie di illecito amministrativo 10.3 Il sistema sanzionatorio penale 10.3.1 Principio di specialità 10.3.2 Sanzioni accessorie Capitolo 11
Il contenzioso tributario
11.1 La giurisdizione tributaria 11.1.1
Oggetto
della
giurisdizione
tributaria 11.1.2 Competenza territoriale 11.2 Le parti del processo tributario 11.3 Il giudizio di primo grado 11.3.1 Atti impugnabili 11.3.2 Il ricorso 11.3.3 Il reclamo e la mediazione 11.3.4 Sentenze, ordinanze e decreti del giudice tributario 11.3.5 La conciliazione giudiziale 11.3.6 La definizione agevolata delle controversie tributarie 11.4
L’esecuzione
Commissioni tributarie 11.5 Le impugnazioni
delle
sentenze
delle
Capitolo 12
L’imposta sul reddito delle persone
fisiche (IRPEF) 12.1 Il presupposto dell’IRPEF 12.2 Soggetti passivi 12.3 I redditi prodotti in forma associata 12.3.1
Le
società
di
persone
commerciali 12.3.2 Le società semplici 12.3.3 Le associazioni professionali 12.3.4 Il Gruppo europeo di interesse economico (GEIE) 12.4 L’imputazione dei redditi nella famiglia 12.4.1 L’impresa familiare 12.5 La determinazione del reddito imponibile 12.5.1 Criteri generali di valutazione 12.5.2 Gli oneri deducibili 12.6 La determinazione dell’imposta 12.6.1 La determinazione dell’imposta lorda 12.6.2 La determinazione dell’imposta netta e dell’imposta a debito 12.6.3 Le detrazioni d’imposta 12.7 Le categorie di reddito: i redditi fondiari 12.7.1 Il reddito dei terreni: il reddito dominicale e il reddito agrario 12.7.2 Il reddito dei fabbricati 12.8 Le categorie di reddito: i redditi di capitale
12.8.1 Gli interessi e i proventi derivanti da rapporti di finanziamento 12.8.2
I
proventi
partecipazione
in
derivanti società
ed
dalla enti
soggetti a IRES 12.9 Le categorie di reddito: i redditi di lavoro dipendente 12.9.1 La determinazione del reddito di lavoro dipendente 12.9.2 I redditi di lavoro dipendente non tassabili 12.9.3 I redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente 12.10 Le categorie di reddito: i redditi di lavoro autonomo 12.10.1 I redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo 12.11
Le
categorie
di
reddito:
i
redditi
d’impresa 12.12 Le categorie di reddito: i redditi diversi 12.12.1 Le plusvalenze da cessioni immobiliari occasionali 12.12.2 Le plusvalenze derivanti dalla cessione di attività finanziarie 12.12.3 La cessione di partecipazioni 12.12.4 Gli altri redditi diversi Capitolo 13 (IRES)
L’imposta sul reddito delle società
13.1 Aspetti generali 13.1.1 La doppia imposizione degli utili societari 13.2 I soggetti passivi IRES 13.2.1 La residenza fiscale ai fini IRES 13.3 Società ed enti commerciali residenti 13.3.1 La determinazione del reddito imponibile 13.3.2 Il riporto delle perdite fiscali 13.3.3 I criteri di imputazione temporale dei componenti di reddito 13.3.4 Principi in materia di deducibilità dei componenti negativi 13.3.5 I ricavi 13.3.6 Le rimanenze 13.3.7
Gli
utili
derivanti
da
derivanti
da
partecipazioni societarie 13.3.8
Gli
utili
partecipazioni in società estere 13.3.9 Le plusvalenze patrimoniali 13.3.10 Le plusvalenze esenti 13.3.11 I proventi immobiliari 13.3.12 Le sopravvenienze attive 13.3.13 Gli interessi attivi 13.3.14 Le spese per prestazioni di lavoro 13.3.15 La deducibilità degli interessi passivi
13.3.16 Gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale 13.3.17 Le minusvalenze patrimoniali 13.3.18 Le sopravvenienze passive 13.3.19 Le perdite di beni 13.3.20 Le perdite su crediti 13.3.21 Le spese pluriennali 13.3.22 I costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti situati in paradisi fiscali 13.3.23
L’ammortamento
dei
beni
strumentali 13.3.24 I costi per beni in leasing 13.3.25 Le spese relative ai mezzi di trasporto 13.3.26 Le spese di manutenzione 13.3.27
Le
spese
per
prestazioni
alberghiere e di ristorazione 13.3.28 Le spese di telefonia 13.3.29 Gli accantonamenti 13.3.30 Tonnage tax 13.3.31 L’aiuto alla crescita economica (ACE) 13.3.32 Start up innovative 13.3.33 Patent box 13.3.34 Le società di comodo 13.3.35 Il transfer pricing 13.4 Gli enti non commerciali
13.5 Il reddito degli enti non residenti 13.5.1 Le società e gli enti commerciali non residenti 13.5.2 Gli enti non commerciali non residenti Capitolo 14
L’imposta sul valore aggiunto (IVA)
14.1 Aspetti generali 14.2 Campo di applicazione dell’IVA 14.3 Il presupposto oggettivo 14.3.1 Le operazioni esenti 14.4 Il presupposto soggettivo 14.4.1 Esercizio di impresa 14.4.2 Esercizio di arti e professioni 14.5 Il presupposto territoriale 14.5.1 Le operazioni extracomunitarie 14.5.2 Le operazioni intracomunitarie 14.6 Il momento impositivo 14.7 La base imponibile 14.8 Le aliquote 14.9 La rivalsa 14.10 La detrazione 14.10.1 I limiti alla detrazione dell’IVA 14.10.2 La rettifica della detrazione 14.11 Gli obblighi formali e sostanziali 14.11.1 La dichiarazione di inizio attività 14.11.2
I
obbligatori
documenti
e
i
registri
14.11.3 Le variazioni in aumento e le variazioni in diminuzione 14.11.4 Le liquidazioni e i versamenti 14.11.5 Comunicazione dei dati delle fatture emesse e ricevute 14.11.6 Comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche 14.11.7 Comunicazione telematica dei dati analitici delle fatture 14.11.8 Comunicazione relativa a beni venduti tramite piattaforme digitali 14.11.9 La dichiarazione annuale IVA 14.11.10 La dichiarazione integrativa IVA 14.11.11 Regimi speciali IVA 14.12 Il rimborso del credito IVA 14.12.1 Credito IVA annuale 14.12.2 Crediti IVA infrannuali Capitolo 15
L’imposta regionale sulle attività
produttive (IRAP) 15.1 Il presupposto dell’IRAP 15.2 Soggetti passivi 15.3 La base imponibile 15.4 La determinazione dell’imposta 15.5 La dichiarazione IRAP 15.6 Versamento, accertamento e riscossione dell’imposta
Libro VIII
Gestione e rendicontazione di progetti di ricerca nazionali, europei ed internazionali Capitolo 1
La ricerca scientifica e la sua
pianificazione Capitolo 2
La gestione dei progetti. Il rendiconto
dei costi
Libro IX
Gestione dei fondi strutturali Capitolo Unico
I fondi strutturali e gli altri
finanziamenti europei 1.1 La politica di coesione dell’Unione europea e i suoi strumenti 1.2 La Strategia Europa 2020 1.3 I Fondi strutturali e di investimento (fondi SIE) 1.3.1 Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) 1.3.2 Il Fondo sociale europeo (FSE) 1.3.3 Il Fondo di coesione 1.3.4 Il Fondo europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale (FEASR) 1.3.5 Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) 1.4 La programmazione “a cascata” 1.4.1 L’accordo di partenariato 1.4.2 I programmi operativi (PO)
1.4.3
La
gestione
dell’accordo
di
partenariato e dei programmi operativi 1.4.4 La verifica: il sistema di gestione e controllo (SI.GE.CO.) 1.5 I finanziamenti diretti: programmi tematici e strumenti finanziari 1.6
Il
cofinanziamento
nazionale
programmazione complementare
e
la
Concorso CNR 110 Funzionari di amministrazione Materie giuridiche per la prova preselettiva e le prove scritte I Edizione, 2020 Copyright © 2020 EdiSES S.r.l. – Napoli 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 2024 2023 2022 2021 2020 Le cifre sulla destra indicano il numero e l’anno dell’ultima ristampa effettuata A norma di legge è vietata la riproduzione, anche parziale, del presente volume o di parte di esso con qualsiasi mezzo. L’Editore
Progetto grafico: ProMedia Studio di A. Leano – Napoli Grafica di copertina e fotocomposizione: Stampato presso: Vulcanica s.r.l. – Nola (NA) Per conto della EdiSES – Piazza Dante 89 – Napoli www.edises.it
ISBN 978 88 3622 132 5
I curatori, l’editore e tutti coloro in qualche modo coinvolti nella preparazione o pubblicazione di quest’opera hanno posto il massimo impegno per garantire che le informazioni ivi contenute siano corrette, compatibilmente con le conoscenze disponibili al momento della stampa; essi, tuttavia, non possono essere ritenuti responsabili dei risultati dell’utilizzo di tali informazioni e restano a disposizione per integrare la citazione delle fonti, qualora incompleta o imprecisa. Realizzare
un
libro
è
un’operazione
complessa
e,
nonostante la cura e l’attenzione poste dagli autori e da tutti gli addetti coinvolti nella lavorazione dei testi, l’esperienza ci insegna che è praticamente impossibile pubblicare un volume privo di imprecisioni. Saremo grati ai lettori che vorranno inviarci le loro segnalazioni e/o suggerimenti migliorativi su assistenza.edises.it.
Premessa Il volume è indirizzato a quanti intendono prepararsi alla prova preselettiva e alle prove scritte del concorso indetto dal CNR
(Consiglio
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Funzionari di amministrazione (bando in G.U. n. 68 del 1° settembre 2020). Il testo, infatti, offre una trattazione specifica delle seguenti materie: Diritto Amministrativo Diritto Civile con particolare riferimento alle obbligazioni ed ai contratti Rapporto di lavoro pubblico Trattamento dei dati personali Trasparenza e anticorruzione Contabilità degli Enti Pubblici non Economici Normativa fiscale e tributaria Gestione e rendicontazione di progetti di ricerca nazionali, europei ed internazionali (disponibile fra le estensioni online) Gestione dei fondi strutturali. Per ciascuna di tali materie il volume offre una sintesi, ragionata ed esaustiva, di tutto il programma e una nutrita serie di quesiti a risposta multipla (disponibili online). Il volume è aggiornato alle ultime novità normative, tra le quali si segnalano il decreto Rilancio (D.L. 34/2020,
convertito in L. 77/2020), il decreto Semplificazioni (D.L. 76/2020) e il decreto Agosto (D.L. 104/2020). Il testo è corredato da un software online che consente infinite simulazioni della prova di preselezione e da ulteriori materiali didattici e aggiornamenti.
Ulteriori materiali didattici sono disponibili nell’area riservata a cui si accede mediante la registrazione al sito edises.it secondo la procedura indicata nel frontespizio del volume. Eventuali errata-corrige saranno pubblicati sul sito edises.it, nella scheda “Aggiornamenti” della pagina dedicata al volume. Altri
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Libro I Diritto amministrativo SOMMARIO Capitolo
1
La
Pubblica
Amministrazione
e
il
diritto
amministrativo Capitolo 2 Le situazioni giuridiche soggettive Capitolo 3 L’organizzazione amministrativa Capitolo 4 L’attività della Pubblica Amministrazione Capitolo 5 I documenti amministrativi: dal cartaceo al digitale Capitolo 6 Atti e provvedimenti amministrativi Capitolo 7 Il procedimento amministrativo Capitolo 8 L’accesso ai documenti amministrativi Capitolo 9 La patologia dell’atto amministrativo Capitolo 10 I contratti della Pubblica Amministrazione Capitolo 11 I beni pubblici e l’espropriazione per pubblica utilità Capitolo
12
Controlli
e
responsabilità
nella
Amministrazione Capitolo 13 Il sistema delle tutele
Capitolo 1 La Pubblica Amministrazione e il diritto amministrativo
Pubblica
1.1 L’amministrazione pubblica 1.1.1 La nozione di Pubblica amministrazione e di diritto amministrativo Per il perseguimento dei propri fini lo Stato si avvale di apparati che nel loro complesso formano la Pubblica Amministrazione, la quale agisce attraverso persone fisiche preposte a organi la cui attività è direttamente imputabile agli enti della cui organizzazione fanno parte. L’art. 1, co. 2, D.Lgs. 165/2001
precisa
che
per
Amministrazioni
Pubbliche
s’intendono tutte le Amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le Istituzioni universitarie, gli Istituti Autonomi Case Popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le Amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale (SSN), l’Agenzia per la Rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) e le altre Agenzie pubbliche. La L. 15/2005, modificando l’art. 22 L. 241/1990, definisce la
Pubblica
Amministrazione,
ai
fini
della
disciplina
dell’accesso agli atti, come «tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla
loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o europeo». Quindi, ove la legge lo preveda, anche dei soggetti privati possono
essere
preposti
all’esercizio
di
attività
amministrative, purché sia sempre assicurato il rispetto dei criteri e dei principi dettati dalle norme; si pensi ai concessionari di pubblici servizi o all’esternalizzazione di funzioni amministrative. I primi svolgono un’attività loro assegnata da un Pubblica Amministrazione (es. trasporto urbano) che non comporta, in genere, lo svolgimento di attività di carattere autoritativo. Si è in presenza, invece, di un’esternalizzazione di una pubblica funzione allorquando l’organo amministrativo delega a soggetti privati poteri amministrativi, normalmente di accertamento, certificazione o verifica; si pensi alle officine private che provvedono alla revisione periodica degli autoveicoli e che svolgono una funzione di competenza dello Stato.
Si definisce diritto amministrativo, invece, l’insieme delle
norme
che
disciplinano
l’organizzazione
e
il
funzionamento di quest’insieme di apparati, sia nei beni e nelle attività riferiti alla Pubblica Amministrazione, sia nei rapporti che la stessa instaura con altri soggetti. Le fonti del diritto amministrativo sono quelle tipiche dell’ordinamento costituzionale dello Stato. Peraltro, potendo operare pure con gli strumenti del diritto comune, la Pubblica Amministrazione è soggetta altresì al rispetto dei contratti e
delle convenzioni stipulate tra soggetti pubblici e con i soggetti privati, che «hanno forza di legge tra le parti»; ne consegue che, in queste ipotesi, anche le disposizioni del codice civile sono applicabili alle Amministrazioni Pubbliche.
1.1.2 La Pubblica Amministrazione nella Costituzione Nella
Costituzione
la
disciplina
della
Pubblica
Amministrazione è collocata all’interno del Titolo Terzo della Parte Seconda, dedicata al Governo. La Sezione Prima di questo Titolo riguarda il Consiglio dei Ministri, mentre sono fondamentali i due articoli della Sezione Seconda, che individuano i principi che reggono l’attività della Pubblica Amministrazione e dei pubblici impiegati: l’art. 97 e l’art. 98. L’art. 97 Cost. codifica le seguenti regole: le
Pubbliche
Amministrazioni,
in
coerenza
con
l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico; i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizione di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione; nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari; agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
L’art. 98, dal canto suo, afferma che: «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità. Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. Ne risulta che: la titolarità del potere esecutivo è attribuita al Governo, che la esercita attraverso la Pubblica Amministrazione; quest’ultima è l’organizzazione di mezzi e di persone cui è devoluta la funzione di raggiungere gli obiettivi di interesse pubblico definiti dall’ordinamento. L’organizzazione dei pubblici uffici è materia coperta da riserva di legge (relativa) e quindi di competenza del Parlamento (art. 97, co. 2; art. 98, co. 3). Pertanto,
la
Pubblica
Amministrazione,
pur
caratterizzandosi come apparato servente del potere esecutivo, è soggetta alle leggi (principio di legalità) e deve operare nel rispetto del principio di imparzialità. Si aggiunga a ciò che l’art. 28 della stessa Carta costituzionale
afferma
il
principio
generale
della
responsabilità della Pubblica Amministrazione, sia a livello individuale che a livello istituzionale, in forza del principio di immedesimazione organica del dipendente con l’ente di appartenenza.
A garanzia dei diritti del cittadino si afferma che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici «sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Lo Stato o l’ente pubblico di appartenenza intervengono a risarcire le conseguenze civili del comportamento illecito del funzionario o dell’impiegato e ciò per offrire una maggiore garanzia al danneggiato e migliore soddisfazione delle sue pretese. La disposizione si riferisce soltanto ai diritti soggettivi ma la Corte di Cassazione, con sentenza n. 500/1999, ha riconosciuto anche la risarcibilità degli interessi legittimi.
1.2 Le fonti del diritto amministrativo 1.2.1 I regolamenti I regolamenti sono atti formalmente amministrativi, perché provenienti da organi dell’apparato amministrativo dello Stato, e sostanzialmente normativi, in quanto idonei, nei limiti stabiliti dalle fonti di rango primario, a immettere nuove norme nell’ordinamento giuridico; ne consegue che si tratta
di
fonti
del
diritto
di
rango
secondario
subordinate alla legge. I regolamenti, in quanto atti formalmente amministrativi (anche se sostanzialmente normativi), sono soggetti al sindacato del giudice amministrativo quando ledono interessi legittimi. Normalmente, peraltro, gli atti normativi non sono idonei ad incidere direttamente sulla sfera giuridica soggettiva dei potenziali destinatari (essendo, per definizione, atti diretti erga omnes – verso tutti) e, dunque, la lesione dell’interesse del singolo deriva dal provvedimento assunto in forza del regolamento: in tal caso, l’interessato dovrà impugnare sia il regolamento sia il provvedimento applicativo. Sono fonti di produzione del diritto soltanto i regolamenti esterni, quelli cioè che si rivolgono a soggetti estranei all’ordinamento dell’ente od organo che li emana. Per altro
verso, non possono considerarsi fonti del diritto i regolamenti interni, che disciplinano, invece, l’organizzazione interna di un organo o di un ente e perciò si rivolgono soltanto ai soggetti che di tale organizzazione fanno parte. Il fondamento tradizionale della potestà regolamentare è rinvenuto nel principio di legalità, secondo il quale l’Esecutivo può emanare regolamenti soltanto quando a ciò sia autorizzato da una previa norma di legge che attribuisca ad un organo amministrativo la relativa competenza. La
novella
costituzionale
del
2001
ha
previsto
espressamente tre tipologie di regolamenti, individuando l’ambito di competenza di ciascuno di essi: i regolamenti statali, ex art. 117, co. 6, Cost. possono operare nelle materie di competenza legislativa esclusiva statale; i regolamenti regionali possono operare nelle materie di
competenza
legislativa
regionale
concorrente
o
residuale e anche nelle materie di competenza legislativa esclusiva statale, in questo caso previa delega dello Stato; i
regolamenti
degli
enti
locali
disciplinano
l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite. Il potere regolamentare trova, quindi, adesso il suo fondamento
direttamente
nella
Costituzione
e
limitatamente alle materie e ai settori in essa espressamente indicati,
In quanto fonti di rango secondario, i regolamenti dell’Esecutivo incontrano una serie di limiti:
non
possono
mai
derogare
o
contrastare
con
la
Costituzione, né con i principi in essa contenuti; in quanto subordinate alla Costituzione e alle leggi costituzionali, non possono mai regolare le materie riservate dalla Costituzione alla legge (ordinaria o costituzionale); non possono contenere sanzioni penali, esistendo una riserva di legge in materia penale (art. 25 Cost.); non possono derogare né contrastare con le leggi ordinarie, salvo che sia una legge ad attribuire loro il potere, in un determinato settore e per un determinato caso,
di
innovare
anche
nell’ordine
legislativo
(delegificando la materia); in quanto fonti subordinate alla legge, non possono derogare al principio di irretroattività, fissato appunto in una norma di legge (art. 11 disp. prel. c.c.); i regolamenti delle autorità inferiori non possono mai contrastare con i regolamenti emanati da autorità gerarchicamente superiori; non possono disciplinare materie di competenza legislativa
regionale,
né
tantomeno
interferire
nell’organizzazione e nell’esercizio delle funzioni conferite agli
enti
locali,
materie
riservate
alla
regolamentare degli stessi (art. 117, co. 6, Cost.).
1.2.2 Tipologie di regolamenti
potestà
La prima classificazione dei regolamenti dell’Esecutivo elaborata dal legislatore repubblicano, dopo l’esperienza fascista della L. 100/1926, è contenuta nell’art. 17 L. 400/1988, che ha anche disciplinato il procedimento di formazione di tali fonti. Trattandosi di legge ordinaria, la disciplina in essa contenuta non può essere derogata dalle stesse fonti regolamentari, ma può sempre essere superata o derogata per singoli casi da successiva legge ordinaria, sulla base del criterio cronologico. I regolamenti di esecuzione I regolamenti di esecuzione sono destinati a dare esecuzione alla disciplina dettata da leggi, decreti legislativi
o
regolamenti
dell’Unione
europea,
introducendo ulteriori specificazioni alle norme di rango primario o europeo o stabilendo modalità attuative delle stesse. Sono gli unici regolamenti ammessi a operare nell’ambito di una riserva assoluta di legge. I regolamenti di attuazione e di integrazione Questa tipologia di regolamenti è destinata a integrare la disciplina fissata da leggi e decreti legislativi con disposizioni che possono avere anche carattere innovativo, pur nel rispetto dei principi da attuare fissati dalle norme di rango primario. I regolamenti indipendenti Sono autorizzati direttamente dall’art. 17, lett. c), L. 400/1988, a disciplinare materie in cui l’intervento di norme
primarie non si sia ancora configurato e che non sono soggette a riserva assoluta o relativa di legge. I regolamenti di organizzazione Disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni secondo disposizioni dettate da legge, cui l’art. 97 Cost. riserva in via relativa la disciplina di queste materie Questa tipologia di regolamenti si risolve, in realtà, o in regolamenti esecutivi oppure in regolamenti attuativointegrativi, a seconda dell’estensione e del grado di dettaglio della disciplina di rango legislativo. I regolamenti di riordino Si tratta di una categoria di regolamenti introdotta dalla L. 69/2009, la quale, nell’integrare l’art. 17 L. 400/1988 del comma 4-ter, stabilisce che attraverso tale strumento si deve provvedere disposizioni
alla
periodica
regolamentari
riorganizzazione vigenti,
nonché
delle alla
ricognizione di quelle che sono state oggetto di abrogazione implicita e all’espressa abrogazione di quelle che hanno esaurito la loro funzione o sono prive di effettivo contenuto normativo o sono comunque obsolete. I regolamenti di delegificazione Sono disciplinati dall’art. 17, co. 2, L. 400/1988 e consentono al legislatore di autorizzare di volta in volta il Governo, in materie non soggette a riserva assoluta di legge, a emanare regolamenti che sostituiranno le norme di legge fino a quel momento vigenti. In tal caso la legge di autorizzazione detta comunque le norme generali regolatrici
della materia, mentre l’effetto abrogativo delle leggi vigenti è prodotto dalla stessa legge che autorizza il regolamento, il quale si limita, con la sua entrata in vigore, a rendere operativa l’abrogazione. Per le caratteristiche di tali regolamenti, che sostituiscono la disciplina di rango legislativo con una disciplina di rango secondario, i regolamenti di delegificazione non possono operare in materie coperte da riserva assoluta di legge. I regolamenti di attuazione delle direttive europee Sono previsti dall’art. 35 L. 234/2012. La legge di delegazione europea può autorizzare il Governo a recepire direttive dell’Unione mediante regolamento, che
apparterrà
alla
tipologia
dei
regolamenti
di
delegificazione. Nelle materie di competenza esclusiva statale non disciplinate da legge o da regolamenti governativi e non coperte da riserva di legge, le direttive possono essere recepite con regolamento ministeriale o interministeriale o, ove di contenuto non normativo, con atto amministrativo generale.
1.2.3 Il procedimento di formazione dei regolamenti Il procedimento di formazione dei regolamenti esecutivi, attuativo-integrativi, organizzativi e indipendenti prevede che essi (art. 17, co. 2, L. 400/1988).
siano sottoposti al previo parere del Consiglio di Stato, che deve pronunciarsi entro quarantacinque giorni dalla
richiesta,
pena
la
facoltà
riconosciuta
all’amministrazione di procedere senza l’acquisizione del suddetto parere (art. 17 L. 127/1997); siano deliberati dal Consiglio dei Ministri e adottati con decreto del Presidente della Repubblica; siano sottoposti, prima della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, al visto e alla registrazione della Corte dei conti; rechino
la
denominazione
di
«regolamento»,
che
consente, insieme agli altri elementi formali e procedurali suindicati, di distinguerli dagli altri atti normativi e amministrativi del Governo (art. 17, co. 4, L. 400/1988) I regolamenti di attuazione delle direttive europee sono deliberati su proposta dal Presidente del Consiglio o del Ministro per gli Affari europei e del Ministro con competenza prevalente nella materia, di concerto con gli altri Ministri interessati. Il procedimento è quello previsto dall’art. 17, co. 2, L. 400/1988. I regolamenti ministeriali, interministeriali e di altre autorità vengono adottati con decreti ministeriali o interministeriali, rispettivamente nelle materie di competenza del Ministro (o di autorità sottordinate a esso) o di più Ministri, previa autorizzazione da parte della legge. Tali decreti devono essere comunicati al Presidente del Consiglio prima dell’emanazione e seguono lo stesso procedimento dei
regolamenti
governativi
esecutivi,
attuativo-integrativi,
organizzativi e indipendenti (art. 17, co. 4, L. 400/1988).
1.3 Le altre fonti del diritto amministrativo 1.3.1 Gli atti amministrativi generali Si dice generalmente che gli atti amministrativi hanno contenuto puntuale e concreto in contrapposizione al contenuto generale e astratto degli atti normativi. Tuttavia, in alcuni casi, gli atti amministrativi hanno contenuto generale, in quanto hanno per destinatari non soggetti singoli, ma categorie di soggetti indeterminati e indeterminabili; è proprio questo il caso degli atti amministrativi generali che hanno in comune con quelli normativi il carattere della generalità ma non condividono quello dell’astrattezza. Un esempio di atto amministrativo generale è il bando di gara o di concorso: esso si riferisce ad una pluralità di destinatari non determinati e non determinabili, ma non per questo astratti, dal momento che si rivolge solo ai soggetti in possesso dei requisiti per partecipare alla procedura di gara o di concorso. L’atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è volto a regolare non una serie indeterminati di casi ma, conformemente alla sua natura amministrativa,
un
caso
particolare
e/o
una
vicenda
determinata (la gara, il concorso), esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti. La distinzione è importante dal momento che il regime giuridico è diverso; ad esempio, per gli atti amministrativi l’art. 3 L. 241/1990 impone l’obbligo della motivazione, requisito non richiesto per quelli normativi. Gli atti amministrativi generali vanno anche distinti dagli atti plurimi; questi ultimi sono atti suddivisibili in singoli provvedimenti, anche se da un punto di vista formale sono unici; hanno anch’essi una pluralità di destinatari ma tutti specificamente individuabili a priori (è il caso, ad esempio, del provvedimento con cui si promuovono più dipendenti di un’Amministrazione Pubblica).
1.3.2 Le ordinanze di necessità e urgenza Le ordinanze costituiscono una particolare categoria di ordini, vale a dire atti con cui si creano obblighi o divieti. Non promanano dalla sola autorità amministrativa, in quanto il potere di ordinanza deriva dalla legge, e sono finalizzate a fronteggiare situazioni di necessità e urgenza pur senza una preventiva determinazione del contenuto in cui il potere potrà concretizzarsi. Sulla materia si è più volte pronunciata la Corte costituzionale, chiarendo che: sono atti formalmente e sostanzialmente amministrativi; sono atipiche, essendo legislativamente predeterminata solo l’autorità tenuta alla relativa adozione e non i casi in
cui il potere va esercitato né il contenuto dell’atto; sono straordinarie, vale a dire che il ricorso ad esse è consentito in via residuale, quando non vi siano altri atti tipici cui si possa ricorrere in alternativa; l’efficacia deve esserne necessariamente circoscritta; solo la legge può attribuire un simile potere; sono soggette a obbligo di motivazione e pubblicazione; non possono contrastare norme costituzionali né principi generali dell’ordinamento giuridico, né intervenire in materie coperte da riserva assoluta di legge. Appartengono alla categoria delle ordinanze d’urgenza, per esempio, le ordinanze prefettizie in materia di pubblica sicurezza e quelle emesse dal Sindaco per fronteggiare situazioni di emergenza di carattere sanitario o di igiene pubblica. L’art. 42 D.Lgs. 33/2013 ha stabilito che le Pubbliche Amministrazioni che adottano provvedimenti contingibili e urgenti e, in generale, provvedimenti di carattere straordinario in caso di calamità naturali o di altre emergenze hanno l’obbligo di pubblicare: i provvedimenti adottati, con l’indicazione espressa delle norme di legge eventualmente derogate e dei motivi della deroga,
nonché
l’indicazione
di
eventuali
atti
amministrativi o giurisdizionali intervenuti; i termini temporali eventualmente fissati per l’esercizio dei poteri di adozione dei provvedimenti straordinari;
il costo previsto degli interventi e il costo effettivo sostenuto dall’Amministrazione.
1.3.3 Gli atti interni e le circolari amministrative Le norme dettate dalle autorità amministrative, quando costituiscono espressione dell’autonomia degli ordinamenti, hanno per definizione rilevanza esterna e sono fonti del diritto (statuti, leggi, regolamenti e ordinanze regionali e degli altri enti locali). Le regole, invece, che hanno rilevanza solo all’interno dell’Amministrazione che le produce (istruzioni di servizio, regolamenti interni, circolari, direttive ecc.) non sono fonti del diritto, pur avendo una portata normativa circoscritta nell’ambito
di
un
determinato
settore
della
Pubblica
Amministrazione. Ciò nondimeno esse possono però acquistare efficacia esterna in quanto strumentali alla validità degli atti amministrativi: la violazione delle istruzioni prodotte ad uso interno può invalidare l’atto amministrativo così prodotto per eccesso di potere. Le circolari amministrative, in particolare, sono atti interni diretti agli organi e agli uffici periferici, al fine di disciplinarne l’attività. Si può rilevare in termini di diritto che: le circolari non si possono annoverare tra le fonti del diritto;
non possono essere in contrasto con norme imperative (leggi, regolamenti, decreti); la loro inosservanza può dar luogo a responsabilità disciplinari, contabili ecc. per il dipendente o il dirigente al quale erano state indirizzate da parte dell’organo superiore.
Seppur del tutto interne, le circolari contengono istruzioni destinate
ai
pubblici
funzionari
e,
conseguentemente,
condizionano l’applicazione di atti normativi in grado di incidere
sulle
Particolarmente
posizioni rivelanti,
soggettive sotto
dei
cittadini.
quest’aspetto,
sono
le
circolari interpretative, attraverso cui gli organi di vertice dell’Amministrazione
impongono
agli
uffici
sottordinati
l’interpretazione, a loro avviso corretta, di norme controverse. Discusso è se tali circolari possano essere disattese dall’ufficio sottoposto: prevale la tesi per cui l’interpretazione è vincolante solo se e nella misura in cui dia una lettura corretta del testo della legge, potendosi l’ufficio subordinato discostare da interpretazioni erronee dandone congrua motivazione.
1.3.4 La prassi amministrativa
La prassi amministrativa si instaura di fatto in una determinata materia e orienta l’azione degli organi amministrativi come una consuetudine conforme alla legge, pur non rappresentando una fonte di produzione del diritto. La prassi è strettamente collegata al potere discrezionale: dove esistono dei margini di scelta in relazione a possibili condotte, accade solitamente che l’ufficio ne scelga una e a essa si attenga per lungo tempo. Quando ciò accade, la Pubblica Amministrazione si vincola in sostanza a osservare quella medesima regola di condotta per il futuro e in casi che presentino le stesse caratteristiche. Secondo parte della dottrina, la prassi amministrativa costituirebbe norma interna, pur non potendosi qualificare come fonte del diritto. Secondo altra opinione, la prassi non darebbe vita a norme, ma la relativa violazione, se non accompagnata da congrua motivazione, si tradurrebbe in violazione del dovere di coerenza che incombe sulla Pubblica Amministrazione nella cura degli interessi pubblici.
1.4 L’attività amministrativa 1.4.1 Caratteri generali È quell’attività mediante la quale la Pubblica Amministrazione persegue gli interessi affidati alle sue cure. L’azione della Pubblica Amministrazione non si esaurisce nella prevalente attività di diritto pubblico, ma sempre più spesso consiste nell’uso da parte di soggetti pubblici di forme negoziali di natura privatistica (contratti, convenzioni ecc.). Sebbene lo scopo resti quello di perseguimento del pubblico interesse, la posizione che la Pubblica Amministrazione assume nei confronti dei terzi risulta in larga parte diversa a seconda che si avvalga di strumenti di tipo pubblicistico o di forme e strumenti propri del diritto privato. Laddove, infatti, vi sia il ricorso agli strumenti pubblicistici, la Pubblica Amministrazione si trova in condizione di supremazia rispetto ai cittadini, che sono assoggettati al potere pubblico. Se sono utilizzati strumenti privatistici, viceversa, essa si trova a operare in posizione paritetica rispetto al privato cittadino, nei cui confronti non riveste alcuna posizione di preminenza né esercita alcuna potestà, operando al contrario secondo le regole di diritto comune.
Il riconoscimento generale dell’autonomia negoziale della Pubblica Amministrazione trova oggi il proprio fondamento normativo nell’art. 1, co. 1-bis L. 241/1990, ai sensi del quale «la Pubblica Amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente». Il limite principale che incontra la capacità di diritto privato della Pubblica Amministrazione è di carattere funzionale: è preclusa la conclusione di negozi incompatibili con lo scopo pubblico specifico perseguito dalla Pubblica Amministrazione stipulante, che è tenuta a indirizzare e conformare la sua attività al perseguimento dell’interesse pubblico affidato alle sue cure.
1.4.2 Atti e provvedimenti amministrativi Gli
atti
che
la
Pubblica
Amministrazione
emana
nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali, e precisamente nell’esercizio di una funzione amministrativa, sono chiamati atti amministrativi. Allorquando
l’atto
amministrativo
è
espressione
dell’autoritatività dell’Amministrazione ed è idoneo a incidere, modificandola (con effetti favorevoli o sfavorevoli), sulla situazione giuridica di soggetti estranei all’apparato della Pubblica
Amministrazione,
è
definito
provvedimento
amministrativo. Sua caratteristica essenziale è quella di essere un atto unilaterale, vale a dire posto in essere dalla Pubblica Amministrazione in virtù dei suoi poteri autoritativi, senza che occorra il consenso dei soggetti cui è indirizzato
(anzi è talvolta emanato contro la volontà di questi soggetti): ciò significa che l’Amministrazione, quando pone in essere un atto o più specificamente un provvedimento amministrativo, agisce sempre come autorità, in modo che il provvedimento, qualunque sia il suo contenuto, costituisce in ogni caso un atto d’espletamento della potestà amministrativa e non un atto d’autonomia privata. Il provvedimento amministrativo, perciò, è quell’atto a rilevanza esterna, produttivo di effetti giuridici, con il quale si conclude il procedimento amministrativo. Esso si connota come atto di «disposizione» funzionale alla tutela dell’interesse pubblico che la Pubblica Amministrazione deve necessariamente perseguire (cd. doverosità amministrativa). Il principio di legalità dell’azione amministrativa impone che ogni provvedimento emanato nell’espletamento di una funzione amministrativa sia inquadrabile in una delle tipologie previste dalla legge (cd. nominatività e tipicità del provvedimento): la legge precisa l’ambito d’operatività del provvedimento, ne indica la finalità, stabilisce in quali circostanze esso possa essere legittimamente adottato e a quale autorità spetti di adottarlo. Gli atti che non sono spontaneamente osservati dai soggetti cui si rivolgono possono essere portati a esecuzione direttamente dall’Amministrazione. Si parla, al riguardo, di esecutorietà del provvedimento amministrativo, che è cosa ben diversa dall’efficacia, ossia dall’effettiva attitudine a produrre effetti giuridici.
1.4.3 Gli atti politici
Intesa l’attività amministrativa come quella mediante la quale organi statali provvedono alla cura in concreto degli interessi pubblici a essi affidati, codesta attività va distinta dall’attività cd. politica. Per lungo tempo si è ritenuto che gli atti politici fossero atti amministrativi eccezionalmente sottratti, per il loro fine di tutela degli interessi e delle istituzioni fondamentali dello Stato, alla possibilità di ogni impugnativa giurisdizionale. L’opinione s’è poi modificata in base all’art. 113 Cost., che testualmente
recita:
«Contro
gli
atti
della
Pubblica
Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti». Ciò posto, l’atto politico si contraddistingue per due elementi: quello soggettivo, dovendo l’atto stesso pervenire da organo preposto all’indirizzo e alla direzione al massimo livello della cosa pubblica; quello oggettivo, dovendo l’atto stesso riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. Così argomentando, si ritiene che gli atti politici non siano impugnabili davanti al giudice amministrativo in quanto non
aventi natura di atti amministrativi, bensì di atti di governo, i
quali
non
hanno
la
funzione
di
dare
attuazione
all’ordinamento, ma – in quanto espressione di indirizzo politico – assolvono piuttosto ad una funzione diversa, libera nei fini ed eterogenea rispetto alla tradizionale distinzione tra atti legislativi, giurisdizionali e amministrativi. Nondimeno il fatto che gli atti politici siano sottratti al controllo giurisdizionale non ne esclude l’assoggettamento al controllo politico del corpo elettorale, del Parlamento (ove essi siano stati emanati dall’esecutivo) o della Corte costituzionale ove si tratti di atti legislativi. Inoltre, se nell’emanazione di un atto un potere dello Stato invade la sfera di un altro potere dello Stato, è percorribile la strada del conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale.
1.4.4 Gli atti di alta amministrazione Gli atti di alta amministrazione rappresentano la prima attuazione, a livello amministrativo, degli obiettivi fissati dal Governo e dal Parlamento. Come tali, essi sono espressione della più ampia discrezionalità dell’Amministrazione, che il giudice amministrativo può censurare solo là dove risultino essere state assunte decisioni palesemente illogiche o arbitrarie, atteso altrimenti il rischio di sconfinare in quelle che sono le scelte di merito riservate alla Pubblica Amministrazione. Si tratta di atti connotati da una certa discrezionalità ma non liberi nei fini, in quanto vincolati alle prescrizioni stabilite
dalla norma che ne costituisce il presupposto: pertanto essi sono soggetti al sindacato del giudice amministrativo. La differenza tra gli atti di alta amministrazione e gli atti politici può essere schematizzata nel modo che segue: gli atti politici sono liberi nel fine, mentre gli atti di alta amministrazione
sono
strettamente
vincolati
al
perseguimento delle finalità pubbliche; gli atti politici, a differenza di quelli amministrativi, sono emanati da autorità di governo e costituiscono concreta realizzazione del potere politico (Virga); gli atti politici esternano, in sintesi, gli interessi della collettività, mentre gli atti di alta amministrazione prendono in considerazione interessi settoriali; gli atti politici non possono essere soggetti ad alcun sindacato; gli atti di alta amministrazione, invece, sono pienamente assoggettabili alle forme di tutela previste dall’ordinamento giuridico per gli atti amministrativi.
Capitolo 2 Le situazioni giuridiche soggettive 2.1 Cenni introduttivi Le situazioni giuridiche soggettive sono il risultato della valutazione discrezionale che l’ordinamento giuridico fa dei vari interessi ritenuti meritevoli di tutela e, a seconda che attribuiscano un vantaggio o uno svantaggio, sono classificabili in: situazioni giuridiche soggettive attive: diritto soggettivo, aspettativa di diritto, potestà, diritto potestativo, facoltà, interesse legittimo; situazioni giuridiche soggettive passive: dovere, obbligo, soggezione, onere.
2.2 Il diritto soggettivo Il
diritto
soggettivo
è
una
situazione
giuridica
soggettiva attiva e di vantaggio: esso è tradizionalmente definito come il potere di agire per il soddisfacimento di un proprio interesse ritenuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. Il diritto soggettivo è la situazione giuridica soggettiva che garantisce la più completa tutela degli interessi, perché l’ordinamento giuridico conferisce e riconosce ad un soggetto determinate utilità in ordine ad un bene e tutela i suoi interessi relativamente al bene stesso. Si definiscono diritti assoluti quelli che hanno per contenuto una pretesa che può essere fatta valere nei confronti della generalità dei consociati, i quali devono astenersi dal tenere comportamenti che ledano o minaccino quella pretesa (sono diritti assoluti, oltre alla proprietà, quello alla vita, all’integrità fisica, all’onore e, più in generale, tutte le libertà costituzionali). Sono, invece, diritti relativi quelli che attribuiscono al titolare un potere di azione solo verso una o più persone determinate, a carico delle quali sussiste un obbligo di dare, fare o non fare qualcosa (es. i crediti di denaro o il diritto di ottenere dal debitore l’adempimento dell’obbligazione). Al diritto soggettivo corrisponde una situazione giuridica soggettiva passiva detta obbligo (una particolare forma di
dovere). Si parla di diritto soggettivo perfetto ogni qualvolta una norma di relazione (diretta cioè a disciplinare comportamenti intersoggettivi) attribuisca ad un soggetto un potere diretto e immediato per la realizzazione di un proprio interesse, a cui corrisponde un obbligo in capo a soggetti determinati o in capo a tutta la collettività. Si parla di diritto condizionato quando il suo esercizio è sottoposto ad una condizione risolutiva o sospensiva. Sono ipotesi in cui l’ordinamento acconsente al sacrificio di un diritto individuale per realizzare un vantaggio collettivo, come nel caso in cui gli si espropri un bene da destinare alla pubblica utilità. Quando l’esercizio del diritto è temporaneamente impedito da un ostacolo giuridico si dice che il diritto è «in attesa di espandersi», come nel caso del diritto di edificazione, il cui esercizio è subordinato al rilascio di permesso amministrativo. Si verifica, invece, il fenomeno del cd. «affievolimento» quando l’Autorità amministrativa impone limiti, temporanei o definitivi, ad un diritto che fino a quel momento era stato liberamente e pienamente esercitato dal suo titolare, come nel caso del proprietario al quale viene imposto un vincolo d’inedificabilità o che viene espropriato del proprio diritto di proprietà.
2.3 L’interesse legittimo L’interesse amministrato
legittimo
è
vanta
l’interesse a
che
che la
ciascun Pubblica
Amministrazione agisca nel rispetto della legalità, vale a dire di quelle norme giuridiche e regole tecniche che governano il corretto esercizio del potere pubblico. Per esempio, il partecipante ad un pubblico concorso ha l’interesse, giuridicamente tutelato, a che la procedura di selezione si svolga nel rispetto delle norme di legge e di quelle fissate nel bando di concorso. L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva attiva che trova fondamento e tutela nell’illegittimo o non corretto esercizio, da parte di un terzo (nella fattispecie, la pubblica autorità), di un potere o piuttosto di una potestà a carattere pubblico o privato. Perciò, diversamente dal diritto soggettivo, l’interesse legittimo non ha di fronte a sé una situazione giuridica passiva (obbligo, dovere, soggezione, ecc.), ma un’altra situazione giuridica attiva e di vantaggio: il potere della Pubblica Amministrazione. Come situazione giuridica individuale, l’interesse legittimo ha trovato riconoscimento nel nostro ordinamento con la L. 5992/1889, istitutiva della Quarta Sezione (giurisdizionale) del Consiglio di Stato. La Carta costituzionale lo inserisce, nell’art. 24, al fianco dei diritti soggettivi, assicurandogli la
massima tutela davanti alla giustizia amministrativa. La Costituzione lo richiama, inoltre, in altre due norme: nell’art. 113, in riferimento alla possibilità di impugnare gli atti della Pubblica Amministrazione dinanzi alla giurisdizione ordinaria o amministrativa; nell’art. 103, dove si afferma che gli organi della giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi. Ciò nondimeno, nessuno dei menzionati precetti si occupa di dare un’espressa definizione di interesse legittimo. La dottrina più autorevole parla di «situazione giuridica di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente e autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile e intermediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale» (così Casetta). Mentre
il
diritto
soggettivo
è
una
posizione
autonomamente tutelabile, l’interesse legittimo può essere espresso in termini di posizione non autonoma: l’utilità sperata dal
titolare
di
questa
posizione
non
è
riconducibile
direttamente alla legge ma dipende da un provvedimento o da un comportamento della Pubblica Amministrazione, che devono essere posti in essere nel rispetto delle norme di legge. Principale
caratteristica
dell’interesse
legittimo
è
la
differenziazione: il suo titolare, cioè, vanta verso la Pubblica Amministrazione
una
situazione
differenziata,
ben
distinguibile rispetto a quella di altri soggetti. Inoltre tale situazione è qualificata, in quanto presa in considerazione, sia pure indirettamente, dalla norma che disciplina l’esercizio del potere pubblico. S’è molto discusso in dottrina circa i criteri per distinguere l’interesse legittimo dal diritto soggettivo, distinzione che, tuttavia, oggi ha perso quasi di rilevanza: dopo l’apertura normativa alla possibilità che il privato possa partecipare al procedimento
amministrativo
(cd.
partecipazione
procedimentale, di cui alla L. 241/1990), e soprattutto dopo la sentenza n. 500/1999 delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha ammesso la risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, le due posizioni soggettive di vantaggio si sono notevolmente avvicinate sotto l’aspetto della relativa tutela, ossia sul versante che tradizionalmente più le distingueva.
2.4 Interessi pretensivi e interessi oppositivi Secondo la prospettiva più moderna, l’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva che si concreta nella pretesa o nel mantenimento di un determinato bene della vita: nel primo senso si parla di interesse pretensivo; nel secondo si definisce l’interesse oppositivo. Nella prima ipotesi, il privato chiede alla Pubblica Amministrazione l’attribuzione o il riconoscimento di un quid e si trova di fronte, come situazione correlata, la situazione giuridica attiva della stessa Amministrazione che ha il potere di accogliere o rifiutare tale richiesta; egli dunque ha un interesse legittimo alla pretesa di ottenere. Nell’ipotesi, invece, dell’interesse oppositivo il privato si trova di fronte ad un potere della Pubblica Amministrazione cui egli si vuole opporre
e
vanta,
quindi,
un
interesse
legittimo
al
mantenimento del suo diritto. Sicché, nel caso di interessi legittimi pretensivi, i titolari pretendono dalla Pubblica Amministrazione un’attività diretta ad ampliare la loro sfera giuridica (es. pretendono il rilascio di un’autorizzazione oppure di una concessione); al contrario, nel caso di interessi legittimi oppositivi essi si oppongono a
provvedimenti
amministrativi
riduttivi
della
loro
sfera
giuridica (es. espropriazione, requisizione, confisca ecc.). Si prenda ancora l’esempio del concorso pubblico: nel caso in cui la Pubblica Amministrazione violi le disposizioni che regolano
l’esercizio
del
potere
(norme
di
azione),
attribuendo un punteggio inferiore ad un concorrente che non verrà quindi inserito nella graduatoria, questo soggetto può ricorrere
al
giudice
amministrativo
per
ottenere
l’annullamento dell’atto illegittimo. Dall’eliminazione dell’atto illegittimo
(interesse
primario
alla
legalità
dell’azione
amministrativa) consegue l’utilità che avrà il candidato una volta che, annullato l’atto illegittimo, verrà inserito nella graduatoria (interesse secondario). Il concorrente escluso è cioè titolare di un interesse legittimo pretensivo, e cioè di una situazione sostanziale individuale che si sostanzia in una pretesa del privato (nel caso di specie il soggetto esercita la pretesa
di
essere
ammesso
in
graduatoria
a
fronte
dell’eliminazione dell’atto illegittimo). Ipotesi diversa è quella del soggetto espropriato che si oppone al provvedimento di esproprio: costui, infatti, è titolare di un interesse legittimo oppositivo, perché si oppone all’adozione di un atto pregiudizievole per la propria sfera giuridica (cioè si oppone all’adozione del provvedimento che lo priva del suo diritto di proprietà).
2.5 Interessi diffusi e interessi collettivi L’interesse diffuso è un interesse privo di titolare, latente nella comunità e ancora allo stato fluido, in quanto comune a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente (si pensi, per esempio, all’interesse che ciascuno vanta a vivere in un ambiente salubre, all’interesse ad una buona qualità della vita ecc.). L’interesse collettivo, invece, è quell’interesse che fa capo ad un ente esponenziale di un gruppo non occasionale (cioè
stabile),
della
più
varia
natura
giuridica,
ma
autonomamente individuabile (si pensi alle associazioni riconosciute e non, ai comitati, agli ordini professionali). In relazione a beni quali l’ambiente, la salute o la qualità della vita, non sono configurabili situazioni di interesse individuale, ma solo situazioni di interesse che afferiscono ad una indefinita pluralità di soggetti. Oggi giorno è indirizzo consolidato quello secondo cui l’interesse diffuso si trasforma in interesse collettivo e diventa, quindi, interesse legittimo tutelabile in giudizio, nel momento in cui, indipendentemente dalla sussistenza della personalità giuridica, l’ente dimostri la sua rappresentatività rispetto all’interesse che intende proteggere.
Secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza, però, affinché le organizzazioni di categoria siano riconosciute titolari della legittimazione a ricorrere al giudice, per la tutela di tali situazioni, deve trattarsi di enti i cui statuti prevedano come fine istituzionale la protezione di un determinato bene a fruizione collettiva; in secondo luogo, l’ente deve essere in grado, per la sua organizzazione e struttura, di realizzare le proprie finalità e deve svolgere all’esterno la propria attività in via
continuativa.
Infine,
deve
sussistere
uno
stabile
collegamento territoriale tra l’area di afferenza dell’attività dell’ente e la zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (criterio della cd. vicinitas).
2.6 Gli interessi semplici (o amministrativamente protetti) e gli interessi di fatto L’interesse amministrativamente protetto, detto anche interesse semplice, è quello che ciascun cittadino vanta a che la Pubblica Amministrazione operi nel rispetto delle regole di opportunità e di convenienza che ispirano l’azione dei pubblici poteri. Questi interessi godono di una tutela puramente amministrativa e per tale ragione sono denominati
interessi
amministrativamente
protetti:
di
conseguenza l’unica via perseguibile nel caso di lesione di tali situazioni soggettive da parte dei pubblici poteri è quella dei ricorsi amministrativi. Soltanto
in
via
eccezionale
è
consentita
la
tutela
giurisdizionale per vizi di merito dell’atto amministrativo. Gli interessi di fatto, invece, sono interessi privi di qualificazione giuridica e come tali del tutto irrilevanti per il diritto (es. l’interesse all’illuminazione delle strade). L’unica possibilità che i privati hanno di far valere tali interessi è quella
di
presentare
denunce
che
tuttavia
non
sono
giuridicamente vincolanti per la Pubblica Amministrazione. Soltanto in casi eccezionali sono consentite azioni popolari da parte di soggetti coinvolti nelle questioni in cui rilevano interessi di questo tipo.
Capitolo 3 L’organizzazione amministrativa 3.1 Nozioni di ente, organo e ufficio Si definisce ente la persona giuridica composta da più organi mediante i quali l’ente stesso esplica la propria capacità di agire; tali organi, dunque non hanno una soggettività distinta dall’ente né personalità giuridica propria, ma mettono in pratica quella che è la capacità giuridica dell’ente. Sotto il profilo organizzativo, l’unità organizzativa minima
degli
enti
pubblici
è
costituita
dall’ufficio
amministrativo; questo può definirsi come un complesso di persone fisiche (cd. aspetto soggettivo) e mezzi tecnici e organizzativi
(cd.
aspetto
oggettivo)
funzionalmente
coordinati e collegati per lo svolgimento di un determinato compito in seno alla persona giuridica pubblica (ad es. al Comune).
3.2 L’organo amministrativo 3.2.1 Definizioni e caratteristiche dell’organo amministrativo L’organo amministrativo si caratterizza – rispetto all’ufficio – per l’aspetto propriamente funzionale, in quanto ad esso sono riconosciuti compiti decisionali e deliberativi. L’organo è titolare di una specifica competenza, che è una parte o quota della competenza amministrativa dell’ente del quale l’organo fa parte. Inoltre, nell’ambito della sfera di competenza assegnatagli, l’organo si avvale del complesso di beni
e
persone
strumentali
all’esercizio
delle
potestà
attribuitegli. Mentre sotto il profilo soggettivo, alcuni autori identificano l’organo con il suo titolare, sotto il profilo oggettivo o funzionale,
invece,
l’organo
viene
identificato
come
complesso di attribuzioni. Prevale ad ogni modo, la teoria mista per la quale l’organo è sia, sotto il profilo soggettivo, la persona (organo individuale, come per esempio il Sindaco, il Ministro, il Dirigente scolastico ecc.) o il complesso di persone (organo collegiale, come per esempio la Giunta, ecc.) cui spetta l’esercizio delle funzioni rientranti nella sfera di competenza assegnata, sia, sotto il profilo obiettivo, il centro di imputazione di detta competenza amministrativa (es. la carica di Sindaco, ecc.).
Gli elementi strutturali dell’organo amministrativo sono: il titolare (il funzionario) che ha, con l’organo medesimo, un rapporto di immedesimazione organica e che esercita la funzione di esprimerne e/o di manifestarne la volontà all’esterno e la potestà che individua le concrete attribuzioni
(la
sfera
di
competenza)
dell’organo
amministrativo; i poteri per lo svolgimento dell’attività di competenza. Tra gli organi amministrativi, taluni hanno la legale rappresentanza
dell’ente,
vale
a
dire
l’attitudine
a
manifestare la volontà dell’ente nei rapporti con i terzi. Il rapporto di immedesimazione organica, invece, è una peculiare forma di rapporto di organizzazione tra il titolare dell’organo e l’ente del quale l’organo manifesta la volontà: attraverso tale rapporto il titolare dell’organo, nell’esercizio dell’attività rientrante nella sua sfera di attribuzioni, esprime direttamente la volontà dell’ente e non una volontà propria; ne consegue che all’ente pubblico sono direttamente riferibili sia l’attività, sia i relativi effetti, favorevoli o sfavorevoli che siano.
3.2.2 Le diverse tipologie di organi L’esercizio di una funzione amministrativa può essere attribuito ad una persona o ad una pluralità di persone, aventi ciascuna lo stesso potere decisionale, gestito collegialmente, attraverso sedute o riunioni in cui prevale la volontà della maggioranza: nel primo caso si parla di organi monocratici (es. i singoli Ministri, il Capo dello Stato, i Prefetti, i
commissari di pubblica sicurezza); nel secondo caso, invece, si parla di organi collegiali (es. le Camere, il Consiglio dei Ministri, i Consigli comunali e metropolitani, i collegi giudiziari, le commissioni esaminatrici). Quando un ente dispone di un’organizzazione ramificata sul territorio è possibile distinguere tra organi centrali e organi periferici. I primi hanno una competenza estesa all’intero territorio dell’ente (es. il Governo), i secondi, invece, hanno una competenza limitata all’ambito territoriale in cui operano (es. i Prefetti). Si definiscono organi attivi quelli dotati di potestà decisionale: sono, in pratica, gli organi vitali dell’ente, quelli che ne formano la volontà e senza i quali l’ente stesso non potrebbe relazionarsi con gli altri soggetti giuridici (es. i Consigli regionali, comunali e metropolitani). Sono, invece, organi consultivi quelli deputati a dare pareri (es. il Consiglio di Stato), e organi di controllo quelli investiti appunto di funzioni di controllo (es. la Corte dei conti).
3.2.3 La competenza La competenza è il complesso dei poteri esercitabili da un organo: in particolare è la sua capacità di esercitare un potere e di emanare un atto. L’incompetenza, essendo il suo opposto, rende non esercitabile un potere e pertanto vizia gli atti eventualmente emanati. La competenza, indicando la misura dei poteri attribuiti ad un organo amministrativo, si manifesta a tre livelli: per
materia, per territorio e per grado. La competenza per materia si determina in relazione all’oggetto dell’attività che l’organo svolge (es. il Ministro dell’Istruzione ha competenza in materia di organizzazione dell’attività scolastica e degli studi) e può essere di tipo esclusivo (così per i Ministeri) o concorrente, nel caso in cui siano previste decisioni conformi di più organi o decisioni prese dietro parere o sottoposte a controllo di altri organi (così per gli organi collegiali). La competenza per territorio delimita l’ambito spaziale in cui si esplica l’attività di un determinato organo e pertanto dell’efficacia degli atti (es. l’attività dell’Ufficio scolastico regionale si esplica nel territorio della Regione). La competenza per grado, infine, si determina in relazione alla scala gerarchica all’interno della quale l’organo è inserito, così che un organo detto superiore gerarchico abbia poteri diversi e ulteriori rispetto ad un altro detto subordinato (un tipico rapporto di subordinazione gerarchica è quello che si instaura tra un commissario e un questore). Si parla, d’altra parte, di conflitto di competenza quando due o più organi affermano contemporaneamente la propria
competenza
(conflitto
positivo)
o
contemporaneamente la negano (conflitto negativo). I conflitti possono essere effettivi (reali) o potenziali (virtuali) e determinarsi sia tra organi aventi la stessa funzione (conflitti interni) sia tra organi con funzioni differenti (conflitti esterni). La soluzione dei conflitti interni avviene ad opera del capo dell’ufficio di cui fanno parte gli organi in conflitto, mentre la
soluzione di quelli esterni si ha con l’intervento del superiore gerarchico o di un’autorità esterna individuata dalla legge o con funzioni di controllo sui contendenti. Laddove dovesse poi concretarsi uno spostamento dell’esercizio della competenza in capo ad altri soggetti, diversi da quello che ne è titolare, è possibile individuare le seguenti situazioni: la delega, ovvero la derivazione della competenza in capo ad altro organo (organica) o soggetto (intersoggettiva), che tuttavia non assume la titolarità del potere. Trattasi di un atto amministrativo discrezionale, adottato per ragioni di carattere organizzativo e il cui effetto è quello di ampliare le attribuzioni del delegato (cioè del soggetto che riceve la delega); per tale ragione, il delegante può impartire direttive per l’esercizio della delega e inoltre, in caso di inerzia, può sostituirsi al delegato, oltre a poter annullare eventuali atti illegittimi e, in ultima analisi, revocare la delega stessa; l’avocazione, la quale prevede – in casi individuati dalla legge – che un organo sovraordinato attiri a sé l’esercizio di
una
competenza
dell’organo
gerarchicamente
subordinato (es. nel processo penale è previsto che il procuratore generale possa, per particolari esigenze, avocare a sé l’inchiesta precedentemente affidata ad uno dei suoi sostituti); la sostituzione, che è simile nella struttura all’avocazione ma
presuppone
l’ingiustificata
inerzia
dell’organo
sostituito (che persiste nella sua inattività anche dopo la
diffida a provvedere) e il carattere vincolato dell’atto da emanarsi (deve trattarsi, cioè, di un atto la cui emanazione è prevista dalla legge come obbligatoria).
3.2.4 L’incompetenza L’incompetenza, in quanto difetto di attribuzione, si traduce in vizio per gli atti emanati. Si distingue in assoluta e relativa: l’incompetenza assoluta si configura quando l’organo amministrativo emana un atto: in
una
materia
sottratta
alla
competenza
amministrativa e riservata ad un altro potere dello Stato (straripamento di potere); riservato
alla
competenza
dell’amministrazione
di
un
completamente
settore diverso
(difetto di attribuzione); relativo
ad
un
oggetto
che
si
trova
nella
circoscrizione territoriale di un altro organo amministrativo; l’incompetenza relativa si verifica quando l’organo che emana
l’atto
appartiene
allo
stesso
settore
di
amministrazione dell’organo che sarebbe competente secondo
le
regole
generali.
Si
può
distinguere
un’incompetenza per materia (nel caso in cui l’atto emanato sia riservato per materia ad altro organo dello stesso settore amministrativo) o per territorio (nel caso in
cui l’atto è emanato da un organo che, sebbene competente per materia, non lo è per territorio). Si parla, invece, di acompetenza quando l’atto viene posto in essere da un soggetto privo della qualifica di organo amministrativo, o perché manca la relativa investitura o perché quest’ultima risulta viziata. L’ipotesi tipica che va ricondotta a questa categoria è quella del funzionario di fatto, che ricorre quando la titolarità dell’organo è puramente apparente.
3.2.5 Il funzionario di fatto Il rapporto di servizio – ovvero quel rapporto che intercorre tra l’ente e tutti coloro che prestano stabilmente la loro attività nell’ambito della sua organizzazione – può anche sorgere, seppure in via eccezionale, in assenza di un formale atto di assunzione da parte della Pubblica Amministrazione, ossia in via di fatto. In tale categoria rientra l’ipotesi del funzionario di fatto, ovvero del funzionario la cui investitura, pur esistendo, sia invalida o sia venuta successivamente a mancare. Anche quando le funzioni sono esercitate in via di mero fatto, varie ragioni consigliano di applicare egualmente il meccanismo di imputazione tipico dell’organo e, cioè, di ritenere l’atto ugualmente valido ed efficace come se fosse stato adottato da un organo legittimato a porlo in essere. Ciò accade, pur in assenza di un atto di investitura, quando l’esercizio delle funzioni risulti urgente e indifferibile ovvero
quando lo richieda la tutela della buona fede e dell’affidamento dei privati.
3.2.6 La prorogatio In alcuni casi sussiste l’esigenza di assicurare la continuità nell’esercizio delle pubbliche funzioni. Il rapporto di servizio tra il titolare dell’organo e l’ente può attraversare un susseguirsi di diverse vicende (aspettative, congedi, permessi) e può cessare per cause fisiologiche, come la scadenza del termine. In tal caso, è necessario procedere a nuova designazione del titolare del rapporto organico, ma, in virtù dell’istituto della prorogatio, il titolare cessato è legittimato ad esercitare le funzioni finché non si insedi il successore e ciò per principio generale, senza necessità di un atto di conferma o di proroga. L’art. 3 D.L. 293/1994, convertito nella L. 444/1994, prevede, tuttavia, il divieto di prorogatio per gli organi amministrativi dello Stato e degli enti pubblici, nonché delle persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica. La legge stabilisce, infatti, che l’attività di tali organi possa essere prorogata (istituto che si differenzia dalla prorogatio perché in questo caso è una legge a determinare la prosecuzione dell’attività) per un periodo massimo di 45 giorni dalla loro scadenza, nel caso in cui non si proceda immediatamente alla sostituzione. Decorso tale termine, qualora non si sia comunque provveduto, gli organi amministrativi decadono e gli atti adottati sono nulli,
non
essendo
applicabile
l’ipotesi
dell’attività
del
funzionario di fatto.
Durante il periodo di proroga si possono adottare esclusivamente gli atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli urgenti e indifferibili. Se non ricorrono tali presupposti gli atti sono nulli. Sono parimenti nulli gli atti adottati nel periodo di proroga che eccedano l’ordinaria amministrazione o che manchino dei requisiti di urgenza e indifferibilità.
3.3 Il decentramento amministrativo 3.3.1 Le disposizioni costituzionali Il decentramento amministrativo, secondo l’accezione accolta dall’art. 5 Cost., consiste nell’organizzare l’esercizio della funzione amministrativa mediante la dislocazione di attribuzioni e competenze tra più figure soggettive. Si tratta di una formula di organizzazione ordinamentale consistente nel trasferimento dei compiti e delle funzioni proprie di una
certa
organizzazione
(operante
all’interno
dell’apparato politico-amministrativo dello Stato centrale) verso le articolazioni periferiche della medesima struttura. L’art. 5 Cost. stabilisce che la Repubblica attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adeguando i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Il precetto costituzionale non va limitato allo Stato, ma concerne tutte le organizzazioni pubbliche o private di cui si compone il sistema istituzionale laddove superino certe dimensioni e/o presentino una rilevante complessità. Sotto
quest’aspetto,
il
criterio
organizzativo
del
decentramento serve a migliorare il rapporto tra gli uffici che svolgono attività amministrative finali e l’utenza cui le
medesime attività sono dirette, rappresentando uno strumento di miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, che trae giovamento dalla semplificazione strutturale ottenuta mediante una più razionale collocazione delle funzioni. Il decentramento può intervenire per ridistribuire le competenze tra il centro della struttura pubblica e la sua
periferia,
operando
dell’organizzazione decentramento
si
all’interno
amministrativa. rivela
un
mezzo
Così
dei
confini
inteso,
importante
il nella
distribuzione razionale delle competenze tra le singole unità divisionali dell’apparato amministrativo, mantenendo in capo agli organi centrali le funzioni direttive e di indirizzo, nonché quelle di regolazione, coordinamento e controllo, ed operando come mezzo di attuazione del principio costituzionale di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
3.3.2 Le possibili forme di decentramento I modelli possibili di decentramento sono tre: decentramento
burocratico,
che
prevede
la
traslazione delle competenze dagli uffici centrali di una certa organizzazione verso gli uffici periferici della medesima organizzazione, appositamente istituiti; decentramento istituzionale, funzionale o per servizi, che comporta una ripartizione orizzontale delle funzioni amministrative, al posto della tradizionale organizzazione verticale, quindi la distribuzione di vere e
proprie funzioni di cura di interessi pubblici in favore di enti
diversi
dallo
tendenzialmente
Stato
dotati
(soggetti
di
personalità
di
diritto, giuridica
autonoma); decentramento
autonomistico,
autarchico
o
territoriale, nel quale la cura degli interessi locali è affidata direttamente a enti esponenziali di collettività locali e l’indipendenza delle funzioni decentrate è garantita dall’elettività degli enti di governo. Sotto l’assetto organizzativo,
tale
modello
di
decentramento
può
svilupparsi mediante la costituzione di nuovi organi posti alla periferia dell’ambito territoriale di riferimento dell’ente interessato oppure attraverso la creazione di nuovi enti, dotati di propria personalità giuridica ma dipendenti dall’ente originario, pur essendo strutturati con un vertice direttamente elettivo.
3.4 Gli enti pubblici 3.4.1 Profili generali Gli enti pubblici sono persone giuridiche che perseguono fini rilevanti per l’ordinamento dello Stato. Essi costituiscono una categoria non unitaria ma alquanto varia e complessa, unita dal solo regime giuridico, ovvero dall’inserimento nell’apparato di potere pubblico e dal complesso di norme e principi che ne informano l’attività (Sandulli). Sotto l’aspetto organizzativo e funzionale, perciò, gli enti pubblici risentono del fatto di essere degli enti creati dallo Stato per il perseguimento di scopi che stanno particolarmente a cuore alla comunità statale. Una caratteristica propria di taluni enti pubblici è, poi, la cd.
autarchia,
ovvero
la
potestà
di
emanare
atti
amministrativi aventi gli stessi caratteri e la stessa efficacia giuridica di quelli emanati dallo Stato. Per ottenere che tali atti siano osservati dai loro destinatari, gli enti pubblici non devono ricorrere agli organi giurisdizionali, ma possono avvalersi dei mezzi amministrativi di cui dispongono (cd. autotutela): è il caso, per esempio, dell’ingiunzione di pagamento degli uffici esattoriali. L’esigenza di ridurre il numero di tali enti è stata in parte attuata attraverso la cosiddetta privatizzazione, grazie alla quale molti enti pubblici che svolgevano attività economiche in
settori di pubblica utilità (es. trasporti, telecomunicazioni, fonti di energia ecc.) sono stati trasformati in società di capitali, attraverso la totale o parziale dismissione delle partecipazioni statali e la loro cessione ad azionisti privati. Non bisogna confondere gli enti pubblici istituzionali con le S.p.A. a partecipazione pubblica, costituite in forma societaria direttamente dalla legge, con regole operative in parte derogatorie rispetto al normale diritto societario, con possesso della maggioranza delle azioni da parte delle istituzioni pubbliche (o in quota minoritaria ma con poteri di gestione, cd. golden share) e pertanto strumentali rispetto alle finalità dell’ente che ne esercita il controllo.
3.4.2 Le principali tipologie di enti pubblici Nella categoria degli enti pubblici è possibile operare una serie di classificazioni. Gli enti pubblici territoriali sono quelli in cui il territorio rappresenta sia lo spazio fisico entro il quale l’ente esercita la sua sovranità sia uno degli elementi costitutivi, mancando il quale l’ente stesso non avrebbe alcuna ragione di esistere. Tali enti hanno la caratteristica di essere enti esponenziali,
cioè
rappresentativi
degli
interessi
della
collettività di individui stanziata sul territorio. Gli enti pubblici territoriali hanno autonomia politica, normativa, statutaria, amministrativa e finanziaria. Rientrano in questa categoria la Regione e gli altri enti locali. Gli enti pubblici non territoriali sono detti anche enti istituzionali e si caratterizzano per il fatto che il territorio
rappresenta soltanto l’ambito spaziale entro il quale essi esercitano la loro competenza. La proliferazione di questi enti s’è avuta quando lo Stato ha cominciato ad assumere compiti sempre più numerosi (es. in materia previdenziale ed assistenziale, economica, di ricerca scientifica ecc.). Si tratta, infatti, di enti strumentali, cioè creati per il perseguimento di fini propri dello Stato o degli enti territoriali minori (Regioni ed autonomie locali), tanto che si parla di parastato o comunque di enti pararegionali, paraprovinciali e paracomunali,
proprio
per
indicare
che
tali
enti
costituiscono nel loro insieme un’Amministrazione parallela a quella centrale o locale dello Stato. Sono enti pubblici non territoriali: l’Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale
(INPS),
l’Istituto
Nazionale
per
l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), le Camere di commercio, gli Ordini e i Collegi professionali. Gli enti pubblici strumentali sono quelli che operano sotto il controllo di un ente maggiore per lo svolgimento di funzioni ausiliarie. La relazione di strumentalità comporta che l’ente maggiore ha un potere di direttiva e di ingerenza nella nomina del consiglio di amministrazione e dei funzionari dell’ente sottoposto, il quale gode comunque di autonomia decisionale e organizzativa, tanto che dispone di un proprio bilancio. Gli enti strumentali sono riconducibili a due principali categorie: enti pubblici economici, che svolgono un’attività imprenditoriale nel pubblico interesse dell’economia di
mercato, operando secondo regole di diritto privato; enti pubblici di erogazione, che erogano servizi alla comunità (es. INPS, l’INAIL). Gli enti pubblici indipendenti sono quelli che hanno un’autonomia politica, sì da potersi dare, sul piano politico ed amministrativo, un indirizzo diverso da quello del governo centrale. Rientrano in questa categoria le Regioni e gli enti locali minori.
3.4.3 Gli enti privati di interesse pubblico Sono enti privati, tali fin dalla loro istituzione o per trasformazione di enti pubblici, soggetti alla vigilanza dello Stato e che possono beneficiare di sovvenzioni o esenzioni tributarie. Gli aiuti finanziari sono, nella generalità dei casi, attribuiti a fronte dell’esercizio di funzioni di “compartecipazione” nella prestazione di servizi assistenziali o di rilevante finalità sociale (si pensi alle istituzioni di assistenza e beneficenza pubblica, IPAB, ai patronati, alle varie istituzioni culturali, alle federazioni sportive, agli enti ecclesiastici ecc.) oppure perché “collaborano”
nel
perseguimento
di
interessi
pubblici
mediante la tutela di interessi diffusi o collettivi (associazioni di tutela dei consumatori, di protezione ambientale ecc.).
3.4.4 I rapporti tra gli enti Tra gli enti si possono instaurare particolari relazioni o rapporti giuridici aventi carattere di stabilità e preordinati
ad un più efficace ed efficiente esercizio dell’attività amministrativa. L’intensità di tali rapporti varia in relazione al grado di autonomia di ciascun ente. Particolarmente
significativo
è
il
potere
di
annullamento degli atti amministrativi che l’ente titolare del potere di vigilanza può esercitare sull’ente vigilato. Degno di nota, nell’ambito del sistema dei controlli, è il potere governativo di annullamento straordinario, in virtù del quale il Governo ha facoltà, in qualunque tempo, di annullare, su denuncia o d’ufficio (ossia di propria iniziativa, indipendentemente da una richiesta), sentito il parere del Consiglio di Stato, gli atti degli enti locali viziati da illegittimità, per motivi eccezionali volti a salvaguardare l’unità dell’ordinamento. È possibile distinguere le seguenti relazioni tra soggetti pubblici: strumentalità: è una relazione che implica l’esistenza di poteri di ingerenza, direttiva, indirizzo, vigilanza, approvazione di atti fondamentali e verifica nei confronti dell’ente subordinato; vigilanza: implica poteri di ingerenza, di informazione, di indirizzo e controlli di legittimità dell’ente vigilante sugli atti dell’ente vigilato; tutela: consente controlli di merito sull’attività dell’ente che v’è sottoposto; direzione: postula un rapporto di sovraordinazione di un ente all’altro, ma pur sempre nel rispetto di una sfera di autonomia dell’ente subordinato. Si esplica attraverso
direttive, atti di indirizzo che additano degli obiettivi, lasciando all’ente la scelta dei mezzi con cui realizzarli; avvalimento: si configura quando un ente si serve degli uffici di un altro ente, che di norma svolgeranno compiti preparatori ed esecutivi senza che ciò comporti un trasferimento di funzioni dall’uno all’altro (era previsto dall’art. 118 Cost. prima della riforma del Titolo V); sostituzione: è una figura generale che si realizza quando un ente esercita diritti o attribuzioni spettanti ad altro soggetto, ma in nome proprio e sotto la propria responsabilità. Gli effetti si producono direttamente nella sfera del sostituito. Il relativo potere è previsto in genere quando sia necessario sopperire all’inerzia del titolare, previa diffida; delega di funzioni: da distinguere dalla delega nei rapporti
interorganici.
È
una
delle
principali
manifestazioni del principio di sussidiarietà e opera tra Stato e Regioni e tra Regioni ed enti locali. Le Regioni di norma esercitano le proprie funzioni amministrative delegandole agli altri enti locali; le federazioni: sono forme associative con funzioni di coordinamento e indirizzo dell’attività degli enti federati e di rappresentanza degli stessi (es. l’ACI è una federazione degli Automobil Club Provinciali); i consorzi: sono strutture stabili che svolgono attività diretta alla realizzazione di obiettivi comuni a più enti. Gli enti locali possono istituirne di due tipi: per la gestione dei servizi pubblici locali e per l’esercizio di funzioni. È
rilevante, in tale ambito, la distinzione tra consorzi facoltativi e obbligatori. Questi ultimi ricorrono quando sono
coinvolti
rilevanti
impongono la costituzione.
interessi
pubblici
che
ne
3.5 L’ organismo di diritto pubblico e l’impresa pubblica Al fine di individuare i soggetti ai quali applicare la normativa unica europea sulla disciplina dei contratti pubblici e degli appalti, fu elaborata la nozione di organismo di diritto pubblico, vale a dire un organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare esigenze di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale, dotato di personalità giuridica e la cui attività fosse finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione fosse soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza fosse costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico. Tale definizione è ora riportata all’art. 3, co. 1, lett. d, D.Lgs. 18-4-2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici). La nozione di organismo di diritto pubblico che si ricava dall’articolo richiamato è, dunque, la combinazione di tre profili: la personalità giuridica dell’organismo, che deve essere intesa in senso non tecnico come riferentesi alla
soggettività giuridica e, cioè, alla capacità di essere centro d’imputazione d’attività amministrativa; lo svolgimento di attività di interesse generale e a carattere non industriale e commerciale. Si tratta dell’elemento che consente di distinguere tra organismi di diritto pubblico e imprese pubbliche; la ricorrenza di un’influenza pubblica, esercitata dallo Stato, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto
pubblico,
secondo
indici
presuntivi
alternativamente sufficienti ad integrare il requisito in esame; è, infatti, sufficiente, che anche uno solo dei criteri si verifichi per individuare l’organismo di diritto pubblico. Sempre il Codice dei contratti pubblici contiene, all’art. 3, co. 1, lett. t, una sintetica definizione di impresa pubblica, intesa
come
quella
tipologia
di
impresa
«su
cui
le
amministrazioni aggiudicatrici [ovvero gli organismi pubblici che devono affidare appalti di lavori o richiedere forniture pubbliche] possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante o perché ne sono proprietarie, o perché vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù delle norme che disciplinano dette imprese [ad es. le ipotesi di “golden share”]. L’influenza dominante è presunta quando le amministrazioni aggiudicatrici, direttamente o indirettamente, riguardo all’impresa, alternativamente o cumulativamente: detengono la maggioranza del capitale sottoscritto; controllano la maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dall’impresa;
possono designare più della metà dei membri del consiglio di
amministrazione,
di
direzione
o
di
vigilanza
dell’impresa». Alla nozione di impresa pubblica dettata dal D.Lgs. 50/2016 devono essere ora ricondotte le aziende autonome, gli enti pubblici economici e “le società di capitali a prevalente capitale pubblico, sottoposte ex art. 2359 c.c. a controllo degli enti pubblici territoriali” (Raiola). Detti enti devono rispettare le procedure di evidenza pubblica iscritte nel Codice dei contratti pubblici poiché riconducibili a vere e proprie “partizioni” della Pubblica Amministrazione, seppur sotto la veste formale di enti privati.
3.6 L’articolazione burocratica dello Stato 3.6.1 Il ruolo del Governo Lo Stato si configura come una persona giuridica e agisce per
mezzo
dei
suoi
organi.
Vertice
e
matrice
dell’organizzazione burocratica centrale e periferica è il Governo,
che
è
un
organo
costituzionale,
partecipe
dell’espressione del potere politico in quanto esso stesso espressione della maggioranza parlamentare. Il Governo è anche il vertice dell’apparato amministrativo pubblico, che gestisce e orienta mediante il suo potere di determinazione dell’indirizzo politico dello Stato. Inoltre, il Governo esercita poteri normativi, nonché poteri di nomina rispetto a quei soggetti che rivestono incarichi di massimo rilievo nell’Amministrazione dello Stato e negli enti pubblici (es. la nomina dei Segretari generali dei Ministeri, o dei Capi dei Dipartimenti, disposta con decreto del Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri). Il Governo è un organo complesso, composto da altri organi dotati di autonomia e di specifiche funzioni, che ne rappresentano gli elementi essenziali e indispensabili: i Ministri,
emanazione
governativa,
finalizzata
alla
distribuzione del potere politico e dei corrispondenti compiti amministrativi pubblici, per materie di competenza. Per la disciplina dell’attività di Governo e l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri occorre far riferimento principalmente alla L. 23-8-1988, n. 400.
3.6.2 La funzione del Presidente del Consiglio dei Ministri Al Presidente del Consiglio, in quanto capo dell’Esecutivo, la Carta costituzionale conferisce un’autonoma rilevanza, facendone il centro propulsore dell’intera attività del Governo: egli, infatti, ne dirige la politica generale e ne è il responsabile, mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuove e coordina l’attività dei Ministri. Una manifestazione tipica dei poteri di indirizzo e coordinamento si rinviene nelle direttive che il Presidente può sottoporre all’attenzione del Consiglio dei Ministri per indirizzare l’attività amministrativa verso obiettivi coerenti con l’azione di Governo. In questi casi le Amministrazioni destinatarie
risultano
vincolate
non
tanto
nei
singoli
adempimenti, bensì nello scopo prefigurato in tali atti. Il Presidente del Consiglio è, dunque, titolare di un potere di direzione dell’intera compagine governativa, e ciò lo abilita a svolgere ogni iniziativa volta a mantenere omogeneità nell’azione
comune
della
coalizione,
finalizzandola
alla
realizzazione del programma esposto in Parlamento al momento del voto di fiducia.
Tali funzioni, però, non si spingono sino a determinare unilateralmente la politica generale del Governo, compito questo assolto collegialmente dal Consiglio dei Ministri attraverso le sue deliberazioni.
3.6.3 I Ministeri Ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. 300/1999, i Ministeri svolgono, per mezzo della propria organizzazione, nonché per mezzo di particolari strutture amministrative denominate Agenzie, le funzioni di spettanza statale nelle materie e secondo le aree funzionali
indicate
per
ciascuna
Amministrazione
dal
medesimo decreto, nel rispetto degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. Un Ministero è costituito dai seguenti organi e uffici: Ministro; Sottosegretario; Gabinetto
del
Ministro
e
altri
uffici
di
diretta
collaborazione; (eventuale) Segretario generale; Dipartimento; Direzione generale; Divisione (o Servizio). Dal punto di vista organizzativo, i Ministeri, o Dicasteri, sono tipiche organizzazioni burocratiche, che possono avere una macrostruttura di tipo polifunzionale (come i Ministeri italiani che hanno come articolazione di primo livello la Direzione generale) o di tipo multidivisionale (come i
Ministeri italiani che hanno come articolazione di primo livello il Dipartimento). Spesso, oltre agli uffici centrali, i Ministeri hanno uffici periferici, distribuiti sul territorio e competenti per una parte soltanto dello stesso (circoscrizione); tali uffici possono avere compiti esclusivamente preparatori ed esecutivi rispetto all’attività degli uffici centrali (secondo il modello della deconcentrazione), oppure funzioni proprie che esercitano sotto la direzione e il controllo degli uffici centrali (secondo il modello del decentramento burocratico). Il D.Lgs. 300/1999, in attuazione della delega conferita dalla L. 59/1997, ha proceduto ad un primo riordino della disciplina dei Ministeri, suddividendoli in Dipartimenti e Direzioni generali. Il Dipartimento è la struttura di primo livello costituita per l’esercizio organico e integrato delle funzioni del Ministero, dalla quale dipende la Direzione generale; in alcuni Ministeri, tuttavia, non ci sono dipartimenti, sicché la ripartizione di primo livello è la Direzione generale. Le Divisioni, invece, sono la struttura di base, ma possono essere divise a loro volta in Sezioni.
3.6.4 Il Ministro A capo del Ministero è il Ministro, componente del corpo politico al quale viene affidata la responsabilità di un ramo di amministrazione (materia o insieme omogeneo di materie, come per esempio la Giustizia, la Difesa, l’Istruzione ecc.), e che dirige l’azione amministrativa, adotta le decisioni di
maggiore importanza e propone al Consiglio dei Ministri la nomina dei dirigenti con funzioni generali. Vi sono comunque anche Ministri che, pur facendo parte del Governo, sono detti senza portafoglio, perché, avendo funzioni di minima complessità operativa, non sono a capo di un Ministero (es. il Ministro per i Rapporti con il Parlamento). I Ministri senza portafoglio esercitano le funzioni loro delegate dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Nella sua azione il Ministro è coadiuvato da figure diverse, tra cui spicca il Sottosegretario, che è organo ausiliario, mai vicario: difatti supporta il Ministro, ma non ha il potere di agire in sua vece. I Sottosegretari possono essere anche più di uno per ciascun Ministero, in quanto a ciascuno viene affidato un sottoinsieme di materie omogenee, nell’ambito di quelle di competenza del Dicastero. Ai Sottosegretari non spettano competenze proprie, ma solo quelle che vengono loro delegate dal Ministro. Se ad un sottosegretario sono conferite deleghe relative all’intera area di competenza di una o più strutture dipartimentali, può essergli attribuito il titolo di Vice-ministro. In alcuni Ministeri (es. Ministero degli Affari esteri) esiste una figura con compiti di coordinamento delle strutture ministeriali apicali, il Segretario generale. Il Gabinetto del Ministro, con funzioni di ausilio del Ministro e di coordinamento, è poi composto dal Capo di Gabinetto, dall’Ufficio legislativo, dall’Ufficio stampa, dalla Segreteria particolare.
Nei Ministeri può essere presente, un Consiglio di amministrazione che è presieduto dal Ministro e composto dai Direttori generali e dai rappresentanti eletti dal personale.
3.6.5 Le Agenzie Le Agenzie sono strutture pubbliche con compiti di carattere tecnico-operativo di rilievo nazionale che operano in generale al servizio delle Amministrazioni Pubbliche e possono essere dotate di autonomia organizzativa e contabile. I rapporti con le Agenzie, alle quali è preposto un Direttore generale, e l’Amministrazione Pubblica di riferimento (es. un Ministero) sono disciplinati per mezzo di una convenzione. Il Ministro competente (o l’organo politico territoriale) di riferimento esercita poteri di indirizzo e di vigilanza sulle Agenzie. Tra le più note Agenzie attualmente operative si ricordano: le cd. Agenzie fiscali (entrate, dogane, demanio), l’Agenzia Industrie Difesa, l’Agenzia
spaziale
italiana (ASI),
l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (ANSV), l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), l’Agenzia per la rappresentanza negoziale (ARAN), l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (ICE), l’Agenzia nazionale per il turismo all’estero (ENIT), l’Agenzia nazionale per le politiche del lavoro (ANPAL), l’Agenzia per l’Italia digitale (AgID) e in
ogni Regione è presente un’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPA) e un’Agenzia regionale per l’impiego.
3.7 Le Autorità indipendenti 3.7.1 Indipendenza, neutralità e imparzialità delle Autorità Le Autorità indipendenti sono enti istituiti con legge, che esercitano funzioni amministrative, di controllo e regolatorie in settori considerati sensibili o ad alto contenuto tecnico, tali da
esigere
una
peculiare
posizione
di
autonomia
e
indipendenza nei confronti del Governo, allo scopo di garantire una neutralità rispetto agli interessi coinvolti. Altro carattere distintivo è la concentrazione, in capo a tali organismi, di poteri normativi, di vigilanza, sanzionatori e di risoluzione di controversie, che sinteticamente vengono definiti regolazione. Il tratto davvero caratteristico e comune alle Autorità amministrative
indipendenti
consiste,
tuttavia,
nella
indipendenza dal potere politico, con cui, però, spesso instaurano una dialettica e varie forme di collaborazione attraverso la trasmissione di rapporti e relazioni al Governo e al Parlamento. Si dice generalmente che le Autorità indipendenti sono neutrali per sottolineare proprio l’elemento caratteristico di cui sono dotate rispetto alle autorità amministrative tradizionali, che, per precetto costituzionale, sono imparziali. Si suole in
questo senso assimilarle alle autorità giurisdizionali che prendono decisioni in posizione di terzietà. La
neutralità
dovrebbe,
quindi,
identificarsi
con
l’indifferenza per gli interessi in gioco, mentre l’imparzialità è propria dell’amministrazione in senso tradizionale, la quale è portatrice di un proprio interesse che non deve però realizzarsi con
l’immotivato
e
irragionevole
sacrificio
di
altri
e
concomitanti interessi.
3.7.2 Le Autorità attualmente operanti Le Autorità indipendenti non costituiscono una categoria omogenea. Sono state istituite in tempi diversi, sono disciplinate secondo criteri non sempre omogenei, e si differenziano fra loro per il tipo di funzioni svolte (di regolamentazione, di supervisione, di tutela di diritti o paragiurisdizionali) e per i settori di intervento. Attualmente sono considerate autorità amministrative indipendenti: la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), che si occupa della tutela degli investitori, della vigilanza sugli intermediari finanziari, dell’efficienza, trasparenza e sviluppo del mercato mobiliare italiano; l’Istituto
per
la
vigilanza
sulle
assicurazioni
(IVASS), che mantiene le prerogative del precedente Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP),
cui
è
subentrato,
con
funzioni
di
regolamentazione e vigilanza nel settore assicurativo,
attuando un più stretto collegamento con la vigilanza bancaria; l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), istituita con L. 249/1997 per svolgere una funzione attiva di controllo dell’intero mercato delle comunicazioni; l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) o Antitrust, istituita con L. 287/1990, che ha compiti
di
vigilanza
sulle
intese
restrittive
della
concorrenza, sugli abusi di posizione dominante, nonché di controllo e valutazione sui casi di concentrazione di imprese che comportino la costituzione o il rafforzamento di posizioni dominanti restrittive della concorrenza; l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), istituita con L. 190/2012 (legge anticorruzione). Ha il compito di assistere le pubbliche amministrazioni nella pianificazione e nell’assolvimento delle misure di prevenzione della corruzione, con particolare riferimento al settore degli appalti; l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente
(ARERA),
istituita
con
L.
481/1995.
Inizialmente doveva occuparsi della regolamentazione dei settori dell’energia elettrica e del gas, favorendo lo sviluppo di un mercato concorrenziale e assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sul territorio nazionale. Nel 2011, le sono state attribuite funzioni di regolazione e controllo in materia di servizi idrici e nel 2018 anche sul ciclo dei rifiuti;
l’Autorità per la regolazione dei trasporti (ART), istituita dal D.L. 201/2011 conv. dalla L. 214/2011, per la regolazione nel settore dei trasporti e dell’accesso alle relative
infrastrutture
nonché
ai
servizi
accessori,
definendo anche i livelli di qualità dei servizi di trasporto e dei contenuti minimi dei diritti che gli utenti possono rivendicare nei confronti dei gestori; il Garante per la protezione dei dati personali, ora disciplinato dal D.Lgs. 196/2003 (Codice della privacy), ha il compito di assicurare la tutela dell’interessato con riferimento al trattamento dei dati personali effettuato da soggetti pubblici e privati; la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sul diritto di sciopero, istituita dalla L. 146/1990, con compiti di bilanciamento fra il diritto di sciopero e i diritti fondamentali della libertà della persona; la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP), istituita con D.Lgs. 124/1993, il cui compito è garantire la tutela del risparmio, la trasparenza e il corretto funzionamento del sistema dei fondi pensione; l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (AGIA), istituita con la L. 112/2011. Ha il compito di promuovere l’attuazione delle misure previste dalla convenzione
di
New
York
e
da
altri
strumenti
internazionali finalizzati alla promozione e alla tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (GNPL),
istituito dal D.L. 146/2013. Svolge un’attività di controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, quali gli istituti penitenziari, i luoghi di polizia, i centri per gli immigrati, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), istituite dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari), i trattamenti sanitari obbligatori (TSO), le residenze per anziani. Controversa è l’inclusione, in questo elenco, anche della Banca d’Italia, la quale, pur svolgendo attività di controllo e avendo caratteristiche analoghe a quelle delle altre autorità indipendenti, se ne differenzia per la molteplicità e complessità delle funzioni svolte, per le particolari garanzie che rafforzano la sua indipendenza (fissate anche da atti giuridici emanati dall’Unione europea) e per la sua completa autonomia finanziaria, che le consente di operare senza oneri per il bilancio dello Stato e per i soggetti vigilati.
3.8 L’Amministrazione statale periferica e le Amministrazioni statali non territoriali I
principi
costituzionali
dell’autonomia
e
del
decentramento (art. 5 Cost.), prima ancora che il principio di sussidiarietà, postulano che l’organizzazione amministrativa dello Stato sia distribuita sul territorio così da soddisfare in modo congruo esigenze di funzionalità e di prossimità ai cittadini. Per quanto concerne l’Amministrazione statale, non tutti i Ministeri sono muniti di uffici periferici. Una storica articolazione del Ministero dell’Interno, con rilevanza in ambito provinciale, è costituita dal Prefetto, preposto all’Ufficio Territoriale del Governo (UTG) che, istituito con D.P.R. 287/2001, ha sostituito la Prefettura. Il Prefetto rappresenta il Ministro e svolge funzioni di raccordo tra centro e periferia. L’UTG assicura, nel rispetto dell’autonomia funzionale e operativa degli altri uffici periferici delle Amministrazioni statali, le funzioni di rappresentanza unitaria dello Stato sul territorio. Le funzioni di rappresentanza unitaria sono assicurate, tra l’altro, mediante costituzione di un ufficio unico di garanzia dei rapporti tra i cittadini e lo Stato.
Molti dei compiti di controllo sugli enti locali di cui il Prefetto era investito sono venuti meno. Tuttavia, residuano in capo a tale organo alcune importanti funzioni. In particolare: ha compiti rilevanti in materia di ordine pubblico e sicurezza pubblica in ambito provinciale; partecipa al procedimento di espropriazione; svolge funzioni in relazione alle elezioni politiche e amministrative; sovrintende al riconoscimento delle persone giuridiche private; presiede la conferenza permanente dei responsabili degli uffici statali che operano nella Provincia. Gli UTG hanno mantenuto, per disposizione del D.Lgs. 300/1999, le attribuzioni superstiti delle Prefetture e hanno assunto quelle che il decreto ha loro attribuito ex novo, vale a dire tutte quelle funzioni che non sono state conferite ad altri uffici
all’esito
del
riordino
delle
attribuzioni
dell’Amministrazione periferica dello Stato (es. le funzioni di controllo
contabile
e
di
legittimità
sulle
articolazioni
periferiche dello Stato sono esercitate dalle ragionerie provinciali).
3.9 Gli enti locali L’ente locale è un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica di diritto pubblico che esercita funzioni e ha competenze
territorialmente
e
funzionalmente
limitate. La competenza degli organi locali è, dunque, ricondotta nei margini dei limiti territoriali dell’ente, in quanto esso persegue solo gli interessi pubblici concernenti tale circoscrizione. Nell’ambito degli enti locali si segnalano poi gli enti locali territoriali, caratterizzati dal fatto che il territorio della circoscrizione non solo rappresenta un limite per la competenza degli organi, ma è un elemento costitutivo dell’ente stesso, i cui organi di governo sono rappresentativi della popolazione residente. In quanto enti pubblici, gli enti locali possono essere dotati di
potestà
amministrative
(autarchia)
e
normative
(autonomia). L’attribuzione di funzioni agli enti locali realizza il decentramento autarchico, che si contrappone al decentramento burocratico nel quale, invece, le funzioni sono attribuite ad organi periferici di dicasteri statali (o di un ente locale più ampio). Secondo l’art. 114 Cost., i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Con ciò la Costituzione delinea l’assetto del
decentramento italiano e l’ordine di elencazione evidenzia anche l’orientamento del principio di sussidiarietà, come delineato a seguito della riforma costituzionale varata con L. cost. 3/2001, secondo il quale le funzioni amministrative vanno svolte principalmente dall’ente più vicino al territorio, per poi salire per gradi a livelli di sempre maggiori dimensioni. L’elenco contenuto nell’art. 114 Cost. non esaurisce tutti gli enti previsti dall’ordinamento italiano. A quelli citati, infatti, vanno aggiunti gli enti locali previsti solo a livello legislativo, quali gli ulteriori enti territoriali elencati nell’art. 1 D.Lgs. n. 267/2000 e disciplinati dallo stesso decreto legislativo (le Comunità montane, le Comunità isolane, le Unioni di Comuni e i Consorzi tra Comuni), nonché gli enti locali, ma non territoriali, previsti da altre leggi statali (tra essi si possono annoverare le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le Aziende sanitarie locali, gli ordini professionali), oltre agli enti locali previsti da leggi regionali. Non si possono, invece, considerare enti locali le circoscrizioni di decentramento comunale poiché non sono dotate di soggettività giuridica e, quindi, non sono enti pubblici ma organi del Comune, seppur complessi e dotati di una particolare forma di autonomia.
Capitolo 4 L’attività della Pubblica Amministrazione 4.1 I principi generali dell’attività amministrativa L’azione amministrativa si fonda su una serie di principi che la P.A. non può disattendere, che sono desumibili dalle norme
costituzionali,
dalla
legislazione
ordinaria
e
dall’ordinamento europeo. Detti principi possono essere così sintetizzati: principio di legalità; principi di buon andamento e imparzialità;
principio
di
ragionevolezza;
principio
di
sussidiarietà;
principio
di
proporzionalità;
principio
di
pubblicità e trasparenza; principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini contro la P.A.; principio del servizio esclusivo della Nazione; principio di responsabilità.
4.1.1 Il principio di legalità L’art. 97 Cost. è la norma maggiormente invocata a fondamento del principio di legalità dell’organizzazione e dell’azione amministrativa. Si stabilisce, al comma 2, che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione.
Secondo diversa opinione, il principio di legalità sarebbe deducibile dal complesso della Costituzione, e nel suo valore sostanziale esso sarebbe compreso e assorbito nel principio della riserva di legge, valendo come limite di contenuto per il regolamento e per la legge. In verità, il principio della riserva di legge – che nello stesso art. 97 Cost. trova esplicita formulazione – non si identifica con il principio di legalità. Il principio di riserva di legge coinvolge più propriamente il rapporto tra le fonti del diritto. La Costituzione, che occupa il gradino più alto nella scala delle fonti, distribuisce i compiti tra la legge e i regolamenti, attribuendo alla legge la disciplina di una determinata materia in via assoluta o in via relativa. Il principio di legalità, invece, riguarda il rapporto con l’azione amministrativa. L’azione dei pubblici poteri deve avere un fondamento normativo e, se del caso, la legge provvede a dettare la disciplina fondamentale della materia, cioè le direttrici lungo le quali l’azione amministrativa dovrà muoversi.
4.1.2 I principi di buon andamento e imparzialità Il comma 2 dell’art. 97 Cost. stabilisce che l’azione amministrativa deve essere improntata ai principi di buon andamento e imparzialità. Per buon andamento si intende l’efficienza dell’azione amministrativa, ovvero la sua rispondenza all’interesse pubblico affidato alle cure dell’Amministrazione stessa. L’espressione abbraccia la relazione fra risorse impiegate
(umane e materiali) e risultati ottenuti (efficienza in senso stretto), come il rapporto tra risultati ottenuti e obiettivi prestabiliti (efficacia). L’azione amministrativa può essere: efficace ma non efficiente, perché i risultati voluti sono stati ottenuti con gran dispendio di risorse; efficiente
ma
non
efficace,
quando
i
risultati
corrispondono alle risorse impiegate, ma non sono adeguati rispetto agli obiettivi perché le risorse erano insufficienti o gli obiettivi velleitari; inefficace e inefficiente; efficace ed efficiente, ipotesi quest’ultima che ricorre quando v’è un giusto rapporto tra risorse, risultati e obiettivi. Il principio di imparzialità – inserito dalla L. 69/2009 tra quelli che la Pubblica Amministrazione deve rispettare nello svolgimento del procedimento amministrativo – è riconducibile, dal canto suo, al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e indica che l’Amministrazione, nella cura degli interessi che le sono affidati, deve essere equidistante dagli interessi in competizione. In sintesi può ritenersi che l’art. 97 Cost. allorquando si riferisce
all’imparzialità
della
Pubblica
Amministrazione
intenda ispirarsi ad un principio di democraticità che deve connotare l’azione amministrativa; viceversa, con riguardo al buon
andamento
intende
riferirsi
all’efficienza dell’azione amministrativa.
più
specificamente
La L. 19-6-2019, n. 56 (legge concretezza) ha istituito, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Nucleo delle azioni concrete di miglioramento dell’efficienza amministrativa, denominato “Nucleo della Concretezza”. A questo organo, che opera anche in collaborazione con il Prefetto, è affidata la concreta realizzazione delle misure indicate nel Piano triennale delle azioni concrete per l’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni. Tale Piano è predisposto annualmente dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri e prevede:
azioni dirette a garantire la corretta applicazione delle disposizioni in materia di organizzazione, funzionamento, trasparenza
e
Amministrazioni
digitalizzazione e
la
delle
conformità
Pubbliche dell’attività
amministrativa ai principi di imparzialità e buon andamento; azioni dirette a migliorare l’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, con indicazione dei tempi per la realizzazione delle azioni correttive.
4.1.3 Il principio di ragionevolezza Si tratta di un principio fondamentale in cui confluiscono il principio di imparzialità, di eguaglianza e di buon andamento.
Significa
che
l’attività
della
Pubblica
Amministrazione deve essere immune da censure sul piano logico, deve essere aderente ai dati di fatto e agli interessi
emersi nel corso dell’istruttoria, coerente con le premesse e i criteri fissati dalla stessa Amministrazione. Il rispetto del principio di ragionevolezza presuppone una concordanza tra le fonti (che per definizione sono generali e astratte) e la realtà. La violazione di questo principio si concreta in un eccesso di potere. Il provvedimento che scaturisce dall’attività amministrativa può risultare illegittimo perché presenta una motivazione
contraddittoria
(appunto,
non
ragionevole)
oppure potrebbe essere viziato per ingiustificata disparità di trattamento.
4.1.4 Il principio di sussidiarietà Il principio di sussidiarietà – di origine europea, ma recepito nell’ordinamento italiano con l’art. 118 Cost. (come riformulato dalla legge costituzionale n. 3/2001) – prevede che l’intervento degli organi dello Stato debba essere inteso esclusivamente come sostitutivo nel caso in cui l’autorità più prossima ai cittadini sia impossibilitata ad agire per conto proprio. Tale principio implica che: le diverse istituzioni, nazionali e sovranazionali, debbano tendere a creare le condizioni che permettono alla persona e alle aggregazioni sociali (i cd. corpi intermedi: famiglia, associazioni, partiti) di agire liberamente senza sostituirsi a loro nello svolgimento delle loro attività;
l’entità di livello superiore non deve agire in situazioni nelle quali l’entità di livello inferiore (e, da ultimo, il cittadino) è in grado di agire per proprio conto; l’intervento dell’entità di livello superiore debba essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore; l’intervento pubblico sia attuato quanto più vicino possibile al cittadino; prossimità del livello decisionale a quello di attuazione. L’art.
118
co.
1,
Cost.
dispone
che
le
funzioni
amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Ciò significa che le attività amministrative devono essere svolte dall’entità territoriale amministrativa più vicina ai cittadini, ossia dai Comuni, mentre i livelli amministrativi territoriali superiori intervengono solo se possono rendere il servizio in maniera più efficace ed efficiente. La sussidiarietà, in definitiva, può essere vista sotto un duplice aspetto: in senso verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini ai bisogni del territorio; in senso orizzontale: il cittadino, sia come singolo che attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di
cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più prossime. Sostanzialmente, la sussidiarietà è un criterio regolatore di competenze, finalizzato ad assicurare l’efficacia e l’efficienza dell’organizzazione dei pubblici poteri e, in definitiva, il buon andamento della funzione amministrativa (art. 97 Cost.).
4.1.5 Il principio di proporzionalità Il principio di proporzionalità trae origine dal diritto tedesco in base al quale le limitazioni alle libertà individuali non devono superare la misura di quanto assolutamente
necessario
al
raggiungimento
dell’obiettivo di interesse pubblico perseguito. Il principio, dunque, può essere sezionato in 3 elementi: idoneità: il mezzo è idoneo quando tramite esso si può sensibilmente favorire il risultato desiderato; necessarietà: il mezzo è necessario se, posto che non è disponibile altro mezzo ugualmente efficace, incide in modo il meno negativo possibile nella sfera del singolo (rappresenta, quindi, il mezzo più mite, tra più mezzi ugualmente efficaci). proporzionalità in senso stretto: mezzo e fine non devono essere sproporzionati l’uno rispetto all’altro. Si può dire, quindi, che tale principio impone alla Pubblica Amministrazione, nel perseguimento dell’interesse pubblico,
di impiegare mezzi commisurati e tempi idonei allo scopo da perseguire, in maniera efficace proporzionatamente. La proporzionalità consiste nell’esercitare la giusta misura del potere in modo da assicurare un’azione idonea ed adeguata alle circostanze di fatto, che non alteri il giusto equilibrio fra i valori, gli interessi e le situazioni giuridiche. Questo principio prevede che gli organi amministrativi tengano in debita considerazione le esigenze dei soggetti titolari di interessi compresenti nell’azione amministrativa al fine di ricercare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile per gli stessi interessi rispetto al fine pubblico da perseguire.
4.1.6 Il principio di pubblicità e trasparenza L’art. 1, co. 1, L. 241/1990, come modificato dalla L. 15/2005,
ha
introdotto
espressamente
il
principio
di
trasparenza quale regola di condotta della P.A. Tale principio impone all’Amministrazione il dovere di rendere visibile, controllabile e accessibile dall’esterno il proprio operato. Esso si concretizza nell’attribuzione ai cittadini del potere di esercitare un controllo democratico sullo svolgimento dell’attività amministrativa e sulla conformità della stessa agli interessi sociali e ai principi costituzionali. Nella stessa ottica, la L. 15/2005 ha ridisegnato l’istituto dell’accesso agli atti del procedimento amministrativo, che è considerato il minimum indefettibile per assicurare a tutti il godimento
del
amministrativa.
diritto
alla
trasparenza
dell’azione
Precetti volti all’attuazione di questo principio sono l’obbligatoria
motivazione
del
provvedimento
amministrativo e la necessaria partecipazione dei privati al procedimento amministrativo. La L. 190/2012 per il contrasto alla corruzione nelle Pubbliche Amministrazioni, sulla base della cui delega è stato emanato il D.Lgs. 33/2013, ha notevolmente esteso la nozione di trasparenza amministrativa. Secondo l’art. 1, co. 1, L. 190/2012,
la
trasparenza
dell’attività
amministrativa
è
assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle Pubbliche Amministrazioni, di tutte le
informazioni
amministrativi,
relative
con
criteri
ai di
procedimenti
facile
accessibilità,
completezza e semplicità di consultazione (sia pure nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali).
4.1.7 Il principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini contro la Pubblica Amministrazione Al riguardo rilevano due norme contenute nella Carta costituzionale e, segnatamente, gli artt. 24 («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»)
e
١١٣
(«Contro
gli
atti
della
Pubblica
Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione
o per particolari categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della Pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa»). Consacrando il diritto alla tutela giurisdizionale tra i fondamenti dell’ordinamento costituzionale, l’art. 24 afferma il principio di azionabilità delle situazioni giuridiche soggettive (diritti e interessi) dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione. Il comma 1 trova applicazione nell’art. 113 Cost., definito clausola generale di impugnabilità degli atti
amministrativi,
a
garanzia
della
giurisdizione
amministrativa generale di legittimità a tutela di interessi legittimi, parallela a quella della magistratura ordinaria a tutela dei diritti soggettivi.
4.1.8 Il principio di responsabilità Ai sensi dell’art. 28 Cost., i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili,
secondo
le
leggi
penali,
civili
e
amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. La responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti è affiancata dalla responsabilità dell’ente: ne risulta un rafforzamento del dovere di diligenza e della garanzia dei cittadini. In tal senso la disposizione citata realizza l’obiettivo culturale di infrangere l’immunità dello Stato e di superare il principio per cui la Pubblica Amministrazione non può
commettere illecito, del quale sono eventualmente responsabili i soli dipendenti, a titolo personale e privato. Le problematiche connesse all’art. 28 si legano al rapporto esistente
tra
i
due
tipi
di
responsabilità,
del
funzionario/dipendente e dell’ente. Gli indirizzi sono tre:
la responsabilità dell’ente è indiretta, essendo quella del dipendente diretta e non potendo perciò coesistere due responsabilità dirette; la responsabilità dell’ente è diretta quando consegue ad un provvedimento oppure all’inadempimento di un obbligo specifico (contrattuale o ex lege); indiretta nel caso sia prodotta da un comportamento materiale collegato all’esercizio di funzioni e mansioni pubbliche; nulla
si
frappone
alla
configurazione
di
due
responsabilità dirette, dell’ente e del dipendente, una volta che, per finzione normativa, uno stesso fatto sia addebitabile a due soggetti distinti.
4.2 Discrezionalità amministrativa, discrezionalità tecnica e merito 4.2.1 La discrezionalità amministrativa L’attività della P.A. si estrinseca tradizionalmente nella cura concreta degli interessi pubblici indicati dalla legge (cd. interessi primari). Il soggetto pubblico preposto al perseguimento di un interesse pubblico deve agire osservando i contenuti e i limiti stabiliti dalla legge e operare nel modo ritenuto
il
migliore
possibile
in
base
ai
principi
di
imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost. La discrezionalità amministrativa, dunque, è l’ambito decisionale
entro
il
quale
la
Pubblica
Amministrazione può operare nei limiti tracciati dalla legge. Un uso eccessivo o distorto della discrezionalità amministrativa conduce alla possibile illegittimità delle decisioni assunte dagli organi amministrativi. L’attività amministrativa è discrezionale allor quando il potere di scelta in capo all’organo agente è esercitabile sulla scorta di due o più soluzioni tutte astrattamente applicabili e idonee a realizzare l’obiettivo d’imparzialità enunciato nella Costituzione. Gli atti discrezionali, perciò, sono espressione del potere che l’Amministrazione ha di compiere valutazioni di
convenienza e opportunità, in vista del raggiungimento dell’interesse pubblico, e quindi di decidere se è il caso o meno di adottare determinati provvedimenti. Quello dell’esercizio del potere discrezionale costituisce un momento essenziale dell’azione amministrativa, in quanto la legge
attribuisce
all’Amministrazione
un
margine
di
apprezzamento più o meno ampio a seconda delle circostanze. L’esercizio del potere discrezionale, dunque, permette di decidere al meglio in merito all’opportunità di agire e al contenuto dell’attività; discrezionalità significa esprimere una valutazione comparativa dei vari interessi in gioco, pubblici e privati.
4.2.2 La discrezionalità tecnica Dalla
discrezionalità
amministrativa
va
distinta
la
discrezionalità tecnica, espressione che qualifica quelle scelte che si compiono attraverso un complesso giudizio valutativo classificatorio e mediante il ricorso a conoscenze tecnico specialistiche. Indica, in sostanza, il margine di apprezzamento che caratterizza alcune scelte della Pubblica Amministrazione contenenti giudizi complessi, adottate sulla base dei canoni specialistici
del
settore
di
riferimento
(Lazzara).
La
discrezionalità tecnica, perciò, consiste nella valutazione dei fatti supportata dalle regole tecniche tratte dalle scienze oggetto del tipo di valutazione che si deve adottare. Ne costituiscono espressione, ad esempio, i giudizi delle commissioni negli esami e nei concorsi pubblici.
Il margine di apprezzamento di cui gode la Pubblica Amministrazione coincide con l’opinabilità tecnico-scientifica del giudizio da compiere: in presenza di un determinato esito valutativo gli effetti da produrre sono già stabiliti dalla legge.
4.2.3 Il merito dell’azione amministrativa La sussistenza di una certa libertà valutativa riservata alla Pubblica Amministrazione viene talvolta sintetizzata con la nozione di merito amministrativo, concetto quest’ultimo che può essere inteso secondo due accezioni: lo si fa coincidere con l’opportunità (intesa quale obbligo di rendere il provvedimento il più conforme possibile alle regole di equità, imparzialità e buona amministrazione); lo
si
riconduce
al
contenuto
sostanziale
del
provvedimento, il quale comprende l’opportunità, le valutazioni
tecniche
e
le
qualificazioni
giuridiche
applicate. Nella seconda accezione, il merito non comprende soltanto la ponderazione comparativa degli interessi nel momento che precede la decisione amministrativa, ma l’intero percorso dalla proposizione dell’istanza all’emanazione del provvedimento, che è l’espressione della cura concreta dell’interesse pubblico. In dottrina, il merito è variamente definito. Alcuni autori lo riconducono ai profili discrezionali dell’atto amministrativo: sarebbe, cioè, il risultato di una valutazione discrezionale. Secondo altra opinione, invece, il merito è il momento più
interno della fase ponderativa degli interessi e coincide con quella parte dell’atto o dell’attività che non è disciplinata in modo diretto ed espresso dalle norme.
4.2.4 Il sindacato giurisdizionale delle scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione La distinzione tra discrezionalità e merito rileva ai fini del riparto della giurisdizione, ai fini del procedimento amministrativo, ai fini della motivazione del provvedimento amministrativo e ai fini del conformarsi dell’eccesso di potere. Per quanto riguarda quest’ultimo profilo, va rilevato che l’inadeguata opportunità del provvedimento significa cattivo esercizio quanto
della
discrezionalità
l’opportunità
comprende
amministrativa, in anche
la
valutazione
comparativa degli interessi. Un provvedimento non è opportuno quando non è il più conveniente rispetto al luogo, al tempo e alla circostanza. Allorquando il provvedimento amministrativo persegue una finalità diversa da quella tipica, si configura l’ipotesi dell’eccesso
di
potere,
sindacabile
dal
giudice
amministrativo. Attraverso la constatazione di questo vizio, il giudice amministrativo controlla il modo (legittimo o meno) con cui l’Amministrazione ha esercitato la discrezionalità, ovvero il modo con cui sono stati ponderati gli interessi coinvolti nell’azione amministrativa. Ciò non significa valutare la bontà del risultato conseguito, in quanto significherebbe entrare nel merito del fatto, il che è
consentito solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Vizio di merito significa, infatti, violazione delle regole di opportunità, convenienza e buona amministrazione; il merito rappresenta
la
sfera
libera
dell’azione
amministrativa
discrezionale, ovvero l’ambito in cui essa, rispettati i limiti stabiliti dalle norme, può svolgersi senza essere soggetta ad un sindacato giurisdizionale.
4.3 L’attività vincolata Una fondamentale distinzione dell’azione amministrativa è quella che concerne l’attività discrezionale da quella vincolata; quest’ultima trova tutti gli elementi da acquisire e valutare, ai fini di una decisione amministrativa, già prefigurati rigidamente dalla legge, di modo che l’autorità amministrativa è chiamata a svolgere solo una verifica tra quanto disposto dalla legge e quanto presente nella realtà, sicché il modus procedendi è quasi meccanico e ha un esito certo. Molto spesso gli atti vincolati implicano l’applicazione di conoscenze tecniche e in questi casi la norma attributiva del potere fa discendere automaticamente da un accertamento tecnico una predeterminata conseguenza giuridica. Dunque, quando adotta un provvedimento vincolato, la Pubblica
Amministrazione
non
ha
alcun
margine
di
apprezzamento discrezionale; sicché è vincolata l’azione amministrativa condotta sulla base di uno specifico parametro giuridico di riferimento in modo da escludere qualsiasi margine di valutazione e di scelta. In tal caso, l’ente pubblico ha l’obbligo di intervenire con un atto dovuto, senza che possa essere effettuata alcuna comparazione tra interessi pubblici e interessi privati. Diversamente,
quando
la
legge
lascia
all’autorità
amministrativa un certo margine di apprezzamento in ordine a
taluni aspetti della decisione da assumere (se prenderla, su cosa, con quale modalità e in che momento), si parla di discrezionalità amministrativa; in pratica, in tali casi, la legge non riesce a regolare ogni particolare ipotesi, ma si limita a prefigurare gli aspetti essenziali della fattispecie e dell’esercizio della potestà pubblica, rimettendo poi all’autorità amministrativa le ulteriori valutazioni correlate ai profili o agli interessi particolari del caso. La discrezionalità, quindi, presuppone l’attribuzione di uno spazio decisionale libero all’autorità amministrativa, che deve rispettare i confini fissati dalle disposizioni di legge e ispirarsi ai criteri di buona amministrazione.
Capitolo 5 I documenti amministrativi: dal cartaceo al digitale 5.1 Il Testo Unico sulla documentazione amministrativa
(D.P.R. 445/2000): finalità e ambito applicativo L’art. 1, co. 1, lett. a), D.P.R. 28-12-2000, n. 445 (Testo Unico
sulla
documento
documentazione amministrativo
amministrativa) ogni
definisce
rappresentazione,
comunque formata, del contenuto di atti, anche interni, delle Pubbliche Amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa (...). Il Testo Unico viene, perciò, considerato un ponte tra il vecchio e il nuovo, disciplinando sia strumenti tradizionali (autocertificazioni, autentiche ecc.), sia la fase di transizione dai documenti cartacei a quelli informatici, sia il nuovo regime, fondato su strumenti informatici e telematici (documento informatico, firma digitale, carta d’identità elettronica, trasmissione di dati per via telematica ecc.), la cui disciplina è
attualmente dettata dal D.Lgs. 82/2005 (CAD – Codice dell’Amministrazione Digitale). I soggetti destinatari delle disposizioni del Testo Unico sono tassativamente elencati dallo stesso provvedimento che, all’art. 2, indica nell’ordine: la Pubblica Amministrazione; i gestori o esercenti di pubblici servizi, nei rapporti tra loro e in quelli con l’utenza; i privati che vi consentono. Il concetto di Pubblica Amministrazione è inteso in senso assai ampio, onde consentire la massima applicazione della normativa sulla semplificazione nei rapporti tra cittadini e P.A. Sono così inclusi nella qualifica non solo gli organi statali, ma anche quelli degli enti pubblici territoriali ed in genere degli enti
locali,
comprese
le
Camere
di
commercio.
La
qualificazione di gestori di pubblici servizi, invece, si ricava dalle stesse definizioni contenute nell’art. 1, lett. o) e p), D.P.R. 445/2000, ove si fa espresso riferimento ai gestori di pubblici servizi (quali soggetti certificanti e/o procedenti) nei loro rapporti con l’utenza. L’art. 2 D.P.R. 445/2000 ha esteso l’utilizzabilità degli strumenti
di
semplificazione
amministrativa
anche
nei
rapporti coi privati che vi consentano: trattandosi, in questa ipotesi, di soggetto destinatario che, a differenza della Pubblica Amministrazione, non ha già in suo possesso, né è tenuto a certificare i dati certi, non è ovviamente previsto a suo carico alcun obbligo di ricevimento della dichiarazione sostitutiva,
ma gli è attribuita una semplice facoltà. L’utilizzo delle autocertificazioni è, pertanto, subordinato al consenso dei due soggetti del rapporto, ossia del dichiarante e del ricevente la dichiarazione. Ai sensi dell’art. 3 T.U., le disposizioni in materia di produzione di atti o documenti possono essere utilizzate da: cittadini italiani e dell’Unione europea; persone giuridiche, le società di persone, le pubbliche amministrazioni, gli enti, i comitati e le associazioni aventi sede legale in Italia o in uno dei paesi dell’Unione europea; cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia limitatamente ai dati verificabili o certificabili in Italia da soggetti pubblici; cittadini extracomunitari che ne hanno necessità in procedimenti relativi a materie per cui esiste una convenzione fra il loro Paese di origine e l’Italia.
5.2 Il certificato quale atto amministrativo 5.2.1 Nozione Oltre all’attività provvedimentale, la P.A. pone in essere atti che, pur essendo concreti e puntuali, non sono provvedimenti (ossia dotati di efficacia), ma strumentali ad altri poteri (pareri, proposte, accertamenti). Il certificato è il documento tipico (ossia previsto espressamente dalla legge) rilasciato da un’Amministrazione avente funzione di ricognizione, riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche. I certificati rientrano, pertanto, nella categoria degli atti amministrativi non aventi carattere e forza di provvedimenti e, più in particolare, in quella degli atti non aventi contenuto di volizione, ma natura e contenuto meramente ricognitivo di situazioni di fatto preesistenti, di cui essi dichiarano e certificano l’esistenza. A differenza di altri atti ricognitivi, che presuppongono un’attività di apprezzamento del fatto (come le ispezioni e le inchieste), i certificati si limitano a dare atto, al fine di informarne in modo più agevole e certo i terzi, di fatti già accertati e qualificati da un altro atto giuridico. Essi quindi
(e in ciò sta il loro tratto distintivo dalle altre dichiarazioni di scienza) non aggiungono e non creano nuove qualità, ma semplicemente attestano quelle esistenti. La definizione di certificato è contenuta nell’art. 1, co. 1, lett. f, D.P.R. 445/2000. Le informazioni esternate mediante il certificato si distinguono, dunque, da tutte le altre informazioni in quanto esse sono dotate di quella particolare qualità giuridica che è la certezza legale; pertanto, a monte dei certificati deve sempre esservi un’attività diretta a creare qualificazioni giuridiche di persone e di cose, in modo immediato e diretto (ossia l’attività di certazione). Infatti, è il procedimento certificatorio che crea la certezza poi esternata nel certificato: quest’ultimo si limita a mettere in circolazione un dato che giuridicamente già è stato qualificato in un altro atto giuridico.
5.2.2 Tipologie L’attività di certazione può svolgersi in due modi diversi, entrambi presenti nella definizione di certificato di cui all’art. 1, co. 1, lett. f) del Testo Unico: da un lato (ed è l’ipotesi più frequente) essa si svolge in momenti precedenti ed autonomi rispetto all’attività di certificazione; dall’altro, invece, viene svolta appositamente in funzione servente di una specifica attività di certificazione. Nel primo caso si parla di certificati propri, cioè quando essi riproducono certezze legali tratte da registri, albi o elenchi pubblici; nel secondo caso si parla di certificati impropri, allorquando l’attività di certazione non viene svolta in una fase antecedente, autonoma e distinta rispetto al momento della
certificazione ma quasi coincidente con essa (è il caso dei certificati medici, sanitari e veterinari). In tale secondo caso, le certificazioni non esternano fatti già rappresentati in registri, albi o elenchi, ma costituiscono dichiarazioni di scienza provenienti da soggetti pubblici (e l’attività di certazione e di certificazione sono svolte dallo stesso soggetto, dotato sia del potere di accertare che di certificare). In conclusione l’atto di certezza (la certificazione) ed il documento (il certificato) sono legati da un vincolo di dipendenza reciproca, il cui fine è la produzione degli effetti propri dell’atto; pertanto, come il documento da solo non produce alcun effetto di certezza, così non lo produce l’atto di certezza che non si materializzi in un documento (G. Arena).
5.2.3 Validità La validità dei certificati è, ai sensi dell’art. 41 D.P.R. 445/2000, diversificata a seconda che essi abbiano ad oggetto: stati,
qualità
personali
e
fatti
non
soggetti
a
modificazioni: tali certificati hanno validità illimitata, in quanto attestanti la nascita, la morte, il titolo di studio, la maternità e la paternità; stati, qualità personali e fatti soggetti a modificazioni: tali certificati hanno validità di sei mesi dalla data del rilascio,
tranne
che
una
disposizione
di
legge
o
regolamentare speciale non preveda una durata superiore e riguardano la cittadinanza, la residenza, lo stato di
famiglia, lo stato di invalidità, l’iscrizione in albi o in liste elettorali, matrimonio ecc.
5.3 Le autocertificazioni 5.3.1 Funzione, tipologie e validità Le autocertificazioni, che sono poste in essere da soggetti privati e non da pubblici dipendenti, svolgono una duplice funzione: da un lato, infatti, pongono in circolazione informazioni dotate della qualità giuridica della certezza, dall’altro semplificano i rapporti tra le Amministrazioni e i cittadini
facilitando
gli
adempimenti
relativi
alla
documentazione amministrativa. Anche le autocertificazioni si distinguono in proprie e improprie, differendo tra loro non tanto in rapporto alla forma o alla funzione, ma piuttosto al contenuto. Si distingue, infatti: la dichiarazione sostitutiva di certificazione, che è il documento
sottoscritto
dall’interessato,
prodotto
in
sostituzione dei certificati (art. 1, co. 1, lett. g) T.U.); la dichiarazione sostitutiva di atti di notorietà, che, invece, è il documento, sottoscritto dall’interessato, concernente stati, qualità personali e fatti che siano a diretta conoscenza di questi (art. 1, co. 1, lett. h) del Testo Unico). Tali dichiarazioni consentono ai soggetti che entrano in contatto con le Amministrazioni di non dover fornire obbligatoriamente i certificati o, comunque, i documenti a
comprova di situazioni, fatti, stati e qualità, essendo sufficienti le dichiarazioni sostitutive dei certificati o documenti medesimi, o dell’atto di notorietà. L’Amministrazione è tenuta a dare corso al procedimento amministrativo ed a verificare in via successiva la veridicità delle dichiarazioni. L’art. 48 del Testo Unico precisa che le dichiarazioni sostitutive hanno la stessa validità temporale degli atti che sostituiscono. In particolare: hanno validità illimitata i certificati rilasciati dalle Pubbliche
Amministrazioni
attestanti
stati,
qualità
personali e fatti non soggetti a modificazioni (es. la nascita); hanno validità di 6 mesi dalla data del rilascio tutte le altre certificazioni, a meno che disposizioni particolari non prevedano una durata superiore. Va sottolineato che queste dichiarazioni sostituiscono definitivamente i certificati al posto dei quali sono prodotte. Le amministrazioni procedenti, pertanto, non debbono né chiedere i certificati corrispondenti ai cittadini né acquisirli in fase di controllo, essendo sufficiente ottenere dall’Amministrazione certificante la conferma della veridicità delle dichiarazioni ricevute. Resta da precisare che se alle Amministrazioni Pubbliche è fatto divieto di chiedere le certificazioni (proibizione che può rientrare nel generale divieto di aggravare il procedimento previsto dall’art. 1, co. 2, della L. 241/1990),
i cittadini possono, tuttavia, pur sempre chiedere il rilascio di certificati nel proprio interesse, per esibirli, se lo ritengono, alle Amministrazioni procedenti, le quali, ovviamente, debbono comunque accettarli.
5.3.2 La dichiarazione sostitutiva di certificazioni Ai sensi dell’art. 46 D.P.R. 445/2000, sono comprovati con dichiarazioni,
anche
contestuali
all’istanza,
sottoscritte
dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, gli stati, le qualità personali e i fatti elencati nel citato articolo. Con la dichiarazione sostitutiva di certificazioni, dunque, il cittadino afferma e dà per vere alcune informazioni, delle quali egli è al corrente, relative a stati, fatti o qualità, risultanti nelle banche dati delle Amministrazioni Pubbliche, quali albi, elenchi, registri o fascicoli relativi a singole procedure.
5.3.3 La dichiarazione sostitutiva di atti di notorietà Ai sensi dell’art. 47 D.P.R. 445/2000, l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con la osservanza delle modalità previste dall’art. 38 dello stesso Testo Unico. La dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.
Dunque, mentre nel caso di dichiarazioni sostitutive di certificazioni vi è coincidenza tra le informazioni che formano oggetto dell’autocertificazione ed alcune di quelle che formano il contenuto di atti di certezza trascritti in pubblici registri, nel caso delle dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà le informazioni che formano oggetto della dichiarazione non trovano necessariamente riscontro nel contenuto di atti di certezza trascritti in pubblici registri.
L’elemento che caratterizza queste dichiarazioni e le accomuna alle certificazioni improprie è la riconduzione in capo ad un medesimo soggetto sia della funzione di certazione che di certificazione (che, invece, nel caso delle certificazioni e delle relative dichiarazioni viene svolta da soggetti diversi). Tuttavia, mentre le certificazioni improprie sono redatte e rilasciate da soggetti titolari di funzioni pubbliche, le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà sono redatte e rilasciate da soggetti privati.
5.3.4 L’obbligo della sottoscrizione Elemento fondamentale e comune ad entrambi i tipi di dichiarazioni
sostitutive
è
l’obbligatorietà
della
sottoscrizione autografa o digitale. La dichiarazione priva della sottoscrizione, dalla quale deriva la riferibilità al dichiarante e la conseguenziale assunzione di responsabilità, appare improcedibile. L’art. 4 del Testo Unico disciplina l’ipotesi di dichiarazione resa da chi non sa o non può firmare, stabilendo che in questo caso il pubblico ufficiale attesta che la dichiarazione è stata
resa a lui dall’interessato in costanza di impedimento a sottoscrivere. Il comma 2 del predetto art. 4 permette alternativamente al coniuge, ai figli o ad altri parenti in linea retta o collaterale fino al terzo grado, di rendere al pubblico ufficiale
la
dichiarazione
al
posto
dell’interessato
temporaneamente impossibilitato a firmare per ragioni di salute. Entrambi i casi rappresentano un’eccezione al principio che impone la sottoscrizione autografa o digitale ai fini della diretta riferibilità della dichiarazione alla persona che compie la dichiarazione.
5.3.5 I controlli sulle autocertificazioni I controlli sulle autocertificazioni rispondono alla necessità di bilanciare l’esigenza di certezza con quella di semplicità, che costituisce l’asse portante del Testo Unico. Il motivo fondamentale per cui l’art. 71 del Testo Unico prevede che le Amministrazioni procedenti effettuino idonei controlli anche a campione e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive non è tanto quello di perseguire e punire coloro che dichiarano il falso, quanto piuttosto quello di evitare che l’uso di autocertificazioni non veritiere possa viziare il processo decisionale delle Amministrazioni inducendole ad adottare provvedimenti diversi da quelli che avrebbero adottato se avessero avuto informazioni corrette. I controlli a campione sono, dunque, uno strumento di dissuasione.
La
modulistica
per
le
autocertificazioni,
che
le
Amministrazioni mettono a disposizione dei cittadini, fornisce, infatti,
ai
soggetti
che
si
accingono
a
sottoscrivere
un’autocertificazione due informazioni: che
l’Amministrazione
ricevente
l’autocertificazione
effettua controlli di routine a campione; che, qualora risultasse la non veridicità delle dichiarazioni rese,
l’interessato
decadrà
dagli
eventuali
benefici
conseguenti al provvedimento emanato sulla base della autocertificazione
falsa
e
dovrà
restituire
quanto
indebitamente ottenuto denunciato all’autorità giudiziaria incorrendo in pesanti sanzioni penali.
5.3.6 La violazione dei doveri d’ufficio La
semplificazione
del
contatto
tra
cittadini
ed
Amministrazione è un valore assoluto, da tutelare in maniera rafforzata. Per questa ragione l’art. 74, co. 1, del Testo Unico dispone che costituisce violazione dei doveri d’ufficio la mancata
accettazione
delle
dichiarazioni
sostitutive
di
certificazione o di atto di notorietà. Letta al contrario, la norma configura, nei confronti dei responsabili del procedimento delle Amministrazioni, il divieto di chiedere l’esibizione dei certificati, nei casi in cui è ammessa la presentazione delle dichiarazioni sostitutive. Il divieto è sanzionato in modo molto grave, poiché la formula della violazione dei doveri d’ufficio richiama sia le sanzioni disciplinari sia la sanzione penale
prevista dall’art. 328, co. 2, del codice penale (rifiuto di atti d’ufficio). In particolare, l’art. 74, co. 1, D.P.R. 445/2000 considera violazione dei doveri d’ufficio la mancata accettazione non solo delle dichiarazioni di cui all’art. 46, ma delle dichiarazioni “rese a norma delle disposizioni del testo unico”. La disposizione contiene una formulazione che sembra poter estendere, dunque, la sanzione della violazione dei doveri d’ufficio non alle sole dichiarazioni elencate dall’art. 46, ma ad ogni altra dichiarazione legittimamente resa in applicazione delle disposizioni del Testo Unico, anche se in ipotesi non espressamente menzionata (e purché non disciplinata in modo diverso da norme speciali).
5.4 L’acquisizione diretta dei documenti Le Amministrazioni Pubbliche e i gestori di pubblici servizi, ai sensi dell’art. 43 T.U., sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle Pubbliche Amministrazioni, previa indicazione, da parte dell’interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall’interessato. Fermo restando il divieto di accesso a dati diversi da quelli di cui è necessario acquisire la certezza o verificare l’esattezza, si considera esercitata per finalità di rilevante interesse pubblico la consultazione diretta, da parte di una Pubblica Amministrazione o di un gestore di pubblico servizio, degli archivi
dell’Amministrazione
certificante,
finalizzata
all’accertamento d’ufficio di stati, qualità e fatti ovvero al controllo sulle dichiarazioni sostitutive presentate dai cittadini. Al fine di agevolare l’acquisizione d’ufficio di informazioni e dati relativi a stati, qualità personali e fatti, contenuti in albi, elenchi o pubblici registri, le Amministrazioni certificanti sono tenute a consentire alle Amministrazioni procedenti, senza oneri, la consultazione per via telematica dei loro archivi informatici, nel rispetto della riservatezza dei dati personali.
I documenti trasmessi da chiunque ad una Pubblica Amministrazione tramite fax, o con altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale.
5.5 La “decertificazione” nel rapporto tra P.A. e cittadini L’art. 40 D.P.R. 445/2000 stabilisce che le certificazioni rilasciate dalla Pubblica Amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della Pubblica Amministrazione e i gestori di pubblici servizi, i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli artt. 46 e 47 D.P.R. 445/2000. Per acquisire le certezze giuridiche necessarie per lo svolgimento
delle
proprie
procedure
le
Pubbliche
Amministrazioni e i gestori di pubblici servizi possono, procedere all’accertamento d’ufficio dei dati o in alternativa chiedere ai privati la presentazione delle dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto di notorietà, di cui agli artt. 46 e 47, del Testo Unico. A tal fine, è stato previsto che le Amministrazioni certificanti individuino un ufficio responsabile per tutte le attività volte a gestire, garantire e verificare la trasmissione dei dati o l’accesso diretto agli stessi da parte delle Amministrazioni procedenti e sono state rafforzate le responsabilità
gravanti
sul
funzionario
dell’Amministrazione certificante a seguito della mancata risposta alla richiesta di acquisizione dei dati o di controllo
delle autocertificazioni, che non determina più solo genericamente la violazione di doveri d’ufficio, ma viene in ogni caso presa in considerazione ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei responsabili dell’omissione.
La cd. decertificazione, sancita dall’art. 40 del Testo Unico, ha il chiaro obiettivo di operare un migliore bilanciamento fra l’irrinunciabile esigenza di certezza pubblica e l’esigenza di semplicità dell’attività amministrativa e di miglioramento del rapporto fra Amministrazione e cittadini. Il divieto di utilizzo di certificati da parte delle Amministrazioni Pubbliche non compromette la possibilità delle stesse di accedere rapidamente e in modo efficace al sistema delle certezze pubbliche: esso, infatti, sancisce soltanto la definitiva dequotazione di uno strumento di circolazione della certezza, ma al tempo stesso impone l’attivazione delle Amministrazioni interessate (sia procedenti, che certificanti) per l’utilizzo di altri strumenti finalizzati allo stesso scopo, ma più compatibili con le esigenze di semplificazione e di collaborazione con i cittadini.
5.6 L’autentica di copie Oltre alle dichiarazioni sostitutive, ulteriore elemento di semplificazione
della
documentazione
amministrativa
contenuta nel Testo Unico è costituito dall’autentica di copia di un documento, che consiste nell’attestazione di conformità con l’originale scritta alla fine della copia, a cura del pubblico ufficiale autorizzato. La condizione primaria da osservare per l’utilizzo della copia autentica è che questa venga prodotta dietro esibizione dell’originale. Sono competenti ad autenticare le copie di documenti: il pubblico ufficiale dal quale è stato emesso o presso il quale è stato depositato l’originale o al quale deve essere prodotto il documento; il notaio; il cancelliere; il segretario comunale o altro funzionario incaricato dal sindaco. Inoltre, possono autenticare copie di documenti, ma con effetti limitati ai procedimenti di loro competenza, il responsabile del procedimento o qualsiasi altro dipendente competente a ricevere la documentazione, su esibizione dell’originale e senza obbligo di deposito dello stesso presso l’Amministrazione procedente.
5.7 La legalizzazione di firme e di documenti La legalizzazione di firma è un istituto giuridico finalizzato a due obiettivi: ad attestare la qualità legale del pubblico funzionario che ha apposto la firma sugli atti; ad
attestare
l’autenticità
della
firma
stessa
come
appartenente a quel funzionario o a quel pubblico ufficiale in quanto apposta in presenza del funzionario legalizzante. Nell’ordinamento vigente, la legalizzazione è prescritta: per le firme dei capi delle scuole parificate o legalmente riconosciute sui diplomi originali o sui certificati di studio da prodursi ad uffici pubblici fuori della provincia in cui ha sede la scuola; per le firme sugli atti e documenti formati nello Stato e da valere all’estero davanti ad autorità estere, ove da queste richiesto; per le firme sugli atti e documenti formati da autorità estere e da valere nello Stato. Tale istituto ha, tuttavia, perso la sua utilità nel momento in cui ha trovato ampia diffusione la firma digitale dei documenti informatici.
In merito, invece, alla legalizzazione di documenti, va detto che i documenti in lingua straniera da far valere in Italia per la Pubblica Amministrazione, devono essere legalizzati e tradotti in lingua italiana. La legalizzazione è un requisito essenziale affinché un cittadino straniero possa far valere in Italia un documento proveniente dal Paese estero di origine o di stabile residenza. Un cittadino straniero, infatti, può autocertificare determinate circostanze solo a condizione che siano già conosciute e acquisite presso l’ufficio pubblico italiano competente. Tutto ciò che non è autocertificabile va dimostrato tramite documenti che devono essere legalizzati. L’istituto della legalizzazione di documenti ha, dunque, la funzione di attribuire validità al documento secondo la legge italiana allo scopo di verificare che l’atto sia stato formalizzato nel rispetto della legislazione del Paese straniero in cui è stato formato, e che sia stato rilasciato da parte dell’ufficio competente. La
legalizzazione
consiste
praticamente
nell’apposizione di un timbro, sull’originale dell’atto da legalizzare, che attesta ufficialmente la qualifica legale del pubblico ufficiale che ha firmato l’atto, nonché l’autenticità della sua firma. Gli atti soggetti a legalizzazione sono gli atti dello stato civile, dell’anagrafe e gli atti pubblici formati in uno Stato che devono essere prodotti nel territorio di un altro Stato. Per “atto straniero” si intende l’atto redatto e compilato all’estero da Autorità straniere, anche se in lingua italiana.
5.8 La dematerializzazione dei documenti amministrativi Il tema della dematerializzazione dei documenti prodotti nell’ambito dell’attività della P.A. è al centro dell’azione di riforma della Pubblica Amministrazione ormai da diverso tempo. In particolare, il ricorrere alle tecnologie più innovative per arrivare alla definitiva eliminazione della carta, ha trovato una collocazione di ampio rilievo con l’introduzione del CAD (Codice dell’amministrazione digitale) nel 2005, dove, nell’art. 42, si fa esplicitamente riferimento al concetto di dematerializzazione (“Le pubbliche amministrazioni valutano in termini di rapporto tra costi e benefici il recupero su supporto informatico dei documenti e degli atti cartacei dei quali sia obbligatoria o opportuna la conservazione e provvedono alla predisposizione dei conseguenti piani di sostituzione degli archivi cartacei con archivi informatici, nel rispetto delle regole tecniche adottate ai sensi dell’articolo 71”). Con il termine “dematerializzazione” si vuole indicare pertanto, il progressivo incremento della gestione documentale informatizzata all’interno della P.A. e la sostituzione dei supporti tradizionali della documentazione amministrativa in favore del documento informatico. Gli obiettivi della dematerializzazione sono due:
da una parte si adottano criteri per evitare o ridurre in maniera significativa la creazione di nuovi documenti cartacei; dall’altra si punta ad eliminare i documenti cartacei attualmente esistenti negli archivi, sostituendoli con opportune registrazioni informatiche e scartando la documentazione non soggetta a tutela per il suo interesse storico-culturale.
5.9 L’informatizzazione e la digitalizzazione dell’attività amministrativa 5.9.1 Il quadro normativo di riferimento Le disposizioni in materia di attività digitale delle Pubbliche Amministrazioni, emanate a più riprese dal legislatore, sono state raccolte e riordinate in un unico contesto normativo, il Codice
dell’amministrazione
digitale
(CAD), adottato con il D.Lgs. 7-3-2005, n. 82. Il Codice, radicalmente modificato dal D.Lgs. 179/2016 e dal D.Lgs. 17/2017, ha subito ulteriori variazioni per mano della L. 157/2019, della L. 8/2020 e del D.L. 76/2020. La normativa affronta in modo organico il tema dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione
e
della
comunicazione
nell’attività
amministrativa, nei suoi aspetti organizzativi e procedimentali e con riguardo ai rapporti con i cittadini e le imprese. Fra gli aspetti più innovativi si segnalano: le norme volte a rendere più cogenti le previsioni in tema di trasmissione di documenti per via telematica tra Pubbliche Amministrazioni e tra queste e i privati, prevedendo, in caso di violazioni, l’insorgere di una responsabilità dirigenziale e disciplinare;
l’introduzione del cosiddetto domicilio digitale, un indirizzo elettronico valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale che il cittadino può indicare per tutte le comunicazioni da parte delle Amministrazioni Pubbliche e i gestori di pubblici servizi; l’istituzione dell’Indice nazionale di domicili digitali (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti, al fine di favorire la presentazione di istanze, dichiarazioni e dati, nonché lo scambio di informazioni e documenti con le Amministrazioni Pubbliche. Specularmente è stato creato l’Indice
dei
domicili
digitali
della
Pubblica
Amministrazione e dei gestori di servizi pubblici, un elenco a disposizione di tutti il quale riporta gli indirizzi elettronici dei soggetti esercenti attività pubblica. Un terzo elenco raccoglie i domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese. La consultazione è consentita a chiunque tramite sito web e senza necessità di autenticazione; la previsione di un utilizzo esclusivo dei canali e dei servizi telematici per l’invio di determinate tipologie di atti da parte delle Amministrazioni e delle società partecipate da enti pubblici. È stato, poi, istituito un organismo unico, denominato Agenzia per l’Italia digitale (AgID), al posto della pluralità di Amministrazioni e di enti precedentemente competenti in materia teso a garantire l’attuazione della cosiddetta Agenda digitale italiana, progetto di derivazione
europea volto ad incrementare l’uso dei servizi di egovernment da parte dei cittadini e delle imprese dell’Unione europea.
5.9.2 La Carta della cittadinanza digitale Il Codice delinea una nuova impostazione dei rapporti tra la P.A. e i cittadini che vede a favore di questi ultimi il riconoscimento dei diritti di seguito indicati: diritto all’uso delle tecnologie (artt. 3 e 4). I cittadini e le imprese hanno diritto di usare in modo accessibile ed efficace
le
tecnologie
dell’informazione
e
della
comunicazione (ICT nella sigla inglese: Information and Communication Technology) per tutti i rapporti con le Amministrazioni e con i gestori dei pubblici servizi. In particolare,
la
partecipazione
al
procedimento
amministrativo e il diritto di accesso ai documenti amministrativi sono esercitabili mediante l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. A tal fine,
la
tutela
giurisdizionale
spetta
al
giudice
amministrativo (art. 133 D.Lgs. 104/2010); diritto all’identità e al domicilio digitale del cittadino (art. 3-bis). Salvo i casi in cui è prevista dalla normativa vigente una diversa modalità di comunicazione o di pubblicazione in via telematica, le Amministrazioni Pubbliche e i gestori o esercenti di pubblici servizi comunicano con il cittadino esclusivamente tramite il domicilio digitale dallo stesso dichiarato senza oneri di
spedizione a suo carico. Ogni altra forma di comunicazione non può produrre effetti pregiudizievoli per il destinatario. L’utilizzo di differenti modalità di comunicazione rientra tra
i
parametri
di
valutazione
della
performance
dirigenziale ai sensi dell’art. 11 D.Lgs. 150/2009; diritto di effettuare pagamenti con modalità informatiche (art. 5). Nei rapporti con l’utenza le Amministrazioni Pubbliche e gli altri soggetti individuati nel Codice sono tenuti ad accettare i pagamenti ad essi spettanti, a qualsiasi titolo dovuti, anche con strumenti elettronici; diritto a servizi on-line semplici e integrati (art. 7). Le Pubbliche Amministrazioni sono tenute ad organizzare i servizi resi tramite ICT sulla base delle reali esigenze di cittadini
e
imprese,
determinate
mediante
analisi
preventive e strumenti per il controllo periodico della soddisfazione dell’utenza; diritto alla partecipazione democratica elettronica (art. 9). I cittadini, anche residenti all’estero, hanno diritto a partecipare al processo democratico e ad esercitare i propri diritti civili e politici mediante l’uso delle tecnologie ICT. A tal fine le Amministrazioni possono anche prevedere forme di consultazione preventiva per via telematica sugli schemi di atto da adottare. Quelli appena menzionati rappresentano diritti che nel loro complesso delineano una vera e propria Carta della cittadinanza digitale.
Strumento essenziale per garantire, in chiave digitale, l’accesso
a
dati,
documenti
e
servizi
della
Pubblica
Amministrazione e la semplificazione dei servizi, riducendo l’accesso fisico agli uffici, è la diffusione del sistema pubblico d’identità digitale (SPID). Si tratta di un sistema di login che permette a cittadini e imprese di accedere con un’unica identità digitale, da molteplici dispositivi, a tutti i servizi online di Pubbliche Amministrazioni e imprese aderenti, eliminando le tante password, chiavi e codici attualmente necessari. L’interconnessione interessate,
invece,
connettività
tra spetta
(SPC),
un
le
diverse
al
Sistema
insieme
Amministrazioni pubblico
di
di
infrastrutture
tecnologiche e di regole tecniche che ha il compito di far dialogare
le
varie
Amministrazioni
e
incentivare
la
cooperazione, favorendo l’adesione anche da parte dei privati e garantendo la sicurezza e la resistenza (ossia la capacità di adattamento e di resistenza all’usura) dei sistemi informatici.
5.9.3 La firma digitale Tecnicamente la firma digitale consiste in un processo di calcolo detto “validazione” che associa una serie di dati a quelli
del
documento,
attestandone
l’integrità,
garantendo l’identificazione di chi firma e la sua volontà sottoscrittoria. La firma digitale svolge funzioni analoghe a quella della tradizionale sottoscrizione dei documenti cartacei, ha lo stesso valore legale della firma autografa, integra e sostituisce l’apposizione di sigilli,
identifica il mittente o autore del documento elettronico e garantisce l’autenticità e l’integrità dei dati in esso contenuti. Il Codice prevede che le sottoscrizioni informatiche siano effettuate tramite firma digitale. Si tratta di una particolare forma di firma qualificata fondata sull’utilizzo di due chiavi elettroniche correlate tra loro, che consentono di verificare in modo sicuro la provenienza ed integrità di un documento o un insieme di documenti informatici e la validità legale, che non può essere ripudiata dal sottoscrittore. La sua apposizione integra e sostituisce i tradizionali strumenti di autenticazione conosciuti, come sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi tipo previsti dalla normativa vigente. Il sistema utilizza una coppia di chiavi elettroniche (una pivata e una pubblica) che funzionano solo quando l’una è collegata con l’altra (art. 1, lett. s), D.Lgs. 82/2005). La firma digitale, quando è autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato, è riconosciuta a termini dell’articolo 2703 c.c. (sottoscrizione autenticata). La sua autenticazione, al pari della sottoscrizione tradizionale, consiste nell’attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che essa è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità e della validità del certificato elettronico utilizzato.
5.9.4 Il documento informatico Il CAD e il D.P.R. 445/2000 definiscono il documento informatico come la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti.
Ai fini del soddisfacimento del requisito della forma scritta e per l’attribuzione dell’efficacia prevista dall’art. 2702 c.c., l’art. 20 del CAD distingue tra: documento informatico al quale è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata o, comunque, è formato previa identificazione informatica del suo autore: in questo caso soddisfa pienamente il requisito della forma scritta e ha un valore probatorio equivalente a quello del documento cartaceo; documento informatico che non rispetta i suddetti criteri: in questo caso l’idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità. La data e l’ora di formazione del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in conformità alle Linee guida emanate dell’AgID. Gli
atti,
i
Amministrazioni
dati
ed
formati
i
documenti con
delle
documenti
Pubbliche informatici
costituiscono a tutti gli effetti documenti originali e come tali possono essere utilizzati su diversi tipi di supporto per riproduzioni e copie nel rispetto degli usi consentiti dalle norme vigenti. Le copie su supporto informatico di qualsiasi tipologia di documenti analogici originali, formati in origine su carta o altro supporto non informatico, sostituiscono ad ogni effetto
di legge gli originali da cui sono tratti, se la loro conformità all’originale è assicurata da chi lo detiene mediante l’uso della propria firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche previste dall’art. 71 CAD. Le riproduzioni informatiche, al pari di ogni altra rappresentazione meccanica di fatti o cose, hanno valore probatorio se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la loro conformità (art. 2712 c.c.). I duplicati, le copie e gli estratti di documenti informatici, anche se riprodotti su diversi tipi di supporto – se conformi alle regole tecniche disciplinate da apposito decreto – sono valide a tutti gli effetti di legge. Le copie di documenti informatici, anche sottoscritte digitalmente, realizzate su supporto cartaceo, sostituiscono pienamente, ad ogni effetto di legge, l’originale da cui sono tratte, a condizione che la loro piena conformità all’originale venga attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Il valore probatorio, sostitutivo a tutti gli effetti di legge degli originali, è riconosciuto anche:
alle copie su supporto informatico di documenti non unici formati in origine su carta e altro, a condizione che la loro conformità all’originale sia assicurata dal responsabile che lo conserva tramite la propria firma digitale; alle copie su supporto informatico di documenti originali unici, formati in origine su supporti cartacei o comunque non informatici.
Capitolo 6 Atti e provvedimenti amministrativi 6.1 I concetti di atto e di provvedimento amministrativo L’atto
amministrativo
consiste
in
qualunque
manifestazione di volontà, di conoscenza o di giudizio (o di natura mista), posta in essere dalla P.A. nell’esercizio delle sue funzioni. Una particolare categoria di atto amministrativo è il provvedimento amministrativo, quale atto conclusivo di un procedimento amministrativo e dotato di autoritarietà, che consiste nell’imporre unilateralmente modificazioni nella sfera giuridica del destinatario. Il
provvedimento
amministrativo
contiene
una
determinazione unilaterale che può consistere in una costituzione o modificazione o estinzione di rapporti giuridici, indipendentemente dal consenso dei destinatari, o nella reiezione
di
una
istanza
presentata
da
un
privato
(provvedimento di diniego). In quanto atto per natura destinato a produrre effetti all’esterno, il provvedimento amministrativo è efficace ed esecutorio, ossia può essere in grado di essere condotto
coattivamente ad esecuzione (solo nei casi e con le modalità previste dalla legge). L’atto costitutivo di obblighi deve indicare termine e modalità di esecuzione da parte del privato obbligato. Qualora quest’ultimo non ottemperi, le Amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge (art. 21-ter L. 241/1990, inserito dalla L. 15/2005).
6.2 Atti di amministrazione attiva, consultiva e di controllo Con riguardo al tipo di attività esercitata, si distinguono atti di amministrazione attiva, consultiva e di controllo. L’amministrazione attiva è quel tipo di attività con cui la Pubblica Amministrazione, a mezzo dei suoi organi, incide nella sfera giuridica dei terzi, ovvero porta ad esecuzione quanto già statuito, sempre in vista della realizzazione dei fini istituzionali verso cui è diretta l’azione amministrativa. In questa categoria rientrano i provvedimenti. Gli atti di amministrazione consultiva sono finalizzati a fornire una serie di valutazioni ed elementi di giudizio necessari per la formazione della volontà dell’Amministrazione procedente. Questo tipo di attività, per la sua natura, si esplica generalmente attraverso atti preventivi rispetto alla perfezione del provvedimento amministrativo. Rientrano in tale tipologia di attività i pareri. Attraverso gli atti di amministrazione di controllo organi dotati di apposite competenze verificano se un determinato atto, un’attività o un semplice comportamento sono
conformi
alle
regole
giuridiche
(controllo
legittimità) o di opportunità (controllo di merito).
di
6.3 Il provvedimento amministrativo 6.3.1 Le caratteristiche Il provvedimento amministrativo presenta le seguenti caratteristiche: è un atto tipico, in quanto deve essere espressamente previsto dall’ordinamento; è un atto nominativo, nel senso che per ogni interesse pubblico alla cui cura la P.A. è preposta deve essere previsto il corrispondente provvedimento; è un atto autoritativo, in quanto è posto in essere anche contro la volontà del destinatario o dei destinatari; è un atto unilaterale, perché si basa sulla sola volontà della Pubblica Amministrazione; è un atto esecutorio, nel senso che le autorità pubbliche ne possono dare immediata e diretta esecuzione, senza che sia necessaria una preventiva pronuncia giurisdizionale; è un atto inoppugnabile quando scadono i termini di proposizione del ricorso. Si distinguono: provvedimenti che producono effetti ampliativi nella sfera giuridica dei destinatari, in quanto conferiscono ad
essi nuove posizioni giuridiche attive o di vantaggio (es. concessioni, autorizzazioni); provvedimenti restrittivi, rivolti invece a estinguere delle posizioni di vantaggio ovvero a creare situazioni di obbligo (quindi posizioni passive) in capo al destinatario; in questa categoria di atti si annoverano ordini, sanzioni e i cd. atti ablatori quali la requisizione e l’espropriazione.
6.3.2 Gli elementi essenziali Gli elementi essenziali del provvedimento amministrativo sono: il soggetto emanante: l’atto deve essere sempre emanato dall’Autorità amministrativa. Deve trattarsi necessariamente
di
un
organo
della
Pubblica
Amministrazione competente all’emanazione dell’atto e legittimamente investito della funzione altrimenti il provvedimento è da considerarsi inesistente; il soggetto destinatario: il destinatario, ovvero il soggetto privato o pubblico nei cui confronti si producono gli effetti del provvedimento, deve essere determinato o quanto meno determinabile (se il destinatario non è indicato o non è determinabile, l’atto è nullo; se il destinatario è erroneamente indicato, l’atto è annullabile); la forma: per ogni provvedimento amministrativo è richiesta una determinata forma (generalmente quella scritta), anche se diverse norme riconoscono un significato giuridico
all’inerzia
della
Pubblica
Amministrazione
(silenzio amministrativo). Forme necessarie, infatti, non sono solamente quelle scritte: vi sono dei comportamenti formalizzati ai quali è riconosciuta una determinata “forza” giuridica (ad es.: i tre squilli di tromba che devono accompagnare l’ordine di scioglimento di assembramenti vietati o la esternazione orale di certi ordini di polizia non sono da considerare atti a forma libera, bensì atti a forma legale non scritta: non bisogna, dunque, confondere la libertà delle forme con la non necessità dell’esternazione scritta); l’oggetto: l’oggetto deve essere sempre determinato, possibile e lecito.
6.3.3 Gli elementi accidentali Si
definiscono
provvedimento sussistere
che
accidentali non
affinché
quegli
devono
l’atto
elementi
del
necessariamente
possa
considerarsi
giuridicamente esistente ma che, se inseriti, diventano parte integrante del suo contenuto. Fra gli elementi accidentali, che possono essere apposti all’atto amministrativo, si annoverano: il termine, che indica il momento dal quale inizia ad avere efficacia l’atto (termine iniziale) oppure il momento a partire dal quale cessa l’efficacia (termine finale); la condizione, diretta a subordinare l’inizio (condizione sospensiva) o la cessazione (condizione risolutiva)
dell’efficacia dell’atto al verificarsi di un atto futuro e incerto; l’onere, che può essere apposto in presenza di atti che determinano un ampliamento giuridico della sfera dei destinatari, imponendo un facere agli stessi; le riserve, atti con i quali l’Amministrazione si riserva di adottare in futuro altri provvedimenti relativi all’oggetto dello stesso atto emanato. In caso di invalidità di una clausola accessoria, l’opinione prevalente mira a circoscrivere per quanto possibile gli effetti alla sola clausola e a non coinvolgere l’intero provvedimento, richiamando sia l’art. 1419 c.c., sia il principio di conservazione degli atti amministrativi. Infatti, se la clausola
invalida
incidesse
su
tutti
gli
effetti
del
provvedimento, ciò comporterebbe l’invalidità dell’intero atto e la clausola in questione risulterebbe essenziale e non accessoria.
6.3.4 Struttura, contenuto e fine La struttura del provvedimento normalmente è la seguente: un’intestazione, che indica l’autorità emanante; un preambolo, in cui si enunciano le circostanze di fatto e di diritto; la motivazione, che indica le ragioni giuridiche e i presupposti di fatto del provvedere; il dispositivo, che è la parte precettiva dell’atto, ove è contenuta
la
concreta
statuizione
posta
in
essere
dall’Amministrazione. L’atto deve essere datato e sottoscritto con indicazione del luogo dell’emanazione. Il contenuto è la parte propriamente precettiva del provvedimento, con cui si dispone degli interessi pubblici e privati coinvolti nel procedimento, avendo cura di perseguire in maniera ottimale l’interesse pubblico primario. È dato distinguere: un contenuto naturale dell’atto ove si compendiano le disposizioni che identificano il tipo di provvedimento; un contenuto implicito attinente alle disposizioni operanti di per sé stesse in forza di legge, anche se non enunciate nel provvedimento; un contenuto eventuale che si riscontra nelle ipotesi ove sono contemplati elementi accidentali (disposizioni aggiuntive richieste dalle caratteristiche peculiari della vicenda). Il fine è lo scopo concreto perseguito attraverso l’adozione del provvedimento, sempre preordinato alla cura dell’interesse pubblico.
6.3.5 La motivazione Particolarmente
rilevante
è
la
motivazione
del
provvedimento (art. 3 L. 241/1990), strumento che consente di esternare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche
poste
a
fondamento
dell’adozione
di
un
determinato
provvedimento. Al riguardo merita precisare che: i presupposti di fatto non sono altro che gli elementi e i dati di fatto che sono stati acquisiti in sede istruttoria e hanno
costituito
oggetto
di
valutazione
ai
fini
dell’adozione dell’atto terminale; le ragioni giuridiche sono le argomentazioni sul piano del diritto poste a base del provvedimento, cioè a dire le norme e i principi ritenuti applicabili nel caso di specie. Ai sensi dell’art. 3, co. 2, L. 241/1990 la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.
L’obbligo
di
motivare
ogni
provvedimento
amministrativo rappresenta un logico e immediato corollario del principio di trasparenza dell’azione amministrativa e di democraticità della stessa: infatti, solo l’evidenza dell’iter logico seguito dall’Autorità decidente permette di accertare la correttezza dell’operato della Pubblica Amministrazione. La motivazione di un atto, comunque, può anche essere desunta dal contenuto di altri atti, che devono essere espressamente richiamati nello stesso per consentire la comprensione delle ragioni e dei presupposti della sua emanazione (motivazione per relationem). Alla luce quindi della previsione normativa, gli atti privi di motivazione devono considerarsi affetti dal vizio di violazione di legge. Più in specie, possono assumersi come illegittimi, in quanto affetti dall’anzidetta patologia:
gli atti carenti di motivazione; gli atti che non indichino, o indichino in modo incompleto, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione; gli atti motivati per relationem che non rendano conoscibili gli atti da cui risultano le ragioni della decisione. Per altro verso, devono considerarsi viziati da eccesso di potere gli atti che presentano carenze o incongruità diverse da quelle innanzi individuate, come nei casi di illogicità o contraddittorietà della motivazione.
6.3.6 L’efficacia L’efficacia consiste nell’attitudine dell’atto a produrre effetti nei confronti dei suoi destinatari, siano essi determinati puntualmente o in modo generico (es. rivolti a Tizio, ovvero ai cittadini del Comune). In base alla loro efficacia, gli atti amministrativi si distinguono in: atti costitutivi, che creano, modificano o estinguono un rapporto giuridico preesistente; atti dichiarativi, che si limitano ad accertare una data situazione senza influire su di essa. Nella generalità dei casi i provvedimenti amministrativi hanno efficacia e, quindi, producono conseguenze di tipo giuridico, dal momento in cui sono posti in essere, ovvero
emanati (firmati dall’organo competente), previo eventuale controllo di regolarità che sospende l’efficacia e la fa retroagire dalla data di adozione una volta verificata la correttezza dell’atto. Secondo
disposizione
di
legge
o
della
stessa
Amministrazione gli atti amministrativi possono però avere efficacia differita, cioè a partire da un periodo futuro. V’è una categoria di provvedimenti (detti ricettizi) la cui efficacia è subordinata alla loro comunicazione. Sono tali i provvedimenti limitativi aventi un effetto restrittivo della sfera giuridica dei destinatari. Ai sensi dell’art. 21-bis L. 241/1990, il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile; qualora, per il numero dei destinatari, la comunicazione non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, la Pubblica Amministrazione può provvedere mediante forme di pubblicità idonee, di volta in volta stabilite dall’Amministrazione medesima. Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei destinatari non avente carattere sanzionatorio può contenere una clausola motivata di immediata efficacia. I provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi
carattere
cautelare
e
urgente
sono
immediatamente efficaci. I provvedimenti efficaci sono eseguiti immediatamente, sempre che non sia diversamente stabilito. L’esecuzione può
essere sospesa per gravi ragioni e per il tempo necessario dall’organo che lo ha emesso o da altro organo individuato dalla legge. Il termine della sospensione (esplicitamente indicato nell’atto che la dispone) può essere prorogato o differito una sola volta nonché ridotto per sopravvenute esigenze (art. 21-quater L. 241/1990, introdotto dalla L. 15/2005).
6.4 Le autorizzazioni 6.4.1 L’autorizzazione e le figure affini L’autorizzazione è il provvedimento con cui la Pubblica Amministrazione, nell’esercizio di un’attività discrezionale, in funzione preventiva o di controllo e programmazione, provvede alla rimozione di un limite legale che vincolava parte della sfera giuridica soggettiva del destinatario. Con tale atto, cioè, si consente ai destinatari di compiere attività che, per motivi di interesse pubblico, è necessario contingentare o, comunque, limitare e che, quindi, non possono essere svolte da chiunque. Si pensi, per esempio, all’esercizio di un’attività commerciale che, se svolta senza alcuna limitazione, potrebbe provocare dei problemi di tipo economico
o
sociale
(es.
vendita
ambulante)
o
che
condurrebbe a problematiche di tipo igienico-sanitario (es. allevamento di animali). Tra le figure affini all’autorizzazione si annoverano: l’abilitazione, che si differenzia dall’autorizzazione in relazione alla discrezionalità che ne è alla base, di tipo tecnico e non amministrativo (es. patente di guida); l’approvazione, un atto di controllo che, a differenza dell’autorizzazione, non condiziona in via preventiva la
legittimità di un atto, ma ne condiziona solo l’operatività in un momento successivo; la registrazione, che è un’autorizzazione vincolata, in quanto la rimozione del limite legale avviene se sussistono le condizioni previste dalla legge; la dispensa, che è un provvedimento mediante il quale la Pubblica Amministrazione, sulla base di una valutazione discrezionale, consente ad un soggetto di esercitare una data attività o compiere un determinato atto in deroga ad un
divieto
di
legge,
ovvero
esonera
il
soggetto
dall’adempimento di un obbligo di legge; il nulla osta: è un atto con cui la P.A. dichiara di non avere osservazioni da fare in ordine all’adozione di un provvedimento da parte di un’altra autorità.
6.4.2 La segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) Le ipotesi in cui era richiesto il rilascio di uno specifico atto autorizzatorio sono state notevolmente ridotte negli ultimi anni
con
l’introduzione
dell’istituto
della
segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA). Si tratta di un’informativa con
la
quale
un
soggetto
comunica
all’autorità
competente la volontà di intraprendere una specifica attività e che ha l’effetto di consentire l’immediato avvio della stessa senza dover attendere i tempi e l’esecuzione di verifiche e controlli preliminari. È stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 49, co. 4-bis, L.
122/2010 (di conversione del D.L. 78/2010), che ha integralmente riformulato l’art. 19 L. 241/1990. La SCIA ha, infatti, la funzione di sostituire ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta, incluse le domande per iscrizioni in Albi o Ruoli richieste
per
commerciale
l’esercizio o
artigianale
di
attività il
cui
imprenditoriale, rilascio
dipenda
esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o di atti amministrativi a contenuto generale, nei casi in cui non sia previsto alcun limite o contingente complessivo. L’attività può essere iniziata immediatamente dalla data di presentazione
della
segnalazione
all’Amministrazione
competente, mentre tutti i controlli amministrativi atti ad accertare la sussistenza dei requisiti necessari allo svolgimento dell’attività sono svolti successivamente alla presentazione della SCIA. La segnalazione deve essere corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà (ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. 445/2000), nonché dalle attestazioni di tecnici abilitati o dalle dichiarazioni di conformità rese dalle agenzie per le imprese relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti per l’avvio dell’attività. Tale documentazione sostituisce anche eventuali pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive eventualmente richieste dalla legge. Per quanto riguarda l’attività di controllo, nei casi di accertata carenza dei requisiti o dei presupposti per la
presentazione della SCIA l’art. 19, co. 3, L. 241/1990 prescrive che l’Amministrazione competente debba adottare motivati
provvedimenti
di
divieto
di
prosecuzione
dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Tale attività di verifica deve essere svolta entro 60 giorni dal ricevimento della segnalazione. Nel caso in cui sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, possono essere prescritte le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a 30 giorni per la loro adozione. Se il privato non provvede entro il termine fissato l’attività si intende vietata; se, invece, si adegua, all’Amministrazione sono concessi ulteriori 60 giorni per effettuare le necessarie verifiche. Non è comunque prevista la sospensione dell’attività, che può essere disposta solo in due casi: in presenza di attestazioni non veritiere o qualora vi sia un pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica, difesa nazionale.
Con l’art. 3 D.Lgs. 30-6-2016, n. 126 sono state approvate disposizioni
per
la
concentrazione
dei
regimi
amministrativi introducendo la cosiddetta SCIA unica. Il citato articolo, infatti, stabilisce che nelle ipotesi in cui per lo svolgimento di un’attività soggetta a segnalazione certificata di inizio attività siano necessarie altre SCIA, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche, l’interessato possa presentare un’unica SCIA. L’efficacia della segnalazione è immediata, in quanto, come nel regime ordinario, l’attività
può essere iniziata dalla data di presentazione della segnalazione;
tale
disposizione,
però,
riguarda
esclusivamente le attività “liberalizzate”, vale a dire quelle per le quali all’Amministrazione spetta solo verificare la sussistenza di requisiti o presupposti fissati dalle norme (cosiddetta SCIA pura). Sono escluse le ipotesi in cui siano necessarie anche autorizzazioni, comunque denominate, espresse o perfezionate con il silenzio assenso. L’Amministrazione che riceve la SCIA la trasmette alle altre Amministrazioni interessate al fine di consentire il controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei presupposti; anche in questo caso si applicano le disposizioni riguardanti i controlli da effettuare. Per le attività che richiedono più autorizzazioni, invece, l’amministrazione a cui ci si rivolge convocherà la conferenza di servizi e, in questo caso, l’inizio dell’attività sarà subordinato all’esito della riunione. La ricevuta rilasciata a seguito della presentazione di istanze,
segnalazioni
o
comunicazioni
costituisce
comunicazione di avvio del procedimento e deve indicare i termini entro i quali l’Amministrazione è tenuta a rispondere o entro i quali il silenzio dell’Amministrazione equivale ad accoglimento dell’istanza. Il D.Lgs. 25-11-2016, n. 222 (cd. decreto SCIA 2) ha dettato norme sulla semplificazione delle attività private in materia di commercio, ambiente ed edilizia. Tra le principali novità del decreto occorre ricordare il riassetto dei titoli edilizi, l’ampliamento degli interventi in
edilizia libera, l’individuazione di nuove attività rientranti nell’ambito della SCIA, l’introduzione della tabella unica nazionale con tipologia di intervento e corretto titolo abilitativo e la previsione della segnalazione certificata di agibilità al posto del certificato di agibilità. Il decreto SCIA 2 riporta in allegato una tabella (tabella A) ove si fa una ricognizione delle diverse tipologie degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi, ossia fornisce le indicazioni sul titolo abilitativo in funzione dell’intervento, indicando l’attività, ossia l’intervento da realizzare, il regime amministrativo, ossia il corretto titolo edilizio richiesto per ciascun intervento, le concentrazioni di regimi amministrativi e i riferimenti normativi.
6.5 La concessione Analogamente
all’autorizzazione
la
concessione
è
considerata atto ampliativo in quanto per il suo tramite la Pubblica Amministrazione conferisce ex novo posizioni giuridiche attive al destinatario, ampliandone così la sfera giuridica. Pur presentando elementi di affinità con l’autorizzazione – entrambi sono provvedimenti ampliativi della sfera soggettiva – la concessione se ne differenzia profondamente in quanto non si limita a rimuovere un limite ad una posizione soggettiva preesistente, ma attribuisce o trasferisce posizioni o facoltà nuove al privato. Si distinguono: le concessioni traslative, con cui viene trasferito al destinatario del provvedimento un diritto soggettivo o un potere di cui la Pubblica Amministrazione è titolare, ma che la stessa non intende esercitare direttamente, pur conservandone la titolarità (es. concessione su beni demaniali o patrimoniali indisponibili, concessioni di servizi pubblici, concessioni di pubbliche potestà, ad esempio esattoria e tesoreria, concessioni di attività edilizia); le concessioni costitutive, con cui vengono conferiti al privato diritti o facoltà che non trovano corrispondenza in
precedenti
diritti
o
facoltà
dell’Amministrazione
(concessione di cittadinanza, di onorificenze ecc.). La concessione era, in campo edilizio, il provvedimento che consentiva al proprietario di costruire: ciò fino a quando si ritenne che il diritto di proprietà contenesse già il diritto a costruire, salvo che tale diritto poteva essere esercitato nei limiti di quanto previsto dalla pianificazione urbanistica. Si passò così dalla concessione alla licenza edilizia, per arrivare con il decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 (Testo unico in materia edilizia) al permesso di costruire. Tale permesso, in quanto figura con maggiori affinità all’autorizzazione, è stato ritenuto sostituibile con la denuncia di inizio di attività (DIA) per gli interventi edilizi
minori
(es.
piccole
ristrutturazioni),
fino
all’introduzione della SCIA, sopra descritta. Il D.Lgs. 222/2016 (decreto SCIA 2) opera la completa abolizione della DIA, attraverso la riscrittura dell’art. 22 del Testo Unico edilizia. La SCIA può, infatti, essere utilizzata in alcuni casi come procedimento alternativo al permesso di costruire (ad es. interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica, qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati). Si tratta della cosiddetta SuperSCIA. Il permesso di costruire rimane l’unico titolo autorizzativo “espresso”, ovvero per il quale occorre attendere il rilascio da parte del Comune. Il permesso va richiesto per interventi edilizi rilevanti (come nuove costruzioni, ampliamenti e
sopraelevazioni,
ristrutturazione
urbanistica,
varianti
essenziali a titoli autorizzativi già rilasciati).
Sono figure affini alla concessione: le sovvenzioni, con le quali si eroga un tipo particolare di bene, il danaro pubblico, a soggetti pubblici o privati, per il perseguimento di interessi pubblici connessi allo sviluppo economico, culturale o sociale; le assegnazioni, con le quali vengono trasferiti ai destinatari nuovi poteri, ma non in base ad una valutazione discrezionale, quanto piuttosto a seguito della verificazione della sussistenza di determinati presupposti richiesti dalla legge; le deleghe, con cui la Pubblica Amministrazione attribuisce ad altri soggetti potestà o facoltà inerenti a diritti suoi propri; le ammissioni, che consistono in un accertamento da parte della Pubblica Amministrazione e nel conseguente permesso al destinatario di fruire di determinate utilità o prestazioni.
6.6 I provvedimenti ablatori Si definisce ablatorio ogni provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione incide sfavorevolmente nella sfera giuridica di un privato, al quale impone un sacrificio per la realizzazione di uno scopo generale. La classificazione più usata distingue fra: provvedimenti ablatori personali, che sacrificano un diritto di natura personale comprimendone talune facoltà (es. divieto di accesso ad una strada pubblica); provvedimenti ablatori obbligatori, che impongono prestazioni di natura personale o patrimoniale (es. imposizione tributaria, servizio militare); provvedimenti ablatori reali, che impongono appunto il sacrificio di un diritto reale (es. espropriazione per pubblica utilità). Gli atti inquadrabili nelle tre categorie considerate hanno in comune il fatto di produrre in ogni caso un effetto privativo: indipendentemente dal tipo di sacrificio imposto, cioè, tali atti tolgono
sempre
qualcosa,
producendo
conseguenze
sfavorevoli. In certi casi, all’effetto privativo si ricollega un effetto acquisitivo: la facoltà o il diritto sacrificato è contestualmente acquisito da un altro soggetto, come avviene nel caso dell’espropriazione per pubblica utilità.
Capitolo 7 Il procedimento amministrativo 7.1 Il procedimento amministrativo Il provvedimento amministrativo rappresenta il punto d’arrivo di una sequenza coordinata di tappe o fasi che vedono la partecipazione di più soggetti e che culminano nell’emanazione di un atto. L’insieme di queste fasi costituisce il procedimento amministrativo. La L. 7-8-1990, n. 241 ha dettato una disciplina organica valevole per tutti i procedimenti, ispirandosi ai principi di ragionevolezza e trasparenza dell’azione amministrativa, coniugati con il principio dell’efficienza. Prima di questa legge la Pubblica Amministrazione assumeva le decisioni in via unilaterale, e senza possibilità alcuna di replica da parte dei destinatari, mentre nel modello procedimentale introdotto nel 1990 ai privati è riconosciuto il più ampio diritto di partecipare all’attività amministrativa.
7.2 I principi del procedimento La disciplina generale del procedimento amministrativo, dettata dalla L. 241/1990 (e successive modifiche), è ispirata ai seguenti principi: il principio del giusto procedimento che, garantendo il diritto di partecipazione degli interessati, consacra la dialettica fra interessi pubblici e privati, tendendo alla composizione di concreti rapporti. In questo contesto assumono particolare rilevanza gli artt. 7 e 10-bis della legge, che disciplinano, rispettivamente, la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di rigetto, ovvero la comunicazione (anticipata rispetto all’emissione del provvedimento finale) dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza presentata; il principio della trasparenza, che rende obbligatorio per
la
Pubblica
provvedimento preventivamente
Amministrazione amministrativo,
l’ufficio
e
il
motivare
il
identificare responsabile
del
procedimento, e consentire al cittadino l’accesso alla documentazione amministrativa; il principio di semplificazione, che ispira alcuni istituti mirati, in conformità all’art. 97 Cost., a snellire e rendere più celere l’azione amministrativa. In questa
prospettiva, vanno visti gli istituti del silenzio assenso, della (SCIA) e della conferenza di servizi; il principio di correttezza e buona fede, in forza del quale la Pubblica Amministrazione, nel corso del procedimento, deve comportarsi lealmente evitando di ingenerare falsi affidamenti in capo ai privati e di tradirne le ragionevoli aspettative; il principio di informatizzazione amministrativa, che impone alle Pubbliche Amministrazioni di incentivare l’uso della telematica sia nei rapporti interni fra le stesse Amministrazioni sia fra queste e i privati; il principio dell’economicità, riguardante il rapporto fra i risultati e le risorse e, segnatamente, l’obbligo per le Pubbliche Amministrazioni di realizzare il miglior risultato possibile
in
rapporto
alla
quantità
di
risorse
a
disposizione; il principio dell’efficacia, che impone una congruenza fra i risultati programmati e quelli raggiunti, all’insegna di criteri efficientistici, aziendalistici e manageriali, tipici delle imprese private. Costituisce un corollario dei principi di economicità ed efficacia il divieto di aggravamento del procedimento (art. 1, co. 2), introdotto dalla L. 190/2012. Rilevante, inoltre, è il cosiddetto criterio di ragionevolezza, in forza del quale l’azione amministrativa, al di là del rispetto delle prescrizioni normative, deve adeguarsi ad un canone di razionalità operativa sì da evitare decisioni arbitrarie e irrazionali;
A tali criteri la L. 69/2009, all’art. 7, co. 1, lett. a), ha aggiunto quello dell’imparzialità, così ribadendo anche a livello di legislazione primaria il principio sancito all’art. 97 Cost. Tale modifica è di particolare importanza, perché delinea una nuova ipotesi di invalidità dell’atto amministrativo, configurandosi in tal caso una ulteriore ipotesi di violazione di legge.
7.3 Le fasi del procedimento Il procedimento si articola nelle seguenti quattro fasi: la fase dell’iniziativa, che può essere innescata da un’apposita istanza (ossia una domanda) presentata da chi sia interessato ad ottenere un provvedimento ampliativo della propria sfera di diritti e facoltà (es. un permesso di costruire), oppure da un atto d’impulso della stessa Amministrazione (cosiddetta apertura d’ufficio), che decida di provvedere in merito alla soddisfazione di un determinato interesse pubblico; la fase dell’istruttoria, nella quale, una volta aperta la sequenza procedimentale, si acquisiscono attraverso sopralluoghi,
ispezioni,
perizie,
pareri,
documenti,
informazioni, tutti gli elementi necessari a valutare gli interessi pubblici e privati coinvolti nel procedimento per stabilire se si deve provvedere e in che modo; la fase decisoria (o costitutiva), nella quale si determina il contenuto del provvedimento vero e proprio, che viene formato ed emanato; la fase d’integrazione dell’efficacia, nella quale si compiono tutte gli adempimenti (es. il controllo di legittimità) e le formalità (es. comunicazioni, notificazioni) che sono necessari affinché il provvedimento, già perfetto
(ossia completo in tutti i suoi elementi), inizi a produrre i suoi effetti. La gestione di queste fasi è affidata al responsabile del procedimento (vedi più avanti): in particolare la L. 241/1990 ha previsto l’obbligo per tutte le Amministrazioni di determinare
un’unità
organizzativa
responsabile
dell’istruttoria o di ogni altro adempimento relativo a ciascun procedimento. Il nominativo del responsabile e il luogo in cui è ubicata l’unità operativa devono essere comunicati a tutti gli interessati. Nella comunicazione vanno precisati anche i compiti del responsabile.
7.4 Il responsabile del procedimento 7.4.1 Il ruolo del responsabile Agli artt. 4 e 5 la L. 241/1990 ha consacrato a livello generale la figura, del responsabile del procedimento, cui è assegnato il ruolo di autorità guida del procedimento stesso. L’introduzione di tale istituto risponde alla primaria esigenza di personalizzare e responsabilizzare l’attività amministrativa, nonché di dare concreta attuazione dei principi di trasparenza ed efficienza. Segnatamente la L. 241/1990 prevede: l’individuazione
dell’unità
organizzativa
responsabile
dell’istruttoria e dell’adozione del provvedimento finale; l’assegnazione, da parte del dirigente di ciascuna unità organizzativa, a sé o ad altro addetto all’unità, della responsabilità dell’istruttoria nonché dell’adozione del provvedimento finale. La
mancata
nomina
del
responsabile
comporta
l’automatica attribuzione delle competenze di cui all’art. 6 L. 241/1990
al
funzionario
(dirigente)
preposto
organizzativa competente del procedimento.
7.4.2 I compiti del responsabile
all’unità
Al responsabile del procedimento sono assegnati compiti di impulso, direzione e coordinamento dell’istruttoria procedimentale e, in via eventuale, di decisione finale. I suoi compiti sono dettagliatamente indicati nell’art. 6 L. 241/1990. In primo luogo, il responsabile deve valutare, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento. Il responsabile, inoltre, accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti a tale scopo necessari, e adotta ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria. In particolare, può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici e ispezioni e ordinare esibizioni documentali; propone l’indizione o, avendone la competenza, indice le conferenze di servizi di cui all’art. 14 della medesima L. 241/1990. Infine, egli cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti. Adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione. L’organo competente per l’adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale. Un immotivato dissenso da parte dell’organo competente all’adozione del provvedimento dà luogo ad illegittimità dell’atto.
7.5 La comunicazione di avvio del procedimento La
comunicazione
consente
al
soggetto
coinvolto
dall’azione amministrativa di avere conoscenza dell’avvio di un procedimento destinato a sfociare in un atto che produrrà effetti nei suoi confronti. Scopo della comunicazione è consentirgli di partecipare ed esercitare i diritti che la legge gli attribuisce. Nella comunicazione devono essere indicati: l’Amministrazione procedente; l’oggetto del procedimento promosso; l’ufficio e la persona responsabile del procedimento; la data entro la quale, secondo i termini previsti dalla legge, deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’Amministrazione; nei procedimenti a iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza; l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti. Se la comunicazione personale agli interessati dovesse risultare particolarmente gravosa, l’Amministrazione può provvedere mediante forme di pubblicità idonee, stabilite di volta in volta dalla stessa Amministrazione.
I destinatari della comunicazione sono individuati dall’art. 7 L. 241/1990. Secondo il tenore letterale delle disposizioni di legge, le categorie di destinatari sono: i soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti; i
soggetti
che
per
legge
devono
intervenire
nel
procedimento ovvero gli enti pubblici portatori di interessi differenti
rispetto
a
quelli
dell’Amministrazione
procedente; i soggetti, individuati o facilmente individuabili, che possono subire un pregiudizio dal provvedimento finale (es.
un
soggetto
graduatoria
di
potenzialmente
concorso
a
escluso
seguito
di
da
una
un’istanza
dell’interessato). A norma dell’art. 21-octies L. 241/1990, introdotto dalla L. 15/2005, la violazione di norme procedimentali o l’omissione della comunicazione di avvio non inficia il provvedimento finale se, per la natura vincolata dell’atto, l’esito della procedimento sarebbe stato identico anche nel caso di rispetto della prescrizione procedurale. La L. 241/1990 individua, peraltro, due specifiche ipotesi in cui non è necessaria la comunicazione di avvio: i procedimenti cautelari, secondo quanto previsto dall’art.
7,
co.
2,
che
fa
salva
la
facoltà
dell’Amministrazione di adottare provvedimenti cautelari anche prima dell’effettuazione delle comunicazioni;
i procedimenti per i quali sussistono ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità.
7.6 Il preavviso di rigetto Disciplinato dall’art. 10-bis L. 241/1990 (introdotto dalla L. 15/2005), l’istituto prevede che nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, sia tenuto a comunicare tempestivamente agli istanti i motivi che impediscono l’accoglimento della domanda. I richiedenti hanno 10 giorni di tempo, dal ricevimento della comunicazione, per presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. Le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni devono essere indicate nella motivazione del provvedimento finale. Non possono essere addotti, fra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda, inadempienze o ritardi attribuibili all’Amministrazione. Le disposizioni in materia di preavviso di rigetto non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. Il D.L. 16 luglio 2020, n. 76, per altro, modificando l’art. 21octies, co. 2, L. 241/1990, ha precisato che tale norma non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’art. 10-bis.
7.7 L’obbligo di conclusione esplicita del procedimento In base al quadro normativo disegnato dagli artt. 2 e 2-bis L. 241/1990 le Pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di concludere un procedimento avviato d’ufficio o a istanza di parte con l’adozione di un provvedimento finale espresso. La legge non individua esplicitamente il termine per la conclusione
dei
procedimenti
amministrativi,
compito
demandato alle singole amministrazioni o agli enti pubblici nazionali, che vi provvedono attraverso l’adozione di uno specifico atto (un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, nel caso delle amministrazioni statali). Il D.L. 76/2020 ha introdotto nell’art. 2 il comma 4-bis, in base al quale le Pubbliche Amministrazioni misurano e rendono pubblici i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Essa, tuttavia, fissa dei precisi paletti in materia, stabilendo, all’art. 2, tre diversi possibili termini: 90 giorni, nel caso in cui l’amministrazione o l’ente
adottino
l’atto
di
loro
competenza.
Nell’ambito della loro autonomia, ed entro il tetto
massimo fissato dalla legge, sono liberi di individuare il termine applicabile a ciascun procedimento, che può anche essere inferiore ai 90 giorni; 180 giorni, laddove vi siano particolari interessi pubblici
o
si
tratti
di
un
procedimento
particolarmente complesso. Tali termini non possono in ogni caso superare i 180 giorni, limite non applicabile ai procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e a quelli riguardanti l’immigrazione; 30 giorni, se non vi sono indicazioni di legge oppure se le amministrazioni e gli enti non hanno provveduto
ad
approvare
gli
atti
di
loro
competenza. I termini decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. Fatto salvo il caso in cui siano necessarie valutazioni tecniche, i termini possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a 30 giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non
attestati
in
dell’Amministrazione
documenti procedente
già o
in
non
acquisibili presso altre Amministrazioni. Con il D.P.R. 12-9-2016, n. 194 è stata introdotta la possibilità di ridurre fino ad un massimo del 50% i termini di conclusione dei procedimenti necessari per la localizzazione, la progettazione e la realizzazione delle
possesso
direttamente
opere, lo stabilimento degli impianti produttivi e l’esercizio delle attività, le infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi di preminente interesse nazionale. La riduzione può essere prevista sia rispetto ai singoli procedimenti, sia con riferimento a tutti i procedimenti necessari per la realizzazione dell’intervento. Un secondo strumento acceleratorio è il potere sostitutivo attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri in caso di inutile decorso del termine per la conclusione dei procedimenti. Previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, il potere sostitutivo può essere delegato ad un soggetto diverso, in particolare all’ente regionale laddove l’intervento riguardi prevalentemente il territorio di una singola Regione e non rivesta carattere di preminente interesse nazionale. Gli interventi per i quali si chiede di fruire di questa corsia preferenziale sono individuati da ciascun ente territoriale (entro il 31 gennaio di ogni anno) o dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (entro il 28 febbraio). L’elenco dei progetti effettivamente ammessi è approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri entro il successivo 31 marzo.
La
mancata
o
tardiva
emanazione
del
provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente (art. 2, co. 9, L. 241/1990).
L’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento fa sorgere a carico dell’Amministrazione l’obbligo di risarcire il danno ingiusto derivato dal ritardo (art. 2-bis L. 241/1990). Salva l’obbligazione risarcitoria, e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, l’istante ha diritto di ottenere, alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge (o, sulla base della legge, da un regolamento) un indennizzo anche solo per il mero ritardo, qualora, trattandosi di procedimento a istanza di parte, per il quale sussista l’obbligo di pronunziarsi, l’Amministrazione non osservi il termine di conclusione del procedimento.
7.8 Il silenzio della Pubblica Amministrazione 7.8.1 Concetti generali Si intende per silenzio amministrativo il comportamento inerte
dell’Amministrazione
nell’ambito
di
un
procedimento attivato su istanza del privato. La L. 241/1990 ha sancito, in via generale, l’obbligo della P.A. di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento
espresso,
con
la
conseguenza
che
l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può che ritenersi illegittima
e
l’interessato
può
ottenere
dal
giudice
amministrativo una sentenza che, senza entrare nel merito della richiesta inevasa, accerti l’obbligo della pubblica autorità di provvedere e rinvii ad essa perché adotti un atto esplicito di accoglimento o rigetto. In altri casi, l’inerzia non è illegittima ma può avere, in base a precise norme di legge, il significato di accoglimento (silenzio assenso) o diniego dell’istanza (silenzio rigetto). Si parla in queste ipotesi di silenzio significativo, dal momento che, per espressa previsione di legge, il mancato pronunciamento dell’Amministrazione produce comunque un effetto di accoglimento o di rigetto dell’istanza, decorso un determinato periodo di tempo.
7.8.2 Il silenzio assenso Il silenzio assenso nei rapporti con i privati Si è detto che le Pubbliche Amministrazioni determinano per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui il procedimento deve concludersi. Tale termine decorre
dall’inizio
di
ufficio
del
procedimento
o
dal
ricevimento della domanda, se il procedimento è a iniziativa di parte. L’art. 20 L. 241/1990 dispone che nei procedimenti a istanza di parte, il silenzio dell’Amministrazione competente equivale
a
provvedimento
di
accoglimento
della
domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima Amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’art. 2 della stessa legge, il provvedimento di diniego, ovvero non indice, entro 30 giorni dalla presentazione, una conferenza di servizi, anche tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati. Il silenzio assenso si connota come comportamento legalmente tipizzato equiparato, quanto agli effetti, al provvedimento
di
l’assoggettamento
accoglimento all’ordinario
dell’istanza:
regime
di
ne
deriva
impugnazione
previsto per i provvedimenti amministrativi. Il
silenzio
assenso
nei
rapporti
tra
amministrazioni L’art. 3 L. 124/2015 (riforma Madia), con l’aggiunta di un articolo 17-bis nel corpo della L. 241/1990, ha introdotto una diversa ipotesi di silenzio assenso. Rispetto a quella prima
descritta, la particolarità è data dalla presenza dei seguenti elementi: opera
esclusivamente
nei
rapporti
tra
diverse
amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici (e non nei rapporti tra amministrazione e privati); il silenzio corrisponde ad un atto interno ad un procedimento
(invece
che
a
un
provvedimento
definitivo). Il citato articolo, infatti, trova applicazione nelle ipotesi in cui
per
l’adozione
di
provvedimenti
sia
normativi
(generalmente regolamenti o statuti) sia amministrativi di competenza
di
amministrazioni
pubbliche
sia
prevista
l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta di competenza di altre amministrazioni pubbliche o di gestori di beni e servizi pubblici. In tali casi, questi sono tenuti a comunicare le rispettive decisioni all’amministrazione proponente entro il termine di 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, che deve essere corredato dalla relativa documentazione (comma 1). Il termine può essere interrotto qualora l’amministrazione che deve rendere il proprio assenso faccia presenti esigenze istruttorie oppure presenti richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale entro il termine stesso. In tal caso, l’assenso è reso nei successivi 30 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento. Non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
Ai sensi del successivo comma 2, decorsi inutilmente i termini stabiliti, l’assenso, il concerto o il nulla osta s’intende acquisito.
7.8.3 Il silenzio procedimentale Si tratta di una categoria di creazione dottrinale, riferita alle ipotesi di: cd. silenzio devolutivo (art. 17 L. 241/1990); cd. silenzio facoltativo (art. 16 L. 241/1990). Si configura la prima ipotesi ove, per disposizione espressa di legge o di regolamento, sia previsto che per l’adozione di un provvedimento
debbano
essere
preventivamente
acquisite le valutazioni tecniche di organi o enti appositi. Se tali organi ed enti non provvedono né rappresentano
esigenze
istruttorie
(di
competenza
dell’Amministrazione procedente), nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro 90 giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi della Pubblica Amministrazione o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari. Si configura la seconda ipotesi ove, nel corso del procedimento
amministrativo,
debba
essere
obbligatoriamente sentito un organo consultivo: il parere deve essere reso, a norma dell’art. 16 della L. 241/1990, entro 20 giorni dal ricevimento della richiesta. In caso di
decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere o senza che l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie,
l’amministrazione
indipendentemente
richiedente
dall’espressione
del
procede
parere
(D.L.
76/2020).
7.8.4 Il silenzio diniego In questo caso l’inerzia equivale a provvedimento di rigetto dell’istanza o comunque ad una conclusione negativa del procedimento. La legge, decorso un certo tempo dalla presentazione della domanda del privato, qualifica automaticamente come reiezione della domanda stessa il comportamento
omissivo
tenuto
dalla
Pubblica
Amministrazione obbligata a provvedere. Tra le ipotesi ascritte a tale categoria si segnalano: l’art. 25 L. 241/1990, in tema di silenzio sull’istanza di accesso ai documenti amministrativi, nel qual caso, decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta, l’istanza s’intende respinta; l’art. 36 D.P.R. 380/2001, ai sensi del quale sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente si pronuncia entro 60 giorni, trascorsi i quali la richiesta si intende respinta.
7.8.5 Il silenzio inadempimento (o rifiuto) L’esigenza di tutela avverso il comportamento inerte della Pubblica Amministrazione si fa più pregnante se le istanze dei privati sono rivolte a ottenere un provvedimento favorevole (a
fronte del cui rilascio sussistono situazioni di interesse legittimo pretensivo). Per sopperire a tale esigenza la giurisprudenza ha elaborato nel corso degli anni la categoria del
silenzio
inadempimento
(in
passato
definito
univocamente silenzio rifiuto): in tal modo è stato possibile aprire la porta della tutela giurisdizionale ai soggetti titolari di posizioni di interesse legittimo pretensivo di fronte alla mera inerzia dell’Amministrazione. Ai sensi dell’art. 2, co. 1, L. 241/1990, «ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le Pubbliche Amministrazioni hanno il dovere
di
concluderlo
mediante
l’adozione
di
un
provvedimento espresso». Si concretizza così un obbligo di fornire un riscontro formale all’istanza di un soggetto terzo. Per evitare che l’inerzia degli organi amministrativi possa incidere negativamente sulle aspettative (legittime, ovvero legislativamente tutelate) degli istanti, il legislatore ha introdotto un termine ordinario di 30 giorni entro il quale, se non diversamente previsto da disposizioni di legge o regolamentari,
le
Pubbliche
Amministrazioni
devono
concludere il procedimento ed emanare un provvedimento amministrativo. Come si è detto, le Pubbliche Amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 2-bis, co. 1, L. 241/1990). Inoltre, la mancata o tardiva emanazione del provvedimento
costituisce
elemento
di
nonché
di
individuale,
valutazione
della
responsabilità
performance
disciplinare
e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente (art. 2, co. 9, L. 241/1990). Peraltro,
l’organo
di
governo
dell’Amministrazione
competente può individuare il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo. Nell’ipotesi di omessa individuazione, il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario
di
più
elevato
livello
presente
nell’Amministrazione (art. 2, co. 9-bis, L. 241/1990).
7.8.6 I rimedi avverso il silenzio amministrativo Ad oggi, la tutela giurisdizionale avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione è regolata dagli artt. 31 e 117 D.Lgs. 104/2010 (Codice del processo amministrativo). Il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con atto notificato all’Amministrazione e ad almeno un controinteressato, decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge. Chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo delle P.A. di provvedere. L’azione può essere proposta fino a quando perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno
dalla
scadenza
procedimento.
del
termine
di
conclusione
del
Il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata. In caso di accoglimento (totale o parziale), il giudice ordina all’Amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a 30 giorni.
7.9 La conferenza di servizi 7.9.1 Le tipologie di conferenze di servizi Si ricorre alla conferenza di servizi quando è opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento, consentendo così all’Amministrazione procedente di ridurre i tempi lunghi che sarebbero
richiesti
dalla
necessità
di
contattare
individualmente i singoli soggetti interessati. Nell’ambito della fattispecie generale prevista dall’art. 14 L. 241/1990 sono contemplate quattro tipologie di conferenze: la conferenza di servizi istruttoria, che può essere indetta
dall’Amministrazione
procedente
quando
lo
ritenga opportuno per effettuare un esame contestuale degli interessi pubblici che emergono da un procedimento amministrativo, ovvero in più procedimenti connessi; la conferenza di servizi decisoria, che conduce all’adozione di un unico provvedimento finale sostitutivo delle decisioni assunte dalle diverse Amministrazioni partecipanti; il risultato è una decisione “pluristrutturata”, che riassume le competenze decisionali attribuite a più Amministrazioni; la conferenza di servizi preliminare (o pre-decisoria o preventiva) che può essere indetta (è da sottolineare la
facoltatività)
dall’Amministrazione
competente
per
progetti di particolare complessità e per insediamenti produttivi di beni e servizi; la conferenza di servizi su progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale (VIA), che può essere attivata qualora un progetto sia sottoposto a valutazione
di
impatto
ambientale
di
competenza
regionale. Il D.L. 76/2020, art. 13, ha previsto una procedura di conferenza di servizi straordinaria, cui le amministrazioni possono ricorrere fino al 31 dicembre 2021. In tutti i casi in cui debba essere indetta una conferenza di servizi decisoria, ex art. 14, co. 2, le amministrazioni procedenti di adottare lo strumento della conferenza semplificata di cui all’art. 14bis, con alcune modifiche:
tutte
le
amministrazioni
coinvolte
rilasciano
le
determinazioni di competenza entro il termine perentorio di 60 giorni; al di fuori dei casi ex art. 14-bis, co. 5, l’amministrazione procedente svolge, entro 30 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per il rilascio delle determinazioni di competenza delle singole amministrazioni, con le modalità di cui all’art. 14-ter, co. 4, una riunione telematica di tutte le amministrazioni coinvolte nella quale prende atto delle rispettive posizioni e procede senza ritardo alla stesura della determinazione motivata conclusiva della conferenza di servizi verso la quale può essere proposta opposizione
dalle amministrazioni (art. 14-quinquies). Si considera comunque acquisito senza condizioni l’assenso delle amministrazioni che non abbiano partecipato alla riunione o, pur partecipandovi, non abbiano espresso la propria posizione, o abbiano espresso un dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della conferenza.
7.9.2 Le modalità di svolgimento della conferenza di servizi La L. 241/1990, nel testo modificato dal D.Lgs. 127/2016, prevede diverse modalità di svolgimento della conferenza di servizi. L’art.
14-bis
disciplina
la
conferenza
in
forma
semplificata e in modalità asincrona, da utilizzare, di regola, per la conferenza istruttoria e in modo obbligatorio per quella decisoria (con le eccezioni previste dall’art. 14-bis, commi 6 e 7). Non è, quindi, necessaria la contestuale partecipazione di tutti i rappresentanti (forma semplificata) e la decisione o la valutazione può essere assunta in tempi differiti (modalità asincrona). Di regola le comunicazioni avvengono in modalità telematica. La conferenza è indetta dall’Amministrazione procedente, entro 5 giorni dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. L’Amministrazione procedente deve comunicare alle altre Amministrazioni interessate il termine perentorio,
comunque non superiore a 45 giorni, entro il quale devono rendere le proprie determinazioni relative alla decisione oggetto della conferenza. Se vi sono Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini il termine è fissato in ٩٠ giorni, se altre disposizioni non prevedano un termine diverso. Le determinazioni delle Amministrazioni coinvolte devono essere motivate e formulate in termini di assenso o dissenso: in quest’ultimo caso, devono indicare le modifiche necessarie ai fini dell’ottenimento dell’assenso. La mancata comunicazione entro il termine o la comunicazione di una determinazione priva dei requisiti indicati equivalgono ad assenso senza condizioni. Scaduto il termine l’Amministrazione procedente: adotta la determinazione motivata di conclusione positiva della conferenza entro 5 giorni. Ciò nel caso in cui abbia acquisito esclusivamente atti di assenso non condizionato, anche implicito, oppure ritenga che le condizioni e prescrizioni eventualmente indicate possano essere accolte senza necessità di apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza; adotta la determinazione di conclusione negativa della conferenza, che produce l’effetto del rigetto della domanda, sempre entro il termine di 5 giorni. Ciò nel caso in cui abbia acquisito uno o più atti di dissenso che non ritenga superabili.
L’art. 14-ter L. 241/1990 disciplina lo svolgimento della conferenza in forma simultanea e modalità sincrona. In questi casi è prevista la contestuale partecipazione di tutti i rappresentanti, che possono essere presenti fisicamente o in via telematica (forma simultanea), e la decisione è assunta in tempo reale (modalità sincrona). La
riunione
si
svolge
nella
data
indicata
dall’Amministrazione procedente e i lavori devono concludersi non oltre 45 giorni decorrenti dalla data di convocazione. All’esito dell’ultima riunione l’Amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione della conferenza sulla base delle posizioni prevalenti espresse dai rappresentanti delle Amministrazioni. Si considera acquisito senza condizioni l’assenso delle Amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alla riunione, ovvero, pur partecipando alla riunione, non abbia espresso la propria posizione o abbia espresso un dissenso non motivato. L’art.
14-quater
determinazione
disciplina
motivata
di
gli
effetti
conclusione
della della
conferenza di servizi, affermando che essa sostituisce tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle Amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati.
In
caso
di
approvazione
unanime
è
immediatamente efficace mentre nell’ipotesi di approvazione sulla base delle posizioni prevalenti, l’efficacia è sospesa ove siano stati espressi dissensi qualificati e per il periodo utile all’esperimento
dei
rimedi
ivi
previsti,
contemplati dal successivo art. 14-quinquies.
questi
ultimi
7.10 Gli accordi procedimentali (o integrativi) e gli accordi sostitutivi Si tratta di una modalità operativa che assicura preventivamente
il
consenso
degli
interessati
sull’esercizio dell’azione amministrativa. La possibilità di un esercizio consensuale della potestà amministrativa è riconosciuta dall’art. 11 L. 241/1990 limitatamente agli accordi procedimentali e sostitutivi. Più nel dettaglio: gli accordi procedimentali o integrativi, anche detti preliminari, preparatori o endoprocedimentali, sono strettamente e funzionalmente collegati al procedimento; con gli stessi il privato e la Pubblica Amministrazione concordano il contenuto del provvedimento che, quindi, rimane l’unica fonte dell’effetto giuridico; gli accordi sostitutivi hanno invece una vera e propria autonomia funzionale intervenendo a definire e produrre gli effetti della fattispecie procedimentale, sostituendo integralmente il provvedimento. La disciplina dettata dalla L. 241/1990, pur dopo le modifiche apportate dalla L. 15/2005, è pressoché comune ad ambedue le figure. L’art. 11, infatti, prevede che:
sia gli accordi sostitutivi che quelli procedimentali devono essere stipulati per atto scritto a pena di nullità, salvo che la legge non preveda altrimenti e devono essere motivati (co. 2); gli stessi vengano conclusi nel perseguimento del pubblico interesse e senza pregiudizio dei diritti dei terzi (co. 1); al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma
1,
predisporre
il
responsabile
un
calendario
del di
procedimento incontri
cui
può invita,
separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati (co. 1-bis); per entrambe le tipologie di accordi devono applicarsi, ove non diversamente disposto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili (co. 2); per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, l’Amministrazione
può
recedere
unilateralmente
dall’accordo, salvo l’obbligo di indennizzo dei pregiudizi subiti dal privato (co. 4); la stipulazione dell’accordo, per entrambe le tipologie (integrativo
o
determinazione
sostitutivo),
è
dell’organo
preceduta
da
una
competente
per
l’adozione del provvedimento (co. 4-bis).
7.11 Gli accordi fra Pubbliche Amministrazioni Anche
al
di
fuori
delle
conferenze
di
servizi
le
Amministrazioni pubbliche possono sempre concludere fra loro
accordi
per
disciplinare
lo
svolgimento
in
collaborazione di attività di interesse comune. Per la disciplina applicabile, l’art. 15 L. 241/1990 rinvia, nei limiti della compatibilità, a quella dettata dai commi 2 e 3 dell’art. 11 della stessa legge in tema di accordi integrativi o sostitutivi.
Pertanto,
è
prevista
la
forma
scritta
ad
substantiam (co. 2), sono soggetti ai medesimi controlli previsti per lo strumento provvedimentale (co. 3).
7.12 Gli accordi di programma Si
tratta
di
un
importante
strumento
di
auto
coordinamento e consiste nel raggiungimento di un consenso unanime delle Amministrazioni o enti interessati circa un’opera, progetto o intervento da realizzare. Norma di riferimento è l’art. 34 D.Lgs. 267/2000 (TUEL) che ne detta una puntuale disciplina attribuendo l’iniziativa a promuovere tale accordo al Presidente della Regione, a quello della Provincia o al Sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente. Scopo dell’accordo è di assicurare il coordinamento delle azioni e determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni connesso adempimento. Il consenso si forma progressivamente attraverso fasi successive che, a partire da quella della “promozione” dell’accordo,
sono
normalmente
scandite
da
atti
o
deliberazioni degli organi degli enti e delle Amministrazioni interessati. Si perfeziona quindi con la conclusione (ossia con la sottoscrizione) dell’accordo di programma che può dirsi così completo e perfetto. L’art. 34 TUEL è considerato norma speciale rispetto all’art. 15 L. 241/1990, a differenza del quale detta una specifica regolamentazione della procedura.
Capitolo 8 L’accesso ai documenti amministrativi 8.1 Il diritto di accesso: nozione, natura giuridica e oggetto 8.1.1 Nozione Il fondamento giuridico del diritto di accesso (conoscitivo) è da individuare nel principio di trasparenza dell’attività amministrativa e segnatamente negli articoli 97 e 98 Cost., ove si enuncia il principio di buon andamento dei pubblici uffici. La disciplina normativa specifica, invece, è riportata nella legge sul procedimento amministrativo (L. L. 241/1990 modificata dalla L. 15/2005) che vi dedica gli art. 22 ss. L’art. 22, come novellato dalla L. 15/2005, alla lett. a) del comma 1, si preoccupa, a differenza della normativa precedente, di fornire una definizione del diritto di accesso, inteso come il diritto degli interessati di prendere visione
e
di
estrarre
copia
dei
documenti
amministrativi. Il citato articolo, inoltre, prevede che l’accesso ai documenti, in considerazione delle sue rilevanti finalità di
pubblico dell’attività
interesse,
costituisce
amministrativa,
partecipazione l’imparzialità
dei e
principio
finalizzato
privati la
un e
a ad
trasparenza
generale
favorire
la
assicurare dell’azione
amministrativa. L’accesso agli atti amministrativi costituisce un diritto di cui devono essere garantiti i livelli essenziali su tutto il territorio nazionale; ciò risulta dall’espressa e specifica qualificazione in tal senso di cui all’art. 22, co. 2, L. 241/1990, ricognitiva del dato sostanziale della funzione del diritto di accesso di strumento di attuazione del principio costituzionale dell’imparzialità dell’azione amministrativa; imparzialità che non sarebbe evidentemente più tale se non assicurata in modo uguale in ogni luogo della Repubblica. Ne consegue che, a norma dell’art. 117, co. 2, lett. m), Cost., la sua tutela deve essere assicurata in primis da norme statali alle quali le Regioni non possono derogare se non in misura migliorativa per il cittadino.
8.1.2 Natura giuridica La tesi dominante è orientata nel senso che la pretesa all’accesso, conformemente alla qualificazione normativa, abbia la consistenza di un diritto soggettivo perfetto, affidato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, chiamato a dirimere una controversia avente ad oggetto diritti in conflitto e non l’esercizio di un potere dell’Amministrazione. La qualificazione dell’accesso come diritto soggettivo comporta le seguenti conseguenze:
il decorso del termine per proporre ricorso contro il diniego dell’accesso non impedisce all’interessato di far valere il diritto di accesso nell’ordinario termine di prescrizione; nel corso del giudizio dinanzi al giudice amministrativo deve ammettersi la possibilità della P.A. di addurre nuove ragioni che giustificano il diniego dell’accesso; la mancata notificazione del ricorso ad almeno uno dei controinteressati non rende inammissibile il ricorso stesso,
ma
obbliga
il
giudice
a
integrare
il
contraddittorio a norma dell’art. 102 c.p.c.
8.1.3 Il documento amministrativo come oggetto del diritto di accesso L’oggetto del diritto di accesso è costituito dai documenti amministrativi definiti dalla lett. d) dell’art. 22 (nel testo novellato dalla L. 15/2005), come “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una Pubblica Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”. La definizione circoscrive l’accesso ai soli documenti esistenti; non può, quindi, riguardare informazioni di cui pure disponga l’amministrazione ma che non siano contenute in documenti.
La norma ha risolto espressamente e in maniera positiva il dubbio riguardo la possibilità che anche gli atti interni, cioè quegli atti endoprocedimentali che non hanno effetto immediato verso il privato ma costituiscono gli antecedenti del provvedimento finale (es. pareri tecnici e nulla osta), possano essere oggetto del diritto di accesso. La norma dispone che il diritto di accesso possa riguardare gli atti di diritto privato sottoscritti dalla Pubblica Amministrazione.
8.2 Le parti nel procedimento di accesso 8.2.1 Gli interessati L’art. 22 L. 241/1990, come novellato dalla L. 15/2005, dopo aver puntualizzato che il diritto di accesso è il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi, nell’individuare l’area dei soggetti interessati, ovvero dei possibili titolari del diritto di accesso, afferma che l’interesse deve essere: attuale, ossia esistente al momento della richiesta di accesso ai documenti; diretto, ovvero personale, e dunque appartenere alla sfera dell’interessato; concreto,
con
riferimento
alla
necessità
di
un
collegamento tra il soggetto ed un bene della vita coinvolto dall’atto o documento; corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento. Inoltre, secondo la dottrina prevalente, l’interesse deve essere serio, ossia meritevole e non emulativo (cioè fatto valere allo scopo di recare molestia o nocumento) e
adeguatamente motivato, con riferimento alle ragioni che vanno esposte nella domanda di accesso. L’art. 22, lett. b), L. 241/1990 estende la qualifica di interessati (potenziali titolari del diritto di accesso) ai soggetti privati portatori di interessi diffusi come i comitati o le associazioni di categoria.
8.2.2 I controinteressati Secondo la definizione contenuta nell’art. 22 L. 241/1990 sono quei soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza; da tale definizione consegue che sono controinteressati non tutti i soggetti contemplati o riguardati dall’atto
ma
solo
quelli
che
dall’esercizio
dell’accesso
vedrebbero in concreto compromesso il loro diritto alla riservatezza.
8.2.3 Le amministrazioni pubbliche e gli altri soggetti obbligati a consentire l’accesso Ai sensi dell’art. 23 L. 241/1990, il diritto di accesso è esercitabile nei confronti: di tutte le Pubbliche Amministrazioni (da intendersi sia statali che locali); delle aziende autonome e speciali (in tal modo ricomprendendo espressamente le aziende ora previste
dall’art. 114 D.Lgs. 267/2000 - Testo unico degli enti locali); degli enti pubblici, nonché gli organismi di diritto pubblico e gestori di pubblici servizi; delle Autorità di garanzia e di vigilanza (le Autorità indipendenti). Il problema più importante si è posto per i privati gestori di pubblici servizi. Fondamentali sul punto sono due decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (nn. 4 e 5 del 1999), la quale ha rilevato che ciò che conta ai fini dell’operatività del diritto di accesso non è la natura pubblica o privata dell’attività posta in essere, bensì il fatto che l’attività, ancorché di diritto privato, miri alla tutela di un pubblico interesse e sia soggetta al canone di imparzialità. Al riguardo il Consiglio di Stato ha distinto tra attività privatistica della Pubblica Amministrazione e attività dei privati concessionari di pubblici servizi. Se con riguardo all’attività privatistica, il diritto di accesso opera
in
ogni
caso
con
riferimento
all’attività
dei
concessionari, occorre distinguere: l’accesso è garantito nei procedimenti per la formazione delle determinazioni contrattuali (es. la scelta del contraente) e, analogamente, per quanto concerne le scelte organizzative adottate in sede di gestione del servizio (scelte dirette ad offrire un servizio avente certi standard qualitativi), in cui opera il dovere di imparzialità;
per le attività residuali del concessionario, ovvero le attività
diverse
dalla
gestione
del
servizio,
la
giurisprudenza afferma che occorre operare un giudizio di bilanciamento degli interessi, per cui il diritto di accesso deve operare se l’interesse pubblico prevale su quello puramente imprenditoriale. All’opposto, deve trovare applicazione integralmente il diritto privato quando il soggetto, pur avendo natura pubblica, formalmente o sostanzialmente (proprietà pubblica di una società), non gestisce servizi pubblici e svolge un’attività comunque estranea alla sfera della rilevanza collettiva degli interessi. In tal caso il privato dovrà avvalersi degli ordinari strumenti previsti dal codice di procedura civile (art. 210, ordine di esibizione di atti alla parte o al terzo).
8.3 I limiti al diritto di accesso L’art. 24 L. 241/1990 è stato fortemente innovato dalla L. 15/2005 che, dettagliando e specificando in maniera più esaustiva la normativa precedente, ha previsto vari livelli di limitazioni al diritto di accesso. In particolare il citato articolo individua le ipotesi di esclusione del diritto d’accesso, al fine di coordinare più razionalmente l’istituto de quo con la disciplina dettata in materia di privacy, distinguendole in tassative ed eventuali. I limiti tassativi sono previsti direttamente dalla legge – ed in particolare dall’art. 24, co. 1 – per la tutela di preminenti interessi pubblicistici e non sono derogabili dalla Pubblica Amministrazione. Pertanto il diritto di accesso è escluso: per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della L. 801/1977 (provvedimento ora abrogato e sostituito dalla L. 124/2007) e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dai regolamenti governativi e da quelli approvati dalle singole amministrazioni; nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano; nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i
quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione; nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi. Spetta alle singole Amministrazioni individuare, con uno o più regolamenti, le categorie di documenti sottratti all’accesso per le esigenze di salvaguardia degli interessi indicati nel comma 1 dell’art. 24. Il comma 4 dell’art. 24 sottolinea che non può negarsi l’accesso ove sia sufficiente fare ricorso al meno compulsante potere di differimento, ossia alla possibilità di posticipare nel tempo l’effettivo esercizio del diritto. I limiti eventuali sono indicati nel comma 6 dell’art. 24 L. 241/1990 il quale enuncia la regola di principio secondo cui il diritto di accesso può essere escluso per l’esigenza di salvaguardare: la
sicurezza,
la
difesa
nazionale
e
le
relazioni
internazionali; la politica monetaria e valutaria; l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, giuridiche, gruppi, imprese e associazioni con particolare riferimento agli interessi di natura epistolare, sanitaria, finanziaria, industriale e commerciale;
l’attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all’espletamento del relativo mandato. In tali casi, la disciplina concreta è rimessa ad un regolamento delegato al Governo, al quale è demandato di disciplinare non solo le modalità di esercizio del diritto ma soprattutto i casi di esclusione nel rispetto dei principi e criteri direttivi dettati dalla legge.
8.4 Modalità di esercizio del diritto di accesso 8.4.1 Accesso formale e informale Il
procedimento
per
l’accesso
si
attiva
a
istanza
dell’interessato. In questa sede la dizione «procedimento» deve intendersi in maniera atecnica poiché, al termine delle diverse fasi in cui si articola la procedura di accesso ai documenti,
non
amministrativo,
viene ma
emanato rileva
un un
provvedimento comportamento
dell’Amministrazione competente che, se del caso, consente la cosiddetta ostensione (presa visione o copia) dei documenti richiesti. L’interessato, per esaminare o estrarre copia di documenti, deve formulare una richiesta, formale o informale, ma sempre motivata, sicché sarebbe legittimo negare l’accesso nel caso di istanze generiche, defatigatorie, del tutto estranee alla sfera giuridica del richiedente. Si distingue tra: accesso informale: si esercita personalmente tramite richiesta, anche verbale, se non sussistono dubbi sulla legittimazione del richiedente e sul suo interesse alla conoscenza dei documenti richiesti o sull’accessibilità dei documenti stessi. In caso di accoglimento della richiesta
l’ufficio provvede immediatamente e senza altre formalità all’esibizione del documento e all’eventuale rilascio di copie, salvo il rimborso dei costi; accesso formale: il richiedente è invitato a presentare una richiesta scritta nella quale occorre indicare gli estremi del documento o delle informazioni oggetto dell’istanza, ovvero gli elementi che ne consentano l’individuazione, specificare e comprovare l’interesse personale e concreto, far constatare la propria identità e/o la sussistenza dei propri poteri rappresentativi.
8.4.2 Attività istruttoria In ogni caso il funzionario che riceve la richiesta di accesso deve procedere alla verifica dell’identità del richiedente (attraverso la richiesta di esibire la carta di identità o altro documento equipollente). Nel caso in cui la richiesta sia inviata per posta, fax, non occorre l’autentica della firma del richiedente se l’istanza è accompagnata dalla fotocopia di un documento di identità. La richiesta deve essere presentata all’ufficio, centrale o periferico, statale o dell’Amministrazione locale, competente a formare l’atto conclusivo del procedimento o a detenere stabilmente il relativo documento. Non rileva l’eventuale errore nella presentazione, essendovi l’obbligo dell’ufficio ricevente di trasmettere la richiesta a quello competente, come pure
il
richiedente
deve
essere
invitato
a
riparare
all’irregolarità o incompletezza della richiesta, che non può, quindi, essere respinta senz’altro per questa ragione.
Il regolamento attuativo del diritto di accesso ai documenti amministrativi (D.P.R. 12-4-2006, n. 184) ha previsto che il soggetto pubblico cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, è tenuto a dar loro comunicazione, con raccomandata A/R, dell’avvenuta istanza di accesso. Entro i successivi 10 giorni dalla comunicazione i controinteressati possono presentare, anche per via telematica, una motivata opposizione all’accoglimento dell’accesso. Decorso tale termine, sulla base degli elementi a disposizione, la Pubblica Amministrazione deciderà sulla richiesta di accesso.
8.4.3 Accoglimento, rifiuto e differimento della richiesta Entro 30 giorni dalla richiesta, la P.A. deve esprimere le sue determinazioni: se accoglie la richiesta, indica le modalità e fissa il termine (non inferiore a 15 giorni) per prendere visione dei documenti o ottenerne copia (l’accoglimento si estende di regola anche agli altri documenti richiamati e appartenenti allo stesso procedimento); se rifiuta l’accesso, totalmente o parzialmente, o lo differisce, il responsabile del procedimento deve motivare il provvedimento con riferimento specifico alla normativa vigente, alle categorie di atti per i quali è stato escluso l’accesso dai regolamenti delle singole Amministrazioni e
alle circostanze di fatto che rendono non accoglibile la richiesta così come proposta (art. 25, comma 3). La possibilità di posticipare nel tempo l’accesso agli atti (differimento) deve essere una soluzione prioritaria per l’amministrazione rispetto al semplice rifiuto (art. 24, co. 3. L. 241/1990). Il diritto all’accesso può anche essere soddisfatto mediante la pubblicazione degli atti nella Gazzetta Ufficiale o secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti, comprese le forme di pubblicità attuabili mediante strumenti informatici, elettronici e telematici. In tal caso, peraltro, si parla di «pubblicità» dell’azione amministrativa e non di diritto di accesso, poiché soggetti a tale diritto non sono quegli atti la cui conoscibilità è desumibile dagli ordinari mezzi di pubblicità degli atti amministrativi. Trascorsi
30
giorni
dalla
richiesta
senza
che
l’Amministrazione si sia pronunciata, «questa si intende respinta» (ipotesi di silenzio rigetto), con la conseguenza che l’interessato può attivare uno dei rimedi previsti (TAR, Commissione per l’accesso, Difensore civico).
8.5 La tutela del diritto di accesso Sul versante della tutela, l’art. 25 L. 241/1990 (come modificato dalle riforme del 2005, leggi nn. 15 e 80, e dalla L. 69/2009) disciplina la possibilità per il richiedente di promuovere, nel caso di diniego o di differimento dell’accesso: l’intervento del giudice amministrativo e nello specifico il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR); o, in alternativa, della Commissione statale per l’accesso ai documenti amministrativi, nel caso di atti delle Amministrazioni dello Stato; oppure
del
Difensore
civico
competente
per
territorio, nel caso di atti delle Amministrazioni locali.
8.5.1 Il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale Ai sensi dell’art. 116 del Codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010) avverso le determinazioni e contro il silenzio
sulle
istanze
di
accesso
ai
documenti,
l’interessato può proporre (entro 30 giorni) ricorso al TAR, senza bisogno di alcun atto di diffida o messa in mora dell’amministrazione. Il giudice amministrativo – uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta o le parti personalmente – decide in
camera di consiglio. Le parti possono stare in giudizio senza l’assistenza di un difensore (art. 23 del Codice). Anche l’Amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente a ciò autorizzato (art. 116 del Codice). In caso di accoglimento totale o parziale del ricorso, il giudice amministrativo ordina l’esibizione e, ove previsto, la pubblicazione dei documenti richiesti entro un termine non superiore a 30 giorni. Per l’appello, proponibile entro 30 giorni dalla notifica della decisione del TAR, al Consiglio di Stato si osservano le stesse regole (art. 116, co. 5, del Codice). La tutela giurisdizionale è riconosciuta anche per violazione del diritto all’accesso civico.
8.5.2 La Commissione statale per l’accesso ai documenti amministrativi Alla
Commissione
per
l’accesso
ai
documenti
amministrativi, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, si può ricorrere in via amministrativa avverso le determinazioni (diniego, espresso o tacito, o differimento dell’accesso) concernenti il diritto di accesso adottate dalle Amministrazioni
statali
o
dai
soggetti
ad
esse
equiparati operanti in ambito ultraregionale. Il ricorso alla Commissione sospende i termini per il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale. Il procedimento si svolge in tempi particolarmente rapidi e garantisce il rispetto del contraddittorio; le parti possono,
infatti, essere udite anche personalmente senza necessità dell’assistenza del difensore. In caso di accoglimento del ricorso, la Commissione ordina all’Amministrazione l’esibizione del documento richiesto, fissando, ove necessario, un termine perentorio. Nell’ipotesi di rigetto, entro 30 giorni si può ricorrere al TAR.
8.5.3 Il ricorso al Difensore civico (tutela giustiziale) Al fine di salvaguardare l’istanza di accesso ai documenti può essere richiesto l’intervento del Difensore civico, organo chiamato a svolgere il ruolo di garante dell’imparzialità e del buon andamento dell’Amministrazione, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi dell’Amministrazione nei confronti dei cittadini, e non solo in materia di accesso ai documenti amministrativi. Ai difensori civici delle Regioni e delle Province autonome, a tutela dei cittadini residenti nei Comuni delle stesse Regioni e Province, e fino all’istituzione del Difensore civico nazionale, è stato affidato il compito di esercitare le funzioni di richiesta, proposta, sollecitazione e informazione anche nei confronti delle Amministrazioni periferiche dello Stato (fatta eccezione per le Amministrazioni competenti in materia di difesa, di sicurezza pubblica e di giustizia). Il Difensore civico interviene d’ufficio o su istanza di parte.
Può
avvalersi
della
collaborazione
dell’Amministrazione interessata al suo intervento e deve
essergli garantito un agevole accesso alla documentazione connessa all’oggetto del suo intervento. Il comma 4 dell’art. 25 L. 241/1990 prevede che l’interessato, a fronte del diniego di accesso della Pubblica Amministrazione, ha la possibilità, entro il termine di 30 giorni, di chiedere al Difensore civico competente il riesame della determinazione della Pubblica Amministrazione; se il Difensore civico reputa illegittimo il diniego lo comunica all’Amministrazione procedente. A questo punto l’Amministrazione ha il dovere di rispondere entro il termine di 30 giorni: confermando motivatamente il precedente diniego, e la partita si chiude qui; non confermando e concedendo espressamente l’accesso; non rispondendo e allora dopo 30 giorni l’accesso s’intende consentito (cd. silenzio assenso legittimante). Il ricorso al Difensore civico è alternativo al ricorso giurisdizionale, per il quale l’interessato può comunque in ogni momento optare, ed è possibile solo da parte dell’interessato
all’accesso
e
non
da
parte
dei
controinteressati. Il Difensore civico è privo di poteri decisori definitivi, ma può stimolare l’Amministrazione a rivedere il proprio operato.
8.6 L’accesso civico 8.6.1 Profili generali L’accesso civico è un istituto introdotto dall’art. 5 D.Lgs. 33/2013 e riguarda la richiesta di consultazione, da parte di chiunque: di documenti, informazioni o dati per i quali vi era un obbligo di pubblicazione e sia stato omesso da parte dell’amministrazione
competente
(accesso
civico
semplice); di
dati
e
documenti
detenuti
dalle
pubbliche
amministrazioni, diversi da quelli che devono essere obbligatoriamente
pubblicati
(accesso
civico
generalizzato). L’istituto è finalizzato a favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico da parte dei cittadini. Tuttavia se nel primo caso non sono previste specifiche limitazioni, trattandosi di atti che l’amministrazione avrebbe comunque dovuto pubblicare, nel secondo devono essere rispettati i limiti relativi alla tutela di
interessi
giuridicamente
rilevanti,
specificamente
individuati nel successivo art. 5-bis D.Lgs. 33/2013 e, in particolare, avvertire eventuali controinteressati.
In merito, alla differenza tra l’accesso generalizzato (introdotto dal D.Lgs. 97/2016) e l’accesso civico semplice (previsto dall’art. 5, co. 1, D.Lgs. 33/2013), infatti, va detto che quest’ultimo
è
circoscritto
ai
soli
atti,
documenti
e
informazioni oggetto di obblighi di pubblicazione e costituisce un rimedio alla mancata osservanza sovrapponendo al dovere di pubblicazione il diritto di “chiunque” di accedere ai documenti, dati e informazioni interessati dall’inadempienza. L’accesso generalizzato, invece, è autonomo ed indipendente da obblighi di pubblicazione ed è espressione di una libertà che incontra, quali unici limiti, da una parte, il rispetto della tutela degli interessi pubblici e/o privati indicati all’art. 5-bis, commi 1 e 2, e dall’altra, il rispetto delle norme che prevedono specifiche esclusioni (art. 5-bis, comma 3).
8.6.2 Limiti all’accesso civico generalizzato L’accesso civico generalizzato può essere rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di: interessi pubblici: sicurezza pubblica e ordine pubblico, sicurezza nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, politica e stabilità finanziaria ed economica dello Stato, conduzione di indagini sui reati e loro perseguimento e regolare svolgimento di attività ispettive; interessi privati: protezione dei dati personali, libertà e segretezza della corrispondenza, interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi
la proprietà intellettuale, diritto d’autore e segreti commerciali. Si applicano, altresì, tutti gli altri limiti al diritto di accesso previsti dalla L. 241/1990. Se i limiti riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l’accesso agli altri dati o alle altre parti. Inoltre essi si applicano unicamente per il periodo nel quale la protezione è giustificata in relazione alla natura del dato, con la conseguenza che l’accesso non può essere negato laddove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento.
8.6.3 Differenza tra diritto di accesso e l’accesso civico Il diritto di accesso, di cui all’art. 22 L. 241/1990, è uno strumento finalizzato all’esercizio del diritto degli interessati di prendere
visione
ed
estrarre
copia
di
documenti
amministrativi, intendendosi per «interessati» tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso; in funzione di tale interesse la domanda di accesso dovrà essere opportunamente motivata. Diversamente, l’accesso civico non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente (art. 5, co. 3, D.Lgs. 33/2013) dal momento che chiunque può esercitarlo.
Con l’introduzione dell’accesso civico, infatti, il legislatore ha inteso ampliare i confini tracciati dalla L. 241/1990 sotto un duplice profilo: delle informazioni che le amministrazioni devono rendere disponibili e dei requisiti in capo al richiedente. L’accesso civico non necessita nemmeno di motivazione ma riscontra molte più limitazioni volte alla tutela di interessi pubblici e privati.
8.6.4 Modalità di esercizio del diritto L’istanza di accesso civico deve identificare i dati, le informazioni o i documenti che si intendono visionare. Può essere trasmessa per via telematica ed è presentata, alternativamente: all’ufficio che detiene i dati, le informazioni o i documenti, all’Ufficio relazioni con il pubblico, ad altro ufficio
indicato
dall’amministrazione
nella
sezione
“Amministrazione trasparente” del sito istituzionale e al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, ove l’istanza abbia a oggetto dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria. Il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto
e
documentato
dall’amministrazione
per
la
riproduzione su supporti materiali. Il procedimento deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di 30 giorni dalla presentazione
dell’istanza
con
una
comunicazione
al
richiedente e agli eventuali controinteressati. In caso di accoglimento, l’amministrazione provvede a trasmettere i
dati o i documenti richiesti, oppure a comunicare al richiedente l’avvenuta pubblicazione sul sito, indicandogli il relativo collegamento ipertestuale. Nei casi di diniego totale o parziale dell’accesso o di mancata risposta, il richiedente può presentare richiesta di riesame al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Se anche in questo caso vi è diniego, è possibile proporre ricorso al TAR. Per gli atti delle amministrazioni delle Regioni o degli enti locali, è possibile presentare ricorso al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, o competente per l’ambito territoriale immediatamente superiore laddove non sia stato costituito. Il ricorso va anche notificato all’amministrazione interessata.
Capitolo 9 La patologia dell’atto amministrativo 9.1 Gli stati patologici e l’invalidità dell’atto 9.1.1 Gli stati patologici dell’atto Gli stati patologici dell’atto amministrativo possono ricondursi alle seguenti figure: imperfezione: si configura nel caso di mancata conclusione della procedura di formazione dell’atto (es. è imperfetto il decreto del Presidente della Repubblica non controfirmato dal Ministro competente); irregolarità: s’intende con questa locuzione lo stato patologico di provvedimento caratterizzato dal difetto di elementi formali marginali, tali da non comportarne l’annullabilità. La presenza di tale difformità, pur determinando una reazione da parte dell’ordinamento, non incide sulla validità e sulla piena efficacia dell’atto; inefficacia: un atto è inefficace quando non può produrre i suoi effetti, cioè quando non è ancora stato sottoposto ai controlli previsti dalla legge o quando è sottoposto a condizione o a termine iniziale;
invalidità:
ritenuta
la
«categoria
estrema
della
patologia», può assumere la configurazione della nullità, se la difformità dell’atto rispetto al modello legale è radicale, ovvero dell’annullabilità, che si determina quando l’atto è inficiato da uno dei tre vizi di legittimità (violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere). Diverso è il concetto di inopportunità del provvedimento amministrativo:
l’inopportunità,
infatti,
è
la
mancata
rispondenza dell’assetto degli interessi consacrato nell’atto ai principi di buona amministrazione. Dalla presenza di tale vizio, che investe il merito dell’azione amministrativa, discende la possibilità per la P.A. di revocare in autotutela il provvedimento ovvero – nei casi di giurisdizione estesa al merito – la possibilità per l’interessato di ottenerne l’annullamento ad opera del giudice. Va detto infine che, mentre l’invalidità concerne la difformità dell’atto dallo schema legale, l’illiceità è un effetto del comportamento lesivo di una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento. Possono tuttavia darsi ipotesi in cui l’atto, pur se pienamente valido, dà luogo ad un illecito, ove malamente eseguito; al contrario si possono verificare casi in cui l’atto, pure invalido, non dà luogo ad illecito, mancando gli altri elementi costitutivi dello stesso.
9.1.2 La disciplina dell’invalidità Un provvedimento amministrativo invalido può essere nullo o annullabile. La nullità fa sì che il provvedimento
debba considerarsi come mai adottato e, dunque, non produttivo di effetti giuridici. Se, invece, un provvedimento è annullabile, vuol dire che esso è affetto da un difetto giuridico che può comportare la rimozione del provvedimento che, fino al verificarsi di tale eventualità, dispiega i suoi effetti giuridici. Con la riforma della legge sul procedimento, operata dalla L. 15/2005, è stata «positivizzata» la categoria dell’invalidità con gli artt. 21-septies e 21-octies L. 241/1990, rispettivamente concernenti la nullità e l’annullabilità del provvedimento. Sicché è: nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge; annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
9.2 La nullità dell’atto 9.2.1 Il regime giuridico della nullità Secondo
l’art.
21-septies
L.
241/1990
è
nullo
il
provvedimento amministrativo: che manca degli elementi essenziali; che è viziato da difetto assoluto di attribuzione; che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato; nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. In tali situazioni si ritiene sussistere in capo al privato l’interesse a eliminare dall’ordinamento giuridico (mediante un’azione di accertamento finalizzata a ottenere la mera declaratoria di inidoneità di un atto a produrre i suoi effetti) un provvedimento improduttivo di effetti: questo, infatti, pur improduttivo di effetti giuridici, è in grado di produrre effetti materiali. Più in specie, il provvedimento nullo può essere eseguito, essendo un atto giuridicamente rilevante, possono essere emanati provvedimenti consequenziali all’atto stesso e il provvedimento stesso può ingenerare un affidamento nei terzi in ordine alla sua validità. Gli altri aspetti salienti del regime giuridico della nullità sono:
la sua rilevabilità d’ufficio da parte del giudice in ogni stato e grado del giudizio; la
sua
insanabilità,
non
essendo
possibile
per
l’Amministrazione convalidare l’atto nullo con effetto retroattivo, ma al limite procedere al suo rinnovo con effetti ex nunc. Per gli effetti della nullità dell’atto amministrativo: il
terzo
che
era
obbligato
dall’atto
nullo
può
legittimamente rifiutarsi di adempiere alle previsioni dell’atto; la nullità dell’atto può essere fatta valere da chiunque, non solo da chi sia leso in un suo diritto soggettivo o in un suo interesse legittimo. La domanda volta all’accertamento della nullità si propone entro il termine di decadenza di 180 giorni. La nullità può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 31, co. 4, D.Lgs. 104/2010); se in relazione all’atto amministrativo nullo siano state modificate delle situazioni giuridiche, sorge l’obbligo per chi le ha poste in essere di ripristinare la situazione esistente antecedente all’atto amministrativo nullo. L’atto nullo può essere convertito in un atto diverso con i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, sempre che sia raggiunto lo stesso interesse pubblico.
9.2.2 La carenza di potere
La figura della carenza di potere ricorre nei casi in cui difetta la potestà dell’Amministrazione e più in specie quando: l’atto è emanato da un’Amministrazione totalmente priva del potere di adottarlo; il potere di provvedere appartiene ad un’Amministrazione radicalmente diversa; oppure, nei casi in cui viene in rilievo un potere precluso ad ogni Amministrazione e riservato ad un altro potere dello Stato. Al riguardo si parla di carenza in astratto per distinguere tale ipotesi da quella della carenza in concreto, che ricorre quando il potere amministrativo, pur essendo in astratto attribuito alla Pubblica Amministrazione, non può in concreto essere esercitato a causa di una specifica preclusione legislativa. La figura della carenza di potere è invocata dalla giurisprudenza in contrapposizione a quella del cattivo uso del potere per delimitare i rapporti tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario. Più in specie, si fanno valere diritti soggettivi, con contestuale radicamento della giurisdizione ordinaria, ogni qualvolta il privato contesti la stessa esistenza del potere della Pubblica Amministrazione. Al contrario, si fanno valere interessi
legittimi,
con
attribuzione
della
relativa
competenza in capo al giudice amministrativo, quando si lamenta il cattivo uso del potere dell’Amministrazione.
9.2.3 Nullità e inesistenza L’atto inesistente è tradizionalmente considerato come un’entità giuridicamente irrilevante in quanto privo degli elementi minimi che consentano di poterlo ricondurre ad una fattispecie astratta. Ad
esempio,
sembrano
riconducibili
alla
categoria
dell’inesistenza giuridica le ipotesi di mancata sottoscrizione dell’atto, di cui non sia in altro modo individuabile l’autorità emanante.
9.3 L’annullabilità dell’atto 9.3.1 I vizi di legittimità L’atto amministrativo illegittimo è un atto esistente ed efficace che si presenta, tuttavia, difforme dalla normativa che disciplina i requisiti richiesti per la sua validità, senza che però ricorrano le più gravi patologie comportanti la nullità. L’atto illegittimo produce gli stessi effetti dell’atto legittimo: si tratta tuttavia di effetti «precari» posto che la legge
prevede
strumenti
giuridici
per
eliminarli
contestualmente all’atto che li pone in essere. Tra i concetti di illegittimità e annullamento ricorre pertanto un rapporto di cd. consequenzialità necessaria: da un lato, è illegittimo il provvedimento amministrativo emesso
in
disciplinano,
violazione dall’altro,
delle il
norme
giuridiche
provvedimento
che
illegittimo
lo è
suscettibile di annullamento. Deve precisarsi che un provvedimento illegittimo non può essere come tale qualificato come illecito, in quanto l’illiceità si concretizza nella violazione di norme giuridiche che non disciplinano atti ma sanzionano comportamenti lesivi di diritti soggettivi altrui. Ai sensi dell’art. 21-octies L. 241/1990 è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge
e o viziato da eccesso di potere o da incompetenza relativa. L’illegittimità può essere: totale o parziale, a seconda che investa l’intero provvedimento o si limiti ad una parte soltanto di esso senza comunicarsi alle altre; originaria,
giammai
può
invece
delinearsi
come
successiva, quando la legittimità del provvedimento va valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, senza che possano essere invocati – per sostenerne l’illegittimità – i successivi mutamenti della normativa; derivata, quando risulta invalido un altro atto che ne costituisce il presupposto. Ai sensi dell’art. 29 del Codice del processo amministrativo, l’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di 60 giorni. L’atto
amministrativo
annullabile
è
giuridicamente
esistente, efficace e sanabile. L’annullabilità non opera di diritto, ma solo se fatta valere da chi ne abbia interesse. L’atto amministrativo annullabile può anche essere sanato o soggetto a consolidazione.
9.3.2 L’incompetenza relativa Si ha incompetenza relativa quando l’organo che emana l’atto appartiene allo stesso settore di amministrazione dell’organo che sarebbe competente secondo le regole generali.
Si può distinguere un’incompetenza per materia (l’atto emanato è riservato per materia ad altro organo dello stesso settore amministrativo) o per territorio (l’atto è emanato da un organo che, sebbene competente per materia, non lo è per territorio).
In
questi
casi
l’atto
è
annullabile
o,
eventualmente, sanabile. Nell’ipotesi in cui l’atto venga adottato da autorità appartenente ad altro ordine di poteri o ad altro settore della Pubblica
Amministrazione
si
verifica
la
fattispecie
dell’incompetenza assoluta, che comporta la nullità dell’atto. Per il legislatore, inoltre, costituisce motivo di nullità il difetto assoluto di attribuzione, vale a dire l’eventualità in cui il potere amministrativo non è assegnato ad alcuna autorità, per cui non esiste giuridicamente il provvedimento che ne costituisce esercizio (art. 21-septies L. 241/1990).
9.3.3 L’eccesso di potere L’eccesso di potere è un vizio che investe la causa dell’atto amministrativo, cioè la sua funzione, che deve essere quella predeterminata dalla legge: mentre l’eccesso di potere attiene alla causa dell’atto, l’incompetenza, relativa od assoluta, attiene l’autorità da cui promana l’atto. Tale vizio viene anche classificato come vizio della discrezionalità. Affinché si possa parlare di eccesso di potere occorre che: l’atto sia discrezionale (dato che gli atti vincolati hanno un
contenuto
predeterminato
non
possono
essere
invalidati per eccesso di potere); l’atto realizzi un fine diverso da quello previsto dalla legge; l’eccesso di potere sia provato. La prova dell’eccesso di potere viene individuata nello sviamento dal fine indicato dalla norma. Ma è proprio l’individuazione
del
fine
medesimo
che
è
apparsa
un’operazione tutt’altro che agevole. Per superare tali difficoltà probatorie, si è ritenuto che anche nell’ipotesi in cui lo sviamento non venga dimostrato, ma si ravvisi la violazione dei principi di logicità, ragionevolezza, coerenza e completezza dell’iter logico seguito dall’Amministrazione, siffatta violazione può essere assunta a «spia» di tale sviamento.
9.3.4 La violazione di legge e la mera irregolarità Per violazione di legge non s’intende la sola difformità dell’atto amministrativo rispetto alle norme di legge bensì la violazione di qualunque norma vigente e quindi tutti gli atti normativi, inclusi i regolamenti, e tutti gli atti di autonomia normativa delle amministrazioni. Essa assume valenza residuale rispetto alle altre due categorie che determinano l’annullabilità dell’atto. L’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo, avendo tradotto in puntuali precetti gran parte dei principi e dei canoni dell’azione amministrativa, precedentemente dedotti in via interpretativa, ha esteso i confini del presente vizio,
assorbendo anche gran parte delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere. L’art. 21-octies, co. 2 L. 241/1990 introduce due importanti eccezioni rispetto alla violazione di legge, stabilendo che non è annullabile «il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento «qualora l’Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Con il primo inciso si indicano quelle violazioni di legge che, seppur presenti, non comportano l’annullabilità dell’atto; il legislatore ha in tal modo introdotto la categoria dei vizi meramente formali (quando, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato), peraltro già prevista da parte della dottrina. Per questo tipo di vizi il legislatore ha ritenuto che prevalga la sostanza rispetto agli aspetti formali richiesti dalle leggi e ne ha escluso l’annullabilità. Si parla, quindi, di irregolarità non invalidante per la presenza di difformità rispetto alle norme di legge di riferimento che si traducono in vizi meramente formali e di scarso valore sostanziale (mera irregolarità), tali da non
avere un’incidenza causale sul contenuto del provvedimento finale e da non imporne l’annullamento. Per il secondo inciso, la P.A. può provare in giudizio che la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento non rappresenta
di
per
sé
stessa
causa
di
annullabilità,
dimostrando che i destinatari sono comunque venuti a conoscenza dell’atto amministrativo o che, anche se ne fossero venuti a conoscenza, questo non avrebbe potuto essere diverso da quello posto in essere dall’Amministrazione. In analogia con le figure sintomatiche relative all’eccesso di potere, sono state elaborate delle analoghe figure anche relativamente alla violazione di legge: vizio di forma; difetto o insufficienza della motivazione; invalida costituzione del collegio deliberativo; contenuto illegittimo; difetto di presupposti legali; disparità di trattamento; ingiustizia manifesta; violazione dei criteri di economicità, efficacia, pubblicità o trasparenza; violazione del giusto procedimento.
9.4 L’istituto dell’autotutela L’autotutela amministrativa può essere definita come quel complesso
di
attività
con
cui
ogni
Pubblica
Amministrazione risolve i conflitti potenziali e attuali, relativi ai suoi provvedimenti o alle sue pretese. In questi casi la Pubblica Amministrazione interviene unilateralmente, con i mezzi amministrativi a sua disposizione (salvo ovviamente ogni sindacato giurisdizionale), tutelando autonomamente la propria sfera d’azione. Il fondamento dell’autotutela amministrativa si rinviene nella potestà generale che l’ordinamento riconosce a ogni Pubblica Amministrazione di intervenire unilateralmente su ogni questione di propria competenza; tale fondamento ha trovato poi il suo riscontro positivo nella L. 15/2005, di modifica della L. 241/1990. Con la riforma predetta s’è inteso dare un fondamento positivo (ovvero codificato in norme di legge) agli istituti della revoca, dell’annullamento d’ufficio e della convalida, fugando dunque ogni dubbio sulla compatibilità del potere di riesame con il principio di legalità. Volendo schematizzare, è possibile operare una primaria distinzione tra le manifestazioni di autotutela amministrativa. A tal fine si distingue:
autotutela quale forma di eliminazione dell’atto invalido o inopportuno, che si concreta negli istituti dell’annullamento di ufficio e della revoca; autotutela quale forma di conservazione dell’atto invalido o inopportuno, che si concreta negli istituti della convalida, sanatoria, conversione, riforma e conferma. Si distinguono le seguenti tipologie di autotutela: autotutela esecutiva, che consiste nel complesso di attività attuative di una decisione amministrativa (es. operazioni materiali di sgombero a seguito di un ordine della Pubblica Amministrazione di sgomberare un edificio abusivo). Per tale fattispecie serve una norma specifica che attribuisca alla Pubblica Amministrazione il potere di agire in via diretta e immediata per l’attuazione dei propri interessi; autotutela decisoria, nel cui ambito rileva poi la suddivisione in autotutela diretta (o non contenziosa) e autotutela indiretta (o contenziosa). Con l’autotutela diretta, l’Amministrazione esercita i suoi poteri spontaneamente, attraverso l’annullamento cd. d’ufficio, cioè posto in essere in esecuzione di un dovere stabilito dalla legge. Rientrano in essa: gli atti di ritiro (annullamento d’ufficio, revoca, abrogazione, decadenza, ritiro) e la convalescenza dell’atto (convalida, ratifica, sanatoria). L’autotutela indiretta si fonda sull’azione, o ricorso, dell’interessato. Assume, quindi, una connotazione fortemente
giurisdizionale anche sul piano formale, proprio a causa della presenza di una controversia, la quale si conclude con un atto che tende a soddisfare, accanto a quello del privato ricorrente, altresì l’interesse pubblico dell’Amministrazione; questo è il motivo per cui si parla di autotutela indiretta.
9.5 L’autotutela decisoria 9.5.1 Gli atti di ritiro I principali atti di ritiro sono l’annullamento d’ufficio e la revoca. L’annullamento d’ufficio è disciplinato dall’art. 21nonies
L.
241/1990
e
costituisce
un
provvedimento
amministrativo di secondo grado, con cui viene ritirato dall’ordinamento,
con
efficacia
retroattiva,
un
atto
amministrativo illegittimo, per la presenza di vizi di legittimità originari. L’annullamento è un provvedimento discrezionale e, come tale, non è mai un atto dovuto (salvo il caso di annullamento doveroso). Viene adottato dallo stesso organo che l’ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. L’esercizio di tale forma di autotutela è assoggettato a regole rigorose: l’obbligo della motivazione; la presenza di concrete ragioni di pubblico interesse, non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità; la valutazione
dell’affidamento
delle
parti
private
destinatarie del provvedimento oggetto di riesame; il rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale; l’adeguata istruttoria.
La revoca, disciplinata dall’art. 21-quinquies L. 241/1990, diversamente
dall’annullamento
d’ufficio,
opera
con
riferimento ad atti inopportuni e prescinde da valutazioni di merito dell’azione amministrativa. È un provvedimento amministrativo di secondo grado, con cui la Pubblica Amministrazione ritira con efficacia non retroattiva un atto inficiato da vizi di merito in base ad una nuova valutazione degli interessi. In linea generale, l’atto di revoca è emanato dalla stessa autorità amministrativa che ha emesso l’atto da revocare (e con un procedimento analogo), a meno che non sia intervenuto, nel
frattempo,
un
mutamento
normativo
che
abbia
determinato il venir meno della sua competenza sulla materia su cui verte l’atto. La revoca può essere adottata, di regola, anche da un organo che si trovi in posizione di superiorità gerarchica rispetto a quello che ha posto in essere l’atto da revocare, a meno che quest’ultimo non abbia competenza esclusiva sulla materia specifica. Non avendo efficacia retroattiva, gli effetti dell’atto revocato sono mantenuti e hanno validità fino al momento in cui è intervenuta la revoca. L’istituto è stato codificato dalla L. 15/2005, che ha innestato nel corpo della L. 241/1990 l’art. 21-quinquies. Tale norma è stata ulteriormente modificata dall’art. 25 co. 1, lett. b-ter), D.L. 133/2014. In tal senso, ora, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento
dell’adozione del provvedimento o (salvo che si tratti di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici) di rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo a efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’Amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo.
9.5.2 Gli atti di convalescenza L’autotutela costituisce anche il fondamento degli atti di convalescenza con cui la P.A. opera una sanatoria dei vizi contenuti nell’atto. I principali atti di convalescenza sono: la convalida: si tratta di un provvedimento nuovo, autonomo, costitutivo, che elimina i vizi di legittimità di un atto invalido precedentemente emanato dalla stessa autorità (es. integrazione della motivazione insufficiente); la ratifica: anch’esso è un provvedimento nuovo, autonomo, costitutivo, con cui viene eliminato il vizio di incompetenza relativa da parte dell’autorità astrattamente competente, la quale si appropria di un atto adottato da autorità incompetente dello stesso ramo; la sanatoria: opera quando un atto o un presupposto di legittimità del procedimento, mancante al momento dell’emanazione dell’atto amministrativo, viene emesso
successivamente in modo da perfezionare ex post l’atto illegittimo.
9.5.3 Gli atti di conservazione Con gli atti di conservazione si cerca di perseguire il raggiungimento dello scopo di un atto ove l’atto, pur viziato, sia egualmente in grado di soddisfare l’interesse pubblico. I principali sono: consolidazione-inoppugnabilità: è una causa di conservazione oggettiva dell’atto amministrativo, che dipende dal decorso del termine perentorio entro il quale l’interessato avrebbe dovuto proporre ricorso contro l’atto invalido. Si tratta in sostanza di una figura processualistica assimilabile al passaggio in giudicato della sentenza; acquiescenza: è una causa di conservazione soggettiva dell’atto
amministrativo,
che
dipende
da
un
comportamento con cui il soggetto privato dimostra espressamente o per fatti concludenti di essere d’accordo con
l’operato
della
Pubblica
Amministrazione,
precludendosi la possibilità di impugnare l’atto; conversione:
è
un
atto
in
virtù
del
quale
un
provvedimento invalido – annullabile o nullo – viene considerato come appartenente ad altra tipologia di cui presenta gli stessi requisiti di forma e sostanza; conferma: è una manifestazione di volontà non innovativa con cui l’autorità ribadisce una sua precedente determinazione, eventualmente ripetendone il contenuto.
Capitolo 10 I contratti della Pubblica Amministrazione 10.1 L’attività di diritto privato della Pubblica Amministrazione 10.1.1 L’autonomia negoziale delle Amministrazioni Pubbliche Nel
perseguimento
di
un
interesse
pubblico
l’Amministrazione può far ricorso anche a forme negoziali di natura privatistica, ponendosi su un piano diverso rispetto a quando agisce con i tradizionali strumenti di tipo pubblicistico. Il riconoscimento generale dell’autonomia negoziale della Pubblica Amministrazione trova oggi il proprio fondamento normativo nell’art. 1, co. 1-bis, L. 241/1990 (aggiunto dalla L. 15/2005), ai sensi del quale “la Pubblica Amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. In altri termini, il negozio giuridico di diritto privato diventa uno degli strumenti con cui si possono raggiungere gli interessi pubblici e si pone quale valida alternativa al provvedimento unilaterale: laddove possibile si
predilige l’agire consensuale per una migliore realizzazione del fine pubblico ed evitare così probabili controversie giudiziarie che ne possano ostacolare il compimento effettivo. Il limite principale è quello di carattere funzionale. È preclusa, in sostanza, la conclusione di negozi incompatibili con
lo
specifico
scopo
pubblico
perseguito
dall’Amministrazione stipulante; quest’ultima è tenuta ad indirizzare e conformare la sua attività alla realizzazione dell’interesse pubblico affidato alle sue cure.
10.1.2 Contratti di diritto comune, diritto speciale e ad oggetto
pubblico L’attività di diritto privato delle Amministrazioni Pubbliche si sostanzia nella stipula di contratti, nel cui ambito il possibile distinguere tra: contratti di diritto comune, che non presentano nessuna differenza rispetto ad un ordinario contratto stipulato da qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento giuridico e normalmente disciplinato dal codice civile. Si tratta dell’ipotesi “pura” dell’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione, dove quest’ultima si pone su di un piano di assoluta parità rispetto alla controparte privata ed è impossibilitata ad esercitare qualunque potere autoritativo; le regole che disciplinano il rapporto sono quelle dettate dalla disciplina civilistica e non sono consentite deroghe. L’esempio più comune è quella del
contratto
di
locazione
o
di
acquisto
stipulato
dall’Amministrazione e non direttamente finalizzato all’attuazione di un interesse pubblico; contratti di diritto speciale, che presentano aspetti derogatori rispetto alla disciplina ordinaria della tipologia contrattuale alla quale appartengono, differenziazione legata
al
fatto
che
uno
dei
due
contraenti
è
un’Amministrazione Pubblica. Pur facendo ricorso ad un’attività
negoziale
e
non
ad
un
atto
tipico
dell’Amministrazione (il provvedimento) i contraenti non sono posti su un piano di perfetta parità dal momento che la disciplina è dettata, norme da civilistiche, che pubblicistiche. Il settore di maggiore rilevanza in questo ambito è indubbiamente quello dei contratti di appalti pubblici che trova una sua disciplina derogatoria, rispetto alle norme del codice civile, nel Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016); contratti ad oggetto pubblico (o contratti di diritto pubblico), che sotto il profilo giuridico si caratterizzano per la stretta correlazione tra un provvedimento amministrativo e il contratto stipulato, quest’ultimo generalmente una diretta emanazione del primo. Altra caratteristica essenziale è il fatto che il bene oggetto del negozio può essere oggetto di disposizione solo da parte della Pubblica Amministrazione e non di altri; ciò rende l’Amministrazione un soggetto contrattuale necessario.
10.1.3 Contratti attivi e passivi
Una diversa distinzione che è possibile operare è quella tra contratti attivi e contratti passivi. I primi comportano un’entrata a favore dello Stato (si pensi alla locazione o alla vendita di un immobile pubblico); la necessità di stipulare un atto negoziale vale a differenziare queste entrate dagli altri introiti derivanti, ad esempio, dall’imposizione tributaria. I contratti passivi, invece, comportano una spesa, vale a dire un’erogazione di somme di denaro necessarie per acquisire beni e servizi essenziali per l’attività dell’Amministrazione; l’esempio della vendita o della locazione sopra riportato può essere ripreso, invertendo, però, il ruolo delle parti contrattuali (in questo caso è l’amministrazione che acquista). I contratti attivi trovano la loro disciplina, oltre che in leggi speciali, nelle norme di contabilità pubblica, prevalentemente derogatoria rispetto al diritto comune; per quelli passivi, mediante i quali quindi la Pubblica Amministrazione si procura beni e servizi, la disciplina attuale è posta principalmente dal Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 18-42016, n. 50), che rinvia al codice civile per i profili non regolati. Nell’ampia ed eterogenea categoria dei contratti pubblici, gli appalti pubblici si qualificano come i principali contratti passivi che l’Amministrazione può concludere.
10.2 La legislazione nazionale ed europea dei contratti pubblici 10.2.1 Le fonti della contrattualistica pubblica Il sistema delle fonti che regola l’attività contrattuale dell’Amministrazione si presenta alquanto complesso e contempla: norme di diritto comune, in particolare gli artt. 1321 ss. nonché gli artt. 1470 ss. c.c.; norme di diritto pubblico (R.D. 2440/1923, recante la legge di contabilità di Stato; R.D. 827/1924, recante il regolamento attuativo della legge di contabilità; L. 241/1990, sul procedimento amministrativo). Per lungo tempo sia la legge di contabilità di Stato che il suo regolamento attuativo hanno costituito la principale fonte normativa in materia di contratti pubblici; attualmente, però, essi
hanno
carattere
residuale,
trovando
applicazione
soprattutto per i contratti attivi. Prevalenti sono ora la normativa europea (principi dei trattati, sentenze della Corte di giustizia, direttive dell’Unione) e le disposizioni speciali. Per circa 10 anni la principale fonte di disciplina era riportata nel Codice dei contratti approvato con il D.Lgs. 12-4-
2006, n. 163 e successivamente completato con l’approvazione del regolamento di esecuzione e attuazione (D.P.R. 5-10-2010, n. 207). Il citato provvedimento aveva operato un riordino dell’intera disciplina anche per recepire nell’ordinamento nazionale le direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE che dettavano una disciplina unica europea in materia di appalti pubblici di servizi e forniture. Nel 2016 tale provvedimento è stato abrogato e sostituito dal Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).
10.2.2 Il Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016) Nel febbraio 2014 l’Unione europea ha approvato tre direttive relative ad appalti pubblici e servizi, in sostituzione delle direttive 2004/18 e 2004/17. I provvedimenti erano i seguenti: la direttiva 2014/24/CE del 26 febbraio 2014 (cosiddetta direttiva Appalti) sugli appalti pubblici, che ha abrogato la direttiva 2004/18/CE; la direttiva 2014/25/CE del 26 febbraio 2014 (cosiddetta direttiva Utilities) sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei
servizi
postali,
che
ha
abrogato
la
direttiva
2004/17/CE; la direttiva 2014/23/CE del 26 febbraio 2014 in materia di concessioni.
Le tre direttive sono entrate in vigore il 18 aprile 2014 e da quella data ha preso avvio per il legislatore nazionale la complessa attività di recepimento. In Italia la legge che ha conferito al Governo la delega a recepire tali provvedimenti, dettando i principi e i criteri direttivi, è stata la L. 28-1-2016, n. 11. Nell’arco di pochi mesi l’Esecutivo ha approvato il D.Lgs. 18-4-2016, n. 50 recante “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” (sinteticamente indicato come Codice degli appalti e delle concessioni). Il Codice è stato successivamente oggetto di modifiche ed integrazioni ad opera del D.Lgs. 19-4-2017, n. 56 (cosiddetto decreto correttivo), entrato in vigore il 20 maggio 2017, che ha inteso perfezionarne l’impianto normativo e migliorarne
l’omogeneità,
la
chiarezza
e
l’adeguatezza.
Quest’ultimo provvedimento ha anche modificato la rubrica del provvedimento che ora ha assunto la denominazione di Codice dei contratti pubblici. Il Codice, dopo aver dettato nella Parte I i principi e le disposizioni comuni ai due settori, dedica la Parte II del provvedimento alle disposizioni riguardanti i contratti di appalto per lavori, servizi e forniture, esaminando sia quelli di rilevanza europea (anche detti sopra soglia europea) sia quelli sotto la soglia europea. I primi sono quelli il cui
valore supera un determinato importo specificamente indicato dal Codice (art. 35 D.Lgs. 50/2016), mentre quelli sotto soglia o intracomunitari sono figure negoziali il cui valore resta al di sotto degli importi indicati nell’art. 36 D.Lgs. 50/2016.
10.2.3 La distinzione tra appalti e concessioni Il Codice del 2016 disciplina sia gli appalti pubblici che i contratti di concessione. Il decreto definisce la concessione di lavori come “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano l’esecuzione di lavori ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione,
ovvero
la
progettazione
definitiva,
la
progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori ad uno o più operatori economici riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire le opere oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere” (si pensi all’accordo per la costruzione e la successiva gestione di una piscina comunale). La concessione di servizi, invece, è definita come “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori, riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei
servizi (si pensi all’affidamento del servizio di trasporto urbano). La concessione si differenzia dall’appalto di lavori perché nel primo caso il corrispettivo dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo. In pratica il concessionario assume il cosiddetto rischio di gestione, non essendo
remunerato
direttamente
dall’Amministrazione
committente ma dall’utenza, che corrisponde, in un regime normalmente tariffario, i canoni richiesti per usufruire del servizio fornito dal gestore.
10.3 La formazione del contratto e l’obbligo dell’evidenza pubblica 10.3.1 Inquadramento dell’istituto La normativa nazionale in materia di contabilità pubblica (cfr. artt. 3 e 6 R.D. 2440/1923 e artt. 37 e 41 R.D. 827/1924) postula per ogni attività contrattuale posta in essere da una Pubblica Amministrazione (o da un soggetto ad essa equiparato)
l’utilizzo
di
procedure
concorsuali
aperte,
circoscrivendo ad alcune ipotesi eccezionali la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto del contratto (ovvero a trattativa privata, modulo caratterizzato da notevole libertà procedurale). fondamentale
Si
enuncia
dell’attività
Amministrazione,
secondo
in
tal
modo
contrattuale cui
ogni
un
principio
della
Pubblica
contratto
della
Pubblica Amministrazione da cui derivi un’entrata o una spesa deve essere preceduto da una gara, salvo che non ricorrano le ipotesi in cui si possa far ricorso alla trattativa privata. La finalità di questo principio di contabilità pubblica è la garanzia della par condicio tra tutti i potenziali interessati a contrattare con l’Amministrazione e quella di consentire all’Amministrazione stessa, mediante l’acquisizione di un pluralità di offerte, di contrattare alle condizioni più
vantaggiose. Del resto, nella scelta del giusto contraente si considerano pienamente soddisfatte le esigenze di trasparenza ed imparzialità, imposte all’azione amministrativa dall’art. 97 Cost. Nell’espletare la gara le norme di contabilità pubblica richiedono il rispetto di una serie di regole tese ad impedire collusioni tra privati ed uffici dell’Amministrazione Pubblica. Tali regole informano uno speciale metodo procedurale, noto come procedura dell’evidenza pubblica, che richiede, tra l’altro, il rispetto di termini ben precisi per la pubblicità
della
gara
e
di
rigorosi
criteri
di
valutazione. Nel rapporto contrattuale sorto dall’azione iure privatorum della Pubblica Amministrazione, infatti, si possono distinguere due fasi: la prima è quella che precede la stipulazione del contratto ed è contrassegnata dalla rilevanza dell’interesse pubblico e dominata da norme di diritto pubblico (evidenza pubblica); la seconda è quella che segue alla stipulazione e concerne l’esecuzione del contratto secondo le norme di diritto privato (salvo qualche eccezione). L’espressione “evidenza pubblica”, quindi, vuole proprio indicare il procedimento amministrativo che accompagna la conclusione dei contratti della Pubblica Amministrazione e si caratterizza per la presenza di atti amministrativi che rendono evidenti (e ne consentono la verifica) le ragioni di pubblico
interesse che hanno spinto alla stipulazione del contratto, alla scelta della controparte e alla formazione del consenso.
10.3.2 L’evidenza pubblica negli appalti Per il settore degli appalti le varie fasi dell’evidenza pubblica sono disciplinate dal Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016) e contemplano passaggi preliminari, in cui si procede alla programmazione dei lavori e all’ascolto dei cittadini per le grandi opere infrastrutturali, e delle fasi successive durante le quali si effettua la scelta del contraente e si stipula il contratto. Prima di esaminarle nel dettaglio, tuttavia, sono necessarie alcune precisazioni terminologiche. Nel Codice (art. 3 D.Lgs. 50/2016) i soggetti stipulanti il contratto assumono la denominazione di: operatore economico, facendosi riferimento al soggetto che offre sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi. Può trattarsi di una persona fisica o giuridica, un ente pubblico, un raggruppamento di tali persone o enti (compresa qualsiasi associazione temporanea di imprese) oppure un ente senza personalità giuridica (ivi compreso il GEIE, gruppo europeo di interesse economico); amministrazione
aggiudicatrice,
facendosi
riferimento ai soggetti che richiedono la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi. Tale nozione include le Amministrazioni dello
Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni, unioni, consorzi (comunque denominati) da essi costituiti. Insieme ad altri soggetti, talvolta anche privati nell’ipotesi in cui siano assegnatari di fondi pubblici,
assumono
la
denominazione
di
stazioni
appaltanti. Dopo i passaggi iniziali della programmazione e del dibattito pubblico, le diverse fasi dell’evidenza pubblica prevedono i seguenti step: la deliberazione (o determinazione) a contrarre, atto con il quale si individuano gli elementi essenziali del contratto che si andrà a stipulare e le modalità di scelta della controparte; la scelta del contraente, decisione che non è rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione ma deve seguire le precise indicazioni contenute nel Codice dei contratti pubblici; l’aggiudicazione, l’approvazione e la stipula del contratto, attività conclusive con le quali si perfeziona l’accordo e si procede alla sua esecuzione. Relativamente alla programmazione è da ricordare che l’art. 21 del Codice obbliga le Amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori ad adottare (e aggiornare) un programma biennale degli acquisti di beni e servizi e un programma triennale dei lavori pubblici, qualora superino un determinato importo.
Per il dibattito pubblico, invece, si prevede che per le grandi
opere
infrastrutturali,
aventi
impatto
rilevante
sull’ambiente, sulle città e sull’assetto del territorio, sia obbligatorio il ricorso ad una procedura che contempli la convocazione di una conferenza alla quale sono invitati le Amministrazioni e gli altri soggetti portatori di interessi, ivi compresi i comitati di cittadini.
10.4 La deliberazione (o determinazione) a contrarre La procedura di affidamento di un appalto pubblico è avviata con l’approvazione della cosiddetta deliberazione (o determinazione) a contrarre. Si tratta di un atto con il quale le stazioni appaltanti individuano gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte. In particolare va enucleato l’oggetto del contratto, le sue clausole essenziali, lo scopo da perseguire e le modalità attraverso cui realizzarlo: la deliberazione in sostanza predetermina il contenuto del futuro contratto. Alla funzione di determinare lo schema del futuro contratto, oltre che il relativo contenuto, risponde anche un particolare tipo di atto definito capitolato d’oneri. Il capitolato d’oneri si distingue in:
capitolato generale: contiene le condizioni che possono applicarsi indistintamente ad un determinato genere di lavoro, appalto o contratto e le forme da seguirsi per le gare (art. 45, R.D. 23-5-1924, n. 827); capitolato
speciale:
riguarda
le
condizioni
che
si
riferiscono più particolarmente all’oggetto proprio del contratto. Esso formula, nel rispetto del capitolato generale, la disciplina del singolo rapporto contrattuale.
L’avvio della gara presuppone, salvo specifiche deroghe, la pubblicazione del relativo bando, considerato lex specialis della procedura (ossia normativa speciale, che reca le norme specifiche per la selezione avviata con la pubblicazione del bando) e che deve rispettare quanto previsto dall’art. 71 D.Lgs. 50/2016. Ciascun concorrente non può presentare più di un’offerta. L’offerta è vincolante per il periodo indicato nel bando o nell’invito e, in caso di mancata indicazione, per 180 giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione. La stazione appaltante può comunque chiedere agli offerenti il differimento di detto termine. La L. 55/2019, di conversione del D.L. 32/2019 (decreto sblocca cantieri), novellando l’art. 76 del Codice, in materia di informazione dei candidati e degli offerenti e in ottemperanza al principio di trasparenza, ha disposto che ai candidati e ai concorrenti venga dato avviso, con le modalità del Codice dell’amministrazione digitale, del provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa, all’esito della verifica della documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali. Va, altresì, indicato l’ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti.
10.5 La scelta del contraente 10.5.1 Le tradizionali procedure di gara Il Codice dei contratti pubblici prevede diversi sistemi per l’espletamento di una gara pubblica. Si tratta: della procedura aperta, contemplata dall’art. 60 del Codice laddove si prevede la possibilità per qualsiasi operatore economico interessato di presentare un’offerta in risposta a un avviso di indizione di gara. Il termine minimo per la ricezione delle offerte è di 35 giorni decorrenti dalla data di trasmissione del bando di gara. Nel
previgente
regime
giuridico
assumeva
la
denominazione di pubblico incanto o asta pubblica; della procedura ristretta, con la quale ogni operatore economico può chiedere di partecipare ma possono presentare un’offerta soltanto quelli invitati dalle stazioni appaltanti. La disposizione normativa di riferimento è l’art. 61 D.Lgs. 50/2016. Nel previgente regime giuridico assumeva la denominazione di licitazione privata; della procedura negoziata in assenza della previa pubblicazione
del
bando.
Attribuisce
all’Amministrazione una maggiore discrezionalità nella scelta
del
contraente
in
quanto
il
procedimento
amministrativo prevede solo una fase di negoziazione
diretta tra Amministrazione e contraente, mentre manca la fase dell’aggiudicazione (art. 63 D.Lgs. 50/2016). Nel previgente
regime
giuridico
era
riconducibile
alla
trattativa privata; del dialogo competitivo. Consiste in una procedura di affidamento (art. 64 D.Lgs. 50/2016) nella quale la stazione appaltante, in caso di appalti particolarmente complessi, avvia un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, al fine di elaborare una o più soluzioni capaci di soddisfare le sue necessità e sulla base della quale o delle quali i candidati selezionati sono invitati a presentare le offerte; qualsiasi operatore economico può chiedere di partecipare a tale procedura, fornendo le informazioni richieste dalla stazione appaltante. La scelta sulla procedura da adottare e l’oggetto del contratto non è rimessa all’incondizionata discrezionalità dell’Amministrazione in quanto l’art. 59, co. 1, D.Lgs. 50/2016 esordisce affermando che le stazioni appaltanti utilizzano le procedure aperte o ristrette, previa pubblicazione di un bando o avviso di indizione di gara; possono utilizzare le altre procedure solo quando sussistono i presupposti di volta in volta individuati. La regola generale, quindi, è costituita dal ricorso alle procedure aperte o ristrette mentre le altre hanno carattere eccezionale. La L. 55/2019, di conversione del D.L. 32/2019 (decreto sblocca cantieri) ha modificato le diverse modalità di affidamento previste, dall’art. 36, co. 2, per i lavori
“sottosoglia” (vale a dire per quei contratti per i quali l’importo a base di gara per l’affidamento ed esecuzione di lavori, servizi e forniture sia al di sotto delle soglie di rilevanza comunitaria, determinate dall’art. 35), nonché le corrispondenti classi di importo. La disciplina degli affidamenti di lavori “sottosoglia”, alla luce del D.L. 32/2019, può essere, in base all’importo dei lavori, così sintetizzata:
fino a 40.000 euro, affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici; da 40.000 a 200.000 euro, procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno tre operatori economici; da 200.00 euro e fino alla soglia di rilevanza europea (vale a dire 5.548.000 euro), affidamento mediante ricorso alle procedure aperte (disciplinate dall’art. 60 del Codice), fatto salvo quanto previsto dall’art. 97, co. 8, del Codice medesimo. L’art. 1 D.L. 76/2020 ha introdotto alcune deroghe a quanto detto sinora, deroghe giustificate dalla necessità di far fronte all’emergenza economica. La norma ha una vigenza temporale ben precisa ed è applicabile fino al 31 luglio 2021. In particolare,
fino a 150.000 euro, è previsto l’affidamento diretto di lavori, servizi, forniture e servizi tecnici per l’ingegneria e
l’architettura nonché di servizi e forniture nei limiti delle soglie di cui all’art. 35; da 150.000 euro, si ricorre alle procedure negoziate a invito per lavori fino alla soglia comunitaria, ovvero 5.350.000 euro con una differenziazione solo per il numero di operatori da invitare (5 operatori fino a 350.000 euro, 10 operatori fino a 1.000.000 euro e 15 fino alla soglia) e alle procedure negoziate a invito (almeno 5 operatori) per servizi e forniture fino alla soglia comunitaria, ovvero 214.000 euro.
10.5.2 Le procedure innovative Accanto a quelle prima esaminate, il Codice contempla anche procedure che presentano aspetti innovativi. Si fa riferimento, in particolare: alla procedura competitiva con negoziazione, che inizialmente presenta le caratteristiche di una procedura aperta (chiunque può presentare una richiesta di partecipazione) per poi confluire in una procedura negoziata (la negoziazione prosegue con gli operatori invitati); al partenariato per l’innovazione, che consente alle Amministrazioni di sviluppare in prima persona, ma in collaborazione con partner esterni, prodotti innovativi non acquisibili sul mercato (art. 65 D.Lgs. 50/2016); all’accordo quadro, concluso fra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici e il cui scopo è
quello di stabilire le clausole relative agli appalti da aggiudicare durante un dato periodo di tempo, in particolare per quanto riguarda i prezzi, e, se del caso, le quantità previste.
10.5.3 Gli strumenti dell’e-procurement Con l’espressione e-procurement si fa riferimento al processo
di
approvvigionamento
elettronico,
cioè
di
procacciamento e acquisizione di beni e servizi attraverso la rete Internet; a questo processo corrisponde un complesso di regole, modalità organizzative e procedure che comprendono in genere l’impiego di software e tecnologie informatiche. Vi rientrano i sistemi dinamici di acquisizione, procedure di scelta del contraente che devono essere gestite interamente attraverso strumenti telematici di negoziazione (art. 55 D.Lgs. 50/2016) e sono utilizzate prevalentemente per gli acquisti di uso corrente. Le aste elettroniche, invece, non sono procedure di aggiudicazione, ma più propriamente delle modalità per disporre gli affidamenti (art. 56 D.Lgs. 50/2016) e nelle quali vengono presentati nuovi prezzi, modificati al ribasso o inseriti nuovi valori riguardanti taluni elementi delle offerte. I cataloghi elettronici, infine, sono un formato per la presentazione e organizzazione delle informazioni in un modo comune per tutti gli offerenti e che si presta al trattamento elettronico.
10.5.4 I criteri di aggiudicazione della gara
Le stazioni appaltanti, nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono all’aggiudicazione degli appalti e all’affidamento dei concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata nel miglior rapporto qualità/prezzo. La L. 55/2019, di conversione del D.L. 32/2019 (decreto sblocca cantieri), ha individuato il criterio del “minor prezzo” quale regola generale di aggiudicazione limitatamente ai contratti “sottosoglia”. Eccezioni a questa regola (adottata nell’ottica della semplificazione) sono possibili: nei casi in cui il Codice (art. 95, co. 3) prevede l’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo come criterio esclusivo di aggiudicazione e cioè in caso di: contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché’ ai servizi ad alta intensità di manodopera; contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo pari o superiore a 40.000 euro; contratti di servizi e le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro caratterizzati da notevole contenuto
tecnologico
o
che
hanno
un
carattere
innovativo; previa motivazione: in tal caso è possibile procedere all’aggiudicazione sulla base del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa. Il criterio del prezzo più basso è quello che più facilmente permette di individuare la soluzione più economica per la stazione appaltante; esso però rischia di premiare offerte che presentino
un
ribasso
eccessivo
ed
espongano
le
Amministrazioni al rischio di lavori mal fatti o ritardati o abbandonati. In base a quanto stabilito dall’art. 97, co. 1, del Codice
le
offerte
anormalmente
basse
non
sono
automaticamente escluse dalla stazione appaltante, ma agli operatori economici è richiesto di fornire spiegazioni sul prezzo o sui costi proposti. Tale richiesta è effettuata sulla base di un giudizio tecnico sulla congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità dell’offerta. Il D.L. 76/2020, art. 1, pur non avendo espresso preferenza nei confronti di un criterio di aggiudicazione in particolare (prezzo
più
basso
e
offerta
economicamente
più
vantaggiosa), ha tuttavia sancito sempre l’esclusione automatica per le offerte a prezzo più basso, anche se il numero di offerte ammesse sia pari o superiore a 5. Sono altresì previsti dei termini massimi per arrivare all’aggiudicazione: • 2 mesi dalla data di adozione del primo atto di avvio del procedimento per gli affidamenti diretti; • 4 mesi per le procedure negoziate. La norma ha delimitato la sua vigenza temporale entro il 31 luglio 2021.
10.6 L’aggiudicazione, l’approvazione e la stipula del contratto La fase di scelta del contraente si conclude con l’aggiudicazione, atto finale con il quale, sulla base delle risultanze di gara, è proclamato il vincitore, ovvero il miglior offerente. La proposta di aggiudicazione è successivamente soggetta ad
approvazione
dell’organo
competente
secondo
l’ordinamento delle Amministrazioni aggiudicatrici e nel rispetto dei termini previsti dai singoli ordinamenti (termini che possono essere interrotti dalla richiesta di chiarimenti o documenti). In tale fase, la stazione appaltante provvede a verificare l’attività svolta nella procedura di gara e la sua regolarità. Decorsi i termini previsti dai singoli ordinamenti o, in mancanza, quello di 30 giorni, la proposta di aggiudicazione si intende approvata. È poi espressamente sancito che l’aggiudicazione non equivale all’accettazione dell’offerta e diviene efficace soltanto dopo l’esito positivo della verifica del possesso da parte dell’aggiudicatario dei requisiti prescritti negli atti di gara e dichiarati in sede di domanda di qualificazione ovvero in sede di offerta. La stipula del contratto ha luogo entro i successivi 60 giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad
offrire, oppure nei casi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario.
10.7 L’esecuzione del contratto L’esecuzione del contratto può avere inizio solo dopo che lo stesso è divenuto efficace, salvo che nei casi di urgenza, in cui la stazione appaltante ne chieda l’esecuzione anticipata (art. 32, co. 13, D.Lgs. 50/2016). L’esecuzione d’urgenza è ammessa esclusivamente nelle ipotesi di eventi oggettivamente imprevedibili, per ovviare a situazioni di pericolo per persone, animali o cose, per l’igiene e la salute pubblica, per la tutela del patrimonio storico, artistico, culturale e nei casi in cui la mancata esecuzione immediata
della
prestazione
dedotta
nella
gara
determinerebbe un grave danno all’interesse pubblico che è destinato a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti europei. All’art. 101 il Codice stabilisce espressamente che il responsabile unico del procedimento (RUP), nella fase dell’esecuzione, si avvale del direttore dell’esecuzione del contratto o del direttore dei lavori. L’art. 102 precisa, poi, che detto responsabile è tenuto a controllare l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore dei lavori per i lavori e al direttore dell’esecuzione del contratto per i servizi e forniture. Il D.L. 32/2019, convertito dalla L. 55/2019, ha attribuito al regolamento unico di attuazione del Codice, da adottare in luogo delle linee guida emanate dall’Autorità nazionale Anticorruzione (ANAC), il compito di definire:
la disciplina di maggiore dettaglio sui compiti specifici del Responsabile unico del procedimento (RUP), sui presupposti e sulle modalità di nomina, e sugli ulteriori requisiti di professionalità, rispetto a quanto disposto dal Codice in relazione alla complessità dei lavori; l’importo massimo e la tipologia dei lavori, servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista, con il direttore dei lavori o con il direttore dell’esecuzione.
10.8 La collaborazione tra pubblico e privato 10.8.1 Il partenariato pubblico-privato (PPP) Con l’espressione partenariato pubblico-privato (PPP) ci si riferisce a forme di cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese e della società civile che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il
rinnovamento,
la
gestione
o
la
manutenzione
di
un’infrastruttura o la fornitura di un servizio. Si tratta di un fenomeno che nel corso dell’ultimo decennio si è sviluppato in molti settori poiché permette al settore pubblico
di
reperire
risorse
finanziarie
private
e
contemporaneamente di beneficiare maggiormente del knowhow e dei metodi di funzionamento del settore privato nel quadro della vita pubblica. Il contratto di partenariato può essere
utilizzato
dalle
Amministrazioni
concedenti
per
qualsiasi tipologia di opera pubblica. Normalmente le operazioni di PPP condividono le seguenti caratteristiche: la modalità di finanziamento, di regola garantito da parte del settore privato anche se non è raro che vi siano quote di finanziamento pubblico aggiuntive rispetto alle risorse impiegate dai privati;
l’importante ruolo dell’operatore economico, che partecipa a varie fasi del progetto (progettazione, realizzazione,
attuazione,
finanziamento).
Il
partner
pubblico si concentra principalmente sulla definizione degli obiettivi da raggiungere e garantisce il controllo del rispetto di questi obiettivi; la ripartizione dei rischi tra il partner pubblico ed il partner privato, con quest’ultimo che si assume rischi di solito a carico del settore pubblico. È
possibile
distinguere
due
diverse
tipologie
di
partenariato: un PPP istituzionalizzato. Esso implica la creazione di un’entità detenuta congiuntamente dal partner pubblico e dal partner privato, un’impresa a capitale misto. Tale soggetto comune ha quindi la missione di assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio a favore del pubblico; un PPP contrattuale. Riguarda un partenariato basato esclusivamente su legami contrattuali tra i vari soggetti.
10.8.2 Gli strumenti del partenariato Nella tipologia dei contratti appena definiti rientrano: il project financing (finanza di progetto). L’istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento al fine di agevolare la realizzazione di opere pubbliche mediante l’apporto di capitali privati: sua caratteristica essenziale è quella di porre a carico dei soggetti promotori o
aggiudicatari, in tutto o in parte, i costi necessari alla progettazione ed esecuzione dei lavori, assicurando loro come unica controprestazione il diritto di gestione funzionale e di sfruttamento economico delle opere realizzate; come afferma l’art. 183 D.Lgs. 50/2016, quindi, si tratta di una particolare tipologia di concessione di lavori; il contratto di disponibilità. Si tratta del contratto (introdotto dall’art. 44 D.L. 1/2012 e ora contemplato dall’art. 188 D.Lgs. 50/2016) mediante il quale sono affidate, a rischio e a spesa dell’affidatario, la costruzione e la messa a disposizione a favore dell’Amministrazione aggiudicatrice di un’opera di proprietà privata destinata all’esercizio di un pubblico servizio, a fronte di un corrispettivo. Si intende per messa a disposizione l’onere assunto a proprio rischio dall’affidatario di assicurare all’amministrazione aggiudicatrice la costante fruibilità dell’opera, garantendo allo scopo la perfetta manutenzione e la risoluzione di tutti gli eventuali vizi, anche sopravvenuti.
L’affidatario
può
essere
retribuito
con
i
seguenti
corrispettivi: un canone di disponibilità, il riconoscimento di un contributo in corso d’opera o un eventuale prezzo di trasferimento; gli interventi di sussidiarietà orizzontale, vale a dire la partecipazione della società civile alla manutenzione di aree destinate al verde pubblico urbano e di immobili riservati alle attività collettive sociali e culturali di
quartiere, ad eccezione di immobili ad uso scolastico e sportivo, con il riconoscimento di un diritto di prelazione ai cittadini residenti nei comprensori nei quali insistono le suddette aree o i predetti immobili (art. 189 D.Lgs. 50/2016); il baratto amministrativo. Prevede che gli enti territoriali definiscano con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale, sulla base di progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione ad un preciso ambito territoriale. I contratti possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati. In relazione alla
tipologia
degli
interventi,
gli
enti
territoriali
individuano riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica
di
recupero
del
valore
sociale
della
partecipazione dei cittadini alla stessa (art. 190 del Codice); la cessione di immobili in cambio di opere. L’art. 191 del Codice stabilisce che il bando di gara possa, a titolo di corrispettivo (totale o parziale) per l’esecuzione di specifici lavori, prevedere il trasferimento all’affidatario
della
proprietà
di
beni
immobili
all’Amministrazione aggiudicatrice.
appartenenti
10.9 Il contenzioso 10.9.1 Gli strumenti deflattivi del contenzioso e le procedure stragiudiziali Il contenzioso nel settore degli appalti pubblici è particolarmente copioso e spesso porta al rallentamento se non al
blocco
nella
realizzazione
di
importanti
opere
infrastrutturali. Proprio per evitare tale situazione, uno degli obiettivi del Codice del 2016 è stato quello di rafforzare tutti quegli strumenti che consentono di risolvere in via informale eventuali contrasti, in modo da consentire una veloce ripresa delle attività. In particolare la Parte IV del Codice (Titolo I, Capo
II)
disciplina
specificamente
gli
strumenti
stragiudiziali di composizione delle liti in materia di contratti pubblici. Essi sono: l’accordo bonario. Con esso le parti raggiungono un accordo per definire contenziosi insorti soprattutto con riferimento a variazioni nei costi sostenuti. Ai fini del ricorso a questo istituto, la variazione dell’importo dell’opera potrà essere tra il 5% e il 15%. L’impresa, in caso di rifiuto della proposta di accordo bonario ovvero di inutile decorso del termine per l’accettazione, può instaurare un contenzioso giudiziario entro i successivi 60 giorni, a pena di decadenza;
la transazione. L’art. 1965 del codice civile definisce la transazione come il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che possa insorgere; con
le
reciproche
concessioni
si
possono
creare,
modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che forma oggetto della pretesa o della contestazione delle parti. Nel settore degli appalti è un rimedio caratterizzato dalla residualità; si prevede, infatti, che le controversie relative a diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, possono essere risolte mediante transazione nel rispetto del codice civile, solo ed esclusivamente nell’ipotesi in cui non risulti possibile esperire altri rimedi alternativi all’azione giurisdizionale(art. 208 D.Lgs. 50/2016); l’arbitrato. Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario, possono essere deferite ad arbitri; il Collegio consultivo tecnico. Al fine di prevenire controversie relative all’esecuzione del contratto le parti possono convenire che prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque non oltre 90 giorni da tale data, sia costituito un Collegio consultivo tecnico con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso;
l’intervento precontenzioso dell’ANAC. L’art. 211 del Codice prevede la possibilità per l’Autorità anticorruzione di pronunciarsi, in sede consultiva, su questioni che possano insorgere nello svolgimento delle procedure di gara. Il parere viene reso entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta da parte della stazione appaltante ed è vincolante in quanto obbliga le parti che vi abbiano preventivamente acconsentito ad attenersi a quanto in esso stabilito. Il parere è impugnabile innanzi ai competenti organi della giustizia amministrativa ai sensi dell’articolo 120 del Codice del processo amministrativo.
10.9.2 Le procedure giudiziali L’art. 133, co. 1, lett. e), D.Lgs. 104/2010 (Codice del processo
amministrativo)
prevede
la
giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo su tutte le controversie, incluse quelle risarcitorie, relative alle procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, sia sopra che sotto soglia europea, sia nei settori ordinari che in quelli speciali, quale che sia la tipologia contrattuale utilizzata (appalto o concessione). Davanti al giudice amministrativo si applica il rito speciale di cui agli artt. 119 e 120 del Codice del processo amministrativo e trovano applicazione i rimedi cautelari di cui agli artt. 56 e 61 dello stesso Codice processuale. Per tutte le controversie relative alla fase di esecuzione dell’appalto (quelle conseguenti alla stipula) opera, invece, la giurisdizione del giudice ordinario, che comprende la
cognizione delle controversie inerenti ai diritti e agli obblighi scaturenti dal contratto di appalto (anche nel caso in cui l’Amministrazione si sia avvalsa della facoltà di rescindere o risolvere il rapporto contrattuale). Rientrano
in
particolare
nella
fase
di
esecuzione
dell’appalto, e dunque nella giurisdizione del giudice ordinario: le controversie relative ai pagamenti delle prestazioni oggetto del contratto, anche nel caso di appalti di progettazione e incarichi di progettazione in genere; le controversie inerenti la risoluzione del contratto conseguente alla perdita della qualificazione SOA; le controversie relative all’accertamento della durata del rapporto contrattuale.
Capitolo 11 I beni pubblici e l’espropriazione per pubblica utilità 11.1 Definizione I beni pubblici costituiscono la dotazione di carattere materiale di cui le Pubbliche Amministrazioni si servono per svolgere i loro compiti, così come le persone titolari del rapporto di servizio costituiscono le risorse umane. Vengono individuati in base ad un semplice criterio formale – sono, infatti, beni pubblici quelli che il codice civile definisce e classifica come tali – e, in quanto pubblici, rientrano nella categoria giuridica della proprietà pubblica menzionata dall’art. 42 Cost. e presentano una disciplina molto peculiare rispetto ai beni privati sotto il profilo dell’uso, della circolazione e della tutela. I beni pubblici, secondo la classificazione operata dal codice civile, si distinguono in tre gruppi: beni demaniali, beni patrimoniali indisponibili, beni patrimoniali disponibili.
11.2 I beni demaniali I beni demaniali sono individuati dall’art. 822 c.c. in un’elencazione da considerarsi tassativa, che comprende beni immobili e universalità di mobili. Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico: il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale. Fanno
parimenti
parte
del
demanio
pubblico,
se
appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi, gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico. I beni demaniali sono suscettibili di essere ripartiti in alcune tipologie
fondamentali:
demanio
necessario,
che
comprende tutti i beni relativi a compiti affidati esclusivamente allo Stato e, in taluni così eccezionali, alla Regione, e che a sua volta si distingue in demanio marittimo, idrico e militare, e demanio accidentale, nell’ambito del quale occorre distinguere tra beni demaniali naturali e beni demaniali artificiali.
Ciò che caratterizza i beni del demanio accidentale è la loro titolarità: possono appartenere anche a soggetti non pubblici ma, se appartengono ad un ente pubblico territoriale, il relativo regime è quello proprio dei beni demaniali. Il demanio necessario è solo statale o regionale. Il demanio accidentale può essere anche provinciale o comunale. Un’ulteriore differenza dei beni del demanio accidentale rispetto a quelli del demanio necessario deriva dal fatto che essi non sono costituiti esclusivamente da beni immobili, potendo consistere anche in universalità di mobili (raccolte dei musei e pinacoteche).
L’art. 117, co. 3, Cost. rimette alla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni la disciplina di molti dei beni demaniali in questione tra cui i porti e le grandi reti di trasporto. I beni che fanno parte del demanio pubblico sono assoggettati al seguente regime: sono inalienabili: non possono essere trasferiti ad altri soggetti e gli eventuali atti di disposizione compiuti in spregio a tale divieto sono nulli; non possono essere costituiti, sui beni demaniali, diritti a favore di terzi (es. una servitù di passaggio) se non nei modi e nei limiti stabiliti tassativamente dalla legge. Resta preclusa l’usucapione quale modo d’acquisto di diritti reali e in generale l’applicazione della disciplina privatistica della proprietà;
non possono essere espropriati: siccome i beni demaniali non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 823 c.c.), la giurisprudenza ne esclude l’espropriabilità; sono trasferibili ad altro ente territoriale: i beni demaniali possono essere trasferiti ad altro ente pubblico territoriale sempre che non siano indissolubilmente legati al territorio dell’ente cui appartengono (come nel caso di una piazza sita al centro di un Comune) e purché permanga la loro destinazione pubblica. La tutela dei beni del demanio pubblico spetta all’autorità amministrativa, che può valersi di rimedi di carattere amministrativo (in via di autotutela, irrogando sanzioni o esercitando poteri di polizia demaniale, come accertamento di contravvenzioni, adozioni di ordini di sgombero ed esecuzioni in
via
amministrativa)
oppure
degli
ordinari
mezzi
giurisdizionali a tutela della proprietà e del possesso (es. l’azione di spoglio per il recupero dei beni di cui i privati non possono acquistare la proprietà).
11.3 I beni patrimoniali indisponibili Ai sensi dell’art. 826 c.c., fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste, le miniere, le cave e le torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del
fondo,
le
cose
d’interesse
storico,
archeologico,
paletnologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o delle autonomie territoriali gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio. I beni patrimoniali indisponibili sono vincolati ad una destinazione di pubblica utilità, alla quale non possono essere sottratti se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828 c.c.). Ne costituisce conferma l’art. 514 c.p.c., che dispone l’impignorabilità degli oggetti che il debitore ha l’obbligo di conservare nell’adempimento di un pubblico servizio. I beni del patrimonio indisponibile: sono incommerciabili (art. 828 c.c.): alcuni lo sono in senso assoluto in quanto riservati (es. le miniere), altri
solo in quanto perduri la destinazione pubblica; altri beni ancora possono essere alienati solo previo permesso amministrativo (es. beni forestali); possono formare oggetto di diritti parziari a favore di terzi (es. diritti di servitù), purché compatibili con la destinazione e le prescrizioni di legge; sono
suscettibili
di
espropriazione
per
il
perseguimento di un interesse superiore rispetto a quello soddisfatto con l’originaria destinazione. L’esercizio del potere ablatorio con riguardo a questi beni deve essere sorretto
da
un
accertamento
motivato,
compiuto
dall’autorità procedente, circa la maggiore utilità da conseguire rispetto a quella derivante dall’uso in atto degli stessi. Alcuni beni assumono il carattere della indisponibilità soltanto in conseguenza di una destinazione pubblica, individuata o dalla legge o da un provvedimento: emblematico è l’esempio dei beni immobili destinati ad un pubblico servizio (sedi e arredi degli uffici).
11.4 I beni patrimoniali disponibili L’altra tipologia di beni patrimoniali è rappresentata dai beni disponibili. L’opinione tradizionale della dottrina e della giurisprudenza identifica tali beni in base ad un criterio negativo: fanno parte del patrimonio disponibile dello Stato e degli enti pubblici tutti i beni ad essi appartenenti ma diversi da quelli demaniali e patrimoniali indisponibili. I beni appartenenti alla categoria del cd. patrimonio disponibile della Pubblica Amministrazione in nulla si differenziano dalla dotazione di beni di cui dispone un soggetto privato, onde il loro regime giuridico è integralmente disciplinato dal diritto comune. Pertanto essi: sono pignorabili e usucapibili; sono assoggettabili a espropriazione per causa di pubblica utilità; possono formare oggetto di diritti dei terzi. Tali beni, inoltre, in quanto commerciabili, possono essere alienati. Nei beni patrimoniali disponibili è da ricondurre anche il denaro.
11.5 L’uso dei beni pubblici L’utilizzazione di beni demaniali, da parte della collettività o di singoli soggetti privati, può avvenire in forme diverse: uso diretto, uso promiscuo, uso generale e uso particolare. L’uso diretto è l’impiego che l’ente pubblico proprietario fa del bene nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali. Tale utilizzo è talvolta garantito da norme che addirittura sanzionano penalmente l’impiego del bene da parte di altri (si pensi, per esempio, al demanio militare e al patrimonio indisponibile di interesse militare, attraverso il cui uso lo Stato provvede alla difesa nazionale). L’uso promiscuo si configura quando il bene è in grado di soddisfare contemporaneamente le esigenze che giustificano la sua appartenenza pubblica e altre esigenze. Si pensi, per esempio, alle strade militari che, accanto all’interesse della difesa, sono in grado di soddisfare l’interesse generale della pubblica circolazione; L’uso generale (o utilizzazione libera) è l’esatto opposto dell’uso diretto. In questa ipotesi l’uso del bene è permesso alla collettività nel suo complesso senza che il titolare del diritto di proprietà possa escluderne alcuno. Ciò in considerazione della funzione che determinati beni assolvono a servizio della collettività. In alcuni casi l’uso è consentito previo pagamento di una somma (es. pedaggio autostradale); altre volte, invece,
occorre un’autorizzazione dell’ente pubblico (si pensi allo scarico nelle acque pubbliche). Nell’uso particolare, infine, il bene è goduto da singoli soggetti che ne possono usufruire in via esclusiva in virtù di uno specifico atto di attribuzione del diritto (una legge, un atto di concessione ecc.)
11.6 I beni privati e la potestà ablatoria dell’amministrazione pubblica Secondo quanto previsto dal dettato costituzionale (art. 42, co. 3, Cost.) la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale; norma analoga è contenuta anche nell’art. 834 c.c., ai sensi del quale nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico
interesse,
legalmente
dichiarata,
e
contro
il
pagamento di una giusta indennità. È prevista, dunque, la possibilità che la Pubblica Autorità proprietà
possa
acquisire
privata
coattivamente
attraverso
la
beni
di
procedura
dell’espropriazione per pubblica utilità. Affinché tale misura possa essere adottata è necessario che ricorrano i tre elementi
indicati
nel
testo
costituzionale:
un’espressa
previsione legislativa, un motivo di interesse generale e la corresponsione di un indennizzo. L’espropriazione è espressione della potestà ablatoria della Pubblica Amministrazione, nell’esercizio della quale la stessa incide su una situazione giuridica del destinatario, comprimendola e limitandola unilateralmente.
Quello espropriativo, tuttavia, non esaurisce tale tipologia di
provvedimenti.
Occorre
al
riguardo
considerare:
l’occupazione preliminare del bene, preordinata al successivo esproprio, cui la Pubblica Amministrazione ricorre ove ritenga sussistente una situazione di indifferibilità e di urgenza; Pubblica
l’occupazione
temporanea,
Amministrazione,
previa
effettuata dichiarazione
dalla di
indifferibilità e urgenza, per sopperire ad esigenze provvisorie, non preordinate alla successiva acquisizione del bene; la requisizione, che tuttavia si connota per la mancanza della finalità ablatoria.
11.7 L’espropriazione per pubblica utilità 11.7.1 Ambito applicativo L’espropriazione è un provvedimento ablatorio reale, avente ad oggetto beni immobili appartenenti a privati, il cui fondamento viene generalmente desunto in dottrina dalla cd. prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato con conseguente degradazione del diritto di proprietà a interesse legittimo. L’espropriazione è preordinata alla realizzazione di opere, edifici o strutture di interesse pubblico e costituisce l’esito di un procedimento amministrativo nel quale assume rilievo centrale la dichiarazione di pubblica utilità da parte dell’Autorità decreto
di
espropriante,
seguita
espropriazione,
dall’emanazione
con
cui
si
del
sancisce
definitivamente l’effetto traslativo del bene privato in favore dell’Autorità espropriante. Il provvedimento espropriativo genera comunque, in favore del proprietario, il diritto a percepire un indennizzo. Dunque, il trasferimento coattivo comporta la conversione del diritto reale dell’espropriato in un credito ad una somma di denaro a titolo, appunto, di indennità.
L’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità è oggi disciplinato dal D.P.R. 8-6-2001, n. 327, che costituisce il Testo unico della materia, con il quale si è cercato finalmente
di
porre
una
disciplina
organica
del
procedimento espropriativo. Quanto al suo ambito di applicazione, l’espropriazione, nella maggior parte dei casi, incide sulla proprietà di beni immobili, ma può riguardare anche – ai sensi del D.P.R. 327/2001 – diritti reali limitati su immobili, quali la servitù o
l’uso.
Ai
sensi
dell’art.
2
D.P.R.
327/2001,
l’espropriazione dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi e dai regolamenti (principio di legalità) e i procedimenti espropriativi devono ispirarsi ai principi di economicità, di efficacia, di efficienza, di pubblicità e di semplificazione dell’azione amministrativa.
11.7.2 I beni oggetto di esproprio Non tutti i beni immobili possono essere oggetto del procedimento espropriativo. Ai fini dell’espropriazione i beni si possono classificare in: beni non espropriabili: ai sensi dell’art. 4, co. 1 e 1-bis, D.P.R. 327/2001, i beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione, mentre i beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti
coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico; beni espropriabili solo a determinate condizioni: ai sensi dell’art. 4, co. 2, ss., D.P.R. 327/2001, i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici possono essere espropriati per seguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione.
11.7.3 I soggetti I soggetti che, a diverso titolo, intervengono nella procedura espropriativa sono: l’espropriato, vale a dire il soggetto titolare della proprietà o del diritto oggetto di espropriazione. La procedura espropriativa è condotta nei confronti di chi risulti proprietario dai registri catastali per esigenze di celerità e semplificazione; l’autorità espropriante, da identificarsi nell’Autorità Amministrativa titolare del potere di espropriare e che cura il relativo procedimento, oppure nel soggetto privato al quale una disposizione di legge attribuisca il potere di espropriare; il beneficiario dell’espropriazione, rappresentato dal soggetto, pubblico o privato, a favore del quale è emesso il
decreto di espropriazione e sul quale generalmente grava l’obbligo di pagare l’indennità di espropriazione; il promotore dell’espropriazione, ovvero il soggetto, pubblico o privato, che richiede l’espropriazione.
11.7.4 La dichiarazione di pubblica utilità Costituisce una distinta fase all’interno del procedimento espropriativo
la
dichiarazione
di
pubblica
utilità
implicita. Infatti, gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica
utilità
sono
l’approvazione
del
progetto
definitivo dell’opera pubblica, ovvero qualunque strumento urbanistico o altro provvedimento ai quali la normativa vigente riconosca tale effetto. La dichiarazione di pubblica utilità si configura come atto presupposto rispetto al successivo decreto. Per esigenze di semplificazione è previsto che essa contenga il solo termine finale per l’emanazione del decreto; in mancanza, il termine è fissato dall’art. 13, co. 4, D.P.R. 327/2001, in cinque anni decorrenti dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera. La
dichiarazione
di
pubblica
utilità
costituisce
un
provvedimento autonomo rispetto al successivo decreto d’esproprio,
idonea,
in
quanto
tale,
a
determinare
immediatamente effetti lesivi nella sfera giuridica dei terzi.
11.7.5 L’indennità di espropriazione Con il D.P.R. 327/2001, il legislatore ha suddiviso i beni espropriabili in quattro categorie, prevedendo per ciascuna
differenti criteri di computo dell’indennità dovuta. In particolare, alle tradizionali categorie costituite dalle aree edificabili e non edificabili, si sono aggiunte quelle delle
aree
edificate
legittimamente
e
delle
aree
destinate a trasformarsi in opere private di pubblica utilità. Quanto alle aree edificabili, l’art. 37 D.P.R. 327/2001, nel testo riformulato dalla L. 244/2007 dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 348/2007, afferma che l’indennità di espropriazione debba essere commisurata al valore venale del bene, salvi i correttivi volta per volta previsti. Per le aree non edificabili si distingue tra aree coltivate e aree non coltivate. Le prime sono valutate secondo il loro valore
agricolo
mentre
per
le
seconde
l’indennità
è
commisurata al valore reale effettivo dell’area (valore venale).
11.7.6 La retrocessione del bene Si tratta di un istituto che consente all’espropriato di ottenere la restituzione del bene nel caso in cui la P.A. non abbia realizzato, in tutto o in parte, l’opera pubblica o di pubblica utilità per la quale si era proceduto all’emanazione del decreto di esproprio. Con la retrocessione l’espropriato riacquista la proprietà del bene: non si tratta di una risoluzione dell’originario acquisto della proprietà in capo alla P.A., ma di un nuovo trasferimento con efficacia ex nunc (cioè da quando si dispone la retrocessione).
Due sono le forme di retrocessione: quella totale e quella parziale. Alla retrocessione totale è dedicato l’art. 46 D.P.R. 327/2001, ai sensi del quale se l’opera pubblica o di pubblica utilità non è stata realizzata o cominciata entro il termine di 10 anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità. La retrocessione parziale, invece, ricorre – ai sensi dell’art. 47, co. 1, D.P.R. 327/2001 – laddove l’opera pubblica o di pubblica utilità sia stata realizzata solo su una parte della proprietà espropriata: in tal caso si può chiedere la restituzione della
parte
del
bene
non
utilizzata.
Il
beneficiario
dell’espropriazione, è tenuto ad indicare i beni che non servono all’esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità e che possono essere ritrasferiti, nonché il relativo corrispettivo. Tale indicazione è fatta con valutazione discrezionale.
11.8 La cessione volontaria La
procedura
espropriativa
può
concludersi
con
l’emanazione del decreto di espropriazione o, in alternativa, con la cessione volontaria. Dal momento in cui è intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e fino a quando non sia eseguito il decreto di esproprio, il proprietario espropriando può concludere con l’espropriante l’accordo di cessione volontaria del bene destinato a sostituire il provvedimento unilaterale. La norma interessata è l’art. 45 D.P.R. 327/2001, in base al quale «fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell’espropriazione l’atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà». La norma individua il periodo di tempo entro il quale può intervenire l’atto di cessione. La cessione volontaria è qualificata come un contratto di diritto pubblico, perché l’accordo è stipulato nell’esercizio di potestà pubblicistiche. Il ricorso all’istituto della cessione volontaria è incentivato dal legislatore con il riconoscimento di una maggiorazione del 10% dell’indennità di espropriazione.
11.9 L’occupazione legittima e l’occupazione senza titolo 11.9.1 L’occupazione legittima Il provvedimento di occupazione: permette alla Pubblica Amministrazione di occupare il bene in maniera continuativa, compiendo le attività tassativamente
indicate
dal
legislatore
nelle
varie
fattispecie e limitando di fatto i diritti di proprietà; serve a utilizzare il bene secondo le finalità pubbliche sotto condizione che venga effettuato un procedimento espropriativo. È possibile distinguere tra occupazione preliminare e occupazione strumentale. L’occupazione preliminare è disciplinata dall’art. 22bis D.P.R. 327/2001, aggiunto dal D.Lgs. 302/2002. Tale articolo afferma che qualora l’avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza può essere emanato decreto motivato che determina in via provvisoria l’indennità di espropriazione e che dispone anche l’occupazione anticipata dei beni immobili necessari. Il decreto contiene l’elenco dei beni da espropriare e dei relativi proprietari, indica i beni da occupare e determina
l’indennità da offrire in via provvisoria. È notificato al proprietario con l’avvertenza che, nei 30 giorni successivi alla immissione in possesso, nel caso non condivida l’indennità offerta, può presentare osservazioni scritte e depositare documenti. L’occupazione strumentale rinviene invece il proprio fondamento normativo nell’art. 49 D.P.R. 327/2001, ai sensi del quale l’autorità espropriante può disporre l’occupazione temporanea
di
aree
non
soggette
al
procedimento
espropriativo se ciò risulti necessario per la corretta esecuzione dei lavori previsti.
11.9.2 L’occupazione senza titolo L’occupazione
acquisitiva
(nota
anche
come
accessione invertita) è un istituto all’origine di creazione giurisprudenziale (cfr. Corte di Cassazione, sent. 26-2-1983, n. 1464) in forza del quale la Pubblica Amministrazione che, per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, occupa un suolo del privato in modo illegittimo, per decorso dei termini di efficacia del provvedimento autorizzativo, ne acquista a titolo originario la proprietà per effetto della trasformazione irreversibile arrecata al suolo stesso. Allo stato, l’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 (introdotto dal D.L. 98/2011), detta la disciplina della materia. Gli elementi costitutivi della fattispecie sono la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da realizzare e la conseguente occupazione del suolo da parte della Pubblica Amministrazione o di un suo concessionario.
Se nei termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità non interviene il decreto di espropriazione, ma il bene subisce una definitiva e irreversibile trasformazione, si verifica contestualmente l’estinzione del diritto di proprietà in capo al privato e l’acquisizione a titolo originario della proprietà da parte dell’Amministrazione occupante. L’eventuale decreto espropriativo emesso dopo l’acquisizione è inefficace. La perdita del diritto di proprietà in capo al privato configura un illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. da risarcire nel termine prescrizionale di cinque anni, che inizia a decorrere dall’irreversibile trasformazione del bene. Anche l’occupazione usurpativa è un istituto di creazione giurisprudenziale. La fattispecie si verifica quando la Pubblica Amministrazione procede all’occupazione di un fondo per la realizzazione di un’opera pubblica in assenza di un valido provvedimento autorizzativo. Ciò può verificarsi perché non esiste una dichiarazione di pubblica utilità, la stessa è stata successivamente annullata in sede giurisdizionale o non riporta i termini per il completamento dei lavori. In tali casi, assente
il
necessario
collegamento
funzionale
tra
la
dichiarazione di pubblica utilità e la realizzazione dell’opera pubblica, l’autorità amministrativa pone in essere un’attività materiale integrante un illecito extracontrattuale permanente. Nella fattispecie di occupazione usurpativa si è al cospetto di
un’attività
totalmente
illegale
della
Pubblica
Amministrazione, non producendosi alcun effetto traslativo. Il privato quindi può scegliere tra i normali rimedi a difesa della proprietà e del possesso e la proposizione del rimedio del
risarcimento. La proposizione della richiesta di risarcimento del danno reca tuttavia con sé l’implicita rinuncia al diritto di proprietà. A differenza dell’occupazione appropriativa, nel caso di quella usurpativa l’effetto acquisitivo è subordinato all’opzione di rinuncia da parte del privato. Per quanto riguarda il danno da occupazioni occorre distinguere tra occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa. Nel primo caso sussiste la cognizione del giudice amministrativo: la controversia è pur sempre riconducibile all’esplicazione del pubblico potere, dal momento che l’irreversibile
trasformazione
del
bene
è
ricollegabile
all’approvazione di una dichiarazione di pubblica utilità e al provvedimento di occupazione. Nel caso di occupazione usurpativa si radica, invece, la giurisdizione del giudice ordinario, atteso che la trasformazione irreversibile del fondo deriva da una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità non esiste affatto.
11.9.3 L’acquisizione sanante e il procedimento espropriativo semplificato L’art. 43 T.U. espropriazione aveva disciplinato la cosiddetta acquisizione sanante, istituto con il quale si consentiva all’Autorità che avesse utilizzato un bene per scopi di interesse pubblico, ma in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità,
di
disporne
l’acquisizione
al
suo
patrimonio
indisponibile, con l’obbligo di risarcire i danni al proprietario.
Tale norma è stata dichiarata illegittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, ragion per cui il legislatore ha provveduto a riformularla inserendo l’art. 42-bis nel D.P.R. 327/2001; la modifica è stata operata con l’art. 34 D.L. 98/2011 (conv. in L. 111/2011). Con la riformulazione del testo legislativo si è introdotta una sorta di procedimento espropriativo semplificato che può essere adottato, in presenza di determinati presupposti, quando un’amministrazione utilizzi un bene per scopi di interesse pubblico senza averne alcun titolo; in questi casi la situazione può essere sanata mediante un atto nel quale si riunisce sia la dichiarazione di pubblica utilità sia il decreto di esproprio, e si provvede ad indennizzare il soggetto espropriato con modalità diverse rispetto all’indennizzo spettante in presenza di procedura ordinaria di espropriazione.
11.10 Le requisizioni Le requisizioni sono anch’esse espressione del potere ablatorio della Pubblica Amministrazione, per loro natura provvedimenti eccezionali, contemplati dall’ordinamento per cercare di contrastare eventi critici imprevisti; permettono all’Amministrazione di operare efficacemente imponendo un sacrificio definitivo o temporaneo del diritto di proprietà
di
un
soggetto
privato,
per
il
soddisfacimento immediato di un pressante interesse pubblico. Per l’ordinamento italiano, la requisizione è legittima solo quando ricorrano gravi e urgenti necessità pubbliche, militari o civili, contro una giusta indennità e sulla base di norme determinate da leggi speciali (art. 835 c.c.).
Capitolo 12 Controlli e responsabilità nella Pubblica Amministrazione 12.1 I controlli pubblici Il controllo consiste nella verifica della regolarità di un atto o dell’operato di un determinato soggetto. Generalmente
la
gerarchia
attribuisce
all’organo
funzionalmente sovraordinato il potere di controllare l’attività dell’organo subordinato. Il suo esito è una manifestazione di giudizio su cui si basa l’adozione di determinate misure (es. il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti che, rifiutando il visto ad un atto, ne può provocare il ritiro da parte dell’Amministrazione competente). Secondo l’oggetto dell’attività di controllo, si distinguono controlli sull’attività, sugli atti e sugli organi. I controlli sull’attività possono essere: interni: in tal caso sono esercitati da organi interni allo stesso ente che v’è soggetto; esterni: li effettua un ente diverso da quello controllato; di vigilanza: è il controllo di conformità a norme o di legittimità;
di
tutela:
concerne
il
merito,
cioè
l’opportunità
dell’operato; di efficienza: presuppone una comparazione tra mezzi adoperati e fini da conseguire; di efficacia: guarda alla realizzazione dei fini divisati. I controlli sugli atti sono essenzialmente: preventivi: un eventuale esito negativo preclude la produzione dei relativi effetti; successivi: intervengono quando gli effetti si sono già prodotti; mediante riesame: l’autorità che ha già deliberato è chiamata ad una nuova deliberazione condizionante l’efficacia dell’atto. Per quanto concerne i controlli sugli organi, in relazione a quelli ai quali sono sottoposti gli enti territoriali, va ricordato che alla luce della riforma costituzionale realizzata con L. cost. 3/2001, la materia non è più riservata allo Stato: perciò, i controlli esterni statali sembrerebbero compatibili con il nuovo assetto costituzionale solo se limitati alle Amministrazioni statali decentrate e non anche se indirizzati agli enti territoriali. Di particolare importanza sono i controlli di ragioneria e il controllo della Corte dei conti. Il controllo di ragioneria è un controllo contabile, cioè diretto a verificare che l’atto soggetto a controllo abbia una copertura di spesa e di legittimità, ovvero della relativa conformità ai parametri normativi.
Al termine del controllo si possono avere vari esiti in relazione all’atto o all’attività controllata. In particolare potrà risultare: annullamento dell’atto: misura repressiva che consiste nell’esercizio di un potere vincolato; misure impeditive: precludono l’acquisto dell’efficacia dell’atto (dinieghi di visti o di approvazioni); azioni sostitutive: al controllato è inibito di agire e in sua vece interviene il controllante o un soggetto da lui designato (spesso un organo straordinario); scioglimento dell’organo; sanzioni, ovviamente irrogate ai componenti l’organo.
12.2 La responsabilità per lesione di interessi legittimi La giurisprudenza tradizionale tendeva a escludere con assolutezza la risarcibilità del danno per violazione di un interesse legittimo. Da questa impostazione teoricosistematica conseguiva con evidenza che quando la P.A., cagionava un danno ingiusto al soggetto titolare di una posizione giuridica di interesse legittimo, non era chiamata a rispondere di tali danni. L’inversione di rotta s’è avuta con la storica sentenza 22 luglio 1999, n. 500: la Corte di Cassazione ha affermato che l’art. 2043 c.c. non costituisce una norma secondaria ma racchiude una clausola generale primaria che attribuisce il diritto al risarcimento del danno ogni volta che è cagionato un danno ingiusto, sicché non è fondato l’assunto che limita alle sole posizioni di diritto soggettivo il funzionamento
del
risarcibile
danno
il
meccanismo che
risarcitorio.
presenta
le
È,
invece,
caratteristiche
dell’ingiustizia intesa come lesione di qualsiasi interesse al quale l’ordinamento attribuisce rilevanza. Ciò peraltro non equivale ad affermare l’indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, in quanto la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela
risarcitoria ex art. 2043 c.c.: è necessario in particolare che risultino integrati tutti i requisiti oggettivi e soggettivi dell’illecito. Tutto questo è stato recepito dal legislatore e la materia è ora disciplinata dal Codice del processo amministrativo (art. 30 D.Lgs. 104/2010).
12.3 Gli elementi costitutivi dell’illecito della Pubblica Amministrazione La responsabilità della Pubblica Amministrazione si basa sugli stessi principi di diritto privato (art. 2043 c.c.). Pertanto ne sono elementi: una condotta attiva od omissiva; l’antigiuridicità di tale condotta; la colpevolezza dell’agente; l’evento dannoso; il nesso di causalità tra condotta ed evento. La riferibilità della condotta alla Pubblica Amministrazione ricorre quando l’attività del dipendente si possa considerare come esplicazione dell’attività dell’ente e sia rivolta al conseguimento dei fini istituzionali dell’ente medesimo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio al quale il dipendente è addetto. In particolare: la condotta antigiuridica (fatto illecito) è un elemento
fondamentale
responsabilità
e
si
per
la
concretizza
configurazione in
una
di
condotta
antigiuridica produttiva di un danno ingiusto, che potrà esternarsi in azioni omissive o azioni commissive. Più specificamente, la condotta omissiva può consistere sia nel mancato compimento di un comportamento doveroso, sia nell’omissione di un atto dovuto; viceversa, la condotta
commissiva o attiva può consistere tanto in un comportamento materiale del dipendente quanto nel compimento di un atto amministrativo illegittimo; la colpevolezza dell’agente (dolo o colpa della P.A.) è un elemento soggettivo, ossia l’atteggiamento psicologico del dipendente o del funzionario che pone in essere attività materiali dannose per il privato. Infatti, il fatto illecito può essere stato compiuto con l’intenzione di cagionare l’evento dannoso e dunque con la consapevolezza della sua ingiustizia (dolo), oppure in violazione dei doveri di diligenza, cautela o perizia nei confronti dei terzi (colpa); l’evento dannoso (danno ingiusto) è il fatto illecito; in assenza di danno non dà luogo a responsabilità civile. Il danno, per essere ingiusto, deve essere prodotto in assenza di cause giustificative del fatto dannoso e deve incidere negativamente su una posizione attiva tutelata. il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica e l’evento dannoso è un elemento imprescindibile per l’affermazione della responsabilità dell’Amministrazione e consiste nel collegamento tra la condotta e il danno ingiusto subìto dal privato. Va precisato che, al fine di imputare l’obbligazione risarcitoria all’Amministrazione alla quale appartiene l’agente che in concreto ha posto in essere l’attività materiale dannosa, sarà necessario appurare che la condotta antigiuridica sia stata realizzata nell’ambito delle attività che l’agente svolge per l’ente di appartenenza.
12.4 La responsabilità della Pubblica Amministrazione per lesione di diritti soggettivi È pacifico da tempo il riconoscimento della responsabilità della Pubblica Amministrazione in caso di lesione di diritti soggettivi, sia nella forma della responsabilità aquiliana (ai sensi dell’art. 2043 c.c.), sia nella forma della responsabilità contrattuale
(art.
1218
c.c.),
sia
nella
forma
della
responsabilità precontrattuale (artt. 1337 e 1338 c.c.).
12.4.1 Responsabilità cd. aquiliana o extracontrattuale Nessuna questione problematica si pone in caso di violazione del precetto generale di non arrecar danno ad alcuno (neminem laedere): in tal caso, infatti, è applicabile la disciplina generale di cui all’art. 2043 c.c., ai sensi del quale spetta solo al danneggiato l’onere di provare gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità: fatto illecito, danno ingiusto, nesso di causalità tra fatto e danno, dolo o colpa della Pubblica Amministrazione.
12.4.2 Responsabilità contrattuale
La responsabilità della Pubblica Amministrazione per lesione di diritti soggettivi può anche essere di natura contrattuale: com’è noto, infatti, l’Amministrazione, per perseguire i propri fini, può avvalersi, oltre che dei tradizionali strumenti propri del diritto pubblico, anche delle forme proprie del diritto privato e, in particolare, dei negozi giuridici di diritto comune. Sebbene la fase antecedente la stipula del contratto sia regolata dalle regole di evidenza pubblica, la fase successiva è assoggettata alla disciplina propria del diritto privato, con conseguente applicabilità – in caso di inadempimento della Pubblica Amministrazione – della disciplina di cui all’art. 1218 c.c., ai sensi del quale il debitore «che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
12.4.3 Responsabilità precontrattuale Tale tipologia di responsabilità è configurabile in tutti i casi in cui l’ente pubblico, nelle trattative contrattuali e nelle relazioni con i terzi, abbia tenuto un comportamento contrastante con i principi di correttezza e buona fede. In tali ipotesi il giudice (di regola, salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva, quello ordinario) dovrà accertare se il comportamento dell’Amministrazione abbia ingenerato nei terzi un ragionevole affidamento, poi andato deluso in ordine alla conclusione del contratto.
Si tratterà dunque di accertare se l’ente pubblico abbia tenuto – alla stregua dei parametri civilistici (artt. 1337 e 1338 c.c.) – il contegno esigibile dal corretto contraente, e non già di verificare l’osservanza dei doveri del corretto amministratore. I casi paradigmatici in cui si è ravvisata una responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione sono quelli dell’ingiustificata rottura delle trattative nonché delle ipotesi di mancata comunicazione delle cause di invalidità del contratto.
12.5 Ulteriori ipotesi di responsabilità della Pubblica Amministrazione 12.5.1 La responsabilità derivante da atto lecito Vi sono alcuni casi in cui la Pubblica Amministrazione, pur avendo agito attraverso atti legittimi nell’interesse della collettività, provochi un danno (cosiddetto danno non antigiuridico) o comunque un “disagio” ai privati cittadini: in tali ipotesi, proprio al fine di compensare il disagio subito dal privato, a fronte di un beneficio concreto della collettività, è prevista la possibilità di corrispondergli un indennizzo. Il ristoro del danno non antigiuridico si realizza, perciò, a titolo indennitario, e non risarcitorio, in modo da evitare che gli effetti dannosi gravino sul titolare del diritto leso anziché su chi tragga vantaggio dall’attività legittimamente espletata. Esempio di indennizzo, conseguente ad attività lecita della Pubblica Amministrazione e l’indennizzo per causa di espropriazione.
Diversa è, dunque, la funzione del risarcimento da quella dell’indennizzo. Infatti, mentre il risarcimento consiste nella sanzione della specifica obbligazione di
reintegrare il patrimonio nelle condizioni in cui si trovava prima di subire il danno (status quo ante), l’indennizzo (o indennità), derivando da una lesione senza colpa, si concretizza nell’obbligo di versare al soggetto danneggiato un compenso uguagliato al valore del bene colpito e, in ogni caso, diverso o inferiore al risarcimento.
12.5.2 Il danno da ritardo Si tratta del danno che un soggetto subisce per effetto del ritardo con cui la Pubblica Amministrazione esercita l’attività ad essa funzionale. La ragione del risarcimento di tale tipo di danno va individuata nel fatto che il privato è titolare di un interesse differenziato e qualificato a che l’Amministrazione provveda e non rimanga silente, di fronte ad una sua istanza. Pertanto se la Pubblica Amministrazione ingiustificatamente non si pronuncia sull’istanza del privato, facendo in tal modo trascorrere invano del tempo, essa è inadempiente rispetto all’obbligo di provvedere. Inoltre da tale inerzia possono derivare danni che, essendo causati dalla violazione di regole disciplinanti l’azione amministrativa, sono ingiusti, e come tali risarcibili in applicazione del principio generale del neminem laedere, allorquando ricorrano tutti gli elementi costitutivi dell’art. 2043 c.c. Attualmente il danno da ritardo da parte della Pubblica Amministrazione è contemplato dall’art. 2, co. 2-bis, L. 241/1990, introdotto dalla L. 69/2009, il quale prevede l’obbligo
di
risarcimento,
a
carico
delle
Pubbliche
Amministrazioni e dei soggetti privati preposti all’esercizio di
attività amministrative, del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Dal danno da ritardo differisce l’indennizzo da ritardo, conseguente al vano decorso del tempo previsto dalla legge senza che la Pubblica Amministrazione si sia pronunciata, indipendentemente dal verificarsi o meno di un vero e proprio danno.
12.5.3 Il danno da disturbo Consiste nell’illegittima compromissione, da parte della Pubblica Amministrazione, dell’esercizio da parte del privato delle facoltà inerenti l’esercizio di diritti di cui è titolare. Esso differisce dal danno da ritardo, in quanto mentre quest’ultimo è normalmente individuato nella lesione di un interesse legittimo pretensivo, cagionata dal ritardo con cui l’Amministrazione ha emesso il provvedimento finale inteso ad ampliare la sfera giuridica del privato, il danno da disturbo è caratterizzato dalla lesione di un interesse legittimo di tipo oppositivo e consiste nel ristoro del pregiudizio asseritamene subito in conseguenza dell’illegittima compressione delle facoltà di cui il privato cittadino era già titolare. In
ogni
caso
perché
il
risarcimento
possa
essere
riconosciuto è necessario che la Pubblica Amministrazione abbia agito in violazione di norme e principi dell’ordinamento, nonché con dolo o colpa e che vi sia un nesso di causalità tra la condotta della Pubblica Amministrazione e il danno prodotto.
12.6 Le tecniche risarcitorie È
interessante
passare
in
disamina
le
forme
di
riparazione invocabili contro l’Amministrazione ritenuta responsabile. Nel caso di lesione di un diritto soggettivo, il danneggiato
può
ottenere
un
risarcimento
per
equivalente, cioè una somma di denaro corrispondente al valore del bene della vita perduto o leso; oppure un risarcimento in forma specifica, grazie al quale viene rimesso nella medesima situazione in cui si trovava prima della commissione
dell’illecito.
Nel
secondo
caso,
cioè,
il
danneggiato riacquista l’utilità in precedenza perduta (es. riottiene il bene del quale era stato illegittimamente espropriato). Laddove, invece, il privato sia titolare di una posizione di interesse legittimo, e in specie di un interesse legittimo di tipo pretensivo, la quantificazione della lesione pone non pochi problemi. Una volta intervenuta la caducazione del provvedimento illegittimo e prima che l’Amministrazione rieserciti i propri poteri, non può dirsi con certezza se al privato spetti o meno il bene della vita che all’esito del procedimento egli sperava di ottenere. A titolo di esempio, si pensi all’illegittimo annullamento di una prova selettiva in corso di svolgimento: per quanto il concorso possa essere nuovamente bandito, i concorrenti non
avranno mai la certezza di vincerlo, e intanto hanno perduto la chance rappresentata dalla prova precedentemente bandita e poi annullata mentre si stava svolgendo. Ecco allora che, a partire dalla sentenza n. 500/1999, e quindi
dal
venir
meno
dell’irrisarcibilità
dell’interesse
legittimo, l’attenzione si è concentrata sull’individuazione dei criteri
che
consentono
di
meglio
adeguare
il
ristoro
patrimoniale all’effettivo pregiudizio subìto. Al riguardo si è fatto ricorso, tra gli altri, proprio al criterio della perdita di chance. Per quanto riguarda il risarcimento in forma specifica – consistente nel riproduzione di una situazione materiale corrispondente a quella che sarebbe sussistita se non fosse intervenuto il fatto lesivo – la tutela è condizionata quanto ad ammissibilità, ai presupposti della possibilità e della non eccessiva onerosità per il debitore. Proprio il limite della possibilità assume rilevanza nel caso in cui il danno di cui si chiede il ristoro sia stato provocato da un’attività amministrativa di tipo autoritativo. Giova al riguardo distinguere a seconda che si tratti di danno da lesione di interesse legittimo oppositivo ovvero pretensivo: l’interesse legittimo oppositivo è di regola tutelato attraverso
l’annullamento
del
provvedimento
amministrativo illegittimo; l’interesse
legittimo
pretensivo,
invece,
riceve
dall’annullamento del provvedimento una tutela solo parziale, posto che la demolizione di quest’ultimo non
consente al privato di ottenere il bene della vita al quale aspira.
Capitolo 13 Il sistema delle tutele 13.1 La tutela dei diritti e degli interessi Il sistema di tutela amministrativa adottato in Italia prevede due ordini di giurisdizione, quella ordinaria e quella amministrativa. Entrambi sono garantiti dal comma 1 dell’art. 113 Cost., ai sensi del quale contro gli atti della Pubblica Amministrazione «è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa». Accanto ai rimedi giurisdizionali il nostro ordinamento prevede una terza via, di tipo non giurisdizionale: la cd. tutela in via amministrativa. La tutela in via amministrativa è caratterizzata dal fatto che essa «viene attuata dalla stessa Amministrazione su ricorso degli interessati, attraverso un procedimento amministrativo e al di fuori di ogni intervento del giudice ordinario o amministrativo, onde la relativa materia rientra nel quadro dei procedimenti amministrativi di riesame» (Virga).
13.2 I ricorsi amministrativi I ricorsi amministrativi sono istanze che i soggetti interessati possono presentare ad un’Autorità Amministrativa perché questa risolva una controversia insorta nell’ambito del sistema della Pubblica Amministrazione, ovvero sono istanze rivolte alla P.A. per ottenere la tutela di una situazione giuridica soggettiva che si assume essere lesa da un provvedimento o da un comportamento amministrativo. Tali ricorsi si differenziano da quelli giurisdizionali perché sono rivolti ad Autorità appartenenti all’Amministrazione, le quali si pronunciano amministrativa)
con al
un
provvedimento
termine
di
un
(decisione procedimento
amministrativo di secondo grado. La funzione svolta dall’Amministrazione non è dunque di tipo
giurisdizionale
ma
è
attività
amministrativa
giustiziale, considerata funzione amministrativa di «secondo grado» in quanto «chiamata a decidere, in contraddittorio con le parti interessate, una controversia concreta e attuale, occasionata da un proprio antecedente atto amministrativo». Il procedimento si caratterizza per i seguenti elementi: può essere attivato solo a istanza di parte; l’identificazione dei contenuti è rimessa a chi propone l’istanza;
al ricorrente è riservata la potestà di introdurre nel procedimento gli interessi da valutare (individuazione e piena disponibilità dell’oggetto del ricorso); l’Autorità cui ci si rivolge ha una discrezionalità limitata ai motivi indicati dal ricorrente, ossia dedotti avverso l’atto impugnato (cd. principio dispositivo). Il ricorso amministrativo va tenuto distinto dai reclami e dalle denunce, che possono essere presentati alla P.A. da chiunque e per qualunque motivo. I reclami e le denunce sono privi di tutela giuridica (spesso non trovano riscontro in alcuna norma) e non comportano l’obbligo di provvedere da parte dell’Amministrazione presso la quale sono inoltrati. I ricorsi amministrativi, invece, hanno valore di rimedio giuridico e obbligano l’Amministrazione adìta a pronunciarsi sull’istanza, in quanto si pone in essere un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge.
13.2.1 Tipologie Contro gli atti amministrativi è ammesso ricorso in unica istanza all’organo sovraordinato, per motivi di legittimità e di merito, da parte di chi vi abbia interesse. Nel D.P.R. 1199/1971 sono contemplate tre tipologie di ricorsi amministrativi: il ricorso gerarchico, a sua volta distinto in ricorso gerarchico
proprio
(rimedio
a
carattere
generale,
proponibile contro atti non definitivi indipendentemente da un’esplicita previsione di legge, indirizzato all’Autorità
gerarchicamente superiore a quella che ha adottato l’atto ritenuto lesivo dal suo destinatario a tutela di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo) e in ricorso gerarchico improprio (rimedio di carattere eccezionale, esperibile cioè nei soli casi espressamente previsti dalla legge, che si caratterizza per la mancanza di un rapporto gerarchico tra l’Autorità che ha adottato l’atto impugnato e quella decidente. È esperibile innanzi ad un organo monocratico o collegiale avverso delibere di organi collegiali o monocratici indifferentemente, nonché ad un organo statale avverso provvedimenti di altro ente pubblico); il ricorso in opposizione, basato su motivi di legittimità e di merito ed esperibile nei soli casi previsti dalla legge con presentazione allo stesso organo che ha emanato l’atto, solo contro atti non definitivi; il ricorso straordinario al Capo dello Stato, un rimedio di carattere generale, esperibile cioè in tutti i casi in cui non sia escluso dalla legge ovvero incompatibile con il sistema, proponibile contro atti nei cui confronti, in ragione del loro carattere definitivo, non sono esperibili rimedi amministrativi, e caratterizzato dall’alternatività rispetto al ricorso al giudice amministrativo. A livello classificatorio, il ricorso amministrativo si definisce ordinario quando ha per oggetto provvedimenti non definitivi
della
Pubblica
Amministrazione.
Il
ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica, invece, realizza una tutela del tutto differente, e ha per oggetto atti amministrativi definitivi.
I
ricorsi
si
suddividono
in
impugnatori o non
impugnatori a seconda che abbiano ad oggetto atti amministrativi
ritenuti
lesivi
(ricorso
amministrativo
impugnatorio) ovvero meri comportamenti o rapporti giuridici (ricorso amministrativo non impugnatorio).
13.2.2 La definitività dell’atto Ai fini dell’individuazione dell’idonea forma di tutela esperibile, è necessario verificare se il provvedimento lesivo sia definitivo. Gli atti amministrativi diventano definitivi a seguito del rigetto del ricorso gerarchico o a seguito dell’inutile decorso del termine di 90 giorni dalla proposizione del medesimo. Sono, invece, automaticamente definitivi gli atti adottati dagli organi di vertice della Pubblica Amministrazione o dagli organi collegiali o quelli che, per legge, sono dichiarati definitivi (es. i provvedimenti prefettizi in materia di requisizione). Avverso gli atti non definitivi è esperibile il ricorso gerarchico o, laddove contemplato, il ricorso in opposizione, nonché il ricorso giurisdizionale al Tribunale Amministrativo Regionale. Avverso gli atti definitivi, invece, è esperibile il ricorso giurisdizionale o quello straordinario al Capo dello Stato.
13.2.3 Profili procedurali Legittimati a proporre il ricorso amministrativo sono le persone fisiche (cittadini italiani e stranieri nei casi
espressamente previsti) e le persone giuridiche (a seguito di deliberazione sul ricorso) che abbiano interesse. L’interesse a ricorrere può essere costituito da un diritto soggettivo, da un interesse legittimo o da un interesse diffuso e deve essere personale, diretto e attuale. Il
ricorso
amministrativo
gerarchico
e
in
opposizione deve essere proposto entro 30 giorni dalla notificazione
o
dalla
data
della
pubblicazione
del
provvedimento (ove prevista) o, infine, dalla data della piena conoscenza dell’atto. Il
ricorso
straordinario
al
Presidente
della
Repubblica deve, invece, essere proposto entro il termine di 120 giorni. Il diritto a proporre il ricorso amministrativo si estingue per il decorso dei termini (decadenza) oppure in caso di acquiescenza, allorché l’interessato compia atti positivi o negativi incompatibili con la volontà di proporre il ricorso medesimo. La decisione deve essere comunicata sia al ricorrente che ai controinteressati impugnato.
Per
e
all’Autorità
quest’ultima,
che
ha
emanato
l’eventuale
l’atto
accoglimento
preclude la possibilità di adottare un atto identico a quello annullato ma non la possibilità di regolare in altro modo la medesima situazione. Il procedimento introdotto con il ricorso amministrativo può poi estinguersi per rinuncia, cessazione della materia del contendere
(allorché
viene
meno
l’atto
impugnato)
o
sopravvenuta carenza di interesse (quando, nel corso del
procedimento, amministrativo).
sia
venuto
meno
l’interesse
al
ricorso
13.3 La tutela in sede giurisdizionale amministrativa 13.3.1 Il sistema di giurisdizione amministrativa Il sistema di giustizia amministrativa si caratterizza per essere bipartito, potendo il privato ricorrere a tutela delle posizioni soggettive vantate nei confronti della Pubblica Amministrazione innanzi al giudice amministrativo o al giudice ordinario (non alternativamente, ma a seconda della disciplina sulla giurisdizione dettata dalle norme). Ciò lo si ricava da quanto dispone in merito la Costituzione agli artt. 24, 103 e 113. Al riguardo, l’art. 24 Cost. prevede, in linea generale, l’azionabilità delle situazioni giuridiche soggettive dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione, senza alcuna esenzione («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»). L’art. 103 Cost. conferma l’avvenuta costituzionalizzazione del sistema della doppia giurisdizione assegnando al giudice amministrativo la generale giurisdizione di legittimità, involgente posizioni di interesse legittimo, e rimettendo al legislatore ordinario il compito di estendere «per particolari materie»
anche
ai
diritti
soggettivi
la
giurisdizione
amministrativa («Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi»). Infine, l’art. 113 Cost. consacra la generale ammissibilità della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti della Pubblica Amministrazione («Contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa»).
13.3.2 Il Codice del processo amministrativo e gli organi di giustizia amministrativa Con D.Lgs. 2-7-2010, n. 104, in attuazione dell’art. 44 L. 69/2009, è stato approvato il Codice del processo amministrativo (CPA): tale provvedimento ha operato un riordino della disciplina vigente, con taluni aggiustamenti in adesione
al
diritto
vivente
risultante
dalla
copiosa
giurisprudenza costituzionale e delle giurisdizioni superiori, nonché il coordinamento con le norme del codice di procedura civile. Il Capo II del Codice del processo amministrativo (artt. 4-6) individua gli organi della giurisdizione amministrativa e cioè i Tribunali
amministrativi
regionali
(TAR)
ed
il
Consiglio di Stato, precisando che i primi sono organi di giurisdizione amministrativa di primo grado, come pure il
Tribunale di giustizia amministrativa per la regione autonoma del Trentino Alto Adige (TRGA), che resta disciplinato dal proprio statuto speciale e dalle relative norme di attuazione. A detti organi sono devolute le controversie (artt. 7, 133, 134 CPA), nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio
del
potere
amministrativo,
riguardanti
provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di tale potere, posti in essere da Pubbliche Amministrazioni. Infine la loro giurisdizione si estende, nei casi previsti dalla legge e dal Codice del processo amministrativo, anche al merito delle controversie.
13.3.3 La giurisdizione del giudice amministrativo In capo al giudice amministrativo possono, ai sensi dell’art. 7 D.Lgs. 104/2010, radicarsi tre diverse tipologie di giurisdizione: la
giurisdizione
generale
di
legittimità,
che
comprende le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle Pubbliche Amministrazioni, incluse quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi
legittimi
e
agli
altri
diritti
patrimoniali
consequenziali, pure se introdotte in via autonoma; la giurisdizione esclusiva: è assegnata al giudice amministrativo nelle particolari materie di legge ed è
consentito, a questo stesso giudice, di conoscere in tale sede anche di diritti soggettivi, ai sensi dell’art. 103 Cost.; la giurisdizione di merito: anch’essa si radica nei soli casi di legge ed è di carattere eccezionale, sostanziandosi nel peculiare sindacato sul corretto e congruo esercizio del potere amministrativo discrezionale, che si traduce nell’attribuzione al giudice di un potere istruttorio e decisorio che va oltre il limite del mero riscontro della legittimità dell’atto e ne consente un pieno sindacato di merito. Tra le materie rientranti nella giurisdizione di merito l’ipotesi
più
importante
è
quella
del
giudizio
di
ottemperanza (promosso con ricorso), volto a ottenere che l’Autorità Amministrativa si conformi al giudicato dei Tribunali (ordinari o amministrativi) che abbiano riconosciuto la lesione di un interesse giuridicamente protetto. Il giudizio amministrativo è un giudizio di parte e ha inizio con la proposizione di un ricorso avverso atti amministrativi, vale a dire con l’impugnativa rivolta al riconoscimento della nullità, all’annullamento, alla revoca o alla riforma dell’atto. Attraverso
le
azioni
costitutive
si
chiede
l’annullamento di un atto amministrativo ritenuto illegittimo. Ciò avviene in tutti i casi di giurisdizione di legittimità, di giurisdizione di merito e nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva. Normalmente l’azione è proposta a tutela
di
interessi
legittimi,
ma
può
essere
chiesta
eccezionalmente (nei casi di giurisdizione esclusiva) anche a tutela di diritti soggettivi. Per mezzo delle azioni di accertamento si tende ad accertare un rapporto giuridico tra il ricorrente e la Pubblica Amministrazione: ciò avviene soprattutto in sede di giurisdizione esclusiva. Attualmente, però, è consolidata l’affermazione secondo cui è consentito per l’interessato agire innanzi al giudice amministrativo al fine di ottenere una sentenza di accertamento, anche al di fuori delle ipotesi di giurisdizione esclusiva. Ne deriva, pertanto, che risulterebbe ammessa anche nella giurisdizione su interessi, e non solo in quella esclusiva su diritti, una generale tutela di accertamento innanzi al giudice amministrativo. Le azioni di condanna nei confronti della Pubblica Amministrazione si distinguono in: azioni risarcitorie, mediante le quali il ricorrente mira a ottenere
una
decisione
del
giudice
che
ordini
all’Amministrazione di pagare una somma di denaro. In passato ammesse solo nella giurisdizione esclusiva, sono oggi estese anche alla giurisdizione di legittimità (D.Lgs. 104/2010); azioni reintegratorie, previste sia per la giurisdizione esclusiva sia per la giurisdizione di legittimità (D.Lgs. 104/2010). L’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto (cosiddetta azione di adempimento) può essere proposta contestualmente all’azione di annullamento o
all’azione avverso il silenzio, specificando che in ogni caso l’accertamento della fondatezza della pretesa potrà essere effettuato solo nei limiti rigorosi stabiliti dall’art. 31, co. 3, del D.Lgs. 104/2010, a proposito dell’azione avverso il silenzio che tendono a garantire il principio della separazione dei poteri.
13.3.4 Profili formali Le domande s’introducono con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale competente. Il ricorso deve contenere: gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto; l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi compreso l’atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza; l’esposizione sommaria dei fatti, i motivi specifici su cui si fonda il ricorso, l’indicazione dei mezzi di prova e dei provvedimenti chiesti al giudice; la sottoscrizione del ricorrente, se esso sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione, in questo caso, della procura speciale. Qualora sia proposta azione di annullamento, il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla Pubblica Amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati entro il termine previsto dalla legge, decorrente
dalla
notificazione,
comunicazione
o
piena
conoscenza, ovvero – per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale – dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione, se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge. Qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo, ai sensi dell’art. 102 c.p.c. La
notificazione
dei
ricorsi
nei
confronti
delle
Amministrazioni dello Stato è effettuata secondo le norme vigenti per la difesa in giudizio delle stesse. Se la notificazione nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle persone da chiamare in giudizio, il presidente del Tribunale o della sezione cui è assegnato il ricorso può disporre, su richiesta di parte, che essa sia effettuata per pubblici proclami prescrivendone le modalità. Il termine per la notificazione del ricorso è aumentato di 30 giorni se le parti o alcune di esse risiedono in altro Stato europeo, o di 90 giorni se risiedono fuori dal territorio europeo. Il ricorso è nullo se manca la sottoscrizione o v’è incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto della domanda. Nei casi di nullità della notificazione, se il destinatario non si costituisce in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza.
13.3.5 La sentenza
La decisione definitiva sul ricorso prende il nome di sentenza. Le sentenze, a seconda del contenuto, possono essere: sentenze definitive e interlocutorie. Le prime sono quelle che pongono fine al rapporto processuale perché pronunciano su tutti i punti della causa precludendo l’ulteriore esame della domanda; le seconde risultano inidonee a concludere il processo e possono essere meramente istruttorie, oppure possono risolvere una questione di merito; sentenze di rito e di merito. Le prime sono quelle che decidono sulle questioni pregiudiziali statuendo, a seconda dei casi, l’inammissibilità, irricevibilità o la nullità del ricorso. Le decisioni di merito sono quelle concernenti l’oggetto della lite e si distinguono principalmente in sentenze di rigetto o di accoglimento: ricorre la prima tipologia quando il giudice definisce priva di consistenza la pretesa giuridica del ricorrente; ricorre la seconda nel caso in cui il giudice affermi la fondatezza totale o parziale del ricorso. Le sentenze di accoglimento possono suddividersi in: sentenze costitutive: tipiche del giudizio di legittimità, hanno come effetto il totale o parziale annullamento dell’atto amministrativo con efficacia ex tunc (eliminando quindi i suoi effetti dalla emanazione); sentenze di accertamento: sono quelle che risolvono uno stato di incertezza circa la spettanza o meno di una
situazione giuridica soggettiva; sentenze
di
condanna:
comportano
non
solo
l’accertamento del diritto, ma anche l’obbligo per l’Amministrazione Pubblica di ottemperare a quanto stabilito dalla pronuncia, sia che si tratti di corrispondere la somma oggetto dell’accertamento sia che si debba tenere un determinato comportamento.
13.3.6 Le impugnazioni Anche in ambito amministrativo può recepirsi come valida la distinzione, già del processo civile, tra mezzi di impugnazione ordinari e straordinari: i primi sono quelli che impediscono la formazione della cosa giudicata formale; i secondi possono esperirsi anche nei confronti di una sentenza passata in giudicato (revocazione straordinaria ex art. 396 c.p.c. e opposizione di terzo). Ciò posto, nel sistema processuale amministrativo i mezzi di impugnazione tipici avverso le sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali sono: l’appello al Consiglio di Stato; la revocazione; l’opposizione di terzo; il ricorso per Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.
13.3.7 La class action nei confronti delle Amministrazioni Pubbliche
Il nostro ordinamento prevede varie azioni a tutela dei diritti dei consumatori e dei portatori di interessi diffusi, che si possono spingere fino alla richiesta di risarcimento danni in caso di comprovate lesioni di interessi individuali o collettivi. Per quanto riguarda il settore pubblico, il D.Lgs. 198/2009 ha attribuito il diritto di avviare azioni collettive (class action)
anche
Amministrazioni
nei e
confronti dei
delle
concessionari
Pubbliche di
servizi
pubblici; tale azione è proponibile dai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, che possono agire in giudizio se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi. Le attività che possono determinare tali effetti sono: la violazione di termini o la mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da approvare obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento; la violazione degli obblighi contenuti nelle Carte di servizi; la violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle Autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le Pubbliche Amministrazioni, definiti dalle stesse. Il ricorso è devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e le questioni di competenza sono rilevabili anche d’ufficio.
13.4 La giurisdizione del giudice ordinario Esistono due ordini di limiti all’esercizio della giurisdizione del giudice ordinario per la tutela delle situazioni soggettive vantate
nei
confronti
della
Pubblica
Amministrazione.
Vengono in rilievo, a tal riguardo, limiti esterni e interni. Al giudice ordinario è riconosciuta giurisdizione per le controversie involgenti posizioni di diritto soggettivo, non affidate dal legislatore ordinario alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’indagine sui confini interni della giurisdizione
del
giudice
ordinario
attiene
invece
all’individuazione dei poteri da lui esercitabili allorché nella controversia sia parte una Pubblica Amministrazione. Al riguardo assumono portata dirimente gli artt. 4 e 5 L. 2248/1865,
Allegato
E,
concernente
l’abolizione
del
contenzioso amministrativo. L’art. 4 si occupa, al co. 1, dei poteri di cognizione del giudice ordinario (stabilendo che al giudice ordinario non è consentito annullare o modificare l’atto autoritativo della Pubblica Amministrazione) e, al comma 2, dei suoi poteri di decisione. L’art. 5, invece, si occupa del potere di disapplicazione (nel senso che, accertata l’illegittimità dell’atto amministrativo, il giudice ordinario deve definire la controversia ritenendo
l’atto come non esistente, cioè deve decidere come se l’atto non fosse mai stato emanato).
13.5 Le giurisdizioni amministrative speciali Nella giustizia amministrativa sono comprese non solo la disciplina del processo che si svolge dinanzi al TAR e al Consiglio di Stato e parte di quella relativa al giudizio dinanzi al giudice ordinario, ma anche il procedimento che si svolge dinanzi alle giurisdizioni amministrative speciali. Tra di esse assume un posto di rilievo la Corte dei conti, titolare della cosiddetta giurisdizione contabile nella quale sono ricompresi i giudizi in materia di responsabilità amministrativa
e
contabile
dei
pubblici
funzionari
(contenzioso contabile) e quelli in materia di pensioni civili, militari e di guerra (contenzioso pensionistico). Ciò premesso, tale giurisdizione è qualificata come:
esclusiva: nelle materie ad essa devolute, infatti la Corte dei conti conosce di tutte le questioni relative sia ai diritti soggettivi che agli interessi legittimi. La sua giurisdizione esclude in tali materie quella di qualsiasi altro giudice; piena: la Corte esamina le controversie sotto il duplice aspetto dell’accertamento dei fatti e dell’applicazione del diritto. La giurisdizione è assimilata a quella dei Tribunali ordinari, sotto il profilo dei limiti imposti al potere del collegio: infatti anche la Corte può accertare l’illegittimità
degli atti amministrativi, e quindi negare la loro applicazione, ma non può annullare o sostituire tali atti. Peraltro la Corte non è soggetta al controllo di legittimità della Corte di Cassazione bensì unicamente a quello di giurisdizione ex art. 111, ultimo comma, Cost.; sindacatoria: la Corte non è vincolata né dalle precedenti statuizioni dell’Amministrazione né dalle domande delle parti o del Pubblico Ministero né dai motivi addotti. Il D.Lgs. 26-10-2016, n. 174 (Codice della giustizia contabile), adottato ai sensi dell’art. 20 L. 124/2015, disciplina l’esercizio della giurisdizione della Corte dei conti. Si tratta di un testo che, in attuazione della cd. riforma Madia, racchiude le disposizioni processuali di tutte le tipologie di giudizi che si svolgono davanti a quest’organo, dal giudizio di responsabilità erariale ai giudizi di conto, dai giudizi sanzionatori a quelli pensionistici. Il Codice, entrato in vigore il 7 ottobre 2016, raccoglie organicamente le disposizioni in materia già esistenti e, sulla base dei principi e criteri direttivi della legge delega, contiene significativi elementi di novità, soprattutto sul fronte dei giudizi di responsabilità per danno erariale. In particolare, esso recepisce i principi del giusto processo e quello della parità delle parti, valorizza le tutele difensive sin dalla fase istruttoria, introduce riti alternativi e semplificati, con l’obiettivo di ridurre il volume del contenzioso senza trascurare le finalità risarcitorie e detta
norme per rendere più certa l’esecuzione delle sentenze di condanna.
Ai Tribunali delle acque pubbliche, invece, sono devolute le controversie concernenti il demanio idrico. Si tratta di organi giurisdizionali speciali distinti in: Tribunali regionali delle acque pubbliche, istituiti presso 8 Corti di Appello (Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo, Cagliari). Costituiscono sezioni specializzate del giudice ordinario ed hanno cognizione sulle controversie (vertenti su diritti soggettivi) in materia di utilizzabilità delle acque, di delimitazione dei corsi e dei bacini, di diritti relativi a derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche, di indennità per occupazioni ed espropriazioni per la realizzazione di opere idrauliche; Tribunale superiore delle acque pubbliche, che ha sede a Roma e svolge funzioni di giudice di appello nei confronti delle sentenze dei Tribunali regionali. In sede di giurisdizione amministrativa, il Tribunale Superiore, invece, opera come giudice unico con competenza generale di legittimità contro i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche e speciale quando giudica anche nel merito. Le sentenze possono essere impugnate con i ricorsi per Cassazione, per revocazione e con l’opposizione di terzo. La giurisdizione tributaria, infine, è esercitata dalle Commissioni
tributarie
regionali,
aventi
sede
nel
capoluogo di ogni Regione, e dalle Commissioni tributarie provinciali, con sede nel capoluogo di ogni Provincia. Le commissioni tributarie sono dei giudici speciali in quanto sono chiamate a risolvere le controversie tra fisco e contribuente; esse sono anche legittimate a sollevare questione di legittimità costituzionale. La competenza è distribuita in base alla sede dell’ufficio che ha emesso l’atto che si intende contestare.
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Libro II Diritto civile con particolare riferimento alle obbligazioni ed ai contratti Sommario Capitolo 1 Il rapporto giuridico e le situazioni giuridiche soggettive Capitolo 2 I soggetti di diritto Capitolo 3 La famiglia Capitolo 4 Le successioni e le donazioni Capitolo 5 I beni e i diritti reali Capitolo 6 Il rapporto obbligatorio: struttura e vicende dell’obbligazione Capitolo 7 L’inadempimento dell’obbligazione e la responsabilità patrimoniale Capitolo 8 Il contratto Capitolo 9 La patologia del contratto e il suo scioglimento Capitolo 10 I principali contratti tipici
Capitolo 1 Il rapporto giuridico e le situazioni giuridiche
soggettive 1.1 Diritto pubblico e diritto privato Nell’ambito del diritto, la prima distinzione da farsi è quella tra diritto pubblico e diritto privato, tradizionalmente ritenuta di grande rilievo anche se negli ultimi anni non è più così netta, tenuto conto che sempre più spesso norme di natura pubblicistica sono destinate a soggetti privati e, al contrario, la Pubblica Amministrazione in taluni casi può agire in regime di diritto privato. In generale, può dirsi che: il diritto pubblico regola i rapporti tra Stato o enti pubblici e i privati quando i primi agiscono in posizione di supremazia; il
diritto
privato
che
disciplina
i
rapporti
interindividuali sia dei singoli che degli enti privati lasciando all’iniziativa personale anche l’attuazione delle singole norme; qui i soggetti privati si muovono in condizioni di parità. Le norme di diritto privato si distinguono in norme imperative, la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli, e norme dispositive, la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati.
Al ramo del diritto privato sono da ascrivere: il diritto civile; il diritto commerciale; il diritto della navigazione; il diritto del lavoro; il diritto agrario; il diritto industriale. In particolare, il diritto civile regola i rapporti che i privati stabiliscono tra loro in materia di famiglia, diritti reali, obbligazioni e tutela dei diritti. Di solito, le norme di diritto privato sono norme dispositive, ossia norme che possono essere derogate dalle parti, laddove quelle cogenti appartengono per lo più al diritto pubblico. In definitiva, il diritto pubblico governa l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regolando la loro azione, interna e di fronte ai privati, mentre il diritto privato si limita a disciplinare le relazioni tra gli individui, sia come singoli che intesi come enti privati.
1.2 Il codice civile e la legislazione complementare La materia del diritto privato è disciplinata prevalentemente dal codice civile emanato nel 1942. L’attuale codice civile è composto da un primo gruppo di norme
denominate
«disposizioni
sulla
legge
in
generale», comunemente citate per brevità come disposizioni preliminari o «preleggi», e da sei Libri, così articolati: Libro I “Delle persone e della famiglia”; Libro II “Delle successioni”; Libro III “Della proprietà”; Libro IV “Delle obbligazioni”; Libro V “Del lavoro”; Libro VI “Della tutela dei diritti”. Ogni libro è diviso in titoli, ogni titolo in capi che sono talora divisi in sezioni e queste ultime sono talvolta suddivise ulteriormente in paragrafi. Il sistema del Codice civile è stato nel corso del tempo integrato da varie leggi speciali che sono via via aumentate di numero, in alcuni casi inserendosi con la tecnica della novellazione nell’impianto del codice civile (es. L. 151/1975 sulla riforma del diritto di famiglia; D.Lgs. 6/2003 sulla riforma del diritto societario; L. 6/2004 sull’amministrazione
di sostegno; L. 55/2006 sul patto di famiglia), in altri casi affiancandosi invece al codice civile (es. L. 300/1970 sullo statuto dei lavoratori; L. 898/1970 sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio; L. 184/1983 sulla disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori; D.Lgs. 385/1993, Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; D.Lgs. 58/1998, Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria; L. 431/1998 sulla disciplina delle locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo). Solo in tempi più recenti si è ritornati ad una vera e propria codificazione, raccogliendo in Testi Unici le varie leggi speciali esistenti in una data materia, così operando un riordino complessivo ed unitario delle fonti di disciplina di vasti settori del diritto (es. D.Lgs. 30/2005, Codice della proprietà industriale; D.Lgs. 206/2005, Codice del consumo; D.Lgs. 209/2005, Codice delle assicurazioni private; D.Lgs. 117/2017, Codice del Terzo settore).
1.3 Il rapporto giuridico Un rapporto tra due o più persone può essere considerato giuridicamente rilevante quando è disciplinato dal diritto, giuridicamente irrilevante quando non è previsto dal diritto. Pertanto, nel momento in cui tra due o più soggetti si crea una relazione rilevante per il diritto, il rapporto che ne consegue viene detto rapporto giuridico, il quale può essere qualificato come qualsiasi relazione tra due o più soggetti prevista e regolata dal diritto, con l’attribuzione di un diritto ad una delle parti del rapporto cui corrisponde la posizione di subordinazione dell’altra parte. Ogni volta che l’ordinamento giuridico disciplina un rapporto risolve un possibile conflitto di interessi, stabilendo quale o quali interessi devono prevalere e imponendo una serie di obblighi e divieti per garantirne la realizzazione concreta. Ad esempio, in un rapporto tra creditore e debitore si riconosce al primo il diritto di pretendere il pagamento di una somma di denaro imponendo al secondo l’obbligo di pagare; la norma privilegia in tal modo l’interesse del creditore di ricevere quanto gli è dovuto rispetto all’interesse del debitore di non subire il sacrificio patrimoniale.
Elementi essenziali del rapporto giuridico sono i soggetti o parti del rapporto e l’oggetto del rapporto stesso.
Nell’esempio sopra riportato parti del rapporto sono il creditore e il debitore; oggetto è la prestazione di denaro. Per “parte” del rapporto s’intende non necessariamente una persona singola, ma piuttosto un centro d’imputazione di diritti ed obblighi. In altre parole, può ben nascere un rapporto giuridico tra una persona (soggetto unipersonale) ed un gruppo di persone le quali, però, insieme costituiscono un unico soggetto per il diritto (si parla, in questo caso, di soggetto pluripersonale). Dal concetto di “parte” deve distinguersi quello di “terzo” del rapporto, che è qualsiasi soggetto estraneo al rapporto medesimo. Regola generale è che il rapporto giuridico (in linea di principio e salve specifiche eccezioni) non produce effetti né a favore né a danno del terzo.
1.4 Le situazioni giuridiche soggettive Nel regolare un rapporto, il diritto riconosce alle parti alcune situazioni giuridiche, che attribuiscono a una persona il potere di fare o di non fare qualcosa per realizzare un proprio interesse o il dovere di fare o di non fare qualcosa per soddisfare un interesse altrui. Più precisamente, si parla di situazione giuridica soggettiva attiva, per fare riferimento alla posizione in cui si trova la parte avvantaggiata, il cui interesse è protetto nel rapporto; di situazione giuridica soggettiva passiva, per fare riferimento alla posizione della parte svantaggiata, il cui interesse è sacrificato nel rapporto. Le
situazioni
giuridiche
attive
riconosciute
dall’ordinamento sono il diritto soggettivo, la potestà, il diritto potestativo, l’aspettativa e l’interesse legittimo. Le più importanti situazioni giuridiche soggettive passive sono il dovere, l’obbligo giuridico, la soggezione e l’onere.
1.5 Situazioni giuridiche attive 1.5.1 I diritti soggettivi Il diritto soggettivo è il potere attribuito ad un soggetto per il soddisfacimento di un proprio interesse riconosciuto e tutelato da una norma dell’ordinamento giuridico. Il diritto soggettivo attribuisce, pertanto, al relativo titolare una posizione di vantaggio che questi potrà far valere nei confronti di tutti i soggetti (erga omnes), nel caso di diritto soggettivo assoluto (es. diritti della personalità, diritti reali), oppure nei confronti di uno o più soggetti nell’ambito di un determinato rapporto (es. diritti di obbligazione, molti diritti nascenti dai rapporti familiari). I diritti soggettivi possono essere classificati in diversi modi: diritti patrimoniali e non patrimoniali: i primi sono diritti soggettivi che hanno contenuto economico, cioè sono quantificabili in denaro (es. i diritti reali, che si esercitano su una res, e i diritti di obbligazione, che generano un diritto nei confronti di determinati soggetti); i secondi realizzano un interesse morale, attribuendo al titolare una qualità di carattere non economico (es. diritti della personalità e diritti di famiglia);
diritti assoluti e diritti relativi: i primi possono essere fatti valere nei confronti di chiunque e tutti hanno il dovere di non turbarne il godimento (es. diritto di proprietà e diritti della persona); i secondi sono diritti soggettivi che il titolare può far valere solo nei confronti di persone determinate (es. diritti di obbligazione); diritti reali e diritti di obbligazione: i primi attribuiscono al titolare un potere diretto su una cosa per la soddisfazione di un proprio interesse; i secondi sono diritti relativi in forza dei quali un soggetto, detto creditore, ha diritto di esigere una prestazione da un altro soggetto, detto debitore; diritti trasmissibili e diritti intrasmissibili: i primi possono essere trasferiti da un soggetto a un altro (es. proprietà, diritto di credito etc.); i secondi non possono essere trasferiti da un soggetto a un altro (es. diritti personali).
1.5.2 Acquisto e successione nel diritto soggettivo L’acquisto di un diritto soggettivo, a seconda del titolo che ne costituisce il fondamento, può essere a titolo originario o a titolo derivativo. Nell’acquisto a titolo originario un soggetto diventa titolare di un diritto soggettivo senza che il diritto gli venga trasferito da un’altra persona. Nell’acquisto a titolo derivativo, invece, un soggetto diventa titolare di un diritto soggettivo in quanto il diritto gli
viene trasferito o ceduto dal precedente titolare. In tale ultima evenienza si verifica un fenomeno di successione nel diritto: il diritto che apparteneva ad una persona passa ad un’altra. La successione in un diritto può avvenire tra vivi o a causa di morte. La successione tra vivi ricorre quando un diritto si trasferisce da una persona all’altra mentre sono ancora in vita; la successione a causa di morte invece si verifica quando un diritto viene trasferito ad un nuovo titolare dopo la morte del precedente titolare (de cuius). La successione può essere ancora: a titolo universale, quando il successore subentra nella intera posizione giuridica patrimoniale del dante causa, ad esempio, nel caso di un’eredità o di una fusione societaria; a titolo particolare, quando si trasferiscono uno o più determinati diritti o rapporti attribuiti specificamente al successore, ad esempio nei casi di vendita o di legato. La successione a causa di morte può, a sua volta, essere distinta in: successione testamentaria, che esiste quando il defunto ha lasciato delle disposizioni di ultima volontà, ossia un testamento; successione legittima, che interviene solo in mancanza di un testamento. In questo caso è la legge che stabilisce le persone a cui va l’eredità, individuandole tra i congiunti più stretti del de cuius secondo un preciso ordine di precedenza, determinato dall’intensità del vincolo di parentela.
1.5.3 Perdita ed estinzione del diritto soggettivo Un diritto soggettivo si può acquistare ma si può anche perdere o estinguere. Il diritto viene acquistato da altre persone e continua a esistere con la perdita, mentre cessa di esistere senza che un’altra persona ne acquisti la titolarità con l’estinzione. La causa che può determinare la perdita di un diritto soggettivo è l’alienazione, ossia il trasferimento volontario o forzato di un diritto da una persona ad un’altra. L’estinzione del diritto soggettivo, invece, può avvenire o per rinuncia da parte del suo titolare o per prescrizione. Si ha rinuncia quando il titolare del diritto soggettivo decide volontariamente di privarsi di tale diritto senza trasferirlo ad altre persone. Ad esempio, il proprietario di un vecchio frigorifero può abbandonarlo in una discarica pubblica. Si realizza, invece, la prescrizione quando un diritto soggettivo si estingue laddove il titolare non lo esercita per il periodo di tempo stabilito dalla legge. Per legge, quindi, la prescrizione richiede il concorso dell’inerzia del suo titolare e del decorso di un determinato periodo di tempo. Esistono però alcuni diritti e alcune situazioni giuridiche che sono imprescrittibili, ossia che non si estinguono nonostante il mancato esercizio da parte del loro titolare. Sono imprescrittibili:
le capacità e gli status, ossia le situazioni giuridiche che riguardano una persona; i diritti indisponibili, quelli cioè che non si possono trasferire ad altre persone o abbandonare e, dunque, non si possono neanche perdere a causa dell’inerzia del loro titolare; il diritto di proprietà, in quanto anche il non utilizzo costituisce
un’espressione
del
potere
di
godere
liberamente di una cosa.
1.5.4 Altre situazioni giuridiche attive La potestà è la situazione giuridica soggettiva che consiste nell’attribuzione di poteri e facoltà ad un soggetto allo scopo di tutelare un interesse altrui o un interesse di carattere generale e, quindi, per l’esercizio di una funzione. A differenza dei diritti soggettivi, nella potestà il titolare non può scegliere se esercitare o meno i poteri attribuitigli, né può rinunciare agli stessi, ma deve esercitarli nell’interesse del beneficiario. Il diritto potestativo attribuisce ad un soggetto il diritto di modificare la sfera giuridica di altre persone anche senza il loro accordo. Ad esempio, con le proprie dimissioni il lavoratore lascia senza dipendente il datore di lavoro a prescindere dalla volontà di quest’ultimo. L’interesse legittimo è l’interesse del soggetto a che gli organi della Pubblica Amministrazione svolgano la loro funzione ed esercitino il loro potere nel rispetto delle norme giuridiche poste per disciplinare la loro attività. Ad esempio, lo
studente bocciato ad un esame non può pretendere di essere promosso, ma può fare ricorso se la legge non è stata rispettata. Mentre il diritto soggettivo ha come oggetto esclusivo e diretto di tutela un interesse individuale, l’interesse legittimo
garantisce
la
posizione
del
singolo
solo
indirettamente, in quanto tale protezione garantisce al contempo interessi che sono propri della collettività. In sostanza, l’interesse legittimo si ha quando la norma, proteggendo un interesse collettivo, tutela di riflesso lo stesso interesse pur se vantato da un singolo individuo.
Ulteriore situazione giuridica attiva è la facoltà, che costituisce il contenuto di un diritto soggettivo, ma non ha un’esistenza autonoma rispetto al diritto; in altri termini le facoltà consistono nel potere del titolare di un diritto soggettivo di comportarsi in un certo modo (cioè di fare o di non fare qualcosa, di tenere o di non tenere una determinata condotta). Si concretizza nel poter compiere atti connessi al diritto principale (ad esempio, se io ho il diritto di proprietà su un bene, ho la facoltà di utilizzarlo o meno, di venderlo, di donarlo, possibilità che non avrei se non godessi del diritto di proprietà). Trattandosi di specifici, concreti poteri in cui si estrinseca un diritto, le facoltà mancano di autonomia e dunque non possono acquistarsi né perdersi indipendentemente dal diritto di cui sono espressione. L’aspettativa è una situazione giuridica provvisoria e strumentale, tutelata cioè temporaneamente al fine di
garantire la possibilità del (futuro ed eventuale) sorgere di un diritto (es. si pensi all’ipotesi di una eredità lasciata a taluno a condizione che prenda la laurea: egli non acquisterà il diritto all’eredità se non quando avrà preso la laurea). Si parla anche di fattispecie a formazione progressiva, ossia di una fattispecie di acquisto che si compie per gradi successivi, nell’ambito della quale i poteri attribuiti al soggetto costituiscono effetti preliminari di essa accordati, appunto, in via strumentale al suo realizzarsi.
1.6 Situazioni giuridiche passive Ad ogni situazione giuridica attiva corrisponde una situazione giuridica passiva Le principali situazioni giuridiche passive sono: il dovere: a una situazione di diritto assoluto di un soggetto corrisponde una situazione di svantaggio per tutti gli altri, che sono tenuti a rispettare quel diritto. Ad esempio, il dovere di rispettare la proprietà altrui o di non ledere il diritto all’integrità fisica; l’obbligo: a un diritto relativo di un soggetto corrisponde una situazione di svantaggio per un altro specifico soggetto, tenuto a osservare un certo comportamento. Ad esempio, il debitore è obbligato a restituire la somma di denaro presa in prestito; la soggezione: è la situazione nella quale viene a trovarsi chi è sottoposto all’altrui diritto potestativo; l’onere: è un’attività che non deve essere esercitata obbligatoriamente, ma che, tuttavia, se si vuole conseguire un determinato risultato, è indispensabile esercitare. Ad esempio, in un processo civile, chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
1.7 L’influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi Il decorso di un determinato periodo di tempo può causare l’estinzione o l’acquisizione di diritti, questo perché, quando una situazione di fatto si protrae per lungo tempo, l’ordinamento tende a far coincidere quella situazione di fatto con la situazione di diritto. Per quanto riguardo l’acquisto, l’istituto che viene preso in considerazione è l’usucapione (vedi infra); per quanto riguarda l’estinzione, abbiamo gli istituti della prescrizione estintiva e della decadenza. La prescrizione e la decadenza costituiscono cause generali di estinzione dei rapporti giuridici per l’inerzia del titolare del diritto. Con l’estinzione il diritto cessa di esistere senza che un’altra persona ne acquisti la titolarità. La prescrizione si realizza quando un diritto soggettivo si estingue a causa del fatto che il titolare non lo esercita per il periodo di tempo stabilito dalla legge (art. 2943 c.c.). Trattasi pertanto di un istituto collegato al decorso del tempo che si fonda sull’inerzia del soggetto interessato e che risponde all’esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici. I requisiti perché un diritto cada in prescrizione sono:
l’esistenza di un diritto che poteva essere esercitato; il mancato esercizio del diritto stesso da parte del titolare; il decorso del tempo stabilito dalla legge. La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.): il diritto cioè deve esistere e deve poter essere fatto valere. Non tutti i diritti sono soggetti a prescrizione; ve ne sono infatti alcuni che non si prescrivono a causa della loro natura. In
particolare,
sono
imprescrittibili
tutti
i
diritti
indisponibili, come i diritti della personalità, i diritti di status e i diritti familiari, il diritto di proprietà e la relativa azione di rivendica, l’azione volta a far dichiarare la nullità dei negozi giuridici e gli altri diritti indicati dalla legge (es. il diritto dello Stato sui beni demaniali). Il termine di prescrizione ordinario è di 10 anni; tuttavia la legge dispone anche termini di prescrizione più brevi o più lunghi: in 5 anni, ad esempio, si prescrive il diritto al risarcimento del danno derivante da atto illecito, nonché il credito per i fitti, per le annualità pensionistiche e tutto ciò che ha una cadenza periodica (cioè quei crediti che devono essere adempiuti di anno in anno o di mese in mese). Fra i termini di prescrizione più lunghi ricordiamo che i diritti reali su cosa altrui si prescrivono in 20 anni. Il termine inizia a decorrere dal momento nel quale il diritto può essere esercitato; ma nel caso in cui il diritto sia sottoposto a condizione sospensiva o a termine iniziale non decorre prima che si avveri la condizione o scada il termine.
Nel corso della prescrizione possono verificarsi i seguenti eventi: la sospensione della prescrizione, la quale rappresenta un periodo di tempo in cui non si calcola il decorso della prescrizione a causa di eventi previsti dalla legge che impediscono al titolare del diritto di esercitarlo. In tali casi, pertanto, la legge configura degli impedimenti soggettivi giustificando l’inerzia del titolare. Le cause di sospensione attengono a particolari rapporti intercorrenti tra le parti (cioè alle relazioni intercorrenti tra chi subisce la prescrizione e chi, invece, se ne avvantaggia, es. rapporti tra i coniugi) o alla particolare condizione soggettiva del titolare del diritto (es. minori e interdetti privi di rappresentante legale, militari e appartenenti alle forze armate dello Stato in tempo di guerra). Il periodo in cui perdura la causa di sospensione non deve essere calcolato e al cessare della stessa il tempo riprende a decorrere a partire da lì dove si era fermato; l’interruzione della prescrizione, che ricorre quando il titolare del diritto compie un’attività idonea a mostrare la sua volontà di esercitarlo (es. il creditore chiede formalmente l’adempimento del debito o dà inizio ad un procedimento giudiziario per ottenere la restituzione di quanto dovuto dal debitore). Dal momento in cui quest’attività è stata compiuta si calcola un nuovo periodo di prescrizione, nulla più valendo quello già trascorso. In altre parole, si ha interruzione della prescrizione ogni volta
che il titolare del diritto cessa di essere inerte ed esercita il proprio diritto. Il tempo influisce anche in altro modo sui rapporti giuridici. Esistono delle situazioni giuridiche incerte che l’ordinamento ha interesse a definire in tempi brevi: in questi casi sono previsti dei termini di decadenza entro i quali i soggetti titolari sono costretti ad esercitare i loro diritti, pena la perdita degli stessi. La disciplina della decadenza è contenuta negli artt. 2964 ss. c.c. A differenza della prescrizione, con cui ha in comune l’inerzia del titolare del diritto e il decorso del tempo, che blocca l’esercizio dello stesso, la decadenza si caratterizza per il fatto di impedire la nascita o l’esercizio di un diritto se non si soddisfano entro un determinato tempo certe condizioni. Normalmente, dunque, si verifica quando un diritto deve essere esercitato con particolari modalità e in un termine stabilito, configurandosi un onere a carico del soggetto interessato: questi, infatti, se vuole godere del diritto deve, entro il termine imposto dalla legge, svolgere determinati adempimenti
(ad
esempio,
nella
compravendita,
se
l’acquirente vuole denunciare vizi occulti della cosa, deve denunciarli entro 8 giorni dalla scoperta). Il termine di decadenza, oltre che dalla legge, può anche essere stabilito dalle parti (per la prescrizione, invece, non è ammesso alcun patto che ne modifichi i tempi), a due condizioni: che si tratti di diritti disponibili e che il termine fissato non sia tale da rendere eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto.
Alla
decadenza
non
si
applicano
le
cause
interruzione e sospensione previste per la prescrizione.
di
1.8 La tutela dei diritti La tutela dei diritti ha luogo mediante una funzione preventiva, che tende ad evitare il sorgere di eventuali conflitti tra privati, e mediante una funzione successiva (tutela giurisdizionale) che mira a risolvere un eventuale conflitto insorto.
1.8.1 La pubblicità dei fatti giuridici Risponde
ad
una
logica
preventiva
l’istituto
della
pubblicità dei fatti giuridici, che ha il fondamentalmente scopo di rendere noti, a chiunque ne abbia interesse, atti o eventi che hanno una qualche rilevanza giuridica. In relazione agli effetti si distinguono tre tipi di pubblicità:
la pubblicità-notizia: si ha in tutti i casi in cui la funzione della pubblicità è quella di rendere noti determinati fatti giuridici ai terzi senza che si produca alcun effetto sulla validità od opponibilità dell’atto nel caso di sua omissione. Tipico esempio di pubblicità notizia è la registrazione nei registri dello stato civile dei fatti concernenti la vita delle persone (la mancata registrazione nel registro delle nascite non preclude l’esistenza in vita di un soggetto);
la pubblicità dichiarativa: questa serve a rendere opponibile un fatto o un negozio giuridico ai terzi o ad alcuni terzi. Nel caso in cui essa venga omessa, l’atto, pur rimanendo valido ed efficace tra le parti, non può essere opposto ai terzi per i quali esso è come se non fosse mai stato prodotto (es. trascrizione nei registri immobiliari); la pubblicità costitutiva: in questo caso, la pubblicità è elemento costitutivo della fattispecie, ossia è requisito necessario per la creazione di un rapporto giuridico e non solo per la sua opponibilità ai terzi; senza la pubblicità il negozio non produce effetti nemmeno tra le parti. Esempio tipico di pubblicità costitutiva è la pubblicità ipotecaria: il diritto di ipoteca, infatti, si costituisce mediante iscrizione nei registri immobiliari e, fino a questo specifico momento, esso non sorge (art. 2808 c.c.). Il codice civile prescrive varie forme di pubblicità a seconda dell’oggetto del fatto o dell’atto giuridico: per i beni mobili assolve ad una funzione pubblicitaria il possesso (pubblicità di fatto): il trasferimento della disponibilità del bene mobile da un soggetto all’altro mette in condizione i terzi di avere conoscenza di un mutamento nella titolarità del diritto sopra il bene stesso; per i crediti vige il sistema della notificazione al debitore, per cui gli effetti del trasferimento del credito da un creditore all’altro sono opponibili al debitore solo se gli è stata notificata la cessione;
per i diritti personali di godimento (che abbiano per oggetto un bene mobile o immobile) nel caso di conflitto tra più aventi causa da uno stesso concessionario (quando cioè una persona concede a diversi contraenti un diritto personale di godimento relativo allo stesso bene) si applica l’art.1380 c.c. per il quale il titolo di preferenza è la priorità dell’acquisto del godimento; per i titoli di credito la forma di pubblicità è strettamente connessa alle forme di legittimazione che dipendono dal regime di circolazione; per i beni immobili si applica il regime della trascrizione: l’effetto principale della trascrizione è descritto dall’art. 2644 c.c., per cui gli atti soggetti a trascrizione (art. 2643 c.c.) non hanno effetto nei riguardi dei terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi (principio di priorità della trascrizione); per i beni mobili registrati si applica il regime dell’iscrizione in appositi registri; per le ipoteche vige il regime dell’iscrizione (pubblicità costitutiva).
1.8.2 La tutela giurisdizionale dei diritti Nel momento in cui le relazioni tra soggetti generano una controversia (es. il debitore rifiuta di adempiere affermando l’avvenuta estinzione dell’obbligazione) spetta allo Stato il compito di dirimere tale controversia, affermando chi ha
ragione e chi ha torto. Solo in casi eccezionali, infatti, l’ordinamento prevede che il singolo possa farsi giustizia da sé (cd. autotutela, es. il diritto di ritenzione, eccezione di inadempimento, diffida ad adempiere). Fuori da questi casi si può incorrere nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Di regola, dunque, un soggetto che voglia far valere un proprio diritto deve rivolgersi al giudice. Si definisce azione il diritto di rivolgersi agli organi all’uopo istituiti per ottenere quella giustizia che non si può ottenere da sè. Il diritto di agire in giudizio è oggetto di una garanzia costituzionale e perciò non può essere derogato in nessun caso (art. 24 Cost.). Sussistono vari tipi di azione: l’azione volta a verificare la sussistenza o il modo di essere di un determinato diritto si definisce azione di cognizione; l’azione diretta ad ottenere l’esecuzione di una sentenza di condanna del giudice è l’azione esecutiva che dà il via, appunto, al processo esecutivo. A differenza del giudizio di cognizione, quindi, la funzione del processo di esecuzione non è quella di accertare il diritto, ma quella di attuarlo concretamente; l’azione cautelare ha una finalità sussidiaria ed accessoria, diretta ad assicurare e garantire l’efficace svolgimento ed il proficuo risultato delle azioni di cognizione ed esecutiva. Il processo cautelare mira dunque a conservare, nelle more del giudizio di cognizione o di esecuzione, lo stato di fatto esistente per rendere
possibile l’accertamento del diritto o l’esecuzione della sentenza.
1.8.3 La prova dei fatti giuridici Nell’ambito del giudizio i fatti che le parti invocano a sostegno delle proprie ragioni devono essere provati e solo sui fatti provati può determinarsi il convincimento del giudice sulla controversia (in base al principio dispositivo sancito dall’art. 115 c.p.c.). A tale proposito l’art. 2697 c.c. sancisce il principio dell’onere della prova: l’onere della prova dei fatti di cui si controverte in causa ricade sulle parti, in particolare su colui che invoca quel fatto a sostegno della propria tesi. Chi, invece, eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda (ad es. che il credito in oggetto si è estinto per pagamento, o che esiste un vizio del consenso contrattuale). La legge individua poi vari tipi di mezzi di prova: le prove documentali che sono l’atto pubblico, ossia l’atto redatto dinanzi ad un notaio o altro pubblico ufficiale, e la scrittura privata.
atto pubblico è il documento redatto, con l’osservanza delle formalità richieste dalla legge, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato (art. 2699 c.c.). L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha
formato nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (art. 2700 c.c.).
Per scrittura privata si intende ogni atto o documento sottoscritto dalle parti che lo pongono in essere. La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso (art. 2702 c.c.), della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.
È sottoscrizione riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ossia apposta in sua presenza dopo che questi abbia accertato l’identità della persona che sottoscrive (art. 2703 c.c.). La sottoscrizione è riconosciuta legalmente anche quando viene accolta la domanda di verificazione (art. 216 c.p.c.), la quale si rende necessaria se colui contro il quale la
scrittura
è
prodotta
ha
effettuato
il
suo
disconoscimento. Anche la scrittura privata è un mezzo di prova legale e ha la stessa efficacia probatoria dell’atto pubblico; la prova per testimoni. La testimonianza consiste nella narrazione dei fatti controversi fatta al giudice da una persona estranea alla causa ma a conoscenza di essi. La testimonianza non è ammessa in tutti i giudizi ed è liberamente valutabile dal giudice. L’assunzione della prova per testimoni nel processo civile è regolata dagli artt. 244-252 c.p.c.;
la confessione e il giuramento, che sono entrambe prove legali.
La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità dei fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (art. 2730 c.c.). È una prova legale in quanto fa piena prova contro chi l’ha resa (sul presupposto che chi ammette un fatto a sé sfavorevole dice il vero). Essa, in quanto tale, vincola il giudice a tenerne conto nella formulazione del suo giudizio.
La confessione può essere giudiziale o stragiudiziale. È giudiziale se resa (in genere oralmente) durante il giudizio dinanzi al giudice; in questo caso fa piena prova contro
colui
che
l’ha
fatta
(art.
2733
c.c.).
È
stragiudiziale se, invece, è resa fuori del giudizio direttamente dalla parte o da un suo rappresentante o anche da un terzo; in questo caso essa non costituisce prova legale e deve essere liberamente valutata dal giudice.
Il giuramento è la dichiarazione con cui una parte afferma come vero un fatto, nella forma solenne prevista dalla legge.
L’art. 2736 c.c. individua due tipi di giuramento: il giuramento decisorio, che è una solenne dichiarazione resa al giudice da una parte su richiesta dell’altra parte, circa l’esistenza o meno di un determinato fatto da cui dipende la decisione totale o parziale della causa. La parte alla quale è
stato deferito il giuramento può a sua volta riferirlo alla prima, “costringendo” quest’ultima a giurare; il giuramento suppletorio, che è deferito dal giudice quando ci si trovi di fronte ad un fatto rimasto incerto, per il quale cioè la parte che aveva l’onere di provarlo ha fornito elementi abbastanza rilevanti e convincenti benché non definitivi. In questo caso la parte può perfezionare la prova confermando con il giuramento che i fatti affermati sono veri. Un particolare tipo di giuramento suppletorio è quello estimatorio, che può essere deferito per stabilire il valore di una cosa quando non sia possibile accertarlo diversamente.
L’esito del giuramento fa piena prova in ordine alle circostanze che ne formano oggetto; le presunzioni. Le presunzioni sono mezzi di prova indiretti che consentono di accertare l’esistenza di un fatto ignoto partendo dalla conoscenza di un fatto noto (art. 2727 c.c.). Le presunzioni si distinguono in: legali (art. 2728 c.c.): è la legge stessa che, in presenza di un certo fatto, considera esistente e quindi provato un altro fatto rilevante ai fini della produzione dell’effetto giuridico (es. art. 231 c.c.). Le presunzioni legali a loro volta si distinguono in assolute (iuris et de iure) o relative
(iuris tantum) a seconda che sia ammessa o meno la prova contraria; semplici (art. 2729 c.c.): è il giudice che trae liberamente determinate
conseguenze
da
un
fatto
noto.
Il
convincimento del giudice deve basarsi su presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni semplici non sono ammesse quando la legge esclude la prova per testimoni.
Capitolo 2 I soggetti di diritto 2.1 La persona fisica La nozione di situazione giuridica, quindi, è collegata a quella di soggetto di diritto: è un soggetto di diritto chiunque è titolare o può essere titolare di situazioni giuridiche attive o passive. Poiché la funzione essenziale del diritto è quella di regolare i rapporti umani all’interno di una società, è evidente che soggetto di diritto è, in primo luogo, l’uomo. L’uomo, considerato come soggetto di diritto, si definisce persona fisica. Il codice disciplina il luogo in cui la persona vive o svolge la sua attività, perché si tratta di concetti che rivestono grande importanza al fine di consentire la produzione di effetti giuridici. La sede della persona è regolata negli artt. 43 ss. cc., che a tal fine distinguono: il domicilio: è il luogo in cui una persona stabilisce la sede principale dei suoi affari e interessi; in quanto sede principale, il domicilio generale è unico, tuttavia “si può eleggere domicilio speciale per determinati atti o affari” (art. 47 c.c.). Mentre unico è il domicilio generale, si possono avere più domicili speciali;
la residenza: è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale. Dunque essa implica l’effettiva e abituale presenza del soggetto in un dato luogo, in pratica si tratta del luogo in cui principalmente abita. Il luogo di residenza incide a vari effetti giuridici: ad esempio, determina il luogo di esercizio del diritto di voto, l’appartenenza a un Comune e il luogo di notificazione degli atti giudiziari; la dimora: è il luogo in cui una persona si trova occasionalmente, in cui di fatto soggiorna, anche temporaneamente, ma non in modo precario (ad esempio, la casa di villeggiatura). La dimora è una relazione di fatto e temporanea di una persona con un dato luogo ed è rilevante per il diritto soltanto quando sono sconosciuti il domicilio e la residenza. Per le persone giuridiche non si parla di domicilio ma di sede.
2.2 La capacità giuridica Le norme giuridiche regolano, dunque, i comportamenti delle persone, le quali sono i destinatari delle norme, cioè coloro cui le norme si rivolgono. Essere titolari di situazioni giuridiche (diritti, obblighi) vuol dire avere la capacità giuridica, ossia l’idoneità a diventare titolari di diritti e doveri, propria di tutti coloro che, entro un certo ordinamento giuridico, sono considerati persone. Il nostro ordinamento riconosce ad ogni persona fisica la capacità giuridica. L’art. 1, co. 1, c.c. afferma che “La capacità giuridica si acquista nel momento della nascita” cioè nel momento in cui il feto si distacca dal grembo materno. Il bambino deve, però, essere nato vivo: il feto nato morto non acquista nemmeno per un attimo la capacità giuridica; al contrario, chi nasce vivo, anche se dovesse poi morire dopo un breve periodo di tempo, acquista la capacità giuridica con tutte le conseguenze che vi sono connesse. Ad esempio, se una persona appena nata riceve un bene in donazione, diventa titolare dei relativi diritti e, se dovesse
successivamente
morire,
si
aprirebbe
successione secondo le regole dettate dal codice civile. L’art. 1 c.c. riconosce eccezionalmente anche al concepito cioè a colui che è ancora nel ventre materno - la possibilità
la
sua
di essere titolare di diritti subordinatamente all’evento della nascita. In particolare, al concepito fanno riferimento: l’art. 462 c.c., in base al quale sono capaci di succedere mortis causa tutti coloro che sono nati o concepiti al momento dell’apertura della successione, cioè al momento della morte del soggetto della cui successione si tratta (cd. de cuius); l’art. 784 c.c., in base al quale la donazione può essere fatta anche a favore di chi è soltanto concepito. La legge fa riferimento in alcuni casi anche al nascituro non concepito, ovvero all’ipotetico figlio che potrebbe nascere da un dato potenziale genitore. Quest’ultimo può ricevere per testamento (art. 462, co. 3, c.c.) e per donazione (art. 784 c.c.), ma deve trattarsi del figlio di una determinata persona vivente al tempo del testamento o della donazione.
La capacità giuridica si perde con la morte. In quel momento il soggetto non è più persona e i suoi diritti personalissimi si estinguono, mentre gli altri si trasmettono ai suoi eredi.
2.3 La capacità di agire La capacità giuridica è dunque l’attitudine ad essere titolare di diritti e doveri. Tuttavia, per poter esercitare i diritti e adempiere agli obblighi di cui si è titolari, è necessario avere la piena capacità di agire. La capacità di agire è la capacità di disporre dei propri diritti e di assumere impegni mediante manifestazioni di volontà; in altre parole è la capacità di compiere atti giuridici in grado di incidere sulla propria sfera personale e patrimoniale. Essa si acquista con la maggiore età, ossia al compimento del 18° anno di età. Gli atti posti in essere da un minorenne sono, di regola, annullabili, a meno che il minore abbia non soltanto dichiarato, falsamente, di essere maggiorenne, ma addirittura abbia con raggiri occultato la sua minore età (art. 1426 c.c.). L’atto annullabile può essere impugnato dal rappresentante legale del minore o dallo stesso minorenne quando sia divenuto maggiorenne. Non può mai, viceversa, essere impugnato dalla controparte maggiorenne (si parla perciò di negozi claudicanti). La capacità di agire, di regola, una volta acquistata si conserva fino alla morte. Può,
tuttavia,
essere
limitata
o
esclusa
con
provvedimento del giudice anche dopo i 18 anni, se il soggetto
si trova in condizioni psicofisiche che lo rendano in tutto o in parte incapace di curare i propri interessi. Se la persona fisica è incapace d’agire occorre che altri provvedano alla cura dei suoi interessi. Ricorre in tal caso il fenomeno della rappresentanza legale. Non possono, in ogni caso, essere compiuti tramite rappresentanti gli atti personalissimi, come, ad esempio, il testamento o il matrimonio.
2.4 L’incapacità legale La minore età e l’interdizione sono incapacità legali assolute, in quanto non consentono al soggetto di compiere validamente alcun atto giuridico. Il minore di 18 anni non può compiere atti di natura negoziale, stare in giudizio, e risponderà di un atto illecito solo se nel momento in cui ha compiuto l’atto era capace di intendere e volere. Se quella sopra descritta è la regola generale, a volte è lo stesso ordinamento giuridico che riconosce al minore la capacità di porre in essere personalmente alcuni atti. Il minore che abbia raggiunto i 14 anni è richiesto, ad esempio, di prestare il proprio consenso all’adozione, nonché di prestare il proprio assenso affinché altri lo possa riconoscere (art. 250 c.c.); a 16 anni, invece, è possibile effettuare il riconoscimento del proprio figlio naturale (art. 250 c.c.), nonché, previa autorizzazione del Tribunale, contrarre matrimonio (art. 84 c.c.). Peraltro, nella quotidianità i minori vengono normalmente ammessi a compiere una serie di atti (es. acquisto di un quotidiano o del biglietto di un autobus) senza che nessuno possa impugnarli.
Il negozio compiuto dal minore è annullabile entro 5 anni, che iniziano a decorrere dal raggiungimento della maggiore età
da parte di questi. L’impugnativa può essere proposta solo da un rappresentante legale del minore ovvero direttamente da questi, una volta divenuto maggiorenne. Altra causa di incapacità assoluta è l’interdizione giudiziale, la quale ricorre quando il maggiore di età o il minore emancipato, i quali siano affetti da abituale e duratura infermità mentale, siano dichiarati con sentenza incapaci di provvedere ai loro interessi quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione (art. 414 c.c.). La L. 6/2004 ha, infatti, reso l’interdizione non più obbligatoria, disponendo la sua necessaria pronuncia solo nell’ipotesi in cui ciò si riveli necessario ai fini di un’adeguata protezione dell’incapace. Diversamente, il giudice potrebbe ritenere
più
opportuno
applicare
il
diverso
istituto
dell’amministrazione di sostegno (vedi infra). L’interdizione è pronunciata dal tribunale con sentenza, su iniziativa delle persone indicate dall’art. 417 c.c. e determina l’incapacità assoluta dell’interdetto. Gli atti compiuti dall’interdetto dopo la sentenza di interdizione
sono
annullabili
su
istanza
del
tutore,
dell’interdetto o dei suoi eredi o aventi causa. La modificazione dell’interdizione deve essere chiesta al giudice dalle stesse persone legittimate a chiederla; si può anche trasformare l’interdizione in inabilitazione qualora il soggetto non sia più gravemente infermo. Dall’interdizione giudiziale si distingue l’interdizione legale, che è una pena accessoria prevista per chi sia stato
condannato all’ergastolo o a una pena non inferiore a cinque anni per reato doloso (art. 32 c.p.). L’interdetto
legale
può
fare
testamento,
sposarsi,
riconoscere figli. L’interdetto legale, finché dura la pena, è incapace d’agire per gli atti patrimoniali, ma conserva una piena capacità d’agire in materia di atti personali e familiari, e gli si applicano, per la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni, le norme dettate per l’interdetto giudiziale.
2.5 L’incapacità naturale L’art. 428 c.c. descrive l’incapacità naturale come la condizione in cui si trova il soggetto che, sebbene non interdetto, si provi essere stato per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al momento del compimento di un atto. In tale situazione può trovarsi: l’infermo di mente non interdetto, il malato grave, l’anziano, il drogato, l’ubriaco. L’incapacità naturale può consistere sia in una condizione permanente
di
incapacità
sia
in
una
situazione
transitoria: ciò che conta, affinché l’incapacità naturale assuma rilevanza, è il momento in cui un atto giuridico sia stato posto in essere. Incapacità naturale o di fatto è, dunque, l’incapacità di intendere e di volere in cui si viene a trovare un soggetto (anche temporaneamente) normalmente capace nel momento in cui compie determinati atti. L’atto compiuto dal naturalmente incapace è sempre annullabile, su istanza dello stesso incapace o dei suoi eredi o aventi causa, ma si deve dimostrare che nel momento in cui si è compiuto sussisteva effettivamente una condizione di incapacità di intendere e di volere. In particolare:
per gli atti unilaterali (ad esempio, la rinuncia ad un diritto): l’annullabilità è ammessa se dall’atto compiuto derivi un grave pregiudizio per il naturalmente incapace; per i contratti: è ammessa l’annullabilità se, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace, risulta la malafede dell’altro contraente; per alcuni atti più gravi (quali il matrimonio, la donazione e il testamento): l’annullabilità consegue automaticamente alla sola incapacità senza che sia necessaria la sussistenza di ulteriori presupposti.
2.6 Parziale incapacità di agire L’emancipazione è lo status di limitata capacità di agire di un minorenne che, avendo compiuto i 16 anni, è stato eccezionalmente ammesso, per gravi motivi, a contrarre matrimonio dal Tribunale per i minorenni. Con il matrimonio il minore risulta emancipato di diritto, ossia senza bisogno di altri provvedimenti. Con l’emancipazione il minore acquista una capacità di agire limitata agli atti di ordinaria amministrazione. Il soggetto emancipato, dunque, non può compiere da solo gli atti che possano incidere sul suo patrimonio, ma può compiere validamente atti di ordinaria amministrazione, gli atti, cioè, diretti a conservare l’integrità e lo stato del patrimonio e che non incidono in maniera rilevante sullo stesso. L’emancipato può anche essere autorizzato dal Tribunale (previo parere del giudice tutelare e sentito il curatore) all’esercizio di un’impresa commerciale senza l’assistenza del curatore. In tal caso, il minore emancipato può compiere da solo anche gli atti di straordinaria amministrazione, pure se estranei all’esercizio dell’impresa (art. 397 c.c.). Lo stato di emancipazione cessa con il raggiungimento della maggiore età. Altra
situazione
di
parziale
incapacità
di
agire
è
l’inabilitazione, una situazione giuridica conseguente a
particolari condizioni fisico-psichiche che rendono il soggetto parzialmente incapace. In particolare, ai sensi dell’art. 415 c.c., possono essere inabilitati: il maggiore di età infermo di mente le cui condizioni non sono così gravi da richiedere l’interdizione; colui che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti, espone sé o la sua famiglia a gravi pregiudizi economici; il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto una educazione sufficiente, a meno che per questi soggetti non si debba procedere all’interdizione quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi. Anche l’inabilitazione è pronunciata dal Tribunale con sentenza, su iniziativa delle persone indicate dall’art. 417 c.c., sentenza che determina l’incapacità relativa dell’inabilitato. In base alle disposizioni del codice civile, l’inabilitato può compiere da solo gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti personali (es. matrimonio, riconoscimento di figlio naturale, etc.). Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione occorre, invece, l’autorizzazione del giudice tutelare ed il consenso del curatore; tuttavia il giudice, nella sentenza che pronuncia l’inabilitazione, o in successivi provvedimenti, l’ordinaria
può
stabilire
amministrazione
che
taluni
possano
atti
eccedenti
essere
compiuti
dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore (art. 427, co. 1, c.c.). Anche l’inabilitato può essere autorizzato all’esercizio di un’impresa commerciale (come il minore emancipato), ma in
questo caso deve trattarsi della continuazione di un’impresa preesistente (art. 425 c.c.). L’inabilitazione può anche essere revocata. La revoca viene disposta quando cessa la causa che vi ha dato luogo; legittimati a chiederla sono gli stessi soggetti che possono promuovere il procedimento di inabilitazione.
2.7 Istituti di protezione degli incapaci Ogni soggetto legalmente incapace di agire deve avere un rappresentante legale che sia in condizione di curare i suoi interessi e compiere ogni atto giuridico opportuno in sostituzione dell’incapace. Si parla di rappresentanza legale per sottolineare il fatto che il potere è conferito dalla legge e non dall’interessato, come avviene in ipotesi di rappresentanza volontaria ex art. 1387 c.c.
2.7.1 La responsabilità genitoriale Per i minorenni, la rappresentanza legale spetta ai genitori,
che
ne
hanno
la
responsabilità.
La
responsabilità genitoriale è istituto che, per effetto del D.Lgs. 154/2013, recante la riforma in materia di filiazione ed emanato in attuazione della delega contenuta nella L. 219/2012 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), ha sostituito quello, ormai vetusto, della potestà dei genitori. L’art. 316 c.c., come novellato dal decreto legislativo citato, afferma che entrambi i genitori hanno la «responsabilità genitoriale», esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. Nel caso di lontananza, di incapacità o di altro
impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro (art. 317 c.c.). La responsabilità genitoriale di entrambi i genitori non cessa a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento e nullità del matrimonio. Nella responsabilità genitoriale, come già nella potestà, si ritrova un potere di rappresentanza degli incapaci e di amministrazione dei loro beni. I genitori esercenti la responsabilità genitoriale rappresentano i figli nati e nascituri fino alla maggiore età o all’emancipazione in tutti gli atti civili, salvo quelli personalissimi, e ne amministrano i beni. genitori esercenti la detta responsabilità hanno ancora in comune l’usufrutto legale sui beni del figlio fino alla maggiore età o all’emancipazione (art. 324 c.c.). Quanto, infine, agli obblighi gravanti sui genitori, questi sono contemplati dall’art. 147 c.c., come opportunamente riformulato dal D.Lgs. 154/2013, per renderlo conforme alle previsioni contenute nel neo-introdotto art. 315-bis c.c. Attualmente, pertanto, il citato art. 147 c.c. impone ad entrambi i genitori il dovere di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli, tenendo conto delle loro capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni.
2.7.2 La tutela Ai minori privi di genitori, o i cui genitori non sono in grado di esercitare la potestà, ed agli interdetti, deve essere nominato un tutore; la nomina spetta al giudice tutelare.
Quest’ultimo nomina anche un protutore, il quale rappresenta l’incapace quando l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore ed è tenuto a promuovere la nomina di un nuovo tutore qualora questo sia venuto a mancare o abbia abbandonato l’ufficio (in questo caso, il protutore ha anche la cura della persona dell’incapace, lo rappresenta e può fare tutti gli atti conservativi e gli atti urgenti di amministrazione). Il tutore è il rappresentante legale dell’incapace ed interviene in tutti gli altri atti sia di ordinaria sia di straordinaria amministrazione, con l’unica eccezione degli atti personalissimi (es. matrimonio, testamento), che non possono essere compiuti neanche dal tutore. In particolare, questi: compie da solo gli atti di ordinaria amministrazione del patrimonio e quelli necessari per il mantenimento dell’incapace; compie con l’autorizzazione del giudice tutelare gli atti di straordinaria amministrazione indicati dall’art. 347 c.c. (acquisto di beni, riscossione di capitali, etc.); compie con l’autorizzazione del tribunale gli atti di disposizione indicati dall’art. 375 c.c. (alienazione di beni). Tutti gli atti compiuti dall’incapace personalmente, nonché gli atti compiuti dal tutore senza l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, sono annullabili.
2.7.3 L’assistenza
All’incapacità relativa o parziale (propria del minore emancipato e dell’inabilitato) si ovvia, per gli atti di straordinaria amministrazione, facendo ricorso all’assistenza, che è affidata al curatore. Questi non si sostituisce, come accade
nella
rappresentanza
legale,
all’emancipato
o
all’inabilitato, che esprimono anch’essi la loro volontà, ma integra la dichiarazione di volontà dell’uno o dell’altro. Perché l’atto sia valido, il curatore deve dare il suo assenso. Nominato dal giudice tutelare, il curatore, a differenza del tutore, non rappresenta il soggetto, ma ne integra la volontà e ne cura solo gli interessi di natura patrimoniale. Più precisamente, il minore emancipato e l’inabilitato (art. 394 c.c.): possono
compiere
da
soli
gli
atti
di
ordinaria
amministrazione; possono, con l’assistenza del curatore, riscuotere capitali e stare in giudizio; per gli altri atti di straordinaria amministrazione, necessitano
del
consenso
del
curatore
e
dell’autorizzazione del giudice tutelare; per gli atti di disposizione indicati dall’art. 375 c.c., se curatore non è il genitore
dell’incapace,
l’autorizzazione
è
data
dal
tribunale, su parere del giudice tutelare. Gli atti compiuti senza osservare le prescritte formalità sono annullabili.
2.7.4 L’amministrazione di sostegno
L’istituto
dell’amministrazione
di
sostegno
è
stato
introdotto dalla L. 6/2004. Scopo del legislatore è stato quello di approntare un sistema di tutela più articolato e flessibile nella continua ricerca di un equilibrio tra l’esigenza di protezione dell’incapace e la pur sempre rilevante esigenza di libertà della persona. L’amministrazione di sostegno è così divenuta la figura generale fra le misure di protezione della persona che, a causa di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica,
si
trovi
nell’impossibilità,
anche
parziale
o
temporanea, di provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.). Per effetto di tale istituto l’incapacità di agire vede ridotta la sua estensione al minimo indispensabile, atteso che il giudice è tenuto
a
determinare
specificamente
gli
atti
riservati
all’amministratore di sostegno ovvero da compiere con la sua assistenza, riservando all’incapace il compimento di alcuni atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione. Principio fondamentale è dunque quello secondo cui sono consentiti alla persona sottoposta all’amministrazione di sostegno tutti gli atti non specificamente vietati. La persona, infatti, conserva la capacità di agire per tutti gli «atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria» dell’amministratore e in ogni caso, per gli «atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana» (art. 409 c.c.). L’amministrazione di sostegno è disposta dal giudice tutelare su ricorso dello stesso soggetto beneficiario o degli altri soggetti indicati dalla legge allorquando ricorra:
infermità o menomazione fisica o psichica della persona; impossibilità per il soggetto di provvedere ai propri interessi. Il giudice tutelare, all’atto della nomina dell’amministratore di sostegno (persona designata, con particolari formalità, dallo stesso interessato ovvero persona individuata nell’ambito di una ristretta cerchia di soggetti), in relazione alle specifiche esigenze del soggetto amministrato, previamente ascoltato, indica: gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario; gli atti cui l’amministratore di sostegno deve dare il proprio assenso, limitandosi ad assistere il soggetto amministrato. Con conseguente annullabilità, in entrambi i casi, degli atti posti in essere autonomamente dal soggetto beneficiario. In relazione agli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, non rientranti in quelli su elencati, il beneficiario conserva integra la propria capacità di agire.
2.8 Cessazione della persona fisica La personalità giuridica dell’individuo si estingue con la morte. Si tende a considerare decisiva la morte cerebrale, consistente nell’irreversibile cessazione di ogni attività del sistema nervoso centrale. L’accertamento del momento della morte è importante ai fini della disciplina dei trapianti. Al momento della morte, inoltre, si apre la successione del defunto (art. 456 c.c.). Se due persone muoiono nello stesso sinistro, può avere rilevanza stabilire quale delle due sia morta prima, ai fini dei diritti ereditari. Quando non è possibile accertare la sopravivenza di una persona all’altra, la legge presume che esse siano morte tutte nello stesso istante (art. 4 c.c.). È questo l’istituto della commorienza: si tratta, in particolare, di una presunzione in base alla quale tutti i soggetti morti a causa di uno stesso evento (incidente aereo, ferroviario, naufragio) si considerano deceduti tutti nello stesso istante per cui nessuno può essere considerato successore dell’altro. Può accadere, inoltre, che vi sia una incertezza sull’esistenza di una persona, perché – pur non avendosene più notizie – non ne è provata la morte. Tale incertezza è molto rilevante in quanto ogni diritto deve avere un suo legittimo titolare. Se quest’ultimo non dà più sue
notizie, è necessario accertarne l’eventuale morte e, nel frattempo, gestire i rapporti giuridici facenti capo alla sua persona. Il diritto, in questi casi, disciplina distinte fattispecie.
2.8.1 La scomparsa e l’assenza Persona
scomparsa
è
quella
rispetto
alla
quale
concorrono l’allontanamento dal luogo del suo ultimo domicilio o residenza e la mancanza di notizie. Sussistendo i predetti requisiti, il tribunale dell’ultimo domicilio o residenza può nominare un curatore il quale rappresenterà lo scomparso negli atti che siano necessari per la conservazione del suo patrimonio. Legittimati a chiedere la nomina del curatore sono:
coloro che hanno un interesse concreto ed attuale, perché riceverebbero un danno dall’abbandono della cura del patrimonio dello scomparso (es. il titolare di un credito nei suoi confronti); i presunti successori legittimi, cioè coloro che sarebbero chiamati alla successione legittima (art. 565 c.c.) se lo scomparso fosse morto; il Pubblico Ministero. Lo scomparso non può ricevere eredità né acquistare altri diritti. Qualora venga aperta una successione in favore dello scomparso, alla successione stessa saranno chiamati coloro ai quali sarebbe spettata in sua mancanza.
L’assenza è la situazione che si verifica quando la scomparsa della persona si protrae per più tempo. È dichiarata con sentenza, trascorsi due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia della persona. Sono legittimati a chiedere la dichiarazione di assenza i presunti successori legittimi e coloro che ragionevolmente credano di avere sui beni dello scomparso diritti dipendenti dalla morte di lui.
La dichiarazione di assenza può determinare alcune conseguenze particolarmente importanti, tutte relative al campo dei rapporti patrimoniali. In particolare, ad essa possono fare seguito: l’apertura del testamento dell’assente, se questi lo ha redatto. Tale apertura è ordinata dal tribunale, su domanda di qualunque interessato o del Pubblico Ministero; l’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente, su domanda di coloro che sarebbero eredi testamentari o legittimi dell’assente stesso, se questi fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima notizia a lui relativa (anche in questo caso, la competenza spetta al tribunale); l’esercizio temporaneo dei diritti conseguenti alla eventuale morte dell’assente; il temporaneo esonero dall’adempimento delle obbligazioni
delle
quali
produrrebbe la liberazione.
la
morte
dell’assente
La dichiarazione di assenza non scioglie però il matrimonio dell’assente. L’assenza cessa: con il ritorno dell’assente o con la prova della sua esistenza. La cessazione dell’assenza è automatica, nel senso che non richiede una pronuncia da parte del giudice, e l’assente ha diritto di ottenere la restituzione dei beni nello stato in cui si trovano; con la prova della morte dell’assente. Anche in questo caso, la cessazione dell’assenza è automatica e si determina l’apertura della successione a favore di coloro che al momento della morte erano suoi eredi o legatari, pure se non immessi nel possesso dei beni; con la dichiarazione di morte presunta.
2.8.2 La dichiarazione di morte presunta Viene pronunciata con sentenza del Tribunale quando siano trascorsi dieci anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia, o la scomparsa si riconnette ad avvenimenti (guerra, infortuni) che fanno apparire probabile la morte; produce effetti analoghi a quelli prodotti dalla morte. Gli aventi diritto possono disporre liberamente dei beni e il coniuge può contrarre nuovo matrimonio. Essa, tuttavia, dà luogo solo ad una presunzione di morte; quindi, se la persona ritorna o se ne prova l’esistenza, recupera i beni nello stato in cui si trovano, ha diritto di conseguire il prezzo di quelli alienati e il nuovo matrimonio
contratto dal coniuge è invalido. Tuttavia, l’annullamento non pregiudica i figli, i quali restano legittimi.
2.9 Le persone giuridiche L’ordinamento attribuisce una soggettività giuridica ad enti
diversi
dalle
persone
umane
per
assicurare
il
raggiungimento di uno scopo che, o per la grande onerosità o perché la durata oltrepassa la vita umana, non sarebbe possibile conseguire per il tramite di un’unica persona. Il nostro ordinamento, dunque, considera soggetti di diritto anche alcune organizzazioni collettive. Per organizzazione si intende un insieme di persone fisiche che hanno in comune: regole che determinano gli scopi; regole sull’appartenenza dei soggetti all’organizzazione; regole sulle risorse da acquisire e utilizzare per il conseguimento degli scopi; regole per determinare quali dei soggetti appartenenti all’organizzazione possano o debbano agire per essa.
Le organizzazioni collettive possono essere classificate in base a diversi criteri, ma il più importante è quello che distingue: le persone giuridiche o organizzazioni riconosciute; gli enti di fatto o organizzazioni non riconosciute. Per persona giuridica si intende quel complesso organizzato di persone e di beni, rivolto ad uno scopo, al quale
la legge riconosce espressamente la qualifica di soggetto di diritto. Le persone giuridiche, insomma, sono soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche, ma che godono ugualmente della capacità giuridica ovvero della capacità di essere titolari di situazioni giuridiche soggettive. La personalità giuridica si consegue con l’iscrizione dell’ente nel registro delle persone giuridiche. L’acquisto
della
un’organizzazione
personalità collettiva
giuridica comporta
da
parte
di
innanzitutto
un’autonomia patrimoniale perfetta, ovvero la netta separazione del patrimonio dell’ente da quello delle persone fisiche che lo compongono, in modo che il primo risulti insensibile ai debiti personali dei soci e, correlativamente, questi non rispondano dei debiti dell’ente medesimo. È la legge che stabilisce quali tipi di organizzazioni sono persone giuridiche e quali requisiti esse debbano avere a questo fine. Gli enti di fatto o organizzazioni non riconosciute sono prive della personalità giuridica e godono di un’autonomia patrimoniale cd. imperfetta, in quanto la separazione tra patrimonio dell’ente e patrimonio di coloro che lo compongono è meno netta.
2.10 Classificazioni delle organizzazioni collettive In relazione alla loro natura giuridica, le organizzazioni collettive si dividono in enti pubblici e persone giuridiche private. Gli enti pubblici perseguono uno scopo di caratere pubblico, mirando a garantire che la vita sociale possa svolgersi in modo sufficientemente ordinato e sicuro attraverso l’esercizio di un potere di supremazia nei confronti degli altri soggetti. Ad esempio è ente pubblico lo Stato, che è l’organizzazione sovrana di un popolo su un determinato territorio, ma anche le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni, cioè le organizzazioni che formano le istituzioni del popolo italiano. Proprio perché esse hanno come ragione della loro esistenza il soddisfacimento degli interessi della comunità (o interessi
pubblici),
sono
dette
persone
giuridiche
pubbliche o enti pubblici. Anche le organizzazioni pubbliche hanno la stessa capacità giuridica degli altri soggetti, tuttavia, a causa del loro fine, hanno speciali poteri detti potestà; tali enti, ad esempio, possono imporre determinati comportamenti con propri atti normativi o con provvedimenti.
Poiché gli enti pubblici devono perseguire i fini che la comunità stessa si pone e pone loro, la loro organizzazione e la loro attività sono parzialmente regolate dal diritto privato, ma fondamentalmente sono regolate dalle norme del diritto pubblico, ramo del diritto che disciplina l’organizzazione pubblica e parte dei rapporti tra l’organizzazione pubblica e i soggetti privati.
2.11 Le persone giuridiche private Le persone giuridiche private perseguono uno scopo di carattere privato, sebbene possano essere utilizzate anche per la realizzazione di fini pubblici, e sono disciplinate dal diritto privato. Sono tradizionalmente annoverate tra le persone giuridiche private le associazioni riconosciute e le fondazioni, nonché le società che acquistino la personalità giuridica con l’iscrizione nel registro delle imprese.
2.11.1 Le associazioni Nelle associazioni più persone stringono tra loro un accordo di collaborazione per perseguire, insieme, un determinato scopo da esse stesse deciso, per il cui raggiungimento saranno necessari dei mezzi. È, dunque, accanto
all’elemento
personale,
importante
anche
l’elemento patrimoniale. Non minore importanza assume il fine non di lucro: lo scopo, cioè, deve essere di tipo ideale, non economico. Relativamente alla costituzione delle associazioni, ad essa si perviene mediante la redazione di due atti distinti e separati. Tali sono:
l’atto costitutivo, che è il negozio formale col quale più persone
creano
un’organizzazione
stabile
per
il
perseguimento di uno scopo non lucrativo. Tale negozio deve avere la forma dell’atto pubblico e deve contenere le determinazioni della volontà delle parti in ordine alla costituzione
del
fondamentali
di
nuovo
ente
esso
nonché
gli
(indicazione
elementi
del
nome
dell’associazione, dello scopo, del patrimonio e della sede, dei diritti e degli obblighi degli associati e delle condizioni per la loro ammissione); lo statuto, cioè il documento, redatto nella forma dell’atto pubblico, contenente le norme destinate a regolamentare la vita dell’ente. Organi dell’associazione sono: l’assemblea dei soci, che deve essere convocata almeno una volta all’anno per l’approvazione del bilancio; ad essa spettano l’indirizzo complessivo e le scelte fondamentali sull’attività
da
svolgere.
L’assemblea,
oltre
all’approvazione del bilancio, ha competenza anche per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, per l’esclusione dell’associato per gravi motivi,
per
lo
scioglimento
dell’associazione
e
la
devoluzione del patrimonio, nonché per tutte le materie che siano alla stessa demandate dallo statuto; gli amministratori, i quali costituiscono l’organo esecutivo dell’ente; ad essi è demandata la rappresentanza
all’esterno, la gestione e la cura dell’esecuzione delle delibere assembleari.
2.11.2 Le fondazioni La fondazione è un’organizzazione collettiva che si avvale di un patrimonio per la realizzazione di uno scopo di pubblica utilità; tale ente è tradizionalmente definito come “universitas bonorum”, per sottolineare che, a differenza dell’associazione, l’elemento personale è servente rispetto al patrimonio. Con riguardo alle fondazioni, occorre distinguere tra: il negozio di fondazione, atto unilaterale col quale si imprime la destinazione al patrimonio, e che può essere contenuto in un atto tra vivi, che abbia la forma dell’atto pubblico, o in un testamento; l’atto di dotazione, mediante il quale è realizzata l’attribuzione patrimoniale dei beni, a titolo gratuito, al futuro ente da costituire; anche in questo caso si tratta di un negozio unilaterale, avente natura patrimoniale. Anche per le fondazioni, inoltre, è necessario lo statuto, con le stesse caratteristiche di quello dell’associazione. Mentre nell’associazione i soci dispongono liberamente dell’associazione stessa, nelle fondazioni non ci sono soci e gli amministratori possono soltanto operare per raggiungere nel modo migliore gli scopi assegnati all’ente con l’atto di fondazione. La vita e gli atti delle fondazioni sono sottoposti ai controlli dell’autorità pubblica che può anche annullare le
deliberazioni che sono contrarie a norme imperative, all’atto di fondazione, all’ordine pubblico, al buon costume. Se lo scopo è stato raggiunto o non è più possibile raggiungerlo, la fondazione dovrebbe estinguersi. La legge tende però a conservare in vita questi enti prevedendo la possibilità della loro trasformazione. In particolare, quando lo scopo è esaurito o è divenuto impossibile o di scarsa utilità, o ancora il patrimonio è divenuto insufficiente, l’autorità amministrativa,
anziché
dichiarare
l’estinzione
della
fondazione può provvedere alla sua trasformazione, cercando il più possibile di rispettare la volontà del fondatore. La trasformazione comporta l’assunzione di uno scopo nuovo che deve però essere simile a quello originario.
2.11.3 Differenze tra associazioni e fondazioni Gli elementi costitutivi della persona giuridica sono, per le associazioni: una pluralità di persone e lo scopo comune; per le fondazioni: il patrimonio e lo scopo. Una fondamentale differenza tra i due modelli attiene, pertanto, innanzitutto all’elemento personalistico, prevalente nelle associazioni, e in secondo luogo allo scopo, che nelle associazioni promana dalle persone che le compongono, mentre nelle fondazioni la volontà è esterna all’ente, in quanto promana da un fondatore. Nelle fondazioni, inoltre, a differenza delle associazioni, poiché sussiste solo un patrimonio destinato ad uno scopo, l’unico organo è rappresentato dagli amministratori che sono
deputati ad amministrare il patrimonio e ad erogare le rendite. Manca, pertanto, l’organo rappresentato dall’assemblea. Ancora, a differenza delle associazioni, che possono perseguire ogni scopo che non sia lucrativo, le fondazioni devono perseguire uno scopo di pubblica utilità. Non è sufficiente, tuttavia, che sussistano i soli elementi indicati ai fini dell’attribuzione della personalità giuridica, occorrendo a tal fine anche il riconoscimento. Le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante l’iscrizione dell’ente nel registro delle persone giuridiche istituito presso le prefetture (ora denominate Uffici Territoriali del Governo). Per ottenere l’iscrizione è necessario che l’atto costitutivo e lo statuto siano stati redatti secondo le prescrizioni di legge, che lo scopo sia lecito e determinabile e che il patrimonio sia adeguato al conseguimento dello scopo perseguito. La domanda d’iscrizione nel registro delle persone giuridiche deve essere presentata al prefetto (insieme all’atto costitutivo e allo statuto). Una fondazione può esistere soltanto a condizione che chieda e ottenga il riconoscimento come persona giuridica; le associazioni,
invece,
possono
esistere
anche
senza
il
riconoscimento, in questo caso prendono il nome di associazioni non riconosciute.
2.11.4 Le associazioni non riconosciute
Sono tali le associazioni che non hanno chiesto il riconoscimento o, seppure l’hanno chiesto, questo è stato negato o non è stato ancora concesso. L’associazione non riconosciuta è, dunque, una organizzazione stabile di persone, priva di personalità giuridica, diretta a uno scopo non di lucro. La differenza con le associazioni riconosciute è da rinvenirsi esclusivamente nella
mancanza
di
conseguentemente,
personalità
nell’autonomia
giuridica
e,
patrimoniale
imperfetta. Le associazioni non riconosciute sono caratterizzate da: scopo lecito: naturalmente si presuppone che lo scopo a cui l’attività di queste organizzazioni è rivolta sia lecito, altrimenti si costituirebbe reato; efficacia degli accordi inerni degli associati: viene riconosciuta efficacia agli accordi intervenuti tra gli associati per quanto attiene all’ordinamento interno, cioè ai rapporti tra gli associati stessi e tra questi e l’associazione, e all’amministrazione dei beni; fondo comune: i contributi degli associati e i beni acquistati con essi costituiscono il fondo comune dell’associazione,
destinato
a
soddisfare
i
creditori
dell’associazione; autonomia patrimoniale imperfetta: i creditori non possono far valere i propri diritti sul patrimonio dei singoli associati, ma sul fondo comune; tuttavia, per le obbligazioni
dell’associazione
rispondono
anche,
personalmente e solidalmente, le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione; capacità processuale: alle associazioni non riconosciute è attribuita la capacità processuale; esse, cioè, possono stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, secondo gli accordi degli associati, è conferita la presidenza o la direzione dell’associazione. Fanno parte di tale tipologia di associazioni un gran numero di enti tra cui i partiti politici, i sindacati, i circoli di cultura, le associazioni sportive ecc.
2.12 I comitati I comitati sono gruppi di persone che si propongono di raccogliere fondi per un fine determinato. Si possono costituire senza formalità, anche verbalmente. Il comitato, una volta raccolti per pubblica sottoscrizione fondi sufficienti al perseguimento dello scopo annunciato, può richiedere ed ottenere il riconoscimento e, con esso, la personalità giuridica (art. 41 c.c.): il procedimento e le condizioni per il riconoscimento sono i medesimi previsti per il riconoscimento delle associazioni e delle fondazioni. Non è escluso, tuttavia, che il comitato possa vivere anche come ente non riconosciuto dotato di semplice soggettività. Come detto, il comitato mira alla formazione di un patrimonio destinato ad uno scopo. I fondi si raccolgono con le offerte dei singoli che, di regola, avendo per oggetto beni mobili di modico valore, devono considerarsi donazioni manuali. Gli organizzatori, e coloro che assumono la gestione dei fondi raccolti, sono responsabili, sia verso gli oblatori sia verso
i
destinatari
delle
offerte,
personalmente
e
solidalmente della conservazione dei fondi e della loro destinazione allo scopo (art. 40 c.c.). Accanto a questa responsabilità civile può sussistere, ove ne ricorrano gli estremi, la responsabilità penale (appropriazione indebita).
Se sono state assunte obbligazioni verso terzi, di queste rispondono personalmente e solidalmente i componenti del comitato. I sottoscrittori sono tenuti solo ad effettuare le oblazioni
promesse.
È
stata
riconosciuta
la
capacità
processuale anche al comitato, che può stare in giudizio nella persona del presidente. Se i fondi raccolti sono insufficienti o lo scopo non si può attuare o, raggiunto lo scopo, vi è un residuo di fondi, sulla devoluzione dei beni provvede l’autorità competente.
2.13 Il rapporto organico Tutti gli enti formali, in quanto tali, per compiere scelte giuridicamente rilevanti necessitano di una persona fisica investita del potere di rappresentanza, cioè del potere di produrre effetti sulla sfera giuridica dell’ente, agendo in nome e per conto dello stesso; si parla di rapporto organico per indicare che il fenomeno è necessario e inevitabile, in quanto l’ente formale non è un essere umano e quindi non può che esprimersi in questo modo. Il potere di rappresentanza è individuato e delimitato da regole interne e autonome dall’ente, che spesso si rinvengono nell’atto costitutivo o nello statuto, ma anche in successive decisioni dell’assemblea, quando sussiste, la quale è l’organo deliberativo plenario (che comprende cioè tutti gli associati) e assume le scelte fondamentali dell’ente. Il potere rappresentativo può essere attribuito agli amministratori, cioè a coloro che gestiscono l’ente adottando iniziative non specificamente riservate all’assemblea, ma può essere attribuito anche al presidente dell’ente; in ogni caso queste funzioni possono essere concentrate nella stessa persona. Negli enti dotati di personalità giuridica (artt. 14 e ss. c.c) si realizza, si è detto, una piena separazione patrimoniale, per cui gli atti compiuti da chi ha la rappresentanza legale dell’ente producono effetti solo a carico dell’ente stesso; la conseguenza
pratica è che il creditore dell’ente, ove il patrimonio dell’ente risultasse insufficiente, non potrà rivalersi su quello del rappresentante legale, dell’amministratore o degli associati. Diversamente, negli enti privi di personalità giuridica (cd. enti di fatto): coloro che hanno agito in nome e per conto dell’ente rispondono sempre, insieme all’ente, delle obbligazioni che hanno assunto in nome e per conto dell’ente (art. 38 c.c.); ai comitati si applicano le regole seguenti: i componenti rispondono
solidalmente
e
personalmente
delle
obbligazioni assunte per il raggiungimento dello scopo (qui la responsabilità è legata alla posizione di promotori, non all’aver agito in nome e per conto dell’ente); verso i sottoscrittori
sono
invece
i
gestori
a
rispondere
personalmente e solidalmente della effettiva destinazione delle somme raccolte allo scopo promesso; i sottoscrittori sono invece tenuti solo a versare i contributi promessi.
2.14 L’estinzione delle persone giuridiche Le persone giuridiche non sono soggette alla morte; la loro estinzione ha luogo per cause previste: nell’atto costitutivo; nello statuto; per il venire meno dello scopo, elemento fondamentale per l’esistenza della persona giuridica; per lo scioglimento disposto dall’assemblea o dalla pubblica autorità competente; oppure perché tutti gli associati sono venuti a mancare. L’estinzione non ha luogo automaticamente, ma è necessario un provvedimento di carattere pubblico: la dichiarazione dell’autorità competente su istanza di qualunque interessato o di ufficio. Ma neppure questo provvedimento vale a segnare la fine della persona giuridica: esso serve solo a determinare il passaggio alla fase della liquidazione. Durante questa fase la personalità dell’ente continua a sussistere, ma con la limitazione che possono essere compiuti solo gli atti necessari per la finalità della liquidazione. Ricevuta, infatti, la comunicazione del provvedimento di estinzione, gli amministratori non possono compiere nuove operazioni. I beni residuati dalla liquidazione sono devoluti secondo le disposizioni dell’atto costitutivo o dello statuto; in mancanza di queste provvede l’autorità competente.
Capitolo 3 La famiglia 3.1 La nozione giuridica di famiglia Al gruppo familiare fanno riferimento alcune norme della Costituzione. In particolare l’art. 29 Cost. stabilisce che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e aggiunge che quest’ultimo è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare. La
famiglia
presa
in
considerazione
dalla
norma
costituzionale è la famiglia fondata sul matrimonio. Pertanto, la Costituzione riconosce e tutela un particolare tipo di famiglia, che si fonda su di un atto formale giuridico, il matrimonio, con il quale due persone s’impegnano a condividere la propria vita e dal quale discendono per i coniugi una serie di diritti e doveri reciproci. È
affermata,
nel
precetto
costituzionale,
la
regola
dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Dal matrimonio, quindi, derivano eguali doveri e eguali diritti in capo ai coniugi (eguaglianza giuridica) e la disciplina dei loro rapporti deve essere tale da proteggere in modo eguale la dignità personale di ciascuno e da evitare qualsiasi sacrificio
della personalità di un coniuge a vantaggio dell’altro (eguaglianza morale). L’art. 30 Cost. dispone che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Anzi, all’indomani della L. 219/2012 e del D.Lgs. 154/2013 (riforma della filiazione) è assicurata ai figli nati fuori
del
matrimonio
ogni
tutela
giuridica
e
sociale
riconosciuta ai figli nati all’interno del vincolo coniugale, così completandosi la riforma già intrapresa con la L. 151/1975. L’istruzione e l’educazione dei figli è, in primo luogo, un dovere, perché la norma intende proteggere gli interessi della prole; è, però, anche un diritto, in quanto i genitori possono scegliere liberamente il tipo di educazione che ritengono più opportuno, purché non sia lesivo della personalità della prole. Solo in caso di incapacità dei genitori, la legge può provvedere affinché i loro compiti siano assolti da altre persone. L’art. 31 Cost. individua i compiti della Repubblica relativamente alla protezione della famiglia, della maternità e dell’infanzia. Tutte queste disposizioni vanno lette alla luce dell’art. 2 Cost., in base al quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. La famiglia, infatti, è considerata una delle più importanti formazioni sociali alle quali tale norma fa riferimento; essa rappresenta un fondamentale gruppo intermedio tra lo Stato e il singolo individuo e deve essere difesa come luogo e
strumento di espressione della persona. Tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. può essere ricompressa anche la cd. famiglia
di
fatto, ovvero l’unione non fondata sul
matrimonio, ma comunque stabile e duratura e basata sul rispetto e sulla solidarietà reciproca. Anche le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono oggi esplicitamente qualificate come formazioni sociali dall’art. 1 comma 1 della legge istitutiva (L. 76/2016).
3.2 La riforma del diritto di famiglia I principi posti dalla Costituzione sono rimasti inattuati per molti anni, in quanto i rapporti familiari sono stati disciplinati, fino alla riforma del 1975, dalle norme del codice civile del 1942. Tali norme trovavano fondamento in una struttura verticistica della famiglia, che poneva a capo del gruppo familiare il marito, il quale disponeva di un pieno potere sui figli e sulla moglie; inoltre, discriminavano fortemente i figli nati da persone non sposate tra di loro. A seguito dell’evolversi dei costumi sociali, una certa attenzione è stata data, nel tempo, anche alla cd. famiglia di fatto, cioè a quella che si è definita come unione non fondata sul matrimonio, ma comunque stabile e duratura e basata sul rispetto e sulla solidarietà reciproca. Del resto, anche una famiglia di fatto può essere considerata una “formazione sociale ove si svolge la personalità” dell’essere umano. La L. 19-5-1975, n. 151 ha riformato profondamente il diritto di famiglia, ovvero quell’insieme di regole che disciplinano il matrimonio e i rapporti tra i coniugi, nonché la filiazione e i rapporti tra genitori e figli, modificando gran parte degli articoli del codice civile in materia. I punti più importanti della legge di riforma sono i seguenti:
eguaglianza tra i coniugi, che devono collaborare tra loro nel mantenimento e nella gestione della famiglia; parità di tutti i figli: tra figli nati nel matrimonio (cd. legittimi) e figli nati fuori del matrimonio (cd. naturali) si è riconosciuta una sostanziale parità. Ogni residua disparità è poi venuta meno per effetto della riforma della filiazione (L. 219/2012 e D.Lgs. 154/2013); regime
patrimoniale
di
comunione,
con
l’introduzione della comunione dei beni tra i coniugi come regime patrimoniale legale della famiglia. Salvo diverso accordo, dunque, i beni acquistati dai coniugi dopo il matrimonio cadono in comunione tra loro.
3.3 I rapporti familiari riconosciuti dall’ordinamento giuridico I vincoli familiari possono essere di tre tipi: coniugio, parentela e affinità. Il coniugio è il rapporto che si crea, a seguito della celebrazione del matrimonio, tra il marito e la moglie, e cessa solo a seguito dello scioglimento del matrimonio. Ad esso è equiparata l’unione civile tra persone dello stesso sesso (L. 76/2016). La parentela è il rapporto che lega le persone che discendono da uno stesso individuo, detto «stipite» (art. ٧٤ c.c.). Sono parenti padre e figlio, nonno e nipote, fratelli e sorelle. La L. 219/2012, che ha sancito la completa equiparazione tra filiazione legittima e filiazione naturale, unificando la condizione giuridica dei figli a prescindere dal fatto che i genitori siano oppure no coniugati, ha modificato il disposto dell’art. 74 c.c., il quale attualmente prevede che il vincolo di parentela sussiste sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo, mentre il vincolo non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età. Il legame di parentela sussiste, pertanto, tra le persone che
discendono da uno stesso stipite in ogni ipotesi di filiazione, nata nel e fuori del matrimonio. L’affinità è il rapporto che lega un coniuge ai parenti dell’altro coniuge. Sono affini, per esempio, il genero e il suocero, nonché la nuora e la suocera (art. 78 c.c.). La parentela può essere in linea retta o in linea collaterale: sono parenti in linea retta le persone che discendono le une dalle altre (ad esempio, padre e figlio o nonno e nipote); sono parenti in linea collaterale le persone che, pur non discendendo le une dalle altre, hanno uno stipite, un avo comune (ad esempio, i fratelli, in quanto discendono dallo stesso genitore, e i cugini, in quanto discendono dallo stesso nonno). Il numero di generazioni – intendendosi per generazione il rapporto tra generante e generato (es. tra padre e figlio) – costituisce, invece, il parametro in base al quale si contano i gradi di parentela. Segnatamente:
se la parentela è in linea retta, si contano tanti gradi quante sono le generazioni e, poi, si sottrae lo stipite comune; se la parentela è in linea collaterale, si contano tanti gradi quante sono le generazioni, salendo da un parente fino allo stipite comune e poi discendendo all’altro parente, e infine si sottrae lo stipite comune.
Anche gli affini possono essere tali in linea retta e in linea collaterale e anche l’affinità si calcola in gradi. La regola da applicare è la seguente: nella linea e nel grado in cui un soggetto è parente di uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge. Per esempio, se tra me e mio figlio esiste un rapporto di parentela in linea retta di primo grado, tra me e la moglie di mio figlio esiste un rapporto di affinità in linea retta di primo grado.
Normalmente, la legge non riconosce il vincolo di parentela oltre il sesto grado, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati (art. 77 c.c.). Nella linea e nel grado in cui taluno è parente di uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge (art. 78, co. 2, c.c.): per esempio, suocero e genero sono affini in linea retta di primo grado; i cognati, invece, lo sono in linea collaterale di secondo grado. L’affinità non cessa con la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva. Cessa, invece, se il matrimonio è dichiarato nullo (art. 78, co. 3, c.c.).
3.4 L’obbligo alimentare È un obbligo che la legge fa derivare dal vincolo di parentela. La prestazione alimentare, infatti, ha per oggetto un contributo di natura solidaristica e assistenziale verso quei membri della cerchia familiare, latamente intesa, i quali versino in stato di bisogno e non possano badare da sé al loro mantenimento. Affinché l’obbligo possa effettivamente sorgere a carico dell’alimentante, è necessario che questi abbia i mezzi necessari per prestare assistenza e soccorso all’alimentando. La misura del contributo, perciò, varia in relazione alla posizione sociale e alla condizione economica di colui che
deve
somministrarlo
e
dello
stato
di
bisogno
dell’alimentando. Si deve intendere per «stato di bisogno» non solo l’insieme delle necessità di natura alimentare in senso stretto ma anche quelle riguardanti l’alloggio. Ciò spiega il disposto di cui all’art. 443, co. 1, c.c., secondo cui chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere la relativa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto. L’ordine delle persone tenute a prestare gli alimenti è stabilito dal codice civile che, all’art. 433 c.c. (come modificato dalla normativa di riforma della filiazione), elenca:
il coniuge; i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi; i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; i generi e le nuore; il suocero e la suocera; i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali. Sono inoltre tenuti agli alimenti: l’adottante verso il figlio adottivo, con precedenza sui genitori di quest’ultimo (art. 436 c.c.); il donatario, in favore del donante, con precedenza su ogni altro obbligato, a meno che si tratti di donazione fatta in riguardo
di
un
matrimonio
o
di
una
donazione
rimuneratoria (art. 437 c.c.); il convivente: in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto dell’altro convivente di ricevere gli alimenti qualora quest’ultimo versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. Ai fini della determinazione dell’ordine degli obbligati ai sensi dell’art. 433 c.c., l’obbligo alimentare del convivente è adempiuto con precedenza sui fratelli e sulle sorelle (art. 1, co. 65, L. 76/2016). L’obbligazione alimentare è un’obbligazione di carattere strettamente
personale.
Essa
va
tenuta
distinta
dal
mantenimento, che è commisurato al tenore di vita dell’obbligato e prescinde dal bisogno del beneficiario.
3.5 La famiglia di fatto e le convivenze dopo la L. 76/2016 Con l’espressione “famiglia di fatto” si fa riferimento all’unione di due persone che, pur non avendo contratto matrimonio, convivono more uxorio, ovvero come se fossero sposate. Affinché possa dirsi costituita una famiglia di fatto, come risulta anche da giurisprudenza consolidata, è necessario che la coppia abbia comunque creato una relazione stabile, condividendo sia l’abitazione sia tutti gli altri aspetti morali e materiali della vita quotidiana. Dopo anni di sostanziale inerzia del legislatore di fronte al crescente fenomeno delle famiglie di fatto, con la L. 20-52016, n. 76 è stata dettata un’organica disciplina della materia, aprendosi così nuovi scenari nel contesto del diritto di famiglia. Alla luce della nuova disciplina, i conviventi di fatto sono da intendersi come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. È da sottolineare come la legge non faccia riferimento al sesso dei conviventi, ipotizzando pertanto convivenze sia etero che omosessuali. Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato
civile. Secondo la legge, per il suo accertamento si fa riferimento
alla
certificazione
dello
stato
di
famiglia
anagrafico, pur se la prova del rapporto di convivenza può essere fornita anche in altri modi. La legge estende anche ai conviventi una serie di diritti e doveri
tipici
del
matrimonio,
soprattutto
di
natura
patrimoniale e personale. Non sono, invece, coinvolti i rapporti con i figli, la cui posizione giuridica è stata già disciplinata dalla L. 219/2012 che ha di fatto equiparato lo status dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso. I conviventi hanno alcuni obblighi reciproci, essendo tenuti: a rispettare l’obbligo di coabitazione; ad attenersi all’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica della famiglia, contribuendo attivamente a tal fine. La convivenza determina, inoltre, il sorgere di alcuni diritti in capo ai conviventi: il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del convivente derivante da fatto illecito di un terzo (si tratta in realtà di un diritto già pacificamente riconosciuto attraverso l’elaborazione giurisprudenziale); i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria; il diritto al subentro nel rapporto di locazione; il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero;
il diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente nell’ipotesi in cui versi in stato di bisogno e non disponga dei mezzi necessari per sopravvivere. L’art. 1, co. 48, L. 76/2016 stabilisce che il convivente può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner se l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata o ricorrano i presupposti per l’amministrazione di sostegno. In due ipotesi particolari la regolamentazione dei rapporti tra conviventi richiede la stesura di apposita documentazione, ovvero quando: si voglia designare il convivente come rappresentante in caso di malattia incapacitante o di morte. Nel primo caso questi può assumere tutte le decisioni in materia di salute mentre nel secondo le decisioni riguarderanno la donazione degli organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone; si vogliano disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune; in questo caso è possibile stipulare un contratto di convivenza secondo le indicazioni contenute nella stessa L. 76/2016. Tale contratto deve essere redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o un avvocato; la
stessa procedura è richiesta per le modifiche e per la risoluzione del contratto. Per quanto riguarda i diritti successori, la legge non prevede disposizioni particolari, con la sola eccezione del diritto di abitazione. In caso di morte del proprietario della residenza comune, il convivente può continuare ad abitare la casa per 2 anni, se la convivenza è stata di durata inferiore al biennio, per un periodo corrispondente alla durata della convivenza (fino ad un massimo di 5 anni) se la convivenza è durata più di 2 anni, e per un periodo non inferiore a 3 anni (indipendentemente dalla durata della convivenza) se sono presenti figli minorenni o disabili nati dall’unione (art. 1, co. 42, L. 76/2016). Il diritto di abitazione viene meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto art. 1, co. 43, L. 76/2016).
3.6 Il matrimonio Si parla di matrimonio in due accezioni diverse, ossia come atto, negozio giuridico bilaterale con contenuto non patrimoniale, e come rapporto dal quale derivano diritti e doveri in capo ai coniugi. La
principale
differenza
tra
il
contratto
e
l’atto
matrimoniale consiste nel fatto che il matrimonio dà luogo principalmente a rapporti di carattere personale, mentre il contratto ha un contenuto prettamente patrimoniale; dal matrimonio derivano, infatti, diritti fondamentali come la fedeltà, la coabitazione, la collaborazione e l’assistenza reciproca che non possono di certo essere valutati economicamente. Prima del matrimonio i futuri sposi in genere si promettono reciprocamente di prendersi come marito e moglie. La promessa di matrimonio non è impegnativa dal punto di vista giuridico nel senso che non obbliga gli sposi a contrarre matrimonio, però da essa può derivare l’effetto della restituzione dei doni fatti a causa della promessa se uno dei due coniugi si rifiuta di sposare l’altro senza un valido motivo (artt. 69 ss. c.c.). Nel nostro sistema giuridico vengono riconosciute tre modalità distinte di celebrazione del matrimonio: il matrimonio civile;
il matrimonio concordatario o cattolico; il matrimonio celebrato da ministri di culto diversi dal cattolico. Il matrimonio civile viene celebrato dall’ufficiale di stato civile nel Comune del luogo in cui uno degli sposi risiede in presenza di due testimoni. In Comune l’ufficiale di stato civile dà luogo alla lettura degli artt. 143, 144 e 147 c.c., inerenti ai diritti e ai doveri dei coniugi e provvede alla stesura dell’atto matrimoniale contenente le generalità degli sposi. Poi l’atto viene inserito nei registri dello stato civile dello stesso Comune. Il
matrimonio
civile
deve
essere
preceduto
dalle
pubblicazioni, che consistono nell’affissione in Comune per otto giorni consecutivi di un atto indicante tutte le generalità degli sposi e il luogo ove essi intendono contrarre matrimonio, affinché chiunque vi abbia interesse possa fare opposizione, ove sussistano impedimenti. In mancanza di opposizioni il matrimonio dovrà essere celebrato nei centottanta giorni successivi alle pubblicazioni, altrimenti esse dovranno essere rinnovate. Il matrimonio concordatario o cattolico è celebrato davanti ad un ministro del culto cattolico secondo le norme del diritto canonico e trascritto nei registri dello stato civile. I cittadini hanno la possibilità di scegliere tra le due forme di celebrazione, ma qualora scelgano quella religiosa, il matrimonio produce ugualmente gli effetti previsti dal codice civile purché l’ufficiale dello stato civile provveda,
entro 24 ore dal ricevimento dell’atto di matrimonio, alla sua trascrizione nei registri dello stato civile. La trascrizione è, dunque, l’atto essenziale per l’attribuzione degli effetti civili al matrimonio canonico: tali effetti decorrono dal giorno della celebrazione.
Affinché il matrimonio religioso produca effetti civili è necessario che: la celebrazione sia stata preceduta dalle pubblicazioni.
Le pubblicazioni si devono effettuare, in tal caso, oltre che in Comune, anche in parrocchia e l’ufficiale di stato civile, in caso di mancate opposizioni, deve rilasciare al parroco un certificato in cui dichiara che non risulta l’esistenza di cause che si oppongono alla celebrazione; l’atto del parroco sia trascritto sui registri matrimoniali del Comune del luogo in cui è avvenuta la celebrazione.
Tuttavia, la trascrizione non può aver luogo quando gli sposi non sono in possesso dei requisiti richiesti dal codice civile per quanto riguarda l’età degli sposi (quelli di cui all’art. 84 c.c.) ovvero quando sussiste fra gli sposi taluno degli impedimenti che il codice civile prevede come inderogabili (quelli di cui agli artt. 85, 86, 87 e 88 c.c.).
La trascrizione, nonostante ciò, è ammessa quando, secondo le norme civilistiche, l’azione di annullamento del vincolo matrimoniale non è più proponibile. È il caso del matrimonio contratto da chi è stato interdetto per infermità di mente: in tal caso l’azione non è più
proponibile
se,
revocata
l’interdizione,
vi
è
stata
coabitazione per un anno. La celebrazione avviene secondo la disciplina canonica davanti al sacerdote e almeno due testimoni. Il sacerdote, alla fine della celebrazione, dà luogo alla lettura degli artt. 143, 144 e 147 c.c. I requisiti di validità del matrimonio concordatario sono stabiliti dal diritto canonico; ne consegue che l’eventuale invalidità di un matrimonio concordatario può essere pronunziata soltanto dai Tribunali ecclesiastici. Anche le coppie di religione diversa dalla cattolica possono contrarre matrimonio religioso, attribuendo effetti civili alla celebrazione religiosa. A tale fine, gli sposi non cattolici devono presentare domanda all’ufficiale di stato civile, il quale può delegare le proprie funzioni al ministro di culto acattolico. Anche il matrimonio acattolico acquista effetti civili a seguito della trascrizione.
3.6.1 Requisiti, impedimenti e cause di invalidità del matrimonio Affinché due soggetti di sesso diverso possano unirsi in matrimonio, devono sussistere alcuni requisiti e, al tempo stesso, non essere sussistenti le situazioni che operano, al negativo, da impedimento al matrimonio. I requisiti che rappresentano le condizioni per poter celebrare validamente il matrimonio sono:
la maggiore età (ma il Tribunale per i Minorenni può, per gravi motivi, abbassare la soglia minima a 16 anni, previo accertamento della maturità psichica e fisica del minore. In tal caso, con il matrimonio il minore consegue la cd. emancipazione, ovvero una condizione di limitata capacità di agire, che cessa con la maggiore età); la sanità mentale, per cui l’interdetto giudiziale non può contrarre matrimonio (art. 85 c.c.), mentre può essere impugnato il matrimonio di colui che si provi essere stato incapace di intendere e volere al momento dell’atto (art. 120 c.c.); l’assenza di un precedente vincolo di matrimonio o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso (cd. libertà di stato), salvo che il precedente matrimonio o unione civile siano stati sciolti, siano nulli o siano stati annullati (art. 86 c.c.). Quanto agli impedimenti,
non
possono
contrarre
matrimonio (sicché è invalido il matrimonio celebrato in violazione dei relativi divieti): i
minori
d’età
(art.
84
c.c.),
salva
l’ipotesi
dell’emancipazione; gli interdetti per infermità di mente (art. 85 c.c.); coloro i quali siano vincolati da un precedente matrimonio o da un’unione civile (art. 86 c.c.); la donna precedentemente sposata, se non dopo 300 giorni dallo scioglimento, dall’annullamento o dalla
cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio (cd. tempus lugendi: art. 89 c.c.); coloro i quali siano uniti da vincoli di parentela, affinità, adozione e affiliazione (art. 87 c.c.); le persone delle quali l’una è stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra (cd. impedimentum criminis). Il vincolo matrimoniale, inoltre, può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso: sia stato estorto con violenza; sia stato determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo (o alla sposa); sia stato dato per errore sull’identità della persona o errore essenziale sulle qualità personali dell’altro coniuge.
Ai sensi dell’art. 122 c.c., la violenza, per produrre effetti invalidanti, deve presentare i caratteri previsti dagli artt. 1434 ss. c.c., mentre il timore deve essere tale che la persona (rectius: lo sposo) percepisca il pericolo attuale di un male causato da persone o cose (si pensi, per esempio, al matrimonio riparatore contratto per sfuggire ad una vendetta familiare o per scampare ad una persecuzione razziale o politica).
L’errore, invece, per rilevare ai fini dell’annullamento, deve cadere sull’identità della persona o su qualità personali dell’altro coniuge.
In quest’ultimo caso deve trattarsi di errore essenziale,
ovvero tale che, tenute presenti le condizioni di uno dei coniugi, si accerti che l’altro non avrebbe prestato il suo consenso e purché l’errore riguardi tassativamente una delle seguenti condizioni: l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di un’anomalia
o
deviazione
sessuale,
tali
da
impedire lo svolgimento della vita coniugale; l’esistenza di una sentenza di condanna, per delitto non colposo, alla reclusione non inferiore a 5 anni, salvo il caso d’intervenuta riabilitazione prima della celebrazione del matrimonio; la
dichiarazione
di
delinquenza
abituale
o
professionale; la circostanza che l’altro coniuge sia stato condannato per delitti concernenti la prostituzione a pena non inferiore a 2 anni; lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore, purché vi sia stato disconoscimento della paternità (art. 243-bis c.c.), se la gravidanza è stata portata a termine. L’azione non può in ogni caso essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che siano cessate la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l’errore. Ciascuno dei coniugi, infine, può impugnare il matrimonio nell’ipotesi di simulazione, che ricorre allorché gli stessi sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di
non esercitare i diritti discendenti dal vincolo matrimoniale (art. 123 c.c.). L’annullamento
del
matrimonio
produce
effetti
retroattivi, per cui i coniugi riacquistano retroattivamente il loro stato di libertà. Ciò nondimeno non è possibile ignorare che il matrimonio, ancorché invalido, ha creato di fatto una comunità familiare. Si deve tener conto, in particolare, della situazione giuridica dei figli nati dall’unione invalida. Ed ecco allora che l’art. 128 c.c. considera valido il matrimonio, ma solo a taluni effetti. Si parla, al riguardo, di matrimonio «putativo», proprio per indicare che i coniugi lo reputavano valido. Gli effetti di tale matrimonio sono disciplinati dall’art. 128 c.c. con riferimento alla buona fede o alla mala fede dei coniugi. Segnatamente, se i coniugi hanno contratto matrimonio in: buona fede o il loro consenso è stato estorto con violenza o è stato determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi, l’annullamento non opera retroattivamente, ma soltanto ex nunc. Se tali condizioni si verificano nei confronti di uno solo dei coniugi, gli effetti valgono solo in suo favore e dei figli; malafede, questo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso, salvo che la nullità dipenda da incesto. In tal caso, i figli hanno lo stato di figli riconosciuti, nei casi in cui il riconoscimento è consentito.
3.7 Gli effetti del matrimonio Il matrimonio produce effetti sia fra i coniugi sia nei confronti dei figli. Per quanto riguarda i coniugi, i principali obblighi che nascono dal matrimonio sono quelli reciproci della fedeltà, dell’assistenza morale e materiale, della collaborazione nell’interesse della famiglia e della coabitazione (art. 143 c.c.). Sul piano economico, poi, entrambi sono tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia, ciascuno in relazione alle proprie sostanze. I coniugi concordano fra loro l’indirizzo della vita familiare e scelgono la residenza della famiglia secondo le esigenze di ciascuno di essi e quelle preminenti del nucleo familiare (art. 144 c.c.). La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva poi durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze (art. 143-bis c.c.). Riguardo ai figli, va preliminarmente posto l’accento su come già la L. 151/1975 avesse nel più ampio quadro di un’assoluta uguaglianza fra i coniugi, abrogato la regola che attribuiva al marito il ruolo preminente di capo della famiglia sostituendo all’istituto della cd. patria potestà il principio in base al quale la potestà sui figli minori spetta in eguale misura a tutti e due i coniugi, che la esercitano in comune
accordo e nell’esclusivo interesse del minore. Alla potestà la riforma della filiazione (L. 219/2012 e D.Lgs. 154/2013) ha, poi, fatto subentrare il nuovo concetto di responsabilità genitoriale, incombente su entrambi i genitori (o sul genitore che ha riconosciuto il figlio) e individuante l’insieme dei diritti e degli obblighi nei confronti dei figli minori. I genitori hanno l’obbligo di mantenere, istruire educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni (artt. 147 e 148 c.c.).
3.8 I rapporti patrimoniali Il codice prevede due regimi patrimoniali tra i coniugi: regime legale, che si instaura automaticamente per tutti i matrimoni contratti dopo il 20 settembre 1975 quando i soggetti che contraggono matrimonio non prevedono alcuna regolamentazione dei loro rapporti economici; regime convenzionale, che viene scelto concordemente dai coniugi o all’atto della celebrazione del matrimonio (art. 162, co. 2, c.c.) oppure successivamente, con atto pubblico, mediante un’apposita convenzione in deroga al regime legale (art. 215 c.c.).
3.8.1 Il regime legale: la comunione dei beni e la sua amministrazione In mancanza di una diversa volontà dei coniugi, i rapporti patrimoniali tra gli stessi sono regolati dalle norme in materia di comunione legale (art. 177-197 c.c.) Sono oggetto della comunione: gli
acquisti
compiuti
dai
due
coniugi
insieme
o
separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali elencati dall’art. 179 c.c. (comunione immediata; art. 177, co. 1, lett. a), c.c.);
i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione (comunione de residuo; art. 177, co. 1, lett. b), c.c.); i proventi delle attività separate di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non sono stati consumati (comunione de residuo; art. 177, co. 1, lett. c), c.c.); le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio (comunione immediata; art. 177, co. 1, lett. d), c.c.). Se si tratta di aziende che appartenevano ad uno dei coniugi prima del matrimonio, ma sono gestite da entrambi i coniugi, rientrano nella comunione solo gli utili e gli incrementi; i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio, se sussistono al momento dello scioglimento della comunione (comunione de residuo; art. 178 c.c.). L’amministrazione ordinaria della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti a essa relativi spettano disgiuntamente a entrambi i coniugi (art. 180, co. 1, c.c.). Invece, per gli atti di straordinaria amministrazione e per quelli concernenti la concessione o l’acquisto di diritti personali di godimento (ad esempio locazione) e la relativa rappresentanza processuale, i coniugi devono agire congiuntamente (art. 180, co. 2, c.c.).
3.8.2 I beni che non cadono in comunione Ai sensi dell’art. 179 c.c., non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era già proprietario o su cui era titolare di un diritto reale di godimento; i beni acquistati successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione; i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori (es. i vestiti); i beni che servono all’esercizio della professione di uno dei due coniugi (es. gli strumenti di lavoro), tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione; i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni e la pensione percepita per la perdita totale o parziale della capacità lavorativa; i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopra elencati, oppure con il loro scambio, a condizione che però sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto che il denaro impiegato è personale. L’acquisto di beni immobili o di beni mobili registrati effettuato dopo il matrimonio è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) e f) dell’art. 179, co. 1, c.c. quando tale
esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge (art. 179, co. 2, c.c.).
3.8.3 Gli obblighi gravanti sulla comunione e le obbligazioni contratte dai coniugi I beni della comunione rispondono (art. 186 c.c.): di tutti i pesi e oneri gravanti sui beni medesimi al momento dell’acquisto; di tutti i carichi dell’amministrazione; delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia; di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi. I
beni
della
comunione
non
rispondono
delle
obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio (art. 187 c.c.) mentre rispondono, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, e sempre che i creditori non possano soddisfarsi sui suoi beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per compiere atti di straordinaria amministrazione senza il consenso dell’altro coniuge (art. 189, co. 1, c.c.). I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al
valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato (art. 189, co. 2, c.c.). Se i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti gravanti sulla comunione medesima, i creditori possono agire, sempre in via sussidiaria, sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito (art. 190 c.c.)
3.8.4 Lo scioglimento della comunione Ai sensi dell’art. 191 c.c., come modificato dalla L. 55/2015 (cd. «legge sul divorzio breve»), la comunione si scioglie nei seguenti casi: dichiarazione di assenza o morte presunta di uno dei due coniugi; annullamento del matrimonio, anche se pronunciato da giudice canonico, purché la sentenza sia stata resa esecutiva; scioglimento del matrimonio, cessazione degli effetti civili dello stesso e separazione personale dei coniugi (consensuale o giudiziale, non di fatto); separazione giudiziale dei beni (a seguito di interdizione,
inabilitazione,
cattiva
amministrazione
ovvero ancora quando il disordine negli affari di uno dei coniugi o la condotta tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell’altro, della comunione o della famiglia, oppure quando uno dei coniugi non
contribuisce ai bisogni della famiglia in proporzione alle proprie sostanze e capacità di lavoro); mutamento convenzionale del regime patrimoniale in separazione dei beni; fallimento di uno dei due coniugi. Una volta sciolta, la comunione diviene ordinaria e soggiace agli artt. 1100 ss. c.c.
3.9 Le convenzioni matrimoniali e i regimi convenzionali Dall’art. 161 c.c. si evince che i coniugi possono stipulare tra loro
convenzioni
con
cui
regolare
i
loro
rapporti
patrimoniali, sempre che enuncino «in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti”. Si tratta di veri e propri contratti la cui forma, a pena di nullità, è quella dell’atto pubblico. Oggetto dell’accordo è essenzialmente la disciplina della proprietà e degli acquisti dei beni e dei redditi. Ai fini dell’opponibilità ai terzi tali convenzioni devono essere annotate a margine dell’atto di matrimonio e, se hanno ad oggetto beni immobili che devono essere esclusi dalla comunione tra i coniugi, devono essere trascritte ex art. 2647 c.c. I coniugi possono decidere che i loro rapporti siano regolati per mezzo di: comunione convenzionale: si tratta sostanzialmente di una comunione legale modificata dai coniugi mediante convenzione matrimoniale; separazione dei beni: tale regime costituiva la regola generale prima dell’entrata in vigore della L. 151/1975.
Il regime convenzionale permette in parte di restringere o, viceversa, di allargare l’oggetto della comunione, salve le eccezioni previste dall’art. 179 c.c. Con il regime di separazione, invece, i coniugi pattuiscono che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Ciascun coniuge ha, ovviamente, il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo e, con procura, può amministrare anche i beni dell’altro (e se vi è obbligo di rendiconto si applicano le regole del mandato).
3.10 Il fondo patrimoniale In regime di comunione o separazione dei beni, i coniugi, separatamente o congiuntamente, o un terzo, possono costituire un patrimonio vincolato, destinato, a far fronte ai bisogni della famiglia. Tale istituto, denominato fondo patrimoniale, è andato a sostituire il vecchio «patrimonio familiare». La costituzione deve avvenire per atto pubblico; se è costituito da un terzo, è possibile utilizzare anche lo strumento del testamento. La costituzione del fondo patrimoniale per atto tra vivi, effettuata dal terzo, si perfeziona con l’accettazione dei coniugi. L’accettazione può essere fatta con atto pubblico posteriore. La titolarità dei beni (immobili, mobili o titoli di credito) spetta ad entrambi i coniugi. In virtù del vincolo di destinazione che si crea sui beni del fondo: i beni stessi devono essere amministrati secondo le regole della comunione legale; i frutti prodotti dai beni costituiti in fondo patrimoniale devono essere utilizzati per soddisfare bisogni della famiglia; i beni costituiti in fondo patrimoniale non possono essere alienati o vincolati se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione del
Tribunale, nei soli casi di necessità o utilità evidente (art. 169 c.c.). La
destinazione
del
fondo
termina
a
seguito
dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Se però vi sono figli minori, il fondo dura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio (art. 171 c.c.).
3.11 L’impresa familiare e il patto di famiglia Ai sensi dell’art. 230-bis c.c., l’impresa familiare è quella in cui prestano attività di lavoro continuativa il coniuge dell’imprenditore, i parenti entro il terzo grado (zio e nipote) e gli affini entro il secondo (cognati). Il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare acquista i seguenti diritti: il mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia; la partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. La norma, inoltre, attribuisce ai familiari anche il diritto di partecipare alla gestione dell’impresa: infatti, le decisioni relative alla stessa, inerenti alla gestione straordinaria, devono essere adottate a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa. Ai sensi dell’art. 230-ter c.c. (aggiunto dalla L. 76/2016) il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, spettano altresì al convivente
di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente; ovviamente il tutto deve essere commisurato al lavoro svolto. Il diritto viene meno qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. La L. 55/2006 ha consentito al disponente (futuro de cuius), a certe condizioni ed entro determinati limiti, di scegliere il successore nell’azienda di famiglia. Si tratta del cd. patto di famiglia, che non è altro che un contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti (art. 768-bis c.c.). Tuttavia non si rientra nel novero degli atti mortis causa: si tratta di un contratto, non di un negozio testamentario. Correttamente deve parlarsi di una convenzione inter vivos, traslativa ad efficacia reale, la cui peculiarità è quella di andare ad incidere sulla successione del disponente. In merito l’art. 768-quater c.c. prevede che al contratto debbano partecipare, in chiave autorizzatoria, anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
3.12 La separazione personale dei coniugi La separazione personale, ai sensi dell’art. 151 c.c., può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole. Lo status giuridico di coniuge, infatti, rimane inalterato, mentre a mutare sono alcuni aspetti legati al matrimonio, quali, ad esempio, l’obbligo di coabitazione e l’obbligo di fedeltà. In sostanza, si congelano quei doveri di assistenza morale e di collaborazione, mentre rimane attivo il dovere di assistenza materiale, che confluisce nella determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il quale necessiti di un sostentamento in quanto privo di adeguati redditi propri o insufficienti per adempiere alle proprie necessità di vita (art. 156 c.c.). Resta fermo, inoltre, l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli artt. 433 ss. c.c. Solitamente la separazione costituisce la fase preparatoria del divorzio vero e proprio, salvo avvenga la riconciliazione dei coniugi. La separazione può essere di fatto o legale.
La separazione di fatto si ha quando i coniugi, senza che sia intervenuta sentenza e senza un accordo omologato dal Tribunale, di fatto cessano di coabitare; tale separazione, però, non produce alcun effetto giuridico sulla situazione personale dei coniugi, i quali sotto il profilo giuridico sono considerati come non separati. La separazione legale è quella che ha luogo nei modi disciplinati dalla legge (art. ١٥٠ c.c.). Essa può essere consensuale (art. 158 c.c.) o giudiziale (art. 151 c.c.), a seconda che sussista o meno tra i coniugi un accordo non solo sul fatto in sé di separarsi ma anche sulle modalità e sui termini della separazione, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei beni e della prole e la misura dell’assegno di mantenimento. Nella separazione consensuale l’accordo delle parti, per diventare efficace, deve essere omologato dal Tribunale. Il giudice non ha il potere di modificare l’accordo dei coniugi, ma è tenuto a controllare che le loro decisioni non siano in contrasto con l’interesse dei figli. La separazione giudiziale può essere chiesta da entrambi i coniugi o da uno solo di essi (anche contro la volontà dell’altro). Il giudice, se ne sussistono i presupposti e su domanda della parte, può dichiarare a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che discendono dal matrimonio. Il coniuge al quale non è addebitabile la separazione e che non ha adeguati redditi propri ha il diritto di ricevere dall’altro
coniuge quanto è necessario al suo mantenimento (art. 156 c.c.). Il
giudice
che
pronunzia
la
separazione
adotta
i
provvedimenti riguardanti: l’affidamento dei figli minori, nel rispetto della disciplina dell’affidamento condiviso (art. 337-ter ss. c.c.), per il quale il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi i genitori e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale; in subordine, può essere disposto l’affidamento esclusivo ad uno solo dei coniugi o l’affidamento familiare; il mantenimento dei figli, posto a carico di entrambi i genitori (salvo diverso accordo) in misura proporzionale ai rispettivi redditi; l’assegnazione
della
casa
familiare,
tenendo
prioritariamente conto dell’interesse dei figli; il cd. assegno di mantenimento in favore del coniuge al quale non sia addebitabile la separazione e che non abbia adeguati redditi propri (art. 156 c.c.). Le condizioni della separazione, sia consensuale che giudiziale, possono essere modificate dal Tribunale su richiesta di un coniuge, qualora le circostanze siano mutate in modo rilevante.
Gli effetti della separazione possono cessare con la riconciliazione dei coniugi, che può essere espressa, se consacrata in un accordo formale, o tacita, se attuata con la ripresa della vita in comune. Tanto la riconciliazione espressa che quella tacita non richiedono una pronuncia giudiziale per far cessare gli effetti della separazione, producendo effetto di per sé (art. 157 c.c.).
3.13 La cessazione del rapporto matrimoniale Sino agli anni Settanta, il matrimonio è stato concepito nel nostro ordinamento giuridico come vincolo indissolubile; l’art. 149 c.c., infatti, disponeva che «il matrimonio non si scioglie che con la morte di uno dei coniugi». I coniugi potevano separarsi, ma il vincolo coniugale, con tutte le conseguenze a esso connesse sul piano personale e patrimoniale, non poteva essere sciolto. La situazione è cambiata con la L. 899/1978, che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto del divorzio. Attualmente l’art. 149 c.c. prevede, oltre alla cessazione a seguito della morte di uno dei coniugi che comporta la cd. naturale conclusione del matrimonio, anche “altri casi previsti dalla legge” come cause di scioglimento del matrimonio. In realtà il legislatore non utilizza il termine “divorzio”, ma parla di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione
degli
effetti
civili
del
matrimonio
concordatario. L’attuale
disciplina,
prevede
le
seguenti
cause
di
scioglimento del matrimonio: la morte (o la dichiarazione di morte presunta) di uno dei coniugi;
il divorzio. Secondo quanto stabilito dall’art. 1, co. 27, L. 76/2016, alla rettificazione anagrafica del sesso di uno dei coniugi, qualora essi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
3.13.1 Lo scioglimento del matrimonio per morte del coniuge La morte rappresenta il caso tipico di scioglimento del vincolo matrimoniale, ma alcuni effetti del matrimonio continuano a verificarsi anche dopo il decesso del coniuge. Tali effetti sono: il coniuge superstite ha diritti successori sul patrimonio dell’altro; la vedova non può contrarre nuovo matrimonio durante il periodo di lutto vedovile (300 giorni dalla morte); la vedova conserva il cognome del marito (accanto al proprio) finché non passa a nuove nozze; i rapporti di affinità sorti col matrimonio non cessano. Alla morte è parificata, ai fini dello scioglimento del matrimonio, la dichiarazione di morte presunta, con la conseguenza, però, che se il presunto morto ritorna, l’eventuale nuovo matrimonio contratto dall’altro coniuge è
nullo, pur essendo in ogni caso fatti salvi i suoi effetti civili (art. 68 c.c.).
3.13.2 Il divorzio La L. 1-12-1970, n. 898, ha introdotto nel nostro ordinamento il divorzio, cioè lo scioglimento del vincolo coniugale quando sia venuta meno la comunione spirituale e materiale tra i coniugi. La principale condizione (di carattere soggettivo) che deve ricorrere perché ci possa essere lo scioglimento del vincolo matrimoniale è la cessazione della communio omnis vitae (alla base di ogni unione fondata sul matrimonio) nonché la impossibilità, acclarata in seguito all’esperimento del tentativo di conciliazione, di mantenere o di
ricostituire
l’unità
familiare.
Accanto
alla
suddetta
condizione è richiesta anche una condizione oggettiva, consistente nella ricorrenza di una delle specifiche cause tassativamente indicate dall’art. 3 L. 898/1970, come modificato dalla L. 55/2015 (cd. “legge sul divorzio breve”). La L. 55/2015 è intervenuta sulla disciplina della separazione e del divorzio, introducendo il cd. divorzio breve. In particolare, rispetto alla previgente disciplina, nelle separazioni giudiziali, la durata del periodo di separazione prodromica al divorzio si è ridotta da tre anni ad un anno; nelle separazioni consensuali, invece, la durata del periodo di separazione si è ridotta a sei mesi.
La sentenza di divorzio produce i seguenti effetti personali:
il mutamento dello stato civile dei coniugi, che permette di contrarre nuove nozze; la perdita del cognome del marito da parte della moglie, salvo che la stessa sia autorizzata dal giudice a continuare ad utilizzarlo. A seguito del divorzio vengono meno tutti i doveri coniugali. Tra gli effetti di ordine patrimoniale che scaturiscono dalla sentenza di divorzio vanno considerati: il diritto del coniuge che non abbia adeguati redditi propri e che non sia in grado di procurarseli per ragioni obiettive di percepire un assegno periodico (cd. assegno divorzile ex art. 5 L. 898/1970); la perdita dei diritti successori di un coniuge nei confronti dell’altro.
Tuttavia la legge riconosce che l’ex coniuge superstite, a seguito della morte dell’altro, possa vantare iure proprio taluni determinati diritti, a condizione che non abbia contratto nuove nozze e sia titolare di un assegno periodico non liquidato in un’unica soluzione. In particolare, spettano all’ex coniuge: 1. il diritto ad un assegno periodico a carico dell’eredità, purché il richiedente versi in stato di bisogno (art. 9-bis, L. 898/1970); 2. il diritto alla pensione di reversibilità o ad una sua quota percentuale quando sopravviva un coniuge superstite (art. 9, L. 898/1970);
3. il
diritto
ad
una
quota
percentuale
sull’indennità di fine rapporto percepita dal lavoratore all’atto della cessazione del rapporto di lavoro (art. 12-bis, L. 898/1970). Dopo il divorzio, infine, non vengono meno i doveri di ciascun genitore nei confronti dei figli. Il Tribunale, con la sentenza che pronuncia il divorzio, stabilisce a quale dei genitori essi sono affidati e in che misura l’altro genitore deve contribuire al loro mantenimento, secondo le regole vigenti in tema di separazione personale così come novellate dalla L. 54/2006, che estende le relative previsioni anche ai casi di scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio, nonché, disponendo in modo assolutamente innovativo sul punto, ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
3.13.3 La convenzione di negoziazione assistita Il D.L. 132/2014, convertito dalla L. 162/2014, ha introdotto l’istituto della negoziazione assistita, che consente ai coniugi che intendono separarsi o sciogliere il loro matrimonio
consensualmente
di
ricercare
un
accordo
mediante il quale decidono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia con l’assistenza dei propri avvocati. Dal momento che si tratta di una soluzione condivisa, bisogna che i coniugi sottoscrivano un’apposita convenzione.
L’accordo autorizzato nei modi di legge produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali. Il principale vantaggio della negoziazione assistita è la celerità della procedura, rispetto ai tempi del contenzioso tradizionale. Siccome la procedura è molto veloce, il vantaggio ulteriore è il contenimento dei costi.
3.13.4 Separazione, divorzio e modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi all’ufficiale dello stato civile L’art. 12 del citato D.L. 132/2014 prevede, inoltre, per i coniugi la possibilità di concludere, innanzi al Sindaco, quale ufficiale dello stato civile del Comune di residenza di uno di loro o del Comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio, e con l’assistenza facoltativa di un avvocato, un accordo di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. L’accordo in questione può essere concluso esclusivamente da coniugi privi di figli minorenni o figli maggiorenni incapaci
o
portatori
di
handicap
ovvero
economicamente non autosufficienti. L’accordo, inoltre, non può contenere patti di trasferimento patrimoniale. Come avviene per la negoziazione assistita, anche l’accordo innanzi all’ufficiale dello stato civile tiene luogo dei corrispondenti provvedimenti giudiziali sin dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione o divorzio.
3.14 Affidamento dei figli in caso di separazione o divorzio Il superiore interesse del minore ha indotto il legislatore italiano ad una revisione dell’affidamento dei figli in caso di separazione
o
divorzio.
Dando
priorità
alla
scelta
dell’affidamento condiviso (e disponendo soltanto in via eccezionale l’affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori), la L. 54/2006 ha così capovolto il sistema esistente nel nostro ordinamento giuridico in materia di affidamento, in base al quale i figli venivano affidati all’uno o all’altro dei genitori secondo il prudente apprezzamento del giudice o secondo le intese raggiunte dai coniugi. Le nuove norme da un lato impongono ai genitori una corresponsabilizzazione nei compiti e nelle funzioni educative, nonché nel mantenimento dei figli (in misura proporzionale al reddito di ciascuno dei due), dall’altro riconoscono al figlio minore il diritto di continuare ad avere rapporti allo stesso modo sia con la madre che con il padre, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con i nonni paterni e materni e con i parenti di ciascuno dei genitori. Coerentemente con lo scopo di valutare concretamente il miglior interesse del minore, il giudice, infine, dispone la sua
audizione (se dodicenne, e anche di età minore, se capace di discernimento), prima di adottare la decisione. Dunque, in sede di separazione o di divorzio, il giudice deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori siano affidati ad entrambi i genitori, e solo ove l’interesse del minore lo richieda potrà disporre l’affidamento esclusivo ad uno di essi. Alla stregua dell’attuale normativa, pertanto, il modello dell’affidamento esclusivo ad uno dei coniugi ha assunto carattere residuale, potendo il giudice ricorrere ad esso solo quando ritenga, con provvedimento motivato, che l’affidamento anche all’altro sia contrario all’interesse del minore (art. 337-quater c.c.). Sulle disposizioni introdotte dalla L. 54/2006 (artt. 155bis155sexies c.c.) ha, poi, ulteriormente inciso il D.Lgs. 154/2013 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione), che ha unificato la posizione dei figli nati nel matrimonio con quella dei figli nati fuori del matrimonio anche con riguardo alla fase patologica della dissoluzione del nucleo familiare. In
vista
di
tale
scopo,
il
legislatore
ha
disposto
l’abrogazione degli artt. 155-bis-155-sexies c.c., il cui contenuto è stato trasfuso negli artt. da 337-bis a 337-octies c.c., che compongono il nuovo Capo II del Titolo IX del Libro I, ed ha integralmente sostituito il disposto dell’art. 155 c.c., che si limita ora a rinviare, quanto ai provvedimenti relativi ai figli in caso di separazione, proprio a quel nuovo Capo II del Titolo IX del Libro I (Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di
procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio). Con l’introduzione dei nuovi artt. 337-bis-337-octies c.c. si è inteso dunque disciplinare in modo uniforme il rapporto genitori-figli a prescindere dal tipo di unione che lega i primi, e quindi sia in caso di separazione, sia in caso di divorzio, sia in caso di cessazione del rapporto di convivenza more uxorio.
3.15 Affidamento dei figli e sindrome di alienazione parentale Spesso la giustizia, soprattutto in materia di diritto di famiglia, si trova a doversi confrontare con fenomeni di carattere psicologico e comportamentale: uno di questi è quello conosciuto come “Sindrome di Alienazione Parentale” (PAS), ovvero un disturbo che vede protagonisti i figli minori in presenza di gravi situazioni di conflittualità tra i genitori legate
alla
disgregazione
dell’unione
familiare.
Aspetti
peculiari e caratterizzanti di tale fenomeno sono rappresentati dalla condotta di manipolazione emotiva del genitore alienante e dal conseguente rifiuto del minore verso il genitore alienato. L’incertezza in merito al credito attribuito dalla comunità scientifica alla teoria della sindrome di alienazione parentale non esclude che essa rappresenti un grave fattore di rischio per la
garanzia
del
diritto
alla
“bigenitorialità”.
Invero,
l’alienazione parentale non è né una sindrome né una patologia, ma rappresenta una grave violazione dei diritti relazionali del figlio. Essa si sostanzia in un processo psicologico innescato nel minore conseguente alla violazione, da parte di un genitore, del diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore in caso rottura del vincolo affettivo tra i genitori medesimi.
Nel contesto giurisprudenziale, particolare rilievo assume la pronuncia resa dalla Cassazione con sent. 6919/2016, nella quale la Corte ha affermato il seguente principio di diritto con riguardo ad un’ipotesi di alienazione parentale “in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia,
incluse
le
presunzioni,
ed
a
motivare
adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità genitore,
delle a
relazioni
tutela
del
parentali
diritto
del
con
l’altro
figlio
alla
bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena”. La sentenza della Cassazione ha creato un precedente importante. Nella stessa direzione, si è più recentemente pronunciato il Tribunale di Brescia con sent. 815/2019, il quale, riconoscendo una situazione di “alienazione parentale” indotta in una minore dal protratto atteggiamento della madre di sistematico contrasto alla figura paterna, ha formulato un giudizio
di
inadeguatezza
genitoriale
della
madre,
incompatibile con l’affidamento condiviso, con conseguente affidamento esclusivo al padre. La Cassazione è ora nuovamente intervenuta sul tema (sent. 13274/2019) ribaltando la propria posizione e stabilendo che occorre valutare caso per caso, perché anche l’eventuale comportamento alienante di un genitore non è in grado, da solo, di motivare l’affido esclusivo dei figli, non avendo la sindrome di alienazione parentale alcuna base scientifica. Proprio per la mancanza di solidità scientifica della diagnosi di questo presunto disturbo della sfera affettiva e relazionale, la Cassazione ritiene che i consulenti che la sostengono, per dimostrare che un genitore ha allontanato il figlio dall’altra figura genitoriale, compiono una “devianza” dalla “scienza medica ufficiale”. Tanto premesso, i giudici non possono fidarsi delle diagnosi di PAS e, per decidere che cosa sia meglio stabilire nell’interesse del minore, devono invece ricorrere alle “proprie cognizioni scientifiche” oppure avvalersi di “idonei esperti” per “verificare il fondamento” della diagnosi di PAS.
3.16 Le unioni civili 3.16.1 La disciplina della L. 76/2016 La L. 20-5-2016, n. 76, ha disciplinato le unioni civili intese come specifiche formazioni sociali costituite da persone maggiorenni dello stesso sesso. Tali unioni si costituiscono con una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni, e vanno registrate nell’archivio dello stato civile; il documento attestante la costituzione del vincolo deve contenere i dati anagrafici delle parti, l’indicazione del loro regime patrimoniale e della loro residenza, oltre che i dati anagrafici e la residenza dei testimoni. Rispetto al matrimonio non c’è l’obbligo delle pubblicazioni. Salvo piccole differenze, la legge disciplina l’unione civile in modo sostanzialmente analogo al matrimonio, effettuando spesso richiami alla disciplina codicistica e rendendola applicabile anche al nuovo istituto. Esplicito in tal senso è il comma 20 dell’articolo unico della legge, in forza del quale, al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e quelle contenenti
le
parole
«coniuge»,
«coniugi»
o
termini
equivalenti, ovunque ricorrano nella normativa nazionale, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra
persone dello stesso sesso. Sono esplicitamente escluse le norme del codice civile non richiamate dalla L. 76/2016, in particolare quelle in materia di filiazione e quelle in materia di adozioni contemplate dalla L. 4-5-1983, n. 184. Alla normativa di attuazione della disciplina delle unioni civili si è dato seguito con i decreti legislativi nn. 5, 6 e 7 del 19 gennaio 2017.
3.16.2 Cause impeditive Il comma 4 dell’unico articolo della L. 76/2016 elenca una serie di cause impeditive dell’unione civile, molte delle quali già esaminate con riferimento alla disciplina del matrimonio: la presenza di una di tali cause determina la nullità dell’unione stessa (comma 5). Le ipotesi elencate sono le seguenti: sussistenza di un precedente vincolo matrimoniale o di un’unione civile; interdizione di una delle parti per infermità mentale; sussistenza di rapporti di affinità o parentela tra le parti (gli stessi richiamati dall’art. 87, co. 1, c.c. con riferimento al matrimonio) cui si aggiunge il divieto di contrarre un’unione civile tra lo zio e il nipote e la zia e la nipote; condanna definitiva di una delle parti per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte; se è stato disposto soltanto rinvio a giudizio, ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare, la
procedura per la costituzione dell’unione civile è sospesa sino a quando non si giunge ad una sentenza di proscioglimento.
3.16.3 Diritti e doveri delle parti e regime patrimoniale Con l’unione civile entrambi i partner acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri sulla falsariga di quelli indicati dall’art. 143 c.c. riguardo al matrimonio, con la sola eccezione dell’obbligo di fedeltà. In particolare, i partner dell’unione hanno l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale, alla coabitazione ed entrambi sono tenuti a contribuire ai bisogni comuni, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo. Entrambi concordano l’indirizzo della vita familiare e la residenza comune, esattamente come avviene per le coppie unite in matrimonio. Sul versante dei diritti sono da ricordare il diritto all’eredità, alla pensione di reversibilità e all’assegno di mantenimento nell’ipotesi di scioglimento dell’unione. Inoltre, anche le parti dell’unione civile hanno il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso dell’altra parte a seguito di fatto illecito cagionato da terzi. La L. 76/2016 estende, poi, all’unione civile la disciplina sugli obblighi alimentari prevista dal codice civile. La
legge
prevede
ancora
che
la
scelta
dell’amministratore di sostegno da parte del giudice
tutelare ricada, se possibile, sulla parte dell’unione civile. Inoltre, l’iniziativa per l’interdizione e l’inabilitazione spetta anche alla parte dell’unione civile che, al cessare della causa, può chiederne la revoca. È attribuita poi la facoltà di avviare un’azione per l’interdizione e l’inabilitazione di una delle parti dell’unione civile e, al cessare della causa, di chiederne la revoca. Si ha il diritto a ricevere, in caso di morte del partner lavoratore, l’indennità di mancato preavviso e il trattamento di fine rapporto. Nell’unione civile le parti possono decidere di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi, in ciò differenziandosi dal matrimonio nel quale è la moglie che aggiunge quello del marito al proprio. Con riferimento al regime patrimoniale, la L. 76/2016 (comma 13) stabilisce che anche nelle unioni civili quello ordinario è rappresentato dalla comunione dei beni (art. 159 c.c.), fatta salva la possibilità che le parti formino una convenzione patrimoniale. Come nel matrimonio resta ferma la possibilità di optare per la separazione dei beni.
3.16.4 Scioglimento dell’unione Lo scioglimento dell’unione richiama quasi integralmente la normativa relativa al divorzio di cui alla L. 898/1970. In particolare si specifica che lo scioglimento avviene davanti all’ufficiale di stato civile, quando le parti ne manifestano la volontà (anche disgiunta). Tra le cause che determinano il venir meno del rapporto di unione civile la legge indica le seguenti:
morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti; verificarsi di gran parte delle ipotesi in cui può essere chiesto il divorzio da uno dei coniugi (art. 3, n. 1 e n. 2, lett. a), c), d) ed e) L. 898/1970); volontà dei partner (o anche uno solo di essi) manifestata davanti all’ufficiale di stato civile. La domanda di scioglimento va proposta decorsi 3 mesi dalla data in cui tale volontà è manifestata, in ciò differenziandosi dal matrimonio che prevede un termine minimo di 6 mesi dalla separazione per poter procedere al divorzio; pubblicazione di una sentenza con la quale si procede alla rettificazione dell’attribuzione di sesso di una delle parti. Il comma 25 dell’articolo unico della L. 76/2016 estende alle unioni civili la disciplina della legge sul divorzio relativa all’obbligo dell’assegno di mantenimento a favore dell’altro quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. È prevista anche l’applicazione alle unioni civili delle discipline acceleratorie
dello
scioglimento
del
matrimonio
prima
esaminate, vale a dire la negoziazione assistita e la procedura semplificata davanti al Sindaco quale ufficiale di stato civile.
3.17 La filiazione 3.17.1 Concetti introduttivi Per filiazione si intende il rapporto che lega il genitore e le persone da lui procreate. Si distingue tra: figli nati nel matrimonio, concepiti o nati da genitori uniti in matrimonio; figli nati fuori del matrimonio, concepiti o nati fuori del matrimonio o da persona coniugata e persona diversa dall’altro coniuge; figli incestuosi, così detti perché frutto dell’unione fra parenti in linea retta all’infinito o collaterali fino al secondo grado o affini in linea retta. Accanto a queste categorie, la legge riconosce anche la categoria dei figli adottivi, allorquando il rapporto di filiazione s’instauri fra soggetti non legati da un vincolo di sangue. A ciascuna di queste forme di filiazione corrisponde uno status giuridico ben definito al quale sono ricollegati tanto dei diritti ed obblighi nei confronti del genitore, quanto il riconoscimento pubblico della posizione filiale. Il trattamento giuridico riservato ai figli cd. naturali (nati furi del matrimonio) è assimilato a quello dei figli cd. legittimi
(nati all’interno del matrimonio). Già con la riforma del diritto di famiglia di cui alla L. 151/1975 erano state superate moltissime discriminazioni sino ad allora esistenti ai danni della filiazione non legittima, in ossequio ad una piena attuazione del dettato costituzionale di cui all’art. 30, in virtù del quale “la legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.” Tuttavia, persistevano ancora alcuni privilegi, seppure limitati, in favore della filiazione legittima. La L. 10-12-2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali) ha apportato una sostanziale modifica alla disciplina della filiazione, configurando un nuovo assetto giuridico dei rapporti familiari, con l’obiettivo di assicurare l’equiparazione tra figli legittimi e naturali, completando così il lungo cammino iniziato già con la riforma del diritto di famiglia. In attuazione della delega di cui all’art. 2 di tale legge, è stato poi emanato il D.Lgs. 28-12-2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione), che ha eliminato ogni residua discriminazione rimasta nel nostro ordinamento fra i figli nati nel e fuori dal matrimonio, così garantendo la completa eguaglianza giuridica degli stessi in attuazione dei principi costituzionali e degli obblighi imposti a livello internazionale. Si riconosce, dunque, un unico status giuridico, quello di «figlio», eliminando, anche sotto un profilo lessicale, la distinzione tra figlio legittimo e naturale; laddove si rendesse
comunque necessario indicarne l’origine, si prevede l’impiego delle locuzioni figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio, in luogo di quelle precedenti «figli legittimi» e «naturali». Conseguenza di tale premessa è l’estensione delle disposizioni in tema di filiazione a tutti i figli, senza distinzioni,
e
una
rivisitazione
della
disciplina
del
riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio con l’espressa abrogazione dell’istituto della cd. legittimazione dei figli naturali (erano detti «legittimati» quei figli che, nati fuori del matrimonio, acquistavano la qualità di figli legittimi per susseguente matrimonio dei genitori o per provvedimento del giudice). Quanto ai figli incestuosi, il loro riconoscimento può essere autorizzato dall’autorità giudiziaria avuto riguardo all’interesse del figlio medesimo e alla necessità di evitargli qualsiasi pregiudizio (art. 251, co. 1, c.c.).
3.17.2 I figli nati nel matrimonio Vista la difficoltà di provare che il figlio è stato generato dal marito e che il concepimento è avvenuto in costanza di matrimonio, la legge pone due presunzioni sulle quali pure ha inciso la riforma ultima sulla filiazione, in coerenza con il principio di unicità dello stato di figlio (art. 315 c.c.): la presunzione di paternità, in base alla quale “il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio” (art. 231 c.c.). Si tratta di una presunzione relativa, in
quanto ammette la prova contraria, ma tale prova non è libera: è necessario esperire l’azione di disconoscimento della paternità ex art. 243-bis c.c.; la
presunzione
di
concepimento
durante
il
matrimonio in base alla quale “si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora
trascorsi
trecento
giorni
dalla
data
dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio” (art. 232 c.c.). Si tratta di una presunzione assoluta, nel senso che non è ammessa la prova contraria. La filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri di stato civile, oppure, in sua mancanza, con il possesso continuo dello stato di figlio (art. 236 c.c.). Tale possesso di stato risulta da una serie di circostanze che fanno ritenere l’esistenza di un rapporto di filiazione; in particolare, è necessario (art. 237 c.c.): che la persona sia stata sempre trattata come figlio dal presunto padre, il quale, in tale qualità, abbia provveduto al suo mantenimento, all’educazione e al suo collocamento (cd. tractatus); che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali (cd. fama) e all’interno della famiglia (cd. nomen). La prova della filiazione, inoltre, secondo la nuova versione dell’articolo 241 c.c., in mancanza dell’atto di nascita
o del possesso di stato, può essere data in giudizio con ogni mezzo. Lo stato di figlio può essere contestato solo nei casi previsti dalla legge e solo attraverso tipiche azioni definite “azioni di stato”: l’azione di disconoscimento della paternità, diretta a negare che il marito della madre sia il padre del bambino da questa generato e concessa, quindi, al fine di eliminare gli effetti della presunzione di paternità. Essa trova oggi la propria regolamentazione negli articoli 243-bis ss. c.c. (con conseguente abrogazione del previgente art. 235 c.c.) che, abbandonando i rigidi presupposti cui in passato si condizionava l’esercizio dell’azione, si limitano a prevedere che l’attore debba dimostrare (con qualsiasi mezzo) unicamente che non sussiste rapporto di filiazione tra figlio e presunto padre. In ogni caso, come già disposto dalla previgente disciplina, la sola dichiarazione della madre
non
vale
ad
escludere
la
paternità.
La
legittimazione a proporre l’azione per il disconoscimento di paternità compete al marito, alla madre e al figlio medesimo; l’azione di contestazione dello stato di figlio, la quale può essere esperita da chi nell’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e da chiunque vi abbia interesse (art. 248 c.c.). La contestazione di stato è ammessa essenzialmente nei casi in cui il figlio non sia stato partorito dalla donna sposata, in quanto questa ha simulato il parto di un bambino non suo (cd. supposizione
di parto) oppure in quanto il neonato partorito dalla donna è stato, per qualsiasi motivo o ragione scambiato con un altro (cd. sostituzione di neonato); l’azione di reclamo dello stato di figlio, mediante la quale il figlio, in mancanza di un titolo che documenti il suo status di figlio di determinati genitori, può chiedere di far accertare giudizialmente tale suo status. L’art. 239 c.c. consente all’attore di reclamare uno stato diverso da quello
risultante
dall’atto
di
nascita,
chiedendo
l’accertamento del proprio status filiationis innanzitutto nei casi di supposizione di parto o sostituzione di neonato. L’azione può poi essere proposta da chi sia nato nel matrimonio, ma sia stato iscritto nei registri dello stato civile come figlio di ignoti, salvo che sia intervenuta una sentenza di adozione. Si prevede pure, sempre in relazione alla filiazione nell’ambito del matrimonio, che sia reclamabile lo stato di figlio conforme alla presunzione di paternità da chi è stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione e da chi fu iscritto anagraficamente in conformità ad altra presunzione di paternità. Quale criterio finale di esercizio dell’azione, viene previsto che essa in ogni caso può essere esercitata per far valere un diverso stato di figlio quando il precedente sia stato comunque rimosso.
3.17.3 I figli nati fuori del matrimonio Se, prima con la L. 219/2012 e poi con il D.Lgs. 153/2013, si è provveduto ad eliminare ogni residua discriminazione tra
figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio, tuttavia il legislatore ha mantenuto differenziate le modalità di acquisizione dello stato di figlio, a seconda della sussistenza o meno di un legame matrimoniale tra i genitori. Nel primo caso, infatti, il matrimonio determina l’attribuzione automatica dello stato dei figli dei coniugi, operando la presunzione di paternità. Ove non ricorra il vincolo matrimoniale tra i genitori, invece, l’accertamento della filiazione non avviene in via automatica, ma per il tramite di un atto volontario, il riconoscimento (art. 250 c.c.) o, in difetto, attraverso un accertamento giudiziale (art. 269 c.c.). Il riconoscimento è, dunque, l’atto formale con il quale un soggetto dichiara di essere il genitore di un determinato bambino nato al di fuori del matrimonio. Esso può essere fatto da uno o da entrambi i genitori, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento; esso può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente (art. 250 c.c.). Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso. Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento. Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salvo che il giudice li
autorizzi,
valutate
all’interesse del figlio.
le
circostanze
e
avuto
riguardo
Quanto alla forma, l’art. 254 c.c. prevede che il riconoscimento del figlio nato furi del matrimonio è fatto nell’atto di nascita oppure con una dichiarazione, successiva alla nascita o al concepimento, fatta all’ufficiale dello stato civile o contenuta in un atto pubblico o in un testamento (art. 254 c.c.). Ai sensi dell’art. 258 c.c., il riconoscimento produce effetti non solo riguardo al genitore da cui è stato fatto, ma anche
riguardo
ai
parenti
di
esso,
così
ribadendosi
l’instaurazione del legame parentale anche all’interno della filiazione naturale. Il riconoscimento comporta la costituzione in capo al figlio dello status di figlio e l’assunzione da parte del genitore di tutti i diritti e di tutti gli obblighi connessi al rapporto di filiazione. Se il padre e la madre non procedono al riconoscimento, il figlio
può
agire
in
giudizio
affinché
sia
dichiarata
giudizialmente la paternità o la maternità naturale. L’azione può essere esercitata in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento e la relativa prova può essere fornita con ogni mezzo (art. 269 c.c.). Con la sentenza che dichiara la filiazione naturale si producono gli effetti propri del riconoscimento.
3.17.4 La filiazione nella coppia omosessuale: cenni Con l’emanazione dei decreti legislativi nn. 5, 6 e 7 del 2017 la disciplina delle unioni civili può dirsi completata, anche se rimane un vuoto in materia di filiazione. Invero, benché l’unione civile sia definita come “ specifica formazione sociale
ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” (art. 1 co. 1, L. 76/2016), secondo la previsione legislativa il rapporto si esaurisce tra le parti e non contempla la presenza di figli. Nel progetto di legge, invece, era stata inserita la cosiddetta stepchild adoption, estendendo espressamente anche alla parte dell’unione civile la possibilità, prevista per il coniuge, di adottare con l’adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1, lett. b) L. 184/1983, il figlio minore dell’altra parte. La stepchild adoption
è
stata
tuttavia
oggetto
di
vivace
dibattito
nell’opinione pubblica e di forti contrasti e dissensi a livello parlamentare per superare i quali e al fine di consentire l’approvazione della legge è stata assunta la decisione politica di eliminare la previsione di questa forma di adozione dal testo normativo. Allo stato, dunque, nel nostro ordinamento non è riconosciuto un diritto della coppia omosessuale, pur se fondata sulla costituzione di un’unione civile, alla genitorialità. Né l’adozione né le tecniche di procreazione assistita sono accessibili in Italia alle coppie omosessuali, in quanto per la prima la richiesta deve provenire da una coppia unita in matrimonio (art. 6, co. 1, L. 184/1983), per le seconde da soggetti maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi, (art. 5, L. 19-2-2004, n. 40). La maternità surrogata, inoltre, indispensabile alle coppie omosessuali maschili, incontra un divieto assoluto e generale nella legge sulla fecondazione assistita.
3.18 La responsabilità genitoriale La riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva, tra le altre numerose novità, sostituito all’arcaico concetto di “patria potestà” l’istituto della potestà genitoriale, equamente esercitata da entrambi i coniugi; si tratta di un potere attribuito ai genitori non già nel loro interesse, bensì nell’interesse esclusivo degli stessi figli (si definiva, perciò un potere per i figli, non sui figli). Per questa ragione in tempi più recenti si è cominciato a parlare di responsabilità genitoriale, termine ora definitivamente sancito anche a livello codicistico. L’abbandono della nozione di potestà corrisponde alla scelta di valorizzare il profilo dell’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti dei figli, sulla base di una mutata considerazione del rapporto tra genitori e figli nella quale vengono posti in primo piano i diritti di quest’ultimo. Il nuovo art. 316 c.c. (dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. 154/2013, attuativo della riforma della filiazione) dispone che entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale e la esercitano di comune accordo, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori, di comune accordo, stabiliscono la residenza abituale del minore. Se si tratta di figli nati fuori del matrimonio, la responsabilità genitoriale è esercitata dal genitore che ha
effettuato il riconoscimento. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi. Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila
comunque
sull’istruzione,
sull’educazione
e
sulle
condizioni di vita del figlio. Nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, l’art. 317 c.c. prevede che questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro. Ai
sensi
del
“rappresentanza
novellato e
art.
320
amministrazione”,
c.c.,
rubricato
i
genitori
congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri, fino alla maggiore età o all’emancipazione in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni.
3.19 Diritti e doveri dei figli La riforma in materia di filiazione, dopo aver stabilito il principio di unicità dello status di figlio (art. 315 c.c.), ha provveduto a coniare un nuovo art. 315-bis c.c., intitolato “Diritti e doveri del figlio”, nel quale vengono inseriti e sviluppati i precetti precedentemente contenuti negli artt. 147 c.c. (Doveri verso i figli) e 315 c.c. (Doveri del figlio verso i genitori). In particolare, ai sensi del citato art. 315-bis c.c., il figlio ha diritto: di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni; di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti; di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, quando abbia compiuto 12 anni o, seppure di età inferiore, sia capace di discernimento. I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i
loro doveri nei confronti dei figli. In caso di inadempimento il Presidente del Tribunale, su istanza di chiunque vi abbia interesse, sentito l’inadempiente e assunte informazioni, può ordinare con decreto che una quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole (così dispone il novellato art. 316-bis c.c.). Il figlio, dal canto suo, deve rispettare i genitori e contribuire al mantenimento della famiglia finché convive con essa, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito (art. 315-bis, ultimo comma, c.c.).
3.20 Gli effetti della filiazione Il rapporto di filiazione, sia all’interno che fuori dal matrimonio, determina il sorgere di una serie di effetti. Innanzitutto, con la costituzione del rapporto di filiazione all’interno del matrimonio il figlio assume il cognome paterno, mentre nella filiazione fuori del matrimonio, ai sensi dell’art. 262 c.c. assume quello del genitore che per primo lo ha riconosciuto o del padre, se il riconoscimento è stato effettuato da entrambi i genitori. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre (art. 262 c.c.). Sotto il profilo degli effetti della filiazione, con l’ultima riforma si è provveduto alla unificazione della disciplina dei diritti e doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, così ponendosi in evidenza l’identità dei diritti e doveri genitoriali nei confronti di tutti i figli, a prescindere dall’esistenza di un vincolo coniugale. Nella medesima prospettiva la riforma ha realizzato altresì la parità dei diritti successori, intervenendo sul cd. diritto di commutazione, istituto che ancora registrava una significativa discriminazione tra figli legittimi e figli naturali.
3.21 L’adozione e l’affidamento del minore L’adozione crea un rapporto di filiazione che viene definito civile, in quanto non è basato sulla procreazione naturale. Qui il legame giuridico di filiazione è stabilito dall’intervento del giudice, in assenza dell’atto di procreazione; esso trova il suo fondamento in un atto di volontà con cui un soggetto riconosce lo status di figlio ad un altro soggetto che non è stato da lui procreato. Originariamente
l’adozione
era
un
istituto
diretto
principalmente a procurare una discendenza a coloro che ne fossero privi; solo successivamente ha assunto un ruolo centrale la persona dell’adottato (del bambino soprattutto) e, nel tempo, è diventato preminente l’interesse di quest’ultimo per cui l’istituto è stato diretto a garantire una sistemazione familiare ai minori abbandonati. Questo cambiamento di prospettiva è culminato nella L. 184/1983,
che
ha
completamente
riformato
l’istituto
dell’adozione. Allo stato sono regolamentate le seguenti figure di adozione: l’adozione piena, relativa ai minori in stato di abbandono, integralmente disciplinata dalla citata L. 184/1983;
l’adozione di persone maggiori di età, introdotta dalla riforma del 1983 e alla quale si applica la disciplina dettata in origine dal codice per l’adozione cd. ordinaria (ovvero per quella dei maggiorenni e dei minori superiori agli 8 anni; per quelli inferiori a tale età operava invece il regime di adozione cd. speciale); l’adozione in casi particolari, che non presuppone necessariamente lo «stato di abbandono» ed è consentita solo in presenza di determinate condizioni (art. 44 L. 184/1983); l’adozione internazionale, che ha riguardo all’adozione di un minore straniero. La principale figura di adozione è quella che riguarda il minore abbandonato, disciplinata dalla L. 184/1983, come modificata
dalla
significativamente
successiva inciso
L.
sulla
149/2001,
normativa
che
ha
preesistente,
affermando con forza il diritto del minore ad una famiglia. I presupposti necessari dell’adozione dei minori sono: lo stato di abbandono del minore adottando; l’idoneità degli adottanti ad adottare. Vengono
dichiarati
adottabili
i
minori
privi
di
assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti e quando questa mancanza non è dovuta a cause di forza maggiore di carattere transitorio. Affinché siano dichiarati idonei ad adottare, occorre che gli adottanti:
siano sposati da almeno 3 anni; non siano separati, neppure di fatto; abbiano un’età che superi di almeno 18 e non più di 45 anni l’età del minore da adottare; siano effettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare. Sono ammesse deroghe alla differenza di età se: il Tribunale accerta che dalla mancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore; il limite dei 45 anni è superato da uno solo dei coniugi nella misura non superiore a 10 anni; gli adottanti sono genitori di figli anche adottivi dei quali almeno uno minorenne; l’adozione riguarda un fratello o una sorella del minore già dagli stessi coniugi adottato. Ai medesimi coniugi sono consentite più adozioni anche con atti successivi. Costituisce criterio preferenziale ai fini dell’adozione l’avere già adottato un fratello dell’adottando o il fare richiesta di adottare più fratelli, ovvero la disponibilità dichiarata all’adozione di minori che si trovino nelle condizioni di svantaggio indicate dall’art. 3, co. 1, L. 104/1992, concernente l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Competente a emettere i provvedimenti è il Tribunale per i Minorenni nel cui distretto si trova il bimbo abbandonato. L’adozione vera e propria è preceduta da un affidamento preadottivo e, una volta intervenuta, spezza ogni vincolo di
parentela fra il minore e i suoi familiari naturali, divenendo l’adottato a pieno titolo un membro della nuova famiglia. L’art. 74 c.c., come novellato dalla L. 219/2012, è chiaro nell’attribuire il vincolo di parentela anche quando la filiazione sorga dal rapporto adottivo, salvo che per quello disciplinato dagli artt. 291 e ss. c.c. (Adozione di persone maggiori di età). Ulteriore istituto a protezione del minore (la cui disciplina è pure contenuta nella L. 184/1983) è quello dell’affidamento familiare che, tuttavia, non determina il sorgere di un rapporto adottivo, essendo piuttosto volto a sopperire ad una temporanea carenza dell’ambiente familiare del minore. Si fa, infatti, luogo all’affidamento a soggetti terzi nell’ipotesi in cui il minore sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, affinché siano garantite le sue esigenze educative ed affettive quando all’interno della famiglia di origine si verifichino fatti tali da destabilizzarne l’ordine, l’armonia e la pace (es. situazioni di tossicodipendenza, alcolismo, incuria, maltrattamenti in danno del minore). La durata massima dell’affidamento non può eccedere i 24 mesi, essendo la temporaneità del provvedimento funzionale al rientro del minore nella famiglia di origine; tuttavia il termine massimo può essere prorogato dal Tribunale per i Minorenni se la sospensione dell’affidamento possa recare pregiudizio al minore. L’art. 10 L. 4/2018 (Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici) ha modificato la L.
184/1983, dettando norme in materia di affidamento dei minori orfani per crimini domestici. La disposizione prevede che nel caso di minore rimasto privo di un ambiente familiare idoneo a causa della morte del genitore, cagionata volontariamente dal coniuge (anche legalmente separato o divorziato) o dall’altra parte (o ex parte) dell’unione civile o dal convivente o da persona legata al genitore stesso, anche in passato, da relazione affettiva, il Tribunale deve provvedere all’affidamento privilegiando la continuità delle relazioni affettive consolidatesi tra il minore stesso e i parenti fino al terzo grado. Nel caso in cui vi siano fratelli o sorelle, il Tribunale deve cercare di assicurare la continuità affettiva tra gli stessi. Su segnalazione del Tribunale competente, i servizi sociali sono tenuti ad assicurare a tali minori un adeguato sostegno psicologico e l’accesso alle misure di sostegno volte a garantire il diritto allo studio e l’inserimento nell’attività lavorativa.
Capitolo 4 Le successioni e le donazioni 4.1 La successione a causa di morte La successione a causa di morte indica comunemente il subentrare di persona vivente nella titolarità di una situazione giuridica patrimoniale già appartenente ad una persona defunta. Le tipiche distinzioni della successione a causa di morte sono: universale (eredità) e particolare (legato), legittima e testamentaria. L’art. 457, co. 1, c.c. dispone che “l’eredità si devolve per legge o per testamento”. Nel primo caso la successione è definita legittima, in quanto è regolata solo dalla legge; nel secondo caso si parla di successione testamentaria, in quanto trova la propria fonte, appunto, nel testamento. Non è tuttavia possibile disporre liberamente di tutti i propri beni. La legge, infatti, da un lato tutela l’autonomia privata, consentendo a ciascuno di decidere a chi dovranno essere attribuiti i propri beni, dall’altro tutela anche le esigenze del gruppo familiare e individua alcuni stretti parenti del
defunto ai quali deve essere devoluta una parte del patrimonio del defunto stesso. Tali soggetti sono definiti legittimari e la quota a essi riservata è definita quota di riserva o indisponibile. Non tutti i diritti e gli obblighi che fanno capo ad un individuo possono trasferirsi ad altri soggetti a seguito della sua morte. Secondo la regola generale, possono trasferirsi al successore solo i diritti e gli obblighi aventi contenuto patrimoniale (cioè suscettibili di una valutazione in termini economici) mentre si estinguono, al momento della morte del loro titolare, i diritti non patrimoniali, sia personalissimi (ad esempio, i diritti della personalità) sia familiari (ad esempio, lo stato di coniuge o di padre). In materia di successioni ha inciso il D.Lgs. 154/2013, che ha provveduto ad adeguare la relativa disciplina al principio dell’unificazione dello stato di figlio. In questa direzione, la modifica di maggior rilievo attiene all’abrogazione del cd. diritto di commutazione, istituto che ancora registrava una significativa discriminazione tra figli legittimi e figli naturali.
4.1.1 Il procedimento successorio Il procedimento successorio consta di tre fasi: apertura della successione, vocazione e delazione. L’apertura della successione indica il tempo e il luogo in cui inizia il fenomeno successorio determinato dalla morte del de cuius. L’art. 456 c.c. prescrive che la successione si apre al momento della morte, nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto.
Vocazione e delazione sono fenomeni collegati alla necessità di far subentrare nel complesso dei rapporti giuridici che facevano capo al defunto un nuovo soggetto. La vocazione indica l’aspetto soggettivo, la designazione, per legge o per testamento, di coloro che succederanno. La delazione indica l’aspetto oggettivo e va intesa come il complesso dei diritti e delle altre situazioni giuridiche che alla morte del testatore viene offerto al soggetto che succede, il quale ha la possibilità di acquistarlo attraverso un atto di accettazione. In sostanza, la vocazione è il titolo in base al quale si succede (legge o testamento); la delazione consiste nell’attribuzione ad un soggetto del diritto a succedere sul fondamento della vocazione.
4.1.2 Eredità e legato L’eredità riguarda tutto il patrimonio del defunto (o una quota del patrimonio), abbraccia, cioè, tutti i rapporti patrimoniali attivi e passivi; il legato, invece, riflette uno o più rapporti patrimoniali, esclusivamente attivi (art. 588, co. 1, c.c.). Comunemente si afferma che il legato configura la tipica “successione a titolo particolare a causa di morte”, a differenza dell’eredità che configura, invece, una “successione a titolo universale”. Per il legislatore, la successione ereditaria è fenomeno necessario nel senso che vi dovrà sempre essere un erede alla morte di ogni soggetto. In ultima istanza erede sarà lo Stato quale successore ex lege (art. 586 c.c.). Il legato, invece, è fenomeno meramente eventuale.
L’art. 588, co. 1, c.c. fonda la distinzione tra eredità e legato su un criterio oggettivo. Le disposizioni testamentarie che comprendono l’universalità o una quota dei beni del defunto sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede. Le
altre
disposizioni
sono
a
titolo
particolare
e
attribuiscono la qualità di legatario. Il comma 2 dell’articolo citato introduce un criterio suppletivo di carattere soggettivo: “l’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio”. La distinzione tra eredità e legato è molto importante. Infatti: diverso è il modo di acquisto: l’eredità si acquista solo a seguito di un atto di accettazione da parte dell’erede, mentre il legato si acquista automaticamente senza necessità di accettazione, pur potendo il legatario rinunciare all’acquisto; diversa è la responsabilità per i debiti che facevano capo al defunto: l’erede, infatti, poiché subentra nell’intero patrimonio del defunto o in una sua quota, risponde dei debiti ereditari anche se superano il valore dell’eredità, quindi anche con i suoi beni personali. Per evitare questa conseguenza, egli deve accettare l’eredità con il beneficio di inventario. Il legatario, invece, poiché subentra solo in uno o più rapporti determinati, non è tenuto a pagare debiti che facevano capo al defunto, salvo
che quest’ultimo abbia espressamente posto il pagamento a carico del legatario. Il legatario, tuttavia, anche in tal caso è obbligato solo nei limiti del valore del legato ricevuto.
4.1.3 Il divieto dei patti successori Dopo aver stabilito che l’eredità si devolve per legge o per testamento (art. 457 c.c.), il codice civile, all’art. 458, commina la nullità di ogni convenzione mediante la quale si dispone della propria successione e di ogni atto con il quale si dispone o si rinunzia ai diritti che possono spettare su una successione non ancora aperta. I patti istitutivi, quelli dispositivi e quelli rinunziativi sono accomunati dall’avere ad oggetto beni di una persona in previsione della sua morte: con il patto successorio istitutivo il de cuius compie in realtà un contratto successorio, normalmente col proprio futuro erede o legatario disponendo della propria successione; con il patto successorio dispositivo un soggetto dispone, non della propria successione, ma dei diritti che prevede di acquistare succedendo a causa di morte ad un altro soggetto; con il patto successorio rinunziativo un soggetto rinunzia ai diritti che gli possono spettare su una successione futura.
Nelle tre figure in esame esiste un negozio giuridico non testamentario (contratto o negozio unilaterale) e l’oggetto del negozio è considerato come entità di una futura successione. L’art. 458 c.c., nel disporre il divieto dei patti successori, fa salvo quanto previsto dagli artt. 768-bis ss. c.c., introdotti dalla L. 55/2006, che disciplinano il cd. patto di famiglia. In sostanza, queste disposizioni consentono agli imprenditori di garantire una successione certa nell’interesse dell’azienda, mediante una deroga al generale principio di divieto dei patti successori,
prevedendo
la
liceità
di
accordi
diretti
a
regolamentare la successione dell’imprenditore o di chi è titolare di partecipazioni societarie.
4.1.4 L’eredità prima dell’acquisto Durante il periodo che intercorre tra l’apertura della successione e l’accettazione dell’eredità, il patrimonio del de cuius rimane privo di un titolare attuale. Sorge quindi il problema di chi e come tutelare tale patrimonio da possibili deterioramenti dei beni che lo compongono o da sottrazioni, appropriazioni ad opera dei terzi. A tale scopo la legge attribuisce a colui che diverrà erede (cioè al chiamato) degli specifici poteri. Ai sensi dell’art. 460 c.c., questi potrà compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea: il chiamato potrà per esempio chiedere all’autorità giudiziaria il sequestro dei beni posseduti da terzi che facciano parte del patrimonio ereditario. Potrà inoltre esercitare azioni possessorie sui beni ereditari. Potrà essere autorizzato dall’autorità giudiziaria a vendere i
beni deperibili e quelli la cui conservazione potrebbe rivelarsi eccessivamente onerosa. Il chiamato all’eredità, se è nel possesso dei beni del de cuius, deve dichiarare entro un breve termine se accetta o rinunzia altrimenti viene considerato erede puro e semplice.
4.1.5 L’eredità giacente L’ordinamento giuridico interviene per regolamentare i rapporti
pendenti
l’apertura
della
nel
periodo
che
successione
e
intercorre
tra
l’accettazione
dell’eredità, da un lato fissando i poteri del chiamato, e dall’altro, in via alternativa, disciplinando la cosiddetta eredità giacente. Quest’ultima soluzione presuppone che l’incertezza sulla sorte dell’eredità possa prolungarsi per molto tempo. Nel caso in cui il chiamato non è stato identificato o non è nel possesso dei beni ereditari, ovvero non ha ancora accettato l’eredità, il Tribunale, su istanza delle persone interessate o d’ufficio, nomina un curatore dell’eredità giacente al quale la legge attribuisce una serie di funzioni; costui difatti deve redigere
un
inventario
dei
beni
ereditari
e
deve
amministrarli. Inoltre è legittimato ad agire e a resistere in giudizio nell’interesse dell’eredità; infine può procedere al pagamento dei debiti ereditari. La curatela cessa con l’accettazione dell’eredità.
4.2 La capacità di succedere e l’indegnità La capacità di succedere a causa di morte è l’attitudine a subentrare nella titolarità dei rapporti giuridici di cui era titolare una persona defunta. La capacità di succedere è prevista dall’art. 462, co. 1 e 3, c.c.
Ogni
soggetto
è
capace
di
succedere,
ma
deve
giuridicamente esistere. Per i nascituri (concepiti e non), che non sono ancora soggetti di diritto, la delazione ereditaria è differita al momento della nascita. Le disposizioni testamentarie a vantaggio di persone incapaci sono nulle anche se fatte sotto nome di interposta persona (art. 599 c.c.). Trattasi di nullità assoluta, che, pertanto, può essere fatta valere in ogni tempo, da chiunque vi abbia interesse e rilevata d’ufficio dal giudice. L’indegnità è una causa di esclusione dall’eredità concernente una persona che, per la sua condotta verso il defunto, non è ritenuta meritevole di succedere (art. 463 c.c.). Sono considerati indegni a succedere coloro che hanno compiuto azioni particolarmente gravi nei confronti della persona del defunto (es.: chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere il de cuius) o dei suoi prossimi congiunti oppure hanno attentato alla libertà testamentaria del defunto stesso, ad esempio distruggendo o alterando il suo testamento
o inducendo con dolo o violenza questi a fare, revocare o mutare il testamento, ovvero utilizzando un testamento falso. Il soggetto sospetto di indegnità conserva tutti i suoi diritti di successibile, può acquistare l’eredità (la delazione a suo favore è immediata), ma quanto acquistato dovrà essere restituito, in seguito all’accertamento definitivo, ad opera del giudice, della sussistenza della causa di indegnità. Gli effetti dell’indegnità, infatti, non sono automatici, ma conseguono necessariamente ad una sentenza del giudice, che può anche intervenire dopo che l’indegno, non ancora dichiarato tale, abbia validamente accettato l’eredità. La sentenza che accerta l’indegnità ha effetto retroattivo. L’incapacità
impedisce
l’acquisto
dell’eredità;
l’indegnità, invece, non impedisce detto acquisto, ma comporta l’esclusione dall’eredità e il venir meno dell’acquisto già verificatosi, a seguito della sentenza costitutiva del giudice. Ai sensi dell’art. 466 c.c. l’indegno può essere riabilitato dal testatore e, in questo caso, egli è riammesso alla successione: la riabilitazione deve essere fatta espressamente in un atto pubblico o in un testamento (art. 466 c.c.). La L. 4/2018, al fine di prevenire il fenomeno della cd. “vittimizzazione
secondaria”,
reca
disposizioni
volte
a
rafforzare le tutele per i figli rimasti orfani per crimini domestici. Si intendono per tali, secondo la stessa dizione della legge, “i figli minori o i figli maggiorenni economicamente non autosufficienti rimasti orfani di un genitore a seguito di omicidio commesso in danno dello stesso genitore dal
coniuge, anche legalmente separato o divorziato, dall’altra parte dell’unione civile, anche se l’unione civile è cessata, o dalla persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza” (art. 1). L’art. 5 della legge interviene sull’istituto dell’indegnità a succedere, con la finalità di renderne automatica l’applicazione in caso di condanna per uxoricidio. In particolare, il comma 1 inserisce nel codice civile l’art. 463-bis, con il quale: è sospesa la chiamata all’eredità del coniuge, anche legalmente separato, nonché della parte dell’unione civile indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile, fino al decreto di archiviazione o alla sentenza definitiva di proscioglimento; è prevista la nomina di un curatore dell’eredità giacente (vedi richiamo dell’art. 528 c.c.); è prevista l’applicazione dell’istituto dell’indegnità a succedere anche in caso di patteggiamento della pena (vedi richiamo dell’art. 444 c.p.p.). Si dispone che in caso di condanna il responsabile è escluso dalla successione. Tale disciplina trova applicazione anche con riguardo ai soggetti indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti di uno o entrambi i genitori, del fratello o della sorella.
4.3 I momenti della successione 4.3.1 L’acquisto dell’eredità L’apertura della successione segna il momento in cui il patrimonio del defunto rimane privo del titolare. Essa avviene al momento della morte del de cuius e nel luogo in cui il defunto aveva l’ultimo domicilio e non già nel luogo in cui è avvenuta la morte. Nel nostro ordinamento, salvo eccezioni, non sono ammessi acquisti coattivi ed è erede solo il soggetto che voglia essere tale. La chiamata a succedere, perfezionata con la delazione, diventa efficace solo con l’accettazione, che rappresenta la dichiarazione di volontà unilaterale attraverso cui il chiamato “acquista l’eredità”. Al
contrario
dell’erede,
il
legatario
acquista
automaticamente il bene o il diritto a lui attribuito dal testatore, senza necessità di accettazione. Egli, in ogni caso, può rinunziare al legato ed impedire, in tal modo, l’acquisto del diritto (art. 649 c.c.).
Il diritto di accettazione è, dunque, il diritto del chiamato di acquistare l’eredità, diritto che si prescrive in dieci anni. Tale termine decorre dall’apertura della successione ed è previsto
dalla legge affinché non resti incerta l’appartenenza dei patrimoni. Se il chiamato muore senza avere accettato l’eredità, il diritto di accettare si trasmette ai suoi eredi ipso iure, poiché il diritto di accettare entra a far parte dell’asse ereditario del de cuius e si trasmette come uno dei suoi elementi. L’effetto dell’accettazione risale al momento in cui si è aperta la successione, evitando così qualsiasi interruzione di continuità nella titolarità dei rapporti giuridici che facevano capo al de cuius, in quanto l’erede diviene titolare del patrimonio ereditario fin dal momento della morte del de cuius, anche se l’accettazione interviene in un momento successivo.
4.3.2 L’accettazione dell’eredità L’accettazione
è
un
atto
unilaterale
formale
e
irrevocabile, non può essere sottoposta a condizione o a termine e non può essere parziale. In base al modo di eseguirla l’accettazione può essere: espressa, se contenuta in una dichiarazione resa in un atto pubblico o in una scrittura privata; tacita, se manifestata tramite un comportamento che solo chi si considera erede potrebbe tenere, ad esempio la vendita o la donazione di un bene ereditario. L’accettazione
può
avvenire
puramente
semplicemente o con beneficio di inventario.
e
Nel primo caso si determina la confusione del patrimonio dell’erede con quello del defunto, con la conseguenza che l’erede è responsabile per i debiti e i legati ereditari anche con il proprio patrimonio, oltre cioè quanto abbia acquisito con l’eredità. Per evitare le conseguenze economiche negative derivanti da un patrimonio del de cuius in cui l’attivo sia inferiore al passivo, l’accettazione può essere anche con beneficio di inventario, in tal modo l’erede impedisce che si determini la confusione tra il suo patrimonio e il patrimonio ereditario. Infatti, con l’accettazione con beneficio di inventario, l’erede risponde delle obbligazioni trasmessegli dal de cuius solo nei limiti del valore del patrimonio ereditario e non sarà costretto a pagare con denaro o beni propri. Tale accettazione è in facoltà di ogni chiamato all’eredità, nonostante eventuali divieti, mentre costituisce un obbligo per alcuni soggetti individuati dalla legge, in particolare, per gli incapaci assoluti e relativi e per le persone giuridiche. Il chiamato all’eredità deve accettarla, come anticipato, entro dieci anni dal giorno dell’apertura della successione, oppure entro il termine eventualmente fissato dal giudice in base all’art. 481 c.c. Nel caso non sia interessato a succedere egli può, anche prima, manifestare la propria intenzione di non accettare l’eredità rinunziandovi.
4.3.3 La petizione ereditaria
La petizione ereditaria è l’azione con la quale l’erede chiede il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possieda tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi (art. 533 c.c.). L’azione, dunque, ha un duplice contenuto: l’accertamento della qualità di erede e la restituzione dei beni. L’azione è imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione rispetto ai singoli beni. Se l’azione è accolta, il convenuto è condannato a restituire i beni. Per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni, si applicano le disposizioni in tema di possesso. L’erede può agire in petizione dell’eredità anche contro gli aventi causa da chi possegga a titolo di erede o senza titolo (art. 534 c.c.). Il comma 2 dell’art. 534 c.c., in ossequio ai principi dell’apparenza e della tutela dell’affidamento dei terzi acquirenti di beni ereditari in buona fede a titolo oneroso, sancisce che sono comunque salvi i diritti acquistati, per effetto di convenzioni a titolo oneroso con l’erede apparente, dai terzi che abbiano acquistato in buona fede (in questo caso la buona fede non si presume ma deve essere provata).
4.3.4 La rinunzia all’eredità La rinunzia è un atto formale, contenuto in una dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del Tribunale nella cui giurisdizione si è aperta la successione, cioè nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto.
Essa non può essere sottoposta a termine o a condizione, né può riguardare una parte sola del patrimonio ereditario, a pena di nullità. Così come l’accettazione, anche la rinunzia è impugnabile solo per dolo o per violenza. Tuttavia, a seguito della rinunzia, la perdita del diritto di accettare non è definitiva; infatti si conserva il diritto di accettare l’eredità sino al momento in cui la stessa non sia stata acquistata da un altro dei chiamati e, comunque, fin quando il diritto di accettare non si è prescritto, cioè trascorsi dieci anni dall’apertura della successione. Vi sono, tuttavia, dei casi in cui, nonostante la rinunzia, il chiamato decade dal diritto di rinunziare ed è considerato erede puro e semplice: se ha sottratto o nascosto beni ereditari; se, essendo nel possesso dei beni ereditari, non ha compiuto
l’inventario
entro
tre
mesi
dal
giorno
dell’apertura della successione; se,
essendo
nel
possesso
dei
beni,
ha
compiuto
l’inventario, ma non ha fatto la relativa dichiarazione di accettazione nel termine prescritto.
4.4 La successione dei legittimari 4.4.1 Disciplina dell’istituto Con
l’espressione
successione
dei
legittimari
o
successione necessaria ci si riferisce a quell’insieme di norme che garantiscono ai parenti più stretti il diritto di succedere comunque in una parte del patrimonio del de cuius anche contro la sua volontà. Si tratta, pertanto, di quella successione in favore di alcune categorie di successibili identificati anche come successori necessari, ai quali la legge attribuisce il diritto intangibile ad una quota del patrimonio indipendentemente dalle disposizioni del testatore. I soggetti cui tali diritti sono attribuiti si chiamano legittimari, la quota spettante a ciascuno di essi si chiama legittima,
mentre
la
rimanente
prende
il
nome
di
disponibile, proprio in quanto il de cuius può liberamente disporne. Il fondamento della successione dei legittimari va cercato nella difesa del superiore interesse della famiglia. Si vuole assicurare ai più stretti congiunti, tassativamente indicati, una porzione del patrimonio ereditario (cd. legittima o riserva) dopo la morte del titolare. Malgrado la quasi identità di termini, le due figure – successione dei legittimari e successione legittima – non vanno confuse:
la successione legittima, infatti, è quella che si apre in favore degli eredi legittimi, quando manchi il testamento, oppure quando questo sia invalido o inefficace, in tutto o in parte; la successione dei legittimari rappresenta anch’essa un modo di successione per legge; non costituisce, però, un modo autonomo di vocazione e di successione. Infatti, essa si applica sia in presenza di un testamento sia in sua mancanza e stabilisce quali sono le persone alle quali deve essere
necessariamente
attribuita
una
quota
del
patrimonio e in quale misura, anche contro il testamento. In sintesi, l’istituto della legittima nel nostro ordinamento consiste in un limite alla piena facoltà di disporre del testatore.
4.4.2 Singole categorie di legittimari e loro quote L’istituto della legittima opera a favore del nucleo familiare, inteso in senso stretto. I legittimari sono secondo l’art. 536 c.c.: il coniuge superstite (al quale la L. 76/2016 ha equiparato il partner nell’unione civile); i figli, compresi gli adottivi; gli ascendenti. Al coniuge superstite è riservata la metà del patrimonio, quando mancano discendenti; se chi muore lascia, oltre il coniuge, un solo figlio, al coniuge spetta un terzo del
patrimonio; se il coniuge concorre con più figli al coniuge spetta un quarto del patrimonio. Il coniuge separato a cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Il coniuge a cui è stata addebitata la separazione ha diritto solo ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. La stessa disposizione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi. Il coniuge divorziato perde il diritto a succedere; tuttavia, in base all’art. 9 L. 898/1970, gli si riconosce un’attribuzione patrimoniale in virtù del precedente vincolo matrimoniale. Qualora versi in stato di bisogno, infatti, il Tribunale, dopo il decesso dell’obbligato, può attribuire un assegno periodico con carattere di legato alimentare a carico dell’eredità, tenendo conto dello stato di bisogno e delle sostanze ereditarie e delle condizioni economiche degli eredi. Ai figli è riservata la quota della metà, nel caso di figlio unico, e dei due terzi nel caso essi siano due o più; se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, a quest’ultimo spetta un terzo del patrimonio, quando i figli sono più di uno ad essi è riservata la metà del patrimonio. Pertanto, nel caso di concorso tra un figlio e il coniuge la quota è di un terzo ciascuno, mentre il rimanente terzo forma la cosiddetta quota disponibile di cui il de cuius può liberamente disporre per donazione o per testamento.
Se chi muore non lascia figli, ma solo ascendenti, a questi è riservato un terzo del patrimonio; tuttavia se gli ascendenti concorrono con il coniuge a questi è riservata la metà del patrimonio e agli ascendenti un quarto. Il diritto alla legittima, costituendo un limite alla libertà di disporre del testatore, non può in alcun modo essere sacrificato da quest’ultimo; è intangibile e pertanto il de cuius o altri soggetti non possono attentare alla legittima dell’avente diritto. Il testatore non può imporre alcun peso sulla legittima, né alcuna condizione sospensiva o risolutiva (art. 549 c.c.).
4.4.3 La lesione di legittima e l’azione di riduzione Si ha lesione di legittima quando la quota ad essa relativa resta intaccata, da parte del titolare del patrimonio, per effetto di atti di disposizione inter vivos oppure di disposizione mortis causa. Quando la legittima è lesa, occorre reintegrarla, mediante l’azione di riduzione degli atti che hanno prodotto la lesione stessa: presupposto indispensabile di tale azione è la riunione fittizia. Si tratta di un’operazione contabile diretta a calcolare l’intera entità del patrimonio ereditario all’epoca dell’apertura della successione, per stabilire se siano stati lesi i diritti dei legittimari. Consta di più operazioni: la formazione della massa ereditaria: si calcolano i valori dei beni appartenenti al defunto al momento dell’apertura
della
successione
detraendone
i
debiti
(cosiddetto
relictum); la riunione fittizia vera e propria: alla massa così calcolata si aggiunge il valore dei beni di cui il de cuius abbia disposto in vita a titolo di donazione (cosiddetto donatum); calcolo della disponibile e della legittima: sulla base degli elementi ottenuti si calcola la disponibile, cioè il valore di cui il defunto poteva disporre, e la legittima tenuto conto degli aventi diritto a quest’ultima. L’azione di riduzione è l’azione che ha per scopo la reintegrazione della legittima, mirando a far dichiarare l’inefficacia delle disposizioni testamentarie e delle donazioni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre. In particolare, tale azione si dirige innanzitutto contro le disposizioni testamentarie, che si riducono in proporzione nei limiti di quanto occorra per reintegrare la legittima. Se la riduzione delle disposizioni testamentarie non si riveli sufficiente ai fini indicati, si agisce contro le donazioni, risalendo dall’ultima alle precedenti. Legittimati all’azione sono il legittimario leso, gli eredi di questi, gli aventi causa del legittimario (art. 557 c.c.). L’azione
è
soggetta
alla
prescrizione
ordinaria
decennale decorrente dall’apertura della successione.
4.4.4 Legato in sostituzione di legittima
Il legato in sostituzione di legittima ricorre quando il testatore lascia al legittimario a titolo di legittima beni e somme determinate anziché una quota di eredità. Il legittimario ha una facoltà di scelta: può rinunziare al legato e chiedere la legittima, agendo in riduzione e acquistando così la qualità di erede; può conseguire il legato; in tal caso non diventa erede e perde il diritto di chiedere un supplemento nel caso in cui il valore del legato sia inferiore a quello della legittima.
4.4.5 Legato in conto di legittima Il legato in conto di legittima è quello con cui il testatore fa al legittimario un’attribuzione di beni, che deve essere
calcolata
ai
fini
della
legittima,
con
la
conseguenza che il legittimario può chiedere il supplemento se i beni attribuitigli non raggiungono l’entità della legittima. È questo il caso in cui il testatore lega un bene determinato al legittimario senza nulla aggiungere; ad esempio Tizio nomina erede universale il figlio Caio e lega al figlio Sempronio il fondo Alfa. Se Sempronio legittimario è leso nella legittima, può trattenere il legato e chiedere la differenza ovvero può rinunziare al legato e chiedere tutta la legittima.
4.5 La successione legittima Il codice civile distingue tra successione legittima e successione testamentaria: nel caso in cui manchi in tutto o in parte una disposizione testamentaria ovvero essa, pur esistendo, sia nulla o annullata, si apre la successione legittima. Nel caso in cui il de cuius abbia disposto per testamento solo per determinati beni, la successione legittima convive con quella testamentaria. Nella successione legittima (art. 565 c.c.) l’eredità si devolve ad alcuni parenti legati al de cuius da stretti legami di parentela che il legislatore riconosce come soggetti meritevoli di ricevere una quota del patrimonio ereditario. Ne costituiscono presupposti la morte senza testamento, il testamento privo di disposizioni patrimoniali, o nullo, o annullato, o revocato, o il testamento che dispone solo per alcuni beni. Sono successori legittimi il coniuge, i discendenti (ai figli sono equiparati gli adottivi), gli ascendenti, i collaterali, gli altri parenti fino al sesto grado. Se questi mancano, l’eredità è devoluta allo Stato. Un ampliamento dei soggetti successibili si è avuto con la L. 76/2016, che ha esteso ai partner delle unioni civili le disposizioni relative al coniuge dettate in tema di successioni legittime.
4.6 La successione testamentaria 4.6.1 Caratteristiche dell’istituto La successione testamentaria è, invece, quella indirizzata dalla volontà del de cuius mediante disposizioni scritte nel testamento. Il testamento è l’atto con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse ovvero detta disposizioni di carattere non patrimoniale (art. 587 c.c). Il testamento è un negozio giuridico personale, tipico, unilaterale, non recettizio, revocabile, formale. Esaminiamo tali caratteri: è personale, in quanto, in base al principio di personalità, non è mai ammessa la rappresentanza né tanto meno la possibilità di affidare la determinazione del suo contenuto ad un terzo; è tipico,
in
quanto
è
espressamente
disciplinato
dall’ordinamento giuridico. Si tratta, peraltro, dell’unico atto che può essere utilizzato al fine di disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla morte; è unilaterale, in quanto - da un punto di vista strutturale - resta distinto dall’accettazione dell’eredità, che è un negozio autonomo;
è non recettizio, in quanto non è diretto ad uno o più destinatari determinati; è
unipersonale,
nel
senso
che
deve
essere
necessariamente posto in essere da una sola persona; è vietato il testamento sottoscritto da più persone (cd. testamento congiuntivo) e il testamento in cui due persone si nominano eredi l’una a favore dell’altra (cd. testamento reciproco) (art. 589 c.c.); è formale, dal momento che la legge richiede che sia stipulato a pena di nullità in una delle forme prescritte dal codice civile: testamento olografo, pubblico, segreto, testamenti speciali; è revocabile. In virtù del pieno rispetto della libertà testamentaria, al testatore è sempre concesso di revocare o di modificare in qualsiasi momento il proprio testamento. Il testamento può essere revocato con un atto di revoca esplicito (“dichiaro di revocare il mio testamento del 20 marzo 2005”) oppure semplicemente attraverso la redazione di un altro testamento: il testamento successivo, infatti, anche se non contiene la revoca espressa del testamento precedente, annulla in questo le disposizioni che sono con esso incompatibili; è un negozio giuridico patrimoniale; in genere, infatti, il testamento
contiene
disposizioni
di
carattere
patrimoniale, anche se può contenere, in alcuni casi, disposizioni di carattere non patrimoniale (ad esempio, il testamento può contenere il riconoscimento del figlio naturale ex art. 254 c.c.).
4.6.2 La capacità di disporre per testamento Poiché il testamento è atto di disposizione mortis causa del proprio patrimonio, è necessaria la capacità di agire e la capacità di intendere e di volere. Infatti non possono disporre per testamento il minore di anni 18, l’interdetto, l’incapace di intendere e di volere. Dal testo della norma si evince che l’inabilitato ha la capacità di testare. L’incapacità va valutata al momento della redazione del testamento e non al momento dell’apertura della successione. Il difetto di capacità è causa di annullamento del testamento. La capacità di testare va distinta dalla capacità di ricevere per testamento. Quest’ultima è una forma più ampia di capacità, infatti possono essere chiamati a succedere per testamento anche i nascituri non concepiti, purché figli di una persona vivente al momento della morte del testatore, le persone giuridiche, gli enti non riconosciuti. Vi sono però delle persone che, per il ruolo che rivestono, per legge non sono capaci di succedere, come il tutore, il notaio che ha redatto l’atto o ha ricevuto il testamento segreto.
4.6.3 La forma del testamento Il testamento può assumere le seguenti forme: olografo: viene redatto, datato e sottoscritto dal testatore, in modo tale che possa individuarsi con certezza la persona del de cuius;
per atto di notaio, che a sua volta può essere pubblico, quando è contenuto in un documento redatto da un notaio nel rispetto di alcuni requisiti formali, tra cui la presenza di due testimoni, la sottoscrizione del testatore, dei testimoni e del notaio; segreto, che consiste nella consegna solenne di una scheda contenente le disposizioni testamentarie al notaio, che lo riceve e lo conserva tra i suoi atti; forme speciali: sono i testamenti che possono essere ricevuti in circostanze eccezionali da soggetti diversi dal notaio. Ad esempio, durante un viaggio in mare o in aereo il testamento può essere ricevuto dal comandante. Tutti i testamenti speciali hanno efficacia temporanea; essi infatti perdono efficacia dopo che siano trascorsi tre mesi dalla cessazione della situazione (es. navigazione marittima o aerea) nella quale sono ammessi.
4.6.4 L’invalidità del testamento: annullabilità e nullità L’annullabilità del testamento è comminata nei casi di vizi della volontà (art. 624 c.c.), di incapacità di disporre per testamento (art. 591 c.c.) e di vizi formali non determinanti (art. 606, co. 2, c.c.). L’azione si prescrive in cinque anni, che decorrono dal giorno della scoperta del dolo, violenza o errore, o dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie. La legittimazione ad agire spetta a chiunque vi abbia interesse, si parla, infatti, di annullabilità assoluta.
Nella disciplina del testamento, ampia rilevanza è data al motivo. Per motivo si intende la ragione, la spinta che vale a determinare il testatore a disporre in favore di una determinata persona e va tenuto distinto dalla causa, che è invece lo scopo immediato che il testatore si propone con il testamento (beneficiare l’erede o il legatario). Ciò che il legislatore vuole tutelare è la volontà effettiva del testatore, infatti l’art. 624 c.c. stabilisce che l’errore sul motivo, sia esso di fatto o di diritto, è causa di annullamento della disposizione testamentaria, quando il motivo risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre. La nullità è comminata in casi di vizi gravi di forma che pongono in dubbio la provenienza del testamento dalla persona del de cuius (ad esempio, la mancanza di autografia nel testamento olografo). Questo è il caso in cui la nullità colpisce l’intero testamento. Di regola, infatti, la nullità colpisce singole disposizioni, lasciando valide le altre. Ne sono degli esempi il motivo illecito determinante; il modus o la condizione
illecita
o
impossibile,
se
determinanti;
le
disposizioni in favore di persona incerta, o rimessa all’arbitrio altrui. Il legislatore ha previsto che la nullità del testamento o di una singola disposizione possa essere superata mediante lo strumento
della
conferma
espressa
o
esecuzione
volontaria delle disposizioni. Infatti, la nullità non può essere più fatta valere da chi, dopo la morte del testatore, conoscendo la causa di nullità, abbia dato esecuzione al testamento.
4.7 La divisione ereditaria 4.7.1 La comunione ereditaria In presenza di una pluralità di persone chiamate all’eredità, per testamento o per legge, si determina una situazione per cui ciascuna di esse diventa coerede. Tale situazione fa nascere tra i coeredi un rapporto di comunione, per cui essi, pur avendo diritto ad una determinata quota del patrimonio ereditario, di fronte ai terzi appaiono come contitolari del patrimonio stesso. La comunione, considerata sotto il profilo della fonte dalla quale può trarre origine, si distingue in volontaria (o contrattuale),
allorché
essa
sorge
per
effetto
di
una
convenzione stipulata tra i vari partecipanti alla comunione stessa, e incidentale, quando invece i vari partecipanti si trovano in comunione per effetto di un atto indipendente dalla loro volontà. La comunione ereditaria è un esempio tipico di comunione incidentale. In presenza di una comunione ereditaria il diritto di ciascun
partecipante
non
ha
per
oggetto
un
bene
specificamente individuato, bensì una quota ideale del bene su cui si è formata la comunione. La quota ideale ha varietà di oggetto (quota composita), essendo composta da diritti reali e da diritti di credito della più
diversa natura. Solo con lo scioglimento della comunione il diritto del partecipante potrà riguardare un bene determinato.
4.7.2 I debiti e i crediti ereditari L’erede è tenuto al pagamento dei debiti del de cuius. Nel caso di comunione ereditaria i coeredi saranno tenuti all’adempimento di tali obbligazioni in proporzione delle rispettive quote e senza vincolo di solidarietà. Se un coerede non paga la sua parte il creditore non ha diritto di rivolgersi agli altri. Il testatore può accollare il pagamento dei debiti ad uno solo dei coeredi oppure dividerli in proporzione diversa dalle quote stesse. Tali disposizioni del testatore non hanno tuttavia effetto nei confronti dei creditori, i quali possono chiedere agli eredi il pagamento dei debiti e dei pesi ereditari in proporzione soltanto della loro quota ereditaria (art. 754. c.c.). È prevista la rivalsa da parte degli eredi sulle somme pagate oltre il dovuto, ma solo nei limiti della quota per la quale essi debbono contribuire.
4.7.3 La divisione dell’eredità La comunione ereditaria cessa con la divisione. La divisione (artt. 713 ss. c.c.) è quel particolare atto in forza del quale ad ogni coerede viene attribuita, al posto della quota astratta del patrimonio, la titolarità esclusiva su una parte determinata dei beni comuni, corrispondente alla quota a lui spettante nello stato di comunione.
L’istituto della divisione è regolato da una duplice normativa: una normativa generale si rinviene nel libro III del codice civile, nell’ambito della disciplina afferente alla comunione (comunione ordinaria); una normativa speciale si trova nel libro II del codice civile, agli artt. 713 ss., dettata in relazione alla divisione ereditaria. Di regola ognuno dei coeredi può in ogni momento richiedere la divisione del patrimonio ereditario; il diritto di chiedere lo scioglimento della comunione riveste natura potestativa. Il principio generale tollera, tuttavia, alcune limitate eccezioni, essendovi la possibilità che il diritto a domandare la divisione possa rimanere temporaneamente sospeso (ferma peraltro l’impossibilità di pervenire ad una perenne paralisi di esso).
4.7.4 Forme e modalità della divisione Il fenomeno della divisione è riconducibile a tre distinte forme, ciascuna delle quali possiede una propria disciplina: la divisione convenzionale o contrattuale muove dal consenso raggiunto tra i contitolari del diritto circa le cose da assegnare in diritto pieno a ciascuno in proporzione alla quota vantata sul comune bene; la
divisione
nell’attribuzione
effettuata delle
cose
dal
testatore
facenti
parte
consiste dell’asse
ereditario in accordo con la volontà espressa del de cuius, sia pure nell’ambito delle regole espressamente dettate dalla legge a questo proposito; la divisione giudiziale, nella quale l’esito attributivo discende,
una
volta
sperimentata
l’impossibilità
di
addivenire ad un accordo divisionale, dall’esperimento dell’azione giudiziale a ciò finalizzata. Se i beni sono facilmente divisibili (come il danaro o altri beni mobili) si può procedere alla divisione in natura e le porzioni devono essere formate comprendendo una quantità di mobili, immobili e crediti di uguale natura e qualità, in proporzione del valore di ciascuna quota (art. 727 c.c.). Se, invece, i beni non sono comodamente divisibili, la divisione può avvenire con conguagli in danaro, cioè compensando con del danaro l’ineguaglianza in natura delle quote. La divisione ha effetto retroattivo, per cui ogni condividente è considerato titolare di tutti i beni componenti la sua quota sin dall’apertura della successione e come se non avesse mai avuto la titolarità degli altri beni (art. 757 c.c.).
4.7.5 La collazione Il de cuius potrebbe aver donato in vita alcuni beni a tutti o a qualcuno dei coeredi. L’ordinamento giuridico presume che il testatore non abbia voluto alterare la posizione dei suoi eredi e per tale motivo, ritenendo le donazioni come anticipazioni sulla futura successione, dispone che i beni donati debbano essere conferiti al patrimonio ereditario, per formare
la massa attiva su cui calcolare le quote dei coeredi (cd. collazione). Sono obbligati alla collazione i soggetti che hanno un particolare vincolo di parentela con il de cuius, vale a dire i figli, i loro discendenti e il coniuge. La collazione è disciplinata dagli artt. 741 ss. c.c. Il conferimento dei beni donati all’eredità può avvenire per imputazione, ossia per equivalente (in danaro, ad esempio), o in natura, restituendo cioè alla comunione da dividere lo stesso bene ricevuto. Quando si tratta di beni immobili la scelta sulle modalità di collazione spetta al donatario; quando trattasi di beni mobili la collazione deve essere effettuata con la seconda modalità.
4.7.6 Rimedi contro la divisione: nullità, annullabilità e rescissione La
divisione,
comunque
fatta
(per
convenzione
o
giudizialmente), è destinata a cadere se si riscontra la mancanza di un suo presupposto essenziale: difetto di partecipazione di uno dei condividenti; qualora esista un titolo ereditario per una diversa ripartizione
(testamento,
rispetto
a
una
delazione
legittima; testamento posteriore rispetto a un testamento anteriore da considerare revocato), esista, quindi, un difetto della determinazione dell’entità della quota. L’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo al radicale vizio della nullità, bensì soltanto ad una divisione
supplementare. La divisione contrattuale può essere impugnata oltre che per ragioni inerenti all’invalidità di ogni negozio giuridico, con due azioni particolari previste espressamente dalla legge: l’annullamento per violenza o dolo nonché la rescissione per lesione.
4.8 La donazione e gli atti di liberalità 4.8.1 Definizioni introduttive Ai sensi dell’art. 769 c.c., la donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte (cd. donante) arricchisce un’altra (cd. donatario), trasferendole un suo diritto (proprietà o altro diritto reale, diritto di credito etc.) oppure assumendo verso la stessa un’obbligazione. L’elemento caratterizzante la donazione è lo spirito di liberalità (cd. animus donandi), che consiste nella volontà di determinare un arricchimento dell’altra parte, senza alcun corrispettivo, quindi a proprio svantaggio e con un conseguente impoverimento del proprio patrimonio. La donazione rientra nella più ampia categoria degli atti di liberalità, che hanno come contenuto tipico l’arricchimento di un soggetto e il corrispondente impoverimento di un altro. Gli atti di liberalità rientrano a loro volta nel più ampio genus degli atti a titolo gratuito, cioè di quegli atti nei quali il sacrificio patrimoniale di una parte non è compensato da un correlativo vantaggio. Non tutti gli atti a titolo gratuito sono liberalità, perché queste ultime sono caratterizzate dall’impoverimento di un
soggetto in favore di un altro. Sono perciò atti gratuiti anche il comodato e il mutuo infruttifero che però non sono liberalità, mentre tra le liberalità, oltre alle donazioni, rientrano le donazioni indirette e le liberalità d’uso. Le donazioni indirette sono quegli atti che, pur avendo una causa tipica, diversa da quella propria della donazione (es. vendita, rinunzia, assicurazione a favore del terzo, remissione del debito ecc.), hanno lo scopo di arricchire un altro soggetto (si pensi al caso in cui un soggetto adempie, per spirito di liberalità, l’obbligazione di un terzo, senza poi pretendere la restituzione di quanto pagato). Nella donazione indiretta l’arricchimento del beneficiario è una conseguenza ulteriore che deriva da atti o negozi giuridici che hanno una propria causa, ossia costituisce un risultato che si va ad aggiungere agli effetti propri prodotti
dallo
strumento
giuridico
utilizzato
(ovviamente sempre a condizione che sussistano sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo proprio delle liberalità). Le liberalità d’uso sono quelle liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi (es.: le mance, le gratifiche ai dipendenti ecc.).
Per compiere un atto di donazione la legge richiede la piena capacità di disporre dei propri beni (art. 774 c.c.), escludendo quindi i minori, gli emancipati e gli inabilitati, salva la validità della donazione fatta dal minore o dall’inabilitato nel loro contratto di matrimonio.
Se la donazione è stata fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al compimento dell’atto, questa può essere annullata entro cinque anni dal giorno in cui la donazione è stata fatta, su istanza del donante, dei suoi eredi o aventi causa (art. 775 c.c.).
4.8.2 Gli elementi del contratto di donazione La donazione è un contratto ed è quindi soggetta alla disciplina disposta dal codice per i contratti in generale. In particolare, come tutti i contratti essa deve presentare i requisiti richiesti dall’art. 1325 c.c.: accordo delle parti, che si raggiunge quando vi è coincidenza tra proposta e accettazione (art. 1356 c.c.).
L’art. 785 c.c. disciplina una particolare forma di donazione, la cd. donazione obnuziale (ossia la donazione fatta in riguardo di un futuro matrimonio), che si perfeziona senza bisogno di accettazione da parte del donatario ma in virtù della sola manifestazione di volontà del donante, anche se gli effetti della donazione si producono solo dal momento del matrimonio; causa, che consiste nell’impoverimento del donante accompagnato dall’arricchimento del donatario; oggetto: tutti i beni in teoria possono essere oggetto di donazione: crediti, universalità, diritti reali di godimento, eredità ecc. La legge vieta espressamente la donazione di beni futuri, ossia la donazione di beni che non fanno parte
del patrimonio del donante, e la donazione di beni altrui, in quanto ai sensi dell’art. 769 c.c. il donante può disporre solo di un suo diritto; forma: la donazione deve essere fatta per atto pubblico, a pena di nullità, e non è ammessa la rappresentanza del donante: è nulla, infatti, la procura a donare, così come è nullo il mandato a donare. La peculiarità dell’istituto si fonda sui motivi che spingono il donante all’attribuzione patrimoniale e che trovano origine da precedenti e meritevoli condotte del donatario (coraggio e abnegazione, attività professionale svolta, leciti vantaggi altrui procurati), purché la disposizione non sia imposta, tantomeno da obbligazioni naturali, ma soltanto dettata da cause di liberalità. Come in tutti i contratti, anche nelle donazioni possono essere inseriti elementi accidentali, cioè condizione, termine e modo (o onere).
4.8.3 La revocazione della donazione Come tutti i contratti, la donazione è irrevocabile se non per mutuo dissenso. L’art. 800 c.c. pone una deroga al principio generale di irrevocabilità dei contratti, stabilendo che la donazione può essere revocata per ingratitudine (art. 801 c.c.) o per sopravvenienza di figli (art. 803 c.c.). Tale deroga è giustificata dall’esigenza di tutelare interessi superiori di ordine morale (l’ingratitudine) e familiare (la nascita di figli),
attribuendo al donante la possibilità di rivalutare l’atto di liberalità che ha compiuto e di porne nel nulla gli effetti.
Capitolo 5 I beni e i diritti reali 5.1 Gli oggetti del diritto: i beni L’art. 810 c.c. definisce beni le cose che possono formare oggetto di diritti. Da questa norma si ricava che non tutte le cose in senso naturalistico possono formare oggetto dei diritti, ma solo le cose appropriabili, cioè quelle che possono entrare a far parte del patrimonio di una persona fisica o di un ente collettivo. Le distinzioni che è possibile operare nell’ambito dei beni sono numerose. La più importante è senza dubbio quella tra beni immobili e beni mobili, per i quali sono previsti distinti regimi di circolazione.
5.1.1 Beni immobili e beni mobili Fondamentale distinzione in materia di beni è quella tra (art. 812 c.c.): beni immobili: comprendono il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e, in genere, ogni altra cosa che, per natura o per opera umana, è incorporata al suolo. Sono inoltre reputati immobili (e quindi tali per determinazione di legge) i mulini, i
bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo o sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione; beni mobili: la categoria dei beni mobili è individuata per esclusione, essendo considerati tali tutti quelli che non sono beni immobili, comprese le energie naturali che abbiano valore economico (art. 814 c.c.). Diverse sono le norme che ne disciplinano la circolazione: il regime giuridico dei beni immobili tende a garantire la sicura individuazione dei beni (catasto) e a rendere conoscibili le loro vicende giuridiche. Questo fa sì che i trasferimenti di proprietà devono essere redatti in forma scritta e devono essere trascritti nei pubblici registri immobiliari; invece i beni mobili possono essere trasferiti da un soggetto all’altro senza particolari formalità per agevolarne la circolazione e favorire l’efficienza del sistema produttivo. Si dicono, invece, beni mobili registrati ex art. 815 c.c. quei beni mobili (autoveicoli, motoveicoli, imbarcazioni e aeromobili) che sono soggetti ad un regime giuridico simile a quello dei beni immobili. Essi sono tutti individuati e richiedono l’iscrizione in pubblici registri; gli atti di trasferimento di tali beni sono, dunque, soggetti a trascrizione nei suddetti registri. Tali beni sono soggetti alle disposizioni che li riguardano e, in mancanza, alle disposizioni relative ai beni mobili.
5.1.2 Ulteriori distinzioni tra i beni
Nell’ambito della categoria dei beni è possibile, poi, effettuare ulteriori distinzioni tra: beni materiali e beni immateriali: i primi sono quelli che possono essere percepiti a livello sensoriale, in quanto dotati di materialità; i secondi, invece, sono privi di materialità corporea, costituendo il risultato di un processo creativo, e possono essere percepiti attraverso il pensiero e l’intelligenza (si pensi alle opere dell’ingegno, alle invenzioni industriali, alle opere letterarie); beni generici e beni specifici: i primi sono quelli individuati solo nella loro appartenenza ad un genus; i secondi sono quelli, invece, designati nella loro identità, che vale a distinguerli all’interno del genus al quale appartengono; beni fungibili e infungibili: sono fungibili i beni sostituibili gli uni agli altri. Tipico esempio di bene fungibile è il denaro, ma sono normalmente fungibili, in generale, tutti i beni prodotti in serie; infungibili sono invece i beni individualizzati e diversificati nei loro elementi strutturali e nella loro funzione, in modo da non poter essere sostituiti o surrogati; beni consumabili e beni inconsumabili: i primi non possono
costituire
oggetto
di
un
uso
ripetuto
o
continuativo, in quanto il loro normale utilizzo ne importa la consumazione (es. denaro); beni inconsumabili sono quelli suscettibili di essere utilizzati ripetutamente e con continuità, anche se con l’uso si deteriorano (es. vestiti);
beni divisibili e beni indivisibili: beni divisibili sono quelli che hanno ad oggetto cose che possono essere frazionate senza che tale operazione ne alteri la destinazione economica ed in modo che ciascuna parte rappresenti una frazione del tutto; indivisibili sono, invece, quei beni insuscettibili di essere frazionati in parti omogenee (es. un orologio), perché gli elementi nei quali risulterebbero scomposti non avrebbero, neppure in parte, la funzione della cosa intera. Una particolare categoria di beni è poi costituita dai frutti: si tratta di beni prodotti direttamente o indirettamente da altri beni. Nell’ambito dei frutti si distinguono i frutti naturali rispetto ai frutti civili. I primi sono quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o meno l’opera dell’uomo: per esempio, i prodotti agricoli di un orto o gli agnelli partoriti dalle pecore di un gregge (art. 820 c.c.). Essi appartengono al proprietario della cosa fruttifera, salvo che la loro proprietà sia attribuita ad altri: in tal caso la proprietà dei frutti si acquista al momento del distacco dalla cosa madre ai sensi dell’art. 821 c.c. Le vicende relative alla cosa fruttifera ricomprendono automaticamente anche i frutti. Si parla poi di frutti civili allorquando si abbia riguardo ai frutti che si traggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia: per esempio, gli interessi pagati dalle banche sui capitali depositati. I frutti civili si
acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto.
5.2 I diritti sui beni: i diritti reali in generale I diritti reali sono diritti assoluti a contenuto patrimoniale che attribuiscono al titolare un potere immediato sulla cosa che ne è oggetto. I diritti reali, in particolare, presentano le seguenti caratteristiche: patrimonialità, perché il loro oggetto è un bene economicamente valutabile; assolutezza, perché possono farsi valere nei confronti di chiunque: essi attribuiscono al titolare, infatti, la pretesa a che gli altri si astengano dal violare la sua posizione giuridica; immediatezza, perché il titolare realizza il proprio interesse mediante la diretta utilizzazione della cosa, senza bisogno dell’altrui collaborazione. A fronte dell’interesse del titolare, cui corrispondono poteri e facoltà di godimento, è sufficiente che i consociati si astengano da turbative
o
molestie,
limitandosi
ad
un
generico
comportamento negativo; inerenza alla cosa, carattere che esprime quella particolare relazione che intercorre tra il diritto ed il bene, relazione che si traduce nella possibilità di opporre il diritto stesso erga omnes nonché nella facoltà attribuita al
titolare di escludere altri dal godimento del bene (comportante anche il potere di agire per la sua restituzione contro chi lo possegga). Connesso al carattere dell’inerenza è il cd. diritto di sequela: i diritti reali, cioè, seguono il bene nelle mani di chiunque esso si trovi, attribuendo al titolare il potere di farli valere anche nei confronti di chi venga ad acquistare uno specifico diritto sul bene medesimo; elasticità. L’elasticità fa riferimento alla idoneità del diritto ad espandersi su tutta la cosa quando essa si accresca o vengano meno altrui diritti gravanti su di essa (si pensi al titolare del diritto di proprietà che, al momento della morte dell’usufruttuario, vedrà riespandersi il proprio diritto originariamente compresso); tipicità, in quanto sono espressamente previsti dalla legge e non è consentito ai privati di crearne di nuovi. Essi infatti costituiscono un numerus clausus ed ai privati è consentito soltanto di modificarne il contenuto. La categoria dei diritti reali si ripartisce in due grandi sottocategorie. Si parla infatti di ius in re propria allorquando il diritto riguardi una cosa propria (tale è solo il diritto reale di proprietà) ovvero di ius in re aliena allorquando il diritto reale gravi su beni di proprietà altrui, per tale via destinato a coesistere, comprimendolo, con il diritto del proprietario. In quest’ultima categoria, definita anche dei diritti reali limitati, rientrano i diritti reali di godimento, i quali attribuiscono al loro titolare il diritto di trarre dal bene talune delle utilità che lo stesso è in grado di fornire (ad esempio il
diritto di usufrutto), ed i diritti reali di garanzia i quali attribuiscono al loro titolare il diritto di farsi assegnare, con prelazione rispetto agli altri creditori, il ricavato dell’eventuale alienazione forzata del bene, per l’ipotesi del mancato adempimento dell’obbligo garantito.
5.3 La proprietà Il più importante diritto reale è la proprietà. Ai sensi dell’art. 832 c.c. il proprietario ha il diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. La stessa Costituzione solennemente dichiara, nell’art. 42, che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”, ferma restando la riserva in capo al legislatore di determinati poteri allorquando prevede che “la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. A ciò si aggiunga che la stessa Carta costituzionale, nel demandare al legislatore il compito di determinare - con riferimento al diritto di proprietà - i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di “assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”, impone il contemperamento del diritto del proprietario con l’esigenza di realizzare uno sfruttamento economicamente efficiente dei beni.
Alla stregua, dunque, della norma codicistica, il diritto di proprietà comprende:
il potere di godere della cosa, ossia di utilizzarla materialmente e di percepirne i frutti: il proprietario potrà perciò decidere come e quando utilizzare la cosa, se sfruttarla direttamente o concederla in godimento terzi; potrà anche trasformarla o, al limite, lasciarla inutilizzata o distruggerla, atteso che anche tali ultime modalità rappresentano forme (ancorché estreme) di utilizzazione; il potere di disporne, ossia di compiere atti giuridici diretti a trasferire il bene o a concedere diritti di qualsiasi tipo su di esso (il proprietario potrà perciò vendere o donare, costituire una servitù ecc). Entrambi i poteri spettano al proprietario in modo: pieno: il diritto di proprietà comprende qualunque facoltà di
godimento
o
di
disposizione,
tranne
quelle
espressamente vietate; esclusivo: il diritto di godere e disporre è riservato al proprietario e senza il suo consenso nessuno può esercitare tale diritto, fatti salvi i casi previsti dalla legge; vengono esclusi, pertanto, tutti coloro che non abbiano un titolo concorrente o superiore che consenta di esercitare poteri o facoltà sulla cosa; ma non illimitato: la legge tutela l’interesse del proprietario alla libera utilizzazione e disponibilità dei suoi beni, ma nel contempo deve assicurarne la compatibilità con l’interesse collettivo e coi diritti di altre persone Alla legge è devoluto il compito di imporre limiti nell’interesse pubblico al diritto di proprietà, destinati a “limitare” il
dominio pieno ed esclusivo del titolare del diritto al fine di realizzare un interesse collettivo pubblico, e limiti imposti nell’interesse privato, che trovano fonte nei rapporti di vicinato e sono caratterizzati dall’automaticità, dalla reciprocità e dalla gratuità. Ulteriori caratteri della proprietà sono rappresentati dalla: imprescrittibilità: il diritto di proprietà non è soggetto a prescrizione, in quanto anche il non uso è un’espressione della libertà riconosciuta al proprietario; perpetuità: tradizionalmente si ritiene che non sia ammissibile un diritto di proprietà temporanea ovvero che non sia possibile apporre un termine al diritto di proprietà. Si dice che tale diritto differisce da tutti gli altri diritti reali proprio perché non tollera limitazioni, né per quanto riguarda il contenuto, né per quanto riguarda la durata; elasticità: i poteri che normalmente competono al proprietario possono essere compressi in virtù della coesistenza sul bene di altri diritti reali o di vincoli di carattere pubblicisitico; tali poteri sono, tuttavia, destinati a riespandersi automaticamente al momento del venir meno o della cessazione del diritto o del vincolo concorrente.
5.3.1 I limiti al diritto di proprietà I limiti posti dalla legge al diritto di proprietà si distinguono in limiti posti nell’interesse pubblico e limiti posti
nell’interesse privato, a seconda delle finalità e delle esigenze che sono diretti a soddisfare. Tra i limiti posti nell’interesse pubblico le ipotesi più rilevanti sono costituite dall’espropriazione per pubblica utilità, dall’occupazione e dalla requisizione, ipotesi nelle quali la Pubblica Amministrazione, attraverso un provvedimento definito ablatorio, priva il proprietario del diritto sul bene al fine di soddisfare necessità di interesse generale; in ogni caso, è dovuto al proprietario un indennizzo, il quale si configura come presupposto di legittimità dell’atto amministrativo. I limiti posti nell’interesse privato, invece, trovano fonte
nei
rapporti
di
vicinato
e
sono
caratterizzati
dall’automaticità, dalla reciprocità e dalla gratuità. Ciò significa: che essi sorgono automaticamente in presenza della situazione prevista dalla legge; che essi valgono e limitano reciprocamente il diritto dei proprietari vicini; che non è previsto un compenso, in quanto, proprio perché reciproci, non determinano uno squilibrio di vantaggi tra i soggetti coinvolti.
In
particolare,
i
limiti
posti
nell’interesse
privato
riguardano: le distanze nelle costruzioni, disciplinate dal codice civile agli artt. 873-899 e dai regolamenti edilizi; le luci e le vedute (artt. 900 ss. c.c.);
le immissioni (artt. 844 c.c.); Un particolare limite al diritto di proprietà, infine, non necessariamente collegato a rapporti di vicinato, è costituito dal divieto di compiere atti emulativi posto dall’art. 833 c.c. In base a tale disposizione, il proprietario non può porre in essere atti che abbiano come unico scopo quello di nuocere o recare molestia ad altri. Affinché sussista un atto emulativo, dunque, è necessaria la presenza di un elemento soggettivo, costituito dall’intenzione di nuocere ad un altro soggetto, e di un elemento oggettivo, costituito dalla mancanza di utilità per il proprietario. In presenza di tali presupposti, il soggetto danneggiato può chiedere il ripristino della situazione precedente ed il risarcimento dei danni subiti.
5.3.2 I modi di acquisto della proprietà Si definiscono modi d’acquisto della proprietà tutti gli atti e i fatti giuridici che hanno per effetto l’acquisto di tale diritto. Essi si distinguono in: modi di acquisto a titolo originario: in tal caso il diritto non viene trasmesso da un titolare ad un altro, ma nasce nel patrimonio di un soggetto in maniera autonoma; modi di acquisto a titolo derivativo (contratti e successione a causa di morte): in questo caso, invece, vi è un trasferimento del diritto da una persona (vecchio proprietario) ad un’altra (nuovo proprietario). Trattasi, pertanto, di una ipotesi di successione nello stesso diritto: di conseguenza il diritto stesso si trasferisce con i
medesimi caratteri che aveva in capo al precedente titolare, poiché nessuno può trasferire una posizione più ampia di quella che egli stesso abbia (nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet). Costituiscono modi di acquisto a titolo originario della proprietà (artt. 923 ss. cc.): l’occupazione: è la presa di possesso delle cose mobili che non sono di proprietà di alcuno, ovvero di quelle che non sono mai state di proprietà di alcuno (res nullius) e delle cose abbandonate (res derelictae). Necessari ai fini dell’occupazione sono l’impossessamento del bene e l’intenzione di farlo proprio (animus occupandi); l’invenzione: si tratta del ritrovamento di una cosa mobile smarrita dal proprietario. In caso di ritrovamento, la cosa stessa deve essere consegnata al proprietario o, se questi è ignoto, al Sindaco del luogo ove è stata rinvenuta. Se dopo un anno dalla consegna della cosa, il proprietario non si è presentato a ritirarla, il diritto di proprietà su di essa spetta al ritrovatore. Se il proprietario si presenta, deve al ritrovatore un premio che è pari al 10% del valore della cosa stessa.
Una
forma
particolare
di
invenzione
può
essere
evidenziata con riguardo al tesoro, definito come qualunque cosa mobile di pregio nascosta o sotterrata di cui nessuno può provare di essere proprietario (art. 932
c.c.).
Esso appartiene al proprietario del fondo in cui si trova, se rinvenuto da costui, per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore se viene ritrovato per caso nel fondo altrui; l’accessione: è un modo di acquisto della proprietà che si verifica quando due cose entrano in rapporto tra di loro ed una di esse, essendo prevalente, “attrae” l’altra a sé così che il tutto diventa di proprietà del titolare della cosa principale (in base al principio accessorium cedit principali).
L’accessione in senso stretto si verifica tra una cosa mobile ed una cosa immobile. È l’ipotesi prevista dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario di un suolo acquista, a titolo originario, la proprietà di qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo stesso.
Il codice disciplina anche alcune ipotesi di accessione di immobile ad immobile (es. alluvione o avulsione) e di accessione di mobile a mobile (es. unione, commissione e specificazione); l’usucapione: è un modo di acquisto della proprietà che si verifica quando si possiede una cosa in modo continuo, ininterrotto e pacifico per un certo periodo di tempo determinato dalla legge (vedi amplius, par. 5.5.5).
5.3.3 Le azioni a tutela della proprietà
La tutela che la legge accorda alla proprietà si esprime anche nella possibilità di agire in giudizio con alcune azioni (cd. azioni petitorie), volte a reagire alla violazione del diritto. Tali azioni hanno natura reale, attribuiscono, cioè, una tutela oggettiva e in forma specifica del diritto sulla base del solo fatto della violazione e a prescindere dagli estremi della colpa e del danno effettivo. Alle azioni reali spesso si aggiunge anche l’azione personale avente ad oggetto il risarcimento del danno. Sono azioni petitorie: l’azione
di
rivendicazione:
si
tratta
della
più
importante azione a difesa della proprietà, contemplata dall’art. 948 c.c., il quale stabilisce che il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possieda o la detenga e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato per fatto proprio di possedere o detenere la cosa.
L’azione di rivendicazione, che è imprescrittibile, è finalizzata,
dunque,
ad
ottenere
dal
giudice
un
provvedimento che non si limiti ad accertare la titolarità della proprietà, ma che determini anche la restituzione della cosa al suo legittimo proprietario.
Legittimato attivamente è il proprietario della cosa, il quale è tenuto a provare il proprio diritto di proprietà; l’azione negatoria: con tale azione il proprietario agisce in giudizio per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altre persone sulla cosa. In altre parole, il
proprietario della cosa chiede l’intervento del giudice nel momento in cui altre persone pretendono di affermare i propri diritti sulla cosa stessa (es. si pensi al caso di chi pretenda di avere un diritto di usufrutto sul bene del proprietario). Se, poi, le pretese da parte di terze persone producono turbative e molestie al proprietario, questi può chiedere che se ne ordini la cessazione e la condanna al risarcimento del danno (art. 949 c.c.). L’azione negatoria, come quella di rivendicazione, è imprescrittibile.
Colui che agisce con l’azione negatoria è tenuto soltanto a provare l’esistenza del suo diritto di proprietà e non anche l’inesistenza del diritto vantato dal terzo; poiché la proprietà è un diritto esclusivo, infatti, la prova dell’esistenza di un diritto limitativo della proprietà grava sulla controparte.
La prova della proprietà, in questo caso, deve essere meno rigorosa che nella rivendicazione: è sufficiente che l’attore dimostri di possedere il bene in virtù di un valido titolo di acquisto; l’azione di regolamento di confini: quando il confine tra due fondi è incerto, ciascuno dei proprietari può chiedere che sia stabilito giudizialmente. Ogni mezzo di prova è ammesso in considerazione del fatto che la sostanziale simmetria delle posizioni dei due proprietari rende inapplicabili le regole sull’onere della prova. In mancanza di altri elementi, il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali (art. 950 c.c.). Oggetto del contendere, in questo caso, non è né la titolarità del diritto
né il relativo contenuto, bensì il suo oggetto, e in particolare l’estensione materiale del fondo; l’azione di apposizione di termini: tale azione presuppone che il confine sia certo e tende a fare apporre a spese comuni i segnali di confine (staccionate, limiti, siepi) quando manchino o siano diventati irriconoscibili (art. 951 c.c.).
5.3.4 La comunione e il condominio Il diritto di proprietà relativo ad una cosa può far capo ad un solo soggetto oppure a più soggetti. In quest’ultima eventualità la relazione giuridica che si pone tra l’oggetto e la pluralità di soggetti assume una peculiare connotazione: si parla infatti di comunione per designare la contemporanea titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale da parte di più persone, le quali assumono la qualità di contitolari o comunisti. La disciplina generale del fenomeno in esame è contenuta negli artt. 1100 e ss. c.c. Si parla comunemente di comunione pro diviso e di comunione pro indiviso. Vera comunione è soltanto la seconda, che corrisponde ad un diritto congiuntamente spettante a più persone per quote ideali (non già per quote individuate, nel senso di singole porzioni staccate le une dalle altre). Il diritto di ciascuno dei contitolari investe l’intero
bene,
seppure
il
relativo
esercizio
trovi
necessariamente limite nell’esistenza dell’eguale diritto degli altri compartecipi. In definitiva, a ciascuno dei contitolari spetta una quota ideale sull’intero bene.
Quanto ai modi di costituzione della comunione si distingue tra: comunione volontaria, che si ha quando la comunione ha fonte nella volontà delle parti, le quali decidono, ad esempio, di comune accordo, di acquistare un diritto reale in comune tra loro; comunione
incidentale,
la
quale
si
costituisce
indipendentemente dalla volontà delle parti, ma può sciogliersi per volontà di queste. Esempio tipico di comunione incidentale è la comunione ereditaria, che si realizza tra i coeredi quando agli stessi non sono stati attribuiti, in virtù di una disposizione testamentaria del defunto, beni determinati; comunione forzosa, che si ha quando questa è imposta dalla legge; si tratta di una comunione indispensabile che non può essere sciolta dalle parti. I proprietari dei fondi confinanti, ad esempio, hanno il diritto potestativo di chiedere la comunione forzosa del muro posto sul confine (art. 874 c.c.). Nell’ambito del condominio, ancora, si ha una comunione forzosa sulle cd. parti comuni. Principi generali in materia di comunione sono: ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di usarla. Ciascun comunista, inoltre, può apportare a proprie spese modifiche che migliorino il godimento della cosa (art. 1102 c.c.). Tali modificazioni possono essere effettuate nei limiti in cui è consentito l’uso
della cosa: non possono, quindi, alterarne la destinazione e non devono impedire agli altri comunisti di fare uso della stessa; in tema di atti di disposizione del diritto del singolo partecipe alla comunione, il principio generale è quello della
libera
alienabilità,
essendo
espressamente
disposto che ciascun contitolare può disporre del proprio diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota (art. 1103 c.c.); ciascuno
dei
comunisti
ha
diritto
di
concorrere
nell’amministrazione della cosa comune (art. 1105 c.c.). Il codice civile prevede che le deliberazioni relative all’amministrazione della cosa comune vengano adottate in base al cd. principio maggioritario. La comunione si scioglie in conseguenza della divisione, in forza della quale viene attribuito a ciascun condividente il diritto in via esclusiva su una parte determinata del bene già oggetto di comunione, in luogo del diritto pro quota sull’intero bene. L’art. 1111 c.c. esprime a questo riguardo il principio generale in forza del quale ciascun partecipante alla comunione ha il diritto di domandarne lo scioglimento. La divisione può essere fatta d’accordo fra le parti con un contratto, avente struttura plurilaterale, di divisione. In difetto di accordo essa viene fatta dal giudice (art. 1116 c.c.). Ulteriore
causa
di
scioglimento
è
rappresentata
dall’abbandono della quota, che si pone come atto unilaterale
di
natura
abdicativa.
La
cessazione
della
comunione si può anche verificare in esito al perimento integrale dei beni che ne sono l’oggetto. Il condominio è un particolare tipo di comunione che si instaura negli edifici: in essi ciascuno dei partecipanti è, al contempo, proprietario esclusivo di un piano o porzione di piano e comproprietario di alcune parti comuni (il suolo, le fondazioni, i tetti, le scale e tutte le altre parti di cui all’art. 1117 c.c.). Qui, pertanto, la comunione riguarda solo alcune parti della cosa ed è, inoltre, forzosa: trattandosi di cose strumentali (e per lo più anche indispensabili) al godimento delle proprietà individuali, non è soggetta a divisione, né si può rinunciare ad essa (artt. 1118 e 1119 c.c.). La disciplina degli immobili in condominio è stata riformata ad opera della L. 11 dicembre 2012, n. 220, che è intervenuta sugli artt. 1117-1139 c.c. Organi del condominio sono: l’assemblea,
che
ha
il
compito
di
nominare
l’amministratore, di decidere le innovazioni e le opere di manutenzione straordinaria, di stabilire il regolamento di condominio, di approvare il preventivo delle spese nonché il rendiconto di gestione. In sostanza l’assemblea dei condomini è l’organo deliberativo e ha competenza generale sulla gestione delle cose comuni; l’amministratore,
che
è
l’organo
esecutivo
del
condominio del quale ha la rappresentanza anche processuale. Secondo le nuove disposizioni, la sua nomina è obbligatoria quando i condòmini sono più di otto.
Ogni condomino esercita il suo diritto sulle parti comuni in misura proporzionale al valore della sua proprietà. I diritti, oltre che con l’uso delle parti comuni, si esercitano partecipando in assemblea con un proprio voto il cui peso è commisurato al valore millesimale della propria unità esclusiva. Il dovere del condòmino è quello di partecipare alle spese necessarie, sempre in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare esclusiva. Tuttavia, è possibile prevedere una misura diversa con apposite convenzioni accettate da tutti. Il condòmino non può sottrarsi al pagamento delle spese, neanche rinunciando al suo diritto sulle parti comuni. Il regolamento rappresenta lo «statuto» del condominio: contiene
le
norme
l’amministrazione
e
sull’uso il
decoro
delle
cose
dell’edificio,
comuni, nonchè
la
ripartizione delle spese (secondo le quote di ciascuno). La sua formazione è obbligatoria quando i condomini sono più di 10 ed è approvato con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (artt. 1138, co. 2, c.c. e 1136, co. 2, c.c.).
5.4 I diritti reali su cosa altrui 5.4.1 Generalità Accanto al diritto di proprietà si pongono i diritti reali limitati o diritti reali su cosa altrui (o diritti reali parziari o minori), i quali presuppongono una scissione di facoltà nell’ambito del diritto di proprietà, nel senso che alcune di esse vengono compresse, con il consenso del proprietario (e, talvolta, contro il suo volere), affinché possano essere esercitate da un terzo, titolare, appunto, del diritto reale sulla cosa altrui. In pratica, il diritto di proprietà subisce una compressione per effetto della costituzione di un diritto reale limitato di godimento e riacquista automaticamente la propria pienezza nel momento stesso in cui il diritto reale su cosa altrui si estingue. I diritti reali parziari presentano le caratteristiche proprie di tutti i diritti reali: la tipicità, per cui sono tali solo quelli espressamente previsti dalla legge, configurando un numerus clausus; la patrimonialità, in quanto hanno ad oggetto un bene valutabile economicamente; l’assolutezza, in quanto, al contrario dei diritti di credito, pongono in una posizione di soggezione tutti gli individui della comunità; l’immediatezza, in quanto consistono in un potere che si esercita direttamente sulla cosa.
A differenza del diritto di proprietà, che è perpetuo, i diritti reali
minori
possono
essere
perpetui
o
a
tempo
determinato. Essi, inoltre, diversamente ancora dal diritto di proprietà, si estinguono per non uso protratto per 20 anni. Sono diritti reali su cosa altrui: il diritto di usufrutto, i diritti di uso e di abitazione, il diritto di superficie, il diritto di enfiteusi, il diritto di servitù.
5.4.2 L’usufrutto, l’uso e l’abitazione Ai sensi dell’art. 981 c.c. l’usufruttuario ha il diritto di godere della cosa altrui, traendone ogni utilità che questa può dare, con l’obbligo di rispettarne la destinazione economica. Il proprietario del bene gravato da usufrutto è definito nudo proprietario. Il titolare del diritto di usufrutto, invece, è definito usufruttuario. L’usufrutto
è
caratterizzato
dalla
necessaria
temporaneità; infatti, la sua durata non può eccedere in nessun caso la vita dell’usufruttuario, se si tratta di persona fisica, e i trenta anni se si tratta di persona giuridica. La temporaneità è finalizzata ad evitare che la restrizione che subisce il nudo proprietario per la privazione della facoltà di godimento della cosa svuoti di contenuto il diritto di proprietà, a tal punto da contrastare con il principio della funzione sociale sancito dall’art. 42 della Costituzione. Oggetto dell’usufrutto può essere qualunque specie di bene (beni mobili, immobili, titoli di credito ecc.). In linea generale, però, deve trattarsi di beni infungibili e inconsumabili,
stante l’obbligo per l’usufruttuario di restituire lo stesso bene alla fine dell’usufrutto. È tuttavia prevista la possibilità di costituire un usufrutto avente ad oggetto cose consumabili (si pensi ad una somma di denaro); si parla in tal caso di quasi-usufrutto. L’usufruttuario ha il diritto di servirsi delle cose oggetto del diritto ed al termine dell’usufrutto sarà obbligato a pagarne il valore secondo la stima convenuta. In assenza della stima, è in facoltà dell’usufruttuario di pagare le cose secondo il valore che hanno al tempo in cui finisce l’usufrutto o di restituirne altre in eguale qualità e quantità. La proprietà dei beni consumabili, dunque, si trasferisce all’usufruttuario e proprio per questo si può ritenere che il quasi-usufrutto non sia un vero e proprio diritto reale su cosa altrui.
L’usufrutto può essere costituito: per legge: quando la legge stessa ne determina la costituzione in capo ad un determinato soggetto (cd. usufrutto legale), come accade, ad esempio, nel caso dell’usufrutto legale spettante ai genitori sui beni dei figli minori (art. 324 c.c.); per contratto: il contratto costitutivo di usufrutto su beni immobili deve essere fatto per iscritto (art. 1350 c.c.) e va reso pubblico per mezzo della trascrizione (art. 2643 c.c.); per testamento: si tratta in tal caso di un’attribuzione a titolo particolare;
per usucapione, che si verifica quando una persona gode di un bene, per un certo numero di anni, come se fosse effettivamente usufruttuario dello stesso; per provvedimento del giudice che, in relazione alla necessità della prole, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su parte dei beni spettanti all’altro coniuge a seguito della divisione dei cespiti già in comunione legale (art. 194 c.c.). All’usufruttuario spettano i seguenti diritti: il diritto di ottenere il possesso della cosa nello stesso stato in cui si trova; il diritto di fare suoi i frutti (naturali e civili) della cosa per tutta la durata dell’usufrutto; il diritto di cedere il proprio diritto di usufrutto per un certo tempo o per tutta la sua durata, nonché il potere di concedere ipoteca sull’usufrutto stesso; il diritto di concedere in locazione le cose che formano oggetto del suo diritto. L’usufruttuario riveste la posizione di locatore e a lui fanno capo gli obblighi e i diritti previsti dal codice e dalle leggi speciali con riferimento al contratto di locazione; il diritto ad un’indennità per i miglioramenti e le addizioni apportati al bene. A carico dell’usufruttuario gravano una serie di obblighi. In particolare, prima di prendere possesso della cosa, egli ha l’obbligo di compiere a sue spese l’inventario e l’obbligo di
prestare idonea garanzia, fatti salvi i casi in cui ne sia dispensato. Durante l’usufrutto, invece, l’usufruttuario ha: l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene; l’obbligo di usare nell’esercizio del diritto la diligenza del buon padre di famiglia; l’obbligo di sostenere le spese e gli oneri relativi alla custodia, all’amministrazione e alla manutenzione ordinaria del bene; l’obbligo di pagare le imposte, i canoni, le rendite fondiarie e gli altri pesi annuali che gravano sulla cosa; l’obbligo
di
usurpazioni
denunciare commesse
al dai
proprietario terzi
sul
fondo
le e
sopportare, insieme al proprietario, le spese delle liti che riguardano sia la proprietà sia l’usufrutto; l’obbligo di restituire il bene una volta cessato l’usufrutto. Anche il nudo proprietario ha dei diritti (tra i più rilevanti: alienare e ipotecare la nuda proprietà, far propri i tesori)
e
degli
obblighi
(provvedere
alle
riparazioni
straordinarie, far fronte a tutti quei carichi a carattere non annuale, concorrere con l’usufruttuario alla spesa delle liti). L’usufrutto, infine, si estingue per: morte dell’usufruttuario, se persona fisica, oppure col decorso di trenta anni, se l’usufruttuario è persona giuridica;
prescrizione, a seguito del non uso ventennale; consolidazione, cioè a seguito della riunione nella stessa persona della titolarità dell’usufrutto e della nuda proprietà; totale perimento del bene; abuso del diritto da parte dell’usufruttuario: per abuso
deve
intendersi
una
grave
mancanza
dell’usufruttuario ai suoi doveri (ad esempio, mancanza delle operazioni di ordinaria amministrazione); rinuncia dell’usufruttuario; scadenza del termine, eventualmente indicato nel titolo costitutivo. L’estinzione dell’usufrutto importa, in ogni caso, la riespansione della nuda proprietà nella proprietà piena. Al pari dell’usufrutto, rientrano nella categoria dei diritti reali su cosa altrui anche i diritti di uso e di abitazione. Il diritto di uso è il diritto di servirsi di un bene altrui e, se fruttifero, di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia. Il diritto di abitazione è il diritto di abitare una casa altrui limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia. Tale diritto si estende a tutto ciò che concorre ad integrare la casa che ne è oggetto, sotto forma di accessorio o pertinenza, e dunque a balconi, verande, giardini, rimesse per l’auto e così via. La differenza tra questi due diritti e l’usufrutto è puramente quantitativa e consiste nella diversità del contenuto di essi.
L’usufrutto, infatti, attribuisce al titolare il diritto di godere di ogni utilità prodotta dalla cosa. Uso e abitazione conferiscono, invece, un diritto di godimento circoscritto alle
necessità
del
titolare
e
della
sua
famiglia.
L’usufruttuario, quindi, può vendere i frutti della cosa o darla in locazione. Viceversa l’usuario e il titolare del diritto di abitazione possono utilizzare la cosa solo direttamente e nella misura delle esigenze del nucleo familiare.
Il codice civile richiama, per quanto non espressamente previsto per la disciplina dell’uso e dell’abitazione, le disposizioni in materia di usufrutto. Dato il loro carattere personale, i diritti di uso e di abitazione non si possono cedere o dare in locazione.
5.4.3 La superficie e la proprietà superficiaria Il criterio espresso dall’art. 934 c.c., secondo il quale tutto ciò che è costruito sul fondo è accessione del fondo (res solo cedit), costituisce una regola non inderogabile. La disposizione contenuta nell’art. 934 c.c. stabilisce, infatti, che “qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, salvo che risulti diversamente dal titolo”. La superficie si può definire come il diritto reale, perpetuo o temporaneo, di fare e mantenere sopra o sotto il suolo una costruzione (cd. ius aedificandi) acquistandone la proprietà separatamente dalla proprietà del suolo, ovvero di acquistare la proprietà di una costruzione già esistente
separatamente dalla proprietà del suolo (cd. proprietà superficiaria) (art. 952 c.c.). Il codice prevede, dunque, due ipotesi di superficie. Ci può essere un diritto di costruire se il proprietario del suolo costituisce il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquisterà la proprietà. In tal caso, trattandosi di un mero diritto di costruire sul suolo altrui, ove la costruzione non venga realizzata entro 20 anni il diritto si estingue per prescrizione come tutti i diritti reali minori. Ci può essere, poi, una proprietà superficiaria su costruzione esistente, quando il proprietario del fondo aliena
la
proprietà
della
costruzione
già
esistente
separatamente dalla proprietà del suolo. In tal caso si tratta di un vero e proprio diritto di proprietà sulla costruzione, separato dalla proprietà del suolo. Tale ultimo diritto può derivare:
dalla edificazione realizzata in conformità al concesso ius aedificandi (art. 952, co. 1, c.c.); dalla alienazione di una preesistente costruzione fatta dal proprietario (art. 952, co. 2, c.c.). La superficie è costituita dal proprietario del suolo, che si dice concedente, a favore di un’altra persona, che si dice superficiario. La costituzione può avvenire per contratto, col quale si accorda la facoltà di costruire ovvero si aliena la costruzione già esistente; tale contratto deve essere fatto per
iscritto, trattandosi di costituire diritti su beni immobili. Il diritto di superficie si può costituire anche per testamento. Il superficiario ha la libera disponibilità della costruzione, essendone proprietario. Egli può alienarla e costituire su di essa diritti reali: se tuttavia il diritto di superficie è a tempo determinato, la scadenza del termine, facendo venir meno il diritto del superficiario importerà: l’estinzione dei diritti reali costituiti dal superficiario stesso (in applicazione del principio resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis); l’espansione dei diritti reali esistenti sul suolo (nella maggior parte dei casi un diritto di proprietà) alla costruzione. Il superficiario può esperire a tutela del suo diritto ogni rimedio
di
carattere
petitorio
o
possessorio
previsto
dall’ordinamento. In particolare, sotto il profilo delle azioni petitorie il proprietario superficiario è legittimato ad esperire le normali azioni previste a difesa della proprietà nonché, sempre in conformità dei principi generali, le normali azioni di accertamento. Parimenti il possessore a titolo di diritto di superficie è legittimato ad esperire le azioni a tutela del possesso, nonché le azioni di denunzia di nuova opera e di danno temuto.
5.4.4 L’enfiteusi L’enfiteusi è un diritto reale che consiste nel diritto di godere, in perpetuo o per un tempo molto lungo, di un fondo
appartenente ad altra persona. L’enfiteuta ha l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare al concedente (il proprietario del fondo) un canone periodico (canone enfiteutico) in denaro o in natura (art. 960 c.c.). Proprio perché lo scopo principale dell’enfiteusi è quello di migliorare il fondo, il diritto di enfiteusi è concesso in perpetuo o per un lunghissimo tempo, che non può avere una durata inferiore ai venti anni, proprio perché un rapporto meno duraturo non risponderebbe alle finalità economiche e sociali dell’istituto. L’enfiteusi può costituirsi: per contratto, che deve essere
redatto
per
iscritto;
per
testamento;
per
usucapione. L’atto costitutivo deve essere reso pubblico mediante la trascrizione. Rispetto al contenuto di tale contratto o testamento, le disposizioni del codice civile hanno in gran parte carattere suppletivo, e dunque troveranno applicazione ove il titolo non disponga altrimenti; in ogni caso, alcune norme sono inderogabili. Una volta acquistato il diritto, l’enfiteuta può disporne liberamente, sia per atto tra vivi che per testamento, salve eventuali limitazioni risultanti dall’atto costitutivo (art. 965 c.c.). All’enfiteuta spetta poi il diritto di affrancazione o riscatto, espressione di un diritto potestativo mediante il quale, previo pagamento al concedente di una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo sulla base dell’interesse legale, è possibile acquistare la proprietà del fondo enfiteutico (art. 971 c.c.).
I principali obblighi posti a carico dell’enfiteuta sono: l’obbligo di migliorare il fondo; l’obbligo di pagare il canone periodico (di solito annuo), che può consistere in una somma di denaro o in una quantità fissa di prodotti, cioè una quantità non proporzionale al raccolto. Se non migliora il fondo o non paga il canone per due anni, il concedente può chiedere la devoluzione del fondo, che fa cessare l’enfiteusi e ritornare il fondo al concedente (la cui proprietà riacquista la sua originaria pienezza). All’enfiteuta è peraltro consentito anche in questo caso di proporre una domanda di affrancazione, la quale prevale sulla domanda di devoluzione (art. 972 c.c.); l’obbligo di pagare le imposte e gli altri pesi che gravano sul fondo. L’enfiteusi si estingue: per prescrizione estintiva, ovvero per non uso ventennale; per devoluzione; per confusione, quando, per qualsiasi motivo, il concedente diventi anche enfiteuta, o quando l’enfiteuta acquisti
il
dominio
diretto,
cioè
quando
proprietario. Quando cessa l’enfiteusi, all’enfiteuta spetta il rimborso dei miglioramenti nella misura dell’aumento di valore conseguito dal fondo per effetto dei miglioramenti stessi,
diventa
quali sono accertati al tempo della riconsegna. Per le addizioni fatte dall’enfiteuta, quando possono essere tolte senza nocumento del fondo, il concedente, se vuole ritenerle, deve pagarne il valore al tempo della riconsegna. Se le addizioni non sono separabili senza nocumento e costituiscono miglioramento, si applica la disciplina prevista per i miglioramenti stessi.
5.4.5 Le servitù prediali Il diritto di servitù può essere definito come la limitazione o il peso imposto su un fondo (detto servente) per procurare un’utilità ad un altro fondo (detto dominante) appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). Principi fondamentali in materia di servitù sono i seguenti: le servitù sono sempre prediali, ossia sono sempre stabilite a vantaggio di un fondo (praedium) e mai a vantaggio di una persona determinata; i fondi devono necessariamente appartenere a proprietari diversi, in ossequio al principio generale per cui il proprietario di un bene non può essere titolare di un diritto parziario sulla stessa cosa (nemini res sua servit); l’utilità che deve derivare al fondo dominante può consistere
in
un
vantaggio
economico
oppure
semplicemente in una maggiore comodità o amenità (ad esempio, la servitù di non edificare impedisce di costruire sul fondo vicino per assicurare l’amenità di un giardino o il
panorama che si vede da una casa). L’utilità non deve essere necessariamente attuale, bensì può essere anche futura; i
fondi
devono
trovarsi
in
una
situazione
topografica tale che l’uno possa arrecare utilità all’altro. Tuttavia la vicinitas non deve essere intesa in senso assoluto, ma relativo al contenuto della servitù (ragion per cui i fondi possono anche non essere confinanti, come nel caso della servitù di passaggio che ben può essere costituita anche quando tra i due fondi non vi sia contiguità fisica e la servitù debba esercitarsi attraverso un fondo intermedio); il peso può consistere in una limitazione delle facoltà di godimento del fondo servente del contenuto più vario, purché non si tratti di un “fare” da parte del proprietario del fondo servente, cioè in un dovere positivo. Può trattarsi, infatti, solo di un non fare (ad esempio, servitù di non edificare) o di un sopportare (per esempio, il proprietario del fondo servente deve sopportare che il proprietario del fondo dominante passi sul suo fondo). Le servitù possono essere classificate in: tipiche: sono le servitù il cui contenuto è previsto e regolamentato dal codice civile (si pensi alla servitù di scolo d’acqua di cui all’art. 1094 c.c.); atipiche: sono le servitù che, pur non appartenendo ad alcuno dei modelli legali, possono tuttavia essere
liberamente costituite, purché finalizzate all’utilità del fondo dominante; apparenti: le servitù sono apparenti, secondo il criterio di cui all’art. 1061, co. 2, c.c., quando vi sono opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio e costituenti il mezzo necessario per l’esercizio stesso (si pensi alla la servitù di acquedotto); non apparenti: sono le servitù per il cui esercizio non sono richieste opere visibili e permanenti, come, ad esempio, la servitù di pascolo o di non edificare; affermative: sono le servitù che attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di fare qualche cosa, di svolgere un’attività nel fondo servente (es. passaggio, far pascolare il gregge), mentre il proprietario del fondo servente si limita a sopportare l’altrui attività.
Tali servitù possono essere a loro volta continue e discontinue: nelle servitù continue non è richiesta l’attività dell’uomo (si pensi alla servitù di veduta, ad esempio) o meglio è richiesta solo nella fase iniziale (si prenda, ad esempio, la servitù di acquedotto per cui occorre l’attività dell’uomo per predisporre la conduttura ma poi l’acqua scorre da sé); nelle servitù discontinue, invece, è richiesta l’attività dell’uomo (si pensi alla servitù di passaggio); negative: sono le servitù che attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di vietare qualche cosa al proprietario del fondo servente il quale, perciò, è tenuto ad un “non fare” (si pensi alla servitù di non edificare);
Dal punto di vista della costituzione della servitù si distingue ancora tra: servitù volontarie: sono quelle costituite per espressa volontà delle parti. Queste possono essere costituite per contratto o per testamento. Il contratto deve farsi per iscritto (art. 1350 c.c.) ed è soggetto, per l’opponibilità ai terzi, a trascrizione (art. 2648 c.c.); coattive:
tali
sono
quelle
che
si
costituiscono
forzosamente, per lo più con sentenza del giudice, in attuazione di una previsione legislativa (es. servitù di passaggio coattivo che la legge prevede nel caso di fondo intercluso ex art. 1051 c.c.). Per espressa disposizione di legge, poi, le servitù apparenti possono essere costituite per usucapione e per destinazione del padre di famiglia, che configurano due modi di acquisto a titolo originario delle servitù: la costituzione per usucapione si realizza mediante il possesso, cioè l’esercizio del diritto per un periodo ininterrotto di venti anni o per il periodo minore previsto dalle norme sull’usucapione di diritti reali di godimento; la costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia si realizza quando due fondi, attualmente divisi, sono stati in passato posseduti dallo stesso proprietario e questi aveva posto, con opere visibili, uno dei due fondi al servizio dell’altro (art. 1062 c.c.). Se i due fondi cessano di appartenere
allo
stesso
proprietario
senza
alcuna
disposizione relativa alla servitù, questa si intende stabilita a favore e sopra ciascuno dei due fondi. In tal caso la servitù corrispondente allo stato di fatto preesistente si intende costituita in via automatica per destinazione del padre di famiglia a condizione che si dimostri che al momento della separazione della proprietà c’era la servitù e che non sussista un’espressa disposizione contraria del precedente unico proprietario. La servitù è soggetta a prescrizione per non uso ventennale. Ulteriori cause di estinzione del diritto di servitù sono: la rinunzia da parte del titolare; la scadenza del termine, se la servitù è a tempo; il verificarsi della condizione risolutiva; la confusione, che si verifica quando il proprietario del fondo servente acquista la proprietà del fondo dominante o viceversa. A tutela del diritto di servitù, il relativo titolare può avvalersi della cd. azione confessoria, con la quale si chiede che sia accertata l’esistenza del suo diritto (accertamento del diritto) e che siano fatti cessare gli eventuali impedimenti o turbative all’esercizio della servitù (condanna alla cessazione delle turbative e alla rimessione in pristino). A tutela dello stato di fatto corrispondente alla servitù, tuttavia, possono anche esercitarsi le azioni possessorie di reintegrazione e di manutenzione.
5.5 Il possesso e l’usucapione 5.5.1 Il possesso: nozione, fondamento e principi L’art. 1140, co. 1, c.c. stabilisce che il possesso è un potere di fatto sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale. La differenza rispetto ai diritti reali è evidente: il possesso è soltanto una situazione di fatto consistente nell’effettivo esercizio di una attività di godimento di una cosa, è la situazione di colui che si comporta, riguardo a un certo bene, esattamente come se ne fosse proprietario (oppure come se fosse titolare di un diritto reale minore su di esso). Ciò che conta nel possesso è che, di fatto, un soggetto eserciti i poteri che competono al titolare di un diritto reale sulla cosa, abbia o non abbia il diritto di farlo (sia esso il proprietario o un ladro). Dall’art. 1140 c.c. si ricava che il possesso può avere ad oggetto sia la proprietà sia un diritto reale su cosa altrui. Il possesso di un diritto reale su cosa altrui è generalmente definito quasi possesso o possesso minore.
Affinché una persona possa acquistare il possesso di un bene è necessario che sussistano due elementi:
il
corpus
possessionis
è
l’elemento
materiale,
oggettivo, del possesso e consiste nell’esercizio di un potere di fatto sulla cosa; l’animus possidendi, invece, è l’elemento soggettivo del possesso e consiste nella volontà di esercitare sul bene poteri corrispondenti a quelli che spetterebbero al proprietario o al titolare di un diritto reale. L’animus possidendi consente di distinguere il possesso dalla detenzione. Anche la detenzione consiste nell’avere la materiale disponibilità di una cosa, nell’esercitare un potere di fatto sulla stessa, ma il detentore, al contrario del possessore, non ha l’intenzione di tenere la cosa come se fosse proprietario o titolare di un diritto reale limitato sulla stessa, e pertanto riconosce che la cosa stessa è di altri. Il 2° comma dell’art. 1140 c.c. stabilisce che si può possedere una cosa non solo direttamente, ma anche per mezzo di un’altra persona che ha la detenzione della cosa stessa, ossia può esistere un possesso senza la contestuale detenzione della cosa. Quando è incerto se una situazione sia di possesso o di detenzione la legge presume che chi esercita il potere di fatto sia il possessore. Chi ha interesse a farlo ha diritto di provare che, in vece, si tratta di detenzione (art. 1141 c.c.). Tale prova si fornisce dimostrando l’esistenza di un titolo in base al quale il detentore ha ricevuto la cosa (es. il proprietario di una casa dovrà provare che chi attualmente
vi abita vi è entra to come inquilino, in base a un contratto di locazione). Il comma 2 dell’art. 1141 c.c. stabilisce che la detenzione può mutarsi in possesso per causa proveniente da un terzo o per opposizione del detentore al possessore (cd. interversione nel possesso). “Terzo”, in questo caso, è qualunque soggetto estraneo al rapporto che intercorre tra possessore e detentore. In particolare, questa ipotesi si verifica quando un terzo, facendo credere di essere proprietario del bene, lo trasferisce al detentore il quale – pur non acquistandone la proprietà – ne diviene possessore. Nella ulteriore ipotesi di mutamento della detenzione in possesso, il detentore manifesta all’esterno la propria volontà di tenere il bene non più come detentore ma come titolare di un diritto reale sullo stesso.
Colui che esercita poteri di fatto su una cosa può essere lo stesso titolare del diritto (ad esempio il proprietario del bene che lo utilizza direttamente) e allora il possesso è legittimo, in quanto la situazione di fatto corrisponde a quella di diritto, ovvero un’altra persona, e allora il possesso è illegittimo, perché la situazione di fatto non corrisponde a quella di diritto (si pensi al bene utilizzato dal ladro che l’ha sottratto al proprietario). Il possesso illegittimo si distingue in: possesso di buona fede, quando il possessore ignora di ledere un diritto altrui. La buona fede è, comunque,
esclusa quando l’ignoranza dipende da colpa grave in quanto il possessore, usando una minima diligenza, avrebbe dovuto rendersi conto che la cosa apparteneva ad altri o che altri potevano vantare diritti su di essa. Ai sensi dell’art. 1147 c.c. la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto; possesso di mala fede, quando il possessore sa che sta possedendo un bene altrui. L’acquisto del possesso può avvenire a titolo originario mediante l’apprensione materiale della cosa con l’intenzione di esercitare i poteri del proprietario (o di altro titolare di diritto reale). Non sono idonei all’acquisto del possesso gli atti compiuti con l’altrui tolleranza (es. in base ad un raporto di amicizia, ex art. 1144 c.c.). Si realizza invece un’ipotesi di acquisto del possesso a titolo derivativo: quando lo stesso venga trasmesso dal precedente possessore tramite la consegna della cosa, sia essa materiale o simbolica (un’ipotesi di consegna simbolica è, nel caso dei beni immobili, la consegna delle chiavi).
Una consegna simbolica si ha anche nelle ipotesi di traditio brevi manu, in cui il detentore diviene possessore del bene (ad esempio, l’inquilino che compra la casa tenuta in locazione muta il proprio animus detinendi in animus possidendi) e nel costituto possessorio, ove si realizza la vicenda esattamente inversa, in quanto il possessore diviene semplice detentore (ad esempio, il
proprietario che continua a detenere il bene a titolo di locatore pur avendone venduto la piena proprietà e che quindi muta il proprio animus possidendi in animus detinendi); per successione ereditaria.
Nella successione a titolo universale l’erede continua il possesso del defunto: pertanto non solo può sommare alla durata del proprio possesso quella del defunto, ma subentra
anche
automaticamente
nella
medesima
qualificazione di possessore di buona o di malafede.
Nella successione a titolo particolare l’avente causa (per esempio il compratore che ha acquistato dal venditore o il legatario), se vi ha interesse, può unire al suo possesso quello del suo autore. In materia di durata del possesso, la legge pone due presunzioni stabilendo che: la prova del possesso attuale e del possesso in un momento precedente fa presumere il possesso durante il periodo intermedio (presunzione di possesso intermedio); la prova del possesso attuale e del titolo in base al quale lo si esercita, fa presumere il possesso dalla data del titolo stesso (presunzione di possesso anteriore). In entrambe le ipotesi si tratta di presunzioni soltanto relative in quanto è ammessa la prova contraria (cioè la possibilità di dimostrare, da parte di chi vi ha interesse, che vi è stato abbandono o interruzione del possesso o anche, nel secondo caso, che il possesso è iniziato in un momento successivo a quello risultante dal titolo).
Il possesso si perde quando viene meno l’elemento materiale della disponibilità (il possessore smarrisce la cosa o la vende) o anche quando viene a mancare l’elemento psicologico dell’intenzione di tenere una cosa come propria.
5.5.2 La regola del “possesso vale titolo” in materia di beni mobili Nel ricorrere di determinate circostanze, il possesso costituisce il presupposto per l’acquisto della proprietà di beni mobili in base al principio “possesso vale titolo”. Se, infatti, di regola, colui al quale viene trasmesso un diritto da chi non ne è il titolare non acquista la titolarità del diritto stesso (nessuno, infatti, può trasferire ad altri un diritto che non gli appartiene), tale regola subisce un’eccezione in materia di beni mobili non registrati, in quanto colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario,
ne
acquista
immediatamente
la
proprietà
mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà (art. 1153 c.c.). Nello stesso modo si acquistano i diritti di usufrutto, di uso e di pegno. I requisiti posti dalla legge per l’applicazione del principio “possesso vale titolo” sono, pertanto, i seguenti: deve esserci l’acquisto del possesso; l’acquisto deve basarsi su un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di cui si tratta.
Il titolo è, in questo caso, qualunque atto giuridico che consente il trasferimento di un diritto da un soggetto ad un altro (ad esempio, una compravendita, una permuta o una donazione). Il titolo è astrattamente idoneo quando si tratta di un atto che contiene tutti gli elementi necessari per la sua validità, ma che non può produrre i suoi effetti tipici perché l’alienante non ha il potere di disporre del diritto; l’acquirente deve essere in buona fede al momento della trasmissione del possesso. Egli deve cioè ignorare che colui che gli cede il possesso del bene non ne è in realtà proprietario. Quando ricorrono queste condizioni la proprietà si acquista immediatamente a titolo originario e per effetto del possesso senza che, come si vedrà nell’usucapione, sia necessario anche il decorso di un certo periodo di tempo.
5.5.3 Le azioni a tutela del possesso A tutela delle situazioni possessorie sono previste alcune specifiche azioni la cui caratteristica è quella di essere dirette a mantenere o ripristinare lo stato di fatto alterato dall’altrui intromissione, senza che assuma rilievo lo stato di diritto. Mentre le azioni a difesa della proprietà mirano ad accertare e affermare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti o la ostacoli, le azioni possessorie mirano soltanto a tutelare, momentaneamente e rapidamente, il possessore dallo spoglio o dalla molestia che egli abbia subito nel suo
possesso. Le azioni possessorie assicurano dunque una tutela provvisoria, mentre nelle azioni petitorie la tutela è definitiva.
In particolare, competono al possessore: l’azione di reintegrazione (o spoglio), che è volta a reintegrare nella pienezza del possesso colui che ne è stato estromesso violentemente (cioè contro la sua volontà) o clandestinamente
(cioè
senza
che
ne
fosse
a
conoscenza). L’azione va esercitata a pena di decadenza entro un anno dallo spoglio o dal giorno della sua scoperta se lo spoglio è clandestino. Legittimato a proporre l’azione non è solo il possessore ma anche il semplice
detentore
che
detenga
una
cosa
altrui
nell’interesse proprio (come, ad esempio, il conduttore dell’appartamento in locazione); l’azione di manutenzione, diretta a far cessare le eventuali
molestie
che
impediscono
o
comunque
ostacolano il libero godimento della cosa da parte del possessore. Le molestie possono essere: di fatto (come immissioni di fumo o esalazioni provenienti dal fondo del vicino) o di diritto, quando un terzo affermi di avere diritti sulla cosa o minacci di esercitare azioni legali (per esempio, una lettera con cui un soggetto intima all’altro di non esercitare il possesso su un certo bene). È evidente, dunque, la differenza tra molestia e spoglio: mentre quest’ultimo determina la privazione del possesso,
la molestia consiste in un atto di disturbo che si limita a rendere più difficoltoso, anche se ancora possibile, l’esercizio del possesso.
L’azione di manutenzione spetta soltanto a chi è possessore, con esclusione quindi del semplice detentore, di un immobile o di un’universalità di mobili. Essa richiede i seguenti presupposti: va iniziata entro l’anno dalla turbativa; il possesso di cui si chiede la tutela deve durare da oltre un anno e deve essere continuo e ininterrotto; il possesso non deve essere stato acquistato violentemente né clandestinamente. Qualora il possesso sia stato acquistato in tal modo, l’azione può comunque essere esercitata, decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità sono cessate.
5.5.4 Le azioni di nunciazione Le
azioni
di
nunciazione
(dette
anche
quasi
possessorie) sono affini alle azioni possessorie; anch’esse mirano a conservare uno stato di fatto e a consentire una tutela d’urgenza e provvisoria. A differenza delle azioni possessorie, sono però concesse non soltanto al possessore ma anche a chi, pur non essendo possessore, è proprietario o titolare di un altro diritto reale sul bene e la loro finalità è tipicamente di natura cautelare; tendono cioè a impedire la minaccia di turbative del possesso (o della proprietà) e a prevenire possibili danni.
Anch’esse, pertanto, non definiscono il merito della controversia, ma mirano a ottenere, in base a una cognizione sommaria del fatto, dei provvedimenti provvisori idonei ad evitare un danno (sarà solo il giudizio successivo a decidere definitivamente sul merito della questione). Tali sono: la denunzia di nuova opera (artt. 1171 c.c): questa può essere esercitata da chi abbia motivo di temere che da una nuova opera intrapresa da altri stia per derivare un danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso. L’azione può esercitarsi solo entro un anno dall’inizio dell’opera, e solo se questa non è ancora terminata. L’autorità giudiziaria deve compiere una prima sommaria indagine sul fatto ordinando le opportune cautele e può consentire, oppure vietare, che l’opera sia continuata.
A questa prima fase ne deve seguire una seconda, diretta all’emanazione di una decisione definitiva sulla reale esistenza del pericolo, sulla sua illiceità, sull’obbligo di eliminazione dell’opera e sulle responsabilità delle parti; la denunzia di danno temuto (art. 1172 c.c.), la quale spetta al proprietario, al titolare di un diritto reale di godimento o al possessore che abbia ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero, o altra cosa possa derivare pericolo di danno grave e prossimo sulla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso (si pensi a un edificio pericolante o a un albero che sta per cadere).
5.5.5 L’usucapione L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà o di altro diritto reale per effetto del possesso protratto per un determinato periodo di tempo. Ai
fini
del
maturarsi
dell’usucapione
quale
effetto
acquisitivo del diritto in virtù del possesso protratto nel tempo, occorre che quest’ultimo sia: pacifico e pubblico (art. 1163 c.c.): è pacifico il possesso che non è stato acquistato in modo violento; è pubblico il possesso che non è stato acquistato clandestinamente. Nel caso in cui sia stato acquistato violentemente o clandestinamente,
il
possesso
è
efficace
ai
fini
dell’usucapione soltanto da quando è cessata la violenza o la clandestinità, perché solo da quel momento il titolare del diritto ha la possibilità di agire contro il possessore. Non è invece richiesto che il possesso sia di buona fede: quest’ultimo elemento avrà effetto solo in ordine alla durata del periodo necessario per usucapire; continuo e ininterrotto (art. 1158 c.c.): il possesso deve essere esercitato costantemente e uniformemente sulla cosa per tutto il periodo di tempo prescritto dalla legge. L’usucapione è interrotta quando il possessore sia privato del possesso (per atto del propretario o di terzi) per oltre un anno (art. 1167 c.c.). Il possesso deve essere, inoltre, non equivoco, dovendo concentrarsi in atti di godimento posti in essere dal possessore
e chiaramente diretti all’esercizio del diritto. Quanto al decorso del tempo, deve distinguersi tra usucapione
ordinaria
e
usucapione
abbreviata.
L’usucapione ordinaria matura con il decorso di venti anni per acquistare la proprietà o un altro diritto reale su beni immobili, universalità di mobili e beni immobili non registrati; il termine ordinario per usucapire beni mobili registrati, invece, è pari a dieci anni. L’usucapione abbreviata contempla, invece, termini più brevi
per
il
perfezionamento
dell’usucapione.
I
beni
immobili possono essere usucapiti con il decorso di dieci anni quando sussistono tre presupposti: il possessore ha acquistato la proprietà o altro diritto reale in buona fede; l’acquisto è stato effettuato in base ad un titolo astrattamente idoneo a giustificare il trasferimento; l’acquisto è stato debitamente trascritto (art. 1159 c.c.). I beni mobili registrati possono essere usucapiti con il decorso di tre anni se sussistono gli stessi presupposti richiesti con riferimento ai beni immobili (art. 1162 c.c.). Le universalità di mobili possono essere usucapite con il decorso di dieci anni se l’acquisto è stato effettuato in buona fede e sulla base di un titolo astrattamente idoneo a giustificare il trasferimento (art. 1160 c.c.). Al decorso del tempo nell’usucapione si applicano le norme sulla prescrizione circa le cause di sospensione e di interruzione.
I beni mobili possono essere usucapiti con il decorso di dieci anni se il possesso è stato acquistato in buona fede (art. 1161 c.c.); se, oltre alla buona fede, esiste anche un titolo astrattamente idoneo a giustificare il trasferimento, l’acquisto è immediato in applicazione della regola “possesso vale titolo”.
Capitolo 6 Il rapporto obbligatorio: struttura e vicende dell’obbligazione 6.1 Il rapporto obbligatorio: nozione ed elementi L’obbligazione è il rapporto giuridico in forza del quale un soggetto (il debitore) è tenuto ad un determinato comportamento, ossia ad una prestazione per soddisfare un interesse, anche non patrimoniale, di un altro soggetto (il creditore). Il rapporto obbligatorio dà luogo, pertanto, a due posizioni correlate: alla posizione passiva (di debito) fa da contraltare quella attiva (di credito). Soggetti del rapporto obbligatorio sono dunque il creditore (soggetto attivo) ed il debitore (soggetto
passivo).
Il
rapporto
obbligatorio
deve
necessariamente intercorrere tra due diversi titolari, portatori di interessi contrapposti (cd. principio di dualità dei soggetti). A conferma di ciò, l’art. 1253 c.c. stabilisce che quando le qualità di debitore e di creditore si riuniscono nella stessa persona l’obbligazione si estingue per confusione.
I soggetti del rapporto obbligatorio devono essere determinati o determinabili. Sin dal momento del sorgere dell’obbligazione, quindi, deve essere certo chi è il creditore e chi è il debitore o, almeno, devono essere specificati i criteri che consentono una loro successiva determinazione. Le parti del rapporto obbligatorio (debitore e creditore) devono, ai sensi dell’art. 1175 c.c., comportarsi secondo correttezza, in modo da non rendere le prestazioni più disagevoli o gravose di quanto secondo buona fede possa attendersi. Elementi dell’obbligazione sono: il debito è la posizione giuridica passiva del rapporto obbligatorio e consiste nel dovere che grava sul debitore di eseguire la prestazione dovuta a favore del creditore; il credito è la posizione giuridica attiva del rapporto obbligatorio e consiste nel diritto di pretendere la prestazione dovuta dal debitore; la prestazione è il comportamento al quale il debitore è tenuto e rappresenta l’oggetto dell’obbligazione.
La prestazione può avere il contenuto più vario. Si distinguono: obbligazioni di dare, le quali hanno come contenuto l’obbligo di trasferire un bene o un diritto
a
favore
del
creditore
(l’obbligo
di
consegnare un bene al creditore); obbligazioni di fare, nelle quali il debitore è tenuto a svolgere una certa attività al fine di
soddisfare l’interesse del creditore (ad esempio, l’obbligo di costruire una casa); obbligazioni di non fare, nelle quali il debitore è
tenuto
ad
astenersi
da
un
determinato
comportamento (ad esempio, l’obbligo di non fare concorrenza al creditore). La prestazione che forma l’oggetto dell’obbligazione deve avere necessariamente un contenuto patrimoniale, ossia deve essere suscettibile di valutazione economica, nel senso che deve essere possibile determinarne il valore di scambio in denaro, altrimenti si tratta di obblighi di carattere familiare oppure di doveri morali o sociali. La prestazione deve corrispondere ad un interesse del creditore, che può essere anche di natura non patrimoniale. La prestazione deve essere possibile sia da un punto di vista materiale (ad esempio, non può essere validamente assunto l’obbligo di consegnare la luna), sia da un punto di vista giuridico (ad esempio, non è giuridicamente possibile assumere l’obbligo di cedere un bene demaniale, che non è un bene in commercio). La prestazione, inoltre, deve essere lecita, vale a dire non deve essere contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (illecita, ad esempio, è la prestazione con la quale il debitore si impegna a consegnare una certa dose di stupefacenti o a commettere un reato). La prestazione, infine, deve essere determinata o determinabile: è determinata quando sin dall’inizio sono specificati tutti i suoi elementi (ad esempio, mi obbligo a
consegnare la Fiat Uno di mia proprietà); è determinabile quando
i
criteri
di
specificazione
degli
elementi
dell’obbligazione sono desumibili da altri parametri (ad esempio, mi impegno a vendere tutto il vino che la mia vigna produrrà il prossimo anno). Al debito del soggetto passivo del rapporto obbligatorio è collegato il concetto di responsabilità nel caso in cui il debitore non adempia alla prestazione alla quale è tenuto. La responsabilità
è,
dunque,
una
conseguenza
dell’inadempimento dell’obbligazione. La responsabilità del debitore è personale e patrimoniale: la responsabilità personale indica che il debitore è soggetto a quanto previsto dalla legge in caso di inadempimento e al risarcimento del danno causato al creditore; la responsabilità patrimoniale indica, invece, che il debitore risponde dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.). Il creditore, cioè, di fronte all’inadempimento del soggetto passivo del rapporto, può rivolgersi al giudice e iniziare la cd. esecuzione forzata.
6.2 Classificazione delle obbligazioni 6.2.1 Le obbligazioni soggettivamente complesse Nelle obbligazioni semplici il rapporto obbligatorio intercorre tra un solo debitore e un solo creditore. Può accadere, però, che una delle parti del rapporto sia formata da più persone e vi siano, quindi, più creditori o più debitori. In questo caso si parla di obbligazioni soggettivamente complesse. Quando esistono più debitori l’obbligazione può essere: parziaria, quando ciascuno dei debitori è tenuto a pagare solo la sua parte di debito; solidale, quando i vari debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione in modo che ciascuno di essi può essere
costretto
all’adempimento
dell’intero
debito
liberando anche gli altri (cd. solidarietà passiva). La
funzione
della
solidarietà
passiva
(con
più
condebitori solidali) è quella di rendere più sicura e agevole la realizzazione del diritto del creditore: l’art. 1295 c.c. stabilisce che i condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulti diversamente. La solidarietà passiva è dunque
la regola, in quanto si presume, ed essa può essere derogata solo da una disposizione di legge o da una espressa volontà delle parti. La distinzione tra obbligazioni parziarie e obbligazioni solidali rileva anche quando esistono più creditori. Se l’obbligazione è solidale (in questo caso si parla di solidarietà attiva), ciascun creditore può esigere dal debitore l’intera prestazione; se, invece, l’obbligazione è parziaria, ciascun creditore può esigere dal debitore soltanto una parte della prestazione. La funzione della solidarietà attiva è quella di avvantaggiare il debitore consentendogli di liberarsi eseguendo l’intera prestazione anche ad uno solo dei creditori, quali che siano le quote individuali; tuttavia, non si presume ma deve essere prevista espressamente dalla legge o dalle parti.
6.2.2 Obbligazioni civili e naturali Rispetto al vincolo che creano, si distingue tra: obbligazioni civili: sono tutte le obbligazioni munite di “azione”; ad esse è coessenziale il profilo della responsabilità nel senso che il creditore, di fronte all’inadempimento del debitore, può agire in giudizio, cioè rivolgersi al giudice per chiedere l’adempimento ed, eventualmente, il risarcimento del danno; obbligazioni naturali: sono quelle che ricorrono quando non esiste un vero e proprio vincolo giuridico, ma un soggetto è tenuto ad una certa prestazione, sulla base di
un dovere morale o sociale (si pensi al pagamento dei debiti di gioco). Tali obbligatori sono sfornite di azione, in quanto non è possibile rivolgersi al giudice per ottenerne l’adempimento; tuttavia, se un soggetto esegue spontaneamente la prestazione, quest’ultima non è ripetibile, nel senso che colui che ha pagato non potrà più chiedere al creditore la restituzione, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace (art. 2014 c.c.). Elementi dell’obbligazione naturale sono, pertanto: l’esistenza di un dovere morale o sociale; colui che adempie deve essere capace di agire; l’ adempimento deve essere spontaneo. Sono considerate obbligazioni naturali: il pagamento di un debito prescritto (art. 2940 c.c.); il pagamento di debiti di gioco o scommesse (art. 1933 c.c.); la riparazione di un danno anche in mancanza dei presupposti per il risarcimento.
6.2.3 Obbligazioni cumulative, alternative e facoltative Può accadere che l’obbligazione abbia ad oggetto due o più prestazioni e, in questo caso, si distingue tra: obbligazione cumulativa, quando ha ad oggetto più prestazioni e il debitore è obbligato ad eseguirle tutte, con
la conseguenza che il debitore stesso è liberato e l’obbligazione si ritiene adempiuta, solo quando è eseguita l’ultima delle prestazioni; obbligazione alternativa, quando sono previste due o più prestazioni a carico del debitore, ma quest’ultimo si libera eseguendone una sola (art. 1285 c.c.). Fonte dell’obbligazione alternativa può essere: a) la volontà delle parti; b) la legge.
La scelta circa la prestazione da eseguire spetta al debitore, ma le parti possono convenire anche che la scelta sia lasciata al creditore o ad un terzo; in ogni caso, il debitore deve eseguire interamente una delle prestazioni, in quanto non può costringere il creditore a ricevere parte dell’una e parte dell’altra prestazione.
La scelta diventa irrevocabile a seguito dell’esecuzione di una delle prestazioni oppure a seguito della sua comunicazione all’altra parte (o ad entrambe, se la scelta spetta ad un terzo). Una volta fatta la scelta, si ha la cd. concentrazione dell’obbligazione, nel senso che questa si considera come avente ad oggetto un’unica prestazione.
Per il caso in cui una delle prestazioni, dopo che l’obbligazione è sorta, diventi impossibile da eseguire per causa
non
imputabile
ad
alcuna
delle
parti,
se
l’impossibilità sopraggiunge prima della scelta, resta comunque possibile eseguire l’altra prestazione e, quindi, il debitore è obbligato ad adempiere quest’ultima; se, invece, l’impossibilità sopraggiunge dopo la scelta, l’obbligazione si estingue;
obbligazione facoltativa (o con facoltà alternativa), quando la prestazione dedotta in obbligazione è una sola, ma al debitore è consentito di liberarsi eseguendo una prestazione diversa.
In questo caso la prestazione dovuta è una soltanto anche se è prevista, nell’interesse del debitore, la possibilità per quest’ultimo di eseguire una prestazione diversa. Ne consegue che, in caso di impossibilità della prestazione, non
trova
applicazione
la
disciplina
prevista
per
l’obbligazione alternativa, essendo una sola la prestazione dedotta in obbligazione. Se questa diventa impossibile, l’obbligazione si estingue e il debitore deve considerarsi liberato.
6.2.4 Obbligazioni indivisibili e divisibili. Obbligazioni generiche e specifiche Sempre in base alla prestazione è possibile distinguere tra obbligazioni indivisibili e obbligazioni divisibili: l’obbligazione è indivisibile quando la prestazione ha per oggetto una cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione per sua stessa natura o per il modo in cui è stato considerato dalle parti (art. 1316 c.c.). L’indivisibilità può essere,
pertanto,
oggettiva
oppure
soggettiva,
cioè
dipendente dalla volontà delle parti che hanno considerato indivisibile una prestazione che per sua natura sarebbe divisibile. L’indivisibilità della prestazione assume rilievo soprattutto quando vi sono più creditori o più debitori. La
prestazione
indivisibile,
infatti,
deve
essere
necessariamente eseguita per intero e proprio per questo si applicano le norme che disciplinano le obbligazioni solidali (art. 1317 c.c.). Ciascun creditore, inoltre, può esigere l’esecuzione dell’intera prestazione indivisibile (art. 1319 c.c.); l’obbligazione è divisibile, invece, quando la prestazione che ne forma oggetto può essere divisa senza che ciò comporti una perdita o una diminuzione della sua rilevanza economica. Essa cioè può essere adempiuta per parti (art. 1314 c.c.). La prestazione divisibile può essere o meno solidale. Ultima distinzione che deve essere fatta sulla base della prestazione
è
quella
tra
obbligazioni
generiche
e
obbligazioni specifiche: l’obbligazione generica è quella che ha per oggetto una cosa generica oppure una cosa considerata fungibile. Il debitore, quando l’obbligazione è generica, deve prestare cose di qualità non inferiore alla media (art. 1178 c.c.). Naturalmente il titolo dal quale sorge l’obbligazione può individuare diversi criteri di determinazione della qualità del bene. Inoltre, l’obbligazione generica non può estinguersi per impossibilità sopravvenuta, in quanto, almeno di regola, non può andare distrutto l’intero “genere” cui appartiene la cosa oggetto della prestazione; l’obbligazione specifica è quella che ha per oggetto un bene determinato.
6.2.5 Obbligazioni pecuniarie Nell’ambito
delle
obbligazioni
generiche
assumono
particolare importanza le obbligazioni pecuniarie, ossia quelle obbligazioni che hanno per oggetto una prestazione di dare e, specificamente, la prestazione di dare una somma di denaro. Si tratta della principale e più diffusa categoria di obbligazioni e per questo motivo sono ampiamente disciplinate in un’apposita sezione del codice civile (artt. 1277-1284 c.c.). Le obbligazioni pecuniarie devono essere adempiute con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento (art. 1277 c.c.). Il nostro ordinamento ha adottato inoltre il cd. principio nominalistico, stabilendo che l’obbligazione pecuniaria si estingue al valore nominale della moneta e non al suo valore effettivo (in altre parole, al momento della scadenza del termine di adempimento, il debitore si libera pagando l’importo originariamente dovuto al tempo in cui è sorta l’obbligazione). Tale principio si applica alle obbligazioni che hanno, fin dal principio, ad oggetto una somma di denaro determinata (cd. debiti di valuta). Esistono però ipotesi in cui il debitore è obbligato a trasferire al creditore un “certo valore economico” che, solo al momento dell’adempimento, si tradurrà in una somma di denaro determinata (cd. debiti di valore). A tali obbligazioni non si applica il principio nominalistico.
Tipica ipotesi di debito di valore è l’obbligazione di risarcimento del danno, perché l’ammontare del debito deve essere equivalente al valore effettivo del danno. In tal caso il debito di valore si trasforma in debito di valuta al momento della
liquidazione,
cioè
quando
viene
determinato
l’ammontare in denaro del danno. Da questo momento in poi, il debitore è obbligato a pagare quella determinata somma e si applica il principio nominalistico. Per evitare le conseguenze del principio nominalistico è anche possibile “indicizzare” l’obbligazione, cioè stabilire che la somma dovuta è destinata a cambiare in base a parametri prestabiliti, come l’indice statistico del costo della vita. Le obbligazioni indicizzate non eliminano del tutto il rischio che la somma pagata dal debitore perda il suo potere di acquisto rispetto al tempo in cui sorse l’obbligazione, dal momento che la svalutazione può sempre essere superiore all’incremento del parametro di riferimento.
Il denaro, per sua natura, è un bene fruttifero e i suoi frutti sono rappresentati dagli interessi. I crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto (art. 1282 c.c.). È liquido il credito che è determinato nel suo ammontare; è esigibile il credito che non è soggetto a termine o condizione e il cui pagamento può essere chiesto in qualsiasi momento dal creditore. In tal caso il debitore, oltre a dover adempiere l’obbligazione pecuniaria principale, deve adempiere anche
all’altra obbligazione pecuniaria accessoria degli interessi. Tali interessi sono definiti interessi corrispettivi, perché sono pagati come corrispettivo del godimento del denaro altrui. Ad una funzione diversa rispetto a quella propria degli interessi corrispettivi assolvono gli interessi cd. moratori, che sono dovuti come risarcimento del danno derivante al creditore dal ritardato pagamento di una somma di denaro (art. 1224 c.c.). Il creditore che non riceve dal debitore, alla scadenza pattuita, l’adempimento dell’obbligazione subisce un danno che, nel caso di obbligazione pecuniaria, consiste in primo luogo nella mancata disponibilità dalla somma di denaro. La legge, quindi, stabilisce che, dal giorno della mora, sono dovuti al creditore gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver subito alcun danno. La legge, cioè, dal giorno della mora, ritiene senz’altro esistente un danno per il creditore. Il creditore può anche dimostrare di aver subito un danno maggiore di quello che la corresponsione degli interessi nella misura legale è in grado di risarcire. Il creditore che fornisce tale prova ha diritto all’ulteriore risarcimento. Tale ulteriore risarcimento non è dovuto però se il creditore e il debitore si sono accordati preventivamente circa la misura degli interessi moratori.
6.3 Le fonti delle obbligazioni Ai sensi dell’ art. 1173 c.c. le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico.
6.3.1 Il contratto Il contratto è la tipica fonte di obbligazioni, da cui nascono rapporti obbligatori con determinati effetti giuridici tra le parti, di carattere obbligatorio o reale. L’art. 1321 c.c. definisce il contratto come “l’accordo di due o più parti per costruire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.
6.3.2 Il fatto illecito L’art. 1173 c.c. contempla anche il fatto illecito quale fonte di obbligazione: esso, in particolare, determina il sorgere dell’obbligo al risarcimento del danno. Al risarcimento per fatto illecito è dedicato l’art. 2043 c.c., in base al quale qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. In base a tale disposizione è fatto illecito ingiusto.
qualunque
fatto
che
arrechi
un
danno
La responsabilità derivante dal compimento di un atto illecito è definita responsabilità extracontrattuale (detta anche responsabilità aquiliana), la cui disciplina diverge sotto molteplici aspetti da quella della responsabilità contrattuale che sorge a seguito dell’inadempimento di una obbligazione. La distinzione tra le due forme di responsabilità è importante
perché
nell’illecito
contrattuale
vige
la
presunzione di colpa per chi non ha adempiuto la propria obbligazione e quindi sarà il debitore a dover dimostrare che l’inadempimento o il ritardo non sono a lui imputabili; nell’illecito extracontrattuale la presunzione non esiste e chi pretende il risarcimento dei danni deve dimostrare la colpevolezza dell’autore dell’atto illecito. È diverso anche il termine di prescrizione per l’azione di responsabilità: cinque anni per l’illecito extracontrattuale e dieci anni (termine ordinario) per le conseguenze della violazione di un’obbligazione.
Gli elementi dell’atto illecito, ossia i presupposti in presenza dei quali il danno dev’essere risarcito, sono i seguenti: l’antigiuridicità del danno (danno ingiusto): in base all’art. 2043 c.c. è illecito il fatto che provoca un danno ingiusto. È tale ogni danno derivante dalla lesione di un interesse meritevole di tutela e protetto, pertanto, dall’ordinamento.
il nesso di causalità tra il fatto e il danno: il danno risarcibile è quello che si configura come conseguenza immediata e diretta della condotta del soggetto agente. Dunque tra il comportamento della persona e il verificarsi dell’evento dannoso deve intercorrere un nesso di causalità giuridicamente rilevante, considerando non solo le conseguenze immediate e dirette (causalità diretta) dell’atto, ma anche quelle conseguenze che si presentano come un normale effetto dell’atto illecito (causalità adeguata); il dolo o la colpa di colui che ha commesso il fatto (colpevolezza): la nozione di dolo e colpa non è fornita dal codice civile, per cui occorre fare riferimento al codice penale. Pertanto, un comportamento è doloso quando colui che ha provocato il danno ha previsto e voluto l’evento dannoso come conseguenza della propria azione. Un comportamento è colposo, invece, quando colui che ha provocato il danno non aveva previsto le conseguenze dannose della propria azione, ma queste si sono verificate a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, oppure a causa dell’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Presupposto della colpevolezza è l’imputabilità, per cui non è responsabile del fatto illecito chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui ha commesso il fatto (art. 2046 c.c.). La legge richiede solo la capacità di intendere e di volere e non la capacità di agire.
Accanto alla generale responsabilità «per colpa» di cui all’art. 2043 c.c., il codice contempla alcune ipotesi di responsabilità oggettiva in cui il soggetto è chiamato a rispondere del danno sulla base del solo nesso di causalità, cioè del rapporto esistente tra la propria condotta e l’evento dannoso, anche se non ha agito con dolo o con colpa. In alcuni altri casi, al fine di rafforzare la tutela del danneggiato, la legge prevede la responsabilità di un soggetto diverso dall’autore del fatto illecito, in aggiunta o in sostituzione di quest’ultimo. In tali ipotesi si parla di responsabilità
per
fatto
altrui
(o
responsabilità
indiretta). Dal fatto illecito deriva l’ obbligazione di risarcire il danno
cagionato,
la
quale
consiste
normalmente
in
un’obbligazione di dare, il cui oggetto è rappresentato dal pagamento di una somma di denaro equivalente al valore monetario del danno da risarcire ( risarcimento per equivalente). Qualora le circostanze lo consentano, tuttavia, la legge consente al danneggiato di chiedere al giudice il risarcimento in forma specifica, mediante il ripristino della situazione di fatto antecedente alla lesione arrecata, sempre che tale modalità non risulti eccessivamente gravosa per il debitore (art. 2058 c.c.) (es. restituzione della cosa illecitamente sottratta, riparazione a spese del danneggiante della cosa danneggiata). In tema di valutazione dei danni derivanti dal fatto illecito, l’art. 2056 c.c. richiama le regole dettate in materia di inadempimento, disponendo che il risarcimento dovuto al
danneggiato deve determinarsi secondo le disposizioni degli artt. 1123, 1226 e 1227 c.c. In particolare, ai sensi dell’art. 1223 c.c. il danno risarcibile è quello che si configura come conseguenza immediata e diretta della condotta del soggetto agente, nella sua duplice componente del danno emergente e del lucro cessante. Il danno emergente consiste nella effettiva perdita economica subita, ossia una diminuzione del patrimonio del danneggiato; il lucro cessante consistente nel mancato accrescimento che il patrimonio del danneggiato avrebbe conseguito se non si fosse verificato il fatto illecito (es. la perdita del reddito derivante dalla capacità lavorativa compromessa).
Per la determinazione del danno risarcibile in materia extracontrattuale non è invece richiamato l’art. 1225 c.c. che, per la materia contrattuale, limita il risarcimento ai soli danni preveduti e prevedibili, salvo che l’inadempimento o il ritardo dipendano dal dolo del debitore. Ciò implica, a rigore, che il risarcimento per fatto illecito deve ritenersi comprensivo di tutti i danni, quelli prevedibili ed imprevedibili. Se il danno patrimoniale è il danno che determina, direttamente o indirettamente, un pregiudizio patrimoniale al danneggiato, il danno non patrimoniale è il danno arrecato direttamente alla persona del danneggiato, senza colpire, né direttamente, né indirettamente, il suo patrimonio (si pensi alle sofferenze psicologiche determinate da una lunga degenza in ospedale conseguente ad un incidente automobilistico). Il risarcimento di tale danno non può avvenire per equivalente,
ma solo tramite la corresponsione di una somma di denaro determinata in via equitativa dal giudice. Ai sensi dell’art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale può essere risarcito solo nei casi espressamente previsti dalla legge: oggi tale danno viene interpretato come comprensivo di ogni danno derivante da lesione di valori inerenti alla persona indipendentemente dalla sua capacità di produrre reddito, e in particolare: del danno morale soggettivo, inteso come turbamento transitorio dello stato d’animo di una persona conseguente ad un fatto illecito; del danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psichica e fisica della persona che può essere accertata da un punto di vista medico; del danno esistenziale, inteso come modificazione in peggio delle proprie abitudini di vita e delle relazioni interpersonali
derivante
dalla
lesione
di
interessi
costituzionali inerenti alla persona.
6.3.3 Atti o fatti idonei a produrre un’obbligazione L’art. 1173 c.c. fa riferimento, nell’elencare le fonti delle obbligazioni, oltre al contratto e al fatto illecito, ad “ogni altro atto o fatto idoneo a produrre un’obbligazione in conformità
dell’ordinamento
giuridico”,
con
ciò
rinviando ad altre specifiche disposizioni del codice civile o di
leggi speciali che affermano, di volta in volta, quando un determinato fatto o atto è idoneo a far sorgere un’obbligazione. Il codice civile in particolare individua come fonti di obbligazione: le promesse unilaterali; la gestione d’affari altrui; il pagamento dell’indebito; l’arricchimento senza causa; i titoli di credito. Le
promesse
unilaterali:
la
promessa
di
pagamento e la ricognizione di debito Le promesse unilaterali (artt. 1987 ss. c.c.) sono negozi giuridici
unilaterali
con
i
quali
un
soggetto
assume
un’obbligazione nei confronti di altri soggetti. Si tratta di atti unilaterali
obbligatori
che
producono
effetto
quando
pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati,
indipendentemente
da
una
sua
eventuale
accettazione e da un suo eventuale rifiuto. Le promesse unilaterali non producono effetti obbligatori al di fuori dei casi ammessi dalla legge (cd. tipicità delle promesse
unilaterali).
Nella
categoria
delle
promesse
unilaterali rientrano innanzitutto la promessa di pagamento e la ricognizione di debito, dichiarazioni unilaterali con cui il dichiarante promette di pagare una determinata somma o si riconosce debitore di una data somma. La promessa di pagamento non è la promessa costitutiva di un nuovo debito, ma la conferma di un precedente impegno dove il soggetto promette di effettuare la prestazione a favore di un altro soggetto, la cui fonte può essere, ad esempio, il contratto.
La ricognizione del debito si ha quando un soggetto riconosce di essere debitore nei confronti di un altro. Non si tratta di vere e proprie fonti di obbligazione, in quanto non hanno l’effetto di far sorgere un debito che in precedenza non esisteva, ma hanno grande rilevanza ai fini della prova della sussistenza di un’obbligazione, determinando una inversione dell’onere della prova. Esse, infatti, fanno presumere
l’esistenza
di
un’obbligazione
e
dispensano, quindi, il creditore dall’onere di provare tale circostanza; sarà, eventualmente, il soggetto che ha rilasciato la promessa di pagamento o la ricognizione di debito a dover provare l’inesistenza dell’obbligazione. La promessa al pubblico È l’atto unilaterale mediante il quale mediante il quale una persona, rivolgendosi alla generalità, e quindi al pubblico, promette di effettuare una prestazione nei confronti di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione (art. 1989 c.c.) (è il caso, ad esempio, di chi promette una ricompensa a favore di colui che ritroverà il suo cane che si è smarrito). Colui che promette è vincolato dalla promessa non appena questa è resa pubblica e fino al termine indicato (prima della scadenza non può essere revocata senza giusta causa e sempre che la revoca rivesta la stessa forma della promessa o forma equivalente); in mancanza di termine, il vincolo cessa decorso un anno senza che il promettente abbia avuto notizia (art. 1989 c.c.). Tra i molti destinatari della promessa, la legge, quando la
prestazione è unica, dà la precedenza a colui che per primo ha dato al promittente la notizia dell’azione compiuta. La gestione d’affari altrui Si
ha
quando
un
soggetto
(cd.
gestore)
assume
spontaneamente la gestione di un affare concernente il patrimonio di un’altra persona (cd. dominus), senza esservi obbligato e senza aver ricevuto alcuni incarico da parte dell’interessato (artt. 2028 ss. c.c). Tale soggetto (gestore) è obbligato a continuare e a condurre a termine la gestione dell’affare, finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da solo. Egli, inoltre, è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero dal conferimento di un mandato (deve osservare la diligenza del buon padre di famiglia, è obbligato al rendiconto etc.). L’interessato,
dal
canto
suo,
deve
adempiere
le
obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui, deve tenere indenne il gestore di quelle assunte dal medesimo in nome proprio e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui le spese stesse sono state fatte (art. 2031 c.c.). I requisiti che devono sussistere per l’applicazione delle norme in materia di gestione d’affari sono i seguenti: l’interessato non deve essere in grado di provvedere personalmente alla gestione dell’affare (cd. absentia domini); l’interessato non deve avere espressamente vietato il compimento degli atti di gestione (deve mancare, quindi,
la cd. prohibitio domini); la consapevolezza da parte del gestore dell’alienità dell’affare (cd. animus aliena negoti gerendi); l’utilità iniziale della gestione, nel senso che questa, almeno inizialmente, deve essere risultata utile per l’interessato (cd. utiliter coeptum). Il pagamento dell’indebito Ulteriore fonte di obbligazione è il pagamento dell’indebito (artt. 2033 ss. c.c.), che ricorre quando un soggetto ha eseguito un pagamento non dovuto. In questo caso colui che ha effettuato il pagamento ha diritto di ottenere la restituzione di ciò che ha pagato e nasce così in capo a chi ha ricevuto il pagamento, un’obbligazione di restituzione. Si ha indebito oggettivo quando un soggetto ha eseguito un pagamento non dovuto perché in realtà il debito non esisteva (ad esempio ha pagato in base ad un atto invalido); si configura, invece, l’indebito soggettivo quando un soggetto ha pagato un debito altrui credendo di essere debitore in base a un errore. Nel primo caso il credito non esisteva, per cui chi ha eseguito il pagamento ha diritto alla restituzione di quanto pagato, con frutti ed interessi, mentre nel caso dell’indebito soggettivo, il credito esisteva, ma chi ha pagato non era il debitore. Il creditore riceve quanto gli spetta, per cui il diritto alla restituzione deve essere supportato, in chi ha erroneamente pagato, da un errore scusabile. L’obbligo di restituzione viene meno quando il creditore, ricevendo il pagamento, si è privato in buona fede del titolo o delle garanzie del credito. La ripetizione non è ammessa in
seguito a prescrizione decennale o quando la prestazione non dovuta costituiva un atto illecito. L’arricchimento senza causa Si verifica quando una persona, senza l’esistenza di una giusta causa, si arricchisce a danno di un’altra: cioè si ha un arricchimento ottenuto con corrispondente perdita altrui (artt. 2041 e 2042 c.c.). Sorge l’obbligazione di indennizzare colui che ha subito l’impoverimento nei limiti dell’arricchimento o di restituire il bene oggetto dell’ingiustificato arricchimento. L’azione di arricchimento senza causa è di natura sussidiaria, cioè può essere esercitata solo quando non può essere effettuata azione diretta per ottenere la reintegrazione del pregiudizio subito. Il titolo di credito È il documento che prova l’esistenza di un diritto di esigere una somma di denaro o altra prestazione cui corrisponde un dovere dell’obbligato. L’obbligazione e il diritto incorporati nel titolo di credito sono detti anche “cartolari” perché dipendenti e connessi al documento.
6.4 L’adempimento L’adempimento quale esatta esecuzione della prestazione dovuta (art. 1218 c.c.) rappresenta la forma tipica, perfetta di estinzione dell’obbligazione: realizza in via contemporanea e diretta sia la soddisfazione del diritto del creditore, sia l’estinzione dell’obbligo del debitore. È previsto l’obbligo fondamentale di diligenza a carico del debitore nell’adempimento della propria obbligazione (art. 1176 c.c.). Il secondo comma dell’art. 1176 c.c. precisa che, se l’obbligazione
è
attinente
all’esercizio
di
un’attività
professionale, la diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata (cd. diligenza tecnica), per cui il debitre è obbligato ad attenersi alle regole tecniche proprie di ogni tipo di attività e che gli consentono di eseguire la prestazione “a regola d’arte”, Presupposti oggettivi dell’adempimento sono l’esattezza e l’integralità. Riguardo
all’esattezza,
si
richiede
la
perfetta
corrispondenza tra l’oggetto del concreto pagamento e l’oggetto dell’obbligazione; il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione di diverso contenuto, a meno che vi sia il consenso del creditore. Riguardo all’adempimento integrale, il creditore può rifiutare un adempimento parziale, anche se la prestazione è
divisibile, salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente o per impossibilità sopravvenuta parziale dell’obbligazione. L’adempimento è un atto dovuto, un atto che non comporta alcun potere decisionale in capo al debitore e nel quale non rileva nemmeno la sua volontà di adempiere. Ciò comporta che è irrilevante la capacità di agire del debitore al momento dell’adempimento. Ai sensi dell’art. 1191 c.c., il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta in stato di incapacità non può impugnare il pagamento (cioè contestarne la validità ed ottenerne la restituzione) a causa della propria incapacità (art. 1191 c.c.). Il pagamento effettuato dal debitore incapace è, quindi, perfettamente valido e non può essere rifiutato dal creditore. Mentre è irrilevante la capacità del debitore, colui che riceve il pagamento, ossia il creditore, deve essere necessariamente capace. L’art. 1190 c.c. stabilisce che il pagamento fatto al creditore incapace di riceverlo non libera il debitore se questi non prova che ciò che fu pagato è stato effettivamente rivolto a vantaggio dell’incapace. Il destinatario del pagamento può essere anche un soggetto diverso. Il codice prevede infatti che la prestazione possa essere effettuata anche in favore del rappresentante del creditore o della persona indicata dal creditore medesimo o autorizzata dalla legge o dal giudice a riceverlo (art. 1188 c.c.). Il pagamento fatto a persone diverse non libera il debitore, il quale è tenuto a eseguire nuovamente la prestazione, salvo che il creditore ratifichi il pagamento fatto a chi non era legittimato o comunque ne approfitti.
Estingue l’obbligazione anche il pagamento fatto al creditore apparente, effettuato cioè in buona fede a colui che, in base a circostanze univoche, sembrava essere il creditore. In tal caso la liberazione del debitore richiede due presupposti: la sua buona fede, nel senso che egli deve avere avuto l’incolpevole convinzione di adempiere a favore di un soggetto legittimato a ricevere la prestazione; l’esistenza di circostanze oggettive tali da far ritenere colui che ha ricevuto la prestazione un soggetto a ciò legittimato.
L’adempimento, oltre che dal debitore, può essere eseguito da una qualsiasi altra persona. L’obbligazione può, infatti, essere adempiuta da un terzo, anche contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione (art. 1180 c.c.). Il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo solo se ha un interesse oggettivo a far eseguire la prestazione al debitore. Inoltre, il creditore può rifiutare l’adempimento offertogli dal terzo se il debitore gli ha manifestato la sua opposizione. Tale opposizione, dunque, attribuisce al creditore la facoltà di rifiutare la prestazione del terzo, ma non lo obbliga a farlo; egli, cioè, nonostante l’opposizione, può decidere di accettare ugualmente l’adempimento. L’adempimento del terzo non è un atto dovuto, ma un vero e proprio negozio giuridico e pertanto, a differenza del debitore, il terzo deve essere pienamente capace, non trovando applicazione l’articolo 1191 c.c. Quanto al tempo dell’adempimento, cioè il momento in cui la prestazione deve essere eseguita, questo è normalmente
stabilito nel titolo dell’obbligazione e, in questo caso, si dice che l’obbligazione è sottoposta a un termine. In mancanza di fissazione di un termine, il creditore può esigere immediatamente la prestazione. Una volta fissato un termine, questo si presume a favore del debitore, salvo che risulti stabilito a favore del creditore o di entrambe le parti (art. 1184 c.c.). Il debitore, però, può perdere il beneficio del termine e il creditore può esigere immediatamente la prestazione in una serie di ipotesi in cui risulta seriamente minacciato il soddisfacimento del diritto del creditore quali: la sopraggiunta insolvenza del debitore; la diminuzione delle garanzie reali e personali prestate; la mancata prestazione delle garanzie promesse. Se il termine è stabilito a favore del creditore, il debitore non può adempiere prima della scadenza, mentre il creditore può chiedere la prestazione in qualsiasi momento. Infine, nel caso in cui il termine sia stabilito a favore di entrambi i soggetti, il debitore non può adempiere e il creditore non può esigere la prestazione prima della scadenza del termine. Il debitore che ha pagato ha diritto di ottenere, a sue spese, dal creditore il rilascio di una quietanza, che attesti il pagamento ricevuto. Inoltre, il creditore deve consentire la liberazione dei beni dalle garanzie reali date per il credito. Infine, il creditore, avendo diritto all’esatta esecuzione della prestazione
dovuta,
può
legittimamente
rifiutare
una
prestazione diversa da quella dedotta in obbligazione, anche
qualora si tratti di prestazione avente valore uguale o addirittura maggiore. Questa regola, però, può essere derogata da un accordo intervenuto tra le parti. Più precisamente, in base all’art. 1197 c.c., il creditore e il debitore possono concludere un contratto che prende il nome di prestazione in luogo dell’adempimento (o dazione in pagamento o datio in solutum), in base al quale il creditore accetta dal debitore una prestazione diversa rispetto a quella dovuta e l’obbligazione si estingue nel momento in cui la diversa prestazione è eseguita.
6.5 La mora del creditore L’adempimento del debitore presuppone, di regola, la collaborazione del creditore nel ricevere la prestazione dovuta: si pensi al pagamento di una somma di danaro o alla consegna di una cosa. L’ordinamento detta agli artt. 1206, ss. una serie di norme volte a regolamentare la situazione in cui il creditore, senza un motivo legittimo, rifiuta di ricevere il pagamento offertogli nei modi indicati dalla legge o non compie gli atti (preparatori) necessari affinché il debitore possa adempiere l’obbligazione. Si parla in tal caso della mora del creditore (o accipiendi). Per aversi mora accipiendi è, in primo luogo, necessario che il ritardo nell’adempimento derivi realmente da fatto del creditore. Perciò è necessaria un’offerta, da parte del debitore al creditore, solenne, cioè fatta da un pubblico ufficiale e con il rispetto delle formalità di cui all’art. 1208 c.c. Tale offerta solenne si distingue in: offerta reale, se l’obbligazione ha ad oggetto denaro, titoli di credito o beni mobili da consegnare al domicilio del creditore e la cosa dovuta è effettivamente esibita e messa a disposizione del creditore da parte del notaio o dell’ufficiale giudiziario; offerta per intimazione a ricevere il bene dovuto, a prendere possesso del bene immobile, a ricevere la
prestazione o a compiere gli atti necessari per renderla possibile, se si tratta di obblighi di fare. Eseguita l’offerta, il creditore è in mora se non accetta la prestazione senza giustificato motivo. Questi gli effetti della mora del creditore: il rischio dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore resta a carico del creditore; non sono più dovuti né interessi né frutti; il debitore deve essere risarcito degli eventuali danni derivati dalla mora e ha diritto al rimborso delle spese per la custodia e conservazione della cosa. Al fine di conseguire la liberazione dal vincolo il debitore dovrà, infatti, osservare l’ulteriore formalità del deposito presso istituti di credito (per il denaro) e presso stabilimenti di pubblico deposito (in caso di cose mobili diverse). L’effetto liberatorio del deposito si produce solo dopo che è stato accettato dal creditore o è stato dichiarato valido con sentenza passata in giudicato.
6.6 Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento Se l’adempimento costituisce il modo ordinario e naturale di estinzione dell’obbligazione, è, tuttavia, possibile che essa si estingua anche per altre vie. Si parla a tale proposito di modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento. Si distingue tra modi di estinzione satisfattori, quando soddisfano
l’interesse
del
creditore
(compensazione
e
confusione), e non satisfattori, quando, invece, estinguono l’obbligazione
senza
soddisfare
l’interesse
creditorio
(novazione, remissione, impossibilità sopravvenuta).
6.6.1 Modi satisfattori: compensazione e confuzione La compensazione si verifica quando due soggetti sono contestualmente debitore e creditore l’uno dell’altro, per cui i debiti si estinguono fino alla concorrenza dello stesso valore (art. 1241 c.c.). La compensazione costituisce applicazione del principio generale della economicità degli atti giuridici in quanto consente di evitare due pagamenti, di segno opposto, tra due soggetti.
Presupposto della compensazione è l’autonomia dei debiti, nel senso che essi devono derivare da fonti diverse. Il codice prevede tre tipi di compensazione: compensazione legale, che opera ope legis tra crediti omogenei (cioè che hanno per oggetto un’identica prestazione, come il pagamento di una somma di denaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere), che sono ugualmente liquidi (cioè esattamente determinati nel loro ammontare) ed esigibili (nel senso che il loro adempimento può essere preteso dal creditore, in quanto, ad esempio, è scaduto il termine per il pagamento). Perché la compensazione legale operi, è necessario che la parte la eccepisca in giudizio: il giudice non può rilevarla d’ufficio. Tuttavia i debiti si estinguono non dal giorno della sentenza e per effetto di questa, ma dal momento della loro coesistenza, automaticamente, per effetto della legge (art. 1242 c.c.); compensazione giudiziale, che opera per effetto di una sentenza (con carattere costitutivo) quando uno dei debiti non è liquido ma è di facile e pronta liquidazione (art. 1243, co. 2, c.c.); compensazione volontaria, che ha luogo per volontà delle parti e può avvenire anche se non ricorrono le condizioni previste dalla legge per la compensazione legale e giudiziale. I crediti devono essere, comunque, reciproci e certi. L’effetto estintivo si produce ex nunc, ovvero dal momento dell’accordo.
La confusione si verifica quando le qualità di creditore e di debitore si riuniscono nella stessa persona (art. 1253 c.c.). È il caso della successione mortis causa, salvo il caso di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario. Per
effetto
della
confusione
si
verifica
l’estinzione
dell’obbligazione e delle garanzie eventualmente prestate da terzi.
6.6.2 Modi di estinzione non satisfattori: impossibilità sopravvenuta, novazione, remissione del debito L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione, originariamente possibile, sia divenuta impossibile (art. 1256 c.c.). Deve trattarsi, dunque, di impossibilità: sopravvenuta (una prestazione impossibile ab origine renderebbe
impossibile
il
sorgere
del
rapporto
obbligatorio); oggettiva, ossia deve riguardare la prestazione in sé per sé e non le vicende soggettive del debitore (ad es. questi non potrebbe addurre una situazione di difficoltà economica che gli renda impossibile l’adempimento); assoluta (o inevitabile): tradizionalmente si riscontra tale inevitabilità nel caso fortuito e nella forza maggiore, quali limiti allo sforzo di diligenza del debitore; totale,
ossia
deve
riguardare
l’intera
prestazione.
L’impossibilità parziale non estingue l’obbligazione e il
debitore, per liberarsi, deve eseguire la prestazione per la parte che è rimasta possibile. Il creditore, però, potrebbe non avere interesse ad ottenere solo una parte della prestazione e, quindi, può rifiutarla; definitiva.
L’impossibilità
temporanea
non
estingue
l’obbligazione, ma, se non imputabile, esclude ogni responsabilità
del
debitore
per
il
ritardo
nell’adempimento.
Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura
sino
a
quando,
in
relazione
al
titolo
dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione oppure il creditore non ha più interesse a conseguirla (art. 1256, co. 2, c.c.). La novazione è un contratto con cui le parti sostituiscono all’obbligazione originaria, che di conseguenza si estingue, una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso (art. 1230 c.c.). Elementi essenziali della novazione oggettiva sono: l’obbligazione originaria da novare (obligatio novanda): l’inesistenza di tale obbligazione rende nulla la novazione per mancanza di causa; un aliquid novi, ossia un mutamento dell’oggetto o del titolo
dell’obbligazione.
La
modificazione
non
può
consistere semplicemente nel rilascio o nel rinnovo di un documento o nell’eliminazione di un termine;
l’animus novandi, ossia la volontà di estinguere la precedente obbligazione e di crearne una nuova. Tale volontà deve risultare in modo non equivoco (art. 1230, co. 2, c.c.). La remissione è un negozio unilaterale recettizio, consistente nella dichiarazione del creditore di rimettere il debito e che produce i suoi effetti (estinzione dell’obbligazione) quando è comunicata al debitore (remissione espressa). Il debitore, peraltro, può dichiarare, in un congruo termine, di non volerne profittare. La remissione può essere anche tacita, con la restituzione volontaria del titolo originale del credito, fatta dal creditore al debitore, che costituisce presunzione assoluta di remissione e che ha effetti non soltanto a favore della persona alla quale il titolo è restituito, ma anche a favore degli altri debitori in solido (art. 1237 c.c.). Oggetto della remissione possono essere tutti i crediti, ad eccezione di quelli indisponibili.
6.7 Le modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio 6.7.1 Generalità Le obbligazioni si possono trasmettere sia nel lato attivo che nel lato passivo. In entrambe le ipotesi si verifica un mutamento soggettivo del rapporto, pur rimanendo immutato il vincolo obbligatorio. Il trasferimento della posizione (attiva o passiva) può avvenire sia per atto tra vivi che per successione a causa di morte. Gli atti giuridici inter vivos idonei a produrre la trasmissione dell’obbligazione sono, nel lato attivo: la cessione del credito, il pagamento con surrogazione e la delegazione
attiva;
nel
lato
passivo:
la
delegazione,
l’espromissione e l’accollo. La modificazione della posizione passiva dell’obbligazione può essere di due tipi: un nuovo soggetto si aggiunge all’originario debitore (modifica cumulativa); un nuovo soggetto sostituisce l’originario debitore che viene, pertanto, liberato dall’obbligo di adempiere la prestazione (modifica privativa). Solo in questa seconda ipotesi si può parlare di successione nel debito.
Circostanza importante da tener presente è quella per cui, mentre la trasmissione del credito non richiede il consenso del debitore, essendo normalmente indifferente a quest’ultimo il soggetto nei cui confronti deve adempiere l’obbligazione, la trasmissione del debito richiede, invece, il consenso del creditore, per il quale il fatto di ricevere l’adempimento da un nuovo debitore può avere dei riflessi sotto il profilo della solvibilità.
6.7.2 Modificazioni nel lato attivo: cessione del credito e surrogazione La cessione del credito è l’accordo in forza del quale uno di essi, detto cedente, trasferisce all’altro, detto cessionario, il credito che egli ha verso un proprio debitore, detto ceduto (artt. 1260-1267 c.c.). La cessione del credito è un contratto che si perfeziona con il consenso del cedente e del cessionario, a prescindere dal consenso del debitore (ceduto), in quanto per quest’ultimo è indifferente pagare ad un soggetto anziché ad un altro. La cessione del credito può avvenire a titolo oneroso (come accade se il creditore trasferisce il proprio credito in cambio di un prezzo) o a titolo gratuito (se, ad esempio, il creditore dona il proprio credito al cessionario). In linea generale sono cedibili tutti i tipi di credito. Come evidenziato dall’art. 1260 c.c., esistono però alcuni crediti che non possono essere ceduti. Sono incedibili:
i crediti che hanno natura strettamente personale, cioè i crediti che, per la loro natura o per disposizione di legge, possono essere esercitati solo dal loro titolare (si pensi ad esempio ai crediti che hanno ad oggetto prestazioni artistiche o intellettuali); i crediti la cui cessione è vietata dalla legge; i crediti che le parti hanno stabilito non debbano essere ceduti. In ogni caso se la parte viene meno all’obbligo assunto e cede ad un terzo il credito, la cessione sarà perfettamente valida, a meno che il cessionario fosse a conoscenza del patto di incedibilità. Per quanto riguarda l’efficacia della cessione, si distingue: nei confronti del debitore ceduto (art. 1264 c.c): la cessione del credito ha efficacia nei suoi confronti quando quest’ultimo l’ha accettata o gli è stata notificata. Da questo momento in poi il debitore ceduto non può più pagare il suo debito all’originario creditore ma per liberarsi dovrà necessariamente pagare al nuovo creditore cessionario.
Prima,
invece,
della
notifica
o
dell’accettazione, il debitore può adempiere nei confronti del creditore originario e tale adempimento libera il debitore stesso. Tuttavia, il debitore che paga al cedente non è liberato se il cessionario prova che il debitore medesimo era comunque a conoscenza dell’avvenuta cessione. Il debitore può opporre al cessionario le stesse eccezioni che poteva opporre al cedente: cioè quelle di
natura personale (pagamento già effettuato) o di natura reale (relative alla validità ed efficacia del negozio); nei confronti dei terzi (art. 1265 c.c): se uno stesso credito è stato ceduto a più soggetti, l’acquisto si verifica solo a favore di chi per primo lo ha notificato al debitore o per primo ha ricevuto l’accettazione di quest’ultimo, con atto di data certa; efficacia nei rapporti tra cedente e cessionario: se la cessione è a titolo oneroso, il cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito ma non la solvibilità del debitore (cessione pro soluto) a meno che non vi sia apposito patto (cessione pro solvendo); se la cessione è a titolo gratuito, l’art. 1266 c.c. dice che la garanzia dell’esistenza del credito è dovuta solo nei casi e nei limiti in cui la legge pone a carico del donante la garanzia per evizione (cioè solo se il donante l’ha espressamente promessa). In alcune ipotesi previste dalla legge, il pagamento del terzo realizza solo una modificazione soggettiva attiva del rapporto obbligatorio, subentrando il terzo nella posizione del creditore. Si verifica, in questi casi, una surrogazione nel credito disciplinata dagli artt. 1201-1205 c.c. La surrogazione può aversi: per volontà del creditore (art. 1201 c.c.) che, ricevendo il pagamento da un terzo, dichiari espressamente di volerlo far subentrare nei propri diritti verso il debitore (surroga per quietanza). In tal caso la surrogazione deve essere fatta in modo espresso e contemporaneamente
al pagamento, in modo da impedire che, con il pagamento, il rapporto si estingua definitivamente; per volontà del debitore (art. 1202 c.c.) che, prendendo a mutuo una somma per pagare il creditore, può surrogare il mutuante nella posizione del creditore pagato (surroga per imprestito).
In tal caso, perché la surrogazione abbia effetto è necessario che ricorrano le seguenti condizioni: il mutuo e la quietanza devono risultare da atto avente data certa; nell’atto di mutuo deve essere espressamente indicata la specifica destinazione della somma mutuata; nella
quietanza
deve
essere
riportata
la
dichiarazione del debitore circa la provenienza della somma impiegata nel pagamento; per volontà della legge (surrogazione legale), in tutti i casi in cui la legge autorizza il terzo (che paga un debito altrui) a surrogarsi nei diritti del creditore, indipendentemente dalla volontà del creditore e del debitore (esempio tipico di surrogazione legale è quello del condebitore solidale che paga l’intero debito: egli si surroga nella posizione del creditore nei confronti degli altri debitori per la parte di debito loro spettante).
6.7.3 Modificazioni del lato passivo: delegazione, espromissione e accollo
La delegazione (artt. 1268-1271 c.c.) si verifica quando il debitore (delegante) ordina ad un terzo (delegato) di assumere
il
suo
debito
nei
confronti
del
creditore
(delegatario), o di adempiere nei confronti di quest’ultimo la prestazione dovuta. La delegazione, pertanto, può essere di due tipi: delegazione di pagamento: si ha quando il debitoredelegante delega un terzo-delegato ad eseguire il pagamento
al
creditore-delegatario.
Invero,
la
delegazione di pagamento non comporta una vera e propria modifica del soggetto passivo dell’obbligazione, perché l’atto del pagamento estingue il debito del delegante verso il delegatario, senza far sorgere un rapporto obbligatorio del delegato nei confronti del delegatario. La fattispecie realizza, in realtà, un’ipotesi di adempimento del terzo; delegazione di debito: si ha quando il debitore delega un altro soggetto ad assumersi l’obbligazione verso il creditore, cioè a promettergli il pagamento a una certa scadenza futura. La delegazione di debito determina una vera
e
propria
modifica
del
soggetto
passivo
dell’obbligazione, in quanto il delegato non provvede direttamente al pagamento, ma assume l’obbligazione nei confronti del creditore.
In caso di delegazione di debito, il creditore può dal canto suo: non accettare l’obbligazione del terzo;
accettare
l’obbligazione
del
terzo
e
liberare
espressamente il debitore originario. In questo caso (cd. delegazione privativa o liberatoria) un nuovo debitore sostituisce il precedente e il creditore potrà chiedere l’adempimento solo al nuovo debitore delegato e non ha più la possibilità di agire nei confronti del delegante (salvo che si sia riservato tale possibilità per il caso di insolvenza del delegato); accettare l’obbligazione del terzo senza liberare, però, il debitore delegante. In questo caso (cd. delegazione
cumulativa)
non
si
ha
la
sostituzione di un debitore ad un altro, ma solo l’aggiunta di un nuovo debitore a quello originario. Quest’ultimo, quindi, non è liberato; tuttavia, il creditore che ha accettato l’obbligazione del terzo non può rivolgersi al delegante se prima non ha chiesto l’adempimento al delegato (cd. beneficium ordinis). Nella delegazione si possono distinguere due rapporti: rapporto tra delegante e delegato, in base al quale il secondo assume il debito o paga e si chiama rapporto di provvista; rapporto tra delegante e delegatario, in base al quale il primo deve adempiere un obbligo e si chiama rapporto di valuta.
Da ciò consegue che, quando il delegato, in esecuzione di un ordine del delegante, promette o adempie la prestazione senza richiamare alcuno dei rapporti su menzionati, siamo in presenza di una delegazione astratta o pura. Al contrario, quando il debitore fa espresso richiamo a questi rapporti sottostanti, si ha delegazione titolata o causale. La differenza tra delegazione titolata e pura si riflette sul regime delle eccezioni che il delegato può opporre al delegatario,
essendo
ammessa,
nel
primo
caso,
la
opponibilità di tutte le eccezioni relative al rapporto interno richiamato. In particolare:
se si fa riferimento al solo rapporto di provvista, il terzo delegato potrà opporre al creditore delegatario quelle stesse eccezioni che avrebbe potuto opporre al debitore delegante; se si fa riferimento al solo rapporto di valuta, il terzo delegato potrà proporre contro il creditore delegatario le stesse eccezioni che avrebbe potuto opporgli il debitore delegante; se si fa menzione di entrambi i rapporti, il delegato può opporre al creditore delegatario tutte le eccezioni eventualmente promuovibili dal debitore delegante al creditore delegatario (rapporto di valuta) e da egli stesso – terzo delegato – al debitore delegante (rapporto di provvista).
Viceversa, nella delegazione pura il delegato non può opporre al delegatario le eccezioni relative al rapporto sottostante. In ogni caso, qualunque sia il tipo di delegazione, il terzo delegato può sempre e comunque opporre al delegatario le eccezioni relative ai rapporti diretti con lui.
L’espromissione (art. 1272 c.c.) è il contratto mediante il quale
un
terzo,
estraneo
al
rapporto
obbligatorio
(espromittente), assume spontaneamente verso il creditore il debito di un altro soggetto (espromesso), promettendo al creditore (espromissario) che provvederà al pagamento. Caratteristica
del
contratto
è
la
spontaneità
dell’assunzione del debito altrui. L’espromissione, infatti, interviene su iniziativa del terzo espromittente ed è incompatibile con una delegazione da parte del debitore. Anche l’espromissione può essere: cumulativa: quando il nuovo debitore si aggiunge all’originario debitore che, quindi, non viene liberato. A differenza che nella delegazione, in caso di espromissione cumulativa la responsabilità del debitore originario non degrada a responsabilità sussidiaria rispetto a quella del nuovo debitore. Il creditore, quindi, può rivolgersi indifferentemente tanto al nuovo che all’originario debitore; liberatoria (o privativa): quando l’originario debitore viene liberato in virtù di una espressa dichiarazione del
creditore. L’espromittente, in questo caso, resta l’unico debitore. Per quanto riguarda il regime delle eccezioni, se non si è convenuto diversamente, il terzo non può opporre al creditore le eccezioni relative ai suoi rapporti col debitore originario. Può opporgli, invece, le eccezioni che al creditore avrebbe potuto opporre il debitore originario, se non sono personali a quest’ultimo e non derivano da fatti successivi all’espromissione. Non può opporgli la compensazione che avrebbe potuto opporre il debitore originario, quantunque si sia verificata prima dell’espromissione (art. 1272, co. 3, c.c.).
L’accollo (art. 1273 c.c.) è il contratto fra debitore (accollato) e terzo (accollante), con il quale il terzo si assume il debito dell’altro: a tale accordo non partecipa il creditore (accollatario) il quale può eventualmente aderirvi. Si possono distinguere vari tipi di accollo: interno (o semplice): interviene quando l’accordo tra debitore e accollante non è manifestato al creditore, che rimane terzo estraneo al rapporto; esterno: si ha quando l’accordo intervenuto tra accollante ed accollato venga portato a conoscenza del creditore, il quale ha la possibilità di aderire alla convenzione rendendo irrevocabile la stipulazione in suo favore; cumulativo: quando il creditore, all’atto di aderire alla convenzione, non dichiara di liberare il debitore;
liberatorio o privativo: quando invece il creditore dichiara espressamente di liberare il debitore, che termina di essere obbligato nei suoi confronti.
Nella pratica, possono verificarsi due ipotesi di accollo liberatorio: l’accollatario accetta un accollo che è espressamente condizionato alla liberazione dell’accollato; oppure l’accollatario dichiara espressamente di volere liberare il debitore accollato. Per quanto concerne il regime delle eccezioni, il terzo accollante può opporre al creditore: le eccezioni fondate sul contratto di assunzione e le eccezioni relative al rapporto tra debitore originario e creditore.
Capitolo 7 L’inadempimento dell’obbligazione e la responsabilità patrimoniale 7.1 L’inadempimento L’inadempimento è la mancata o inesatta esecuzione della prestazione dovuta da parte del debitore. La nozione di inadempimento è, dunque, ampia perché comprende sia l’inadempimento totale, sia l’inesatto o parziale adempimento. L’inadempimento può essere definitivo oppure consistere in un mero ritardo che, se qualificato, darà luogo alla mora del debitore. Ai sensi dell’art. 1218 c.c. il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Dunque, anche il semplice ritardo nell’esecuzione della prestazione è fonte di responsabilità a carico del debitore. Nel caso di inadempimento definitivo l’interesse del creditore risulta per definizione pregiudicato dal mancato adempimento e, dunque, non sarà possibile né rilevante un
eventuale adempimento tardivo del debitore. È questo il caso delle obbligazioni negative violate da una condotta positiva del debitore o delle obbligazioni per le quali le parti abbiano previsto un termine essenziale per l’adempimento e questo sia inutilmente scaduto. Il debitore, per andare esente da ogni responsabilità è tenuto a fornire la prova dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa a lui non imputabile, deve provare, cioè, di aver fatto il possibile per soddisfare l’interesse del creditore, ma che l’adempimento è risultato impossibile per l’esistenza di una causa a lui esterna, per un caso fortuito o per una forza maggiore. In
definitiva,
impossibilità
se
l’inadempimento
sopravvenuta
non
determinato
imputabile
al
da
debitore
determina l’estinzione dell’obbligazione e la liberazione del soggetto passivo del rapporto, l’inadempimento imputabile al debitore
determina
come
conseguenza
principale
la
costituzione in capo al debitore inadempiente dell’obbligo di risarcire i danni derivanti dall’inadempimento.
7.2 La mora del debitore Può accadere che il debitore non adempia entro il termine stabilito, ma che sia ancora possibile un adempimento successivo, sia pure tardivo; si parla, in questo caso, di inadempimento relativo o di ritardo nell’adempimento. Il ritardo interessa, dunque, un’obbligazione che ha per oggetto una prestazione ancora possibile: la stessa situazione di ritardo potrà dar luogo alternativamente ad un adempimento tardivo o ad un inadempimento definitivo. La responsabilità risarcitoria del debitore si configura, tuttavia, solo in caso di ritardo qualificato, ovvero solo se il debitore è costituito in mora dal creditore. Affinché il debitore possa essere costituito in mora è necessaria la presenza di due presupposti: il ritardo nell’adempimento deve essere imputabile al debitore, il quale deve trovarsi, pertanto, in dolo o in colpa.
In
caso
contrario,
infatti,
si
avrebbe
una
impossibilità temporanea di adempiere non imputabile al debitore che non comporta alcuna responsabilità del debitore stesso per il ritardo nell’adempimento (art. 1256, co. 2, c.c.); il credito deve essere esigibile e, quindi, deve essere scaduto il termine previsto per l’adempimento.
Il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto (si parla in questo caso di mora ex persona). In alcuni casi, però, il ritardo è di per sé sufficiente a determinare l’automatica costituzione in mora del debitore (si parla in questo caso di mora ex re). Ciò accade: quando il debito deriva da fatto illecito, cioè da qualunque fatto doloso o colposo che causa ad altri un danno ingiusto; quando il debitore dichiara per iscritto di non voler eseguire la prestazione; quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore. Il primo effetto della costituzione in mora è l’obbligo per il debitore di risarcire i danni derivanti dal ritardo nell’adempimento. La mora determina anche una serie di ulteriori conseguenze sfavorevoli per il debitore: il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta
impossibilità
della
prestazione
derivante da causa a lui non imputabile, se non prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore. Se il debitore avesse adempiuto l’obbligazione tempestivamente, infatti, l’impossibilità sopravvenuta non si sarebbe verificata e, quindi, è giusto che le sue conseguenze restino a carico del debitore stesso; nelle obbligazioni che hanno ad oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della
mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Al creditore che dimostra di avere subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è convenuta la misura degli interessi moratori; l’atto di costituzione in mora vale ad interrompere la prescrizione (art. 2943 c.c.).
7.3 Il risarcimento del danno da inadempimento L’art. 1218 c.c. pone a carico del debitore inadempiente l’obbligo di risarcire il danno causato al creditore con l’inadempimento o con il ritardo. In caso di inadempimento, il creditore può mettere in mora il debitore e accettare un adempimento tardivo o conseguire coattivamente la prestazione. In entrambi i casi egli avrà diritto al risarcimento dei danni subiti per il ritardo. Se non vuole o non può conseguire tardivamente la prestazione il risarcimento dei danni riguarderà, invece, il valore della prestazione non conseguita. Dunque, in caso di inadempimento, all’obbligazione rimasta inadempiuta o adempiuta tardivamente si sostituisce o si affianca un’altra obbligazione, quella risarcitoria. I danni risarcibili sono quelli legati da un nesso di causalità adeguata con l’inadempimento, cioè ne sono conseguenza immediata e diretta e si configurano sotto il profilo soggettivo come danno emergente e lucro cessante. Il danno emergente rappresenta la perdita subita dal creditore per le spese sopportate; il lucro cessante rappresenta il mancato guadagno, cioè tutte le utilità economiche che il creditore avrebbe potuto conseguire in via diretta dalla prestazione eseguita correttamente.
Il risarcimento riguarda dunque il cd. interesse positivo, determinandosi la stessa situazione che si sarebbe determinata se l’illecito non fosse stato commesso. Il danno risarcibile va provato: bisognerà dimostrare che esso si sia verificato, ossia che il creditore l’abbia sofferto, nonché che il debitore lo abbia cagionato con la propria condotta. Quando non è possibile provare l’ammontare del danno, esso va liquidato dal giudice a norma dell’1226 c.c. Il giudice ricorre ad una valutazione equitativa quando è certa la verificazione del danno e la dipendenza eziologica dal comportamento del debitore ma non il suo ammontare. In tal caso il giudice ricorre all’equità, ossia applica la giustizia del caso concreto svolgendo una valutazione strettamente economica dei fattori costitutivi del danno rapportatati alle situazioni del mercato. Se l’inadempimento o il ritardo dipendono da colpa del debitore e non già da dolo, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c.). Se il debitore ha causato l’inadempimento con dolo, il risarcimento si estende anche al danno imprevedibile.
7.4 La clausola penale e la caparra In presenza di un inadempimento o di un ritardo nell’adempimento il creditore ha diritto al risarcimento del danno, ma la liquidazione del quantum debeatur deve essere effettuata dal giudice all’esito di un giudizio nel quale il creditore deve dare la prova dell’ammontare dei danni subiti. Per evitare queste incombenze è prevista dal nostro ordinamento la possibilità per il creditore di concordare preventivamente
col
debitore
una
soluzione
pattizia,
stipulando una clausola penale con cui si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il debitore, senza necessità della messa in mora, sarà tenuto ad una certa prestazione, nella maggior parte delle ipotesi consistente in una somma di denaro. Diversa dalla penale è la caparra confirmatoria disciplinata dall’art. 1385 c.c. Se al momento della conclusione del contratto, o anche dopo la conclusione, ma prima dell’inizio dell’esecuzione, una parte dà all’altra, a titolo di caparra, una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. Se, invece, la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra, con dichiarazione unilaterale recettizia, può recedere dal contratto
ritenendo la caparra; se poi inadempiente è la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto e pretendere il doppio della caparra. In ogni caso, la parte che non è inadempiente non perde la facoltà di pretendere l’esecuzione del contratto o la risoluzione di esso secondo le regole generali, fatto salvo comunque il risarcimento del danno, con possibilità di ritenere la caparra in conto dei danni che saranno liquidati. Diversa
dalla
caparra
confirmatoria
è
poi
quella
penitenziale, che costituisce solo il corrispettivo di un diritto di recesso pattuito per una o per entrambe le parti e che va versato anticipatamente. Ove non risulti che le parti si sono riservate espressamente il diritto di recedere dal contratto, alla caparra va riconosciuto carattere confirmatorio.
7.5 La responsabilità patrimoniale e le garanzie del credito 7.5.1 La garanzia patrimoniale generica In
base
all’art.
2740
c.c.,
“il
debitore
risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”. Viene posto, in tal modo, il cd. principio della responsabilità patrimoniale, il quale può essere definito come la soggezione del patrimonio del debitore al diritto
di
soddisfacimento
soddisfacimento
coattivo
che
coattivo si
dei attua
creditori, attraverso
l’espropriazione forzata. In pratica il patrimonio dell’obbligato costituisce una garanzia per il creditore (cd. garanzia patrimoniale generica), che può fare affidamento su di esso per soddisfare coattivamente il suo diritto. Pertanto, nel caso in cui il debitore non adempia la prestazione alla quale è tenuto, il creditore che abbia ancora interesse all’esecuzione della prestazione potrà agire in giudizio per far valere la sua pretesa chiedendo l’esecuzione forzata.
7.5.2 I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale
Si è visto che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.) È evidente, dunque, che il creditore ha un rilevante interesse a non vedere diminuita, in suo danno, la consistenza di tale patrimonio. Il creditore, più precisamente, ha interesse: ad evitare che il debitore trasferisca ad altri i propri beni depauperando il suo patrimonio; a fare in modo che il debitore eserciti i diritti e le azioni a tutela
del
suo
patrimonio
che
ne
consentano
la
conservazione e l’incremento. A tutela di tali interessi, il creditore può esercitare l’azione surrogatoria e l’azione revocatoria e può, inoltre, chiedere il sequestro conservativo di uno o più beni del debitore. La finalità dell’azione surrogatoria è quella di fornire al creditore un mezzo per conservare il valore del patrimonio del debitore nonostante l’inerzia e l’incuria del titolare. In particolare, ai sensi dell’art. 2900 c.c., il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare. Gli effetti dell’atto compiuto in luogo del debitore vanno a vantaggio del patrimonio di quest’ultimo e quindi, in pratica,
di tutti i suoi creditori; il singolo creditore che agisce in surrogatoria se ne avvantaggia, in altre parole, solo nel senso di conservare e migliorare le garanzie del suo credito (che sono le garanzie anche degli altri creditori). La finalità dell’azione revocatoria è quella di porre rimedio alle conseguenze del comportamento del debitore quando egli con frode ha posto in essere atti di disposizione del proprio patrimonio arrecando pregiudizio alle attese del creditore (art. 2901 c.c.). Di fronte ad un comportamento di questo genere il creditore può esercitare l’azione revocatoria mirante a chiedere al giudice che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore abbia recato pregiudizio alle sue ragioni. Affinché l’azione revocatoria possa essere esercitata, è necessaria la sussistenza di due presupposti, e cioè che: dall’atto derivi un effettivo pregiudizio per il creditore (eventus damni); il debitore fosse a conoscenza di tale pregiudizio (consilium fraudis). Occorre tuttavia distinguere: nel caso di atti di trasferimento a titolo oneroso è necessario tutelare il terzo che, per acquistare il bene, ha sopportato una diminuzione patrimoniale, ossia ha pagato un prezzo. Pertanto, l’azione revocatoria può essere esercitata solo se anche il terzo era a conoscenza del pregiudizio che l’atto avrebbe arrecato alle ragioni del creditore;
nel caso di atti di disposizione a titolo gratuito (come ad esempio una donazione) è meno sentita l’esigenza di tutelare il terzo, in quanto questi non ha subito nessuna diminuzione patrimoniale. L’atto, quindi, è revocabile anche se il terzo era in buona fede. Il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria determina l’inefficacia dell’atto posto in essere dal debitore nei confronti unicamente dal creditore che ha agito con l’azione revocatoria, il quale potrà sottoporre il bene ad esecuzione forzata nonostante il suo trasferimento a terzi. Eventuali altri creditori, invece, non potranno sottoporre il bene trasferito a terzi ad esecuzione forzata. La finalità del sequestro conservativo è quella di fornire al creditore un rimedio preventivo e cautelare contro il pericolo di perdere la garanzia generica sui beni del debitore. Il pericolo può verificarsi con il passaggio del bene nella sfera giuridica altrui (ad esempio vendita, donazione) oppure attraverso la scomparsa materiale del bene, ad esempio danaro. L’effetto del sequestro conservativo sarà quello di rendere inefficaci gli atti compiuti relativamente ai beni sequestrati nei riguardi del creditore sequestrante, il quale potrà promuovere l’azione esecutiva nei confronti del terzo proprietario. Il giudice può autorizzare il sequestro conservativo dei beni del debitore allorquando ricorrano congiuntamente due presupposti:
il fumus boni iuris, ossia elementi che consentano di ritenere, con un certo grado di probabilità, sussistente il diritto di credito di cui la parte ricorrente si dichiara titolare; il periculum in mora, ovvero il fondato pericolo che, nel lasso di tempo occorrente al creditore per far valere le sue ragioni, il debitore depauperi il suo patrimonio, in modo da concretamente compromettere le prospettive di esecuzione su di esso.
7.5.3 Parità di trattamento e cause legittime di prelazione Il principio di parità di trattamento dei creditori, posto dall’art. 2741 c.c., implica che tutti i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore (cd. par condicio creditorum). Ciò significa che se un soggetto ha più creditori e il suo patrimonio è insufficiente a soddisfare il credito di tutti, ciascun creditore deve rinunciare ad una parte del proprio diritto a vantaggio degli altri, in quanto tutti i creditori devono essere pagati in proporzioni uguali. Detto principio trova una rilevante limitazione nelle cd. cause legittime di prelazione, le quali attribuiscono al creditore titolare la possibilità di essere soddisfatto a preferenza degli altri creditori. Sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e l’ipoteca. I creditori che hanno un diritto di prelazione sui beni del debitore sono definiti privilegiati e possono soddisfarsi sui beni del debitore prima degli altri creditori.
Gli altri creditori sono detti, invece, chirografari e possono sottoporre ad esecuzione forzata i beni del debitore solo dopo che siano stati soddisfatti i creditori privilegiati. Quanto al rapporto tra i diversi diritti di garanzia, l’art. 2748 c.c. fissa il principio in base al quale il diritto di pegno è prevalente sul privilegio speciale sui mobili, mentre il privilegio speciale sugli immobili prevale sull’ipoteca.
7.5.4 I privilegi Il privilegio è una prelazione accordata dalla legge in considerazione della causa del credito, ovvero del titolo dal quale trae origine il rapporto obbligatorio (art. 2745 c.c.). I crediti privilegiati sono tali in virtù di una disposizione di legge che interviene ad individuare quali crediti devono essere considerati maggiormente meritevoli di tutela e dunque pagati prima degli altri (es. crediti alimentari). Sono crediti privilegiati solo quelli espressamente previsti dalla legge. Il privilegio può essere: generale: è tale quello che si esercita su tutti beni mobili del debitore (art. 2746 c.c.). Nel caso di infruttuosa esecuzione sui mobili, taluni crediti privilegiati, che la legge considera con particolare favore, sono collocati sussidiariamente sul prezzo degli immobili, con preferenza rispetto ai creditori chirografari (ovvero quelli sforniti di un diritto di prelazione). La legge elenca i crediti muniti di privilegio generale, secondo un certo ordine di preferenza.
La legge elenca i crediti muniti di privilegio generale,
secondo un certo ordine di preferenza.
Il privilegio generale non attribuisce un diritto di seguito: non consente, cioè, di perseguire i beni che il debitore abbia alienato a terzi. Più in generale, anzi, esso non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti spettanti a terzi sul bene che ne forma oggetto; speciale: è quello che si esercita su determinati beni mobili e immobili ed è giustificato da una particolare connessione fra il credito e la cosa (es. i crediti dell’albergatore
verso
le
persone
albergate
hanno
privilegio sulle cose da queste portate nell’albergo e che continuano a trovarvisi). Il privilegio speciale, se la legge non dispone diversamente, può essere esercitato anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi posteriormente al sorgere dello stesso (cd. diritto di seguito).
7.5.5 I diritti reali di granzia: il pegno e l’ipoteca I diritti reali di garanzia attribuiscono al creditore il potere di espropriare uno o più beni determinati del debitore e di soddisfarsi sul ricavato della loro vendita con preferenza rispetto agli altri creditori (cd. creditori chirografari). I diritti reali di garanzia sono il pegno e l’ipoteca. Essi presentano le seguenti caratteristiche comuni: accessorietà, in quanto, avendo lo scopo di garantire un diritto di credito, sono accessori al credito stesso e,
pertanto, non possono esistere se non esiste il credito e si estinguono con l’estinguersi del credito; specialità, in quanto (a differenza del privilegio, che può essere anche generale) il pegno e l’ipoteca hanno ad oggetto un singolo e specifico bene; diritto di sequela, nel senso che il creditore può far valere il proprio diritto anche nei confronti dei terzi ai quali il bene oggetto di pegno o di ipoteca sia stato eventualmente alienato. Il pegno è un diritto reale di garanzia che può avere ad oggetto beni mobili, universalità di mobili, crediti e altri diritti su beni mobili. Il pegno si costituisce in virtù di un contratto concluso tra il proprietario del bene (che può essere il debitore o un terzo che costituisce la garanzia a favore del debitore) e il creditore (cd. creditore pignoratizio). Si tratta di un contratto reale, in quanto si perfeziona solo a seguito della effettiva consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della stessa. Il pegno sorge, quindi, con lo spossessamento del bene, cioè quando il debitore o il terzo viene privato della disponibilità materiale del bene stesso. Lo spossessamento ha in sostanza la funzione di avvertire i terzi dell’esistenza del vincolo (ha, pertanto, una funzione di pubblicità). Quando, però, il credito garantito eccede la somma di 2,58 euro, quindi nella quasi totalità dei casi, il pegno deve risultare da un atto scritto avente data certa.
Il creditore è tenuto a custodire la cosa ricevuta in pegno e risponde, secondo le regole generali, della perdita e del deterioramento della cosa stessa. Il creditore, però, non può, senza il consenso del costituente, utilizzare la cosa, salvo che l’uso sia necessario per la conservazione di essa. Alla scadenza dell’obbligazione, se il debitore adempie, il creditore deve restituire al proprietario la cosa data in pegno. In caso di inadempimento dell’obbligazione, il creditore può far vendere la cosa data in pegno, secondo le modalità dei pubblici incanti, anche se nel frattempo la sua proprietà è stata trasferita a terzi, e soddisfarsi sul ricavato della vendita a preferenza degli altri creditori. L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che può avere ad oggetto
beni
immobili,
diritti
reali
immobiliari
(in
particolare, l’usufrutto, il diritto di superficie, nonché il diritto dell’enfiteuta e quello del concedente sul fondo enfiteutico), rendite dello Stato e beni mobili registrati. Anche
l’ipoteca
può
essere
costituita
a
garanzia
dell’obbligazione dal debitore oppure da un terzo (definito “terzo datore di ipoteca”). A differenza del pegno, però, che può essere costituito solo in virtù di un contratto, l’ipoteca può avere fonte in un contratto, in una sentenza o in una disposizione di legge. In ogni caso, la costituzione di ipoteca non determina il materiale trasferimento del bene al creditore: il bene, infatti, rimane nella disponibilità del proprietario e l’esistenza del vincolo è resa nota ai terzi attraverso una specifica forma di pubblicità costituita dall’iscrizione in un pubblico registro presso l’ufficio dei registri immobiliari.
L’iscrizione ha efficacia costitutiva dell’ipoteca. Prima dell’effettiva
iscrizione,
infatti,
esiste
solo
il
diritto
all’iscrizione di ipoteca, ma non il diritto di ipoteca vero e proprio. L’iscrizione dell’ipoteca conserva il suo effetto per venti anni. Prima della scadenza, l’iscrizione può essere rinnovata e, in questo caso, viene prorogata l’efficacia della prima iscrizione. Se, invece, scade il termine dei venti anni, il creditore può comunque chiedere una nuova iscrizione, ma in questo caso l’ipoteca si considera come se fosse stata iscritta per la prima volta. Su uno stesso bene immobile possono essere costituite più ipoteche. Se ciò accade, diventa particolarmente importante stabilire la data di ciascuna iscrizione, perché ogni ipoteca è contraddistinta da un numero d’ordine che determina il grado dell’ipoteca (art. 2853 c.c.). L’ipoteca iscritta per prima è un’ipoteca di primo grado, quella iscritta per seconda è un’ipoteca di secondo grado e così via. Il grado dell’ipoteca ha la funzione di dirimere eventuali conflitti tra più iscrizioni ipotecarie sul medesimo bene. Ciascun creditore ipotecario, infatti, ha un diritto di prelazione rispetto ai creditori ipotecari con grado successivo e, può, pertanto, soddisfarsi sul bene ipotecato con preferenza rispetto a loro.
In base al titolo l’ipoteca può essere distinta in: ipoteca legale (art. 2817 c.c.), quando il potere di iscrivere l’ipoteca è attribuito al creditore dalla legge, che
ritiene determinati crediti meritevoli di una particolare tutela (ad esempio, chi vende un bene immobile ha il diritto di iscrivere ipoteca sul bene oggetto della vendita a garanzia del pagamento del prezzo); ipoteca giudiziale (art. 2818 c.c.), la quale può essere iscritta in virtù di una pronuncia del giudice. Ogni sentenza che condanna un soggetto al pagamento di una somma di denaro o all’adempimento di altra obbligazione oppure
al
risarcimento
dei
danni
da
liquidarsi
successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore; ipoteca volontaria (art. 2821 c.c.), la quale può essere iscritta per volontà dei privati. In particolare, il titolo dell’ipoteca può essere in questo caso sia un contratto sia una dichiarazione unilaterale proveniente dal soggetto che concede l’ipoteca. La concessione dell’ipoteca deve comunque avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. L’ipoteca attribuisce al creditore, in caso di inadempimento dell’obbligazione, il potere di espropriare i beni del debitore oggetto dell’ipoteca al fine di soddisfarsi sul ricavato della vendita degli stessi con prelazione rispetto agli altri creditori. L’ipoteca si estingue con l’adempimento del debito garantito. Si estingue, inoltre, a seguito dell’esecuzione forzata, quando il bene è perito e in caso di rinuncia del creditore. Quando l’ipoteca si estingue, deve procedersi alla sua cancellazione dai pubblici registri.
7.5.6 Le garanzie personali: la fideiussione Le garanzie personali si concretano nell’assunzione da parte di un terzo dell’obbligo personale di rispondere di altra obbligazione principale con tutto il proprio patrimonio. L’obbligazione di garanzia è un’obbligazione accessoria a quella principale e ne segue le vicende, per cui l’obbligazione di garanzia non è valida se non è valida l’obbligazione principale, così come si estingue se si estingue l’obbligazione principale. La garanzia personale non investe uno o più beni determinati,
ma
si
realizza
aggiungendo
un
altro
patrimonio (quello del garante) al patrimonio del debitore principale. Il più rilevante tipo di garanzia personale è costituito dalla fideiussione, contratto in forza del quale un terzo si accorda con il creditore e si obbliga verso lo stesso garantendo l’adempimento di un’obbligazione altrui (art. 1936 c.c.). Nonostante il rapporto di fideiussione tra creditore e fideiussore sia generalmente preceduto da un’intesa tra debitore e fideiussore, la fideiussione può essere anche spontanea ovvero può essere assunta anche se il debitore non ne abbia conoscenza (art. 1936, co. 2, c.c.). L’obbligazione accessoria
con
del
fideiussore
identità
di
è
un’obbligazione oggetto
rispetto
all’obbligazione garantita: non soltanto la garanzia sussiste in quanto esiste l’obbligazione principale, ma la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore, né può essere prestata a condizioni più onerose.
Il fideiussore è obbligato in solido con il debitore principale al pagamento del debito, il che significa che alla scadenza del debito il creditore potrà rivolgersi per ottenere il pagamento indifferentemente al fideiussore o al debitore principale (art. 1944 c.c.). Quando le parti si accordano invece per la sussidiarietà, il fideiussore, a cui è richiesto il pagamento, potrà invitare il creditore a escutere prima il debitore principale, indicandogli i beni sui quali soddisfarsi (cd. beneficio di escussione). Il fideiussore che ha pagato ha diritto di subingresso nelle ragioni del creditore. Il fideiussore risponde con tutti i suoi beni laddove il terzo datore di pegno o d’ipoteca risponde soltanto con la cosa data in pegno o ipotecata.
Capitolo 8 Il contratto 8.1 I fatti, gli atti giuridici, il negozio Quando un determinato evento produce effetti giuridici, cioè effetti che sono considerati e regolati dal diritto, siamo di fronte ad un fatto giuridico. Con tale espressione, quindi, si indica qualsiasi fatto al quale una norma giuridica collega un determinato effetto. All’interno dei fatti giuridici si distingue ulteriormente tra: fatti giuridici in senso stretto: sono tutti quegli eventi naturali, indipendenti dalla volontà dell’uomo, che producono conseguenze giuridiche (la morte, ad esempio, produce l’apertura della successione del defunto e il passaggio dei suoi beni agli eredi); atti giuridici: sono tali tutti i comportamenti umani volontari
e
consapevoli
che
hanno
conseguenze
giuridiche. Atto giuridico è ogni comportamento che la legge prende in considerazione in quanto riferibile, imputabile ad una persona come sua propria azione e che costituisce il presupposto per il verificarsi di conseguenze giuridiche.
Il negozio giuridico può essere definito come l’atto giuridico lecito i cui effetti non sono predeterminati dalla legge, ma sono liberamente determinabili dalle parti, in conformità alla volontà espressa ed al fine economico-sociale che l’atto è obiettivamente in grado di realizzare. Il negozio giuridico, pertanto, è un atto giuridico consapevole e volontario, consistente in una dichiarazione di volontà diretta a produrre determinati effetti giuridici, riconosciuti e garantiti dall’ordinamento, consistenti nella creazione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico. Il codice civile italiano vigente, così come già il codice del 1865, non contiene alcuna disposizione relativa al negozio giuridico, ma regola il contratto come categoria generale.
8.2 La nozione di contratto e l’autonomia privata Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 c.c.). Da tale definizione si deduce che il contratto è un negozio giuridico, necessariamente bilaterale o plurilaterale, e avente di volta in volta la funzione di costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. Quanto al requisito della giuridicità, esso è considerato elemento imprescindibile del rapporto oggetto del contratto. Non rientrano nella categoria del contratto, pertanto, i rapporti non giuridici, i quali possono riguardare l’onore, la correttezza o relazioni di carattere esclusivamente sociale. Quanto al requisito della patrimonialità, si ritiene che il contratto debba avere anche tale ulteriore carattere; occorre, cioè, che esso abbia ad oggetto un rapporto che sia suscettibile
di
valutazione
economica,
secondo
la
definizione di cui all’art. 1174 c.c. in tema di obbligazioni.
Il
contratto
costituisce
la
principale
forma
di
manifestazione dell’autonomia privata. Questo concetto evidenzia la libertà, riconosciuta ai soggetti dall’ordinamento, di regolare i propri rapporti giuridici.
L’autonomia
contrattuale,
quale
potere
che
l’ordinamento riconosce ai privati di autoregolamentare i propri interessi personali e patrimoniali mediante negozi giuridici, trova il suo fondamento nell’art. 1322 c.c., che attribuisce alle parti il potere di determinare il contenuto del contratto (primo comma) e quello di concludere anche contratti che non appartengono a tipi aventi una disciplina particolare (secondo comma). Alle parti, dunque, è consentito concludere sia contratti che hanno una disciplina particolare (contratti tipici), sia ulteriori contratti (contratti atipici) purché siano diretti a realizzare
interessi
“meritevoli
di
tutela”
secondo
l’ordinamento giuridico. Dal contratto, che abbiamo visto essere necessariamente plurilaterale, si distingue l’atto unilaterale, che si configura quale dichiarazione di volontà produttiva di effetti giuridici che proviene da una sola parte. Particolarmente unilaterali,
è
importante, la
distinzione
nell’ambito tra
atti
degli a
atti
contenuto
patrimoniale, diretti a regolare prevalentemente interessi economici, ed atti a contenuto non patrimoniale, i quali regolano prevalentemente interessi di carattere personale (si pensi al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio previsto dall’art. 250 c.c.). Ai sensi dell’art. 1324 c.c. agli atti unilaterali tra vivi che hanno contenuto patrimoniale si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dettate dal codice civile per i contratti (non trovano applicazione, in particolare, in quanto
incompatibili, le norme che presuppongono un accordo e quindi la presenza di più parti). Ulteriore distinzione deve essere effettuata tra atti unilaterali recettizi, in quanto diretti ad una persona determinata, i quali producono effetti solo quando giungono a conoscenza del destinatario (art. 1334 c.c.), e atti unilaterali non recettizi, i quali non sono diretti ad uno specifico destinatario e producono effetti nel momento in cui la volontà è manifestata all’esterno (es. testamento).
8.3 Gli elementi essenziali del contratto 8.3.1 Introduzione Il contratto presenta gli elementi costitutivi propri di ogni negozio giuridico. Gli elementi essenziali sono quelli comuni a tutti i contratti, in quanto debbono necessariamente sussistere perché un contratto possa ritenersi esistente; ne consegue che la loro mancanza incide sulla validità dello stesso. L’art. 1325 c.c. elenca i requisiti essenziali del contratto, ossia gli elementi richiesti dalla legge per l’esistenza e la validità dello stesso. Tali elementi sono: l’ accordo delle parti, ossia l’incontro delle volontà delle parti
finalizzato
alla
costituzione,
modificazione
o
estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale; la causa, tradizionalmente definita come la funzione economico-sociale del contratto, ossia la funzione che l’ordinamento
attribuisce
ad
un
determinato
tipo
contrattuale; l’ oggetto, che indica ciò che le parti hanno stabilito con il contratto (es.: il trasferimento della proprietà), nonché il bene oggetto dell’operazione economica (es.: il terreno venduto);
la forma, quando la legge la prevede come elemento essenziale del contratto e dunque a pena di nullità dello stesso.
8.3.2 L’accordo e la simulazione Primo e fondamentale elemento costitutivo di ogni fattispecie contrattuale è l’accordo o consenso delle parti. Per la nascita di un contratto occorrono, infatti, due o più concordi manifestazioni di volontà. Perché la volontà produca effetti giuridici occorre, però, che sia manifestata all’esterno (in modo espresso o tacito). Solo se dichiarata, cioè portata a conoscenza degli altri individui, infatti, la volontà determina le conseguenze giuridiche ad essa connesse, in funzione di un criterio di responsabilità sociale in base al quale ognuno rimane vincolato alle conseguenze dei propri comportamenti volontari. La manifestazione di volontà, che rende la stessa conoscibile agli altri, può avvenire in molti modi. Solitamente si distingue tra:
manifestazione espressa di volontà, quando la stessa è dichiarata all’esterno, in qualsiasi modo ciò avvenga, quindi per iscritto, a parole o anche a gesti; manifestazione tacita di volontà, quando una persona si comporta in un modo che presuppone logicamente la volontà di concludere il contratto. In questo caso, si tiene, dunque, un comportamento che, secondo il comune modo di pensare e di agire, implica necessariamente un
determinato volere. Tale comportamento è definito concludente. Quando esiste una divergenza tra ciò che le parti di un contratto
manifestano
all’esterno
attraverso
le
proprie
dichiarazioni ed il loro reale volere si parla di simulazione (artt. 1414-1417 c.c.): le parti, cioè, creano attraverso la simulazione una situazione apparente ingannevole per i terzi, che invece non ha effetto tra di loro. Elemento
caratteristico
di
tale
figura
è
l’accordo
simulatorio e cioè la reciproca intesa delle parti sulla divergenza tra il contratto stipulato e il loro effettivo volere. In genere le parti provvedono a far risultare il proprio accordo attraverso una apposita scrittura (cd. controdichiarazione). La simulazione può essere: assoluta, quando le parti pongono in essere un contratto, ma in realtà non intendono costituire alcun rapporto contrattuale tra di loro; relativa, quando le parti pongono in essere un contratto, ma in realtà intendono costituire tra loro un diverso rapporto contrattuale (es. Tizio e Caio concludono una compravendita, ma in realtà vogliono che si producano gli effetti di una donazione). Quando la simulazione è relativa, dunque, esistono un contratto che le parti concludono in apparenza, che cioè fanno risultare all’esterno, il quale è definito contratto simulato, ed un altro contratto i cui effetti sono realmente voluti dalle parti, il quale è definito contratto dissimulato.
L’art. 1414 c.c. disciplina gli effetti della simulazione tra le parti e stabilisce che il contratto simulato non produce tra loro nessun effetto. In caso di simulazione relativa, tra le parti ha effetto il contratto dissimulato, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma (es. per avere effetto tra le parti la donazione dissimulata, il negozio simulato di compravendita deve essere stato concluso per atto pubblico, che è la forma richiesta per la donazione a pena di nullità). Quanto agli effetti della simulazione nei confronti dei terzi, gli artt. 1415 e 1416 c.c. prevedono che: i terzi pregiudicati nei loro diritti a seguito della simulazione possono far valere la simulazione in confronto delle parti; possono, cioè, determinare la prevalenza della situazione reale sull’apparenza creata dalle parti del contratto (art. 1415, co. 2, c.c.); la simulazione non può essere opposta a coloro che hanno acquistato in buona fede, senza essere a conoscenza della simulazione, diritti dal titolare apparente (art. 1415, co. 1, c.c.); nel conflitto tra creditori del simulato alienante e creditori
del
simulato
acquirente
prevalgono
normalmente i primi. La simulazione, però, non può essere opposta ai creditori del simulato acquirente che hanno iniziato in buona fede l’esecuzione forzata o che hanno un diritto di pegno o ipoteca a garanzia del loro credito.
La prova della simulazione può essere data per testimoni senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi e, qualora sia diretta a far valere la illiceità del contratto dissimulato, anche se è proposta dalle parti.
8.3.3 I vizi della volontà: errore, violenza morale e dolo Accanto alle ipotesi di accordo simulatorio (e, quindi, di divergenza volontaria tra volontà interna e dichiarazione) vi sono ipotesi in cui il processo di formazione della volontà contrattuale è viziato e pertanto la divergenza tra volontà interna e dichiarazione è involontaria. Si parla, a tale proposito, di vizi del consenso. I vizi della volontà riconosciuti dalla legge, che a date condizioni possono dar luogo l’annullabilità del contratto, comprendono (art. 1427 c.c.): l’errore, la violenza morale, il dolo. L’errore (artt. 1428-1433 c.c.) consiste in una falsa rappresentazione della realtà. La parte, cioè, ignora oppure conosce in modo errato o insufficiente un elemento determinante ai fini della decisione in ordine alla conclusione del contratto. L’errore può essere di fatto, se concerne circostanze di fatto, o di diritto, se cade sull’esistenza di una norma. Inoltre si distingue tra: errore ostativo, se esso cade sulla dichiarazione o sulla sua trasmissione (ad esempio, ho detto 10.000 alla mia
dattilografa, questa per errore non scrive uno zero per cui il numero appare essere 1.000); errore vizio, se influisce sul procedimento di formazione della volontà. L’errore quale causa di annullamento del contratto deve essere essenziale e riconoscibile. Essenziale
è
l’errore
che
influisce
in
maniera
determinante sul consenso della parte. In base all’art. 1429 c.c., esso è tale: quando cade sulla natura del contratto (es.: credevo di acquistare a rate e invece ho concluso un contratto di locazione) oppure sull’identità o sulle qualità dell’oggetto della prestazione (es.: credevo di acquistare farina, mentre in realtà si trattava di frumento); quando cade sull’identità o sulle qualità personali dell’altro contraente, se si tratta di contratti in cui tali elementi hanno un rilievo determinante ai fini del consenso; quando si tratta di errore di diritto e l’errore è stato la ragione unica o principale del contratto (es.: acquisto un terreno credendolo edificabile, mentre in realtà non lo è in quanto sottoposto a vincolo di inedificabilità assoluta). L’errore
è
riconoscibile
quando,
in
relazione
al
contenuto, alle circostanze del contratto o alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo (art. 1431 c.c.). La violenza morale (artt. 1434-1438 c.c.) ricorre quando un soggetto è indotto a concludere un contratto sotto l’effetto della minaccia di un male ingiusto, antigiuridico e notevole, ossia di una certa entità, indirizzata alla persona o ai
beni del contraente, in modo da indurlo a concludere il contratto. La violenza, inoltre, deve essere tale da fare impressione su una persona sensata, tenendo conto, però, anche delle caratteristiche della persona che subisce la minaccia, in particolare dell’età, del sesso, e della situazione in cui si trova. La violenza è causa di annullamento del contratto anche se proviene da un terzo, e non dalla controparte (art. 1434 c.c.) ed anche se il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un suo ascendente o discendente (art. 1436 c.c.). Se riguarda, invece, altre persone, meno legate al contraente, spetta al giudice valutare se la violenza è stata effettivamente in grado di spingere il soggetto a concludere il contratto.
Quale causa di annullabilità del contratto, la violenza è solo quella morale perché la violenza fisica, in quanto costrizione materiale, è indice di mancanza assoluta di volontà e, come tale, conduce alla nullità del contratto. Il dolo (artt. 1439-1440 c.c.) consiste negli artifizi e raggiri posti in essere per ingannare un soggetto allo scopo di spingerlo a concludere un contratto che non avrebbe concluso (dolo determinante) o avrebbe concluso a condizioni diverse (dolo incidente). Nella prima ipotesi il negozio è annullabile, mentre nel secondo caso il negozio è valido ma il contraente in mala fede è tenuto a risarcire il danno. Non costituisce “raggiro” quell’insieme di comportamenti che vengono tenuti dalle parti durante le trattative per
invogliare la controparte a concludere il contratto (cd. dolus bonus). Il dolo, infine, è causa di annullamento del contratto anche quando i raggiri provengono da un terzo, ma solo se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio.
8.3.4 La causa La causa viene tradizionalmente definita come la funzione economico-sociale che il contratto persegue ovvero lo scopo obiettivo del contratto (così, ad esempio, nel contratto di compravendita, lo scambio del bene contro il corrispettivo). La causa di un contratto deve essere lecita, cioè non contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, altrimenti il contratto è nullo (art. 1343 c.c.). Norme imperative sono le norme inderogabili la cui applicazione è imposta dall’ordinamento giuridico; l’ ordine pubblico corrisponde ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, ricavabili dal complesso delle norme imperative o dalle norme della Costituzione; il buon costume è dato dal complesso dei principi della morale sociale vigenti in un determinato momento storico.
Ai sensi dell’art. 1344 c.c. si reputa altresì illecita la causa quando
il
contratto
costituisce
il
mezzo
per
eludere
l’applicazione di una norma imperativa (cd. contratto in frode alla legge).
Il contratto è in frode alla legge, quindi, quando lo stesso, di per sé lecito, viene manipolato, normalmente con l’aggiunta di determinate clausole, per conseguire un risultato vietato da una norma di legge imperativa. In
sostanza,
all’apparenza
lo
schema
lecito,
ma
contrattuale viene
piegato
utilizzato per
è
evitare
l’applicazione di una norma imperativa (es. datore di lavoro che licenzia e riassume più volte il lavoratore per impedire la nascita di un contratto di lavoro a tempo indeterminato).
La causa non deve essere confusa con i motivi, cioè con gli scopi individuali che hanno indotto le parti a concludere il contratto (ad esempio, nella compravendita i diversi possibili impieghi che si propongono di fare il venditore del denaro che ricava dalla vendita e il compratore della cosa acquistata). Mentre la causa, in quanto elemento essenziale del contratto, incide sulla sua validità, i motivi, quali circostanze soggettive estranee al congegno negoziale, sono normalmente irrilevanti, salvo in alcuni casi eccezionali espressamente previsti dal legislatore. Le due ipotesi in cui i motivi assumono rilevanza riguardano i casi in cui il motivo è erroneo (cfr. gli artt. 624, 787, 1439 c.c.) ed i casi in cui il motivo è illecito (cfr. gli artt. 626, 788, 1345 c.c.). Ai sensi dell’art. 1345 c.c., il contratto è illecito, ed è, quindi, nullo, quando le parti si sono determinate a concluderlo per un motivo illecito comune ad entrambe. L’esempio classico è quello di un contratto di locazione stipulato dal locatore e dal locatario con l’intenzione, comune
ad
entrambi,
di
destinare
l’appartamento
a
casa
di
appuntamenti. Per rendere nullo il contratto, il motivo illecito deve essere comune alle parti. Con riguardo alla causa del contratto si distingue tra:
contratti a titolo oneroso: caratterizzati dal fatto che al sacrificio patrimoniale che una parte sopporta corrisponde un vantaggio patrimoniale che la parte stessa riceve come controprestazione (es. nella compravendita colui che vende trasferisce un bene, che esce dal suo patrimonio, ottenendo in cambio il prezzo pattuito); contratti a titolo gratuito: si distinguono dai primi in quanto al sacrificio patrimoniale sopportato da una parte non corrisponde alcun vantaggio (es. donazione, nella quale colui che dona un bene non riceve in cambio alcun corrispettivo); contratti
a
prestazioni
corrispettive:
sono
contrassegnati dalla corrispettività, nel senso che alla prestazione cui è tenuta una parte corrisponde la prestazione cui è tenuta l’altra parte; ciascuna delle due prestazioni, anzi, è giustificata proprio dall’esistenza dell’altra (es. vendita, dove alla prestazione di pagare il prezzo del compratore corrisponde la prestazione di trasferire il bene del venditore); contratti con obbligazioni a carico di una sola delle parti (cd. contratti unilaterali): in essi solo una delle parti esegue o promette di eseguire una prestazione a favore dell’altra;
contratti aleatori: caratterizzati dall’esistenza di un rischio, nel senso che, al momento della conclusione del contratto, è incerta la prestazione cui è tenuta una delle parti (es. contratto di assicurazione: nel momento in cui un soggetto assicura la propria autovettura per l’ipotesi in cui gli venga rubata, è incerto se e quando il furto avverrà); contratti commutativi: in tali contratti manca, invece, il rischio, in quanto sono certe e determinate le prestazioni di tutte le parti del contratto e ciascuna di esse conosce l’entità del sacrificio che deve sopportare e del vantaggio che riceve dalla stipulazione del contratto.
8.3.5 L’oggetto Il codice non definisce l’oggetto del contratto e la dottrina ha a lungo disputato al riguardo. Secondo la tesi prevalente (anche in giurisprudenza), l’oggetto del contratto è il contenuto complessivo del contratto, quindi l’insieme di tutte le pattuizioni poste in essere dalle parti; secondo altra tesi, invece, l’oggetto del contratto sarebbe il bene che forma l’oggetto della prestazione contrattuale. Secondo un’ulteriore impostazione, l’oggetto immediato del contratto sarebbe la prestazione e quello mediato il bene. In ogni caso, l’oggetto del contratto, comunque lo si intenda, deve essere (art. 1346 c.c.): possibile, da un punto di vista sia materiale che giuridico.
È materialmente impossibile, ad esempio, vendere un
bene inesistente, o in quanto non è mai esistito o in quanto è andato distrutto prima della conclusione del contratto. È giuridicamente impossibile, ad esempio, vendere una cosa che non è in commercio, come un bene appartenente al demanio pubblico; lecito, dunque non in contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico e con il buon costume (è illecito, ad esempio, il contratto che ha ad oggetto la vendita di un certo quantitativo di droga); determinato o almeno determinabile, nel senso che al momento della conclusione del contratto esistono e sono enunciati i criteri di individuazione dell’oggetto stesso (ad esempio, il prezzo di una vendita è determinabile quando, pur non essendo specificamente stabilito, le parti hanno fatto riferimento ad un elemento esterno come il prezzo al metro quadro utilizzato in una determinata zona).
8.3.6 La forma La forma è il modo con il quale la volontà contrattuale viene esteriorizzata e resa conoscibile agli altri soggetti. Al riguardo, il nostro ordinamento accoglie un principio generale di libertà della forma: di regola, pertanto, un contratto può essere concluso con qualsiasi mezzo comunque idoneo, in relazione alle circostanze, a manifestare la propria volontà. In alcuni casi, tuttavia, la legge richiede espressamente per la conclusione del contratto l’adozione di una forma determinata (cosiddetti contratti a forma vincolata).
La forma vincolata, che di regola è quella scritta, può essere essenziale o probatoria: è essenziale (o ad substantiam) quando costituisce un vero e proprio elemento essenziale del contratto, richiesto per la sua esistenza o validità. Ad esempio la donazione deve essere posta in essere per atto pubblico. La forma ad substantiam richiesta a pena di nullità per alcuni negozi (perciò detti formali o solenni) rappresenta un onere per le parti che, senza di essa, non possono realizzare l’intento negoziale, giacché il negozio privo della forma essenziale è nullo; è probatoria (o ad probationem) quando è richiesta soltanto per la prova del contenuto del contratto, che è comunque valido anche in mancanza della forma prescritta.
In relazione alla forma del contratto, si distingue, pertanto, tra: contratti formali: quelli per i quali è richiesto l’utilizzo
di
una
forma
determinata,
ad
substantiam o ad probationem; contratti a forma libera: per concludere questi le parti non devono rispettare alcuna formalità.
8.4 Gli elementi accidentali del contratto Sono quelli che possono essere liberamente apposti dalle parti, anche se, una volta inclusi nel contratto, diventano obbligatori,
condizionandone
l’efficacia.
Essi
sono
la
condizione, il termine, il modo (o onere).
8.4.1 La condizione È un evento futuro e incerto dal quale dipende il prodursi degli effetti del contratto (condizione sospensiva), oppure l’eliminazione degli effetti già prodotti (condizione risolutiva, art. 1353 c.c.). L’avvenimento futuro e incerto cui è legata la condizione deve essere sempre possibile e lecito. La condizione illecita
(ovvero
contraria
a
norme
imperative, all’ordine pubblico al buon costume) rende nullo l’intero contratto. La condizione è impossibile quando non è possibile che si verifichi l’evento previsto dalle parti. La condizione impossibile, se è sospensiva, rende nullo il contratto; se è risolutiva, invece, il contratto è definitivamente valido ed efficace come se non fosse stata prevista nessuna condizione (art. 1354 c.c.).
A queste regole si fa eccezione nel caso previsto dall’art. 634 c.c., in base al quale nelle disposizioni testamentarie si considerano non apposte le condizioni impossibili e le condizioni illecite. Tale divergenza è giustificata dal fatto che è necessario salvaguardare più incisivamente la volontà del testatore, perché se il contratto può essere nuovamente stipulato dalle stesse parti, il testatore non può certo manifestare nuovamente la propria volontà dopo la morte (principio del favor testamenti). Qualora, però, risulti dal testamento che la condizione illecita ha costituito l’unica ragione determinante della disposizione testamentaria, anche quest’ultima deve essere ritenuta nulla. Si parla, poi, di condizione potestativa quando il verificarsi dell’evento futuro e incerto dipende dalla volontà di uno dei contraenti (es.: se aprirò un bar, ti assumerò come barista). L’art. 1355 c.c. fa riferimento alla condizione meramente potestativa, che può consistere in una mera dichiarazione di volontà (se vorrò), ovvero in un fatto che non costituisce sacrificio alcuno per chi lo deve porre in essere (se alzerò un dito). “Mera” volontà significa, in sostanza volontà non seria. Non può perciò essere compatibile con una seria volontà di disporre o di obbligarsi ed è per questo che il codice dispone la nullità del contratto cui è apposta una condizione meramente potestativa.
Di
regola,
l’avverarsi
della
condizione
opera
retroattivamente, cioè dal momento in cui il contratto è
stato concluso e non dal momento in cui si è verificato l’evento. Perciò quando la condizione è sospensiva, si considera come se il contratto fosse stato efficace dall’inizio; quando è risolutiva, all’opposto, è come se il contratto non fosse mai stato concluso. Durante il periodo di tempo che intercorre tra la conclusione del contratto e il momento in cui può ritenersi verificato oppure non verificato l’evento incerto si dice che la condizione è pendente. La legge disciplina con apposite norme (artt. 1356-1359 c.c.) i diritti che spettano alle parti nella fase di pendenza della condizione: fino a quando la condizione è pendente, ciascuna delle parti deve comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni della controparte; chi ha acquistato il diritto sotto condizione sospensiva può compiere atti diretti alla conservazione materiale e giuridica
del
suo
diritto
(si
tratta
dei
cd.
atti
conservativi come, ad esempio, il sequestro previsto dall’art. 2905 c.c.); chi ha acquistato un diritto sotto condizione risolutiva può, in pendenza di questa, esercitare il diritto stesso, ma l’altro contraente può compiere atti conservativi; chi ha un diritto subordinato a una condizione sospensiva o risolutiva può disporne durante la sua pendenza. Gli effetti dell’atto compiuto, però, sono per legge subordinati alla stessa condizione.
8.4.2 Il termine È rappresentato da un avvenimento futuro e certo dal quale cominciano a verificarsi (termine iniziale) o fino al quale durano (termine finale) gli effetti giuridici del contratto. Il termine si distingue dalla condizione perché è costituito da una data, o si riferisce a un avvenimento che sicuramente accadrà, mentre della condizione è propria l’incertezza. Tizio concede in locazione il suo appartamento a Caio a partire dal 1° maggio del 2020. In questo caso le parti hanno apposto al contratto un termine iniziale, perché gli effetti del contratto stesso si produrranno a partire dalla data indicata. Tizio concede in locazione a Caio il suo appartamento fino al momento della propria morte. In questo caso, le parti hanno apposto al contratto un termine finale; l’evento della morte, infatti, è certo, anche se ovviamente non è possibile stabilire quando si verificherà.
La scadenza del termine non ha efficacia retroattiva e gli effetti del contratto cominciano (o cessano) dal momento della scadenza stessa.
8.4.3 Il modo (o onere) È un elemento che può essere inserito soltanto nei negozi a titolo gratuito e produce l’effetto di imporre al beneficiario di tali atti uno o più obblighi (ad esempio dono al Comune una villa con parco con l’onere che essa sia adibita a casa di riposo per gli anziani della città).
Si tratta, in sostanza, di una clausola con la quale la liberalità viene limitata attraverso l’imposizione di un peso al suo destinatario. Quando l’onere è impossibile o illecito, lo stesso si ha per non apposto sia negli atti di liberalità tra vivi sia negli atti di ultima volontà. Esso, tuttavia, rende l’atto nullo qualora ne abbia costituito il solo motivo determinante (artt. 647 e 794 c.c.). A seguito dell’apposizione dell’onere, sorge a carico del destinatario una vera e propria obbligazione. In caso di inadempimento, di regola, non viene meno l’atto di liberalità, ma gli interessati possono agire per l’adempimento. Inoltre,
l’autore
testamentaria
della può
liberalità stabilire
o
della
disposizione
espressamente
che
l’inadempimento dell’onere valga come causa di risoluzione; in questo caso, l’inadempimento determina il venir meno degli effetti dell’atto.
8.5 La rappresentanza 8.5.1 Disciplina generale Quando un soggetto si fa sostituire da un altro in uno o più affari che lo riguardano si parla di rappresentanza. In questo caso parte formale (ovvero il soggetto che partecipa materialmente alla formazione del contratto) e parte sostanziale (ovvero il soggetto che ha interesse all’atto e nella cui sfera giuridica si andranno a produrre i suoi effetti) non coincidono. La rappresentanza, in particolare, si ha quando un soggetto (cd. rappresentante) compie uno o più atti giuridici nell’interesse di un altro soggetto (cd. rappresentato). La rappresentanza è ammessa in tutto il campo dei contratti e dei negozi patrimoniali tra vivi (con alcuni limiti in materia di donazione). Essa è esclusa, invece, per il testamento e per i negozi di diritto familiare, atti che, per la loro natura, si vogliono riservare esclusivamente alla persona interessata. Il potere rappresentativo può essere attribuito ad un soggetto direttamente dalla legge (cd. rappresentanza legale) o dall’interessato (cd. rappresentanza volontaria). Tali forme di rappresentanza si distinguono, oltre che sotto il profilo della fonte, anche per quanto riguarda la funzione,
in quanto la rappresentanza volontaria è espressione dell’autonomia negoziale del soggetto; la rappresentanza legale, invece, mira nella maggior parte dei casi a tutelare i soggetti incapaci di agire (minori e interdetti) o altrimenti impediti (ad esempio, lo scomparso), consentendo loro di compiere atti che altrimenti non potrebbero porre in essere.
La rappresentanza volontaria può essere di due tipi: diretta: quando il rappresentante agisce non solo per conto (cioè nell’interesse) ma anche in nome del rappresentato, rendendo quindi palese ai terzi che egli agisce per conto altrui (cd. contemplatio domini). Ciò comporta che gli effetti del contratto da lui concluso ricadono
direttamente
nella
sfera
giuridica
del
rappresentato; il rappresentante, pur partecipando alla conclusione e all’esecuzione del contratto, relativamente agli effetti di esso è come se non ci fosse; il contratto vincola direttamente il rappresentato (art. 1388 c.c.); indiretta: quando il rappresentante agisce per conto del rappresentato, ma senza spendere il nome di questo; ai terzi, dunque, non viene reso noto che il rappresentante sta
agendo
nell’interesse
di
un’altra
persona.
Di
conseguenza, gli effetti del contratto si producono direttamente nella sfera giuridica del rappresentante; sarà necessario il compimento di un’ulteriore attività giuridica affinché tali effetti possano riversarsi nella sfera giuridica del rappresentato.
L’atto con cui si conferisce il potere di rappresentare altro soggetto spendendone il nome è chiamato procura, la quale deve essere conferita con la stessa forma prescritta per il contratto che il rappresentante deve concludere e deve contenere l’indicazione dei poteri conferiti a quest’ultimo. La procura può essere generale, se riguarda tutti gli affari del rappresentato, o speciale, se è conferita per uno o più affari determinati. La procura è un atto unilaterale nel senso che si perfeziona con la sola dichiarazione di volontà della parte che la conferisce. Il contratto concluso dal rappresentante in nome e per conto del rappresentato vincola quest’ultimo nei limiti delle facoltà conferitegli. Il rappresentante deve esercitare il suo potere di rappresentanza
nell’interesse
del
rappresentato.
Se
il
rappresentante agisce in conflitto di interessi con il rappresentato (se cioè persegue un interesse proprio o altrui che è inconciliabile con l’interesse del rappresentato) il negozio è annullabile, se il conflitto medesimo era conosciuto o poteva essere conosciuto con l’ordinaria diligenza dal terzo (art. 1394 c.c.). Una particolare ipotesi di conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato è data dal contratto con sé stesso (ad esempio: Tizio, incaricato da Caio di vendere un bene, procede egli stesso all’acquisto; Tizio, incaricato da Caio di vendere un bene, lo acquista in qualità di rappresentante di Sempronio). Il contratto con sé stesso è annullabile, tranne
se
il
rappresentato
ha
autorizzato
specificamente
il
rappresentante a contrarre con se stesso oppure se il contenuto del contratto è determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d’interessi (art. 1395 c.c.). Va infine evidenziato che il negozio compiuto da chi ha agito come rappresentante senza averne il potere (difetto di potere) o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli (eccesso di potere) non produce alcun effetto nella sfera giuridica dell’interessato. Tale negozio, del resto, non può produrre effetti neanche nei confronti del rappresentante, il quale non ha agito in nome proprio. Il negozio è perciò inefficace, e il rappresentante che ha agito senza poteri o eccedendo i limiti della procura è tenuto a risarcire all’altro contraente il danno che ha subìto per avere confidato senza sua colpa nella efficacia del contratto (art. 1398 c.c.). Tuttavia il rappresentato può, con una manifestazione di volontà che prende il nome di ratifica, approvare ciò che è stato fatto in suo nome da altri senza che egli avesse attribuito il potere di rappresentarlo.
8.5.2 Capacità, vizi della volontà e stati soggettivi rilevanti Nella rappresentanza volontaria, per la validità del contratto concluso dal rappresentante occorre che (art. 1389 c.c.): il rappresentante abbia la capacità di intendere e di volere (cd. capacità naturale di agire), ossia la capacità di
valutare e comprendere adeguatamente la portata dell’atto posto in essere e di determinarsi in modo autonomo, avuto riguardo alla natura ed al contenuto dell’atto stesso; il rappresentato abbia la capacità legale di agire, ovvero l’idoneità a manifestare validamente la propria volontà per esercitare diritti o assumere obblighi. In base agli artt. 1390 e 1391 c.c.: il contratto è annullabile se è viziata la volontà del rappresentante. Quando però il vizio riguarda elementi predeterminati
dal
rappresentato,
il
contratto
è
annullabile solo se era viziata la volontà di questo; in tutti i casi in cui è rilevante lo stato di buona o di mala fede oppure di conoscenza o di ignoranza di determinate circostanze si deve fare riferimento alla persona del rappresentante. Anche in tal caso viene fatta salva l’eventualità che si tratti di elementi predeterminati dal
rappresentato.
In
nessun
caso,
peraltro,
il
rappresentato che è in mala fede può giovarsi dello stato di ignoranza o di buona fede del rappresentante.
8.6 La formazione del contratto La formazione del contratto implica un procedimento, cioè una sequenza di comportamenti umani che deve risultare conforme al modello, o schema, stabilito dalle norme; in tal modo si afferma che il contratto è formato o concluso.
8.6.1 Proposta, accettazione e accordo La
legge
individua
le
due
componenti
elementari
dell’accordo contrattuale, e dunque della formazione del contratto, nella proposta e nell’accettazione. Una parte (detta proponente) formula all’altra parte (detta oblato) la proposta del contratto. Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (art. 1326 c.c.). È questo, dunque, lo schema ordinario di conclusione del contratto descritto dal codice. Ai sensi dell’art. 1335 c.c., l’accettazione si reputa conosciuta dal proponente, cui è diretta, nel momento in cui giunge all’indirizzo del proponente stesso. La proposta può essere definita come l’atto con cui un soggetto assume l’iniziativa diretta alla conclusione di un contratto, prospettandone il contenuto ad un altro soggetto il quale potrà accettare o rifiutare. Essa deve essere completa, nel senso che deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto (qualora la proposta non sia completa, la stessa si
riduce ad un semplice invito a contrattare), e deve essere caratterizzata da una effettiva intenzione di obbligarsi. L’ accettazione è la dichiarazione mediante la quale la parte cui era diretta la proposta manifesta la propria volontà di accoglierla e di concludere il contratto. L’accettazione deve essere: conforme alla proposta, ossia del tutto corrispondente a quest’ultima. Quando l’accettazione non è conforme, essa equivale a nuova proposta, con la conseguenza che l’oblato si trasforma in proponente e all’originario proponente, ora in veste di oblato, spetta accettare la nuova proposta; tempestiva, in quanto deve giungere a conoscenza del proponente nel termine stabilito nella proposta o, in mancanza, nel termine normalmente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi. L’accettazione tardiva è inefficace, a meno che il proponente non intenda considerarla efficace (art. 1326 c.c.) dandone, in tal caso, immediato avviso all’altra parte. Sia la proposta che l’accettazione sono normalmente revocabili (art. 1328 c.c.): la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Tuttavia, se l’accettante ha iniziato in buona fede l’esecuzione del contratto prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese sostenute e delle perdite subite a seguito dell’iniziata esecuzione del contratto;
l’accettazione può essere revocata, purché la revoca giunga
a
conoscenza
del
proponente
prima
dell’accettazione. La regola della revocabilità della proposta subisce tuttavia alcune eccezioni (proposta irrevocabile), che ricorrono nelle seguenti ipotesi: quando il proponente si sia impegnato a tener ferma la proposta contrattuale per un certo tempo; in tal caso la revoca è senza effetto (art. 1329 c.c.); quando la proposta è diretta a concludere un contratto con obbligazioni a carico del solo proponente; in tal caso essa si considera irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata (art. 1333 c.c.); quando le parti abbiano convenuto un diritto di opzione, ovvero quando si accordino nel senso che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione, mentre l’altra rimane libera di accettarla o meno. In tal caso la dichiarazione della prima è considerata alla stregua di una proposta irrevocabile ex art. 1329 c.c. (art. 1331 c.c.).
Con riferimento alle modalità di conclusione e perfezionamento, si distingue tra: contratti consensuali: si perfezionano nel momento stesso in cui le parti raggiungono l’accordo ed esprimono il proprio consenso (es. compravendita: una volta stipulata, dunque anche prima della materiale consegna del bene oggetto del
contratto,
essa
determina
l’immediato
trasferimento
della
proprietà
in
capo
al
compratore); contratti reali: si perfezionano solo con la effettiva consegna della cosa oggetto del contratto (es. deposito: i suoi effetti non si producono fin quando il bene oggetto del contratto non viene materialmente consegnato al depositario).
Diversa è, invece, la distinzione tra contratti ad effetti reali e contratti ad effetti obbligatori, che attiene, appunto, agli effetti del contratto: contratti ad effetti reali: determinano il trasferimento da un soggetto ad un altro della proprietà su di un bene oppure la costituzione o il trasferimento di un altro diritto reale; contratti ad effetti obbligatori: sono contratti produttivi di effetti solo obbligatori, nel senso che fanno sorgere in capo alle parti diritti e obblighi di carattere personale.
8.6.2 Il contratto formato mediante esecuzione Il contratto formato mediante esecuzione applica uno schema diverso da quello generale e comprende i contratti che richiedono di essere eseguiti senza bisogno di preventiva accettazione comunicata al proponente. Ciò può accadere su richiesta del proponente stesso o perché così richiedono la natura dell’affare oppure gli usi (art. 1327 c.c.).
Ad esempio, se il dettagliante A ordina al grossista B (suo fornitore abituale) un certo quantitativo di prodotti, al prezzo dell’ultimo listino, è normale che B, ricevuto l’ordine (che giuridicamente è una proposta di contratto), spedisca subito i prodotti richiesti, senza preoccuparsi di scrivere prima ad A che accetta la sua proposta.
In tali casi, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione della prestazione richiesta (art. 1327 c.c.). In ogni caso l’accettante deve dare prontamente avviso all’altra parte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno.
8.6.3 L’offerta al pubblico L’offerta al pubblico è un particolare tipo di proposta, che ha la caratteristica di essere indirizzata non a un destinatario
determinato,
ma
ad
una
collettività
indeterminata di possibili destinatari (cd. proposta in incertam personam, art. 1336 c.c.), affinché sia accettata dalla persona che trovi l’offerta conveniente. L’esempio tipico è quello dell’esposizione dei prodotti nelle vetrine di un negozio o sui banchi del supermercato che vale come proposta di vendita, rivolta a ogni cliente interessato. Per la conclusione del contratto basta l’accettazione di un interessato, per cui quando un cliente entra nel supermercato e manifesta la sua intenzione di
comprare qualcuno dei prodotti esposti il contratto è concluso.
Tuttavia, l’offerta al pubblico vale come proposta, e così permette la formazione del contratto con la semplice accettazione di essa, solo a due condizioni: che l’offerta contenga gli estremi essenziali del contratto da concludere (è necessario, ad esempio, che sui prodotti esposti sia indicato il prezzo); che il valore di vera e propria proposta non sia escluso dalle circostanze o dagli usi. L’offerta al pubblico è revocabile come ogni altra proposta
contrattuale.
Ma
mentre
una
proposta
con
destinatario determinato può essere revocata solo a condizione che la revoca sia portata a conoscenza di quest’ultimo (art. 1328 c.c.), la revoca dell’offerta al pubblico (purché sia fatta con la stessa forma con cui è stata fatta l’offerta o in forma equivalente) è efficace anche in confronto di chi, essendo in precedenza venuto a conoscenza dell’offerta, non sia invece venuto a conoscenza della revoca (art. 1336, co. 2, c.c.).
8.6.4 Il contratto per adesione Il contratto per adesione individua una modalità di conclusione del contratto caratterizzata dalla predisposizione unilaterale da parte di uno dei contraenti del contenuto del contratto e si caratterizza per la mancanza di possibilità per l’altro contraente di intervenire su tale contenuto. Nel contratto per adesione la parte che non predispone il contratto
ha, dunque, solo la possibilità di scegliere se stipulare il contratto o meno, ma non quella di determinarne il contenuto. Nei contratti per adesione la parte predisponente fa sovente uso delle condizioni generali di contratto, le quali traggono origine dall’esigenza, avvertita da determinati soggetti, per lo più imprenditori, di una rapida conclusione degli affari. Per conseguire questo obiettivo, tali soggetti usano predisporre una serie di clausole contrattuali, destinate a regolamentare una serie indefinita di rapporti, che i clienti possono soltanto decidere di accettare in blocco o meno (frequenti sono i contratti per adesione nei servizi bancari, assicurativi, telefonici o di fornitura in generale). Alle condizioni generali di contratto fa riferimento l’art. 1341
c.c.,
il
quale
prevede
che
esse,
predisposte
unilateralmente da una delle parti (un imprenditore, una banca etc.) al fine di regolare uniformemente il contenuto di tutti i rapporti di natura identica, sono efficaci nei confronti dell’altro se, al momento della conclusione del contratto, questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. Tuttavia, il comma 2 dello stesso art. 1341 c.c. precisa che non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le cd. clausole vessatorie, ovvero le clausole contenenti le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, oppure sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni
alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, proroghe o rinnovazioni tacite del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria.
8.7 Le trattative e la responsabilità precontrattuale La conclusione del contratto è generalmente preceduta, e preparata, da una fase di trattative, nel corso della quale le parti discutono i termini dell’affare, e ciascuna cerca di far prevalere il proprio interesse, in conflitto con quello dell’altra (il venditore cerca di spuntare il prezzo più alto possibile, il compratore quello più basso possibile ecc.). La legge regola tale fase con un principio generale: le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede, vale a dire con correttezza e lealtà (art. 1337 c.c.). La parte che viola questo principio incorre in una responsabilità definita, appunto, responsabilità precontrattuale. La scorrettezza può consistere, nei casi più gravi, nell’esercitare sull’altra parte inganni o minacce. Può consistere anche in una o mera reticenza, quando la parte nasconde all’altra informazioni essenziali sul contratto, che per obbligo di lealtà avrebbe dovuto comunicarle. Un’ipotesi del genere è prevista specificamente dalla legge: incorre in responsabilità precontrattuale la parte “che, conoscendo o dovendo conoscere una causa d’invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte” (art. 1338 c.c).
La responsabilità precontrattuale obbliga l’autore della scorrettezza a risarcire il danno. La violazione dell’obbligo precontrattuale di agire secondo buona fede comporta il sorgere dell’obbligazione di risarcire esclusivamente il cd. interesse negativo, ossia l’interesse a non concludere il contratto da parte del soggetto il cui affidamento è stato leso. L’interesse negativo è composto da due elementi: il danno emergente, ossia l’ammontare delle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto; il lucro cessante, cioè la perdita di ulteriori occasioni per la
stipulazione
di
altri
maggiormente vantaggiosi.
contratti
altrettanto
o
8.8 Il contratto preliminare Durante la fase delle trattative può accadere che le parti abbiano interesse a vincolarsi reciprocamente, ma non intendano ancora stipulare il contratto vero e proprio, ad esempio perché restano da definire alcuni aspetti del rapporto. Le parti, in questo caso, possono stipulare un contratto preliminare, cioè un contratto con il quale le stesse si obbligano a concludere un futuro contratto, detto definitivo. Il contratto preliminare è il contratto con il quale una o entrambe le parti si obbligano a prestare un futuro consenso, cioè a concludere in un momento successivo il contratto definitivo. Il contratto preliminare può vincolare una (contratto preliminare unilaterale) o entrambe le parti (contratto preliminare bilaterale). Esso deve contenere tutti
gli
elementi essenziali del contratto che le parti si obbligano a concludere e deve essere redatto nella stessa forma eventualmente richiesta dalla legge per il contratto definitivo (art. 1351 c.c.). Una volta stipulato il contratto definitivo, il preliminare perde i suoi effetti, in quanto resta assorbito nel primo, che si sostituisce in toto al preliminare stesso. Le parti troveranno, quindi, nel definitivo, e non nel preliminare, la fonte di disciplina del rapporto giuridico.
Il contratto preliminare può essere, quindi, definito come il contratto da cui nasce l’obbligo per le parti di addivenire ad un successivo contratto definitivo, il cui regolamento di interessi è già stato predisposto nel preliminare. In ipotesi di inadempimento dell’obbligo a contrarre scaturente dal preliminare, l’altra parte può: chiedere la risoluzione del contratto preliminare e il risarcimento dei danni; chiedere al giudice una sentenza costitutiva che abbia gli stessi effetti del contratto definitivo non concluso (art. 2932 c.c.).
8.9 Gli effetti del contratto in relazione alle parti Finché il contratto non è perfezionato, le parti conservano la loro libertà di addivenire o meno alla sua stipulazione. Ma dal momento in cui esso è perfezionato le parti sono obbligate ad osservarlo. In base all’art. 1372 c.c., infatti, il contratto ha forza di legge tra le parti e queste sono obbligate non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o in mancanza, secondo gli usi e l’equità (1374 c.c.). Il vincolo che nasce a seguito della stipulazione può essere sciolto solo per le cause ammesse dalla legge, tra le quali particolare importanza assumono il mutuo consenso e il recesso. La dottrina usa l’espressione “mutuo dissenso” per indicare il venir meno del consenso. Esso si pone propriamente come “contrarius consensus”, vale a dire come negozio di segno uguale, sebbene inverso rispetto al precedente, e costituisce
estrinsecazione
della
medesima
autonomia
contrattuale che ha dato vita al contratto da porre nel nulla. Mutuo dissenso (o mutuo consenso) è quindi l’accordo contrattuale con il quale le parti sciolgono un precedente contratto estinguendolo con efficacia retroattiva. Come tutti i
negozi risolutori, il mutuo dissenso deve avere la stessa forma del contratto che si vuole sciogliere. La legge ammette non solo lo scioglimento concorde ma anche quello unilaterale. Si tratta del diritto di recesso, definito come il diritto di sciogliere il contratto concluso mediante una dichiarazione unilaterale comunicata all’altra parte. Il recesso è un negozio unilaterale con cui una parte dichiara alla controparte di non voler più essere vincolata da un determinato rapporto contrattuale. Il recesso è pattizio o convenzionale quando sono state le parti stesse a prevedere tale possibilità. Il recesso è legale quando è previsto direttamente dalla legge. Il recesso convenzionale è efficace solo se è esercitato prima dell’inizio dell’esecuzione del contratto. Nei contratti di durata (nei quali l’esecuzione delle prestazioni si protrae nel tempo in modo periodico o continuativo) la facoltà del recesso può essere esercitata anche successivamente alla esecuzione del contratto, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione (art. 1373, co. 2, c.c.). Il diritto di recesso è un istituto che ricorre frequentemente nella normativa a tutela del consumatore, in particolare in caso di vendite stipulate fuori dei locali commerciali e di vendite a distanza (disciplinate dal D.Lgs. 206/2005), per le quali il D.Lgs. 21/2014 (di attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori) ha previsto rilevanti novità a partire da giugno 2014.
Tali novità, oltre a contemplare, in capo al professionista, maggiori obblighi di informazione precontrattuale da fornire ai consumatori, attengono anche all’esercizio del diritto di recesso riconosciuto al consumatore, che è ora reso possibile entro il termine più ampio di 14 giorni (in luogo dei precedenti 10 giorni) e mediante l’utilizzo di un modello tipo di recesso, valido per tutti i Paesi dell’Unione europea. Inoltre, in caso di ripensamento, il consumatore, qualora eserciti il diritto di recesso, potrà restituire il bene, anche se in parte deteriorato, perché sarà responsabile solo della diminuzione del valore del bene custodito.
In considerazione del fatto che il recesso di una parte dal contratto può causare un danno all’altra parte, al momento della conclusione del contratto, le parti possono stabilire preventivamente una somma di danaro da pagare a carico della parte recedente in caso di esercizio del recesso. È questa la cosiddetta multa penitenziale: trattasi di un indennizzo in danaro in caso di recesso. Nei contratti a prestazioni corrispettive le parti possono stabilire che una parte consegni, al momento della conclusione del contratto, all’altra una somma di danaro o una quantità di cose fungibili per l’esercizio del diritto di recesso. È questa la caparra penitenziale. Il recesso avviene per volontà unilaterale. Se è il venditore a voler recedere dal suo impegno, egli deve provvedere alla restituzione del doppio della caparra all’acquirente.
8.10 La relatività del contratto La regola generale è quella della relatività del contratto, ovvero della limitazione degli effetti del contratto alle sole parti (nonché agli eredi e aventi causa); tali effetti non si riversano invece sui terzi estranei, in virtù del principio che i contratti non giovano né danneggiano i terzi. Il contratto, dunque, produce effetti solo fra le parti e non rispetto ai terzi. La relatività degli effetti del contratto è espressione del principio della intangibilità della sfera giuridica individuale dei soggetti, che non può essere intaccata dal negozio altrui. Il principio della relatività degli effetti contrattuali soffre tuttavia di alcune eccezioni. La prima di tali eccezioni è rappresentata dal contratto a favore del terzo, con cui una parte (cd. promittente) si obbliga nei confronti di un’altra (cd. stipulante) ad eseguire una determinata prestazione a favore di un terzo (artt. 14111413 c.c.). Se un genitore decide di stipulare un’assicurazione sulla vita a favore di suo figlio e a tale scopo si rivolge ad una società di assicurazione, la quale si assume l’obbligo di versare l’importo dell’assicurazione al figlio nel caso di morte del genitore, abbiamo un esempio di contratto a favore del terzo.
Nell’esempio di cui sopra il genitore è lo stipulante, la società assicuratrice è il promittente, il figlio è il terzo beneficiario del diritto di credito stipulato a suo vantaggio attraverso il contratto di assicurazione a favore del terzo (art. 1920 c.c.).
La validità del contratto è subordinata soltanto alla condizione che lo stipulante abbia un interesse, anche solamente morale, all’attribuzione di un vantaggio al terzo. Il
contratto
produce
immediatamente
effetti
nei
confronti del terzo, il quale acquista il diritto nei confronti del promittente per effetto della stipulazione, e senza che sia necessaria l’adesione del terzo medesimo alla stipulazione fatta a suo favore. L’acquisto del diritto in capo al terzo, però, non è definitivo in quanto la stipulazione può essere revocata o modificata dallo stipulante finché il terzo non abbia dichiarato, anche in confronto del promittente, di volerne profittare. Tale sorta di accettazione, in ogni caso, non fa diventare il terzo parte del contratto; la stessa, infatti, non ha l’effetto di rendere efficace il contratto, ma solo quello di rendere irrevocabile la stipulazione fatta a suo vantaggio. Può anche accadere che il terzo non abbia interesse a conseguire il beneficio e, in tal caso, la legge gli consente la possibilità di rifiutare l’acquisto. In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto.
Va precisato che il contratto a favore di terzo è utilizzabile ogni volta che si producono, per il terzo, effetti favorevoli semplici, cioè quando il contratto attribuisce al terzo facoltà o poteri. Non è utilizzabile, invece, quando impone oneri o obblighi. Il codice prevede poi un’altra figura in cui può subentrare un terzo soggetto estraneo alla stipulazione: si tratta del contratto per persona da nominare (art. 1401 c.c.), che ricorre quando una parte, nella conclusione dell’accordo, si riserva la facoltà di nominare effettivamente la persona destinata ad acquistare i diritti e assumere gli obblighi nascenti da contratto. In
sostanza,
contestuale
con
all’atto,
apposita una
clausola
delle
parti
necessariamente dichiara
di
contrattare per altri la cui identità sarà precisata in un momento successivo, con la cd. dichiarazione di nomina (artt. 1401 ss. c.c.). A seguito della dichiarazione di nomina, che deve intervenire nel termine di tre giorni dalla conclusione del contratto (ma le parti possono convenire un termine diverso) il terzo diventa parte del contratto al posto dello stipulante ed acquista i diritti e gli obblighi che ne derivano con effetto dal momento della stipulazione. Non si tratta di una vera e propria deroga al principio di relatività del contratto, perché in questo caso l’accordo è efficace e produttivo di effetti nei confronti della persona nominata solo se esiste una procura anteriore al contratto
con la quale il terzo ha dato incarico alla parte di concludere il contratto e la persona nominata accetta la nomina. Il contratto, quindi, produce effetti nei confronti del terzo solo a seguito di una espressa manifestazione di volontà di quest’ultimo.
Se la dichiarazione di nomina non è fatta validamente nel termine stabilito, il contratto produce effetti tra i contraenti originari (art. 1405 c.c.). Nella promessa del fatto del terzo (art. 1381 c.c.), invece, un soggetto promette l’obbligazione o il fatto di un terzo, ed è tenuto ad indennizzare l’altro contraente, se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso.
8.11 La cessione del contratto La cessione del contratto è disciplinata dagli artt. 1406 ss. c.c. e si configura ogni qualvolta un soggetto, detto cedente, sostituisce a sé un terzo, detto cessionario, nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive. A norma dell’art. 1406 c.c. “ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive se queste non sono state ancora eseguite purché l’altra parte vi consenta”. Pertanto, affinché la cessione possa realizzarsi è necessario il consenso dell’altro contraente (il cd. contraente ceduto) e che le prestazioni oggetto del contratto trasferito non siano ancora state eseguite.
Capitolo 9 La patologia del contratto
e il suo scioglimento 9.1 L’invalidità del contratto Si dice che il contratto è invalido quando presenta un’irregolarità più o meno grave, ma comunque tale da poter determinare la sua inefficacia definitiva. Sono ipotesi di invalidità: la nullità, che si ha in presenza di una delle cause indicate dall’art. 1418 c.c. e che produce l’inefficacia del contratto sin dal momento in cui questo è stato concluso; l’annullabilità, che è una forma meno grave di invalidità: il contratto annullabile produce provvisoriamente effetti, ma questi possono essere successivamente eliminati con un provvedimento del giudice; la rescindibilità, che è una forma di invalidità che colpisce i contratti che presentano un grave squilibrio tra le
prestazioni.
Anche
il
contratto
rescindibile
provvisoriamente efficace fino alla decisione del giudice. La nozione di invalidità del contratto deve essere distinta dalla nozione generale di inefficacia. È infatti invalido un
è
contratto che presenta una irregolarità, che manca di uno dei suoi elementi essenziali o che presenta un vizio degli stessi. Il concetto di inefficacia, invece, si riferisce in generale alla incapacità del contratto di produrre effetti; tale incapacità può derivare tanto dall’invalidità del contratto quanto da altri fattori che impediscono momentaneamente ad un contratto perfettamente valido di produrre effetti. Ad esempio, il contratto sottoposto a condizione sospensiva è valido, ma temporaneamente (fino al verificarsi della condizione) è inefficace.
9.2 La nullità La nullità è la forma generale e più grave di invalidità del contratto. Essa comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’atto. Le cause di nullità sono indicate dall’art. 1418 c.c., in base al quale il contratto è nullo quando: è contrario a una norma imperativa, cioè ad una norma che deve essere necessariamente osservata dai contraenti e che non può essere da loro derogata; manca uno dei requisiti essenziali del contratto indicati dall’art. 1325 c.c. (accordo, causa, oggetto, forma richiesta a pena di nullità dalla legge); è illecita la causa del contratto. La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. La causa è altresì illecita quando il contratto è in frode alla legge, ossia quando un contratto,
di
per
sé
lecito,
viene
manipolato,
normalmente con l’aggiunta di determinate clausole, per conseguire un risultato vietato da una norma di legge imperativa; sono illeciti i motivi, nel caso indicato dall’art. 1345 c.c.; l’oggetto è impossibile, illecito, indeterminato o indeterminabile (art. 1346 c.c.). Il contratto, inoltre, è nullo negli altri casi specificamente previsti dalla legge: ad esempio quando è illecita la condizione
(art. 1354 c.c.) o quando al contratto è apposta una condizione sospensiva meramente potestativa (art. 1355 c.c.). Il contratto nullo è improduttivo di effetti, sia tra le parti sia nei confronti dei terzi. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. L’azione di nullità, quindi, è detta assoluta. Essa, inoltre, non è soggetta a prescrizione e, quindi, la nullità può essere fatta valere senza limiti di tempo. La nullità, ancora, può essere rilevata d’ufficio dal giudice. La nullità può colpire l’intero contratto, ma può anche riguardare solo alcune clausole contrattuali. Si parla in questo caso di nullità parziale e la relativa disciplina è contenuta nell’art. 1419 c.c., il quale prevede che il contratto è nullo nel suo complesso se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità. Se, invece, il contratto, pur privo della sua parte nulla, è comunque in grado di realizzare lo scopo che i contraenti intendevano raggiungere e di soddisfare i loro interessi, esso rimane valido. Questa regola non si applica quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative. In tal caso, infatti, il contratto è sempre valido ed efficace. L’art. 1420 c.c., poi, stabilisce che nei contratti plurilaterali (cioè nei contratti con più di due parti) in cui le prestazioni di ciascuna parte sono dirette al conseguimento di uno
scopo comune - si tratta, in particolare, dei contratti di società e di associazione - la nullità che colpisce il vincolo di una sola parte non determina la nullità dell’intero contratto, salvo che la partecipazione di essa debba ritenersi essenziale. Si tratta anche in questo caso di una sorta di nullità parziale, che colpisce, però, non una clausola del contratto, ma la partecipazione di un contraente.
L’ordinamento giuridico ammette la conversione del contratto nullo. Dispone l’art. 1424 c.c. che “il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità”. Tale regola trova il suo fondamento nel principio di conservazione del negozio. I requisiti della conversione sono: un elemento soggettivo: deve potersi presumere che le parti avrebbero voluto il negozio cui dà luogo la conversione, se fossero state a conoscenza della nullità del negozio che invece hanno posto in essere; un elemento oggettivo: il negozio deve contenere i requisiti di sostanza e di forma del negozio in cui dovrà essere convertito. Presupposto necessario ai fini dell’applicabilità dell’art. 1424 c.c. è che le parti non fossero consapevoli del vizio del contratto al tempo della sua stipulazione.
9.3 L’annullabilità In presenza di vizi meno gravi di quelli che conducono alla nullità, il contratto è temporaneamente in grado di produrre i suoi effetti, ma ad una delle parti è attribuito il potere di chiedere al giudice una pronuncia che li faccia venire meno. In questi casi si parla di annullabilità del contratto. Essa deriva dalla violazione di norme che mirano a tutelare, in particolar modo, una delle parti, cui si concede la facoltà di scegliere se mantenere o meno in vita il negozio proponendo o meno l’azione giudiziaria di annullamento. Il contratto è annullabile, oltre che nei casi previsti dalla legge, quando: una delle parti è incapace di contrattare in quanto è priva della capacità di agire o, pur essendo capace di agire, è priva della capacità di intendere e di volere al momento della stipulazione (art. 1425 c.c.); la volontà di una delle parti risulta viziata da errore, violenza o dolo (art. 1427 c.c.). Il contratto annullabile, come detto, è un contratto temporaneamente produttivo di effetti, i quali, però, possono essere posti nel nulla a seguito di una pronuncia del giudice (cd. sentenza di annullamento). Tale pronuncia elimina anche gli effetti che si sono già prodotti e, quindi, le prestazioni eventualmente già eseguite devono essere restituite.
La pronuncia del giudice ha natura costitutiva (e non dichiarativa come accade in caso di nullità del contratto), in quanto questa interviene a modificare una situazione giuridica che, nonostante fosse affetta da vizi, comunque produceva effetti. A differenza della nullità, che come abbiamo visto è assoluta (cioè può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse) e rilevabile d’ufficio dal giudice, l’annullabilità è relativa. Essa, infatti, può essere fatta valere solo dalla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’azione di annullamento, inoltre, deve essere esercitata nel termine di cinque anni, che inizia a decorrere, a seconda dei casi, dalla data della conclusione del contratto, dal momento in cui il soggetto legittimato ha acquistato la capacità di agire, dal giorno in cui è cessata la violenza oppure è stato scoperto il dolo o l’errore (art. 1442 c.c.). L’azione di annullamento, quindi, a differenza dell’azione di nullità, si prescrive; è, invece, imprescrittibile l’eccezione di annullamento. Il contratto annullabile, a differenza del contratto nullo, può essere convalidato dal soggetto al quale spetta l’azione di annullamento. La convalida è un atto unilaterale che interviene a sanare il vizio del contratto e che rende quest’ultimo definitivamente valido ed efficace. La convalida può essere:
espressa, se la parte manifesta la propria volontà attraverso un atto che contenga l’indicazione del contratto e del motivo di annullabilità e la dichiarazione che essa intende convalidarlo; tacita, se la parte, a conoscenza del fatto che il contratto è annullabile, dà allo stesso volontaria esecuzione.
9.4 La rescissione Le parti di un contratto sono libere di determinarne il contenuto, sia pure nei limiti imposti dalla legge (art. 1322 c.c.). Questo comporta che le stesse possono anche concludere un contratto a prestazioni corrispettive nel quale le prestazioni cui sono tenute non hanno un valore economico equivalente. Lo squilibrio tra le prestazioni può determinare l’invalidità del contratto nelle ipotesi previste dagli artt. 1447 e 1448 c.c., che disciplinano l’istituto della rescissione. È rescindibile, in primo luogo, il contratto concluso in stato di pericolo, cioè il contratto “con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” (art. 1447 c.c.). Presupposti della rescissione, in questo caso, sono:
l’esistenza del pericolo attuale di un danno grave ad una persona. il pericolo deve essere noto alla controparte; l’iniquità delle condizioni contrattuali. Il 2° comma dell’art. 1447 c.c. stabilisce che, nel pronunciare la rescissione, il giudice può assegnare all’altra parte un equo compenso per il soccorso prestato. Tale compenso non può essere assegnato dal giudice d’ufficio
(ossia, di sua iniziativa), ma soltanto a seguito di un’apposita istanza formulata dalla parte stessa.
È rescindibile, inoltre, il contratto concluso in stato di bisogno, cioè il contratto in cui la sproporzione tra le prestazioni è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio (art. 1448 c.c.). L’azione, però, può essere esercitata soltanto se la lesione eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al momento della conclusione del contratto. Presupposti della rescissione, in questo caso, sono:
la situazione di bisogno in cui versa una delle parti, da intendersi come situazione, anche temporanea, di grave difficoltà economica; la cd. lesione ultra dimidium, nel senso che la prestazione cui è tenuta la parte danneggiata deve avere un valore pari ad almeno due volte il valore della controprestazione. Tale lesione deve essere attuale, ossia sussistente al momento della domanda; l’approfittamento dello stato di bisogno. Così come il contratto annullabile, il contratto rescindibile produce temporaneamente i suoi effetti, fino a quando gli stessi non sono posti nel nulla, con efficacia retroattiva, da una pronuncia del giudice. Il contratto rescindibile non può essere convalidato (art. 1451 c.c.). La rescissione può essere chiesta solo dalla parte che ha subìto le condizioni inique e la relativa azione si
prescrive in un anno dalla conclusione del contratto. Una volta trascorso questo termine, la rescissione non può più essere opposta neanche in via di eccezione. Il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla
offrendo
una
modificazione
del
contratto
sufficiente per ricondurlo ad equità (art. 1450 c.c.). La modifica offerta deve essere in grado, in altre parole, di ristabilire un giusto equilibrio tra le prestazioni.
9.5 Lo scioglimento Lo scioglimento del contratto si verifica quando il vincolo tra le parti nasce validamente, in quanto non presenta alcun vizio originario, ma gli effetti del contratto vengono a cessare in un momento successivo per motivi che riguardano lo svolgimento del rapporto. Lo scioglimento del contratto può essere: volontario, quando il vincolo si scioglie a seguito di una manifestazione di volontà delle stesse parti. Ciò accade nelle ipotesi di esercizio del diritto di recesso ed in caso di mutuo consenso; legale, nelle tre ipotesi di risoluzione previste dal codice civile agli artt. 1453 ss. La risoluzione è un istituto che opera esclusivamente con riferimento ai contratti a prestazioni
corrispettive.
In
tali
contratti,
alla
prestazione cui è tenuta una parte corrisponde la prestazione cui è tenuta l’altra parte. Questo stretto rapporto tra le prestazioni è definito sinallagma. Tutte le ipotesi di risoluzione del contratto sono giustificate dal sorgere, durante lo svolgimento del rapporto, di un difetto del sinallagma. A seguito della risoluzione il contratto si scioglie e le parti non sono più obbligate a dargli esecuzione. Poiché la risoluzione opera con efficacia retroattiva, le parti sono
tenute a restituire le prestazioni eventualmente già ricevute. Se la restituzione non è possibile, dovrà essere corrisposto il suo equivalente in denaro. La risoluzione, però, ha effetto retroattivo solo tra le parti. Essa, infatti, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi.
9.5.1 La risoluzione per inadempimento Se, in un contratto a prestazioni corrispettive, una parte non adempie, per causa ad essa imputabile, l’altra parte (che ha eseguito o è pronta ad eseguire la propria prestazione) può chiedere giudizialmente l’adempimento oppure agire per la risoluzione del contratto. In entrambi i casi, se ne sussistono i presupposti, la parte adempiente avrà anche diritto al risarcimento del danno. Presupposti della risoluzione per inadempimento sono: l’inadempimento di una delle parti, la quale, per colpa o dolo, non abbia eseguito la prestazione dovuta; la gravità dell’inadempimento, nel senso che il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle
parti
ha
scarsa
importanza,
avuto
riguardo
all’interesse dell’altra (art. 1455 c.c.). La risoluzione può essere: giudiziale, qualora sia pronunciata da un giudice su domanda di una delle parti del contratto; di diritto, qualora lo scioglimento del contratto consegua (oltre che, naturalmente, all’inadempimento) ad una
dichiarazione della parte di volersi avvalere della risoluzione. Il codice prevede tre ipotesi di risoluzione di diritto: clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.): i contraenti possono inserire nel contratto una clausola con la quale convengono che se una determinata obbligazione non sarà adempiuta con le modalità stabilite, il contratto si risolverà di diritto. In questo caso, il contratto si scioglie quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola. In tal caso non si applica l’articolo 1455
c.c.
e,
quindi,
non
rileva
la
gravità
dell’inadempimento; diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.): si tratta di una intimazione ad adempiere entro un congruo termine fatta per iscritto e contenente la dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine il contratto si intenderà risolto. Se manca questa dichiarazione, la diffida non può portare alla risoluzione ed avrà solo l’effetto di mettere in mora il debitore; termine essenziale (art.1457 c.c.): è essenziale il temine di adempimento che, per volontà delle parti (essenzialità soggettiva) o per la natura della prestazione (essenzialità oggettiva), ove non osservato, “toglie alla prestazione l’utilità che essa presentava per il creditore”. Il contratto si intende risolto a meno che la parte a cui favore è stato stabilito il termine, dichiari, entro tre giorni, di voler egualmente esigere l’adempimento.
9.5.2 La risoluzione per impossibilità sopravvenuta Nei contratti a prestazioni corrispettive l’impossibilità sopravvenuta di adempiere un’obbligazione, non imputabile al debitore, libera quest’ultimo dalla prestazione dovuta e determina l’estinguersi dell’obbligazione stessa, dando luogo alla risoluzione (di diritto) del contratto (artt. 1256 c.c.). La parte liberata non può più chiedere la controprestazione e deve restituire quella che ha eventualmente già ricevuta (art. 1463 c.c.). Quando l’impossibilità sopravvenuta della prestazione di una parte è solo parziale, l’altra parte ha la possibilità di scegliere tra: una corrispondente riduzione della prestazione da lei dovuta; il diritto di recedere dal contratto, qualora non abbia un apprezzabile interesse all’adempimento parziale.
9.5.3 La risoluzione per eccessiva onerosità Oltre
alle
ipotesi
di
rescissione
del
contratto,
la
sproporzione tra le prestazioni assume rilievo anche nel caso previsto dall’art. 1467 c.c., che disciplina la risoluzione per eccessiva onerosità. Qui lo squilibrio tra le prestazioni non è
presente
sin
dalla
conclusione
del
contratto,
ma
sopraggiunge in un momento successivo. Il problema della eccessiva onerosità sopravvenuta non può porsi se il contratto è ad esecuzione immediata. Deve trattarsi,
quindi,
di
contratti
ad
esecuzione
continuata
o
periodica oppure di contratti ad esecuzione differita (es.: una vendita che, per accordo delle parti, è destinata a produrre effetti dopo il decorso di tre mesi). In questi contratti, “se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto”. Gli eventi che determinano l’eccessiva onerosità devono essere imprevedibili e straordinari, cioè tali da non poter essere controllati dal debitore (es.: una guerra che aumenta notevolmente il valore di alcuni generi alimentari). L’onerosità sopravvenuta deve essere eccessiva, nel senso che deve determinare un grave squilibrio tra le prestazioni cui le parti sono tenute. Essa, inoltre, non deve rientrare nell’alea normale del contratto, cioè in quel margine di rischio che normalmente il contratto concluso presenta e che le parti hanno avuto presente nel momento in cui hanno contrattato. La risoluzione per eccessiva onerosità deve essere pronunciata dal giudice (è quindi un’ipotesi di risoluzione giudiziale) e la parte contro la quale è domandata può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto, in modo tale da eliminare lo squilibrio tra le prestazioni.
Capitolo 10 I principali contratti tipici 10.1 La compravendita 10.1.1 Disciplina generale La compravendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 c.c.). Nella compravendita la causa è lo scambio di un bene o di un altro diritto con una data quantità di denaro; la forma è libera (si richiede la forma scritta per la compravendita che ha ad oggetto beni immobili o diritti reali su di essi o un’eredità, art. 1543); l’oggetto può essere qualsiasi bene o diritto, materiale o immateriale, trasferibile ad altre persone. È un contratto: consensuale, pertanto il bene o il diritto si trasferisce dal venditore all’acquirente per effetto del consenso prestato, anche senza l’effettiva consegna della cosa; con effetti reali, in quanto determina immediatamente il trasferimento della proprietà o di altro diritto. Esistono, tuttavia, ipotesi in cui l’efficacia reale non è immediata, ma
si produce in un momento successivo (es. vendita di cosa futura); con attribuzioni corrispettive o sinallagmatico perché la prestazione di una delle parti (trasferimento della cosa o del diritto) corrisponde ed è strettamente legata alla prestazione dell’altra parte (pagamento del prezzo); commutativo, non aleatorio, perché già al momento della conclusione dello stesso è possibile valutare l’entità del vantaggio e del sacrificio proprie di ciascuna parte; istantaneo, non di durata, poiché l’esecuzione della prestazione si esaurisce in un solo istante, cioè nel momento in cui si verifica il trasferimento; bilaterale, perché due sono le parti dello stesso, intese come unico centro di interessi, anche se poi ciascuna parte può essere formata da più soggetti. Oltre a produrre l’effetto reale tipico del trasferimento della proprietà di un bene o di un diritto, la vendita è anche un contratto ad efficacia obbligatoria poiché dalla stessa sorgono obbligazioni a carico del venditore e a carico dell’acquirente. Gli obblighi che sorgono a carico del venditore sono (art. 1476 c.c.): l’obbligo di consegnare la cosa al compratore: la cosa deve essere consegnata nello stato in cui si trovava al momento della conclusione del contratto; insieme con essa devono essere consegnati anche gli accessori, le pertinenze e i frutti che ha prodotto dal giorno della
vendita, nonché i titoli e i documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa venduta (art. 1477 c.c.); l’obbligo
di
far
acquistare
al
compratore
la
proprietà della cosa o il diritto oggetto del contratto, nei casi in cui il trasferimento della proprietà o del diritto non avviene al momento della conclusione del contratto (vendita di cosa futura, vendita di cosa altrui, vendita di cosa generica, vendita con riserva di proprietà); l’obbligo di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa. Si ha evizione quando il compratore è privato in tutto in parte del diritto sul bene acquistato in conseguenza dell’accertato diritto di un terzo. L’evizione può essere:
totale: quando il compratore è privato dell’intero bene acquistato a seguito di una pronuncia del giudice che afferma che la cosa è di proprietà di un terzo (art. 1483 c.c.). In caso di evizione totale, il venditore deve restituire al compratore il prezzo ricevuto, rimborsagli le spese eventualmente sostenute e risarcire il danno che questi ha subito; parziale:
quando
il
compratore
è
privato
solo
parzialmente del bene acquistato, il che può accadere, ad esempio, quando il diritto del venditore è limitato ad una parte del bene e questo viene invece venduto per intero (art. 1484 c.c.). In tal caso il compratore può chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno solo
quando non avrebbe acquistato la cosa senza la parte della quale non è diventato proprietario; in caso contrario, egli ha diritto alla riduzione del prezzo pattuito e al risarcimento del danno. Il venditore e il compratore possono aumentare o diminuire gli effetti della garanzia per l’evizione, così come possono del tutto escluderla. In tale ultimo caso, se il compratore subisce l’evizione da parte di un terzo, il venditore è tenuto solo a restituire il prezzo ricevuto e a rimborsare le spese sostenute dal compratore.
Il venditore è tenuto a garantire altresì che la cosa venduta è immune da vizi che la rendano inidonea all’uso cui è destinata o che ne diminuiscano in modo apprezza- bile il valore (art. 1490 c.c.). La garanzia ha ad oggetto vizi già presenti al momento della conclusione del contratto non noti al compratore (deve trattarsi cioè di vizi occulti) e non facilmente riconoscibili. Se però nel contratto il venditore ha espressamente dichiarato che la cosa è esente da vizi, la garanzia opera anche per i vizi facilmente riconoscibili ma di fatto non conosciuti dall’acquirente. Qualora la cosa presenti i vizi indicati nell’art. 1490 c.c. l’acquirente può esercitare:
l’azione redibitoria: con questa l’acquirente chiede la risoluzione del contratto e il venditore è tenuto a restituire il prezzo, a rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita, nonché a
risarcire il danno. Il compratore, invece, deve restituire la cosa; l’azione estimatoria: con questa l’acquirente chiede la riduzione del prezzo pattuito per la vendita. Il compratore può liberamente scegliere quale di queste due azioni esercitare. La scelta, però, diviene irrevocabile se fatta con domanda giudiziale. Il compratore deve esercitare le azioni entro precisi termini di decadenza e di prescrizione. Infatti, decade dal diritto alla garanzia se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta o nel diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge. L’azione si prescrive in un anno dalla consegna.
Il compratore è tutelato anche nell’ipotesi in cui la cosa venduta non ha le qualità promesse oppure le qualità essenziali per l’uso cui è destinata. In questo caso, infatti, egli ha il diritto di chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento quando il difetto di qualità supera i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi (art. 1497 c.c.) entro i termini di decadenza e prescrizione di cui all’art. 1495 c.c. Obbligazione fondamentale dell’acquirente è quella di pagare il prezzo. Di regola il pagamento avviene nel momento della consegna e nel luogo dove questa si esegue, salvo patti o usi contrari. Se il prezzo non deve essere pagato al momento della con- segna, il pagamento si fa al domicilio del venditore (art. 1498 c.c.). La determinazione del prezzo è di regola lasciata alla libera contrattazione delle parti salvo che per alcuni beni di
rilevante interesse pubblico, i cui prezzi possono essere imposti dalle pubbliche autorità (si pensi ai medicinali) oppure sottoposti al preventivo controllo di organi amministrativi. Le parti, inoltre, possono rimettere la determinazione del prezzo ad un terzo, eletto nel contratto o da eleggere posteriormente (art. 1473 c.c.). Salvo un diverso accordo tra le parti, inoltre, il compratore deve pagare anche le spese della vendita (art. 1475 c.c.).
10.1.2 La vendita obbligatoria Si ha vendita obbligatoria quando il trasferimento del diritto viene differito ad un momento successivo, in cui si verifica un ulteriore atto o fatto che determina l’effetto traslativo (si parla anche di vendita ad effetti reali differiti). In questo caso, ai sensi dell’art. 1476 c.c., il venditore ha l’obbligo di far acquistare al compratore la proprietà della cosa o dell’altro diritto oggetto del contratto. Sono
tradizionalmente
qualificate
come
vendite
obbligatorie: la vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.): ha ad oggetto un bene che non è ancora esistente al momento della conclusione del contratto. L’acquisto della proprietà si verifica non appena la cosa viene ad esistenza. La vendita è nulla se la cosa non viene ad esistenza qualora le parti non abbiano concluso un contratto aleatorio; la vendita di cosa altrui (art. 1478 c.c.): se al momento del contratto la cosa venduta non era di proprietà del
venditore, questi è obbligato a procurarne l’acquisto al compratore. In tale fattispecie l’acquirente diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa; la vendita con riserva della proprietà (artt. 15231526 c.c.): con tale contratto le parti stabiliscono che il compratore paghi il prezzo in modo frazionato (a rate) entro un determinato periodo di tempo, mentre il bene oggetto
della
vendita
gli
viene
immediatamente
consegnato. La proprietà della cosa si trasferisce dal venditore al compratore al momento del pagamento dell’ultima rata del prezzo. Fino a tale momento, quindi, proprietario del bene resta il venditore. Il rischio per il perimento fortuito della cosa, invece, grava sul compratore già dal momento della consegna; la vendita di cosa generica (art. 1378 c.c.): tale fattispecie può ritenersi regolata dall’art. 1378 c.c., disposizione relativa al contratto in generale, in base alla quale nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel genere la proprietà si trasmette con l’individuazione fatta d’accordo tra le parti o nei modi da esse stabiliti.
10.1.3 La compravendita con patti speciali Accanto al modello generale di compravendita la legge prevede alcune figure speciali di compravendita che risultano dall’inserimento, all’interno dello schema tipico del contratto,
di particolari patti o clausole. Le principali vendite speciali sono: con patto di riscatto: la vendita è risolta se il venditore esercita il riscatto; con riserva di gradimento: la vendita si conclude se il compratore dichiara che la cosa è di suo gradimento; a prova: la vendita è efficace se la prova della cosa dà un esito positivo; su campione: la vendita è risolta se la cosa non è esattamente uguale al campione; su tipo di campione: la vendita è risolta se la cosa è diversa dal campione; con riserva di proprietà: la vendita produce il trasferimento della proprietà con l’integrale pagamento del prezzo; su documenti: la vendita riguarda cose depositate o in viaggio.
10.2 La locazione La locazione è il contratto con il quale un soggetto (locatore) si obbliga a far godere ad un altro (conduttore o locatario) una cosa mobile o immobile, per un certo periodo di tempo, in cambio di un dato corrispettivo (art. 1571 c.c.). Tale contratto soddisfa l’esigenza di avere la disponibilità di un
bene
da
parte
di
chi
ne
abbia
bisogno
solo
temporaneamente. Queste le caratteristiche principali: è un contratto consensuale con effetti obbligatori tra le parti; ha per oggetto una cosa mobile o un immobile; la durata è determinata dalle parti o, in mancanza, dalla legge. La locazione è un contratto a forma libera. Una forma determinata è richiesta solo per la locazione di beni immobili per un periodo di tempo superiore a nove anni; in questo caso, infatti, il contratto deve essere stipulato per iscritto, a pena di nullità deve inoltre essere trascritto (art. 2643, n. 8), c.c.). Dal contratto di locazione derivano alcune obbligazioni a carico delle parti. Le obbligazioni del locatore sono:
consegnare la cosa in buono stato di manutenzione.
Se al momento della consegna la cosa locata presenta vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito, il conduttore può chiedere la risoluzione del contratto o una riduzione del prezzo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili; mantenerla in condizioni tali da servire all’uso convenuto; garantire il pacifico godimento della cosa contro diritti di terzi. Le obbligazioni del conduttore sono: usare la cosa con diligenza media o normale (la violazione dell’obbligo di diligenza può consistere in qualsiasi comportamento lesivo degli interessi del locatore); pagare il canone nei tempi previsti; restituire la cosa alla scadenza del contratto. Dall’obbligo di restituzione della cosa deriva anche a carico del conduttore l’obbligo di custodire la cosa fino alla consegna al locatore. Pertanto, il conduttore è responsabile nei confronti del locatore per la perdita o per il deterioramento della cosa locata, a meno che non riesca a provare che dipendano da una causa a lui non imputabile oppure che sono dovute alla vetustà della cosa ricevuta in locazione, cioè al fatto che si tratta di una cosa molto vecchia.
10.3 Il comodato Il comodato (o prestito) è il contratto (essenzialmente gratuito e a forma libera) col quale una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile affinché se ne serva per un tempo e per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta (art. 1803 c.c.). Il comodato, come la locazione, è un contratto ad effetti solo obbligatori, in quanto il comodatario acquista un diritto personale di godimento sul bene e non un diritto reale. Tuttavia si differenzia dalla locazione per via della sua gratuità, cioè per il fatto che in cambio della concessione della detenzione del bene il comodante non riceve alcuna controprestazione. Il comodato è un contratto: reale, infatti il codice parla di consegna e non di obbligo di consegnare; unilaterale, in quanto è a vantaggio del solo comodatario; gratuito, la stipula di un corrispettivo è incompatibile con la causa del comodato. Il comodatario ha il diritto di servirsi della cosa per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa. L’obbligo principale del comodatario è la restituzione della cosa ricevuta, che deve avvenire alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è
servito in conformità del contratto. Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e imprevisto bisogno al comodante, questi può esigere la restituzione immediata.
10.4 Il mutuo Il mutuo è il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all’altra (mutuatario) una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità (art. 1813 c.c.). Anche il mutuo, come il comodato, assolve ad una funzione di prestito, ma mentre il comodato ha ad oggetto cose non consumabili e infungibili, il mutuo ha ad oggetto denaro o cose fungibili, cosicché il mutuatario si obbliga a restituire non già le stesse cose ma cose identiche a quelle ricevute per specie e qualità. Il mutuo è un contratto: traslativo, in quanto le cose date a motivo diventano di proprietà del mutuatario e quest’ultimo può liberamente utilizzarle; reale, cioè si perfeziona con la consegna della cosa; normalmente oneroso, il mutuatario, salvo diverso accordo, deve corrispondere al mutuante gli interessi legali o convenzionali(art. 1815 c.c.), pena, in difetto, la risoluzione del contratto (art. 1820 c.c.). Se sono stati previsti interessi usurari (cioè in misura esorbitante) la relativa clausola è nulla e il debitore non è tenuto a corrispondere interessi.
Gli obblighi del mutuante consistono nel consegnare una cosa non affetta da vizi e nel farne acquistare la proprietà al mutuatario. Il mutuante è, infatti, responsabile del danno cagionato al mutuatario per i vizi delle cose date a prestito se non prova di averli ignorati senza colpa. In caso di mutuo oneroso egli deve risarcire tutti i danni. Se, invece, il mutuo è gratuito il mutuante è responsabile solo nel caso in cui, conoscendo i vizi, non abbia avvertito il mutuatario. Gli obblighi del mutuatario consistono, oltre che nel pagamento del corrispettivo in caso di onerosità, nella restituzione del tantundem (di altrettante cose) nel termine fissato dalle parti o, in difetto, dal giudice.
10.5 L’assicurazione L’art. 1882 c.c. definisce l’assicurazione come il contratto con il quale una parte (l’assicuratore), in cambio del pagamento di un corrispettivo (detto premio), si obbliga a rivalere l’altra parte (l’assicurato) del
danno
prodotto dal verificarsi di un determinato evento (detto sinistro). L’assicurazione è un contratto aleatorio, perché è impossibile prevedere se e quando si verificherà l’evento dannoso, e si divide in due grandi categorie: l’assicurazione contro i danni, stipulando la quale l’assicuratore si obbliga a rivalere l’assicurato del danno provocato da un sinistro; l’assicurazione
sulla
vita,
stipulando
la
quale
l’assicuratore si obbliga a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento relativo alla vita umana (che può essere sia la morte sia la sopravvivenza). Il codice civile detta, in primo luogo, una disciplina di carattere generale applicabile a tutti i contratti di assicurazione (artt. 1882-1903 c.c.) e, poi, alcune norme specifiche relative all’assicurazione contro i danni (artt. 1904-1918 c.c.) e all’assicurazione sulla vita (artt. 1919- 1927 c.c.).
Con il D.Lgs. 209/2005 è stato emanato il Codice delle assicurazioni
private,
un
provvedimento
che
ha
completamente innovato la disciplina delle assicurazioni private sia per quanto riguarda il ramo vita sia per quanto concerne il ramo assicurazioni obbligatorie.
Il contratto di assicurazione è un contratto consensuale, in quanto per la conclusione del contratto è sufficiente la valida manifestazione di volontà delle parti. In genere, poi, la conclusione dei contratti di assicurazione avviene attraverso la sottoscrizione da parte del contraente di moduli predisposti dall’assicuratore: si tratta, quindi, di un contratto per adesione. Il contratto di assicurazione deve essere provato per iscritto (art. 1888 c.c.), per cui non è ammessa la prova per testimoni o a mezzo di presunzioni. Il documento probatorio è la polizza di assicurazione. Parti del contratto sono l’assicuratore e il contraente che si obbliga a pagare il premio. Quest’ultimo, di regola, coincide con la persona dell’assicurato, cioè con il soggetto esposto al rischio previsto dal contratto, e con la persona del beneficiario, cioè con il soggetto al quale l’assicuratore dovrà pagare una certa somma di denaro al verificarsi di un dato evento. Tuttavia, contraente, assicurato e beneficiario possono essere anche persone diverse. Infatti, l’assicurazione può essere:
in nome e per conto altrui, quando un rappresentante stipula un contratto di assicurazione in cui assicurato e beneficiario corrispondono alla persona di un terzo; in nome proprio e per conto altrui, quando il beneficiario è un terzo, che può essere anche non identificato (si pensi al gestore di un’officina che si assicura contro eventuali danni a beni di clienti) ma che ha un interesse che viene tutelato dal contratto; a favore di un terzo: in questo caso, contraente e assicurato coincidono, mentre il beneficiario è un soggetto diverso (si pensi al caso in cui Tizio stipula un contratto di assicurazione sulla propria vita, obbligandosi a versare il relativo premio, a vantaggio della moglie). Elemento essenziale del contratto di assicurazione è il rischio: la funzione del contratto, infatti, è quella di trasferire il
rischio
del
verificarsi
del
sinistro
dall’assicurato
all’assicuratore. Se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto, il contratto è nullo e, se il premio è già stato pagato, l’assicurato può ottenerne la restituzione (art. 1895 c.c.). Nel caso in cui il rischio cessi di esistere in un momento successivo alla conclusione del contratto, quest’ultimo si scioglie. L’assicuratore, però, ha diritto al pagamento dei premi fino al momento in cui, a seguito di una comunicazione proveniente dall’assicurato o in altro modo, egli sia venuto a conoscenza della cessazione del rischio (art. 1896 c.c.).
Il premio è il corrispettivo dovuto all’assicuratore. Deve essere pagato anticipatamente, in un’unica soluzione o in diverse rate periodiche (le cd. rate di premio). Anche il premio è un elemento essenziale del contratto di assicurazione. L’assicurazione della responsabilità civile (R.C.) costituisce un particolare tipo di assicurazione contro i danni. L’assicuratore, in questo caso, si obbliga nei limiti di una somma determinata (cd. massimale) a tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare a terzi a titolo di risarcimento danni in virtù di eventi che comportano una responsabilità civile dell’assicurato stesso, esclusa solo la responsabilità per dolo (art. 1917 c.c.). Il contratto concluso tra il contraente e l’assicuratore non ha effetti diretti nei confronti del terzo danneggiato. L’assicuratore, infatti, ha solo la facoltà, e non l’obbligo, di pagare direttamente al terzo danneggiato l’indennità dovuta, salvo che vi sia una richiesta in tal senso proveniente dall’assicurato (art. 1917, co. 2, c.c.). Il danneggiato non ha perciò normalmente un’azione diretta nei confronti dell’impresa assicuratrice per ottenere il risarcimento del danno subito.
In alcuni casi l’assicurazione della responsabilità civile è obbligatoria per legge. È obbligatoria, in particolare, in virtù del D.Lgs. 209/2005 (in passato della L. 990/1969) l’assicurazione della responsabilità civile per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti (cd. R.C. auto).
Il contratto di assicurazione sulla vita protegge dai danni patrimoniali che si ritiene possano verificarsi in caso di morte
o
di
raggiungimento
di
una
certa
età
dell’assicurato. È un contratto con finalità previdenziale. Al termine del periodo assicurativo o in caso di morte dell’assicurato ci sarà la liquidazione di un indennizzo predefinito, a fronte della corresponsione di un premio unico o periodico durante il contratto. I contratti di assicurazione sulla vita sogliono essere distinti in tre categorie:
assicurazioni
per
il
caso
di
morte,
in
cui
l’assicuratore si impegna a pagare un capitale o una rendita alla morte dell’assicurato; assicurazioni per il caso di vita, in cui l’assicuratore deve corrispondere all’assicurato una rendita vitalizia o una somma una tantum, se l’assicurato stesso raggiunge un determinata età; assicurazioni miste, in cui l’assicuratore si obbliga a pagare
una
determinata
somma
o
alla
morte
dell’assicurato o ad un determinato termine, se l’assicurato è ancora in vita. L’assicurazione può essere stipulata, oltre che sulla vita propria, anche sulla vita di un terzo. L’assicurazione contratta per il caso di morte di un terzo, però, è valida solo se questi o il suo legale rappresentante dà il proprio consenso per iscritto alla conclusione del contratto (art. 1919 c.c.).
È valida anche l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo (cd. beneficiario) (art. 1920 c.c.). La designazione del beneficiario può essere fatta, anche genericamente, sia al momento della conclusione del contratto sia in un momento
successivo,
con
comunicazione
scritta
all’assicuratore; può essere fatta anche per testamento, cioè mediante una disposizione testamentaria che attribuisce la somma dovuta dall’assicuratore ad una determinata persona.
10.6 Il mandato Ai sensi dell’art. 1703 c.c. il mandato è il contratto con il quale una parte (il mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra (il mandante). È un contratto: consensuale, perché si perfeziona con il semplice consenso delle parti; con effetti obbligatori, perché il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto del mandante; ad esecuzione differita, perché la prestazione è posteriore alla stipula del contratto; intuitu
personae,
perché
deve
essere
personalmente dal mandatario. Il mandato si differenzia dalla procura. La procura è un negozio giuridico unilaterale che conferisce il potere di rappresentanza, ed è rivolto a terzi, ma non obbliga ad agire in nome e per conto di un determinato soggetto. Il mandato è un contratto che conferisce un incarico: il mandatario è obbligato a compiere uno o più atti giuridici per conto del mandante. Nel caso di mandato con rappresentanza, quindi, il potere rappresentativo del mandatario deriva da un negozio autonomo, la procura, collegato al mandato stesso.
eseguito
Il mandato, in base all’oggetto, può essere: generale, quando ha ad oggetto tutti gli affari del mandante; tuttavia, esso non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione se non sono indicati espressamente; speciale, quando il mandatario è abilitato a compiere uno o più atti giuridici espressamente individuati (mandato a vendere un certo immobile, mandato a locare un certo appartamento). Il mandato comprende non solo gli atti per il quale è stato conferito, ma anche quelli che sono necessari al loro compimento (art. 1708 c.c.). Il
mandato,
solitamente
conferito
nell’interesse
del
mandante, può essere conferito anche nell’interesse del mandatario o di un terzo: cd. mandato in rem propriam. È il caso in cui un soggetto conferisce incarico ad un altro soggetto, suo creditore, di vendere un immobile e soddisfarsi sul ricavato. La disciplina del mandato diverge a seconda che questo sia conferito con o senza rappresentanza: in caso di mandato senza rappresentanza, il mandatario agisce per conto del mandante ma in nome proprio. Assume, quindi, nei confronti dei terzi, in proprio nome le obbligazioni e stipula in nome proprio i contratti. Ne consegue che, in base al principio della spendita del nome, il mandatario acquista i diritti ed assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se
questi hanno avuto conoscenza del mandato (art. 1705 c.c.). In virtù del contratto di mandato, però, il mandatario ha l’obbligo di trasferire al mandante i diritti acquistati per conto di quest’ultimo.
Il codice distingue al riguardo a seconda dell’oggetto dell’acquisto effettuato dal mandatario (art. 1706 c.c.): con riferimento ai beni mobili: il mandante può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio. Egli, cioè, può esercitare l’azione di rivendica, tipica azione prevista dalla legge a tutela del proprietario di un bene. Sono in ogni caso fatti salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede; con riferimento ai beni immobili e ai beni mobili registrati, il mandatario acquista la proprietà dei beni, ma è obbligato a ritrasferire la proprietà dei beni stessi al mandante mediante un successivo atto di ritrasferimento. Si hanno così due distinti negozi giuridici: quello tra il terzo e il mandatario e quello tra mandatario e mandante. Nel caso di inadempimento, il mandante può ottenere
il
sentenza
trasferimento
costitutiva
da
dei
beni
parte
mediante
dell’autorità
giudiziaria.
Ai sensi, poi, del 2° comma dell’art. 1705 c.c., nonostante l’inesistenza di rapporti tra i terzi e il mandante,
quest’ultimo, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti attribuiti al mandatario dalle disposizioni codicistiche; in caso di mandato con rappresentanza, il mandatario è legittimato ad agire non solo per conto ma anche in nome del mandante. Questo potere deriva da un autonomo negozio di procura che come abbiamo anticipato è un atto unilaterale, attributivo di poteri e rivolto ai terzi. Quando il mandato è con rappresentanza, gli effetti degli atti posti in essere dal mandatario in nome e per conto del mandante si producono direttamente in capo al mandante stesso. Dal contratto di mandato discendono obbligazioni a carico di entrambe le parti. Obblighi del mandatario sono quelli di: osservare la diligenza del buon padre di famiglia nell’esecuzione del mandato. Nel caso di mandato gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore; far conoscere al mandante le circostanze che possono determinare la revoca o la modifica del mandato (art. 1710 c.c.); eseguire l’incarico secondo le istruzioni impartite dal mandante
con
il
contratto
di
mandato
o
con
determinazioni successive.
Il negozio stipulato dal mandatario eccedente i limiti
del mandato è inefficace nei confronti del mandante, ma è suscettibile di ratifica da parte di quest’ultimo. La ratifica consiste in una manifestazione di volontà del mandante diretta ad approvare l’operato del mandatario, per la quale non sono richieste formule sacramentali, occorrendo però che la volontà di fare propri gli effetti del negozio già concluso sia manifestata in modo chiaro ed inequivoco, non necessariamente per iscritto; rendere conto al mandante del suo operato, nonchè rimettergli tutto quanto ha ricevuto a causa del mandato. A sua volta, il mandante deve: fornire al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che eventualmente egli ha dovuto assumere in nome proprio; pagare al mandatario il corrispettivo pattuito; rimborsare al mandatario le spese da questi sostenute e risarcirgli i danni che ha subìto a causa dell’incarico. Il mandato si presume oneroso e quindi, normalmente, il mandatario ha diritto ad un corrispettivo per l’attività svolta per conto del mandante. Le parti, tuttavia, possono accordarsi per la gratuità del contratto. Il compenso del mandatario, se non concordato nel contratto, è determinato in base alle tariffe professionali o agli usi, e in mancanza è determinato dal giudice (art. 1709 c.c.). Infine, il mandato si estingue: per la scadenza del termine o per il compimento, da parte del mandatario, dell’affare per il quale è stato
conferito; a seguito della revoca del mandato da parte del mandante; a seguito della rinuncia del mandatario; per la morte o per la sopravvenuta incapacità di una delle parti.
10.7 L’agenzia Secondo la nozione fornita dall’art. 1742 c.c., l’agenzia è il contratto con il quale una parte (cd. agente) assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra (cd. preponente), verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. L’agente, come detto, deve “promuovere” la conclusione dei contratti, ma non deve anche procedere alla effettiva stipulazione degli stessi. Tuttavia, all’agente può essere conferita anche la rappresentanza per la conclusione dei contratti (art. 1752 c.c.). Caratteristica del contratto di agenzia è la stabilità dell’incarico assunto dall’agente, la quale comporta che l’attività svolta non può esaurirsi nella promozione di un singolo affare o di una pluralità di affari ma si deve riferire a tutti gli affari che si manifestano possibili e convenienti
per
l’intera
durata
del
rapporto,
in
una
determinata zona e nell’ambito dell’attività imprenditoriale del preponente. L’art. 1746 c.c. individua gli obblighi dell’agente, il quale:
deve tutelare gli interessi del preponente nell’esecuzione dell’incarico e deve agire con lealtà e buona fede; deve adempiere l’incarico seguendo le istruzioni ricevute dal preponente e promuovere la conclusione dei contratti nella zona che gli è stata assegnata. Entrambe le parti
hanno, in tale zona, un diritto di esclusiva, nel senso che il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso tipo di attività e l’agente, dal canto suo, non può assumere l’incarico da più imprese in concorrenza tra loro di trattare lo stesso tipo di affari nella stessa zona (art. 1743 c.c.); deve fornire al preponente le informazioni riguardanti le condizioni del mercato nella zona assegnatagli e ogni altra informazione utile per valutare la convenienza dei singoli affari; è tenuto a dare immediato avviso al preponente qualora non sia in grado di eseguire l’incarico affidatogli e, in mancanza di avviso, è obbligato al risarcimento del danno (art. 1747 c.c.). L’agente, inoltre, deve osservare anche gli obblighi che gravano sul commissionario. Per quanto riguarda, invece, gli obblighi del preponente, quest’ultimo:
deve
pagare
all’agente
il
compenso
pattuito.
Normalmente, il compenso consiste in una provvigione, cioè in una percentuale dell’importo degli affari conclusi. In base all’art. 1748 c.c., l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento; deve agire con lealtà e buona fede e deve mettere a disposizione
dell’agente
la
documentazione
e
le
informazioni che siano necessarie per l’esecuzione del contratto; deve consegnare periodicamente all’agente un estratto conto, cioè un documento contabile dal quale risultino il lavoro svolto dall’agente e le provvigioni a lui spettanti; su richiesta dell’agente, deve fornire tutte le informazioni necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate e in particolare un estratto dei libri contabili. Il contratto di agenzia è un contratto di durata e può essere stipulato: a tempo determinato, nel qual caso il contratto si scioglie
allo
scadere
del
termine.
Tuttavia,
se,
successivamente alla scadenza, le parti continuano ad eseguire il contratto, quest’ultimo diventa a tempo indeterminato; a tempo indeterminato (art. 1750 c.c.) e, in questo caso, sia l’agente sia il preponente possono recedere dal contratto dandone preavviso all’altra parte entro un termine stabilito (che non può essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno, a tre mesi per il terzo anno e così via fino ad arrivare a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi). Al momento della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità (art. 1751 c.c.). È necessario, in particolare, che:
l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.
10.8 La mediazione L’art. 1754 c.c. definisce mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza. Condizione essenziale è l’indipendenza del mediatore rispetto alle parti (cui non è legato
da
vincoli
di
collaborazione,
subordinazione
o
rappresentanza), pur potendo avere ricevuto incarico da una di esse. Il mediatore ha diritto al pagamento di una provvigione quando l’affare è stato concluso a seguito del suo intervento (art. 1755 c.c.) da ciascuna delle parti. La misura della provvigione e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti sono determinate dall’accordo intervenuto con le parti oppure sulla base delle tariffe professionali o degli usi; in mancanza, decide il giudice secondo equità. La condizione che deve sussistere affinché possa percepire la provvigione a lui spettante è che ci sia un nesso causale fra la sua attività e la conclusione dell’affare, anche in assenza di un incarico di mediazione. Salvo patti o usi contrari, il mediatore ha diritto al rimborso delle spese nei confronti della persona per incarico della quale sono state eseguite anche se l’affare non è stato concluso (art. 1756 c.c.).
Il mediatore è obbligato a comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare.
Egli,
inoltre,
risponde
dell’autenticità
della
sottoscrizione delle scritture o dei titoli di credito trasmessi per suo tramite e risponde dell’esecuzione del contratto quando non ha comunicato ad un contraente il nome dell’altro (cioè in caso di contratto per persona da nominare).
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Libro III Normativa in materia di rapporto di lavoro pubblico Sommario Capitolo 1 La disciplina generale e l’instaurazione del rapporto di lavoro Capitolo 2 Diritti, doveri e mobilità dei dipendenti Capitolo 3 Il sistema di gestione delle performance Capitolo 4 Il sistema sanzionatorio e la cessazione del rapporto di lavoro Capitolo 5 Le figure dirigenziali
Capitolo 1 La disciplina generale e l’instaurazione del rapporto di lavoro 1.1 Il rapporto di lavoro pubblico 1.1.1 Caratteristiche generali
Si definisce rapporto di pubblico impiego o, meglio, di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, quello in cui il lavoratore pone le proprie energie, in maniera stabile e continuativa, a disposizione dello Stato o di un ente pubblico non economico. Due, dunque, sono i soggetti interessati: il dipendente pubblico, ovvero la persona fisica impegnata volontariamente e dietro corrispettivo a prestare in modo continuativo la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’ente, assumendo perciò lo status di dipendente pubblico, cui si collegano peculiari e reciproci diritti e doveri con l’Amministrazione datrice di lavoro; il datore di lavoro pubblico, ovvero la struttura alle cui dipendenze o sotto la cui direzione un lavoratore presta la propria attività lavorativa. Essa dispone di poteri di vigilanza e gerarchico-disciplinare, ma, per converso, ha il dovere non solo di corrispondere la retribuzione ma anche di attuare comportamenti ed azioni di rispetto e tutela dei diritti dei lavoratori, previsti dallo Statuto dei lavoratori o dalla disciplina normativa e contrattuale. Nell’impiego pubblico, il datore di lavoro non è mai una persona fisica ma sempre un ente (es. il Ministero dell’Interno o il Comune di Siena), per il cui interesse operano gli organi di vertice dell’apparato burocratico. Gli indici rilevatori dell’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego sono: la natura di ente pubblico del soggetto datore di lavoro;
la
pertinenza
delle
mansioni
affidate
ai
compiti
istituzionali dell’ente; il carattere continuativo e durevole della prestazione richiesta. Il rapporto è volontario, e come tale si instaura sulla base dell’incontro della volontà del datore e del prestatore di lavoro, ed è caratterizzato dalla rilevanza delle qualità personali del lavoratore, sia in termini di fiducia richiesta per l’assolvimento dell’incarico, sia di necessarie competenze tecniche e intellettive.
1.1.2 La privatizzazione Con il D.Lgs. 3-2-1993, n. 29, poi confluito nel vigente D.Lgs. 30-3-2001, n. 165 (Testo unico sul pubblico impiego), e, dunque, con la cosiddetta privatizzazione dell’impiego pubblico, la disciplina dei pubblici impiegati è stata sostanzialmente equiparata a quella dei lavoratori del settore privato; è, infatti, prevista l’assunzione mediante un contratto individuale di lavoro, è stata introdotta una specifica contrattazione collettiva di settore e sono state attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie fra dipendenti e Amministrazione. Rimangono al di fuori della logica contrattuale, e quindi al di fuori della detta privatizzazione, alcune categorie (magistrati, avvocati dello Stato, personale militare e forze della polizia di Stato, personale della carriera diplomatica e prefettizia), per le quali il rapporto di impiego permane di
stampo pubblicistico e la giurisdizione sulle controversie resta esclusiva in capo al giudice amministrativo. Il rapporto di lavoro presso la P.A. è oggi caratterizzato da: separazione fra indirizzo politico, riservato agli organi di vertice politico delle Pubbliche Amministrazioni, e attività
gestionale,
interamente
attribuita
alla
dirigenza; attuazione della piena disciplina del rapporto lavorativo sulla base del contratto collettivo nazionale di lavoro e costituzione dei singoli rapporti mediante contratto individuale; per
le
Amministrazioni
statali,
eliminazione
dell’appartenenza dei dirigenti ai ruoli delle varie Amministrazioni ministeriali e costituzione del ruolo unico della dirigenza; definizione del trattamento economico agganciato, almeno per una parte, all’efficienza e al raggiungimento degli obiettivi prefissati; attribuzione delle controversie relative al rapporto di lavoro (con esclusione delle procedure concorsuali) alla giurisdizione del giudice ordinario.
1.2 Il sistema delle fonti 1.2.1 Le fonti pubblicistiche L’art. 2, co. 2, D.Lgs. 165/2001 afferma che «i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel D.Lgs. 165/2001, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo». Quello che disciplina il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è un sistema in cui, nonostante la spinta alla privatizzazione, convivono fonti di natura pubblicistica (Costituzione, legge ordinaria, regolamenti) con norme di diritto comune (codice civile e altre leggi) e riconducibili alla contrattazione collettiva.
1.2.2 La disciplina costituzionale A livello costituzionale sono da ricordare le seguenti norme: l’art. 28, in virtù del quale «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili,
secondo
le
leggi
penali,
civili
e
amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»; l’art. 51, in base al quale tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici; l’art. 54, che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di adempierle con disciplina ed onore; l’art. 97, laddove si prevede che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione. Lo stesso articolo stabilisce che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari»
e
che
«agli
impieghi
nelle
Pubbliche
Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».
1.2.3 La disciplina legislativa A livello legislativo il provvedimento di maggiore rilevanza è indubbiamente il più volte citato D.Lgs. 30-3-2001, n. 165, meglio noto come Testo unico sul pubblico impiego; la denominazione ufficiale del provvedimento è «Norme generali sull’ordinamento
del
lavoro
alle
dipendenze
delle
Amministrazioni pubbliche». La nozione di Pubbliche Amministrazioni, agli effetti del D.Lgs. 165/2001, è fornita dall’art. 1, co. 2, che vi fa rientrare tutte le Amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed Amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le Amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale, l’Agenzia per
la
rappresentanza
negoziale
delle
Pubbliche
Amministrazioni (ARAN) e le altre Agenzie pubbliche (anche se si fa esplicito riferimento alle Agenzia previste dal D.Lgs. 300/1999, in realtà il Testo unico si applica a tutte le Agenzie istituite). Nell’elenco non sono richiamate le Città metropolitane; tuttavia l’art. 1, co. 48, L. 56/2014 (legge Delrio) stabilisce che al personale delle Città metropolitane si applicano le disposizioni vigenti per il personale delle Province. Il richiamo è, invece, presente nell’accordo che definisce i comparti di contrattazione. Tra le modifiche di maggiore incisività sul citato testo unico va sicuramente ricordata la cosiddetta riforma Brunetta (L. 4-3-2009, n. 15 e D.Lgs. 27-10-2009, n. 150 di attuazione), che si poneva l’ambizioso obiettivo di avviare una vera e propria azione di riordino del pubblico impiego e tentava di incidere sulla gestione del rapporto individuale di lavoro attraverso l’introduzione di strumenti tipici del settore privato come la valutazione e la misurazione della performance e la predisposizione di meccanismi premiali (vedi Cap. 3). Sul solco già tracciato dalla riforma Brunetta hanno preso consistenza gli indirizzi della riforma Madia, di cui alla L.
124/2015, che prevedeva un completo riassetto della materia attraverso modifiche radicali dei nodi più critici. In particolare oggetto di riforma sono stati i meccanismi di reclutamento del personale e la responsabilità disciplinare (D.Lgs. 25-5-2017 n. 75) nonché il riordino del sistema di valutazione della performance (D.Lgs. 25-5-2017, n. 74). Non si è mai concretizzata, invece, la pur prevista revisione della dirigenza pubblica.
1.2.4 La disciplina applicabile agli enti locali Il Titolo IV del TUEL (organizzazione e personale, articoli dal 88 a 111) esordisce con l’art. 88, nel quale si afferma che all’ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti e i Segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del D.Lgs. 165/2001 e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni. L’art. 89, co. 1, aggiunge
che
gli
enti
locali
disciplinano,
con
propri
regolamenti e in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità.
1.2.5 I livelli di contrattazione Nel pubblico impiego, così come in ambito privato, sono previsti diversi livelli di contrattazione: si distingue fra contratti quadro, di comparto e integrativi.
I contratti quadro (CCNQ), conclusi fra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) e le varie confederazioni sindacali, regolamentano aspetti trasversali rispetto ai singoli contratti collettivi come la rappresentanza sindacale, le procedure di conciliazione e arbitrato ecc. I contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) dei comparti sono accordi che disciplinano l’attività lavorativa di raggruppamenti di pubblici dipendenti riuniti per settori omogenei ed affini. Nel pubblico impiego, infatti, non esiste un unico contratto collettivo ma sono stipulati tanti accordi quanti sono i comparti individuati da un apposito accordo quadro. Anche in questo caso sono negoziati dall’ARAN e dai sindacati nazionali. Fino
al
2016
erano
contemplati
12
comparti
di
contrattazione, anche se già dal 2009 era stato modificato l’art. 40
D.Lgs.
165/2001
(dall’art.
54,
D.Lgs.
150/2009),
prevedendo una loro riduzione a 4. La novità è divenuta operativa solo con l’Accordo del 13 luglio 2016 che ha distinto i seguenti comparti: delle Funzioni centrali, delle Funzioni locali, dell’Istruzione e ricerca e della Sanità. Il primo accordo post-riforma (concernente le Funzioni centrali) è stato firmato il 23 dicembre 2017. Nell’ambito dei contratti di comparto possono essere stipulati accordi finalizzati ad integrare o specificare aspetti in esso trattati o a definire materie non affrontate e risolte in seno al CCNL, perché particolarmente controverse fra le parti (cd. code contrattuali). Inoltre, per ciascun comparto, sono
stipulati distinti contratti per il personale dirigente e per il personale non dirigente. I contratti collettivi integrativi (CCI) sono stipulati dalle singole Amministrazioni (un ministero, una Regione, un Comune ecc.) e i sindacati di comparto (o dalle rappresentanze sindacali unitarie). Integrano le disposizioni riportate nei contratti nazionali e riportano la disciplina di dettaglio che, nel rispetto delle linee del CCNL, regola aspetti particolari quali le mansioni specifiche, le progressioni di carriera ecc. L’art. 40, co. 3, D.Lgs. 165/2001 (nel testo modificato dal D.Lgs. 150/2009) prevede che la contrattazione collettiva disciplini la struttura contrattuale, i rapporti fra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi, e che la durata venga stabilita in modo che vi sia coincidenza fra la vigenza della disciplina giuridica e di quella economica (in ragione di trienni). Il contratto collettivo, una volta sottoscritto, vincola sia le Pubbliche Amministrazioni che tutti i lavoratori interessati; esso
acquista
efficacia
immediata,
svincolata
dalla
pubblicazione (in Gazzetta Ufficiale, per i contratti nazionali, o sul Bollettino Ufficiale dell’ente di riferimento, per i contratti integrativi), che ha funzione di pubblicità-notizia e non incide sull’efficacia del contratto stesso.
1.2.6 Il CCNL 19 aprile 2018 del comparto Istruzione e ricerca Il Contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto Istruzione e ricerca, sottoscritto definitivamente il 19 aprile
2018, ha visto applicata per la prima volta la nuova struttura della contrattazione dei comparti del pubblico impiego, ridotti a quattro in applicazione dell’art. 40 del D.Lgs. n. 165/2001. Il comparto Istruzione e ricerca, a norma dell’art. 5 del CCNQ 13 luglio 2016, in applicazione dell’art. 40, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, comprende quattro settori oltre all’ Agenzia spaziale italiana: I - Scuole statali; II - Accademie, Istituti superiori per le industrie artistiche, Conservatori di musica e Istituti musicali pareggiati; III - Università, Istituzioni Universitarie e le Aziende ospedaliero-universitarie; IV - CNR e tutte le istituzioni della Ricerca. Il CCNL 2018, valido per il triennio normativo ed economico 2016-2018, si articola perciò in una Parte comune (artt. 1-21) e in quattro successive Sezioni: I. Scuola (artt. 22-40); II. Università e aziende ospedaliero-universitarie (artt. 4165); III. Istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione (artt. 66-94); IV. AFAM (artt. 95-105).
1.2.7 Il riparto fra i vari livelli di contrattazione La presenza di vari livelli di contrattazione, cui si aggiunge la specifica disciplina del rapporto derivante da fonti legislative, ha reso indispensabile definire la ripartizione
degli aspetti che ogni fonte può disciplinare. Nell’art. 40, co. 1, D.Lgs. 165/2001 si afferma, infatti, che sono escluse dalla
contrattazione
collettiva
le
materie
attinenti
all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali e concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali. Di converso spetta alla contrattazione collettiva il compito di disciplinare il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali. Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge. Il contratto integrativo può disciplinare solo ed esclusivamente le materie rimesse dal contratto nazionale e incontra dei limiti nel fatto che non può contrastare con i vincoli di cui al contratto collettivo nazionale né comportare oneri non previsti da quest’ultimo atto. Le clausole del contratto decentrato eventualmente stipulate in violazione di tali limiti sono nulle e non potranno essere applicate. Si precisa, infine, che i contratti collettivi possono sempre derogare a disposizioni di legge, regolamento e statuto, perché rispettino i limiti previsti dalla legge.
1.3 L’instaurazione del rapporto di lavoro e le modalità di reclutamento 1.3.1 Il Piano dei fabbisogni Con il D.Lgs. 75/2017 l’organizzazione e la disciplina degli uffici e dei rapporti di lavoro non sono più collegati alla dotazione organica ma ad uno specifico Piano triennale dei fabbisogni di personale (PTFP), documento con il quale, tenendo conto anche delle risorse finanziarie a disposizione, si individuano le attività che l’ente deve svolgere nel successivo triennio e, sulla base di questo atto, si individuano le risorse umane di cui necessita. Il fabbisogno di personale dell’ente non è individuato una volta e per sempre sulla base della dotazione organica, ma è quest’ultima che viene determinata di volta in volta sulla base del Piano triennale, a sua volta elaborato tenendo conto delle attività da svolgere. Le Pubbliche Amministrazioni sono obbligate ad adottare il PTFP in coerenza con la pianificazione pluriennale delle attività e della performance, nonché in aderenza alle linee di indirizzo stabilite con decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (vedi il D.M. 8 maggio 2018). Lo scopo è quello di ottimizzare l’impiego delle risorse pubbliche disponibili e
perseguire obiettivi di performance organizzativa, efficienza, economicità e qualità dei servizi ai cittadini. In sede di definizione del Piano, ciascuna Amministrazione ha l’obbligo di indicare la consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in base ai fabbisogni programmati, sempre nell’ambito del limite finanziario stabilito. Vengono definite specifiche procedure per l’adozione del Piano, disponendo la sua approvazione con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nelle Amministrazioni statali, e secondo le modalità previste dalla disciplina dei propri ordinamenti, per le altre Amministrazioni pubbliche. È, in ogni caso, assicurata la preventiva informazione sindacale, ove prevista nei contratti collettivi nazionali. Il D.Lgs. 75/2017 pone il divieto
di
assumere
personale per le Pubbliche Amministrazioni che non adempiano alle disposizioni relative al Piano dei fabbisogni; tale limitazione non opera nei confronti del personale delle categorie protette.
1.3.2 Le procedure di assunzione Secondo quanto stabilito dall’art. 97, co. 4, Cost. «agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». Il concorso pubblico per esami e titoli – finalizzato alla formazione di una graduatoria di merito con l’indicazione del punteggio per ciascun candidato – è quello che garantisce al massimo grado non soltanto l’effettività della selezione, di guisa che soltanto i
più capaci e meritevoli siano assunti, ma anche pari opportunità a tutti i concorrenti, nel rispetto del principio di imparzialità ed efficienza dall’azione amministrativa. Come conseguenza della privatizzazione, il procedimento non si conclude più con un atto di nomina, ma con un contratto di assunzione individuale. Costituiscono
modalità
ulteriori
la
procedura
di
avviamento degli iscritti negli elenchi anagrafici (che hanno sostituito le liste di collocamento) e le assunzioni obbligatorie (di cui all’art. 1 L. 68/1999) dei soggetti appartenenti a categorie protette (es. invalidi), previa verifica della compatibilità con le mansioni da svolgere. Secondo le indicazioni contenute nell’art. 35 D.Lgs. 165/2001, l’assunzione avviene con contratto individuale di lavoro. L’assunzione in servizio comporta, per il pubblico dipendente, diritti e doveri. Questi sono stabiliti da norme di legge e dai contratti collettivi.
1.4 Il lavoro dipendente e l’utilizzo del lavoro flessibile Nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni si possono individuare diverse tipologie di rapporti di lavoro. Il
lavoro
dipendente
ordinario,
a
tempo
indeterminato, è la tipologia principale (art. 36 D.Lgs. 165/2001) ed è accessibile mediante selezione pubblica con successiva stipula di un contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato. L’assunzione può avvenire con rapporto di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale. In quest’ultimo caso, il contratto individuale indica anche l’articolazione dell’orario di lavoro assegnato, nell’ambito delle tipologie possibili. Il lavoro flessibile è un sottotipo di lavoro dipendente, con particolarità connesse al tempo o alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, di cui le Pubbliche Amministrazioni
possono
avvalersi
per
esigenze
di
carattere esclusivamente temporaneo ed eccezionale, nelle forme contrattuali di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa (art. 36 D.Lgs. 165/2001, più volte modificato). Una delle ultime modifiche dell’art. 36 D.Lgs. 165/2001 è quella
operata
dal
D.Lgs.
75/2017.
Quest’ultimo,
nel
confermare che le Pubbliche Amministrazioni possono ricorrere
a
forme
contrattuali
flessibili
soltanto
per
comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale (sempre nel rispetto delle modalità
di
reclutamento
stabilite
dall’art.
35
D.Lgs.
165/2001), specifica che le forme contrattuali flessibili a cui si può ricorrere sono il lavoro subordinato a tempo determinato (contratto a termine), la somministrazione di lavoro a tempo determinato (contratto di somministrazione) e le altre forme di lavoro previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l’applicazione nelle Amministrazioni pubbliche. Il D.Lgs. 75/2017 dispone, altresì, che il rapporto informativo
sulle
tipologie
di
lavoro
flessibile
utilizzate (che deve essere redatto annualmente dalle Amministrazioni sulla base di apposite istruzioni fornite con direttiva del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione)
sia
portato
a
conoscenza
delle
organizzazioni sindacali e contenga l’indicazione dei dati identificativi dei titolari del rapporto (nel rispetto della normativa vigente in tema di protezione dei dati personali). Inoltre, il medesimo rapporto deve essere trasmesso, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione e agli organismi indipendenti di valutazione (OIV), nonché alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica – che redige una relazione annuale al Parlamento.
Tutti i contratti di lavoro (non più solo quelli a tempo determinato) posti in essere in violazione dell’art. 36 D.Lgs. 165/2001 sono nulli. Nell’utilizzo Amministrazioni
del
lavoro
devono
flessibile,
rispettare
i
le
Pubbliche
principi
di
imparzialità e trasparenza e non possono ricorrere all’impiego del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio. Per
le
Istituzioni
e
gli
enti
di
ricerca
e
sperimentazione, il CCNL 2018 disciplina al Titolo IV tipologie flessibili di rapporto di lavoro: contratto di lavoro a tempo determinato. Gli Enti di ricerca
possono
stipulare
contratti
individuali
per
l’assunzione di personale a tempo determinato della durata massima di 36 mesi. I contratti di lavoro a tempo determinato che hanno ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere una durata pari a quella del progetto di ricerca al quale si riferiscono. Il numero massimo di contratti a tempo determinato e di contratti di somministrazione a tempo determinato stipulati da ciascun Ente complessivamente non può superare il tetto annuale del 20% del personale a tempo indeterminato in servizio al 1° gennaio dell’anno di assunzione, con arrotondamento dei decimali all’unità superiore qualora esso sia uguale o superiore a 0,5. Per le amministrazioni che occupano fino a 5 dipendenti è
sempre possibile la stipulazione di un contratto a tempo determinato; contratto
di
somministrazione
a
tempo
determinato. Gli Enti possono stipulare contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, secondo la disciplina degli articoli 30 e seguenti del D.Lgs. n. 81/2015,
per
soddisfare
esigenze
temporanee
o
eccezionali, ai sensi dell’art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001. Anche per tali contratti vale il limite di cui all’art. 83 (massimo 20 per cento del personale a tempo indeterminato in servizio al 1° gennaio dell’anno di assunzione). Il ricorso al lavoro somministrato non è consentito per il personale che esercita attività di vigilanza nonché per i profili dell’VIII livello. Il lavoro autonomo si sostanzia, invece, nell’attribuzione di incarichi individuali ad alto contenuto di professionalità, a norma dell’art. 7, co. 6, D.Lgs. 165/2001 (e, per gli enti locali, dell’art. 110, co. 6, D.Lgs. 267/2000). Tali incarichi sono conferiti
dalle
Amministrazioni
a
esperti
di
«provata
esperienza» per esigenze cui le stesse «non possono far fronte con personale in servizio», per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione.
1.5 Inquadramento del personale 1.5.1 Il sistema di classificazione del personale negli enti di ricerca e sperimentazione Il personale assunto è inquadrato nel sistema di classificazione
professionale
in
funzione
delle
esigenze
dell’Amministrazione, secondo quanto indicato nel bando di concorso che ha indetto la procedura selettiva. Per
quanto
riguarda
sperimentazione,
il
gli
sistema
enti di
di
ricerca
e
classificazione
professionale vigente è costituito dal D.P.R. 12 febbraio 1991, n. 171. L’art. 69 del CCNL 2018 del comparto Istruzione e ricerca affida ad una apposita Commissione paritetica presso l’ARAN la revisione del sistema di classificazione professionale. Per quanto concerne i ricercatori e tecnologi, la revisione dovrà tenere conto delle funzioni e compiti definiti nelle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 218 del 2016 e dei principi contenuti nella Carta Europea del Ricercatore e nella Raccomandazione della Commissione Europea dell’11 marzo 2005 riguardante la Carta Europea dei ricercatori e il Codice di Condotta per l’Assunzione dei Ricercatori (2005/251/CE), nonché di quanto contenuto nel documento European Framework for Research Careers.
1.5.2 Le progressioni orizzontali e verticali Il
dipendente
assunto
con
determinato
un
profilo
professionale può maturare nel corso del tempo modifiche retributive e funzionali attraverso gli istituti della: progressione orizzontale (o economica), con la quale si opera il passaggio da una posizione economica iniziale ad un’altra superiore, restando il lavoratore sempre all’interno di una stessa categoria.
Secondo le indicazioni dell’art. 52, co. 1-bis, D.Lgs. 165/2001, le progressioni orizzontali sono gestite dalla stessa Amministrazione e avvengono secondo principi di selettività,
in
funzione
delle
qualità
culturali
e
professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito; progressione verticale (o di carriera), quando il passaggio avviene fra categorie diverse. Le progressioni verticali avvengono per
concorso
pubblico, ferma restando la possibilità per l’Amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno 3 anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell’attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area superiore.
1.5.3 Le posizioni organizzative La posizione organizzativa è un ruolo che prevede lo svolgimento dì funzioni di direzione, con elevato grado di autonomia gestionale, di unità operative caratterizzate da rilevante complessità organizzativa in ragione delle risorse umane
e
strumentali
intermedie
fra
il
assegnate; dirigente
si e
tratta la
di
figure
struttura
di
riferimento (per molti aspetti assimilabile al ruolo del vicedirigente), cui poter delegare funzioni dirigenziali che comprendono il potere di impegnare l’ente verso l’esterno.
Capitolo 2 Diritti, doveri e mobilità dei dipendenti 2.1 Lo svolgimento del rapporto di lavoro 2.1.1 I diritti patrimoniali dei dipendenti Il principale diritto di natura patrimoniale del lavoratore è la retribuzione, cioè a dire il corrispettivo riconosciuto a fronte dell’attività svolta. Il termine ha un’accezione più ampia di quella di stipendio, in quanto la retribuzione è composta
da
un
complesso
di
voci:
il
trattamento
fondamentale, comprensivo degli emolumenti a carattere fisso e continuativo corrisposti mensilmente, e il trattamento accessorio, costituito da emolumenti occasionali ed eventuali, che possono essere corrisposti anche periodicamente. Il trattamento economico dei lavoratori è definito, fatte salve talune eccezioni, dai contratti collettivi (art. 45, co. 1, D.Lgs. 165/2001).
2.1.2 I diritti non patrimoniali dei dipendenti Il diritto allo svolgimento delle mansioni proprie
Il lavoratore può normalmente essere adibito solo alle mansioni per le quali è stato assunto o considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi. L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto
ai
fini
dell’inquadramento
del
lavoratore
o
dell’assegnazione di incarichi di direzione (art. 52 D.Lgs. 165/2001). Il conferimento delle mansioni superiori avviene per obiettive esigenze di servizio nei seguenti casi: vacanza di posto in organico, per non più di 6 mesi, prorogabili fino a 12 qualora siano state avviate le procedure per la copertura del posto vacante; sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza. Il conferimento delle mansioni superiori, anche attraverso rotazione fra più dipendenti, è disposto dal dirigente o, per gli enti privi di dirigenza, dal responsabile del servizio. Il dipendente assegnato alle mansioni superiori ha diritto alla differenza fra il trattamento economico iniziale previsto per l’assunzione
nel
profilo
rivestito
e
quello
iniziale
corrispondente alle mansioni superiori di temporanea assegnazione, fermo rimanendo la posizione economica di appartenenza e quanto percepito a titolo di retribuzione individuale di anzianità, e fermo restando che non si applica
l’art. 2103 c.c. (che, con riferimento al settore privato, prevede l’automatico inquadramento nel profilo superiore ricoperto). In mancanza dei presupposti citati l’assegnazione è nulla e chi l’ha disposta con dolo o colpa grave risponde del conseguente maggior onere. La contrattazione collettiva e la legge prevedono, in certi casi, la possibilità di essere destinato a mansioni inferiori (demansionamento). Ciò accade, ad esempio, per i lavoratori riconosciuti non idonei in via permanente allo svolgimento delle mansioni del proprio profilo professionale, o per coloro che, previo consenso, sono collocati in mobilità. Si applicano le procedure previste dal D.P.R. 171/2011. L’art. 26, co. 3-bis, D.Lgs. 198/2006 (aggiunto dalla L. 205/2017) prevede il divieto di demansionamento, licenziamento,
trasferimento
o
sottoposizione
ad
altra
struttura, con effetti negativi sulle condizioni di lavoro, per le lavoratrici e i lavoratori che agiscano in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestie o molestie sessuali. È nullo il licenziamento ritorsivo o discriminatorio
del
soggetto
denunciante,
nonché
il
mutamento di mansioni e qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante. Queste tutele non sono garantite in caso sia accertata (anche con sentenza di primo grado) la responsabilità penale del denunciante per calunnia, diffamazione o infondatezza della denuncia. Qualora il lavoratore dimostri che la destinazione a mansioni inferiori possa causare la lesione del suo diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, o che si tratti di una modalità di manifestazione di un atteggiamento persecutorio messo sistematicamente in atto nei suoi confronti (cosiddetto mobbing), gli potrà essere riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti. Il diritto all’ufficio o al posto di lavoro Solo
alcune
categorie
di
dipendenti
pubblici
sono
inamovibili (es. magistrati, professori universitari); per tutte le altre il diritto all’ufficio o al posto di lavoro va inteso come interesse legittimo alla permanenza nel rapporto di lavoro, quindi la pretesa del lavoratore di non essere rimosso dall’impiego, se non nei casi e con le garanzie previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva. I diritti sindacali A tutte le Pubbliche Amministrazioni, indipendentemente dal numero dei dipendenti, si applica lo Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) e fra le sue norme anche quelle che assicurano il rispetto
della
libertà
(artt.
14-18)
e
dell’attività sindacale (artt. 19-27). Sono perciò riconosciuti i diritti di assemblea, di costituire organismi di rappresentanza unitaria del personale (RSU), ai cui componenti sono riconosciute le stesse garanzie previste per le organizzazioni sindacali. L’art. 7 e l’art. 68 del CCNL comparto Istruzione e Ricerca attribuiscono alle RSU la titolarità della contrattazione integrativa. Tra le cosiddetta prerogative sindacali, importanti sono i diritti di informazione, concertazione e consultazione,
anche con riferimento agli atti interni di organizzazione con riflessi sul rapporto di lavoro (mansioni, carichi di lavoro ecc.). Infine, sono consentiti distacchi (con conservazione della retribuzione per tutto il periodo di durata del mandato sindacale), aspettative (non retribuite) e permessi (retribuiti e non) sindacali. Il diritto alla salute e sicurezza nel luogo di lavoro Sul piano della tutela della salute e della sicurezza nel luogo di lavoro, la disciplina è la stessa per l’impiego privato e per quello pubblico, e fa parte della regolamentazione normativa del rapporto di lavoro recata da testi normativi ad hoc (attualmente il D.Lgs. 81/2008 recante il Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro). Il diritto al riposo Si tratta di un diritto che può essere esercitato sia individualmente che collettivamente mediante la fruizione di: ferie: in virtù dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2109 c.c., il lavoratore
ha
irrinunciabili.
diritto In
caso
a di
ferie
annuali
retribuite
distribuzione
dell’orario
settimanale di lavoro su 5 giorni, la durata delle ferie è di 28 giorni lavorativi; se l’orario di lavoro è distribuito su 6 giorni, la durata è di 32 giorni (art. 6 del CCNL Enti di ricerca del 21 febbraio 2002). Per i neo-assunti (e per i primi 3 anni di servizio) il periodo di ferie è, rispettivamente, di 26 e di 30 giorni lavorativi, a seconda che l’articolazione oraria sia su 5 o su 6 giorni. I dipendenti hanno diritto anche a 4 giornate di riposo, da fruire nell’anno solare, per le festività soppresse dalla L.
937/1977.
Le
ferie
si
riducono
proporzionalmente
all’orario di lavoro in caso di part-time verticale; festività: giorni festivi sono le domeniche (il giorno di riposo settimanale cade normalmente di domenica e non può essere inferiore a 24 ore) e gli altri giorni riconosciuti come tali dallo Stato a tutti gli effetti civili; permessi giornalieri retribuiti: concessi a richiesta del dipendente, anche cumulativamente, nell’anno solare per specifiche ipotesi; permessi orari: si tratta di permessi brevi accordati per esigenze di tipo personale, nei limiti della metà dell’orario giornaliero di lavoro e per un tetto massimo nell’arco di ciascun anno solare. Il diritto allo studio La disciplina è prevista dall’art. 10 L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) laddove si stabilisce che i lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici, possano usufruire di permessi o di particolari agevolazioni per la realizzazione del diritto allo studio. Possono godere di tali permessi tutti i lavoratori studenti iscritti e frequentanti regolari corsi di studio in scuole di istruzione
primaria,
secondaria
e
di
qualificazione
professionale, statali, parificate, legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali. La disposizione si applica anche a coloro che frequentano corsi di formazione professionale. Le ore di permesso concesse possono essere utilizzate esclusivamente per “frequentare” i suddetti corsi e non per la preparazione di eventuali esami. Il
datore di lavoro può richiedere idonea documentazione della partecipazione alle attività didattiche. La determinazione dell’ammontare delle ore a disposizione è rimessa alla contrattazione collettiva, ma la prassi è quella di prevedere un limite di 150 ore annue. Gli stessi lavoratori-studenti hanno diritto ad essere inseriti in turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami. Non sono obbligati a prestare lavoro straordinario o durante i riposi settimanali. Sono previsti anche permessi giornalieri per sostenere i singoli esami. Il diritto alle assenze Il dipendente ha diritto ad assentarsi dal lavoro in specifiche ipotesi: assenze per malattia: il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto alla conservazione del posto, purché la malattia non superi cumulativamente i 18 mesi nell’arco degli ultimi 3 anni (cosiddetto periodo di comporto), ricalcolati di giorno in giorno; in casi particolarmente gravi, tale periodo si può raddoppiare, senza retribuzione, previo accertamento da parte dell’ASL competente di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro. assenze per infortuni sul lavoro o per malattia dovuta a causa di servizio: in tal caso, il lavoratore ha diritto all’intera retribuzione, comprensiva del trattamento accessorio, oltre che alla conservazione del posto fino alla
guarigione clinica, certificata dall’ente istituzionalmente preposto; assenze collegate alla maternità: i contratti collettivi nazionali di lavoro fanno richiamo alla disciplina legislativa contenuta nel D.Lgs. 151/2001 (Testo unico sulla maternità e sulla paternità), per cui le lavoratrici madri (e quelle che abbiano adottato bambini od ottenuto in affidamento preadottivo) hanno diritto di astenersi dal lavoro. Spetta comunque l’intera retribuzione fissa mensile nonché tutte le voci del trattamento accessorio, fisse e ricorrenti. Il Testo unico prevede altri periodi di congedo e aspettativa che possono essere fruiti dal padre o da entrambi i genitori, con o senza diritto alla retribuzione oppure con diritto ad una retribuzione parziale; assenze per assistenza ai familiari: la legge riconosce 3 giorni di permesso mensile (continuativi o ripartiti, anche a frazioni di ore, ex art. 33 L. 104/1992) a chi assiste una persona (coniuge, parente o affine) con handicap in situazione di gravità, nonché un congedo non superiore a 2 anni, continuativi o frazionati, da fruire nell’arco dell’intera vita lavorativa, per gravi e documentati motivi riguardanti il lavoratore e la sua famiglia anagrafica. Il diritto a fruire dell’aspettativa L’aspettativa costituisce una causa di sospensione del rapporto di lavoro, che riprende regolarmente al termine del periodo di fruizione. Può essere concessa, a richiesta del dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per varie cause:
comprovati
motivi
personali
o
di
famiglia.
Compatibilmente con le esigenze organizzative o di servizio, può essere attribuito un periodo massimo, aspettativa per 12 mesi nell’arco di un triennio, da fruire anche in modo frazionato. È senza retribuzione e non concorre alla formazione dell’anzianità di servizio; per gravi e documentati motivi familiari. Si tratta di un’aspettativa che ha un fondamento diverso da quella in precedenza illustrata (in questo caso la disciplina è dettata dall’art. 4, co. 2, L. 53/2000), anche se i due periodi possono cumularsi. Può avere una durata massima non superiore a 2 anni durante il quale il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. I gravi motivi indicati dalla legge sono stati meglio specificati dal D.M. 278/2000; per cariche pubbliche elettive, per la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo o per volontariato ipotesi che trovano una specifica disciplina nelle leggi che le prevedono. La L. 56/2019, modificando l’art. 23-bis D.Lgs. 165/2001, ha
disposto
che
tutto
il
personale
delle
Pubbliche
Amministrazioni, e non solo quello dirigenziale come in precedenza previsto, è collocato in aspettativa senza assegni per lo svolgimento di attività presso soggetti e organismi, pubblici o privati. Tale personale non può, nei successivi 2 anni, ricoprire incarichi che comportino l’esercizio di determinate funzioni. Nel caso di svolgimento di attività
presso soggetti diversi dalle amministrazioni pubbliche, il periodo di collocamento in aspettativa, che non può superare i 5 anni, è rinnovabile una sola volta. Diritto all’integrazione nell’ambiente di lavoro Il D.Lgs. 75/2017 ha introdotto apposite misure a sostegno della
disabilità,
attraverso
l’istituzione
della
Consulta
nazionale per l’integrazione in ambiente di lavoro delle persone con disabilità e l’individuazione del responsabile dei relativi processi di inserimento, nominato dalle Pubbliche Amministrazioni che hanno più di 200 dipendenti.
2.1.3 Doveri dei dipendenti Disciplina generale Attualmente, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, in quanto privatizzato, è disciplinato dalle norme del codice civile dedicate al lavoro nell’impresa, che fra l’altro definiscono la diligenza richiesta al lavoratore nell’esecuzione della prestazione lavorativa (art. 2104 c.c.), individuano in capo al dipendente un obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.) e contemplano la possibilità per il datore di lavoro di applicare sanzioni disciplinari per l’inosservanza delle disposizioni contenute nei precedenti articoli (art. 2106 c.c.). Trattandosi, inoltre, del contenuto del rapporto di lavoro, la materia
dei
doveri
del
dipendente
rientra
nella
regolamentazione recata dalla contrattazione collettiva, le cui previsioni possono essere distinte in due tipologie:
doveri che si ispirano a principi di stampo pubblicistico, quali il principio del servizio esclusivo alla nazione (art. 98 Cost.), i principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), il principio di democraticità (art. 1 Cost.); doveri che si collegano a prescrizioni di stampo privatistico riconducibili alle norme del codice civile sopra enunciate. I principali doveri del lavoratore sono: la
fedeltà,
che
implica
l’obbligo
di
astenersi
da
comportamenti pregiudizievoli all’Amministrazione di appartenenza; la diligenza, che implica l’obbligo di agire sempre con esattezza attenzione; l’esclusività, che implica il divieto di assumere impieghi alle dipendenze di privati e di esercitare attività incompatibili con il rapporto di pubblico impiego; l’imparzialità e la collaborazione nei confronti della pubblica utenza; l’adeguatezza della condotta al decoro della funzione esercitata; il segreto d’ufficio; l’obbedienza, che implica l’obbligo di rispettare le direttive e gli ordini impartiti dai superiori gerarchici. Prescrizioni di maggior dettaglio sono poi contenute nei codici di comportamento e in altre disposizioni normative, come in materia di sicurezza sul lavoro nonché nelle carte dei
servizi. Sull’applicazione dei codici sono chiamati a vigilare i dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici di disciplina, ferme restando, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, le attività di verifica annuale dello stato di applicazione e l’organizzazione di attività di formazione del personale per la conoscenza e la corretta applicazione dei codici. Il
Codice
di
comportamento
dei
dipendenti
pubblici Con D.P.R. 16-4-2013, n. 62, è stato adottato il «Codice di comportamento dei dipendenti pubblici» a norma dell’art. 54 D.Lgs. 165/2001. Il
provvedimento
definisce
i
doveri
minimi
di
diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti a osservare. Le sue previsioni sono integrate e specificate dai codici di comportamento adottati dalle singole Amministrazioni. Secondo l’art. 3, il dipendente è tenuto ad osservare la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina e onore e conformando la propria condotta ai principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. Egli svolge i propri compiti nel rispetto della legge, perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare; rispetta altresì i principi di integrità, correttezza,
buona
fede,
proporzionalità,
obiettività,
trasparenza, equità e ragionevolezza e agisce in posizione di indipendenza e imparzialità, astenendosi in caso di conflitto di interessi.
Si astiene, inoltre, dall’usare a fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni di ufficio e si adopera al fine di evitare situazioni e comportamenti che possano ostacolare il corretto adempimento dei compiti o nuocere agli interessi o all’immagine della Pubblica Amministrazione. Prerogative e poteri pubblici sono esercitati unicamente per le finalità di interesse generale per le quali sono stati conferiti. Gli obblighi di condotta si estendono, per quanto possibile, a tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche, nonché nei confronti dei collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’Amministrazione (art. 2). La violazione dei doveri contenuti nel Codice è fonte di responsabilità disciplinare. La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogni volta che le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate comportano il licenziamento disciplinare. Il licenziamento viene invece intimato senza preavviso: nelle ipotesi considerate nell’art. 55-quater, co. 1, lett. a), d), e) ed f) D.Lgs. 165/2001; in caso di commissione di gravi fatti illeciti di rilevanza penale, ivi compresi quelli che possono dare luogo alla sospensione cautelare, secondo la disciplina dell’art. 61, fatto salvo quanto previsto dall’art. 62;
in ipotesi di condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità; qualora vengano posti in essere, anche nei confronti di terzi, fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; in ipotesi di condanna, anche non passata in giudicato: per i delitti di cui all’art.7, co. 1, e 8, co. 1, D.Lgs. 235/2012; quando
alla
condanna
consegua
comunque
l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; per i delitti previsti dall’art. 3, co. 1, L. 27 marzo 2001, n. 97; per gravi delitti commessi in servizio; in caso di violazioni intenzionali degli obblighi, non ricomprese specificatamente nelle lettere precedenti, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Infine, l’ultimo comma dell’art. 59 prevede che qualora siano poste in essere ulteriori mancanze non espressamente previste dal legislatore, queste sono egualmente sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, in relazione, per quel che riguarda l’individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 57, e per quel che concerne il tipo e la
misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti. Gli obblighi del dipendente nel CCNL comparto Istruzione e ricerca L’art. 11 del CCNL 2018 elenca nel dettaglio gli obblighi cui è assoggettato il dipendente del comparto. Egli deve conformare la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, anteponendo il rispetto della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri e altrui. Deve, inoltre, adeguare il proprio comportamento ai principi riguardanti il rapporto di lavoro, contenuti nel Codice di comportamento nazionale e valido per tutti i dipendenti pubblici (il già citato D.P.R. 62/2013), nonché nel codice di comportamento adottato da ciascuna Amministrazione. Deve comportarsi in modo tale da favorire l’instaurazione di rapporti di fiducia e collaborazione fra l’ente e i cittadini. A titolo esemplificativo, il dipendente deve rispettare l’orario di lavoro, adempiere alle formalità previste per la rilevazione della presenza e non assentarsi dal luogo di lavoro senza l’autorizzazione del dirigente. La L. 56/2019 (legge concretezza) ai fini della corretta osservanza dell’orario di lavoro e come misura di contrasto all’assenteismo, ha previsto l’adozione di sistemi di verifica biometrica dell’identità e di videosorveglianza degli accessi, previo parere del Garante per la protezione dei dati personali sulle modalità di trattamento dei dati biometrici.
La tutela del dipendente che segnala reati o irregolarità (whistleblower) Con la L. 190/2012 è stato introdotto nel Testo unico sul pubblico impiego l’art. 54-bis che tutela i dipendenti autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro. L’iniziale disciplina riguardava solo il settore pubblico, ma la L. 179/2017 l’ha estesa anche al settore privato. L’istituto
–
detto
whistleblowing
–
proprio
degli
ordinamenti anglosassoni, mira a favorire l’emersione della fattispecie di illecito nella Pubblica Amministrazione. Secondo quanto stabilito dal citato articolo, il dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) o riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro (cosiddetto whistleblowing), non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Qualora, in violazione di tale divieto, il segnalante sia fatto oggetto di misure ritenute ritorsive, queste possono essere comunicate
all’ANAC
organizzazioni
dallo
sindacali
stesso
interessato
maggiormente
o
dalle
rappresentative
nell’Amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC,
ricevuta
la
comunicazione,
informa
il
Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del
Consiglio dei Ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza. Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso,
sempre
che
la
contestazione
dell’addebito
disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato. La denuncia è sottratta al diritto di accesso ai documenti previsto dagli artt. 22 ss. L. 241/1990.
2.1.4 Le responsabilità La disciplina normativa, i contratti collettivi (in particolare le norme ed i codici disciplinari ivi contenute), le carte
dei
servizi,
i
codici
di
comportamento,
compongono il corpo normativo che contiene sia prescrizioni comportamentali, sia indicazioni procedurali, sia tipizzazioni di sanzioni. Il
fondamento
dipendenti
pubblici
normativo risiede
della nella
responsabilità Costituzione
dei della
Repubblica, in particolare nell’art. 28, secondo il quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici «sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti» (e
ormai anche interessi legittimi). In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. La responsabilità del lavoratore pubblico, pertanto, può essere – alternativamente o cumulativamente – civile, penale, amministrativa, disciplinare. Le responsabilità amministrativa e disciplinare riguardano il rapporto fra il lavoratore e il proprio datore di lavoro pubblico. Le altre forme di responsabilità, invece, presentano
connotazioni
diverse
In
particolare,
la
responsabilità civile può configurarsi come responsabilità da atto lecito o da atto illecito, cui consegue l’obbligo del risarcimento del danno a beneficio del soggetto che viene danneggiato. L’azione del lavoratore può poi recare un danno al patrimonio materiale o virtuale (danaro) dell’ente presso cui lavora, per cui si tratterà di responsabilità contabile, sicché in tal caso la giurisdizione sarà di spettanza non del giudice ordinario ma di quello contabile. Di competenza del giudice amministrativo o di quello ordinario è invece la materia disciplinare. Responsabilità penale Il codice penale (articoli da 314 a 335-bis) disciplina i delitti
dei
pubblici
Amministrazione,
ufficiali
ovvero
le
contro varie
la
Pubblica
tipologie
di
comportamenti criminosi di cui possono essere autori gli appartenenti all’Amministrazione e che si qualificano come reati cossiddetti propri (perché i loro autori sono in possesso di uno specifico status).
Si tratta di reati per lo più dolosi e il danno da essi provocato si dirige sia nei confronti dell’utenza di volta in volta interessata sia nei riguardi dell’Amministrazione, dal punto di vista del servizio e anche sotto l’aspetto dell’immagine (compromessa) dell’ente. Responsabilità disciplinare Con l’assunzione della prestazione lavorativa, i lavoratori pubblici dipendenti assumono l’obbligo di prestare la propria attività a favore della Pubblica Amministrazione. La responsabilità disciplinare è quella specifica forma di responsabilità – aggiuntiva rispetto a quella penale, civile, amministrativo-contabile e dirigenziale – in cui incorre il lavoratore (pubblico o privato) che con dolo o colpa non osservi obblighi contrattualmente assunti, fissati nel CCNL e recepiti nel contratto individuale. L’accertamento di tale responsabilità implica l’applicazione, da parte del datore di lavoro, di sanzioni che a seconda della gravità del fatto accertato sono di tipo conservativo (richiamo, multa, sospensione dal servizio e dalla retribuzione) oppure espulsivo (licenziamento con o senza preavviso). Responsabilità dirigenziale Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione della dirigenza ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale.
In relazione alla gravità dei casi, l’Amministrazione può inoltre – previa contestazione e nel rispetto del contraddittorio – revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli dirigenziali istituiti presso ciascuna Amministrazione, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo. Responsabilità amministrativo-contabile È la responsabilità che attiene ai danni direttamente o indirettamente cagionati dal dipendente pubblico all’ente
di
appartenenza, nell’espletamento
delle
proprie funzioni, e trae origine dalla violazione dolosa o gravemente colposa degli obblighi di servizio. Dal lato soggettivo, la responsabilità amministrativa interessa impiegati, funzionari, dirigenti, concessionari di servizi pubblici, nonché membri del governo. Dal lato oggettivo, essa riguarda ogni danno arrecato al patrimonio e alle finanze pubbliche. Dal momento che il presupposto della responsabilità amministrativa è il rapporto interno di natura patrimoniale, concernente
il
rapporto
di
servizio,
essa
ha
natura
contrattuale, e la relativa azione è del tutto autonoma rispetto a quella civile del danno, che ha carattere extracontrattuale. Il giudice competente a conoscere della responsabilità amministrativa e della relativa obbligazione risarcitoria nei confronti dello Stato è la Corte dei conti. Responsabilità civile verso terzi Nello svolgimento della propria attività istituzionale, la P.A. entra in contatto con cittadini-utenti, nei confronti dei quali
assume degli obblighi che possono comportare l’insorgere di profili di responsabilità. Al riguardo, tuttavia, occorre ricordare che la P.A. opera attraverso i propri dipendenti, per cui in virtù del rapporto di immedesimazione organica il lavoratore che arrechi un danno a terzi ne risponderà in via diretta,
anche
se
dal
punto
di
vista
procedurale
l’Amministrazione è legata al proprio dipendente da un vincolo di solidarietà passiva.
2.2 Mutamenti nel rapporto di lavoro 2.2.1 Nozione di mobilità Il rapporto di lavoro del dipendente pubblico può subire delle
modifiche
che
determinano
il
passaggio
ad
un’Amministrazione diversa da quella di iniziale appartenenza. Si parla in questi casi di mobilità (esterna), da intendersi come
trasferimento
del
lavoratore
da
un’Amministrazione all’altra, ciò che comporta un cambiamento del datore di lavoro di riferimento (sempre nell’ambito della P.A.). Non rappresenta, invece, una vera e propria procedura di mobilità il trasferimento del dipendente nell’ambito della stessa Amministrazione; solo impropriamente, in questi, casi, si parla di mobilità interna dal momento che non v’è mutamento del datore di lavoro di riferimento ma solo uno spostamento della sede di lavoro. Si utilizza, poi, l’espressione mobilità intercompartimentale quando
il
trasferimento
avviene
fra
Amministrazioni
appartenenti allo stesso comparto, mentre la mobilità extracompartimentale si ha quando le Amministrazioni appartengono a due comparti differenti. Di maggiore rilevanza è la distinzione fra mobilità temporanea e permanente. Nella prima ipotesi il
dipendente
è
assegnato
provvisoriamente
ad
altra
Amministrazione, ma il suo rapporto di lavoro continua con l’istituzione di provenienza. Si tratta generalmente di una modifica di breve periodo e viene effettuata utilizzando gli istituti del comando, del distacco o del collocamento fuori ruolo (vedi più avanti). La seconda ipotesi, invece, prevede il trasferimento permanente del lavoratore nei ruoli di una diversa Amministrazione. In questo ambito è possibile operare la fondamentale distinzione fra: mobilità volontaria (o individuale), indicata anche come passaggio diretto di personale fra Amministrazioni diverse. La disciplina è riportata nell’art. 30 D.Lgs. 165/2001 e si caratterizza per la presenza di una specifica richiesta del dipendente che, di sua spontanea volontà, chiede
di
essere
trasferito
presso
un’altra
Amministrazione. Il trasferimento può anche realizzarsi sotto forma di mobilità compensativa o di interscambio quando due dipendenti di Amministrazioni diverse chiedono contestualmente di scambiarsi il proprio posto di lavoro; mobilità obbligatoria, che può essere collettiva (o per ricollocazione) oppure individuale. Sono accomunate dal fatto di prevedere il trasferimento del dipendente attraverso un atto unilaterale dell’Amministrazione, nel primo caso in seguito ad una procedura che individua lavoratori in soprannumero o in eccedenza (art. 33, D.Lgs. 165/2001).
2.2.2 La mobilità volontaria (o individuale) La procedura di mobilità volontaria è disciplinata dall’art. 30 D.Lgs. 165/2001. Il citato articolo prevede che le Amministrazioni possano ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti da altre Amministrazioni, purché appartenenti ad una qualifica corrispondente e pienamente in servizio. Requisiti essenziali affinché si realizzi tale passaggio è che il dipendente presenti domanda
di
trasferimento
e
vi
sia
l’assenso
dell’Amministrazione di appartenenza. Le Amministrazioni che intendono assumere il personale devono fissare preventivamente i requisiti e le competenze professionali richieste. Successivamente devono pubblicare sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno a 30 giorni, un bando in cui sono indicati i posti che intendono ricoprire attraverso passaggio diretto di personale di altre Amministrazioni. Una disciplina specifica è prevista per le dipendenti vittime di violenza di genere, inserite in specifici percorsi di protezione, debitamente certificati dai servizi sociali del Comune di residenza. In questi casi, le lavoratrici interessate possono presentare domanda di trasferimento ad altra Amministrazione pubblica ubicata in un Comune diverso da quello di residenza, previa comunicazione all’Amministrazione di appartenenza. Entro 15 giorni dalla suddetta comunicazione l’Amministrazione di appartenenza dispone il trasferimento presso l’Amministrazione indicata dalla dipendente, ove vi
siano
posti
vacanti
corrispondenti
alla
sua
qualifica
professionale. Accanto alla procedura del passaggio diretto, un’altra modalità di trasferimento volontario è quella della mobilità di compensazione o di interscambio. L’art. 7 D.P.C.M. 58-1988, n. 325, afferma che «è consentita in ogni momento … la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa od altre Amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo nulla osta dell’Amministrazione
di
provenienza
e
di
quella
di
destinazione». Per poter avviare la procedura è il singolo dipendente che deve attivarsi per trovare un collega disposto a “scambiare” il posto di lavoro. Superata questa prima fase entrambi dovranno presentare domanda alla propria Amministrazione e a quella del collega al fine di ricevere i rispettivi nulla osta, ottenuti i quali si può procedere al trasferimento dei lavoratori interessati.
2.2.3 La mobilità obbligatoria (individuale o collettiva) L’art. 30, co. 2 D.Lgs. 165/2001 (nel testo modificato dal D.L.
90/2014)
disciplina
la
mobilità
obbligatoria
individuale. Il provvedimento afferma che i dipendenti possono
essere
trasferiti
all’interno
della
stessa
Amministrazione o, previo accordo fra le Amministrazioni interessate, in altra Amministrazione, in sedi collocate nel
territorio dello stesso Comune ovvero a distanza non superiore a 50 chilometri dalla sede cui sono adibiti. Il trasferimento può essere
operato
indipendentemente
dalla
volontà
del
lavoratore interessato e a prescindere dall’esistenza o meno di dichiarazioni di eccedenza di personale. A rafforzare l’unilateralità della decisione concorre il secondo periodo dell’art. 30, co. 2, ove si afferma che “non si applica il terzo periodo del primo comma dell’articolo 2103 del codice civile” vale a dire che non sono necessarie “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per poter trasferire un lavoratore (si fa riferimento al testo codicistico vigente prima delle modifiche del D.Lgs. 81/2015; attualmente la disposizione è riportata al comma 8 dell’art. 2103 c.c.). Una limitazione è, invece, prevista dall’ultimo periodo del comma laddove stabilisce che le disposizioni in materia di mobilità obbligatoria possano applicarsi solo con il consenso dei dipendenti nel caso in cui questi ultimi abbiano figli di età inferiore a 3 anni, che hanno diritto al congedo parentale o a giorni di permesso mensile per assistere familiari disabili in situazione di gravità. La preventiva dichiarazione di eccedenza di personale è, invece, una condizione essenziale per avviare procedure di mobilità collettiva (o per ricollocazione), disciplinate dagli artt. 33 e 34. Il primo passaggio è quello di effettuare annualmente una ricognizione del personale a disposizione e individuare eventuali situazioni di soprannumero o di eccedenze. Dopo aver
informato
le
rappresentanze
del
personale
e
le
organizzazioni sindacali, il dirigente può porre in essere tutte le attività volte a ridurre il numero di dipendenti in esubero (accordi di prepensionamento, ricorso a forme flessibili di lavoro o contratti di solidarietà, ricollocazione presso la stessa o
altre
Amministrazioni).
Trascorsi
90
giorni
dalla
comunicazione ai sindacati, e dopo aver espletato le attività volte alla ricollocazione, i dipendenti possono essere collocati “in disponibilità”; ciò implica la sospensione di tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro con il diritto del lavoratore a percepire un’indennità pari all’80 per cento dello stipendio per la durata massima di 24 mesi (48 mesi laddove il personale collocato in disponibilità maturi entro il predetto arco temporale i requisiti per il trattamento pensionistico: art. 2, co. 12, D.L. 95/2012). Il personale in disponibilità confluisce in appositi elenchi dai quali le Amministrazioni che devono procedere ad assunzioni possono (e in alcuni casi devono) attingere.
2.2.4 L’equiparazione dei livelli di inquadramento Le maggiori difficoltà che si riscontrano nell’attivazione delle
procedure
di
mobilità,
in
particolare
in
quella
extracompartimentale, è il diverso livello di inquadramento del personale, che rende difficilmente comparabili le varie posizioni lavorative. Per superare tale ostacolo l’art. 29-bis del D.Lgs. 165/2001 prevede che sia approvato uno specifico decreto del Presidente Consiglio dei Ministri riportante una tabella di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti
dai
contratti
collettivi
relativi
ai
diversi
comparti
di
contrattazione. Il provvedimento attuativo di tale disposizione è il D.P.C.M. 26 giugno 2015.
2.2.5 Il comando, il distacco e il collocamento fuori ruolo Di carattere temporaneo, invece, sono le modificazioni che intervengono in seguito a comando o distacco. Si configura, infatti, l’ipotesi di distacco di personale quando un datore di lavoro, per soddisfare (anche o soltanto) un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. Qualora, invece, il lavoratore sia assegnato ad altro ente o Amministrazione sulla base di un interesse proprio del soggetto ricevente, si deve parlare di comando. In entrambi i casi, però, si tratta di un uno spostamento non definitivo. Il collocamento fuori ruolo comporta la destinazione del dipendente pubblico a un’Amministrazione o a un ente diverso da quello di appartenenza, presso il quale egli è chiamato a svolgere temporaneamente la sua prestazione.
Capitolo 3 Il sistema di gestione delle performance 3.1 Il Sistema di misurazione e di valutazione Il Sistema di misurazione introdotto dal D.Lgs. 150/2009 (il decreto Brunetta, rivisitato dal D.Lgs. 74/2017) è concepito quale sistema di valutazione della prestazione, indirizzato al miglioramento della qualità dei servizi offerti dalle Pubbliche Amministrazioni, da raggiungere attraverso la crescita delle competenze professionali, la valorizzazione del merito e l’erogazione dei premi per i risultati perseguiti dai singoli e dalle unità organizzative (il tutto nella massima trasparenza delle informazioni). A tale fine le Amministrazioni, ogni anno, devono adottare e aggiornare, previo parere vincolante dell’Organismo indipendente di valutazione (OIV), il Sistema di misurazione e valutazione della performance (art. 7 D.Lgs. 150/2009). In particolare, il Sistema ha il compito di individuare le fasi, i tempi, le modalità, i soggetti e le responsabilità del processo di misurazione e valutazione, e costituisce la base per le procedure di conciliazione, le modalità di
raccordo e di integrazione con i sistemi di controllo esistenti e i documenti di programmazione finanziaria e di bilancio. Il rispetto delle disposizioni relative alla misurazione, valutazione e trasparenza della performance costituiscono condizione necessaria (ai sensi dell’art. 3, co. 5, D.Lgs. 150/2009) ai fini dell’erogazione di premi e componenti del trattamento retributivo legati alla performance e rileva ai fini del
riconoscimento
delle
progressioni
economiche,
dell’attribuzione di incarichi di responsabilità al personale, nonché del conferimento degli incarichi dirigenziali. La valutazione negativa rileva ai fini dell’accertamento della responsabilità dirigenziale e ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare ai sensi dell’art. 55-quater D.Lgs. 165/2001.
3.2 Le strutture e i soggetti coinvolti 3.2.1 Quadro d’insieme Nel
processo
di
misurazione
e
valutazione
della
performance, i soggetti che provvedono alle varie fasi del ciclo di gestione sono quelli individuati dall’art. 12 D.Lgs. 150/2009: gli Organismi indipendenti di valutazione della performance (di seguito OIV), cui spetta la misurazione e valutazione della performance organizzativa e la proposta annuale di valutazione dei dirigenti di vertice. Gli OIV, di cui ogni Amministrazione, singolarmente o in forma associata, si deve dotare, hanno sostituito i servizi di controllo interno, comunque denominati, istituiti sulla base della precedente normativa, e sono disciplinati dall’art. 14 D.Lgs. 150/2009; un organismo centrale (attualmente il Dipartimento per la funzione pubblica - DFP) che ha il compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere l’esercizio delle funzioni degli OIV, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione e di assicurare la comparabilità degli indici di andamento gestionale (art. 13 D.Lgs. 150/2009). l’ organo di indirizzo politico-amministrativo di ciascuna Amministrazione, che emana le direttive generali
contenenti
gli
indirizzi
strategici
e
ne
verifica
il
conseguimento effettivo; i dirigenti di ciascuna Amministrazione, che effettuano la valutazione del personale assegnato ai loro uffici, ai fini del riconoscimento dei benefici previsti dalla contrattazione collettiva (artt. 16 e 17, comma 1, lettera ebis), D.Lgs. 165/2001). Ai sensi dell’art. 19-bis D.Lgs. 150/009 (introdotto dal D.Lgs. 74/2017) è previsto che i cittadini, anche in forma associata, partecipino al processo di misurazione delle performance organizzative, con la possibilità di comunicare direttamente all’OIV il proprio grado di soddisfazione per le attività e i servizi erogati, secondo le modalità stabilite dallo stesso
organismo.
A
tale
fine,
è
necessario
che
le
Amministrazioni adottino sistemi di rilevazione del grado di soddisfazione degli utenti e dei cittadini, favorendo forme di partecipazione. Anche gli utenti interni alle Amministrazioni (dunque, in primo luogo, i dipendenti) partecipano al processo di misurazione delle performance organizzative in relazione ai servizi strumentali e di supporto, secondo le modalità individuate dall’OIV. Va assicurata la pubblicazione dei risultati della rilevazione del grado di soddisfazione dei soggetti, con cadenza annuale, sul sito dell’Amministrazione e l’OIV deve tenere conto di tali rilievi ai fini della validazione della Relazione sulla performance.
3.2.2 Gli organismi indipendenti di valutazione (OIV) La
valutazione
assicurata,
in
indipendente
ogni
della
performance
Amministrazione,
è
dall’organismo
indipendente di valutazione (OIV) previsto dall’art. 14 D.Lgs. 150/2009. Ai sensi di questa norma, l’OIV: monitora il funzionamento complessivo del sistema della valutazione, della trasparenza e dell’integrità dei controlli interni ed elabora una relazione annuale sullo stato dello stesso, anche formulando proposte e raccomandazioni ai vertici amministrativi; comunica tempestivamente le criticità riscontrate ai competenti organi interni di governo ed amministrazione, nonché alla Corte dei conti e al Dipartimento della funzione pubblica; valida la Relazione sulla performance, a condizione che la stessa sia redatta in forma sintetica, chiara e di immediata comprensione ai cittadini e agli altri utenti finali e ne assicura la visibilità attraverso la pubblicazione sul sito istituzionale dell’Amministrazione; garantisce la correttezza dei processi di misurazione e valutazione nonché dell’utilizzo dei premi nel rispetto del principio
di
valorizzazione
del
merito
e
della
professionalità; propone all’organo di indirizzo politico-amministrativo, la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e la loro
premiazione; è responsabile della corretta applicazione delle linee guida, delle metodologie e degli strumenti predisposti dal DFP; promuove e attesta l’assolvimento degli obblighi di trasparenza e integrità; verifica i risultati e le buone pratiche di promozione delle pari opportunità.
3.2.3 Le funzioni del Dipartimento della funzione pubblica (DFP) Il D.P.R. 105/2016, in attuazione di quanto previsto dall’art. 19 D.L. 90/2014, ha trasferito al Dipartimento della funzione
pubblica
le
funzioni
di
promozione
e
coordinamento delle attività di valutazione e misurazione della
performance
(già
assegnate
a
CIVIT-ANAC)
in
conformità ai seguenti nuovi criteri: ridurre gli oneri informativi a carico delle Pubbliche Amministrazioni; introdurre progressivamente elementi di valutazione anche su di un orizzonte pluriennale e promuovere il progressivo avvicinamento dei sistemi di misurazione per Amministrazioni operanti nei medesimi settori; differenziare i requisiti relativi al ciclo della performance in ragione della dimensione, del tipo di Amministrazione e della natura delle attività delle diverse Amministrazioni ed introdurre regimi semplificati;
migliorare il raccordo tra il ciclo della performance e il sistema dei controlli interni e gli indirizzi espressi dall’ANAC in materia di trasparenza e prevenzione della corruzione; promuovere l’integrazione fra ciclo della performance e ciclo della programmazione economico-finanziaria. A tal fine il DFP assicura il raccordo con il Ministero dell’Economia e della Finanze per l’allineamento delle indicazioni
metodologiche
in
tema
di
ciclo
della
performance con quelle relative alla predisposizione dei documenti
di
programmazione
economico-finanziaria.
e
rendicontazione
3.3 Il ciclo della performance Secondo quanto prescritto all’art. 4 D.Lgs. 150/2009 le Pubbliche Amministrazioni devono sviluppare, in maniera coerente con i contenuti e con il ciclo della programmazione finanziaria e del bilancio, un ciclo di gestione della performance, articolato nelle seguenti fasi: definizione
e
assegnazione
degli
obiettivi
che
si
intendono raggiungere, dei valori attesi di risultato e dei rispettivi indicatori, tenendo conto anche dei risultati conseguiti nell’anno precedente; collegamento tra gli obiettivi e l’allocazione delle risorse; monitoraggio in corso di esercizio e attivazione di eventuali interventi correttivi; misurazione
e
valutazione
della
performance,
organizzativa e individuale; utilizzo dei sistemi premianti, secondo criteri di valorizzazione del merito; rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai vertici delle Amministrazioni, nonché ai competenti organi di controllo interni ed esterni, ai cittadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi.
3.4 Gli obiettivi di performance Gli obiettivi di performance sono individuati dal legislatore in due categorie (art. 5, co. 1, D.Lgs. 150/2009): obiettivi strategiche
generali, delle
che
Pubbliche
identificano
le
priorità
Amministrazioni
sono
determinati con apposite linee guida, adottate su base triennale con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; obiettivi specifici di ogni P.A., individuati, in coerenza con la direttiva annuale art. 8 D.Lgs. 286/1999, nel Piano della performance. Gli obiettivi individuati dovranno essere: rilevanti e pertinenti rispetto ai bisogni della collettività, alla missione istituzionale, alle priorità politiche ed alle strategie dell’Amministrazione; specifici e misurabili in termini concreti e chiari; tali da determinare un significativo miglioramento della qualità dei servizi erogati e degli interventi; riferibili ad un arco temporale determinato, di norma corrispondente ad un anno; commisurati ai valori di riferimento derivanti da standard definiti a livello nazionale e internazionale, nonché da comparazioni con Amministrazioni omologhe;
confrontabili
con
le
tendenze
della
produttività
dell’Amministrazione con riferimento, ove possibile, almeno al triennio precedente; correlati alla quantità e alla qualità delle risorse disponibili.
3.5 Il Piano triennale della performance e la Relazione annuale Al fine di assicurare la qualità, comprensibilità ed attendibilità
dei
documenti
di
rappresentazione
della
performance, le Amministrazioni pubbliche: redigono annualmente, entro il 31 gennaio, un documento programmatico denominato Piano triennale della performance (PTP), che individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici ed operativi e definisce gli indicatori per la misurazione e la valutazione della performance dell’Amministrazione, nonché gli obiettivi individuali assegnati al personale dirigenziale e non ed i relativi indicatori. elaborano un documento, da adottare entro il 30 giugno, denominato evidenzia,
Relazione a
consuntivo,
sulla con
performance, riferimento
che
all’anno
precedente, i risultati organizzativi e individuali raggiunti rispetto ai singoli obiettivi programmati ed alle risorse, con rilevazione degli eventuali scostamenti, e il bilancio di genere realizzato. La relazione deve essere validata dall’OIV ed è condizione necessaria per l’utilizzo degli
strumenti posti a premiare il merito, ai sensi del Titolo III, D.Lgs. 150/2009.
3.6 Il trattamento accessorio collegato alla performance Il D.Lgs. 150/2009 ha provveduto ad articolare anche gli strumenti con i quali premiare il merito e la professionalità, attraverso il riconoscimento: del bonus annuale delle eccellenze, assegnato al personale; del premio annuale per l’innovazione (art. 22); delle progressioni economiche (art. 23); delle progressioni di carriera (art. 24); dell’attribuzione di incarichi e responsabilità (art. 25); di
un
accesso
privilegiato
a
percorsi
di
alta
formazione e di crescita professionale e a periodi di lavoro presso istituzioni pubbliche private, nazionali e internazionali (art. 26). È, inoltre, previsto il premio di efficienza. All’art. 29 D.Lgs. 150/2009 si afferma il carattere imperativo delle disposizioni del titolo III, che non sono derogabili dalla contrattazione collettiva e vengono inserite di diritto nei contratti.
Capitolo 4 Il sistema sanzionatorio e la cessazione del rapporto di lavoro 4.1 Le sanzioni disciplinari senza licenziamento 4.1.1 I criteri di determinazione delle sanzioni Le sanzioni vanno applicate nel rispetto del principio di gradualità e di proporzionalità, in relazione alla gravità dell’infrazione, al tipo e all’entità e tenendo conto dei seguenti criteri generali: intenzionalità del comportamento, grado di negligenza, imprudenza o imperizia dimostrate, tenuto conto anche della prevedibilità dell’evento; rilevanza degli obblighi violati; responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente; grado di danno o di pericolo causato all’Amministrazione, agli utenti o a terzi ovvero al disservizio determinatosi;
sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore, ai precedenti disciplinari nell’ambito del biennio previsto dalla legge, al comportamento verso gli utenti; concorso nella violazione di più lavoratori in accordo fra di loro.
4.1.2 Le sanzioni applicabili Le sanzioni disciplinari previste dal CCNL comparto Istruzione e ricerca sono indicate all’art. 12, secondo il quale le violazioni degli obblighi a carico dei dipendenti danno luogo, in ragione della gravità dell’infrazione, all’applicazione delle seguenti
sanzioni
disciplinari
(previo
procedimento
disciplinare): rimprovero verbale; rimprovero scritto (censura); multa di importo variabile fino ad un massimo di 4 ore di retribuzione. sospensione
dal
servizio
con
privazione
della
privazione
della
retribuzione fino a 10 giorni. sospensione
dal
servizio
con
retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi. licenziamento, con preavviso e senza preavviso. Il Testo unico sul pubblico impiego (D.Lgs. 165/2001), poi, prevede specifiche sanzioni nelle seguenti ipotesi:
sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 15 giorni nel caso di mancata collaborazione (rifiuto di fornire informazioni rilevanti o resa di dichiarazioni false o reticenti), senza un giustificato motivo, nell’ambito di un procedimento disciplinare da parte di dirigenti o dipendenti appartenenti alla stessa o a una diversa Amministrazione dell’incolpato (art. 55-bis, co. 7, D.Lgs. 165/2001); sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di 3 giorni fino ad un massimo di 3 mesi per violazione di obblighi concernenti
la
prestazione
determinato
la
condanna
lavorativa,
che
abbia
dell’Amministrazione
al
risarcimento del danno (art. 55-sexies, co. 1, D.Lgs. 165/2001); sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 3 mesi, per il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell’illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare (art. 55-sexies, co. 3, D.Lgs. 165/2001). Al dipendente responsabile di più mancanze compiute con unica azione od omissione o con più azioni od omissioni fra loro collegate ed accertate con un unico procedimento, è
applicabile la sanzione prevista per la mancanza più grave, se le infrazioni sono punite con sanzioni di diversa gravità.
4.1.3 Determinazione concordata della sanzione L’art. 17 CCNL Istruzione e Ricerca disciplina una procedura di tipo conciliativo (non obbligatoria) fra l’autorità disciplinare competente e il dipendente volta a concordare la sanzione disciplinare da applicare. Si tratta di una procedura che prevede diverse limitazioni: non è applicabile nelle ipotesi in cui la legge o il contratto collettivo prevedano il licenziamento, con o senza preavviso; può riguardare solo l’entità ma non può decidere di sostituire una tipologia di sanzione con una diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto collettivo (ad esempio una multa in luogo della privazione della retribuzione); l’accordo raggiunto non può essere impugnato.
4.2 La cessazione del rapporto di lavoro e il licenziamento 4.2.1 Cause generali di cessazione del rapporto di lavoro Per potersi parlare di cessazione del rapporto di lavoro del dipendente di un’Amministrazione si deve verificare uno dei seguenti eventi: raggiungimento del limite massimo di età lavorativa o contributiva; dimissioni, nel rispetto dei termini di preavviso prescritti; decesso; impossibilità di rinnovo dell’incarico dirigenziale per mancato raggiungimento degli obiettivi o per inosservanza imputabile delle direttive impartite; perdita della cittadinanza italiana o europea, laddove tale requisito sia essenziale; superamento del periodo di comporto previsto per le assenze per malattia; licenziamento disciplinare, con o senza preavviso; annullamento della procedura di reclutamento; dispensa dal servizio per inidoneità fisica e psichica; decadenza dall’impiego per mancata cessazione della situazione di incompatibilità fra obblighi di servizio e
attività svolte dal dipendente, nonostante la diffida effettuata dall’ente datore di lavoro; decadenza dall’impiego per superamento del periodo di 24 mesi di collocamento in disponibilità senza che sia stato possibile ricollocare altrimenti il lavoratore; decadenza dall’impiego per avvenuta accettazione di una missione o altro incarico da un’autorità straniera senza autorizzazione del Ministro competente.
4.2.2 Il licenziamento con preavviso Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, si applica la sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso per le seguenti ipotesi: assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a 3 nell’arco di un biennio o comunque per più di 7 giorni nel corso degli ultimi 10 anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’Amministrazione (art. 55-quater, co. 1, lett. b, D.Lgs. 165/ 2001); ingiustificato
rifiuto
del
trasferimento
disposto
dall’Amministrazione per motivate esigenze di servizio (art. 55-quater, co. 1, lett. c, D.Lgs. 165/ 2001); gravi
o
reiterate
violazioni
dei
codici
di
comportamento (art. 55-quater, co. 1, lett. f-bis, D.Lgs. 165/ 2001);
commissione
dolosa,
o
gravemente
colposa,
dell’infrazione di cui all’art. 55- sexies, co. 3, ossia il mancato esercizio o la decadenza dall’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare (art. 55-quater, co. 1, lett. f -ter, D.Lgs. 165/ 2001); reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione
lavorativa,
che
abbia
determinato
l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell’arco di un biennio (art. 55-quater, co. 1, lett. f -quater, D.Lgs. 165/ 2001); insufficiente
rendimento,
dovuto
alla
reiterata
violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal
contratto
collettivo
o
individuale,
da
atti
e
provvedimenti dell’Amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante reiterata valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno nell’arco dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini (art. 55quater, co. 1, lett. f -quinquies, D.Lgs. 165/ 2001); l’omessa disciplinare
attivazione e
del
l’omessa
procedimento adozione
del
provvedimento di sospensione cautelare, senza giustificato motivo, per i dirigenti e, negli enti privi di qualifica dirigenziale, per i responsabili di servizio competenti, che abbiano acquisito conoscenza di una falsa
attestazione della presenza in servizio (art. 55-quater, co. 3-quinquies, D.Lgs. 165/ 2001); recidiva nel biennio nelle violazioni per le quali in prima istanza non si applica la sanzione del licenziamento (art. 59, co. 5, 6, 7); recidiva plurima, in una delle mancanze sanzionabili senza il licenziamento, anche se di diversa natura, o recidiva, nel biennio, in una mancanza che abbia già comportato l’applicazione della sanzione di sospensione dal servizio e dalla retribuzione; recidiva nel biennio di atti, comportamenti o molestie a carattere sessuale o quando l’atto, il comportamento o la molestia rivestano carattere di particolare gravità; condanna passata in giudicato, per un delitto che, commesso fuori del servizio e non attinente in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta la prosecuzione per la sua specifica gravità; violazione degli obblighi di comportamento in tema di accettazione di regali o altre utilità e compimento dei doveri d’ufficio (art. 16, co. 2, secondo e terzo periodo, D.P.R. 62/2013); violazione dei doveri e degli obblighi di comportamento non ricompresi nei punti precedenti ma di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro; mancata ripresa del servizio, salvo casi di comprovato impedimento, dopo periodi di interruzione dell’attività previsti dalle disposizioni legislative e contrattuali vigenti,
alla conclusione del periodo di sospensione o alla scadenza del termine fissato dall’Amministrazione.
4.2.3 Il licenziamento senza preavviso Si applica la massima sanzione del licenziamento senza preavviso per: le ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio
(mediante
rilevamento
della
fraudolente)
ovvero
l’alterazione
presenza
o
con
giustificazione
dei
sistemi
altre
di
modalità
dell’assenza
dal
servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia (art. 55-quater, co. 1, lett. a, D.Lgs. 165/ 2001); In merito alle false attestazioni o certificazioni, il D.Lgs. 75/2017, modificando l’art. 55-quinquies, co. 3-bis, D.Lgs. 165/2001, dispone che i contratti collettivi nazionali individuino le condotte e fissino le corrispondenti sanzioni disciplinari con riferimento alle ipotesi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità dell’erogazione dei servizi all’utenza; le falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro
ovvero di progressioni di carriera (art. 55-quater, co. 1, lett. d, D.Lgs. 165/ 2001); la reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui (art. 55-quater, co. 1, lett. e, D.Lgs. 165/ 2001); la condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro (art. 55-quater, co. 1, lett. f), D.Lgs. 165/2001); Si aggiungono a queste ipotesi, richiamate anche nel CCNL comparto Istruzione e Ricerca, quelle oggetto di specifica previsione nello stesso contratto collettivo, cioè a dire: la commissione di gravi fatti illeciti di rilevanza penale, ivi compresi quelli che possono dare luogo alla sospensione cautelare; la condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità; la commissione in genere (anche nei confronti di terzi) di fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro;
la condanna, anche non passata in giudicato, per i delitti indicati dall’art. 7, co. 1, e 8, co. 1, D.Lgs. 235/2012 (Testo unico
sull’incandidabilità),
consegua
comunque
quando
l’interdizione
alla
condanna
perpetua
dai
pubblici uffici, per i delitti previsti dall’art. 3, co. 1, L. 97/2001 e per gravi delitti commessi in servizio; le violazioni
intenzionali
degli
obblighi,
non
ricompresi specificatamente nei punti precedenti, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
4.3 Il procedimento disciplinare 4.3.1 Titolarità del potere disciplinare La contestazione dell’addebito al dipendente e lo sviluppo della procedura disciplinare sono regolamentati nel D.Lgs. 165/2001 (nel testo modificato dal D.Lgs. 75/2017) e nei contratti collettivi di lavoro di comparto. Per quanto riguarda i soggetti titolari del potere disciplinare: per le infrazioni di minore gravità (quelle per le quali è prevista
la
sanzione
del
rimprovero
verbale),
la
competenza spetta al responsabile della struttura presso cui il dipendente presta servizio e secondo le procedure stabilite dal contratto collettivo. Per il CCNL comparto Istruzione e Ricerca si fa riferimento all’art. 12, co. 4, il quale prevede che il responsabile, previa audizione del dipendente a difesa sui fatti addebitati, procede all’irrogazione della sanzione; per le restanti infrazioni (quelle punite con sanzioni diverse dal mero rimprovero verbale) la competenza spetta all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (UPD), che ciascuna Amministrazione deve individuare secondo il proprio ordinamento. Resta ferma la possibilità, previa
convenzione, di provvedere alla gestione unificata delle funzioni dell’ufficio da parte di più Amministrazioni. È da sottolineare che, secondo le indicazioni dell’art. ٥٥ D.Lgs. 165/2001, le norme in materia di responsabilità disciplinare e quelle che ne disciplinano il procedimento sono di carattere imperativo e la loro violazione, dolosa o colposa, costituisce a sua volta illecito disciplinare in capo ai dipendenti preposti alla loro applicazione.
4.3.2 Fasi del procedimento disciplinare dinanzi all’UPD Il procedimento disciplinare dinanzi all’UDP è regolato dall’art. 55-bis, co. 4 ss. D.Lgs. 165/2001, modificato dal D.Lgs. 75/2017 e può essere suddiviso in quattro fasi: fase preistruttoria nella quale si ha conoscenza del fatto e si provvede alla segnalazione. Al di fuori dei casi di licenziamento senza preavviso, il responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente, segnala “immediatamente”, e comunque entro 10 giorni, all’UPD i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza. fase contestatoria, nella quale si provvede a contestare formalmente e a comunicare al dipendente l’addebito che gli viene mosso. L’UPD provvede con immediatezza, e comunque
non
oltre
30
giorni
(decorrenti
dalla
segnalazione del responsabile della struttura o dal momento in cui ha comunque avuto conoscenza dei fatti di
rilevanza
disciplinare),
alla
contestazione
scritta
dell’addebito, secondo le modalità indicate nell’art. 55bis, co. 5, D.Lgs. 165/2001. Con un preavviso di almeno 20 giorni, si procede, poi, alla convocazione dell’interessato per l’audizione in contraddittorio a sua difesa. Nel corso dell’istruttoria, l’UPD può acquisire da altre Amministrazioni pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento, attività che non determina la sospensione del procedimento, né il differimento dei relativi termini. fase difensiva, nella quale si consente al dipendente di opporre le proprie ragioni alle contestazioni ricevute. Il dipendente può farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. In caso di grave ed oggettivo impedimento, ferma la possibilità di depositare memorie scritte, può richiedere che l’audizione a sua difesa sia differita, per una sola volta, con proroga del termine per la conclusione del procedimento in misura corrispondente. Il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento, fatta eccezione per la speciale tutela accordata
alla
segnalazione
effettuata
dal
cd.
whistleblower (art. 54, co. 4, D.Lgs. 165/2001); fase decisoria, nella quale si conclude il procedimento con l’archiviazione o con l’applicazione della sanzione. L’UPD deve concludere il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro 120
giorni dalla contestazione dell’addebito. Gli atti di avvio e conclusione del procedimento, nonché l’eventuale provvedimento di sospensione cautelare, sono comunicati all’Ispettorato per la funzione pubblica, entro 20 giorni dalla loro adozione. Al fine di tutelare la riservatezza del dipendente, il nominativo dello stesso è sostituito da un codice identificativo. La sanzione è impugnabile in sede giurisdizionale o arbitrale, secondo le norme contenute nel codice di procedura civile. Con il consenso del dipendente la sanzione applicabile può anche essere ridotta, ma in tal caso non è più suscettibile di impugnazione. Di particolare rilievo sono le disposizioni introdotte dal D.Lgs. 75/2017 volte a garantire l’effettività del procedimento disciplinare,
significativamente
innovative
rispetto
alla
precedente normativa. Si prevede, in particolare, che i vizi del procedimento disciplinare (ossia la violazione dei termini e delle disposizioni
che
lo
disciplinano),
ferma
l’eventuale
responsabilità del dipendente cui essi siano imputabili, non determinano la decadenza dell’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, siano comunque compatibili con il principio di tempestività (art. 55-bis, co. 9-ter, D.Lgs. 165/2001).
4.3.3 Il procedimento disciplinare accelerato In tutti i casi in cui le condotte punibili con il licenziamento siano accertate in flagranza non trova applicazione la procedura prima indicata bensì quella prevista dall’art. 55-quater, co. 3-bis e seguenti, D.Lgs. 165/2001, caratterizzata da termini più brevi per le varie fasi e perciò definita “accelerata”. Introdotta inizialmente dal D.Lgs. 116/2016 per reprimere più efficacemente il fenomeno delle false attestazioni della presenza in servizio (i cosiddetti furbetti del cartellino) è stata successivamente estesa (con il D.Lgs. 75/2017) a tutte le ipotesi in cui sia previsto il licenziamento e le condotte siano accertate in flagranza. La procedura prevede che: si
debba
procedere
all’immediata
sospensione
cautelare del dipendente, senza stipendio (fatto salvo il diritto all’assegno alimentare nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti) e senza obbligo di preventiva audizione; la sospensione sia disposta dal responsabile della struttura in cui il dipendente lavora o dal competente UPD, con provvedimento motivato, in via immediata e comunque entro 48 ore dal momento in cui ne sono venuti a conoscenza. La violazione di tale termine non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’inefficacia della sospensione
cautelare,
fatta
salva
l’eventuale
responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile;
laddove
sia
accertata
l’effettiva
violazione,
con
il
provvedimento di sospensione cautelare si procede anche alla
contestuale
contestazione
per
iscritto
dell’addebito e alla convocazione del dipendente dinanzi all’UPD; il dipendente sia convocato, per il contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno 15 giorni (20 giorni nella procedura ordinaria). Fino alla data dell’audizione, può inviare una memoria scritta o, in caso di grave, oggettivo e assoluto impedimento, chiedere un rinvio per un periodo non superiore a 5 giorni e che comunque può essere disposto una sola volta; l’UPD concluda il procedimento entro 30 giorni (120 nella procedura ordinaria) dalla ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell’addebito.
4.3.4 Il rapporto fra procedimento disciplinare e procedimento penale Sotto il profilo procedurale va sottolineata la piena autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale. Il procedimento disciplinare che abbia a oggetto in tutto o in parte fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale e non comporta la sospensione del procedimento. Per le infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione del servizio con privazione della retribuzione fino a 10 giorni, l’UPD – nei casi di particolare complessità dell’accertamento
del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione
della
sanzione
–
può
sospendere
il
procedimento disciplinare fino al termine di quello penale. Il procedimento disciplinare è ripreso o riaperto (se si conclude con l’archiviazione e il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, o se emergono elementi per una sanzione più grave) entro 60 giorni dalla comunicazione della sentenza all’Amministrazione di appartenenza del lavoratore,
ovvero
dalla
presentazione
dell’istanza
di
riapertura. Il procedimento ripreso o riaperto si svolge secondo quanto previsto nell’art. 55-bis con integrale nuova decorrenza dei termini ivi previsti per la sua conclusione. Il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l’Amministrazione giunga in possesso di elementi sufficienti
per
concluderlo,
anche
sulla
base
di
un
provvedimento giurisdizionale non definitivo; inoltre, per quanto riguarda i tempi del procedimento ripreso o riaperto successivamente alla sentenza del giudice penale, trovano applicazione i termini generali, che decorrono nuovamente ed integralmente.
4.4 La sospensione cautelare del dipendente Qualora il dipendente sia sottoposto a procedimento disciplinare o penale, l’ordinamento appresta una misura cautelare (non una sanzione) che può essere applicata onde evitare che il soggetto accusato di un illecito di particolare gravità continui a prestare servizio, pregiudicando la regolarità del
funzionamento
degli
uffici
e
il
prestigio
dell’Amministrazione: la sospensione cautelare. La misura è disciplinata diversamente secondo che intervenga nel corso di un procedimento disciplinare oppure sia adottata in attesa dello svolgimento di un procedimento penale. La sospensione cautelare in corso di procedimento disciplinare può essere disposta in quelle ipotesi in cui l’ente riscontri la necessità di espletare accertamenti su fatti addebitati al dipendente a titolo di infrazione disciplinare punibili con sanzione non inferiore alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Deve necessariamente essere disposta nelle ipotesi in cui si applichi il procedimento disciplinare accelerato (art. 55-quater, co. 3-bis, D.Lgs. 165/2001). Non può avere una durata superiore a 30 giorni, con conservazione della retribuzione. Se il procedimento si
conclude con una sanzione che prevede la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, il periodo di sospensione è computato nella sanzione, recuperando la parte relativa alla decurtazione della retribuzione. Invece
la
sospensione
cautelare
in
seguito
a
procedimento penale: è obbligatoria quando il dipendente è sottoposto a misura restrittiva della libertà personale. La sospensione è disposta d’ufficio con privazione della retribuzione per la durata dello stato di detenzione o, comunque, dello stato restrittivo della libertà; anche se non v’è restrizione della libertà personale, la sospensione è obbligatoria e si estende fino al termine del procedimento penale nelle specifiche ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo; vi rientrano, in particolare, tutti i reati che impediscono la candidabilità di un soggetto (art. 7, co. 1, e 8, co. 1, D.Lgs. 235/2012) e in tutti gli altri casi legislativamente previsti; facoltativa quando non vi è restrizione della libertà personale o questa sia cessata (con l’esclusione delle ipotesi prima citate).
Capitolo 5 Le figure dirigenziali 5.1 I dirigenti I dirigenti pubblici sono dei dipendenti reclutati con una procedura ad hoc e posti in posizione direttiva di un ufficio pubblico. Dopo vari parziali interventi, nel quadro del processo di “contrattualizzazione” del rapporto di pubblico impiego, è solo con il D.Lgs. 29/1993 e con i successivi decreti correttivi, che la riforma della dirigenza vede una fase nuova. L’assetto della dirigenza pubblica disegnato dal D.Lgs. 29/1993 e nei successivi provvedimenti è stato sostanzialmente recepito dal Testo unico sul pubblico impiego (D.Lgs. 165/2001). Attualmente, per la nomina di un dirigente sono previste due fasi e due atti retti da diverse discipline: il provvedimento di affidamento dell’incarico (atto amministrativo); il contratto di lavoro, nel quale si stabiliscono gli obiettivi e il compenso, atto privato con tutela davanti al giudice del lavoro. La stessa legge delinea un meccanismo – il cosiddetto spoils system – per la revisione delle nomine di competenza del Governo o dei singoli Ministri negli organi amministrativi
(di enti pubblici, società controllate o partecipate dallo Stato, agenzie), in base al quale le nomine predette, effettuate nei 6 mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura o nel mese antecedente lo scioglimento anticipato di entrambe le Camere, possano essere confermate, revocate, modificate o rinnovate entro 6 mesi dal voto sulla fiducia al Governo. Decorso tale termine, in assenza di interventi, gli incarichi si intendono confermati. Con D.Lgs. 150/2009 (artt. 37-47) sono state apportate al D.Lgs. 165/2001 innovazioni mirate a fare dei dirigenti i veri responsabili
dell’attribuzione
dei
trattamenti
economici accessori, affidando loro la valutazione della performance individuale di ciascun dipendente, secondo criteri certificati dal sistema generale di valutazione; il tutto per conseguire la migliore organizzazione del lavoro e assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico. La normativa valorizza enormemente la figura del dirigente, il quale ha a disposizione reali e concreti strumenti per operare e per sanzionare il personale, ma è a propria volta sanzionato, anche economicamente, qualora non svolga efficacemente la propria attività.
5.2 La separazione governoamministrazione Mentre gli organi politici sono deputati alla determinazione dell’indirizzo politico dell’ente, gli apparati amministrativi sono preposti allo svolgimento delle attività e all’erogazioni dei servizi
alla
amministrative
collettività. locali
è,
La di
direzione regola,
delle
affidata
al
attività potere
organizzativo di una figura di livello dirigenziale, che si avvale di dipendenti di varie professionalità per attendere alle funzioni istituzionali. Il dirigente è titolare non solo della gestione amministrativa, ma anche di quella finanziaria e tecnica, attraverso degli autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. In enti di grandi dimensioni è facile che, in relazione alla complessità della attività da svolgere possano anche essere presenti diverse figure dirigenziali.
5.3 L’inconferibilità degli incarichi dirigenziali Si
intende
per
inconferibilità
la
preclusione,
permanente o temporanea, a conferire determinati incarichi a soggetti che presentano specifiche condizioni ostative. Con il D.Lgs. 39/2013 sono stati individuati tre ordini di cause di inconferibilità degli incarichi dirigenziali e degli incarichi amministrativi di vertice: le condanne penali (anche non definitive) per reati contro la P.A.; la provenienza da incarichi e cariche in enti privati finanziati o diretti da Pubbliche Amministrazioni; la provenienza da organi di indirizzo politico. È contemplata anche una causa di incompatibilità con cariche in organi di indirizzo politico. Per le ipotesi di violazione delle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità sono previste sia sanzioni di carattere obiettivo, volte a stabilire la nullità dell’atto adottato in violazione di legge, sia sanzioni di carattere soggettivo, volte a far valere la responsabilità degli autori della violazione.
5.4 La rotazione del personale dirigenziale La rotazione del personale addetto alle aree a più elevato rischio di corruzione costituisce una misura rilevante per la prevenzione della corruzione (art. 1, co. 5, lett. b, L. 190/2012). È necessario, pertanto, individuare criteri che permettano
la
rotazione
in
particolare
del
personale
dirigenziale e di quello con funzioni di responsabilità (e cioè i responsabili di servizio, cui sono attribuiti incarichi di posizione, e i responsabili del procedimento) operante nelle aree a più elevato rischio di corruzione. Per il personale dirigenziale,
la
rotazione
integra,
altresì,
i
criteri
di
conferimento degli incarichi dirigenziali ed è attuata alla scadenza dell’incarico (e, quindi, secondo la cadenza fisiologica legata alla quinquennale elezione del Sindaco). L’alternanza fra più soggetti competenti nell’assunzione delle decisioni e nella gestione delle procedure, infatti, riduce il rischio che possano crearsi relazioni particolari fra Amministrazione e utenti, con il conseguente consolidarsi di situazioni di privilegio e l’aspettativa a risposte illegali improntate a collusione. La rotazione deve riguardare non solo i dirigenti, ma anche i funzionari titolari di posizioni organizzative, i responsabili dei procedimenti e i dipendenti, rispetto ai quali appaia evidente il
consolidamento di ruoli di potere nel proprio ambito di servizio. Ovviamente i criteri di rotazione non possono ignorare
l’esigenza
di
assicurare
continuità
all’azione
amministrativa. La rotazione, pertanto, allontana il privilegio o la consuetudine e la prassi, che possono finire per favorire coloro che sono capaci di intessere relazioni con i dipendenti e dirigenti consolidati in un certo ruolo.
5.5 Gli obblighi di trasparenza Gli obblighi in materia di trasparenza a carico degli organi di indirizzo politico degli enti locali si applicano anche ai “titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”. Si tratta di un’estensione introdotta dal D.Lgs. 97/2016 che ha aggiunto il co. 1-bis all’art. 14 D.Lgs. 33/2013. Con questa modifica, quindi, anche ai dirigenti è imposto
l’obbligo
di
pubblicare
gli
atti
che
originariamente dovevano essere diffusi solo dai titolari di incarichi politici. Si tratta, in particolare, dei seguenti documenti ed informazioni (art. 14, co. 1): l’atto
di
nomina,
con
l’indicazione
della
durata
dellincarico; il curriculum; i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti. In conseguenza della sentenza 23-1-2019, n. 20 della Corte costituzionale, è venuto meno, per i dirigenti che non ricoprono posizioni apicali, l’obbligo (precedentemente imposto dall’art. 14, co. 1, lett. f), di pubblicare on line i dati personali sul reddito e sul patrimonio. Sulla scorta della sentenza prima menzionata, il D.L. 162/2019 – cd. decreto Milleproroghe – ha previsto l’adozione di un regolamento con il quale individuare con precisione i dati che, ai sensi dell’art. 14 D. Lgs. 33/2013, devono essere oggetto di pubblicazione. Tale individuazione deve essere effettuata in base ai seguenti criteri: graduazione degli obblighi di pubblicazione in relazione al rilievo esterno dell’incarico svolto nonché al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato all’esercizio della funzione dirigenziale; i dati in questione devono essere oggetto esclusiva ente di comunicazione all’amministrazione di appartenenza; individuazione dei dirigenti di determinate Pubbliche Amministrazioni (Interno, Affari esteri e cooperazione internazionale, Forze di polizia e dell’amministrazione penitenziaria) per i quali non sono pubblicati i dati in questione in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale e all’ordine e sicurezza pubblica. L’art. 14, co. 1-ter, infine, impone ai dirigenti di comunicare all’Amministrazione presso la quale prestano servizio gli
emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblicare
pubblica, sul
obbligando
proprio
sito
l’Amministrazione
istituzionale
a
l’ammontare
complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente. La disciplina prevede che le Pubbliche Amministrazioni pubblichino tali dati entro 3 mesi dall’elezione, dalla nomina o dal conferimento dell’incarico e per i 3 anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico dei soggetti (fanno eccezione
le
informazioni
concernenti
la
situazione
patrimoniale che vengono pubblicate fino alla cessazione dell’incarico o del mandato).
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Libro IV Normativa in materia di trattamento dei dati personali SOMMARIO Capitolo 1 Il trattamento dei dati personali Capitolo 2 Le attività di controllo
Capitolo 1 Il trattamento dei dati personali 1.1 Il diritto alla riservatezza 1.1.1 La privacy come diritto costituzionalmente tutelato e limite alla trasparenza La protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale è un diritto fondamentale. Il diritto alla privacy è definito come diritto
soggettivo di costruire liberamente e difendere la propria sfera privata attraverso il riconoscimento del potere di controllare l’uso che gli altri fanno delle informazioni che riguardano il singolo individuo: esso diviene, pertanto, uno strumento di libertà e, come tale, si pone in stretto collegamento con gli altri diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Il diritto dell’individuo alla riservatezza è un diritto fondamentale, che va, però, bilanciato con il perseguimento di un’altra finalità: quella della trasparenza amministrativa e della lotta alla corruzione mediante la diffusione dei documenti in possesso della Pubblica Amministrazione. Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale, infatti, non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Infatti, la trasparenza delle informazioni e degli atti della P.A. coinvolge necessariamente anche soggetti privati: ma non tutte le notizie che riguardano i soggetti coinvolti sono necessarie a soddisfare il bisogno della collettività di sapere come la macchina burocratica opera; e inoltre ci sono categorie di informazioni che devono in ogni caso essere protette, poiché concernono strettamente la dignità degli individui. Tale rischio è, tra l’altro, aumentato a dismisura a seguito della crescente e generalizzata accessibilità alle informazioni del settore pubblico prevista dal D.Lgs. 33/2013 mediante la pubblicazione dei dati sul web.
Dunque, serve un ragionevole bilanciamento tra le finalità sottese
alla
pubblicazione
delle
notizie
sull’attività
amministrativa ed il diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti: perché individuare strumenti di pubblicità rispettosi della privacy degli individui significa modellare in maniera soddisfacente il potere pubblico nell’equilibrio tra conoscenza (dell’attività) e riservatezza (delle persone). Diviene, pertanto, regola generale la valutazione dei rischi per la vita privata e per la dignità delle persone interessate che possono derivare da obblighi di pubblicazione sul web di dati personali non sempre indispensabili a fini di trasparenza.
1.1.2 La protezione dei dati personali: dal Codice della privacy al regolamento europeo La tutela dei dati personali è stata oggetto nel 2003 di un processo di codificazione che ha portato all’emanazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 recante il Codice in materia di protezione dei dati personali (cd. Codice della privacy). In particolare, il Codice ha racchiuso tutta la normativa in materia, ma solo nei suoi aspetti fondamentali, in quanto la copiosa produzione di codici deontologici da un lato, e le numerose pronunce del Garante e della giurisprudenza dall’altro, ne hanno determinato la costante evoluzione. L’adozione, nel 2016, del regolamento (UE) 2016/679 del 27 aprile 2016 in materia di protezione dei dati personali (noto anche come regolamento GDPR – General Data Protection Regulation), ha reso inevitabile una
profonda revisione del Codice della privacy, operata con il D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101. Il regolamento è entrato in vigore il 25 maggio 2016, ma le sue disposizioni sono divenute vincolanti dal 25 maggio 2018. Esso mira a realizzare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia ed a rafforzare la protezione dei dati personali, soggetti a nuove sfide a causa della rapidità dell’evoluzione tecnologica e della globalizzazione. Il Codice della privacy, per effetto dell’applicazione diretta delle norme del regolamento (UE) 2016/679, ha perso, dunque, la sua centralità come unica fonte normativa, pur rimanendo un testo di fondamentale importanza in materia. La partizione del Codice della privacy non è stata modificata dalla riforma; pertanto, esso continua dunque a comporsi di 3 parti: Disposizioni generali, modificate dal capo II del D.Lgs. 101/2018 (art. 2); Disposizioni specifiche, modificate dal capo III del D.Lgs. 101/2018 (artt. 3-12); Tutela dell’interessato e sanzioni, modificata dal capo IV del D.Lgs. 101/2018 (artt. 13-15).
1.2 L’oggetto e la finalità della disciplina del Codice della privacy La parte I del Codice, dedicata alle disposizioni generali, è stata ampiamente modificata dalla riforma. In particolare, viene ridefinito l’oggetto del Codice stesso, specificando che il trattamento dei dati personali avviene secondo le norme del regolamento europeo e del Codice stesso, nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. Ai sensi dell’art. 1 del regolamento, cui il Codice rinvia, le finalità sono individuabili nella protezione dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali. È opportuno che la protezione prevista dal regolamento si applichi alle persone fisiche, a prescindere dalla nazionalità o dal luogo di residenza, in relazione al trattamento dei loro dati personali. Il regolamento non disciplina, invece, il trattamento dei dati personali relativi a persone giuridiche, in particolare imprese dotate di personalità giuridica, compresi il nome e la forma della persona giuridica e i suoi dati di contatto.
1.3 Ambito oggettivo e territoriale di applicazione In merito all’ambito oggettivo e territoriale di applicazione, la disciplina è interamente dettata dal regolamento (artt. 2 e 3), il quale stabilisce che le disposizioni si applicano al trattamento, interamente o parzialmente automatizzato, di dati personali e al trattamento non automatizzato di dati personali contenuti in un archivio o destinati a figurarvi,
intendendo
per
archivio
qualsiasi
insieme
strutturato di dati personali accessibili secondo criteri determinati, indipendentemente dal fatto che tale insieme sia centralizzato, decentralizzato o ripartito in modo funzionale o geografico. Sono tassativamente indicati dall’art. 2 del regolamento, i trattamenti esclusi dalla disciplina, fra cui figurano: i trattamenti effettuati dagli Stati membri nell’esercizio di attività relative alla politica estera e alla sicurezza comune; i trattamenti effettuati dalle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento o perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali (tale tipologia di trattamenti
è
attualmente
disciplinata,
nel
nostro
ordinamento giuridico, dal D.Lgs. 51/2018); i trattamenti effettuati da una persona fisica per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o
domestico. Con
riferimento,
invece,
all’ambito
di
applicazione
territoriale (art. 3) la novità più rilevante, rispetto alla disciplina
previgente,
consiste
nell’ampliamento
dell’ambito di applicazione della disciplina europea in materia di privacy: ogniqualvolta vi sia trattamento di dati personali di soggetti stabiliti nell’Unione europea da parte di un soggetto stabilito al di fuori della stessa, al fine di offrire loro beni e/o servizi ovvero di monitorarne il comportamento, dovranno necessariamente essere applicate le prescrizioni del regolamento. Tale innovazione interessa, in particolar modo, gli Internet service provider (ISP) esteri: questi, infatti, non potranno sottrarsi all’applicazione della normativa europea in materia di privacy invocando l’assenza di un proprio stabilimento nel territorio dell’Unione europea.
1.4 Le principali definizioni in materia Il regolamento, nella parte iniziale, ai fini della sua esatta comprensione e applicazione, fornisce le definizioni essenziali, partendo
da
quella
più
ampia
di
dati
personali,
considerando come tali tutte le informazioni riguardanti persone fisiche identificate o identificabili. Si riportano di seguito le principali definizioni del legislatore europeo. Il trattamento è inteso come “qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati
personali,
l’organizzazione,
come la
la
raccolta,
strutturazione,
la la
registrazione, conservazione,
l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione”. La profilazione è “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la
situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”. La pseudonimizzazione è il “trattamento dei dati personali in modo tale che i dati personali non possano più essere attribuiti a un interessato specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile”. L’archivio è “qualsiasi insieme strutturato di dati personali
accessibili
secondo
criteri
determinati,
indipendentemente dal fatto che tale insieme sia centralizzato, decentralizzato o ripartito in modo funzionale o geografico”. Il titolare del trattamento è “la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri”. Il responsabile del trattamento è “la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento”. Il destinatario è “la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica,
il
servizio
o
altro
organismo
che
riceve
comunicazioni di dati personali, che si tratti o meno di terzi”. Il terzo è “la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che non sia l’interessato, il titolare del trattamento, il responsabile del trattamento e le persone autorizzate al trattamento dei dati personali sotto l’autorità diretta del titolare o del responsabile”.
1.5 I principi generali del trattamento dei dati Il D.Lgs. 101/2018 introduce nel Codice gli articoli da 2-ter a 2-decies, dedicati ai principi generali. Il legislatore europeo, nell’art. 5 del regolamento, compila una sorta di decalogo dei principi cui deve attenersi ogni attività di trattamento di dati. Essi sono: principio di liceità e correttezza: il trattamento è lecito solo alle condizioni previste espressamente dall’art. 6 del regolamento ovvero: quando
l’interessato
ha
espresso
il
proprio
consenso (un consenso informato) al trattamento dei propri dati per una o più specifiche finalità; quando il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte; quando il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale a cui è soggetto il titolare del trattamento; quando
il
trattamento
è
necessario
per
la
salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica; quando il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o per il
perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento; principio di trasparenza: in un’ottica di rispetto della finalità, occorre sempre valutare attentamente gli scopi del trattamento, in modo da stabilire correttamente quali dati possono essere trattati e quali no (principio di essenzialità dei dati). Devono essere trasparenti le modalità con cui sono raccolti e utilizzati i dati personali e devono essere facilmente accessibili e comprensibili le informazioni e comunicazioni relative al trattamento (identità del titolare del trattamento, finalità del trattamento, diritti degli interessati); principio di limitazione delle finalità dei dati: devono essere raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime e successivamente devono essere trattati in una modalità che sia compatibile con tali finalità. Il trattamento dei dati per finalità diverse da quelle per le quali sono stati inizialmente raccolti dovrebbe essere consentito solo se compatibile con tali iniziali finalità; principio di minimizzazione dell’uso dei dati: devono essere sempre adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati; principio di esattezza dei dati: devono essere sempre esatti e aggiornati. Eventuali inesattezze devono essere tempestivamente rettificate ovvero i dati inesatti devono essere cancellati;
principio della limitazione della conservazione: i dati devono essere conservati per un periodo temporale limitato al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; principio dell’integrità e della riservatezza: i dati devono essere sempre trattati in maniera da garantire una sicurezza adeguata, il che prevede l’adozione di misure di sicurezza tecniche ed organizzative idonee a proteggere i dati stessi da trattamenti non autorizzati o illeciti, dalla loro perdita o distruzione o dal danno accidentale; principio di responsabilizzazione (accountability): il titolare del trattamento dei dati deve essere in grado di dimostrare di avere adottato un processo complessivo di misure
giuridiche,
protezione
dei
organizzative,
dati
personali,
tecniche, anche
per
la
attraverso
l’elaborazione di specifici modelli organizzativi: deve dimostrare in modo positivo e proattivo che i trattamenti di dati effettuati sono adeguati e conformi al regolamento europeo in materia di privacy.
1.6 Il consenso al trattamento dei dati personali Il consenso, ai sensi dell’art. 4 del regolamento, è qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso esprime il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento. Il presupposto indefettibile è che il soggetto che conferisce il consenso abbia la capacità giuridica per farlo. In caso di trattamento di dati di minori, per la regolamentazione europea occorre acquisire il consenso dai genitori o dagli esercenti la responsabilità genitoriale se l’interessato ha meno di 16 anni. Per la normativa italiana (gli Stati membri possono stabilire anche un limite inferiore), l’art. 2-quinquies, co. 1, del Codice della privacy stabilisce che il consenso al trattamento dei suddetti dati deve essere fornito per il minore di 14 anni da chi esercita la potestà genitoriale. Tale disposizione è circoscritta ai trattamenti che vengono effettuati nell’ambito dei servizi della società dell’informazione, vale a dire quei servizi prestati normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario
(ad esempio l’iscrizione a social network o a servizi di messaggistica). Il consenso, per essere valido, deve avere determinate caratteristiche. Esso deve essere: inequivocabile: non è necessario che sia esplicito, può anche essere implicito (ma non tacito), purché, nel momento in cui sia desunto dalle circostanze, non sussista alcun dubbio che col proprio comportamento l’interessato abbia voluto comunicare il proprio consenso. Il consenso deve, invece, essere esplicito, ai sensi dell’art. 9 del regolamento nel caso di trattamento di dati sensibili o nel caso
di
processi
decisionali
automatizzati
(es.
profilazione); libero: l’interessato deve essere in grado di operare una scelta effettiva, senza subire intimidazioni o raggiri. L’art. 7 del regolamento precisa che “nel valutare se il consenso sia stato liberamente prestato, si tiene nella massima considerazione l’eventualità, tra le altre, che l’esecuzione di un contratto, compresa la prestazione di un servizio, sia condizionata alla prestazione del consenso al trattamento
di
dati
personali
non
necessario
all’esecuzione di tale contratto”; specifico: esso deve essere relativo alla finalità per la quale è eseguito quel trattamento. Qualora il trattamento abbia più finalità, il consenso dovrebbe essere prestato per ogni finalità; informato: l’interessato deve essere posto in condizioni di conoscere quali dati sono trattati, con che modalità e
finalità, i diritti che gli sono attribuiti dalla legge e le conseguenze del suo consenso; verificabile: ciò vuol dire che deve potersi dimostrare che l’interessato lo ha conferito con riferimento a quello specifico trattamento; revocabile in qualsiasi momento: a seguito della revoca, che non deve essere motivata, il trattamento deve interrompersi, a meno che non sussista una differente base giuridica per continuare il trattamento. Con la revoca si innesca il diritto di cancellazione. Il consenso non dura per sempre. Quando si raccolgono dati personali occorre informare l’interessato della durata della conservazione (e quindi trattamento) del dato, scaduta la quale il dato va anonimizzato oppure cancellato. Il combinato disposto del regolamento europeo e del Codice della privacy riformato determina, dunque, che: in generale, per tutti i dati personali diversi dai dati particolari (di cui all’art. 9 del regolamento), il consenso è una delle condizioni che possono rendere lecito il trattamento; per i dati particolari, il consenso esplicito è una delle condizioni che giustificano il trattamento: è condizione sufficiente
ma
non
necessaria,
se
ricorrono
altre
condizioni specificamente elencate dall’art. 9, par. 2 del regolamento;
con specifico riferimento ai dati relativi alla salute, il presupposto di liceità del trattamento è dato dalle esigenze di medicina preventiva o di diagnosi o da motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica. In questo settore, dunque, per il regolamento europeo il consenso dell’interessato non è più richiesto. Tuttavia,
l’art.
2-septies
del
Codice
della
privacy
(introdotto dal D.Lgs. 101/2018), attribuisce al Garante il compito di adottare misure di garanzia ed eventualmente ulteriori condizioni sulla base delle quali il trattamento è consentito.
1.7 Il trattamento dei dati personali 1.7.1 Il trattamento dei dati connessi ad un compito di interesse pubblico Nell’impostazione
del
regolamento
la
disciplina
del
trattamento dei dati personali prescinde dalla natura, pubblica o privata, del titolare, trovando invece fondamento nelle finalità perseguite attraverso il trattamento stesso. I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di dati personali sono inutilizzabili. L’art. 2-ter del Codice della privacy, introdotto dalla riforma, disciplina i trattamenti connessi ad un compito di interesse pubblico o all’esercizio di pubblici poteri, relativi a dati diversi da quelli particolari (di cui agli artt. 9 e 10 del regolamento e oggetto dell’art. 2-sexies, che dopo tratteremo). Per tali trattamenti occorre un fondamento, una base giuridica, da individuare esclusivamente in una norma di legge o di regolamento. L’art. 6 del regolamento subordina la liceità del trattamento a due requisiti alternativi: la necessità del trattamento e il consenso dell’interessato. Inoltre, il regolamento, sempre all’art. 6, consente agli Stati di dettare disposizioni specifiche con riguardo, ad esempio,
alla comunicazione dei dati, ai periodi di conservazione e alle operazioni e procedure di trattamento, comprese le misure atte a garantire un trattamento lecito e corretto, quali quelle per altre specifiche situazioni di trattamento. In base al comma 2 dell’art. 2-ter, la comunicazione dei dati trattati nell’ambito delle finalità di interesse pubblico, tra soggetti che condividono tali finalità, pur richiedendo una apposita base normativa, può essere effettuata anche in assenza di tale base purché la comunicazione sia necessaria allo svolgimento di funzioni istituzionali e sia stata data comunicazione
al
Garante
e
siano
trascorsi
dalla
destinatario
della
comunicazione 45 giorni. Quando,
invece,
il
soggetto
comunicazione dei dati intenda trattarli per finalità diverse da quelle di interesse pubblico, la comunicazione deve sempre trovare un fondamento normativo. Ciò vale anche per la diffusione dei dati, cioè per la divulgazione dei dati a soggetti indeterminati.
1.7.2 Il trattamento di categorie particolari di dati personali La categoria dei dati sensibili (ovvero dei dati personali «idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale»), che è stato uno dei pilastri sui quali è stata fondata
l’architettura del Codice della privacy, è ridefinita dall’art. 9 del regolamento che fa riferimento ora a «categorie particolari di dati personali». In base all’art. 9 del regolamento, è vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona. Dunque, generalmente, il trattamento di tali dati è vietato: tuttavia lo stesso articolo 9 del regolamento individua i presupposti
in
presenza
dei
quali
possono
essere
legittimamente trattati. In base al par. 2 dell’art. 9, il trattamento può definirsi necessario quando è svolto: con il consenso esplicito dell’interessato per una o più finalità specifiche; per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale; per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica qualora l’interessato si trovi nell’incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso; da una fondazione, associazione o altro organismo senza scopo di lucro che persegua finalità politiche, filosofiche, religiose o sindacali, nell’ambito delle sue legittime attività
e con adeguate garanzie a condizione che il trattamento riguardi unicamente i membri, gli ex membri o le persone che
hanno
regolari
contatti
con
la
fondazione,
l’associazione o l’organismo a motivo delle sue finalità e che i dati personali non siano comunicati all’esterno senza il consenso dell’interessato; su
dati
personali
resi
manifestamente
pubblici
dall’interessato; per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali; per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato; per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro,
valutazione
della
capacità
lavorativa
del
dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri
o
conformemente
al
contratto
con
un
professionista della sanità; per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica; a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici sulla base del diritto
dell’Unione o nazionale. L’art. 2-sexies del Codice della privacy detta le condizioni richieste per il “Trattamento necessario per motivi di interesse pubblico rilevante” di categorie particolari di dati personali, specificando quanto previsto dal regolamento. In particolare, si precisa che il suddetto trattamento sia ammesso solo se previsto dal diritto dell’Unione europea o dal diritto nazionale. In quest’ultimo caso, la base giuridica è costituita esclusivamente da una disposizione di legge o di regolamento, che, oltre ad assicurare le condizioni di proporzionalità del trattamento, salvaguardia del diritto alla protezione dei dati e previsione di misure di salvaguardia appropriate per gli interessati, deve ulteriormente specificare i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e il motivo di interesse pubblico rilevante. Ferma restando la necessità che il trattamento sia individuato in una specifica disposizione di normativa, l’art. 2sexies riunisce in un elenco, non esaustivo, i trattamenti che si considerano, in ogni caso, compiuti per motivi di interesse pubblico (essi erano in precedenza disseminati in molteplici disposizioni del previgente codice in materia di trattamento dei dati personali).
1.7.3 Il trattamento dei dati genetici, biometrici e relativi alla salute All’interno della categoria dei dati particolari, si distingue una sottocategoria costituita dai dati genetici, biometrici e
relativi alla salute, per i quali la liceità del trattamento è ancorata al requisito alternativo del consenso esplicito oppure della necessità. Per questi dati, infatti, il regolamento europeo consente agli Stati membri di introdurre garanzie supplementari e, dunque,
di
mantenere
o
introdurre
ulteriori
condizioni, comprese limitazioni. In particolare il regolamento europeo (all’art. 4, co. 1) fornisce le seguenti definizioni: dati genetici: i dati personali relativi alle caratteristiche genetiche ereditarie o acquisite di una persona fisica che forniscono informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica, e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della persona fisica in questione; dati biometrici: i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici; dati relativi alla salute: i dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute. L’art. 2-septies del Codice della privacy attua l’art. 9, par. 4, del regolamento, prevedendo che il trattamento dei dati biometrici, genetici e relativi alla salute, che non possono
essere
assolutamente
diffusi,
sia
subordinato
all’osservanza di misure di garanzia, stabilite dal Garante con provvedimento adottato con cadenza almeno biennale, a seguito di consultazione pubblica.
1.7.4 Il trattamento dei dati relativi a condanne penali e reati Il trattamento dei dati personali relativi alle condanne penali e ai reati o a connesse misure di sicurezza, deve avvenire soltanto sotto il controllo dell’autorità pubblica o, se autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, deve prevedere garanzie appropriate per i diritti e le libertà degli interessati. Un eventuale registro completo delle condanne penali
deve
essere
tenuto
soltanto
sotto
il
controllo
dell’autorità pubblica (art. 10 del regolamento europeo). All’attuazione dell’art. 10 provvede l’art. 2-octies del Codice della privacy che individua i principi relativi al trattamento di dati personali inerenti a condanne penali e a reati. La liceità di tale trattamento, ove non sia svolto sotto il controllo di un’autorità pubblica, è subordinata alla sussistenza di una disposizione di legge o di regolamento che lo autorizzi e che preveda garanzie appropriate per i diritti degli interessati.
1.7.5 Il trattamento dei dati in ambito pubblico Il Titolo IV del Codice, relativo ai trattamenti di dati personali in ambito pubblico, non subisce profonde modifiche
dalla riforma. In base al regolamento europeo, l’accesso del pubblico ai documenti ufficiali può essere considerato di interesse pubblico. Per questa ragione, l’art. 86 del regolamento consente alle autorità pubbliche o agli organismi pubblici o privati che trattano dati personali contenuti in documenti ufficiali in esecuzione di un compito di interesse pubblico, di comunicare tali dati, nel rispetto della disciplina europea e della normativa nazionale di riferimento, al fine di conciliare l’accesso del pubblico ai documenti ufficiali e il diritto alla protezione dei dati personali. In
particolare,
l’art.
59
(Accesso
a
documenti
amministrativi e accesso civico) prevede che fatto salvo quanto previsto dall’art. 60 (con particolare riferimento ai dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale), i presupposti, le modalità, i limiti per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali
e
la
relativa
tutela
giurisdizionale,
restano
disciplinati dalla L. 241/1990, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia (in particolare il D.Lgs. 33/2013).
1.8 Le informazioni all’interessato I principi di correttezza e trasparenza implicano che l’interessato sia informato dell’esistenza del trattamento e delle sue finalità. I contenuti di tali informazioni sono elencati in modo tassativo negli artt. 13 e 14 del regolamento. In particolare, il titolare deve sempre specificare i dati di contatto del responsabile del trattamento e del responsabile della protezione dei dati, ove esistente, la base giuridica del trattamento, qual è il suo interesse legittimo se quest’ultimo costituisce la base giuridica del trattamento, nonché se trasferisce i dati personali in Paesi terzi e, in caso affermativo, attraverso quali strumenti. Il regolamento prevede anche ulteriori informazioni se necessarie a garantire un trattamento corretto e trasparente: in particolare,
il
titolare
deve
specificare
il
periodo
di
conservazione dei dati o i criteri seguiti per stabilire tale periodo di conservazione, e il diritto di presentare un reclamo all’autorità di controllo. Se
il
trattamento
comporta
processi
decisionali
automatizzati (anche la profilazione), l’informativa deve specificarlo e deve indicare anche la logica di tali processi decisionali e le conseguenze previste per l’interessato.
Circa i tempi e le modalità, le informazioni devono essere fornite all’interessato prima di effettuare la raccolta dei dati (se raccolti
direttamente
presso
l’interessato,
art.
13
del
regolamento); nel caso di dati personali non raccolti direttamente presso l’interessato (art. 14 del regolamento), le informazioni
devono
essere
fornite
entro
un
termine
ragionevole che non può superare un mese dalla raccolta, oppure
al
momento
della
comunicazione
(non
della
registrazione) dei dati (a terzi o all’interessato). In tutti i casi, il titolare deve specificare la propria identità e quella dell’eventuale rappresentante nel territorio italiano, le finalità del trattamento, i diritti degli interessati, se esiste un responsabile del trattamento e la sua identità, e quali sono i destinatari dei dati. Ogni volta che le finalità cambiano, il regolamento impone di informarne l’interessato prima di procedere al trattamento ulteriore. Il regolamento, inoltre, specifica le caratteristiche delle informazioni, che devono avere forma concisa, trasparente, intelligibile per l’interessato e facilmente accessibili; occorre utilizzare un linguaggio chiaro e semplice, e per i minori occorre prevedere informazioni idonee. Le informazioni sono date, in linea di principio, per iscritto e preferibilmente in formato elettronico, anche se sono ammessi altri mezzi (quindi possono essere fornite anche oralmente, ma sempre nel rispetto delle caratteristiche sopra esposte).
1.9 I diritti dell’interessato titolare dei dati 1.9.1 Le modalità per l’esercizio dei diritti dell’interessato L’art. 12 del regolamento (UE) 2016/679 introduce ed attribuisce specifici diritti all’interessato, il quale può rivolgersi direttamente
al
titolare
del
trattamento
per
ottenere
informazioni, comunicazioni e modalità trasparenti per l’esercizio dei suoi diritti. Il titolare del trattamento deve adottare le misure appropriate per fornire all’interessato tali informazioni, che devono essere fornite entro un mese dalla richiesta (salvo proroga nei casi più complessi) e avere forma scritta,
anche
attraverso
strumenti
elettronici
che
ne
favoriscano l’accessibilità; queste possono essere fornite oralmente solo se richiesto dall’interessato, purché sia provata la sua identità. Le
informazioni
fornite
all’interessato
ed
eventuali
comunicazioni sono in genere gratuite, ma nel caso in cui siano infondate o eccessive, il titolare del trattamento può addebitare un contributo spese ragionevole, tenendo conto dei costi amministrativi sostenuti per le informazioni, comunicazioni o per intraprendere l’azione richiesta, oppure può rifiutare la richiesta dell’interessato. Rimane a carico del titolare del
trattamento l’onere di dimostrare l’infondatezza o il carattere eccessivo della richiesta.
1.9.2 I diritti dell’interessato La disciplina dei diritti dell’interessato, che non ha bisogno di un’attuazione nazionale, è contenuta nel regolamento (UE) 2016/679 che gli dedica, agli articoli da 15 a 22, un’ampia sezione. In particolare: diritto di accesso dell’interessato (art. 15). Esso comprende il diritto di ottenere la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati e, in caso positivo, di accedere ai medesimi e di conoscere le finalità del trattamento, i destinatari, il periodo, il diritto di reclamo. Fra le informazioni che il titolare deve fornire non rientrano le modalità del trattamento, mentre occorre indicare il periodo di conservazione previsto o, se non è possibile, i criteri utilizzati per definire tale periodo, nonché le garanzie applicate in caso di trasferimento dei dati verso Paesi terzi; diritto di rettifica (art. 16). L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano senza ingiustificato ritardo. Tenuto conto delle finalità del trattamento, l’interessato ha il diritto di ottenere l’integrazione dei dati personali incompleti, anche fornendo una dichiarazione integrativa;
diritto alla cancellazione o diritto all’oblio (art. 17). L’interessato può chiedere e ottenere la cancellazione dei dati personali che lo riguardano quando ricorra almeno uno dei seguenti casi: il venir meno della necessità del trattamento rispetto alle finalità originarie; revoca del consenso;
opposizione
al
trattamento;
illiceità
del
trattamento.
Il diritto all’oblio, tuttavia, non può essere esercitato laddove, pur sussistendo uno dei presupposti sopra elencati, il trattamento sia necessario: per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; per l’adempimento di un obbligo legale; per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica; a fini di archiviazione nel pubblico interesse, a fini di ricerca o statistici, o per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria; diritto di limitazione del trattamento (art. 18): tale diritto è esercitabile sia nei casi di violazione dei presupposti di liceità del trattamento (quale alternativa alla cancellazione dei dati stessi), sia nelle ipotesi in cui l’interessato chiede la rettifica dei dati (in attesa di tale rettifica da parte del titolare) o si oppone al loro trattamento ai sensi dell’art. 21 del regolamento (in attesa della valutazione da parte del titolare). Esclusa la conservazione, ogni altro trattamento del dato di cui si
chiede la limitazione è vietato a meno che ricorrano determinate
circostanze
(consenso
dell’interessato,
accertamento dei diritti in sede giudiziaria, tutela dei diritti di altra persona fisica o giuridica, interesse pubblico rilevante); diritto alla portabilità dei dati (art. 20): è un diritto introdotto dal GDPR e consente all’interessato di ricevere in formato strutturato, di uso comune e leggibile da un dispositivo automatico, i dati personali che lo riguardano e che siano stati forniti al titolare del trattamento. Tale diritto
è
limitato
ai
dati
chiaramente
riferibili
all’interessato (sono quindi esclusi, a titolo di esempio, i dati anonimi e quelli contenuti in archivi o registri cartacei), trattati sulla base di un consenso preventivo, forniti consapevolmente e attivamente dall’interessato; diritto di opposizione (art. 21): l’interessato ha il diritto di opporsi in qualsiasi momento, per motivi connessi alla sua situazione particolare, al trattamento dei dati personali che lo riguardano, compresa la profilazione. Il titolare
del
ulteriormente
trattamento i
dati
si
personali
astiene
dal
trattare
salvo
che
dimostri
l’esistenza di motivi legittimi indispensabili per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.
1.9.3 Le limitazioni ai diritti dell’interessato
L’art. 23 del regolamento attribuisce agli Stati membri cui è soggetto il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento la facoltà di limitare, mediante misure legislative, la portata degli obblighi e dei diritti. A tal fine, il D.Lgs. 101/2018 introduce nel Codice della privacy specifiche disposizioni che integrano quelle riportate nel regolamento europeo. In particolare, tale titolo disciplina le limitazioni dei diritti dell’interessato, per esigenze di tutela di interessi
giuridici
meritevole
di
particolare
protezione. Si prevede, quindi, che i diritti sanciti dagli articoli da 15 a 22 del regolamento non possano essere esercitati con richiesta al titolare o al responsabile del trattamento ovvero con reclamo, qualora ne possa derivare un pregiudizio effettivo e concreto: agli interessi tutelati in base alle disposizioni vigenti in materia di riciclaggio o di sostegno alle vittime di richieste estorsive; all’attività di Commissioni parlamentari d’inchiesta; alle attività svolte da un soggetto pubblico, diverso dagli enti pubblici economici, in base ad espressa disposizione di legge, per esclusive finalità inerenti alla politica monetaria e valutaria, al sistema dei pagamenti, al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e finanziari, nonché alla tutela della loro stabilità; allo
svolgimento
delle
investigazioni
all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria.
difensive
o
Altre limitazioni ai diritti degli interessati sono previste: per ragioni di giustizia (art. 2-duodecies del Codice della privacy), poste per esigenze di salvaguardia dell’indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari; per persone decedute (art. 2-terdecies del Codice della privacy): i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del regolamento concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, da colui che agisce a tutela dell’interessato in qualità di suo mandatario o da colui che agisce per ragioni familiari meritevoli di protezione. L’esercizio di tali diritti non è ammesso nei casi previsti dalla legge o, solo con riferimento ai servizi della società dell’informazione, in seguito della specifica dichiarazione trattamento.
resa
dall’interessato
al
titolare
del
1.10 I soggetti interessati al trattamento 1.10.1 Il titolare del trattamento I soggetti interessati al trattamento dei dati personali sono il titolare del trattamento, il responsabile del trattamento, il responsabile della protezione dei dati personali e i contitolari del trattamento. Il titolare del trattamento è definito come la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento
o
i
criteri
specifici
applicabili
alla
sua
designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri. Il titolare del trattamento è il soggetto che ha il compito di mettere in atto, sin dalla fase della progettazione, misure tecniche e organizzative adeguate per garantire ed essere in grado
di
dimostrare
che
il
trattamento
è
effettuato
conformemente al regolamento. Il titolare è sempre vincolato al dovere di riservatezza dei dati, inteso come dovere di non usare, comunicare o diffondere i dati al di fuori del
trattamento. Egli deve garantire che i dati non siano persi, alterati, distrutti o comunque trattati illecitamente e, in tale prospettiva, spetta a lui stabilire le misure adeguate di sicurezza. Il titolare del trattamento non è, quindi, chi gestisce i dati, ma chi decide il motivo e le modalità del trattamento ed è responsabile giuridicamente dell’ottemperanza degli obblighi previsti dalla normativa, sia nazionale che internazionale, in materia di protezione dei dati personali, compreso l’obbligo di notifica al Garante nei casi previsti.
1.10.2 Il responsabile del trattamento ed il suo rapporto con il titolare Il responsabile del trattamento (data processor) è la persona fisica, giuridica, pubblica amministrazione o ente che elabora i dati personali per conto del titolare del trattamento. Si tratta di un soggetto, distinto dal titolare, che deve essere in grado di fornire garanzie al fine di assicurare il pieno rispetto delle disposizioni in materia di trattamento dei dati personali, nonché di garantire la tutela dei diritti dell’interessato. In merito al rapporto tra il titolare e il responsabile del trattamento
dovrà
essere
disciplinato
tramite
un
contratto scritto o altro atto giuridico (stipulato in forma scritta, anche in formato elettronico) a norma del diritto dell’Unione europea o degli Stati membri, che vincoli entrambe le due figure, e dovrà prevedere la materia disciplinata, la durata del trattamento, la natura e le finalità del trattamento
nonché il tipo di dati personali e le categorie di interessati a cui gli stessi dati si riferiscono.
1.10.3 Il Responsabile della protezione dei dati personali Ai titolari e responsabili di trattamento si affianca una figura
professionale,
obbligatoria
per
le
Pubbliche
Amministrazioni: il Responsabile della protezione dei dati personali (Data protection officer - DPO). Tale figura è disciplinata dall’art. 37 del regolamento europeo. Il privacy officer (agente della privacy) è una figura professionale con competenze giuridiche, informatiche e gestionali, la cui responsabilità principale è osservare, valutare e organizzare la gestione del trattamento di dati personali (e dunque la loro protezione) all’interno di un’azienda, affinché questi siano trattati in modo lecito e pertinente, nel rispetto delle normative vigenti. La designazione è obbligatoria per: i trattamenti svolti da autorità e organismi pubblici (fatta eccezione per le autorità giurisdizionali nell’esercizio delle loro funzioni tipiche); i trattamenti che richiedono monitoraggi regolari e sistematici degli interessati su larga scala; i trattamenti dei dati personali particolari di cui l’art. 9 del regolamento europeo o dei dati attinenti a condanne penali e reati.
Il
DPO
deve
sempre
essere
«tempestivamente
e
adeguatamente coinvolto in tutte le questioni riguardanti la protezione dei dati personali»; esso è, quindi, chiamato ad assumere un ruolo decisivo e centrale sia nell’ambito dei trattamenti compiuti da titolari che per quelli compiuti da responsabili del trattamento. Tale figura, seppur possa trattarsi di un dipendente del titolare o del responsabile, deve disporre di una notevole libertà di mezzi e di giudizio: il regolamento prevede, infatti, che gli siano fornite «le risorse necessarie per assolvere tali compiti e accedere ai dati personali e ai trattamenti e per mantenere la propria conoscenza specialistica» e che «non riceva alcuna istruzione per quanto riguarda l’esecuzione di tali compiti» né che possa essere «rimosso o penalizzato dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento per l’adempimento dei propri compiti».
1.10.4 I contitolari del trattamento Il regolamento prevede la possibilità che vi siano più titolari del trattamento. I contitolari del trattamento non sono definiti dal regolamento, ma sono trattati all’art. 26, il quale stabilisce che “allorché due o più titolari del trattamento determinano congiuntamente le finalità e i mezzi del trattamento, essi sono contitolari del trattamento”. Tali soggetti dovranno determinare in modo trasparente, mediante un accordo interno, le rispettive responsabilità in merito all’osservanza degli obblighi derivanti dal regolamento, con particolare attenzione ai diritti dell’interessato e alle rispettive
funzioni di comunicazione delle informazioni previste dalla normativa vigente.
1.11 Gli strumenti di valutazione e analisi del rischio: le misure di accountability di titolari e responsabili Il regolamento disciplina anche i compiti del titolare e del responsabile del trattamento dei dati, con particolare riferimento alle misure di protezione dei dati stessi e alla valutazione
dei
valorizzando
il
rischi
che
principio
il di
trattamento
comporta,
responsabilizzazione
(accountability). Si tratta di una grande novità per la protezione dei dati in quanto viene affidato ai titolari il compito di decidere autonomamente le modalità, le garanzie e i limiti del trattamento dei dati personali, nel rispetto delle disposizioni normative e alla luce di alcuni criteri specifici indicati nel regolamento. Particolarmente significativa è l’introduzione del concetto della
protezione
dei
dati
personali
fin
dalla
progettazione (“by design”) e protezione dei dati per impostazione predefinita (“by default”), ossia la necessità per i titolari di adottare adeguate misure a protezione dei dati, sia al momento della loro raccolta, che per tutta la durata del trattamento, e di usarli secondo le finalità per cui gli
interessati hanno prestato il loro consenso e per il tempo necessario alla realizzazione delle stesse. Tutto ciò deve avvenire a monte, prima di procedere al trattamento dei dati vero e proprio (“sia al momento di determinare i mezzi del trattamento sia all’atto del trattamento stesso”) e richiede, pertanto, un’analisi preventiva da parte dei titolari che deve sostanziarsi in una serie di attività specifiche e dimostrabili. Fondamentali fra tali attività sono quelle connesse al rischio inerente al trattamento. Quest’ultimo è da intendersi come rischio di impatti negativi sulle libertà e i diritti degli interessati; tali impatti dovranno essere analizzati attraverso un apposito processo di valutazione tenendo conto dei rischi noti o evidenziabili e delle misure tecniche e organizzative (anche di sicurezza) che il titolare ritiene di dover adottare per mitigare tali rischi.
1.12 Ulteriori adempimenti da parte di titolari e responsabili del trattamento 1.12.1 Il Registro dell’attività di trattamento La protezione dei dati nell’impostazione del regolamento è assicurata anche mediante la predisposizione di un Registro delle attività di trattamento. La redazione di un registro, obbligatoria con eccezione per gli organismi con meno di 250 dipendenti ma solo se non effettuano trattamenti a rischio, permette ai titolari di fare il punto sui trattamenti e sui dati trattati, di individuare eventuali trattamenti che comportano rischi per i diritti e le libertà personali, oltre che di verificare costantemente il rispetto della normativa ed avere uno strumento per dimostrare la conformità al regolamento (anche considerando che il titolare ed il responsabile del trattamento devono tenere traccia di tutte le attività di trattamento svolte sotto la propria responsabilità). Il Registro deve avere forma scritta, anche elettronica, e deve essere esibito su richiesta al Garante.
1.12.2 Le misure di sicurezza dei dati personali
Una sezione apposita del Capo IV del regolamento è dedicata alla sicurezza dei dati personali (articoli 32-34). Tali misure devono “garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio”
del
trattamento.
Per
lo
stesso
motivo,
non
sussisteranno più obblighi generalizzati di adozione di misure “minime” di sicurezza poiché tale valutazione sarà rimessa, caso per caso, al titolare e al responsabile in rapporto ai rischi specificamente individuati. Tuttavia, l’Autorità potrà valutare la definizione di lineeguida o buone prassi sulla base dei risultati positivi conseguiti in questi anni. Al fine di garantire la sicurezza del trattamento dei dati personali ed evitare la loro violazione (data breach), il titolare e il responsabile del trattamento debbano mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio. In particolare devono: assicurare la riservatezza, l’integrità, la disponibilità e la solidità dei sistemi e dei servizi di trattamento; ripristinare tempestivamente la disponibilità e l’accesso dei dati personali in caso di incidente fisico o tecnico; adottare una procedura per testare, verificare e valutare regolarmente
l’efficacia
delle
misure
tecniche
e
organizzative al fine di garantire la sicurezza del trattamento; assicurarsi che chiunque agisca sotto la loro autorità e abbia accesso a dati personali non tratti tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare del trattamento, salvo che lo richieda il diritto dell’Unione o degli Stati membri.
Capitolo 2 Le attività di controllo 2.1 Le Autorità di controllo 2.1.1 Le previsioni del regolamento Gli artt. 51 e seguenti del regolamento disciplinano le Autorità di controllo cui spetta la sorveglianza sull’applicazione delle disposizioni al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei loro dati personali. Si prescrive che ogni Stato dell’Unione europea deve prevedere una o più di tali autorità, cui viene riconosciuta piena autonomia e gli si assicura la disponibilità di risorse umane, tecniche e finanziarie adeguate allo svolgimento dei compiti assegnatigli. Ciascuna Autorità di controllo è competente ad eseguire i compiti e esercitare i poteri previsti dal regolamento nel territorio dello Stato membro di appartenenza: sono attribuiti loro compiti di sorveglianza, sensibilizzazione pubblica, consulenza alle istituzioni nazionali, decisione dei reclami degli interessati, collaborazione con le analoghe autorità degli altri Stati dell’Unione europea, istruttori, elaborazione di relazioni annuali sulla loro attività da trasmettere alle autorità statali.
L’art. 58 elenca i poteri delle Autorità distinguendo i poteri istruttori, correttivi, autorizzativi e consultivi. Ulteriore organismo di controllo istituito, cui è attribuito lo status di organismo dell’Unione europea e personalità giuridica, è il Comitato europeo per la protezione dei dati, che ha, tra l’altro, il compito di raccogliere in un registro tutti i codici di condotta approvati, rendendoli pubblici mediante mezzi appropriati.
2.1.2 Il Garante per la protezione dei dati personali L’art. 153 del Codice della privacy, introdotto dalla riforma (D.Lgs. 101/2018) individua nella figura del Garante per la protezione dei dati personali, l’autorità di controllo italiana. In merito ai compiti, l’art. 154 del Codice della privacy, stabilisce che il Garante deve: controllare se i trattamenti sono effettuati nel rispetto della disciplina applicabile, anche in caso di loro cessazione e con riferimento alla conservazione dei dati di traffico; trattare i reclami presentati; promuovere la sottoscrizione di regole deontologiche; denunciare i fatti configurabili come reati perseguibili d’ufficio, dei quali viene a conoscenza nell’esercizio o a causa delle funzioni; trasmettere la relazione annuale al Parlamento e al Governo, entro il 31 maggio dell’anno successivo a quello
cui si riferisce; assicurare la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui; provvedere all’espletamento dei compiti ad esso attribuiti dal diritto dell’Unione europea o dello Stato e svolgere le ulteriori funzioni previste dall’ordinamento. In merito ai poteri, invece, l’art. 154-bis prevede che il Garante, in aggiunta ai poteri previsti dall’art. 58 del regolamento, possa adottare linee guida non vincolanti con riferimento alle misure organizzative e tecniche di attuazione dei
principi
del
regolamento
e
approvare
le
regole
deontologiche ai sensi dell’art. 2-quater del Codice della privacy.
2.2 Le tutela amministrativa e giurisdizionale 2.2.1 I mezzi di ricorso degli interessati La riforma operata dal D.Lgs. 101/2018 novella anche la disciplina del Codice della privacy relativa alla tutela (amministrativa e giurisdizionale) dell’interessato, quella relativa al Garante nonché la disciplina sanzionatoria per le violazioni della normativa in materia di dati personali. In
base
al
regolamento
europeo,
gli
strumenti
a
disposizione dell’interessato a sua tutela sono: il reclamo all’autorità di controllo: fatto salvo ogni altro ricorso amministrativo o giurisdizionale, l’interessato che ritenga che il trattamento che lo riguarda violi il regolamento ha il diritto di proporre reclamo all’autorità di controllo dello Stato membro in cui risiede o lavora abitualmente, ovvero dello Stato in cui si è verificata la presunta violazione; il ricorso giurisdizionale effettivo nei confronti dell’autorità di controllo, esperito nello Stato membro in cui l’autorità di controllo è stabilita: avverso una decisione giuridicamente vincolante dell’autorità di controllo che lo riguarda;
qualora l’autorità di controllo competente non tratti un reclamo o non lo informi entro tre mesi dello stato o dell’esito del reclamo proposto; il ricorso giurisdizionale effettivo nei confronti del titolare e/o del responsabile del trattamento: fatto salvo ogni altro ricorso amministrativo o extragiudiziale disponibile, compreso il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo, ogni interessato ha il diritto di proporre un ricorso giurisdizionale effettivo qualora ritenga che i diritti di cui gode a norma del regolamento siano stati violati a seguito di un trattamento. Le azioni devono essere esperite nei confronti del titolare e/o del responsabile
del
trattamento
dinanzi
alle
autorità
giurisdizionali dello Stato in cui titolare e/o responsabile hanno uno stabilimento ovvero a quelle dello Stato membro in cui risiede abitualmente l’interessato. Dunque, l’interessato può proporre reclamo al Garante o, in alternativa, ricorrere al giudice (tribunale ordinario): la pendenza di una controversia davanti all’autorità giudiziaria tra le stesse parti e per lo stesso oggetto, costituisce motivo ostativo alla proposizione del reclamo. Analogamente, la presentazione del reclamo al Garante preclude la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria, a meno che il Garante non abbia violato i termini per esprimersi sul reclamo o per informare sullo stato del procedimento l’interessato. La competenza su tutte le controversie in materia di protezione dei dati personali ed il relativo diritto al risarcimento del danno spetta all’Autorità giudiziaria ordinaria.
2.2.2 Il reclamo L’interessato può rivolgersi al Garante con lo strumento del reclamo, previsto ai sensi dell’art. 77 del regolamento. Il reclamo deve contenere l’indicazione dettagliata dei fatti e delle circostanze su cui si fonda, delle disposizioni che si presumono violate e delle misure richieste, nonché gli estremi identificativi del titolare o del responsabile del trattamento, ove conosciuto. Esso deve essere sottoscritto dell’interessato o, su mandato di questo, da un ente del terzo settore, attivo nel settore della tutela dei diritti e delle libertà degli interessati con riguardo alla protezione dei dati personali. Al reclamo va allegata la documentazione utile ai fini della sua valutazione, l’eventuale mandato e l’indicazione di un recapito per l’invio di comunicazioni anche tramite posta elettronica, telefax o telefono. Il Garante decide il reclamo entro nove mesi dalla data di presentazione e, in ogni caso, entro 3 mesi dalla predetta data informa l’interessato sullo stato del procedimento. In presenza di motivate esigenze istruttorie, che sono comunicate all’interessato, il reclamo è deciso entro 12 mesi. Oltre al reclamo, è previsto anche lo strumento della segnalazione, come ulteriore forma di tutela amministrativa comunque attivabile da soggetti diversi dall’interessato al fine di portare all’attenzione e richiedere l’intervento del Garante in relazione a vicende, anche a carattere collettivo e sociale, concernenti
possibili
protezione dati.
violazioni
della
disciplina
sulla
Estensioni WEB
Test di verifica online
Libro V Normativa in materia di trasparenza e anticorruzione SOMMARIO Capitolo 1 Gli obblighi di trasparenza e le misure per prevenire la corruzione Capitolo 2 La gestione delle risorse umane e le misure anticorruzione
Capitolo 1 Gli obblighi di trasparenza e le misure per prevenire la corruzione 1.1 Quadro normativo e definizione del concetto di corruzione Nel corso dell’ultimo decennio si è imposto sempre più nello scenario internazionale il tema della corruzione,
fenomeno avvertito, anche da parte dei cittadini, nella sua gravità per gli effetti negativi che determina sul tessuto sociale. Del problema si sono fatte carico le principali organizzazioni internazionali (l’ONU e il Consiglio d’Europa in particolare), che hanno prodotto importanti strumenti convenzionali multilaterali, con l’indicazione della necessità di approntare strumenti di contrasto. In Italia, al termine di un tormentato iter parlamentare (durato circa due anni), nel 2012 è stata approvata la legge per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione ( L. 6-11-2012, n. 190, cosiddetta legge Severino). L’elemento di maggiore novità della legge è la forza che viene posta sulle azioni di prevenzione della corruzione rispetto alla mera risposta repressiva. Nel quadro delineato dalla legge tale attività deve essere svolta: a livello nazionale attraverso l’operato dell’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) cui spetta il compito di
approvare
e
pubblicare
il
Piano
Nazionale
Anticorruzione (PNA) con validità triennale; a livello di singola amministrazione che deve individuare
tra
i
soggetti
che
esercitano
funzioni
dirigenziali un Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT), al quale spetta la redazione del Piano specifico. La finalità della L. 190/2012 è quella di introdurre nell’ordinamento italiano un sistema organico di disposizioni
finalizzate alla prevenzione del fenomeno corruttivo. In attuazione delle disposizioni contenute nella citata legge, infatti, sono stati approvati i seguenti atti: il D.Lgs. 14-3-2013, n. 33 ( decreto trasparenza ) che impone misure volte a garantire la massima trasparenza delle amministrazioni, obbligate a fornire, anche soltanto via Internet, una serie di informazioni in grado di garantire un più diffuso controllo del suo operato; il D.Lgs. 8-4-2013, n. 39 , che ha introdotto una disciplina in materia di incarichi negli organi politici e nelle
strutture
definizione
amministrative,
delle
ipotesi
di
con
una
puntuale
inconferibilità
e
incompatibilità; il D.P.R. 16-4-2013, n. 62 con il quale è stato approvato il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (in sostituzione di quello del 2001) e che riporta misure specifiche volte a prevenire possibili attività corruttive. A questi provvedimenti occorre aggiungere il D.Lgs. 25-52016, n. 97 , intervenuto come correttivo sia della L. 190/2012 che del D.Lgs. 33/2013. Ai fini dell’applicazione della disciplina in esame il concetto di corruzione è inteso nella sua accezione più ampia: comprende, cioè, tutte le situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’ abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati .
Le situazioni rilevanti sono, quindi, evidentemente più ampie delle diverse fattispecie penalistiche disciplinate negli artt. 318 ss. c.p., e sono tali da comprendere non solo l’intera gamma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione disciplinati nel Titolo II, Capo I, del codice penale, ma anche le situazioni in cui, indipendentemente dalla rilevanza penale, venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite. La definizione del fenomeno è, pertanto, più ampia dello specifico reato di corruzione e del complesso dei reati contro la Pubblica
Amministrazione
e
coincidente
con
la
“
maladministration ”, intesa come assunzione di decisioni (di assetto di interessi a conclusione di procedimenti, di determinazioni di fasi interne a singoli procedimenti, di gestione di risorse pubbliche) devianti rispetto alla cura dell’interesse
generale
a
causa
del
condizionamento
improprio da parte di interessi particolari . Occorre, cioè, avere riguardo ad atti e comportamenti che, anche se non consistenti in specifici reati, contrastano con la necessaria cura dell’interesse pubblico e pregiudicano l’affidamento dei cittadini nell’imparzialità delle amministrazioni e dei soggetti che svolgono attività di pubblico interesse (cfr. circ. Funzione pubblica n. 1 del 25-1-2013).
1.2 Soggetti e ruoli della strategia di prevenzione 1.2.1 Soggetti della strategia di prevenzione a livello nazionale La strategia di prevenzione della corruzione si esplica in tre direzioni: creare un contesto sfavorevole ai fenomeni corruttivi, aumentare la capacità di scoprire casi di corruzione e ridurre le opportunità che si manifestino. Con la L. 190/2012, lo Stato ha individuato gli organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare una azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione. La strategia nazionale di prevenzione della corruzione, infatti, è attuata mediante l’azione sinergica delle seguenti istituzioni: l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), che svolge funzioni di raccordo con le altre autorità ed esercita poteri di vigilanza e controllo dell’efficacia delle misure di prevenzione (vedi infra ); la Corte dei Conti, che partecipa ordinariamente all’attività di prevenzione attraverso le sue funzioni di controllo; il Comitato interministeriale che elabora linee di indirizzo/direttive
(art.
1,
co.
4,
L.
190/2012),
effettivamente istituito e disciplinato con D.P.C.M. 16-12013; la Conferenza unificata Stato/Regioni e autonomie locali, chiamata ad individuare adempimenti e termini per l’attuazione della legge e dei decreti attuativi da parte di regioni, province autonome, enti locali enti pubblici e soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo (art. 1, co. 60 e 61, L. 190/2012); il Dipartimento della funzione pubblica (DFP), quale soggetto promotore delle strategie di prevenzione e coordinatore della loro attuazione (art. 1, co. 4, L. 190/2012); i Prefetti, che forniscono supporto tecnico-informativo, facoltativo, agli enti locali (art. 1, co. 6, L. 190/2012); la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), che predispone percorsi, anche specifici e settoriali, di formazione di dipendenti delle amministrazioni statali (art. 1, co. 11, L. 190/2012); le
Pubbliche
Amministrazioni
che
attuano
ed
implementano le misure previste dalla legge e dal Piano Nazionale Anticorruzione (art. 1 L. 190/2012), anche attraverso l’azione del proprio RPCT; gli enti pubblici economici e soggetti di diritto privato in controllo
pubblico,
dell’introduzione
ed
responsabili
anche
implementazione
delle
essi misure
previste dalla legge e dal Piano Nazionale Anticorruzione (art. 1 L. 190/2012).
1.2.2 Soggetti della strategia di prevenzione a livello decentrato I soggetti che concorrono alla prevenzione della corruzione all’interno di ciascuna amministrazione e i relativi compiti e funzioni sono: l’ Autorità di indirizzo politico designa il responsabile (art. 1, co. 7, L. 190/2012); adotta, su proposta del RPCT ed entro il 31 gennaio di ogni anno, il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (PTPCT) e i suoi aggiornamenti, comunicandoli all’ANAC (art. 1, co. 8, L. 190/2012); definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, che costituiscono contenuto necessario dei documenti di programmazione strategico-gestionale e del Piano triennale; il
Responsabile
della
Prevenzione
della
Corruzione e della Trasparenza (RPCT): svolge i compiti indicati nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica 1/2013 e quelli di vigilanza sul rispetto delle norme in materia di inconferibilità e incompatibilità; elabora la relazione annuale sull’attività svolta e ne assicura la pubblicazione; coincide con il Responsabile della trasparenza e ne svolge conseguentemente le funzioni (art. 43 D.Lgs.
33/2013); i referenti per la prevenzione per l’area di rispettiva competenza: possono essere individuati nel PTPCT (secondo quanto previsto nella circolare Dipartimento della
funzione
pubblica
1/2013),
svolgono
attività
informativa nei confronti del RPCT, affinché questi abbia elementi e riscontri sull’intera organizzazione ed attività dell’amministrazione,
e
di
costante
monitoraggio
sull’attività svolta dai dirigenti assegnati agli uffici di riferimento, anche in merito agli obblighi di rotazione del personale; tutti i dirigenti, per l’area di rispettiva competenza: concorrono alla definizione di misure idonee a prevenire e contrastare i fenomeni di corruzione e a controllarne il rispetto da parte dei dipendenti dell’ufficio cui sono preposti; forniscono le informazioni richieste dal soggetto competente per l’individuazione delle attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione e formulano specifiche proposte volte alla
prevenzione
del
rischio
medesimo
e
propongono le misure di prevenzione; provvedono
al
monitoraggio
delle
attività
nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di
natura corruttiva (art. 16, co. 1, lett. l-bis , l-ter e lquater , D.Lgs. 165/2001); assicurano
l’osservanza
comportamento
e
del
Codice
verificano
le
di
ipotesi
di
violazione; gli Organismi Indipendenti di Valutazione (OIV) e gli altri organismi di controllo interno: partecipano al processo di gestione del rischio; considerano i rischi e le azioni inerenti la prevenzione della corruzione nello svolgimento dei compiti ad essi attribuiti; svolgono
compiti
anticorruzione
nel
propri settore
connessi
all’attività
della
trasparenza
amministrativa (artt. 43 e 44 D.Lgs. 33/2013); esprimono parere obbligatorio sul Codice di comportamento
adottato
da
ciascuna
amministrazione (art. 54, co. 5, D.Lgs. 165/2001); l’ Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD): svolge i procedimenti disciplinari nell’ambito della propria competenza (art. 55-bis D.Lgs. 165/2001); provvede alle comunicazioni obbligatorie nei confronti dell’autorità giudiziaria (art. 331 c.p.p.); propone
l’aggiornamento
del
Codice
di
comportamento; tutti i dipendenti dell’amministrazione: partecipano al processo di gestione del rischio; osservano le misure contenute nel PTPCT, per non incorrere in illecito disciplinare (art. 1, co. 14, L.
190/2012); segnalano le situazioni di illecito al proprio dirigente o all’UPD (art. 54-bis D.Lgs. 165/2001); segnalano casi di personale conflitto di interessi (art. 6-bis L. 241/1990; artt. 6 e 7 Codice di comportamento); i
collaboratori
a
qualsiasi
titolo
dell’amministrazione, tenuti ad osservare le misure contenute nel PTPCT e segnalare le situazioni di illecito (art. 8 Codice di comportamento).
1.3 L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC): composizione e attribuzioni L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) è un organo collegiale composto dal Presidente e da quattro componenti scelti tra esperti di elevata professionalità, anche estranei all’amministrazione, con comprovate competenze in Italia e all’estero, sia nel settore pubblico che in quello privato, di notoria indipendenza e comprovata esperienza in materia di contrasto alla corruzione, di management e misurazione della performance, nonché di gestione e valutazione del personale. Non possono essere scelti tra persone che rivestono incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano rivestito tali incarichi e cariche nei 3 anni precedenti la nomina e, in ogni caso, non devono avere interessi di qualsiasi natura in conflitto con le funzioni dell’Autorità. I componenti sono nominati per un periodo di 6 anni e non possono essere confermati nella carica. Con la L. 3/2003 era stato istituito un organismo, alle dipendenze del Presidente del Consiglio dei Ministri, denominato Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto alla corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della Pubblica Amministrazione . Tale struttura è
stata soppressa nel 2012 e le sue competenze trasferite al Dipartimento della funzione pubblica. Con l’approvazione della legge anticorruzione (art. 1, co. 2, L. 190/2012) le competenze in materia furono attribuite alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT) , un organismo che aveva il compito di misurare la performance delle amministrazioni pubbliche. Con l’attribuzione alla CIVIT anche dei compiti per il contrasto della corruzione si intendeva ricondurre a un unico soggetto istituzionale la regolazione di tre ambiti (performance, trasparenza, integrità),
la
cui
riconoscimento
efficace
della
stretta
gestione
presuppone
interconnessione
tra
il il
funzionamento dei sistemi di misurazione, valutazione e controllo delle amministrazioni, l’adozione di misure di trasparenza, la promozione di modelli di integrità. Successivamente, con l’art. 5 D.L. 101/2013, la CIVIT ha assunto
la
denominazione
di
Autorità
Nazionale
Anticorruzione (ANAC). Con la soppressione dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) e il trasferimento delle sue competenze all’ANAC, le funzioni dell’Autorità sono state nuovamente ridisegnate. Lo stesso provvedimento che attribuiva all’ANAC le funzioni in materia di vigilanza sui contratti pubblici provvedeva a “ritrasferire” al Dipartimento della funzione pubblica quelle in materia di misurazione
e
valutazione
della
performance
delle
amministrazioni pubbliche; l’attuazione di tale riordino è stata disciplinata dal D.P.R. 105/2016.
La missione istituzionale dell’ANAC può essere individuata nella
prevenzione
(anche
mediante
l’attuazione
della
trasparenza in tutti gli aspetti gestionali) della corruzione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, delle società partecipate e di quelle controllate e comunque in ogni settore della Pubblica Amministrazione che potenzialmente possa sviluppare
fenomeni
corruttivi.
Tale
attività
implica
soprattutto una vigilanza nell’ambito dell’assegnazione dei contratti pubblici e degli incarichi professionali e un’azione di orientamento dei comportamenti e delle attività degli impiegati pubblici, con interventi in sede consultiva e di regolazione. La chiave dell’attività dell’ANAC, nella visione attualmente espressa, è quella di vigilare per prevenire la corruzione creando una rete di collaborazione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche e al contempo aumentare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, riducendo i controlli formali, che comportano appesantimenti procedurali e aumento dei costi senza creare valore per i cittadini e per le imprese. In materia di contrasto al fenomeno della corruzione l’ANAC svolge le seguenti attività: collabora con i paritetici organismi stranieri, con le organizzazioni regionali ed internazionali competenti; approva il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA);
analizza le cause e i fattori della corruzione e individua gli interventi che ne possono favorire la prevenzione e il contrasto; esprime pareri facoltativi agli organi dello Stato e a tutte le amministrazioni pubbliche in materia di conformità di atti e comportamenti dei funzionari pubblici alla legge, ai Codici di comportamento e ai contratti, collettivi e individuali, regolanti il rapporto di lavoro pubblico; esprime pareri facoltativi in materia di autorizzazioni allo svolgimento di incarichi esterni da parte dei dirigenti amministrativi dello Stato e degli enti pubblici nazionali (art. 53 D.Lgs. 165/2001); esercita la vigilanza e il controllo sull’effettiva applicazione e sull’efficacia delle misure adottate dalle Pubbliche Amministrazioni per il contrasto al fenomeno della corruzione e sul rispetto delle regole sulla trasparenza dell’attività amministrativa; riferisce al Parlamento, presentando una relazione entro il 31 dicembre di ciascun anno, sull’attività di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione e sull’efficacia delle disposizioni vigenti in materia. Ai sensi dell’art. 1, co. 4, L. 190/2012 (a seguito dell’art. 19 D.L. 90/2014) l’ANAC inoltre: coordina l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione internazionale;
elaborate
a
livello
nazionale
e
promuove e definisce norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali; definisce modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla presente legge, secondo modalità che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata; definisce criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni. Tutte le Pubbliche Amministrazioni, invece, devono elaborare e trasmettere all’ANAC: un Piano di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza che fornisce una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio; procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la SNA, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari.
1.4 Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) Il RPCT è una persona fisica, individuata dagli organi di governo delle amministrazioni pubbliche, a cui viene affidato il compito di gestire, coordinare e vigilare sulle “misure” di prevenzione del rischio corruttivo, con capacità proprie di intervento, anche sanzionatorio , allo scopo di garantire un modello di tutela anticipata in grado di ridurre i fenomeni di cattiva amministrazione, non necessariamente rilevanti sotto il profilo penale. Il RPCT è considerato un punto di riferimento delle politiche di prevenzione della corruzione, nella fase antecedente
all’evento
criminoso
;
tale
figura
istituzionale è stata delineata per la prima volta dalla L. 190/2012,
creando
un
riferimento
interno
ad
ogni
amministrazione responsabile dell’attuazione delle politiche di gestione del rischio corruttivo, interfaccia per le diverse attività organizzative sia degli organi elettivi che del personale, nonché riferimento diretto dell’ANAC per i presidi di legalità e degli OIV. Questa figura apicale dell’ente, ai sensi dell’art. 1, co. 7, L. 190/2012, è individuata di norma tra i dirigenti di ruolo
in servizio , mentre negli enti locali è individuato, di norma, nel Segretario o nel dirigente apicale . Il RPCT provvede a: definire eventuali modifiche organizzative per garantire funzioni e poteri idonei per lo svolgimento dell’incarico (che è a termine) con piena “autonomia ed effettività”; predisporre, a livello decentrato e in via esclusiva (essendo vietato l’ausilio esterno), il PTPCT e il calendario della formazione per tutto il personale e settoriale per i soggetti maggiormente esposti al rischio corruttivo; segnalare all’organo di indirizzo e all’OIV (o ai Nuclei di valutazione) le disfunzioni inerenti all’attuazione delle misure previste nei PTPCT; indicare agli UPD i nominativi dei dipendenti che non hanno attuato correttamente le misure in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza, rilevando che l’art. 8 del Codice di comportamento (D.P.R. 62/2013) impone che “il dipendente rispetta le prescrizioni contenute nel piano per la prevenzione della corruzione, presta la sua collaborazione al Responsabile della prevenzione della corruzione”; verificare l’efficace attuazione del PTPCT e della sua idoneità, nonché proporre la modifica dello stesso quando sono accertate significative violazioni delle prescrizioni, ovvero
quando
intervengono
mutamenti
nell’organizzazione o nell’attività dell’amministrazione; verificare d’intesa con il dirigente competente, l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici maggiormente esposti
ai reati di corruzione; redigere la relazione annuale di rendiconto sull’efficacia delle misure di prevenzione definite dai PTPCT, entro il 15 dicembre di ogni anno. Lo stesso, poi, assolve anche le funzioni di Responsabile per la Trasparenza di cui all’art. 43 D.Lgs. 33/2013 e in particolare svolge
stabilmente
un’attività
di
monitoraggio
sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente. In caso di commissione, all’interno dell’ente, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il RPCT risponde sotto il profilo della responsabilità dirigenziale ( ex art. 21 D.Lgs. 165/2001), anche giungendo alla rimozione dell’incarico, su quello della responsabilità disciplinare (la sanzione viene codificata dal legislatore non inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di 1 mese ad un massimo di 6 mesi), oltre che per danno
erariale
e
di
immagine
della
Pubblica
Amministrazione. Per andare esente da responsabilità deve provare di avere predisposto e osservato le prescrizioni del PTPCT, prima della commissione del fatto, e di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza di tale Piano. Il Responsabile può esercitare la funzione solo in presenza di un elevato grado di autonomia e indipendenza, garantito da un periodo minimo di durata dell’incarico e dall’attivazione di unatutela rafforzata in caso di revoca. Non vi è dubbio che nell’attività ordinaria il RPCT non sempre gode di effettiva autonomia nei confronti dell’organo di indirizzo dell’ente,
specie quando l’attività si riversa nel segnalare comportamenti anomali e pregiudizievoli; e queste sono le ragioni per cui l’ANAC, nell’esercizio del potere di vigilanza sull’apporto del RPCT, si riserva di verificare non solo che l’esercizio del potere sanzionatorio avvenga nel rigoroso rispetto delle norme, ma anche che sia garantita al Responsabile la massima autonomia e indipendenza e che lo stesso non sia sottoposto ad atti diretti e/o indiretti di influenza e/o ritorsivi. A tale scopo, il provvedimento di revoca dell’incarico va motivato e comunicato all’ANAC che, entro 30 giorni, può formulare una richiesta di riesame, qualora rilevi che la revoca sia correlata alle attività svolte dal responsabile in materia di prevenzione della corruzione, stabilendo che decorso il termine la revoca diventi efficace (art. 15, co. 3, D.Lgs. 39/2013).
1.5 Gli strumenti operativi per la lotta alla corruzione 1.5.1 Il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) Il sistema di prevenzione della corruzione introdotto nel nostro ordinamento con la L. 190/2012 si caratterizza per l’articolazione dell’attuazione delle strategie di prevenzione della corruzione su due livelli: nazionale, attraverso il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), che ha la finalità di garantire la coerenza complessiva del sistema di prevenzione della corruzione; decentrato, attraverso il PTPCT, con la finalità di garantire l’autonomia delle singole amministrazioni e l’efficacia di soluzioni personalizzate. Tra i compiti che la L. 190/2012 assegna all’ANAC è essenziale quello di approvazione del Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) , predisposto dal DFP presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Piano, elaborato sulla base delle direttive contenute nelle Linee di indirizzo del Comitato interministeriale, sentita la Conferenza Unificata, contiene degli obiettivi strategici governativi
per
lo
sviluppo
della
strategia
di
prevenzione a livello centrale e fornisce indirizzi e
supporto alle amministrazioni pubbliche per l’attuazione della prevenzione della corruzione e per la stesura del PTPCT. Si tratta, dunque, di un atto di indirizzo per le amministrazioni e per gli altri soggetti che, in applicazione della normativa, sono tenuti ad adottare o ad aggiornare concrete e effettive misure di prevenzione di fenomeni corruttivi. Esso, inoltre, anche in relazione alla dimensione e ai diversi settori di attività degli enti, individua i principali rischi di corruzione e i relativi rimedi e contiene l’indicazione di obiettivi, tempi e modalità di adozione e attuazione delle misure di contrasto alla corruzione. Il PNA ha durata triennale ed è aggiornato annualmente (l’approvazione definitiva dell’aggiornamento 2018 è avvenuta con delibera dell’ANAC n. 1074 del 21 novembre 2018). Il PNA si articola generalmente in tre sezioni: la prima sevidenzia gli obiettivi strategici e le azioni previste, da implementare a livello nazionale nel triennio di riferimento; la seconda illustra la strategia di prevenzione a livello di ciascuna Pubblica Amministrazione, e contiene le direttive alle Pubblica Amministrazione per l’applicazione delle misure di prevenzione, tra cui quelle obbligatorie per legge; la terza contiene indicazioni relative alle comunicazioni dei dati e delle informazioni al Dipartimento della funzione pubblica.
Il
PNA
fornisce,
altresì,
indirizzi
e
supporto
alle
amministrazioni pubbliche per l’attuazione della prevenzione della corruzione e per la stesura del Piano triennale.
1.5.2 Il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (PTPCT) L’adozione e il contenuto del Piano A livello periferico, l’art. 1, co. 8, L. 190/2012 prevede che, su proposta del RPCT, ogni amministrazione pubblica, o ad essa equiparata, adotti un Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (PTPCT) e ne curi la trasmissione all’ANAC. Negli enti locali il Piano è approvato dalla Giunta e la sua elaborazione non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione. Il Piano deve essere approvato, e successivamente aggiornato, entro il 31 gennaio di ogni anno. L’aggiornamento consente di adeguare la strategia di prevenzione della corruzione ai mutamenti del contesto interno ed esterno di riferimento, tenendo conto dei risultati ottenuti o delle criticità riscontrate durante la prima fase attuativa. I piani delle singole amministrazioni devono individuare le attività a maggior rischio corruttivo e tutti gli interventi utili a prevenire tale fenomeno. Oltre a ciò, i PTPCT definiscono le misure per l’attuazione effettiva degli obblighi di trasparenza, ossia le soluzioni organizzative più idonee ad assicurare l’adempimento degli obblighi di pubblicazione di dati e informazioni 33/2013).
previsti
dalla
normativa
vigente
(D.Lgs.
In definitiva, nel PTPCT si delinea un programma di attività derivante da una preliminare fase di analisi che, in sintesi, consiste nell’esaminare l’organizzazione, le sue regole e le sue prassi di funzionamento in termini di “possibile esposizione” al fenomeno corruttivo. Ciò deve avvenire analizzando
il
sistema
dei
processi
organizzativi,
con
particolare attenzione alla struttura dei controlli ed alle aree sensibili nel cui ambito possono verificarsi episodi di corruzione. Attraverso la predisposizione del PTPCT, in sostanza, l’amministrazione è tenuta ad attivare azioni ponderate e coerenti tra loro capaci di ridurre significativamente il rischio
di
comportamenti
corrotti:
ciò
implica
necessariamente una valutazione probabilistica di tale rischiosità e l’adozione di un sistema di gestione del rischio medesimo.
Si tratta, dunque, di un programma di attività, con indicazione delle aree di rischio e dei rischi specifici, delle misure da implementare per la prevenzione in relazione al livello di pericolosità dei rischi specifici, dei responsabili per l’applicazione di ciascuna misura e dei tempi. La mancata adozione del Piano e il procedimento sanzionatorio La mancata adozione del Piano comporta l’attivazione da parte dell’ANAC di un procedimento sanzionatorio a carico del soggetto obbligato ad adottarlo. Innanzitutto va sottolineato che equivale ad omessa adozione:
l’approvazione
di
un
provvedimento
puramente
ricognitivo di misure, in materia di anticorruzione, in materia di adempimento degli obblighi di pubblicità ovvero in materia di Codice di comportamento di amministrazione; l’approvazione di un provvedimento il cui contenuto riproduca in modo integrale analoghi provvedimenti adottati da altre amministrazioni, privo di misure specifiche
introdotte
in
relazione
alle
esigenze
dell’amministrazione interessata; l’approvazione di un provvedimento privo di misure per la prevenzione del rischio nei settori più esposti, privo di misure
concrete
di
attuazione
degli
obblighi
di
pubblicazione di cui alla disciplina vigente, meramente riproduttivo
del
Codice
di
comportamento
(D.P.R.
62/2013). Il
procedimento
sanzionatorio
,
per
espressa
previsione legislativa, segue i principi generali sanciti dalla L. 689/1981. Fra questi particolare considerazione merita l’elemento soggettivo e il concorso di persone, in base al quale qualora più persone concorrano ad una omissione o violazione, ciascuna di questa sia soggetto alla sanzione per questa disposta. In ossequio a tale principio, ad esempio, nei diversi provvedimenti sanzionatori finora adottati l’ANAC ha spesso sanzionato sia il Segretario comunale che il Sindaco e i componenti della Giunta per la mancata predisposizione e approvazione del Piano.
L’importo della sanzione pecuniaria è definito entro i limiti minimi e massimi previsti dall’art. 19, co. 5, lett. b), D.L. 90/2014, secondo cui, salvo che il fatto costituisca reato, l’ANAC applica una sanzione amministrativa non inferiore nel minimo a 1.000 e non superiore nel massimo a 10.000 euro. L’importo specifico della sanzione è definito in rapporto: alla gravità dell’infrazione, anche tenuto conto del grado di partecipazione
dell’interessato
al
comportamento
omissivo; alla rilevanza degli adempimenti omessi, anche in relazione
alla
dimensione
dell’amministrazione
e
al
grado
organizzativa di
esposizione
dell’amministrazione, o di sue attività, al rischio di corruzione; alla contestuale omissione di più di uno dei provvedimenti obbligatori; all’eventuale reiterazione di comportamenti analoghi a quelli contestati; all’opera
svolta
l’attenuazione
dall’agente delle
per
l’eliminazione
conseguenze
o
dell’infrazione
contestata. Le fasi del procedimento sanzionatorio sono regolamentate dalla Delibera ANAC 233/2014. L’individuazione delle aree di rischio L’individuazione delle aree di rischio ha la finalità di consentire l’emersione delle aree nell’ambito dell’attività
dell’intera amministrazione che devono essere presidiate più di altre mediante l’implementazione di misure di prevenzione . Rispetto a tali aree il PTPCT deve identificare le loro caratteristiche, le azioni e gli strumenti per prevenire il rischio, stabilendo le priorità di trattazione. L’individuazione delle aree di rischio è il risultato di un processo complesso, che presuppone la valutazione del rischio da realizzarsi attraverso la verifica dell’impatto del fenomeno corruttivo in rapporto alle singole attività svolte nell’ente. La
metodologia
utilizzata
dall’amministrazione
per
effettuare la valutazione del rischio deve essere indicata e risultare in maniera chiara nel PTPCT. Per “rischio” s’intende l’effetto dell’incertezza sul corretto perseguimento
dell’interesse
pubblico
e,
quindi,
sull’obiettivo istituzionale dell’ente, dovuto alla possibilità che si verifichi un dato evento. Per “evento” s’intende il verificarsi o il modificarsi di un insieme di circostanze che si frappongono o si oppongono al perseguimento dell’obiettivo istituzionale dell’ente.
Le aree di rischio variano a seconda del contesto esterno ed interno e della tipologia di attività istituzionale svolta dalla specifica
amministrazione.
Tuttavia,
l’esperienza
internazionale e nazionale mostrano che vi sono delle aree di rischio ricorrenti, rispetto alle quali potenzialmente tutte le pubbliche amministrazioni sono esposte. La L. 190/2012, infatti, ha individuato quattro macro aree
di
rischio
,
ritenendole
comuni
a
tutte
le
amministrazioni, elencate nell’art. 1, co. 16, L. 190/2012: provvedimenti
ampliativi
della
sfera
giuridica
dei
destinatari privi di effetto economico diretto ed immediato per il destinatario (autorizzazione e concessione); procedure connesse alla scelta del contraente nei contratti pubblici (requisiti di qualificazione, requisiti di aggiudicazione, valutazione delle offerte, procedure negoziate, affidamenti diretti); provvedimenti
ampliativi
della
sfera
giuridica
dei
destinatari con effetto economico diretto ed immediato per il destinatario (erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi,
ausili
finanziari,
nonché
attribuzione
di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati); acquisizione e gestione del personale (reclutamento, progressioni di carriera, conferimento di incarichi di collaborazione). Nell’ambito del PTPCT per ciascuna area di rischio debbono essere indicate le misure di prevenzione da implementare per ridurre la probabilità che il rischio si verifichi. Le misure
possono
essere
obbligatorie (la loro
applicazione discende obbligatoriamente dalla legge o da altre fonti normative) oppure ulteriori (pur non essendo obbligatorie per legge, sono rese obbligatorie dal loro inserimento nel PTPCT).
1.6 La trasparenza dell’attività amministrativa 1.6.1 La trasparenza in funzione di prevenzione della corruzione La trasparenza rappresenta uno strumento fondamentale per la prevenzione della corruzione e per l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Essa, ai sensi dell’art. 1, co. 15, L. 190/2012, costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m), della Costituzione. Viene assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi,
secondo
criteri
di
facile
accessibilità,
completezza e semplicità di consultazione. Per
adempiere
agli
obblighi
di
trasparenza,
le
amministrazioni devono predisporre sulla home page del proprio sito istituzionale la sezione “ Amministrazione Trasparente ” (art. 9 D.Lgs. 33/2013): si tratta di un applicativo web di facile attivazione, che consente l’organizzazione e la gestione delle pubblicazioni per tutto il periodo previsto dalla normativa, nonché l’archiviazione elettronica dei documenti versati, con possibilità, per il personale autorizzato, di poter consultare gli stessi in ogni
momento e la consultazione, da parte dei cittadini, dei dati e dei relativi allegati.
Ai sensi dell’art. 1, co. 35, L. 190/2012, il Governo ha adottato il D.Lgs. 14-3-2013, n. 33, che ha riordinato la normativa esistente, anche innovandola, fornendo così una disciplina unitaria della trasparenza amministrativa. Nell’art. 1 D.Lgs. 33/2013 la trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche. Nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio, di segreto statistico e di protezione dei dati personali, concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla Nazione.
1.6.2 Ambito soggettivo del decreto trasparenza L’art. 2-bis D.Lgs. 33/2013, introdotto dal D.Lgs. 97/2016, ridisegna l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina sulla
trasparenza
rispetto
alla
precedente
indicazione
normativa contenuta nell’abrogato art. 11 del D.Lgs. 33/2013. I destinatari degli obblighi di trasparenza sono ora ricondotti a tre categorie di soggetti:
Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, D.Lgs. 165/2001, ivi comprese le autorità portuali nonché le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione, destinatarie dirette della disciplina contenuta nel decreto (art. 2-bis, co. 1); enti pubblici economici , ordini professionali, società in controllo pubblico, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato, sottoposti alla medesima disciplina prevista per le Pubbliche Amministrazioni in quanto compatibile (art. 2-bis, co. 2); società a partecipazione pubblica , associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato soggetti alla medesima disciplina in materia di trasparenza prevista per le Pubbliche Amministrazioni in quanto compatibile e limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea (art. 2-bis, co. 3). Il criterio della compatibilità va inteso come necessità di trovare adattamenti agli obblighi di pubblicazione in ragione delle peculiarità organizzative e funzionali delle diverse tipologie di enti, e non in relazione alle peculiarità di ogni singolo ente.
1.6.3 Ambito oggettivo: gli obblighi di pubblicazione per finalità di trasparenza Il decreto trasparenza indica gli obblighi di pubblicazione posti a carico delle amministrazioni: queste, tuttavia, possono
pubblicare dati ulteriori rispetto a quelli espressamente indicati e richiesti da specifiche norme di legge. Gli obblighi di pubblicazione esplicitamente previsti dal D.Lgs. 33/2013 riguardano: gli atti di carattere normativo e amministrativo generale (art. 12): sono da pubblicare tutti gli atti, sia espressamente previsti da una norma di legge sia che vengano adottati nell’esercizio di un autonomo potere amministrativo
o
gestionale
che
riguardino
l’organizzazione, le funzioni, gli obiettivi, i procedimenti, l’interpretazione di disposizioni di legge che incidono sull’attività
dell’amministrazione/ente
e
i
codici
di
condotta. Il D.Lgs. 97/2016 ha esteso l’obbligo di pubblicazione anche ai PTPCT (nonché alle misure integrative di prevenzione della corruzione), ai documenti di programmazione strategico-gestionale propri di ogni ente (atti di indirizzo generali quali, ad esempio, le direttive sull’azione amministrativa adottate dai Ministri) e agli atti degli OIV; gli atti riguardanti l’organizzazione e l’attività: vanno
pubblicati
i
dati
relativi
agli
incarichi
di
collaborazione e di consulenza conferiti e affidati a soggetti esterni a qualsiasi titolo, sia oneroso che gratuito titolari di incarichi di collaborazione o consulenza (art. 15); amministratori ed esperti nominati da organi giurisdizionali o amministrativi (nominati, in particolare, dall’Autorità, dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata e dalle Prefetture)(art. 15-ter ); bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione, nonché i criteri di valutazione della commissione (art. 19); d ati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato; atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati (art. 22) ed elenco dei soggetti beneficiari (art. 27); l’ uso delle risorse pubbliche: al fine di promuovere l’accesso e migliorare la comprensione dei dati sulla spesa delle pubbliche amministrazioni, l’AgID gestisce, d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze, il sito internet denominato “Soldi pubblici”, tramite il quale è possibile accedere ai dati degli incassi e dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni e consultarli in relazione alla tipologia di spesa sostenuta, alle amministrazioni che l’hanno
effettuata,
nonché
all’ambito
temporale
di
riferimento; il bilancio, preventivo e consuntivo , che deve essere pubblicato, completo di allegati, entro 30 giorni dalla sua adozione; i beni immobili posseduti, detenuti, canoni di locazione e gestione del patrimonio; le prestazioni offerte e i servizi erogati: tale obbligo di pubblicazione è esteso ai gestori di pubblico servizio (va pubblicata, ad esempio, la Carta dei servizi o documenti
analoghi, ove sono indicati livelli minimi di qualità e impegni assunti verso gli utenti). L’obbligo di pubblicazione sussiste, poi, nei confronti di atti, dati e documenti relativi a settori speciali , quali contratti pubblici di lavori, servizi e forniture , dati su processi di pianificazione, realizzazione e valutazione delle opere pubbliche (in particolare tempi e costi in relazione ad opere pubbliche da costruire o in corso di costruzione), attività di pianificazione e governo del territorio (piani territoriali, piani paesistici, strumenti urbanistici generali e attuativi) e, infine, attività e servizi del SSN.
1.6.4 La qualità dei dati, decorrenza e durata dell’obbligo di pubblicazione I
dati
e
le
informazioni
oggetto
dell’obbligo
di
pubblicazione, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs. 33/2013, devono avere le
seguenti
completezza,
qualità:
integrità,
tempestività,
costante
semplicità
di
aggiornamento, consultazione,
comprensibilità, omogeneità, facile accessibilità, conformità ai documenti
originali,
indicazione
della
provenienza
e
riutilizzabilità (quest’ultima qualità anche nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali). In merito, poi, alla decorrenza e alla durata degli obblighi di pubblicazione, il provvedimento dispone che la durata ordinaria della pubblicazione è fissata in 5 anni , decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione.
Le uniche eccezioni riguardano: gli atti che producono ancora i loro effetti alla scadenza dei 5 anni, che devono rimanere pubblicati fino al termine della produzione degli effetti stessi (es. le informazioni riferite
ai
vertici
e
ai
dirigenti
della
Pubblica
Amministrazione, che vengono aggiornati e possono restare online oltre i 5 anni, fino alla scadenza del mandato di tali soggetti); i dati riguardanti i titolari di incarichi politici, i dirigenti, i consulenti e i collaboratori (che devono rimanere pubblicati
per
i
3
anni
successivi
alla
scadenza
dell’incarico); i dati per i quali è previsto un termine diverso dalla normativa in materia di privacy. L’ANAC, anche su proposta del Garante per la protezione dei dati personali, può fissare una durata di pubblicazione inferiore al quinquennio basandosi su una valutazione del rischio corruttivo, nonché delle esigenze di semplificazione. Trascorso il quinquennio o i diversi termini sopra richiamati, gli atti, i dati e le informazioni non devono essere conservati nella sezione archivio del sito che quindi viene meno.
1.6.5 Trasparenza dell’attività di pianificazione e governo del territorio e del Servizio Sanitario Nazionale
Ai sensi dell’art. 39 D.Lgs. 33/2013, le amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare gli atti di governo del territorio, quali, tra gli altri, piani territoriali, piani di coordinamento, piani paesistici, strumenti urbanistici, generali e di attuazione, nonché le loro varianti. Non sono più oggetto di pubblicazione obbligatoria gli schemi di provvedimento, le delibere di adozione o approvazione e i relativi allegati tecnici.
In una sezione apposita nel sito del Comune interessato deve essere, poi, pubblicata e continuamente aggiornata la documentazione relativa a ciascun procedimento relativo a proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica, sia in variante allo strumento urbanistico generale che in attuazione dello stesso, che comportino premialità edificatorie a fronte dell’impegno dei privati alla realizzazione di opere di urbanizzazione extra oneri o della cessione di aree o volumetrie per finalità di pubblico interesse. La pubblicità di tali atti è condizione per l’acquisizione dell’efficacia degli atti stessi. Anche le amministrazioni e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale, dei servizi sanitari regionali, ivi comprese le aziende sanitarie territoriali ed ospedaliere, le agenzie e gli altri enti ed organismi pubblici che svolgono attività di programmazione e fornitura dei servizi sanitari, sono tenute all’adempimento di tutti gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa in materia. L’art. 41 D.Lgs. 33/2013 (Trasparenza del SSN) individua, a tal fine, gli obblighi di trasparenza cui è tenuto, nelle sue
varie articolazioni, il Servizio Sanitario Nazionale in relazione alla
pubblicità
dei
dati
concernenti
le
procedure
di
conferimento di determinati incarichi. Le suddette amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare, nei loro siti istituzionali, i dati relativi a tutte le spese e a tutti i pagamenti effettuati, distinti per tipologia di lavoro, bene o servizio, e ne devono consentire la consultazione, in forma sintetica e aggregata, in relazione alla tipologia di spesa sostenuta, all’ambito temporale di riferimento e ai beneficiari. Le aziende sanitarie e ospedaliere pubblicano tutte le informazioni e i dati concernenti le procedure di conferimento degli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo, nonché degli incarichi di responsabile di dipartimento e di strutture semplici e complesse, ivi compresi i bandi e gli avvisi di selezione, lo svolgimento
delle
relative
procedure,
gli
atti
di
conferimento. Viene richiesta, altresì, anche la pubblicazione dei criteri di formazione delle liste di attesa.
1.6.6 Gli obblighi di pubblicazione: vigilanza e procedimento sanzionatorio I soggetti deputati all’attività di vigilanza sugli obblighi di pubblicazione ed i relativi compiti sono indicati dagli articoli 43, 44 e 45 D.Lgs. 33/2013.
Il RPCT , all’interno di ogni amministrazione, svolge stabilmente un’attività di controllo sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate. In particolare, egli deve segnalare i casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione all’ufficio di disciplina
(per
eventuale
attivazione
del
procedimento
disciplinare), nei casi più gravi, e all’organo di indirizzo politico, all’OIV e all’ANAC ai fini dell’attivazione di altre forme di responsabilità. Il tempestivo e regolare flusso delle informazioni da pubblicare ai fini del rispetto dei termini stabiliti dalla legge deve essere sempre garantito dai dirigenti responsabili degli uffici dell’amministrazione.
Il ruolo degli OIV , ai fini della verifica degli obiettivi connessi alla trasparenza, oltre che a quelli inerenti in generale alla prevenzione della corruzione, è stato valorizzato dal D.Lgs. 97/2016, il quale ha previsto che tali Organismi possano chiedere al RPCT le informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento del controllo. In particolare agli OIV (o ad altri soggetti con funzioni analoghe) è richiesto di attestare l’assolvimento di alcuni obblighi di pubblicazione, concentrando l’attività di monitoraggio su quelli ritenuti particolarmente rilevanti sotto il profilo dell’uso delle risorse pubbliche. Ai fini dello svolgimento dell’attività di vigilanza in materia di trasparenza, l’ANAC, con delibera del 29-3-2017, ha
approvato il nuovo Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza sul rispetto degli obblighi di pubblicazione di cui al D.Lgs. 33/2013. Il Regolamento disciplina, sulla base dei principi generali stabiliti dalla L. 241/1990, le modalità di svolgimento del procedimento di vigilanza, dalla fase di attivazione (di ufficio o su segnalazione) alla fase di conclusione dell’istruttoria. L’Autorità,
specificamente,
deve
controllare
l’esatto
adempimento degli obblighi di pubblicazione, esercitando poteri ispettivi mediante richiesta di notizie, informazioni, atti e documenti alle Pubbliche Amministrazioni e ordinando di procedere, entro un termine non superiore a 30 giorni, alla pubblicazione di dati, documenti e informazioni, all’adozione di atti o provvedimenti richiesti dalla normativa vigente ovvero alla rimozione di comportamenti o atti contrastanti con i piani e le regole sulla trasparenza. Inoltre, l’ANAC: controlla l’operato dei Responsabili per la trasparenza a cui può chiedere il rendiconto sui risultati del controllo svolto all’interno delle amministrazioni; può chiedere all’OIV ulteriori informazioni sul controllo dell’esatto adempimento degli obblighi di trasparenza; può avvalersi delle banche dati istituite presso il DFP per il monitoraggio
degli
adempimenti
degli
obblighi
di
pubblicazione; segnala eventuali illeciti all’ufficio competente per i procedimenti
disciplinari
dell’amministrazione
interessata, ai fini dell’attivazione del procedimento
disciplinare a carico del responsabile della pubblicazione o del dirigente tenuto alla trasmissione delle informazioni; segnala gli inadempimenti ai vertici politici delle amministrazioni, agli OIV e, se del caso, alla Corte dei conti, ai fini dell’attivazione delle altre forme di responsabilità; controlla e rende noti i casi di mancata attuazione degli obblighi di pubblicazione previsti dall’art. 14 D.Lgs. 33/2013 (quelli concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali); l’Autorità,
infatti,
procede
alla
pubblicazione
dei
nominativi dei soggetti i cui dati siano stati omessi. Il mancato rispetto degli obblighi di pubblicazione costituisce illecito disciplinare: l’ANAC, in tali casi, segnala l’illecito all’UPD dell’amministrazione interessata (art. 55-bis , co.
4,
D.Lgs.
165/2001),
ai
fini
dell’attivazione
del
procedimento disciplinare a carico del responsabile della pubblicazione o del dirigente tenuto alla trasmissione delle informazioni. L’ANAC segnala, altresì, gli inadempimenti ai vertici politici delle amministrazioni, agli OIV e, se del caso, alla Corte dei conti, ai fini dell’attivazione delle altre forme di responsabilità. Per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi specifici
(art.
47
D.Lgs.
33/2013)
il
procedimento
sanzionatorio per l’irrogazione delle sanzioni è di competenza dell’ANAC.
La norma prevede sanzioni amministrative pecuniarie (da 500 a 10.000 euro) conseguenti alla violazione dell’art. 14 D.Lgs. 33/20113 (mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati, concernenti la situazione patrimoniale complessiva del titolare dell’incarico al momento dell’assunzione in carica, la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti entro il secondo grado, nonché tutti i compensi derivanti dall’assunzione della carica) e dell’art. 22, co. 2 (mancata pubblicazione, da parte di enti pubblici vigilati, enti di diritto privato in controllo pubblico e società partecipate, di dati importanti come la ragione sociale, gli oneri gravanti sul bilancio ecc.).
Qualora nello svolgimento dei compiti di vigilanza sul rispetto degli obblighi di pubblicazione, l’Autorità (d’ufficio o su segnalazione di parte) rilevi l’esistenza di fattispecie sanzionabili, chiede al RPCT dell’amministrazione o dell’ente interessato di fornire, entro 30 giorni, le motivazioni del mancato adempimento; nel caso di mancata comunicazione da parte
dei
soggetti
obbligati,
deve
trasmettere
i
dati
identificativi completi del soggetto inadempiente. La richiesta è inviata anche all’OIV (o all’organismo con funzioni analoghe) dell’Amministrazione o dell’ente interessato, affinché lo stesso attesti lo stato di pubblicazione dei dati riferiti alle fattispecie sanzionabili, con atto in data successiva alla richiesta. Il RPCT e l’OIV danno riscontro alla richiesta dell’Autorità, indicando i motivi della mancata pubblicazione e, qualora la stessa dipenda da omessa comunicazione del soggetto
obbligato, trasmettono all’Autorità tutti i dati identificativi dello stesso. Nel caso emerga, invece, l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione, l’ANAC dispone l’archiviazione. Qualora, sulla base delle indicazioni fornite dal RPCT, dell’attestazione dell’OIV, l’ANAC rilevi la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per l’applicazione della sanzione, provvede, entro 90 giorni, alla trasmissione della comunicazione di avvio del procedimento nei confronti del soggetto obbligato alla comunicazione, dandone notizia anche al RPCT e all’OIV. Il pagamento in misura ridotta della sanzione determina la conclusione del procedimento. Al termine della fase istruttoria, qualora non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il procedimento può concludersi con l’archiviazione (in assenza dei presupposti di fatto o di diritto per la comminazione della sanzione)
oppure
con
l’irrogazione
di
una
sanzione
amministrativa pecuniaria. L’eventuale adozione del provvedimento di irrogazione della sanzione deve contenere l’indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, nonché le modalità e il termine entro il quale effettuare il pagamento.
1.7 Il sistema di vigilanza delle norme anticorruzione In materia di anticorruzione, i poteri di vigilanza sono attribuiti essenzialmente all’ ANAC (a livello nazionale) e al RPCT (a livello decentrato). Va precisato che la legge non delinea espressamente i contenuti dei poteri di vigilanza e controllo del RPCT, assegnando allo stesso il generale obiettivo consistente nella predisposizione e nella verifica della tenuta complessiva del sistema di prevenzione della corruzione di un’amministrazione o ente. E proprio a tale obiettivo sono correlate le specifiche responsabilità che gravano sul Responsabile e che si sostanziano laddove vi siano casi di omessa predisposizione di un
Piano
Triennale
adeguato
e
di
omesso
controllo
sull’attuazione delle misure (art. 1, co. 12 e 14, L. 190/2012). Da qui si rileva, quindi, che il cardine dei poteri del Responsabile è centrato sul prevenire la corruzione, ossia sull’adeguata
predisposizione
degli
strumenti
interni
all’amministrazione (PTPCT e relative misure di prevenzione ivi compresa la trasparenza) per il contrasto dell’insorgenza di fenomeni corruttivi, e sulla verifica che ad essi sia stata data attuazione effettiva. I poteri di controllo e di verifica di quanto avviene nell’amministrazione sono, dunque, funzionali a tale obiettivo: d’altronde è lo stesso legislatore ad indicare che, in
caso di mancata attuazione delle misure, il Responsabile debba riferire ad altri soggetti per l’adozione delle iniziative conseguenti di loro competenza. Più dettagliato, invece, è il compito di vigilare sul rispetto delle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi affidato al Responsabile dall’art. 15 D.Lgs. 39/2013, che gli attribuisce capacità proprie di intervento, anche sanzionatorio, e di segnalazione delle violazioni all’ANAC. A tale proposito è utile ricordare che l’Autorità con le “Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del Responsabile della Prevenzione della Corruzione”, adottate con Delibera ANAC n. 833 del 3-8-2016 ha precisato
che
gli
spetta
“avviare
il
procedimento
sanzionatorio, ai fini dell’accertamento delle responsabilità soggettive e dell’applicazione della misura interdittiva prevista dall’art. 18 (per le sole inconferibilità). Il procedimento avviato dal Responsabile è un distinto e autonomo procedimento, che si svolge nel rispetto del contraddittorio e che è volto ad accertare la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo o della colpa, anche lieve, in capo all’organo conferente.
Per quanto, invece, riguarda le attività di vigilanza dell’Autorità in materia di imparzialità dei pubblici funzionari , esse si possono ricondurre sostanzialmente a due macro-categorie: le ipotesi di conflitto di interesse e le ipotesi
di incompatibilità e inconferibilità, specificamente disciplinate dal D.Lgs. 39/2013. Con riguardo alla prima ipotesi (conflitti di interesse) l’Autorità non dispone di specifici poteri di intervento e sanzionatori, trattandosi di fattispecie spesso atipiche ossia non previamente tipizzate da disposizioni normative, fatta eccezione per il generale riferimento contenuto nella L. 241/1990, il cui art. 6-bis (introdotto dalla L. 190/2012) è dedicato al “Conflitto di interessi”. Dunque, l’intervento dell’Autorità si svolge soprattutto in forma di ausilio e indicazione alle singole amministrazioni di fronte a casi di particolare rilevanza la cui specifica definizione rimane
comunque
nell’ambito
di
competenza
dell’amministrazione stessa. Ben più definiti e penetranti poteri di vigilanza, invece, competono all’ANAC in materia di incompatibilità ed inconferibilità. Come espressamente stabilito dall’art. 16 D.Lgs. 39/2013, l’Autorità vigila sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici e degli enti di diritto privato in controllo pubblico, delle disposizioni di cui al citato decreto, anche con l’esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi. Detto potere può attivarsi su segnalazione di terzi, in occasione
della
richiesta
di
pareri
da
parte
delle
amministrazioni, su segnalazione dello stesso Responsabile (ai sensi dell’art. 15, co. 2), ovvero d’ufficio. L’attività di vigilanza dell’ANAC può essere attivata d’ufficio o su segnalazione. Essa si esplica su un duplice fronte:
da un lato, la verifica dell’adozione degli strumenti di prevenzione indicati, dall’altro la vigilanza sull’adozione in concreto delle azioni e misure previste in questi atti di natura programmatica. Specificamente, l’Autorità verifica i seguenti aspetti: correttezza del processo di formazione del PTPCT; connessione tra analisi conoscitive e individuazione delle misure di prevenzione; rilevanza delle misure di prevenzione nel contesto amministrativo; modo di articolazione delle misure e responsabilità degli uffici; predisposizione di adeguate forme di monitoraggio sull’effettiva attuazione delle misure. Il Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di prevenzione della corruzione è contenuto nella Delibera ANAC n. 330 del 29-3-2017.
1.8 Il Segretario dell’ente locale quale Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza Nelle
pubbliche
amministrazioni
statali
il
RPCT
è
individuato, di norma, tra i dirigenti di ruolo in servizio; negli enti locali (art. 1, co. 7, L. 190/2012) la funzione è, di norma, ricoperta dal Segretario , salvo diversa e motivata determinazione dell’organo di indirizzo. Tale criterio va ricollegato alle funzioni riconosciute al Segretario dal D.Lgs. 267/2000 (TUEL), ritenendo che la funzione di RPCT sia “naturalmente integrativa” della competenza generale allo stesso spettante. La suddetta norma precisa che nelle Unioni di Comuni può essere nominato un unico RPCT. Nell’ente locale, quindi, spetta al Sindaco adottare il provvedimento di nomina del Segretario comunale come RPCT del Comune. Può nominare anche un altro soggetto, ma in questo caso nel decreto di nomina va indicata la motivazione di questa scelta. La nomina del Segretario comunale ha la stessa durata del Sindaco; tuttavia, il Segretario può essere revocato anche prima della sua scadenza naturale, per gravi inadempienze.
Il provvedimento di revoca (art. 100 D.Lgs. 267/2000) deve
essere
tempestivamente
comunicato
dal
Prefetto
all’ANAC, che si esprime entro 30 giorni: entro tale termine, l’efficacia del provvedimento di revoca è sospesa. Decorso tale termine, la revoca diventa efficace, salvo che l’ANAC rilevi che la stessa sia correlata alle attività svolte dal Segretario in materia di prevenzione della corruzione. È proprio la peculiare posizione del Segretario all’interno dell’ente locale a renderlo il soggetto maggiormente in grado di assicurare, in concreto, l’efficacia delle misure di prevenzione della corruzione, ciò in quanto tale figura assicura la necessaria autonomia ed indipendenza. Detta autonomia e indipendenza deve accompagnarsi all’assenza di qualsiasi possibile incompatibilità e di conflitto d’interessi, in quanto al RPCT è richiesto di vigilare e monitorare sul rispetto delle misure di prevenzione della corruzione e dei precetti inseriti nel PTPCT da parte dei dirigenti/responsabili e dei dipendenti.
Capitolo 2 La gestione delle risorse umane e le misure anticorruzione 2.1 Le risorse umane e le misure di prevenzione della corruzione Con la L. 190/2012 il legislatore ha inteso individuare un ruolo diretto delle amministrazioni nella fase di prevenzione della corruzione, con particolare riferimento ai propri dipendenti.
Ha
così
costruito
un
sistema
complesso
caratterizzato, oltre che dall’individuazione del RPCT e dall’adozione del Piano triennale, dalla revisione della normativa in materia di responsabilità dei pubblici dipendenti, con riferimento alla responsabilità penale, disciplinare e di risultato
dei
dirigenti
incompatibilità,
e
dalla
nonché
della
previsione
disciplina del
Codice
delle di
comportamento per i dipendenti pubblici. Più in particolare, ai fini della prevenzione, la L. 190/2012 ha previsto l’adozione obbligatoria di: misure
volte
alla
formazione
del
personale
(individuazione dei soggetti destinatari, dei contenuti da
impartire e quantificazione delle ore necessarie per tali attività); meccanismi di attuazione delle misure adottate per contrastare la corruzione (integrazioni al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, misure volte al recepimento della tutela offerta ai whistleblower e per il recepimento della clausola di pantouflage ); meccanismi di controllo sull’efficacia delle misure intraprese per contrastare la corruzione. Oltre a quelle obbligatoriamente imposte, il PTPCT deve contenere ogni altra misura idonea alla prevenzione e al contrasto della corruzione adottabile all’esito dell’attività di mappatura dei rischi.
2.2 Il Codice di comportamento 2.2.1 Finalità e destinatari Il già citato Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.P.R. 62/2013) e i codici specifici delle varie amministrazioni
costituiscono
fondamentali
misure
di
prevenzione della corruzione, in quanto le norme contenuti in tali documenti regolano, in senso legale ed eticamente corretto, il comportamento dei dipendenti e, in tal senso, indirizzano l’azione amministrativa. Ai sensi dell’art. 54, co. 5, D.Lgs. 165/2001 e dell’art. 1, co. 2, D.P.R. 62/2013, ciascuna amministrazione deve definire, con procedura aperta alla partecipazione e previo parere obbligatorio
del
proprio
OIV,
un
proprio
Codice
di
comportamento. A tal fine, l’ANAC definisce criteri, linee guida e modelli uniformi per singoli settori o tipologie di amministrazione (cfr. delibera 75/2013). In ogni caso, i Codici settoriali
devono
individuare
regole
comportamentali
differenziate a seconda delle specificità professionali, delle aree di competenza e delle aree di rischio . Il Codice si applica ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, D.Lgs. 165/2001, il cui rapporto di lavoro è disciplinato contrattualmente. In maniera del tutto innovativa, però, l’art. 2, co. 3, del Codice prevede l’estensione degli obblighi di condotta anche nei
confronti di tutti i collaboratori dell’amministrazione, dei titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità, nonch é nei confronti di collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi o che realizzano opere in favore dell’amministrazione. Il Codice contiene una specifica disciplina per i dirigenti, compresi quelli a contratto e il personale che svolge una funzione equiparata a quella dirigenziale nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione. Per il personale in regime di diritto pubblico le disposizioni del
Codice
assumono
la
valenza
“di
principi
di
comportamento”, in quanto compatibili con le disposizioni speciali. Per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato i Codici saranno adottati dalle associazioni di categoria o, in caso di inerzia, dall’organo di autogoverno.
2.2.2 Obblighi a carico dei dipendenti Il Codice indica i doveri di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e sancisce espressamente che la loro violazione, al pari delle prescrizioni contenute nel Piano per la prevenzione della corruzione, è fonte di responsabilità disciplinare , rilevante anche ai fini della responsabilità penale, civile, amministrativa e contabile. Tra i principali obblighi del dipendente , soprattutto in funzione di prevenzione di fenomeni corruttivi, si segnalano:
il divieto di chiedere, sollecitare o di accettare, per sé o per altri e a qualsiasi titolo (quindi, anche sotto forma di sconto), compensi, regali o altre utilità , fatti salvi quelli d’uso e di modico valore «non superiore, in via orientativa, a 150 euro». I regali e le altre utilità comunque ricevuti sono
immediatamente
dell’Amministrazione
per
messi essere
a
disposizione
devoluti
a
fini
istituzionali; la tempestiva comunicazione al responsabile dell’ufficio di appartenenza della propria adesione o appartenenza ad associazioni od organizzazioni (esclusi partiti politici e sindacati) i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento delle attività dell’ufficio; la comunicazione, all’atto dell’assegnazione all’ufficio, di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione avuti con soggetti privati negli ultimi 3 anni e in qualunque modo retribuiti, oltre al contestuale obbligo di precisare se con gli stessi i rapporti finanziari sussistano ancora; l’obbligo di astenersi dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti le proprie mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi di qualsiasi natura, anche non patrimoniali; l’obbligo di assicurare la trasparenza e la tracciabilità dei processi decisionali adottati; gli obblighi di comportamento nei rapporti privati e in servizio e all’interno dell’organizzazione amministrativa (in particolare, l’obbligo di rispettare, salvo diverse esigenze di servizio o diversa disposizione di priorità
stabilita dall’amministrazione di appartenenza, l’ordine cronologico delle pratiche e di non rifiutare, con motivazioni generiche, le prestazioni a cui sia tenuto). Il Codice contiene, come detto, una specifica disciplina per i dirigenti e per il personale che svolge una funzione equiparata a quella dirigenziale nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione. Per essi il Codice pone: l’obbligo, prima di assumere le loro funzioni, di comunicare
all’amministrazione
le
partecipazioni
azionarie e gli altri interessi finanziari che possano porli in conflitto d’interesse con le funzioni pubbliche che svolgono; l’obbligo di fornire le informazioni sulla propria situazione patrimoniale e le dichiarazioni annuali dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche previste dalla legge; il dovere, nei limiti delle loro possibilità, di evitare che si diffondano
notizie
non
rispondenti
al
vero
sull’organizzazione, sull’attività e sugli altri dipendenti. Quanto al tipo e all’entità della sanzione disciplinare concretamente applicabile è previsto che si debba tener conto della gravità del comportamento e del pregiudizio, anche morale, cagionato al decoro o al prestigio dell’amministrazione di appartenenza. L’art. 14, comma 1-bis del D.Lgs. 33/2013 (introdotto dal D.Lgs. 97/2016) ha esteso ai titolari di incarichi
dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, inclusi quelli conferiti dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, l’obbligo di pubblicazione di dati (atti di nomina, curriculum, compensi, altri incarichi) inizialmente previsti per i soli titolari di incarichi politici. Il comma 7 del D.L. 162/2019 “Milleproroghe” ha disposto che fino al 31 dicembre 2020 la mancata pubblicazione dei compensi e dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti pubblici, come stabilito dal D.Lgs. 33/2013, non costituisce causa di responsabilità dirigenziale e non si applicano le relative sanzioni per. Fanno eccezione i dirigenti di cui all’art. 19, commi 3 e 4 del D.Lgs. 165/2001 (segretario generale, capo dipartimento, dirigente con incarichi di funzione dirigenziale di livello generale) per i quali continua a trovare applicazione la disciplina vigente relativa agli obblighi di pubblicazione (ex art. 14 D.Lgs. 33/2013). La previsione è stata adottata nelle more dell’adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 21 febbraio 2019, con cui l’obbligo di pubblicazione di tali dati è stato oggetto di una parziale dichiarazione di incostituzionalità.
2.3 La segnalazione di illeciti e la tutela del dipendente (il cosiddetto whistleblower) 2.3.1 La gestione della segnalazione e l’obbligo di anonimato Con la L. 190/2012 è stato introdotto nel Testo unico sul pubblico impiego l’art. 54-bis che tutela i dipendenti autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro. L’iniziale disciplina riguardava solo il settore pubblico, ma la L. 179/2017 l’ha estesa anche al settore privato. L’istituto – detto whistleblowing – mira a favorire l’emersione
della
fattispecie
di
illecito
nella
Pubblica
Amministrazione. Secondo quanto stabilito dal citato articolo, il dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all’ANAC o riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro (whistleblowing ), non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria , diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
Qualora, in violazione di tale divieto, il segnalante sia fatto oggetto di misure ritenute ritorsive, queste possono essere comunicate
all’ANAC
organizzazioni
dallo
sindacali
stesso
interessato
maggiormente
o
dalle
rappresentative
nell’Amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC, ricevuta la comunicazione, informa il DFP della Presidenza del Consiglio dei Ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza. Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata. Anche se la norma tutela
l’anonimato
facendo
specifico
riferimento
al
procedimento disciplinare, l’identità deve essere comunque protetta in ogni fase successiva alla segnalazione. Per quanto riguarda lo specifico contesto del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante può essere rivelata all’autorità disciplinare e all’incolpato nei seguenti casi: quando vi è lo specifico consenso del segnalante; quando la contestazione è fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità è assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato: tale circostanza può emergere solo a seguito dell’audizione dell’incolpato ovvero dalle memorie difensive che lo stesso produce nel procedimento.
La denuncia non può essere oggetto di visione né di estrazione di copia da parte di richiedenti, ricadendo nell’ambito delle ipotesi di esclusione di cui all’art. 24, co. 1, lett. a ), L. 241/1990. La legge demanda all’ANAC il compito di adottare, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, apposite linee guida per le procedure di presentazione e gestione delle segnalazioni (cfr. determinazione n. 6 del 28-4-2015). Le linee guida devono prevedere l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovere il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione.
2.3.2 Le misure di tutela del whistleblower Spetta
sempre
all’ANAC
l’esercizio
del
potere
sanzionatorio amministrativo conseguente all’accertata adozione di misure discriminatorie in danno del segnalante, ovvero all’accertata assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni, ovvero conseguente all’adozione di procedure non conformi a quelle descritte dalla legge. Analogo potere sanzionatorio spetta all’ANAC ogni qualvolta venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. L’Autorità determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’Amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione. Spetta
all’Amministrazione
o
all’ente
interessato
dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate
nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione. Il regolamento sull’esercizio del potere sanzionatorio in caso di whistleblowing (delibera ANAC 1033/2018) è stato modificato dalla delibera ANAC n. 312/2019 che ha riscritto completamente l’art. 13 del regolamento, inserendo casi specifici
di
archiviazione
delle
segnalazioni/comunicazioni . In base all’art. 13, infatti, l’Ufficio procede all’archiviazione delle segnalazioni/comunicazioni nelle ipotesi di: manifesta
mancanza
di
interesse
all’integrità
della
Pubblica Amministrazione; manifesta incompetenza dell’Autorità sulle questioni segnalate; manifesta infondatezza per l’assenza di elementi di fatto idonei a giustificare accertamenti; manifesta insussistenza dei presupposti di legge per l’applicazione della sanzione; intervento dell’Autorità non più attuale; finalità palesemente emulativa; accertato
contenuto
generico
della
segnalazione/comunicazione o tale da non consentire la comprensione
dei
segnalazione/comunicazione
fatti, corredata
ovvero da
documentazione non appropriata o inconferente; produzione di sola documentazione in assenza della segnalazione di condotte illecite o irregolarità;
mancanza dei dati che costituiscono elementi essenziali della segnalazione/comunicazione. Al di fuori di questi casi l’Ufficio deve sempre trasmettere agli uffici di vigilanza competenti per materia la segnalazione di illeciti. Gli
atti
discriminatori
dall’Amministrazione
o
dall’ente,
o
ritorsivi in
adottati
conseguenza
della
segnalazione, sono comunque colpiti da nullità. Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione ha diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro. Nessuna tutela è per converso garantita al segnalante del quale sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero la responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.
2.4 Le ulteriori misure di contrasto alla corruzione nel pubblico impiego 2.4.1 La rotazione del personale addetto alle aree a rischio di corruzione La rotazione del personale addetto alle aree a più elevato rischio di corruzione rappresenta una misura di importanza cruciale tra gli strumenti di prevenzione della corruzione. In argomento occorre, in primo luogo distinguere due tipi di rotazione: quella “straordinaria” e quella “ordinaria”. La rotazione straordinaria è stata introdotta dall’art. 16, co. 1, lett. l-quater ), D.Lgs. 165/2001, che prevede, come misura conseguente alla manifestazione di fenomeni di corruzione, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva. Con le Linee guida dell’ANAC (delibera 29-3-2019, n. 215) sono stati chiariti aspetti e criticità dell’istituto. La rotazione ordinaria , invece, è prefigurata come strumento precauzionale contro il possibile manifestarsi di fenomeni corruttivi da alcune norme della L. 190/2012. Costituisce, infatti, una rilevante misura organizzativa preventiva , finalizzata a limitare il consolidarsi di relazioni che possano alimentare dinamiche improprie nella gestione
amministrativa, conseguenti alla permanenza nel tempo di determinati dipendenti nel medesimo ruolo o funzione. L’alternanza riduce il rischio che un dipendente pubblico, occupandosi per lungo tempo dello stesso tipo di attività, servizi, procedimenti e instaurando relazioni sempre con gli stessi utenti, possa essere sottoposto a pressioni esterne o possa instaurare rapporti potenzialmente in grado di attivare dinamiche inadeguate. L’alternanza tra più professionisti nell’assunzione delle decisioni e nella gestione delle procedure, infatti, riduce il rischio che possano crearsi relazioni particolari tra amministrazioni ed utenti, con il conseguente consolidarsi di situazioni di privilegio e l’aspettativa a risposte illegali improntate a collusione. L’applicazione della misura va valutata anche se l’effetto indiretto della rotazione comporta un temporaneo rallentamento dell’attività ordinaria dovuto al tempo necessario per acquisire la diversa professionalità.
L’attuazione della misura richiede: la preventiva identificazione degli uffici e servizi che svolgono attività nelle aree a più elevato rischio di corruzione; l’individuazione , con la partecipazione sindacale, delle modalità di attuazione della rotazione , mediante adozione di criteri generali; la definizione dei tempi di rotazione; per il conferimento degli incarichi dirigenziali, il criterio di rotazione
deve
essere
previsto
nell’atto
generale
contenente i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali approvato dall’autorità di indirizzo politico; il coinvolgimento del personale in percorsi di formazione e aggiornamento continuo, per creare competenze e professionalità utilizzabili in più settori; lo svolgimento di formazione ad hoc per il dirigente neoincaricato e per i collaboratori addetti, affinché questi acquisiscano le conoscenze necessarie per lo svolgimento della nuova attività considerata area a rischio. Per il personale dirigenziale addetto alle aree a più elevato rischio di corruzione, la durata dell’incarico deve essere fissata al limite minimo legale; per il personale non dirigenziale , la durata di permanenza nel settore deve essere, invece, prefissata da ciascuna amministrazione secondo criteri di ragionevolezza, preferibilmente non superiore a 5 anni, tenuto conto anche delle esigenze organizzative. Per il personale dirigenziale, alla scadenza dell’incarico, la responsabilità dell’ufficio o del servizio deve essere di regola affidata ad altro dirigente, a prescindere dall’esito della valutazione riportata dal dirigente uscente. Nel caso di impossibilità di applicare la misura della rotazione per il personale dirigenziale, a causa di motivati fattori organizzativi, l’Amministrazione applica la misura al personale non dirigenziale, con riguardo innanzi tutto ai responsabili del procedimento.
2.4.2 L’astensione in caso di conflitto di interesse
La L. 190/2012 ha posto particolare attenzione sui responsabili del procedimento in situazioni di conflitto di interesse; tale attenzione si è concretizzata nell’inserimento di una nuova disposizione nella L. 241/1990, l’art. 6-bis (rubricato Conflitto di interessi). La norma contiene due prescrizioni: l’obbligo
di
astensione
per
il
responsabile
del
procedimento, il titolare dell’ufficio competente ad adottare il provvedimento finale ed i titolari degli uffici competenti ad adottare atti endoprocedimentali nel caso di conflitto di interesse anche solo potenziale; la previsione del dovere di segnalazione a carico dei medesimi soggetti. La norma persegue una finalità di prevenzione che si realizza mediante l’astensione dalla partecipazione alla decisione del titolare dell’interesse, che potrebbe porsi in conflitto con l’interesse perseguito mediante l’esercizio della funzione e/o con l’interesse di cui sono portatori il destinatario del provvedimento, gli altri interessati e controinteressati. Essa va letta in maniera coordinata con l’art. 6 del Codice di comportamento, che prevede: “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di
credito
o
debito
significativi,
ovvero
di
soggetti
od
organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui egli sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso
in
cui
esistano
Sull’astensione
decide
gravi il
ragioni
di
responsabile
convenienza. dell’ufficio
di
appartenenza.”. La suddetta disposizione contiene dunque una clausola di carattere generale in riferimento a tutte le ipotesi in cui si manifestino gravi ragioni di convenienza. La segnalazione deve essere indirizzata al dirigente, il quale, esaminate le circostanze, valuta se la situazione realizza un conflitto di interesse idoneo a ledere l’imparzialità
dell’agire
amministrativo.
Il
dirigente
destinatario della segnalazione deve rispondere per iscritto al dipendente medesimo sollevandolo dall’incarico oppure motivando espressamente le ragioni che consentono comunque l’espletamento dell’attività da parte di quel dipendente. Nella prima ipotesi l’incarico deve essere affidato dal dirigente ad altro dipendente ovvero, in carenza di dipendenti professionalmente idonei, il dirigente dovrà avocare a sé ogni compito relativo a quel procedimento. Qualora il conflitto riguardi il dirigente a valutare le iniziative da assumere sarà il responsabile per la prevenzione. La violazione della norma, che si realizza con il compimento di un atto illegittimo, dà luogo a responsabilità
disciplinare del dipendente suscettibile di essere sanzionata con l’irrogazione di sanzioni all’esito del relativo procedimento, oltre a poter costituire fonte di illegittimità del procedimento e del provvedimento conclusivo dello stesso, quale sintomo di eccesso di potere.
2.4.3 Formazione in tema di anticorruzione La L. 190/2012 assegna alla formazione dei dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione
un’importanza
cruciale
nella
strategia
di
prevenzione della corruzione e pone a carico del RPCT l’onere di predisporre un’idonea programmazione, in collaborazione con la SNA. Una formazione adeguata favorisce, da un lato, una
maggior
consapevolezza
nell’assunzione
di
decisioni (in quanto una più ampia ed approfondita conoscenza riduce il rischio che l’azione illecita possa essere compiuta in maniera inconsapevole) e, dall’altro, consente l’acquisizione
di
competenze
specifiche
per
lo
svolgimento delle attività nelle aree individuate a più elevato rischio di corruzione. Una formazione adeguata consente di raggiungere i seguenti obiettivi:
l’attività amministrativa è svolta da soggetti consapevoli, previsione che riduce il rischio che l’azione illecita sia compiuta inconsapevolmente; la conoscenza e la condivisione degli strumenti di prevenzione (politiche, programmi, misure) da parte dei
diversi soggetti che a vario titolo operano nell’ambito del processo di prevenzione; la creazione di una base omogenea minima di conoscenza, che
rappresenta
l’indispensabile
presupposto
per
programmare la rotazione del personale; la creazione di competenza specifica per lo svolgimento dell’attività nelle aree a più elevato rischio di corruzione; il confronto tra prassi amministrative distinte da ufficio ad ufficio, reso possibile dalla compresenza di personale “in formazione” proveniente da esperienze professionali diversificate; ciò consente di coordinare ed omogeneizzare all’interno dell’ente le modalità di conduzione dei processi da parte degli uffici, garantendo la costruzione di “buone pratiche amministrative” con sensibile riduzione del rischio di corruzione; la diffusione degli orientamenti giurisprudenziali sui vari aspetti
dell’esercizio
della
funzione
amministrativa,
indispensabili per orientare il percorso degli uffici, orientamenti spesso non conosciuti dai dipendenti e dai dirigenti anche per ridotta disponibilità di tempo da dedicare all’approfondimento; evitare l’insorgere di prassi contrarie alla corretta interpretazione della norma di volta in volta applicabile; la diffusione di valori etici, mediante l’insegnamento di principi di comportamento eticamente e giuridicamente adeguati. In generale il PNA stabilisce che l’ente deve programmare adeguati percorsi di aggiornamento e di formazione articolati
su due livelli: livello generale , rivolto a tutti i dipendenti, con riguardo all’aggiornamento
delle
competenze
(approccio
contenutistico) e alle tematiche dell’etica e della legalità (approccio valoriale); livello specifico , rivolto ai referenti del RPCT, ai componenti degli organismi di controllo, ai dirigenti e ai funzionari addetti alle aree a rischio: riguarda le politiche, i programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da ciascun soggetto dell’amministrazione.
2.5 Le misure di contrasto alla corruzione nelle varie fasi del rapporto di lavoro 2.5.1 Trasparenza e anticorruzione nei concorsi pubblici e nelle procedure di selezione Il principio di trasparenza dell’accesso mediante concorso agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni (salvo i casi stabiliti dalla legge) è contenuto principalmente nell’art. 97, ult. co., Cost. Gli artt. 35 e 35-bis D.Lgs. 165/2001 contengono poi, rispettivamente, i principi generali sul reclutamento del personale e norme per prevenire il fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nell’assegnazioni degli uffici. Nelle procedure concorsuali la scelta dei componenti della Commissione esaminatrice assume una valenza determinante, in considerazione del ruolo che sono chiamati a svolgere in ragione della loro competenza, ai fini della valutazione e della posizione di terzietà in cui dovrebbero operare. Oltre ai principi generali su richiamati, l’art. 35-bis D.Lgs. 165/2001, in materia di prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni, stabilisce che
coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale (delitti contro la personalità dello Stato ) non possono far parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi. Tale disposizione rappresenta una nuova fattispecie di inconferibilità, atta a prevenire il discredito, altrimenti derivante all’Amministrazione, dovuto all’affidamento di funzioni sensibili a dipendenti che, a vario titolo, abbiano commesso o siano sospettati di infedeltà. La disposizione preclude, pertanto, ai condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione, anche in via non definitiva, di ricoprire alcuni uffici o di svolgere alcune attività ed incarichi particolarmente esposti al rischio corruzione e si applica nei confronti non solo di coloro che esercitano funzioni dirigenziali, ma anche nei confronti di coloro che hanno solo compiti di segreteria ovvero che hanno solo funzioni direttive e non dirigenziali. In particolare, la norma vieta di: fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi; essere assegnati, anche con funzioni direttive, agli uffici preposti
alla
gestione
delle
risorse
finanziarie,
all’acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o all’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati;
fare parte delle commissioni per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, per la concessione o l’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché per l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere”. L’esatta portata dei singoli ambiti dovrà, poi, essere interpretata anche alla luce di quelle attività in cui è più elevato il rischio di corruzione, attività individuate dai singoli piani di prevenzione della corruzione.
2.5.2 Il dovere di esclusività del dipendente: la disciplina in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (art. 53 D.Lgs. 165/2001) Il pubblico dipendente ha un dovere di esclusività nell’esercizio
della
prestazione
lavorativa
nei
confronti
dell’amministrazione di appartenenza, stabilito direttamente dalla Costituzione: l’art. 98 della Carta costituzionale statuisce, infatti, che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Il dovere di esclusività del pubblico funzionario, ossia il dovere di eseguire la propria prestazione lavorativa retribuita solo in favore dell’amministrazione, risponde ai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione. In materia di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi la norma generale è rappresentata dall’art. 53 D.Lgs.
165/2001: tale articolo si applica sia ai dipendenti privatizzati che a quelli in regime di diritto pubblico. Secondo tale disposizione, il pubblico impiegato non può svolgere attività commerciali, imprenditoriali, industriali, artigiane e professionali in costanza di rapporto di lavoro. Tale dovere viene meno solo in caso di impiego part-time non superiore al 50% dell’orario ordinario. Il dipendente, inoltre, può svolgere solo gli incarichi previamente conferiti o approvati dall’amministrazione di appartenenza o che siano comunque previsti o disciplinati dalla legge o da altre fonti normative; senza autorizzazione non possono essere conferiti incarichi, né da parte delle Pubbliche Amministrazioni, né da parte di enti pubblici economici e soggetti privati. L’autorizzazione va chiesta, dai soggetti pubblici o privati che
intendano
conferire
l’incarico
al
dipendente,
all’amministrazione di appartenenza di quest’ultimo, la quale deve pronunciarsi in merito nei successivi 30 giorni (decorso il termine per provvedere l’autorizzazione si intende accordata se richiesta per incarichi da conferirsi da pubbliche amministrazioni; negli altri casi, si intende definitivamente negata).
La ratio di tale disposizione risiede nel fatto che il cumulo in capo ad un medesimo dirigente o funzionario di incarichi può comportare un’eccessiva concentrazione di potere su un unico centro decisionale, che aumenta il rischio che l’attività amministrativa possa essere indirizzata verso fini privati o
impropri. Inoltre, lo svolgimento di incarichi, soprattutto se extra-istituzionali, da parte del dirigente o del funzionario può realizzare situazioni di conflitto di interesse che possono compromettere il buon andamento dell’azione amministrativa, ponendosi altresì come sintomo dell’evenienza di fatti corruttivi. Per questi motivi, la L. 190/2012, delineando un generico divieto di conferimento degli incarichi atipici , ossia non correlati a compiti e doveri d’ufficio previsti dalla legge, è intervenuta sull’art. 53 del D.Lgs. 165/2001, in particolare prevedendo che: gli incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche devono essere individuati da appositi regolamenti (adottati su proposta del Ministro per la Pubblica
Amministrazione
e
la
semplificazione,
di
concerto con i Ministri interessati); le amministrazioni devono adottare criteri generali per
disciplinare
i
criteri
di
conferimento
e
di
autorizzazione degli incarichi extra-istituzionali; in sede di autorizzazione allo svolgimento di incarichi extra-istituzionali, le amministrazioni devono valutare tutti i profili di conflitto di interesse , anche quelli potenziali; il dipendente deve comunicare anche l’attribuzione di incarichi gratuiti , sui quali l’amministrazione deve valutare
tempestivamente
comunicazione,
salvo
(entro
motivate
5
giorni
esigenze
dalla
istruttorie)
l’eventuale sussistenza di situazioni di conflitto di
interesse anche potenziale e, nel caso, comunicare al dipendente il diniego allo svolgimento dell’incarico. Gli incarichi
a
titolo
gratuito
da
comunicare
all’amministrazione sono solo quelli che il dipendente svolge in considerazione della professionalità che lo caratterizza
all’interno
dell’amministrazione
di
appartenenza (non va comunicato, ad esempio, lo svolgimento di un incarico gratuito di docenza in una scuola di danza da parte di un funzionario amministrativo di un ministero, poiché tale attività non è connessa con la sua professionalità di funzionario). Gli incarichi retribuiti, exart. 53, sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi da tale ambito i compensi derivanti:
dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; dalla partecipazione a convegni e seminari; da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; da attività di formazione diretta ai dipendenti della Pubblica Amministrazione, nonché di docenza e ricerca scientifica. La normativa anticorruzione ha disposto, poi, nell’ottica di una più marcata separazione tra politica e amministrazione, il divieto per chi abbia avuto compiti in organizzazioni politiche e sindacali di essere destinatario di incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale.
2.5.3 Le disposizioni sull’inconferibilità degli incarichi e sulle incompatibilità (D.Lgs. 39/2013) Il D.Lgs. 39/2013, attuativo della delega contenuta nella L. 190/2012, ha disposto un articolato sistema di norme volte a disciplinare
la
incompatibilità
materia degli
della
incarichi
inconferibilità presso
le
e
della
pubbliche
amministrazioni e presso gli enti di diritto privato in controllo pubblico. Le disposizioni in esso contenute rappresentano, altresì, espressa attuazione dei precetti costituzionali di cui agli articoli 54 (dovere di fedeltà alla Repubblica e di adempimento degli incarichi pubblici con disciplina ed onore) e 97 (assicurare
il
buon
andamento
Amministrazione) della Costituzione.
della
Pubblica
Tale disciplina ha l’obiettivo di prevenire e contrastare fenomeni corruttivi e conflitti di interesse tutelando l’esercizio imparziale delle funzioni pubbliche attraverso la previsione di regimi di inconferibilità ed incompatibilità. In particolare, con dette misure generali di carattere preventivo , la finalità perseguita dal legislatore è stata quella di evitare che lo svolgimento di determinati incarichi e/o funzioni possa agevolare la precostituzione di situazioni favorevoli in vista del successivo conferimento di incarichi dirigenziali e assimilati e, di conseguenza, possa comportare il rischio di un “accordo corruttivo” per conseguire il vantaggio in maniera illecita (si prescrive, cioè, un periodo di raffreddamento per coloro che vengono dal mondo della politica e che siano strettamente legati all’ente che conferisce l’incarico). Da qui anche il divieto di cumulo di più cariche politiche e/o coesercizio di funzioni di indirizzo politico e di funzioni
di
amministrazione
che
possa
ripercuotersi
negativamente sulla efficienza e l’imparzialità delle funzioni. L’art. 1, lett. g ) D.Lgs. 39/2013 definisce l’inconferibilità come la situazione soggettiva, permanente o temporanea, che impedisce il conferimento dell’incarico ad un soggetto che abbia assunto condotte penalmente sanzionate o abbia ricoperto determinati incarichi gestionali e/o politici. Più specificatamente l’incarico non può essere conferito: a coloro che abbiano riportato condanne penali (anche non definitive) per i reati previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale (reati contro la Pubblica Amministrazione);
a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o svolto attività professionali a favore di questi ultimi; a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico. L’istituto dell’inconferibilità è, pertanto, un rimedio preventivo, volto ad evitare l’insorgere di fenomeni di contiguità e corruzione a salvaguardia di beni primari per la collettività, quali sono la trasparenza, l’efficienza e il buon andamento delle amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’art. 97 Cost. Diversamente, l’incompatibilità impedisce di ricoprire contemporaneamente due ruoli potenzialmente in conflitto di interesse. L’incompatibilità fa sorgere, nel soggetto nominato, l’obbligo di optare , a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 15 giorni, tra la permanenza nell’incarico ricoperto e l’assunzione del nuovo incarico: una scelta tra due condizioni
assunte,
quella
precedente
alla
nomina
e
“l’assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche in enti di diritto
privato
regolati
o
finanziati
dalla
Pubblica
Amministrazione che conferisce l’incarico, lo svolgimento di attività professionali ovvero l’assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico”. Le disposizioni del D.Lgs. 39/2013 sono applicabili integralmente alle Regioni, ancorché a statuto speciale, in virtù dell’art. 22 del decreto stesso, che dispone la prevalenza della
disciplina sulle diverse disposizioni di legge regionale: il legislatore nazionale ha stabilito, cioè, una clausola di prevalenza delle diverse e contrastanti disposizioni previste dalle normative regionali in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi. In merito alle conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione di tali disposizioni : per quanto riguarda la disciplina dell’inconferibilità , posto che la situazione non può essere sanata, gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del decreto e i relativi contratti sono nulli (art. 17) e a carico dei componenti di organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli sono applicate le specifiche sanzioni previste dall’art. 18; con riferimento, invece, ai casi di incompatibilità , l’art. 19 prevede la decadenza dall’incarico e la risoluzione del relativo contratto , di lavoro subordinato o autonomo, decorso
il
contestazione
termine
perentorio
all’interessato,
da
di
15
parte
giorni del
dalla RPCT,
dell’insorgere della causa di incompatibilità. La vigilanza sull’osservanza delle norme in materia di inconferibilità e incompatibilità è demandata al RPCT e all’ANAC. Può parlarsi, pertanto, di una vigilanza interna , che è quella affidata al RPCT di ciascuna amministrazione pubblica, ente pubblico e ente di diritto privato in controllo pubblico, e di una vigilanza esterna , condotta, invece, dall’ANAC.
2.5.4 La cessazione del rapporto di lavoro e il divieto di pantouflage (cosiddette revolving doors ) La L. 190/2012 ha introdotto il comma 16-ter nell’ambito dell’art. 53 D.Lgs. 165/2001, volto a contenere il rischio di situazioni di corruzione connesse all’impiego del dipendente successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Il rischio valutato dalla norma è che durante il periodo di servizio il dipendente possa artatamente precostituirsi delle situazioni lavorative vantaggiose e così sfruttare a proprio fine la sua posizione e il suo potere all’interno dell’amministrazione per ottenere successivamente un lavoro per lui allettante presso l’impresa o il soggetto privato con cui entra in contatto. La norma prevede, quindi, una limitazione della libertà negoziale del dipendente per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro con l’Amministrazione , per eliminare la “convenienza” di accordi fraudolenti. L’ambito della norma è riferito a quei dipendenti che, nel corso degli ultimi 3 anni di servizio , hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’amministrazione con riferimento allo svolgimento di attività presso i soggetti privati che sono stati destinatari di provvedimenti, contratti o accordi. I dipendenti interessati sono coloro che per il ruolo e la posizione ricoperti nell’amministrazione hanno avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto dell’atto e, quindi, coloro che hanno esercitato la potestà o
il potere negoziale con riguardo allo specifico procedimento o
procedura
(dirigenti,
funzionari
titolari
di
funzioni
dirigenziali). I predetti soggetti nel triennio successivo alla cessazione del rapporto con l’amministrazione, qualunque sia la causa di cessazione (anche in caso di collocamento in quiescenza per raggiungimento dei requisiti di accesso alla pensione), non possono avere alcun rapporto di lavoro autonomo o subordinato con i soggetti privati che sono stati destinatari di provvedimenti, contratti o accordi. La norma prevede delle sanzioni per il caso di violazione del divieto, che consistono in: sanzioni sull’atto : i contratti di lavoro conclusi e gli incarichi conferiti in violazione del divieto sono nulli; sanzioni sui soggetti : i soggetti privati che hanno concluso contratti o conferito incarichi in violazione del divieto
non
possono
contrattare
con
la
Pubblica
Amministrazione di provenienza dell’ex dipendente per i successivi 3 anni ed hanno l’obbligo di restituire eventuali compensi
percepiti
ed
accertati
in
esecuzione
dell’affidamento illegittimo; pertanto, la sanzione opera come requisito soggettivo legale per la partecipazione a procedure di affidamento con la conseguente illegittimità dell’affidamento stesso per il caso di violazione.
2.6 L’affidamento di incarichi di collaborazione autonoma a personale esterno Il conferimento di incarichi di collaborazione autonoma a personale esterno alla Pubblica Amministrazione rientra tra le attività a più elevato rischio corruttivo: i Piani triennali anticorruzione, a tal fine, prevedono quale contromisura la definizione di protocolli operativi volti ad adeguare le procedure interne e a conformare la condotta del personale dipendente agli obblighi di legge. La disciplina del conferimento di incarichi di consulenza e collaborazione è contenuta nell’art. 7, co. 6 ss., D.Lgs. 165/2001. La norma prescrive che le Amministrazioni, solo per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale (artt. 2222 e 2229 c.c.) ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria. In
particolare,
la
norma
richiede
l’accertamento
preliminare di predeterminati presupposti: oggetto della prestazione . Il contenuto dell’incarico deve essere sempre dettagliato e riguardare la soluzione di una particolare e specifica questione da risolvere (o
progetto da realizzare), già individuata al momento del suo conferimento, avente caratteri di obiettiva complessità . Non sono ammissibili incarichi generici o indeterminati o che possano essere confusi con le attività ordinarie; impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane interne. L’affidamento di un incarico esterno si giustifica solo se l’ente non può far fronte con il personale in servizio ad una determinata esigenza; è necessario, dunque, verificare l’assenza di strutture organizzative o professionalità in grado di assicurare i medesimi servizi nell’ambito di tutta la propria organizzazione; eccezionalità,
straordinarietà
e
temporaneità
della prestazione. È possibile ricorrere ad incarichi solo per esigenze di carattere straordinario ed è necessario che sia predeterminato un termine, non eccessivamente lungo, in quanto in caso di esigenze durature, l’ente pubblico deve provvedere mediante assunzioni o riqualificando il personale. connessa
La
durata
all’obiettivo
deve o
intendersi
progetto
da
strettamente realizzare.
È
espressamente esclusa la possibilità di rinnovo; natura altamente qualificata della prestazione . Il ricorso all’esterno deve essere limitato ai casi nei quali sia necessario l’apporto di prestazioni professionali di elevato contenuto qualitativo. Tale specializzazione deve formare oggetto di concreto accertamento da compiersi all’atto del conferimento dell’incarico. È espressamente stabilito che il ricorso a contratti di collaborazione per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l’utilizzo dei collaboratori come
lavoratori
subordinati
è
causa
di
responsabilità
amministrativa a carico del dirigente. Non è, dunque, possibile ricorrere a contratti di lavoro autonomo per soddisfare esigenze ordinarie dell’amministrazione, che richiedano un contenuto professionale medio/basso. Le deroghe, previste dall’art. 7, co. 6, nei casi nei quali è possibile prescindere dalla comprovata specializzazione universitaria, hanno carattere tassativo; affidamento
con
procedura
comparativa
adeguatamente pubblicizzata . La selezione del soggetto da incaricare deve avvenire con procedura comparativa, adeguatamente pubblicizzata, secondo criteri predeterminati, obiettivi e trasparenti (art. 7, co. 6-bis , D.Lgs. 165/2001). Da essa può prescindersi solo in circostanze del tutto particolari (procedura concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale); pubblicità
sul
sito
web
dell’amministrazione
conferente . L’art. 15 D.Lgs. 33/2013 prevede la pubblicazione,
nella
sezione
«Amministrazione
trasparente» del sito istituzionale, di tutte le informazioni riguardanti gli incarichi di collaborazione conferiti (atto di conferimento dell’incarico, completo dell’indicazione dei soggetti
percettori,
dell’ammontare
della
erogato;
ragione
dell’incarico
e
compensi;
attestazione
di
avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi ecc.). I contratti di consulenza e collaborazione, posti in essere in violazione dell’art. 7, co. 6 e seguenti, D.Lgs. 165/2001, sono nulli e determinano responsabilità erariale. Inoltre, per i dirigenti conferenti, scattano le responsabilità dirigenziali previste dall’art. 21 del medesimo D.Lgs. 165/2001.
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Libro VI Contabilità degli Enti Pubblici non Economici SOMMARIO Capitolo 1 Le fonti normative della contabilità pubblica Capitolo 2 La manovra di bilancio Capitolo 3 L’esecuzione del bilancio Capitolo 4 Il rendiconto generale dello Stato Capitolo 5 La responsabilità amministrativa e contabile Capitolo 6 Il sistema dei controlli Capitolo
7
L’ordinamento
contabile
degli
enti
pubblici
istituzionali
Capitolo 1 Le fonti normative della contabilità pubblica 1.1 Oggetto di studio della contabilità pubblica
La contabilità di Stato è l’insieme organico delle norme che disciplinano l’organizzazione finanziario-contabile, la gestione patrimoniale, l’attività contrattuale, la gestione del bilancio, il sistema dei controlli e la responsabilità degli amministratori della cosa pubblica. A questa definizione, data da uno dei padri della disciplina (Bennati), può essere utile affiancare (sia pure con una certa cautela) quanto enunciato dalla Corte dei conti (Atto di indirizzo della Sezione delle Autonomie, Adunanza del 27 aprile 2004): chiamata a definire l’ambito della funzione consultiva prevista dall’art. 7, comma 8, della Legge 131/2003 «in materia di contabilità pubblica», la Corte dei conti ha individuato i confini della nozione di contabilità pubblica nella «attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, ricomprendendo, in particolare, la disciplina dei bilanci e i relativi equilibri, l’acquisizione
delle
entrate,
l’organizzazione
finanziaria-
contabile, la disciplina del patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la rendicontazione e i relativi controlli». Va inoltre sottolineato come la definizione di contabilità di Stato sia stata progressivamente sostituita da quella di contabilità pubblica, definizione più idonea a comprendere le discipline contabili di tutte le amministrazioni pubbliche: Regioni, enti locali, enti parastatali, camere di commercio, aziende sanitarie, università e istituzioni scolastiche. Su tale evoluzione ha senz’altro influito l’art. 103, comma 2 della Costituzione secondo cui «la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge», sancendo in tal modo l’esistenza di un’area che
comprende tutti i fatti e i rapporti connessi alla gestione finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli altri enti pubblici.
1.2 La contabilità pubblica e la Costituzione I principi costituzionali a fondamento della contabilità pubblica
sono
contenuti
nei
seguenti
articoli
della
Costituzione: articolo 81, che riporta i principi fondamentali in materia di bilanci dello Stato; articolo 100, sui controlli da parte della Corte dei conti; articolo 103, sulla giurisdizione contabile della Corte dei conti; articolo 119, che riconosce autonomia finanziaria ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni.
1.2.1 L’articolo 81 e il principio del pareggio di bilancio L’art. 81 della Costituzione, che sin dalla sua versione originaria riporta i principi fondamentali in materia di bilanci dello Stato, è stato interessato da una profonda modifica ad opera della L. cost. 20 aprile 2012, n. 1. Quest’ultima, intervenendo oltre che sull’articolo 81 anche sugli articoli 97, 117 e 119 Cost., ha introdotto nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio.
Le
modifiche
della
legge
costituzionale
(in
vigore
nell’esercizio finanziario 2014 ai sensi dell’art. 6 della L. cost. 1/2012) incidono sulla disciplina di bilancio dell’intero comparto delle pubbliche amministrazioni, compresi pertanto gli enti territoriali (Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane). Comma 1: l’equilibrio fra entrate e uscite al netto del ciclo Il primo comma del nuovo art. 81 definisce il principio del «pareggio di bilancio»: esso infatti afferma che lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. La norma eleva ora a principio costituzionale per lo Stato la regola dell’equilibrio di bilancio al netto del ciclo, principio che si ispira alle vigenti regole europee (cosiddetto Patto di stabilità) che adottano, quale parametro di riferimento, un saldo al netto del ciclo e delle una tantum. Il fatto che la Costituzione menzioni entrambe le fasi del ciclo economico (fasi avverse e fasi favorevoli) sembra introdurre un criterio di compensazione ciclica tra avanzi e disavanzi di bilancio: nelle fasi avverse, il bilancio potrà esporre situazioni di deficit congiunturale, ma nelle fasi favorevoli il bilancio dovrà evidenziare l’emergere di posizioni di avanzo. Inoltre, il testo costituzionale parla di “equilibrio” dei bilanci, termine che (rispetto a quello di “pareggio”) ha una connotazione più dinamica, connessa alla sostenibilità nel
tempo del saldo considerato appunto di “equilibrio”; più che una regola contabile (la mera uguaglianza fra entrate e spese), perciò, il comma 1 indica un principio di gestione della politica economica nazionale. Una più precisa definizione del principio dell’equilibrio dei bilanci è data dalla L. 243/2012 secondo cui (art. 3, co. 2) tale equilibrio corrisponde all’obiettivo di medio termine (OMT), ossia al valore del saldo strutturale (cioè: corretto per il ciclo e al netto delle misure una tantum.) individuato sulla base dei criteri stabiliti dall’ordinamento dell’Unione europea e differenziato per ogni Stato. Tale equilibrio (art. 3, co. 5) si considera dunque conseguito quando il saldo strutturale, calcolato in sede di consuntivo nel primo semestre dell’esercizio successivo a quello al quale si riferisce, soddisfa almeno una delle seguenti condizioni: risulta almeno pari all’obiettivo di medio termine ovvero evidenzia uno scostamento dal medesimo obiettivo di
medio
termine
inferiore
a
quello
considerato
significativo ai sensi dell’ordinamento dell’Unione europea (procedura per i disavanzi eccessivi) e degli accordi internazionali in materia (Fiscal compact), ossia non superiore allo 0,5 per cento del PIL; assicura il rispetto del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine nei casi di eventi eccezionali e di scostamenti dall’obiettivo programmatico che danno luogo a meccanismi di correzione, ovvero evidenzia uno scostamento dal medesimo percorso di avvicinamento inferiore a quello considerato significativo
in sede comunitaria, ossia fino a –0,5 per cento rispetto all’obiettivo. Per quanto più specificamente riguarda l’equilibrio del bilancio dello Stato , secondo l’art. 14 della L. 243/2012 esso corrisponde ad un valore del saldo netto da finanziare, o da impiegare, coerente con gli obiettivi programmatici di equilibrio stabiliti nei documenti di programmazione finanziaria e deve essere indicato nella legge di bilancio per ciascuno degli anni del triennio di riferimento. I nuovi o maggiori oneri derivanti dalla legge di bilancio devono quindi risultare compatibili con il rispetto dell’equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio, inteso in termini di coerenza con gli obiettivi di saldo del conto economico consolidato delle pubbliche
amministrazioni,
volti
ad
assicurare
il
conseguimento dell’obiettivo di medio termine. Secondo le definizioni di cui all’art. 2 della L. 243/2012: – per saldo netto da finanziare o da impiegare si intende il
risultato
differenziale
tra
le
entrate
tributarie,
extratributarie, da alienazione e ammortamento di beni patrimoniali e da riscossione di crediti e le spese correnti e in conto capitale; –
per
saldo
del
conto
consolidato
si
intende
l’indebitamento netto o l’accreditamento netto come definiti ai fini della procedura per i disavanzi eccessivi di cui al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Inoltre, poiché le spese delle amministrazioni centrali rappresentano meno della metà di quelle totali delle
amministrazioni pubbliche, i novellati artt. 119 (commi 1 e 6) e 97 Cost. e gli artt. 9 e 13 della L. 243/2012 obbligano anche i bilanci
delle
amministrazioni
pubbliche
(rispettivamente, territoriali e non territoriali) a rispettare il principio del pareggio di bilancio. È interessante notare la differenza tra l’art. ٨١ e gli artt. ٩٧ e ١١٩ Cost. che assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico in relazione rispettivamente al complesso delle amministrazioni pubbliche e alle autonomie territoriali: se comune è l’obbligo di perseguire il pareggio di bilancio, solo allo Stato è riservata la possibilità di avere
disavanzi
nominali
(e
quindi
ricorrere
all’indebitamento) nelle fasi avverse del ciclo. Comma 2: il ricorso all’indebitamento Il comma 2 dell’art. 81 sottolinea come il ricorso all’indebitamento (in deroga alla regola generale del pareggio) sia consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione del Parlamento adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Il comma individua quindi due diverse deroghe al divieto di indebitamento: una prima, legata ad una fase negativa del ciclo economico secondo quanto già affermato nel comma 1; una
seconda,
da
considerarsi
quale
clausola
di
salvaguardia, per evitare che l’introduzione di regole rigide che impediscano il ricorso all’indebitamento, limitando gli strumenti di reazione, si riveli paralizzante al verificarsi di
circostanze eccezionali; d’altra parte, si è ritenuto opportuno sottoporre una tale possibile deroga al principio generale a ben precisi limiti. Per rendere effettivamente straordinario il ricorso all’indebitamento in quest’ultimo caso, si dispone che esso sia autorizzato con deliberazioni conformi del Parlamento con una procedura aggravata, che prevede un voto a maggioranza assoluta dei componenti. È l’art. 6 della L. 243/2012 (di attuazione della L. cost. 1/2012) a specificare quali eventi eccezionali consentano il ricorso all’indebitamento: – i periodi di grave recessione economica relativi anche all’area dell’euro o all’intera Unione europea; – gli eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato, nonché le gravi calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del Paese. Tali eventi eccezionali sono individuati in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea.
Circa
la
procedura
di
autorizzazione
all’indebitamento, la L. 243/2012 prevede che il Governo, qualora ritenga indispensabile discostarsi temporaneamente dall’obiettivo programmatico per fronteggiare i suddetti eventi eccezionali, sentita la Commissione europea, presenti al Parlamento: una
relazione
di
aggiornamento
programmatici di finanza pubblica;
degli
obiettivi
una specifica richiesta di autorizzazione, che indichi la misura e la durata dello scostamento, stabilisca le finalità alle quali destinare le risorse disponibili in conseguenza dello stesso e definisca il piano di rientro verso l’obiettivo programmatico, commisurandone la durata alla gravità degli eventi eccezionali. L’art. 6, comma 4, della L. 243/2012 impone poi un vincolo di destinazione delle risorse eventualmente reperite
sul
mercato:
esse
possono
essere
utilizzate
esclusivamente per le finalità indicate nella richiesta di autorizzazione al Parlamento. Comma 3: la copertura finanziaria delle leggi Il comma 3 afferma il tradizionale principio della copertura finanziaria delle leggi (era già contenuto nell’originario quarto comma dell’articolo 81) in base al quale ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri finanziari deve provvedere ai mezzi per farvi fronte. Si badi che il testo risultante dalle modifiche della L. cost. 1/2012: – si riferisce ora ad «ogni legge» e non ad ogni «altra» legge, ove «altra» andava inteso come «ogni legge diversa dalla legge di bilancio»; – sostituisce il termine «spese» con «oneri», recependo quanto si era già affermato nella prassi applicativa dell’originario art. 81, quarto comma, della Costituzione, vale a dire la sostanziale assimilazione delle «nuove o maggiori
spese»
alle
«minori
entrate»
ai
fini
dell’applicazione delle procedure di verifica dell’impatto sui saldi di finanza pubblica e di congruità dei mezzi di copertura. Sia le variazioni sul lato delle entrate sia quelle sul lato della spesa, allorquando determinino effetti peggiorativi dei predetti saldi, sono quindi identificati nella categoria degli «oneri» da sottoporre a copertura; – introduce il termine «provvede» per definire l’obbligo di reperimento
dei
mezzi
di
copertura,
in
luogo
dell’espressione «deve indicare» contenuta nel testo della Carta del 1948: una modifica volta a rafforzare il principio della copertura finanziaria delle singole leggi di spesa.
Il
comma
esclude
dunque
che
possano
emanarsi
disposizioni che importino per l’erario oneri di più ampia portata
rispetto
a
quelli
derivanti
dalla
legislazione
preesistente, se non venga provveduto con legge anche alla indicazione dei mezzi destinati alla copertura dei nuovi oneri (Corte Cost., sentenza n. 66 del 16 dicembre 1959). La disposizione ha l’evidente scopo di salvaguardare la coerenza delle indicazioni della legge di bilancio e la stabilità dei conti pubblici.
Scopo
della
norma
è
quello
di
evitare
un’espansione irresponsabile della spesa pubblica poiché impone di associare alle nuove leggi l’indicazione dei mezzi con cui farvi fronte. La Corte costituzionale ha spesso avuto occasione di pronunciarsi sull’applicazione dell’obbligo di copertura finanziaria (sancito all’epoca dall’art. 81, quarto comma). In particolare, con la sentenza 7 gennaio 1966, n. 7 aveva
affermato che l’obbligo di copertura non ha un significato contabile, ma una portata sostanziale che attiene ai limiti che il legislatore ordinario è tenuto ad osservare nella sua politica di spesa, che deve essere contrassegnata non già dall’automatico pareggio del bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell’equilibrio tra entrate e spesa. Con la stessa sentenza, inoltre, la Corte aveva sottolineato che l’obbligo della “copertura” deve essere osservato dal legislatore ordinario anche nei confronti di spese nuove o maggiori che la legge preveda siano inserite negli stati di previsione della spesa di esercizi futuri. Limitare l’obbligo della copertura al solo esercizio in corso si ridurrebbe in una vanificazione dell’obbligo stesso; d’altra parte, ribadì la Corte, “la vita finanziaria dello Stato (…) non può essere artificiosamente spezzata in termini annuali, ma va, viceversa, considerata nel suo insieme e nella sua continuità temporale, segnatamente in un tempo (…) nel quale gli interventi statali (…) impongono previsioni che vanno oltre il ristretto limite di un anno e rendono palese la necessità di coordinare i mezzi e le energie disponibili per un più equilibrato sviluppo settoriale e territoriale dell’intera comunità”.
In altre occasioni, inoltre, la Corte Costituzionale ha individuato una serie di principi generali per la corretta copertura delle spese: la copertura deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in equilibrato rapporto con la
spesa che si intende effettuare in esercizi futuri (sentenza n. 1/1966); la copertura è aleatoria se non tiene conto che ogni anticipazione di entrate ha un suo costo (sentenza n. 54/1983); l’obbligo di copertura deve essere osservato con puntualità rigorosa nei confronti delle spese che incidono su un esercizio in corso e deve valutarsi il tendenziale equilibrio tra entrate ed uscite nel lungo periodo, valutando gli oneri già gravanti sugli esercizi futuri (sentenza n. 384/1991). Comma 4: la cadenza annuale del bilancio Il nuovo quarto comma dell’art. 81 (“Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo”) stabilisce al tempo stesso: la cadenza annuale della procedura di approvazione del bilancio; la suddivisione dei ruoli fra Governo e Parlamento nella predisposizione dei documenti finanziari e nella gestione del bilancio: il Governo (dal quale dipende la pubblica amministrazione) detiene in via esclusiva il potere di iniziativa legislativa in materia di bilancio, mentre il Parlamento autorizza l’esecutivo a gestire su base annua l’ordinamento finanziario di entrata e di spesa. La legge di bilancio costituisce pertanto lo strumento per vincolare l’attività delle amministrazioni pubbliche al perseguimento degli obiettivi individuati dal Parlamento, per legittimare il prelievo delle imposte e assicurare che i
fondi pubblici vengano erogati nel rispetto dei vincoli fissati dall’organo rappresentativo della volontà popolare. Il voto parlamentare sul bilancio costituisce perciò uno dei principali momenti di verifica del rapporto fiduciario Parlamento-Governo
ed
infatti
la
Costituzione
vieta
esplicitamente (art. 72, comma 4) che l’approvazione parlamentare possa avvenire adottando la procedura, più rapida, della approvazione in commissione e richiede invece la procedura normale. Inoltre, la legge di bilancio può essere assoggettata
al
sindacato
di
legittimità
della
Corte
Costituzionale ma non a referendum abrogativo (l’articolo 75, comma 2, infatti, esclude espressamente il referendum abrogativo, tra l’altro, per le leggi tributarie e di bilancio). Comma 5: l’esercizio provvisorio Il quinto comma del novellato art. 81 Cost. costituzionalizza l’istituto dell’esercizio provvisorio del bilancio: se il bilancio non viene approvato entro il 31 dicembre, il Parlamento concede al Governo l’esercizio provvisorio di bilancio, con legge e per periodi non superiori a quattro mesi. Questo comma dell’art. 81 ha una duplice finalità: assicurare la continuità dell’azione amministrativa: senza legge di bilancio, infatti, mancherebbe il fondamento giuridico per la gestione delle entrate e delle spese; occorre dunque uno strumento legale (la legge che autorizza la gestione provvisoria del bilancio) che eviti la paralisi che la carenza di autorizzazione ad assumere le spese e a
realizzare le entrate comporterebbe nell’attività dello Stato per l’anno successivo; garantire il controllo preventivo del Parlamento sugli atti del Governo. L’esercizio provvisorio incontra i seguenti limiti: – un limite temporale, poiché esso non può superare i quattro mesi: si badi che la Costituzione ammette in teoria più esercizi provvisori purché la loro somma non superi i quattro mesi («per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi»); – è poi vincolato a condizioni di necessità:
il
provvedimento deve essere finalizzato ad evitare la paralisi nell’attività finanziaria dello Stato; – l’esercizio provvisorio può aversi solo con legge, così da permettere il controllo della Corte Costituzionale. Per tale motivo è da escludere che l’esercizio provvisorio possa essere autorizzato con decreto legge. Inoltre, il Parlamento (l’organo deputato ad autorizzare l’esercizio provvisorio) è abilitato anche alla revoca, implicita o esplicita, prima della scadenza del termine previsto. In ogni caso, la gestione provvisoria cessa automaticamente con la definitiva approvazione della legge di bilancio.
Comma 6: la legge di contabilità Il sesto comma dell’art. 81 Cost. demanda ad una apposita legge, oggetto di approvazione a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, il compito di stabilire:
il contenuto della legge di bilancio; le norme fondamentali; i criteri volti ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale. Per la sua approvazione la Costituzione ha previsto espressamente una maggioranza qualificata (maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera). La norma in questione, dopo un complesso iter, è stata approvata con L. 24 dicembre 2012, n. 243, e le sue disposizioni si applicano dal 1° gennaio 2014; dal 1° gennaio 2016, invece, trovano applicazione le norme sull’equilibrio di bilancio di Regioni ed enti locali e quelle sul contenuto della legge di bilancio.
1.2.2 L’art. 97 e l’equilibrio di bilancio delle pubbliche amministrazioni Fino alla L. cost. 1/2012, l’art. 97 sanciva innanzitutto il principio di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. L’art. 2 della legge di revisione costituzionale 1/2012 ha premesso un comma aggiuntivo in base al quale le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento europeo, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico (vale a dire, assicurare nel tempo la sua solvibilità). Il comma 1 dell’art. 97 estende dunque l’obbligo di equilibrio di bilancio a tutte le pubbliche amministrazioni della
Repubblica, non solo quelle immediatamente riconducibili allo Stato (vincolato mediante la revisione dell’art. 81) o le autonomie territoriali (vincolate mediante la revisione dell’art. 119). La disciplina di dettaglio è contenuta nell’art. 13 della L. 243/2012 che distingue: per le amministrazioni pubbliche non territoriali che adottano la contabilità finanziaria, l’equilibrio del bilancio si considera conseguito qualora, sia in sede di bilancio di previsione che in sede di rendiconto, si registri un saldo, in termini di cassa e di competenza, in pareggio o positivo, tra le entrate finali e le spese finali. Ai fini della determinazione del saldo, l’avanzo di amministrazione può essere utilizzato, nella misura di quanto effettivamente realizzato, solo successivamente all’approvazione del rendiconto
e
comunque
nel
rispetto
di
eventuali
condizioni e limiti previsti dalla legge dello Stato; per le amministrazioni che adottano esclusivamente la contabilità economico-patrimoniale, una apposita legge dello Stato deve fornire la definizione del principio dell’equilibrio di bilancio.
1.2.3 Gli articoli 100 e 103 e la Corte dei conti La Costituzione individua agli articoli 100 e 103 i principi cui devono uniformarsi le funzioni di controllo (articolo 100) e giurisdizionali (articolo 103) attribuite alla Corte dei conti.
In particolare, l’art. 100, secondo comma, attribuisce alla Corte dei conti il potere di esercitare un controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e un controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato; inoltre essa partecipa al controllo sulla gestione finanziaria
degli
enti.
La
Costituzione,
che
assicura
l’indipendenza della Corte e dei suoi componenti di fronte al Governo, prevede un diretto collegamento fra la Corte ed il Parlamento, al quale essa è tenuta a riferire sul risultato del riscontro eseguito. Dal canto suo, l’art. 103, secondo comma, costituisce il fondamento costituzionale su cui si basa la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica da parte della Corte dei conti. L’art. 1 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile) definisce ora l’ambito della giurisdizione contabile: la Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all’erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica. Sono inoltre devoluti alla giurisdizione della Corte dei conti i giudizi in materia pensionistica.
1.2.4 Gli enti territoriali: l’articolo 119 Hanno attinenza con la contabilità pubblica anche gli articoli 117 e 119 della Costituzione. L’art. 117, secondo comma, lett. e), dopo le modifiche operate
dalla
L.
cost.
1/2012,
attribuisce
la
materia
armonizzazione dei bilanci pubblici alla competenza
esclusiva statale (la precedente versione, frutto della revisione costituzionale operata con L. cost. 3/2001, la ascriveva invece alla competenza concorrente poiché la materia era elencata all’art. 117, terzo comma). In base all’articolo 119, primo comma, le Regioni (come gli enti locali) sono dotate di «autonomia finanziaria di entrata e di spesa» da esercitarsi (dopo la L. cost. 1/2012), nel rispetto dell’equilibrio tra entrate e spese (principio, come visto, già affermato per il complesso delle pubbliche amministrazioni dall’art. 97 e per lo Stato dall’art. 81), nonché nell’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea. Il rinvio ai vincoli derivanti dal cd. «Patto di
stabilità
e
crescita»
riecheggia
la
«coerenza
con
l’ordinamento dell’Unione europea» di cui al nuovo art. 97 Cost., mentre non è prevista analoga disposizione per il bilancio dello Stato dall’art. 81. Il secondo comma riconosce a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni «risorse autonome» rappresentate da tributi ed entrate propri (che tali enti territoriali stabiliscono e applicano in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario); essi inoltre dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio. Per i territori con minore capacità fiscale per abitante, la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo «senza vincoli di destinazione» (terzo comma). Nel loro complesso tali risorse devono consentire alle Regioni ed agli altri enti locali «di finanziare integralmente
le funzioni pubbliche loro attribuite» (quarto comma). Non di meno, al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, di rimuovere gli squilibri economici e sociali, di favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona o di provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato può destinare «risorse aggiuntive» ed effettuare «interventi speciali» in favore
«di
determinati
Comuni,
Province,
Città
metropolitane e Regioni» (quinto comma).
L’ultimo comma dell’art. 119, dopo aver riconosciuto alle autonomie territoriali un proprio patrimonio (attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato), individua entro quali limiti gli enti territoriali possono ricorrere all’indebitamento: quest’ultimo è consentito solo per finanziare spese di investimento e senza alcuna garanzia dello Stato sui prestiti contratti. La L. cost. 1/2012 ha infine aggiunto un ulteriore periodo al sesto comma dell’art. 119 ponendo quali ulteriori condizioni per l’indebitamento delle Autonomie territoriali: la contestuale definizione di piani di ammortamento e che «per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio». Le due nuove condizioni poste al debito, pur in presenza della possibilità di indebitamento del singolo ente, confermano il rispetto del principio del pareggio, ma su due diversi piani: quello intertemporale, a livello dello stesso singolo ente (definendo il piano di ammortamento, l’ente garantisce l’equilibrio totale sul complesso del periodo dato) e quello
interterritoriale (il debito è possibile solo se è compensato dall’equilibrio dell’aggregato regionale di cui l’ente fa parte). La nuova disciplina trova attuazione negli artt. 9-12 della L. 243/2012 (come modificati dalla L. 164/2016). In particolare, l’articolo 9, comma 1 stabilisce che i bilanci delle Regione e degli enti locali si considerano in equilibrio quando, sia nella fase di previsione che di rendiconto, registrano un saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali (Entrate correnti di tributarie, Trasferimenti correnti, Entrate extratributarie, Entrate in conto capitale, Entrate da riduzione attività finanziarie) e le spese finali (Spese correnti, Spese in conto capitale, Spese per incremento di attività finanziarie).
1.3 Le principali norme in materia di contabilità pubblica 1.3.1 La legge 196/2009 di riforma della contabilità e finanza pubblica La norma fondamentale in materia di contabilità e finanza pubblica è costituita dalla L. 196 del 31 dicembre 2009, provvedimento che (fra l’altro) detta i contenuti e la tempistica
dei
principali
documenti
di
finanza
pubblica, fissa i principi per l’armonizzazione dei sistemi contabili di Regioni, enti locali ed enti pubblici e individua i principi contabili generali. La L. 196/2009 (più volte oggetto di modifiche, l’ultima con D.Lgs. 12 settembre 2018, n. 116), oltre a riconfigurare il bilancio e la sua struttura, ha completamente riformato tempi e modi della programmazione finanziaria, che (dopo la L. 163/2016) si articola in: un Documento di economia e finanza, DEF, documento di programmazione economico-finanziaria sostitutivo del vecchio DPEF. La versione originaria della L. 196/2009, in realtà, prevedeva
che
il
Documento
di
Programmazione
Economica e Finanziaria (DPEF) fosse sostituito dalla DFP (Decisione di Finanza Pubblica). La necessità di coordinare
la nostra programmazione finanziaria con il “semestre europeo” portò in seguito all’approvazione della L. 39/2011 che ha invece individuato nel Documento di economia e finanza (DEF) il nuovo perno della programmazione economica e finanziaria e soppresso la Decisione di finanza pubblica e la Relazione sull’economia e finanza pubblica: i contenuti di tali documenti sono in gran parte confluiti nella prima e nella seconda sezione del DEF;
la Nota di aggiornamento al DEF, da presentare al Parlamento per la relativa deliberazione; il disegno di legge di bilancio che, dall’esercizio 2017, si riferisce ad un periodo triennale e si compone di due sezioni: la prima che dispone annualmente il quadro di riferimento finanziario e contiene esclusivamente le misure finalizzate a realizzare gli obiettivi di finanza pubblica indicati nel DEF, la seconda invece dedicata alle previsioni di entrata e di spesa espresse in termini di competenza e cassa. La legge 163/2016 ha dunque unificato in un unico provvedimento i due strumenti contabili di cui, storicamente, si componeva la manovra di finanza pubblica. Fino al 2016, infatti, quest’ultima si articolava in due distinti disegni di legge: il disegno di Legge di stabilità (in precedenza chiamato disegno di Legge finanziaria) e il disegno di legge di bilancio. Per il completamento della riforma della contabilità pubblica, la L. 196/2009 ha previsto una serie di deleghe:
per l’armonizzazione dei sistemi contabili; per la revisione delle procedure di spesa in conto capitale; completamento della riforma della struttura del bilancio dello Stato (delega attuata con decreto legislativo 90/2016); riordino della disciplina per la gestione del bilancio e il potenziamento della funzione del bilancio di cassa (delega attuata con decreto legislativo 93/2016 e con D.Lgs. 16 marzo 2018). per la riforma del sistema dei controlli; per la redazione di un Testo Unico delle disposizioni vigenti in materia di contabilità di Stato e di tesoreria (entro il 31 dicembre 2017).
1.3.2 Altre norme rilevanti per il processo di bilancio dello Stato Oltre alla L. 196/2009, hanno un valore storico e/o sono tuttora parzialmente in vigore una serie di norme che disciplinano alcuni aspetti del processo di bilancio. La Legge 5 agosto 1978, n. 468 e la L. 362/1988 Fino al 1978, l’unico strumento di controllo preventivo e di indirizzo dell’attività finanziaria era costituito dal bilancio annuale di previsione, il quale, però, a causa della sua natura formale, non poteva realizzare anno per anno gli aggiustamenti delle entrate e delle spese richiesti dalle manovre di politica economica. Per ovviare a tale problema, la L. 468/1978 introdusse due specifici strumenti legislativi:
con la Legge finanziaria diveniva possibile adattare la legislazione tributaria e di spesa agli obiettivi di politica economica fissati ogni anno dal Governo nella sua manovra; con il bilancio pluriennale si predisponeva un utile supporto ai vari tentativi di programmazione economica nazionale. Successivamente, la Legge 23 agosto 1988, n. 362 istituì il Documento di Programmazione Economica e finanziaria (DPEF); scopo del DPEF era quello di permettere al Parlamento di conoscere con congruo anticipo (inizio estate) le linee di politica economica e finanziaria del Governo: quest’ultimo, a sua volta, era politicamente impegnato a redigere il susseguente bilancio annuale di previsione secondo i criteri ed i parametri scaturenti dal dibattito parlamentare. La L. 468/1978 è stata definitivamente abrogata dalla L. 196/2009. La L. 94/1997 La L. 3 aprile 1997, n. 94 perseguì l’obiettivo di rendere maggiormente conoscibile il bilancio dello Stato, accorpandone le suddivisioni interne: si passò da circa 6.000 capitoli a qualche centinaia di unità previsionali di base, che raggruppavano spese ed entrate in modo omogeneo secondo la natura o la destinazione economica. Mentre in precedenza il Parlamento autorizzava il Governo all’esecuzione del bilancio solo dopo aver approvato ogni singolo capitolo, dal 1997 e fino alla riforma operata con L. 196/2009, il voto parlamentare si è espresso sulle unità previsionali di base che dunque
costituivano
le
unità
elementari
del
bilancio
ai
fini
dell’approvazione parlamentare. La legge di contabilità generale dello Stato ed il suo regolamento attuativo Una delle norme fondamentali per l’attività finanziaria dello Stato e degli enti pubblici è tuttora costituita dal Regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (legge di contabilità di Stato) e dal suo regolamento attuativo (Regio decreto 23 maggio 1924, n. 827) che hanno a lungo retto la disciplina di bilancio dello Stato. I due provvedimenti, inoltre, hanno sostanzialmente
disciplinato
l’attività
contrattuale
della
Pubblica Amministrazione fino all’approvazione del cosiddetto Codice dei Contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006, ora D.Lgs. 50/2016).
1.3.3 I vincoli europei: il Patto di stabilità e crescita, il “fiscal compact” Dopo le modifiche della L. cost. 1/2012, il testo costituzionale in più punti fa riferimento all’«osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea». Già nel 1997, gli Stati membri dell’Unione europea decisero di sottoscrivere il cosiddetto Patto di stabilità e crescita con cui sancirono l’impegno a perseguire l’obiettivo di medio termine di un saldo del conto economico delle amministrazioni pubbliche prossimo al pareggio o in avanzo; con i regolamenti del Consiglio nn. 1466/97 e 1467/97 del 7 luglio 1997 (poi modificati con regolamenti nn. 1175/2011 e 1177/2011) sono
state definite le modalità di attuazione, rispettivamente, della procedura di sorveglianza multilaterale e della procedura sui disavanzi eccessivi. La consapevolezza che, in pratica, alle violazioni dei limiti del Patto non sono seguite le sanzioni previste, ha indotto la Commissione UE nel 2010 a formulare nuove proposte che costituiscono il c.d. pacchetto di riforma della governance economica della UE, basato su una serie di strumenti, tutti mirati ad una applicazione più rigorosa del Patto di stabilità e crescita: il Six Pack: un pacchetto legislativo di cinque regolamenti e una direttiva UE, che introducono un potenziamento delle procedure di sorveglianza sui bilanci dei paesi dell’eurozona, delle procedure di deficit eccessivo, delle misure correttive degli eccessivi squilibri macroeconomici, del coordinamento delle politiche economiche; il Semestre europeo, un ciclo di procedure volte ad assicurare un coordinamento preventivo delle politiche economiche al fine di accrescere il coordinamento delle politiche economiche per la concorrenza e la convergenza. L’introduzione del Semestre europeo ha richiesto un adeguamento della programmazione vigente delle decisioni di finanza pubblica, anche mediante modifiche alla legge n. 196/2009 e ai regolamenti parlamentari. In particolare, con la L. 39/2011 la Decisione di Finanza Pubblica e la Relazione sull’Economia e Finanza sono state abrogate e sostituite dal nuovo Documento di economia e finanza che
ne include i contenuti, unitamente al Programma di Stabilità e
al
Programma
nazionale
di
riforma
richiesti
dall’ordinamento europeo;
il Patto “euro plus”, un accordo con cui gli Stati dell’area euro e alcuni altri Stati membri dell’UE hanno assunto l’ulteriore obbligo di recepire nelle Costituzioni o nella legislazione nazionale le regole del Patto di stabilità e crescita; il meccanismo
europeo
di
stabilità
(o
ESM,
European stability mechanism), firmato il 2 febbraio 2012 ed entrato in vigore il 27 settembre dello stesso anno. L’ESM è un’istituzione finanziaria internazionale che ha come missione principale quella di sostenere i Paesi della zona euro nel caso in cui ciò sia indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria; può concedere prestiti, acquistare obbligazioni di Stati membri ed accordare prestiti per la ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie; il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance
nell’unione
monetaria
ed
economica
(comunemente noto come Fiscal compact), firmato il 2 marzo 2012 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013: in pratica si tratta del nuovo Patto di bilancio che gli Stati dell’Unione si sono impegnati a rispettare per garantire la stabilità finanziaria dei rispettivi Paesi e dell’Unione nel suo complesso; il Two pack, composto da 2 Regolamenti, cogenti in tutta l’area euro: 1) Regolamento n. 472/2013 sulla sorveglianza
rafforzata agli Stati in difficoltà; 2) Regolamento n. 473/2013 sul monitoraggio rafforzato delle politiche di bilancio degli Stati. Il Trattato sulla stabilità ha previsto l’introduzione della regola del pareggio di bilancio nelle Costituzioni nazionali e/o in atti legislativi equivalenti. In particolare, l’articolo 3 ha impegnato le parti contraenti ad applicare e ad introdurre, con norme vincolanti e a carattere permanente, preferibilmente di tipo costituzionale, o di altro tipo purché ne garantiscano l’osservanza nella procedura di bilancio nazionale, le seguenti regole, in aggiunta a e senza pregiudizio per gli obblighi derivanti dal diritto dell’UE: – il bilancio dello Stato dovrà essere in pareggio o in attivo; – tale regola si considera rispettata se il disavanzo strutturale dello Stato è pari all’obiettivo a medio termine specifico per Paese, con un deficit che non eccede lo 0,5% del PIL; – per gli Stati che come l’Italia hanno un debito pubblico eccessivo è anche previsto l’obbligo di rientrare verso il tetto del 60% del Pil al ritmo di 1/20 l’anno per la parte eccedente.
Alla previsione dell’art. 3 del Fiscal compact hanno fatto seguito la L. cost. 1/2012 e la L. 243/2012.
Il calendario del semestre europeo
Il cosiddetto Semestre europeo è costituito da un ciclo di procedure volte ad assicurare un coordinamento preventivo delle politiche economiche e ad accrescere la convergenza. Il calendario del semestre europeo (dopo il Reg. 473/2013) è articolato secondo lo schema seguente: nel mese di novembre, la Commissione elabora l’analisi annuale sulla crescita in cui fornisce l’indagine sulle prospettive
macroeconomiche
e
formula
le
proposte
strategiche per l’economia europea; il Consiglio europeo indica i principali obiettivi di politica economica per l’Unione europea e l’Area euro e le possibili strategie di riforma per conseguire tali obiettivi (c.d. linee guida); a febbraio la Commissione pubblica le Relazioni per Paese integrate, per gli Stati che presentano squilibri macroeconomici, dall’esame approfondito; nel mese di aprile, gli Stati membri, tenuto conto delle indicazioni fornite, comunicano alla Commissione i propri obiettivi di medio termine e le principali azioni di riforma che intendono adottare con l’aggiornamento del Programma di Stabilità (PS) e il Programma Nazionale di Riforma (PNR); nei mesi di giugno e luglio, il Consiglio Europeo e il Consiglio dei Ministri finanziari, sulla base della valutazione dei Programmi di stabilità, forniscono indicazioni specifiche per ciascun Paese. Il Consiglio, nel caso in cui ritenga necessaria una modifica degli obiettivi di medio termine e delle misure indicate per il loro conseguimento, inviterà lo Stato membro a rivedere il programma presentato;
entro il 15 ottobre, è reso pubblico il progetto di bilancio per l’anno successivo. Nella stessa data, gli Stati membri trasmettono alla Commissione e all’Eurogruppo un progetto di documento programmatico di bilancio per l’anno successivo, ciascuno Stato membro, tenuto conto delle raccomandazioni e delle decisioni del Consiglio e della Commissione, predispone il bilancio e le misure di politica economica finalizzate al loro conseguimento.
1.4 Gli enti soggetti alle norme di contabilità pubblica Secondo la definizione fornita dalla L. 196/2009 (art. 1, comma 2), le amministrazioni pubbliche coincidono con gli enti e gli altri soggetti che costituiscono il settore istituzionale delle amministrazioni pubbliche individuati dall’ISTAT sulla base delle definizioni dettate da specifici regolamenti europei. Secondo tali regolamenti, il perimetro della P.A. include tutti i soggetti i quali, al di là della forma giuridica che rivestono, producono prevalentemente servizi cd. non market, cioè non destinabili alla vendita. In tal senso, il settore della pubblica amministrazione, pertanto, non comprende solo organismi pubblici, quali Stato, enti territoriali ed enti previdenziali, bensì anche soggetti, ad esempio, configurati sotto forma di società, che non adottano la contabilità finanziaria ma quella civilistica d’impresa (ad esempio, Anas S.p.a.). Sulla base di una serie di criteri elaborati dal Sec95 (il Sistema Europeo dei Conti, ora aggiornato dal SEC 2010), l’ISTAT ha, infatti, da tempo individuato 3 principali sottosettori all’interno del conto delle Amministrazioni pubbliche: Amministrazioni centrali, sottosettore composto da organi amministrativi dello Stato ed enti centrali; vi rientrano la Presidenza del Consiglio dei Ministri e i
Ministeri, gli organi costituzionali, le Agenzie fiscali, altri enti; Amministrazioni locali, sottosettore che include le Regioni, gli enti locali, gli enti produttori di servizi sanitari, altri enti dell’amministrazione locale (università, comunità montane, camere di commercio, enti per il turismo, enti di sviluppo ecc.); enti di previdenza e assistenza sociale, sottosettore che
raggruppa
l’Inps,
l’Inail
e
altri
enti
(Casse
previdenziali aziendali, enti di previdenza di varie categorie professionali, le Casse previdenziali privatizzate ecc.). Si tratta di una classificazione che in parte si discosta da quella tradizionalmente adottata nell’ambito della contabilità pubblica: Settore statale, che comprende i Ministeri e gli altri organi statali aventi autonomia contabile e finanziaria (organi costituzionali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Corte dei conti, TAR, Consiglio di Stato, Agenzie fiscali); Settore
pubblico.
È
l’aggregato
ottenuto
dal
consolidamento dei conti del Settore Statale, con le risultanze
contabili
di
cassa
degli
altri
enti
dell’Amministrazione centrale (tra cui l’Anas), degli enti dell’Amministrazione locale e di quelli previdenziali. Il Settore Pubblico Allargato, invece, anch’esso introdotto con la L. 468/1978, di riforma della contabilità di Stato, si
riferisce ad un aggregato più ampio di quello delle Amministrazioni pubbliche adottato dall’ISTAT, in quanto comprende anche le imprese pubbliche (nazionali e locali) che producono servizi destinati alla vendita, ma di pubblica utilità (energia ecc.).
1.5 Altre fonti normative per gli enti pubblici Ciascuna tipologia di ente soggetto alle norme di contabilità pubblica (Regioni, enti locali, enti pubblici istituzionali, Camere di commercio, istituzioni scolastiche, Università) è caratterizzato da un proprio ordinamento contabile. Va detto che l’art. 2 della L. 196/2009 ha previsto una delega legislativa al Governo per l’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle amministrazioni pubbliche, ad esclusione di Regioni ed enti locali (per i quali è comunque prevista una analoga disciplina dall’art. 2 della L. 42/2009), nonché per l’armonizzazione della relativa tempistica di presentazione e approvazione. La delega ha trovato attuazione con il D.Lgs. 31 maggio 2011, n. 91, norma finalizzata a consentire la confrontabilità dei dati di bilancio delle differenti amministrazioni. Principi e criteri analoghi a quelli ora visti per le altre amministrazioni pubbliche (adozione di regole contabili uniformi e di un comune piano dei conti integrato; articolazione di comuni schemi di bilancio per missioni e programmi; adozione di un bilancio consolidato con le aziende) caratterizzano il D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118, di attuazione dell’art. 2 della L. 42/2009, relativo a Regioni, enti locali, enti del Servizio sanitario nazionale.
Le Regioni Le Regioni hanno autonomia legislativa nella materia contabile: le Regioni a statuto speciale rinvengono le norme di contabilità negli Statuti stessi; per quelle a statuto ordinario, invece, la materia è stata a lungo disciplinata dal D.Lgs. 28 marzo 2000, n. 76 (abrogato dal 1° gennaio 2015). Un primo tentativo per cercare di armonizzare i bilanci regionali è stato compiuto con il D.Lgs. 170/2006 che, a seguito della riforma del Titolo quinto della Costituzione, individua i principi fondamentali in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici; in particolare, il provvedimento dedica il Capo II ai principi per l’armonizzazione dei bilanci regionali. Visti gli scarsi risultati ottenuti, in attuazione dell’art. 2 della L. 42/2009 come modificato dalla L. 196/2009 è stato quindi emanato il D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118 che, all’art. 2, prevede che Regioni, Province autonome, enti locali e i relativi enti strumentali in contabilità finanziaria affianchino alla contabilità finanziaria, ai fini conoscitivi, un sistema di contabilità economico-patrimoniale, garantendo la rilevazione unitaria dei fatti gestionali sia sotto il profilo finanziario che sotto il profilo economico-patrimoniale. Gli enti locali Il D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, recante l’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, è stato assorbito nel nuovo Testo unico sull’ordinamento degli enti locali, il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Anche per gli enti locali (benché in maniera molto più limitata
rispetto
alle
Regioni)
esistono
problemi
di
disomogeneità cui cerca di porre rimedio il D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 118: principi e criteri cui deve uniformarsi il decreto legislativo l’ordinamento contabile degli enti locali sono analoghi a quelli ora visti per le Regioni. Gli enti pubblici istituzionali Il quadro normativo per l’ordinamento contabile degli enti pubblici non economici (quelli di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70, sul cosiddetto parastato) è attualmente costituito dal D.P.R.
27
febbraio
2003,
n.
97,
«Regolamento
concernente l’amministrazione e la contabilità degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70», che ha abrogato interamente il D.P.R. 696/1979, fornendo una organica raccolta di disposizioni sul sistema amministrativo e contabile degli enti pubblici. Anche il D.P.R. 97/2003 è, ormai da considerare superato, stante la delega prevista dall’art. 2, L. 196/2009 per l’armonizzazione degli schemi contabili delle amministrazioni pubbliche cui ha dato attuazione il D.Lgs. 31 maggio 2011, n. 91. Il provvedimento (in modo analogo a quanto previsto dal D.Lgs. 118/2011 per Regioni, enti locali ed enti del Servizio sanitario nazionale) è volto all’armonizzazione dei sistemi contabili di tutte le amministrazioni definite pubbliche ai sensi dell’art. 1, c. 2, della L. 196/2009 e, dunque, di quelle rientranti nel conto economico della PA (sia di quelle aventi un regime di contabilità finanziaria, sia di quelle aventi un regime di contabilità economico-patrimoniale, ovvero civilistico). Anche in questo caso, i principi ed i criteri direttivi del D.Lgs. 91/2011 riguardano, in particolare:
l’adozione di regole contabili uniformi e di un comune piano dei conti integrato; la riclassificazione dei dati contabili e di bilancio per le amministrazioni pubbliche tenute al regime di contabilità civilistica, mediante la definizione delle procedure di trasformazione dalla contabilità economica a quella finanziaria e viceversa; l’adozione di comuni schemi di bilancio articolati in missioni e programmi; l’adozione di un bilancio consolidato delle Pubbliche amministrazioni con le proprie aziende, società o altri organismi controllati, secondo uno schema-tipo definito dal Ministro dell’economia e delle finanze d’intesa con i Ministri interessati. Il piano dei conti integrato è stato adottato con D.P.R. 132/2013 (in vigore dal 1° gennaio 2015) e costituisce uno dei punti di forza del processo di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio. Le Aziende sanitarie locali Per le Aziende sanitarie locali, l’art. 5 del D.Lgs. 229/1999 demanda alle Regioni l’emanazione di norme per la gestione economico-finanziaria e patrimoniale, informate ai principi di cui al codice civile. Principi contabili e schemi di bilancio armonizzati sono ora dettati dal Titolo II del D.Lgs. 118/2011. Le Camere di commercio Per le Camere di commercio la disciplina della gestione patrimoniale e finanziaria delle Camere di commercio è costituita, dal 1° gennaio 2007, dal D.P.R. 2 novembre
2005, n. 254. Anche tale decreto, comunque, è destinato ad essere superato: l’art. 4bis della L. 580/1993 (introdotto dal decreto legislativo 23/2010) affida, infatti, al Ministro per lo sviluppo economico la vigilanza amministrativo-contabile sulle Camere; a tal fine un suo regolamento, emanato di concerto con il Ministro dell’economia e previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, stabilisce le norme che disciplinano la gestione patrimoniale e finanziaria delle Camere di commercio e delle loro
aziende
speciali,
nel
rispetto
dei
principi
di
armonizzazione della finanza pubblica. Le istituzioni scolastiche Dopo che la L. 59/1997 ha riconosciuto ampia autonomia funzionale e dopo che il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 ne ha disciplinato il regime autonomistico, il nuovo regolamento di contabilità è stato emanato con decreto 28 agosto 2018, n. 129. Le università L’art. 7 della L. 9 maggio 1989, n. 168 riconosce l’autonomia finanziaria e contabile delle Università e dà loro facoltà
di
adottare
un
regolamento
di
ateneo
per
l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in deroga alle norme dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, ma comunque nel rispetto dei relativi principi. L’art. 5, comma 4, della legge di riforma dell’Università (L. 240/2010) ha successivamente delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo con cui rivedere la disciplina contabile degli atenei e introdurre un sistema di contabilità
economico-patrimoniale e analitica: alla delega ha dato attuazione il D.Lgs. 27 gennaio 2012, n. 18.
1.6 I bilanci pubblici I bilanci differiscono tra loro secondo molteplici elementi. Vediamo le principali tipologie. Bilancio di previsione e bilancio consuntivo In relazione al rapporto con l’anno finanziario, una prima importante distinzione è quella tra bilancio di previsione (o preventivo) e bilancio consuntivo (o rendiconto). Il bilancio di previsione è redatto prima dell’inizio dell’anno finanziario (ex ante) ed ha quale finalità quella di indirizzare l’attività di gestione, nel senso di stabilire gli obiettivi e i limiti dell’azione economica e finanziaria da porre in essere. In altri termini, con il bilancio preventivo si individuano le operazioni e le transazioni che si prevede di realizzare nel corso di un dato esercizio successivo. Il bilancio consuntivo, invece, registra ad anno ormai concluso (ex post) i risultati effettivamente conseguiti dalla gestione e consente di esprimere un giudizio sulla stessa. Bilancio di competenza e di cassa In base alle modalità di redazione, il bilancio annuale di previsione è redatto in due versioni, una di competenza e una di cassa: la redazione del bilancio in termini di competenza comporta che venga indicato l’ammontare delle entrate che si prevede di accertare e l’ammontare delle somme che
si prevede di erogare nell’esercizio finanziario. In uno Stato di diritto, l’esigenza che l’organo esecutivo sia vincolato a non assumere impegni al di là della volontà dell’organo deliberativo, è stata una delle motivazioni fondamentali che ha fatto propendere per la redazione del bilancio dello Stato in termini di competenza; la redazione del bilancio in termini di cassa indica, viceversa, l’ammontare delle somme che si prevede di incassare e di quelle che si prevede di pagare nell’anno cui il bilancio si riferisce. Questa versione dà, evidentemente, un quadro più realistico del bilancio, ma la prima versione è importante per comprendere quanti crediti e quanti debiti matureranno, nel corso dell’esercizio finanziario, a favore o a carico del bilancio. Bilancio di previsione “a legislazione vigente” e “programmatico” Nell’ambito del processo di costruzione del bilancio preventivo, si distingue, inoltre, tra bilancio di previsione a legislazione vigente e bilancio di previsione programmatico. Il primo mostra l’evoluzione spontanea delle entrate e delle spese così come risulta dalla proiezione della normativa in vigore; il secondo mostra l’evoluzione desiderata delle entrate e delle spese. Il bilancio pluriennale Quando il bilancio di previsione prende in considerazione più annualità si parla di bilancio pluriennale. Si tratta di un documento che adempie una funzione conoscitiva assai utile, poiché prende in considerazione l’attività di entrata e di spesa
dello Stato, riferita a interventi che hanno un orizzonte temporale di più anni. Il bilancio pluriennale, dunque, in genere non ha valenza autorizzatoria a riscuotere le entrate e ad eseguire le spese, assolvendo ad una funzione di monitoraggio delle grandezze di finanza pubblica nel medio termine ed è redatto sia nella versione
a
legislazione
vigente
sia
nella
versione
programmatica. Caratteristiche del bilancio di previsione dello Stato italiano Nel caso del bilancio dello Stato, la L. 196/2009 (legge di contabilità e finanza pubblica) dispone all’art. 20 che il bilancio annuale di previsione dello Stato sia redatto sia in termini di competenza che in termini di cassa: esso espone per ogni voce di entrata la previsione delle somme da accertare e da incassare e, per ogni voce di spesa, la previsione delle somme da impegnare e da pagare. A seguito delle modifiche apportate dalla L. 163/2016, inoltre, è venuta meno la distinzione fra bilancio annuale e bilancio pluriennale: il bilancio di previsione si riferisce infatti ora ad un periodo triennale.
Il bilancio economico e la contabilità analitica per centri di costo Per migliorare l’impiego delle risorse e per rendere il bilancio pubblico (e in primo luogo quello dello Stato) coerente con le nuove esigenze dell’azione amministrativa, orientata verso
l’efficienza nel percorso «obiettivi-risorse-risultati», il Titolo III del D.Lgs. 7 agosto 1997, n. 279 ha introdotto nel sistema contabile pubblico la contabilità economica analitica per centri di costo
con
la
quale
i
costi
vengono
rilevati,
per
ogni
Amministrazione centrale dello Stato, con riferimento: a. alla responsabilità organizzativa, attraverso il piano dei centri di costo; b. alla natura di costo, ossia alle caratteristiche fisicoeconomiche delle risorse utilizzate mediante il piano dei conti; c. alla finalità o destinazione, in relazione ai risultati da perseguire, rappresentati dalla nuova classificazione per Missioni e per Programmi. La riforma della contabilità e finanza pubblica operata dalla legge n. 196 del 31 dicembre 2009, ha rafforzato il ruolo della contabilità economica prevedendo l’istituzionalizzazione dei documenti di Budget e di Consuntivazione dei costi quali “allegati” – rispettivamente, dello Stato di previsione della spesa di ciascun Ministero (art. 21, comma 11, lett f.) e del Rendiconto generale dello Stato (art. 36) – e consentendo all’organo legislativo la conoscenza e l’approfondimento tempestivo delle informazioni
economiche
a
completamento
del
quadro
informativo generale relativo al bilancio. In particolare, con la formulazione del budget, i titolari dei Centri di Responsabilità amministrativa, che sono responsabili delle risorse finanziarie assegnate ai programmi (art. 23 della L. 196/2009), coordinano le previsioni economiche – in termini di
fabbisogni di risorse umane e strumentali – dei centri di costo sottostanti e costruiscono, in coerenza con queste, le previsioni finanziarie nell’ambito dei vincoli posti dalla manovra di finanza pubblica avvalendosi, anche, delle informazioni relative ai costi sostenuti
nei
periodi
precedenti.
Infatti,
le
previsioni
rappresentate nel Budget economico analitico dello Stato si basano sul principio della competenza economica, secondo il quale i costi rilevati attengono alle risorse umane e strumentali (beni e servizi) effettivamente utilizzate in un certo periodo e sono esposte per natura dei costi previsti (in base al piano unico dei conti), per responsabilità organizzativa (in base ai centri di costo) e per destinazione dei costi (espresse in termini di Missioni e Programmi). Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si avvale poi di tali rilevazioni analitiche per valutare il costo delle strutture organizzative e dei programmi perseguiti con la spesa pubblica, ponendole a supporto del procedimento di riconsiderazione degli aggregati del bilancio finanziario dello Stato. L’art. 38-bis (introdotto dal D.Lgs. 90/2016) al fine di perseguire la qualità e la trasparenza dei dati di finanza pubblica, impone alle Amministrazioni centrali dello Stato di adottare, nell’ambito della gestione, a fini conoscitivi, la contabilità economico patrimoniale
in
affiancamento
alla
contabilità
finanziaria mediante l’adozione di un sistema integrato di scritture contabili che consenta la registrazione di ciascun evento gestionale contabilmente rilevante ed assicuri l’integrazione e la coerenza delle rilevazioni di natura finanziaria con quelle di natura
economica
e
patrimoniale.
Inoltre,
l’ordinamento
finanziario e contabile delle amministrazioni centrali dello Stato si conforma ai principi contabili generali contenuti nell’allegato 1 alla stessa legge 196/2009 (principi che così assumono valenza normativa e non solo tecnico-pratica). Le finalità della contabilità integrata sono le seguenti: –
l’armonizzazione
del
sistema
contabile
delle
Amministrazioni centrali dello Stato con quelle delle altre Amministrazioni pubbliche. L’adozione infatti di un sistema di contabilità economico-patrimoniale e di un piano dei conti integrato (adottato con D.P.R. 12 novembre 2018, n. 140) è collegata alle analoghe disposizioni emanate per gli Enti territoriali (decreto legislativo 118/2011) e non territoriali (decreto legislativo 91/2011) e al Regolamento concernente le modalità di adozione del piano dei conti integrato delle Amministrazioni pubbliche (decreto del Presidente della Repubblica 4 ottobre 2013, n. 132); – il consolidamento e monitoraggio nelle fasi di previsione, gestione e rendicontazione dei dati contabili di bilancio delle Amministrazioni centrali dello Stato; – la maggiore tracciabilità e trasparenza delle informazioni nelle varie fasi di rappresentazione contabile.
1.7 I principi del bilancio Oltre che alle norme di diritto positivo, la redazione dei bilanci pubblici deve rispondere ad una serie di requisiti ricavabili
dalle
norme
giuridiche
(annualità,
integrità,
universalità, unità) o elaborati dalla dottrina o rispondenti ad una consolidata prassi (veridicità, specializzazione, pubblicità). Negli ultimi anni, inoltre, in analogia con quanto avviene per la gestione delle aziende private, sono state elaborate ulteriori
regole
di
carattere
tecnico-applicativo
(inizialmente non giuridiche), finalizzate a costituire un punto di riferimento per gli operatori. L’opera di codificazione è stata effettuata dai decreti legislativi
sull’armonizzazione
dei
bilanci
(decreti
legislativi 91/2011 e 118/2011): in entrambi i casi, un apposito allegato da considerare parte integrante dei decreti elenca e specifica i principi contabili generali cui le amministrazioni pubbliche e gli enti territoriali devono uniformare i propri ordinamenti contabili e finanziari. Le stesse amministrazioni, inoltre, sono tenute a uniformare l’esercizio delle funzioni di programmazione, gestione, rendicontazione e controllo a tali principi, che costituiscono regole fondamentali, nonché ai principi contabili applicati definiti
da
un
apposito
regolamento
del
Ministro
dell’Economia cui sarà allegato un nomenclatore contenente
le definizioni degli istituti contabili e le procedure finanziarie per ciascun comparto suddiviso per tipologia di enti, al quale si conformano i relativi regolamenti di contabilità.
Ora, l’art. 38-bis della L. 196/2009 (introdotto dal D.Lgs. 90/2016) estende anche alle amministrazioni centrali dello Stato (in analogia con quanto già previsto per enti territoriali e pubblici dai decreti 91/2011 e 118/2011) l’obbligo di conformare il proprio ordinamento finanziario e contabile ai principi contabili generali riportati in un apposito allegato della stessa L. 196/2009. Un apposito regolamento è chiamato ad adottare i relativi principi contabili applicati.
1.7.1 Principio dell’annualità Il principio dell’annualità è sancito direttamente dalla Costituzione (art. 81: «Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo...»). Nel mondo, quasi tutti i sistemi contabili considerano l’anno quale periodo di riferimento. Ciò in quanto tale lasso di tempo permette di considerare un quadro di riferimento temporale impostare
sufficientemente una
manovra
ampio di
per
politica
consentire
di
economica
e
contemporaneamente sottrarre tale momento di verifica e programmazione alle eccessive fluttuazioni che deriverebbero dal considerare unità di tempo più brevi (si pensi alle fluttuazioni delle entrate pubbliche in concomitanza delle scadenze fiscali).
Ora, l’allegato 1 alla L. 196/2009 (introdotto dal D.Lgs. 90/2016 e modificato dal D.Lgs. 116/2018 ed in cui sono specificati i principi generali cui devono uniformarsi le amministrazioni centrali dello Stato) richiede che, nella predisposizione
dei
documenti
annuali
di
bilancio,
le
previsioni per l’esercizio di riferimento siano elaborate sulla base di una programmazione di medio periodo, con un orizzonte temporale almeno triennale.
1.7.2 Principio dell’integrità Sulla base del criterio dell’integrità, tutte le entrate devono essere iscritte in bilancio al lordo delle spese di riscossione e di altre eventuali spese ad esse connesse. Parimenti, tutte le spese devono essere iscritte in bilancio integralmente, senza alcuna riduzione delle correlative entrate. Tale principio, secondo l’art. 24 della L. 196/2009, costituisce attuazione dell’art. 81 della Costituzione. In effetti, iscrivere le entrate e le spese al lordo di qualsiasi onere o provento collegato permette di conoscere l’entità esatta del carico tributario che grava sui contribuenti e di valutare correttamente il costo ed il beneficio derivante dall’erogazione di specifici servizi pubblici.
1.7.3 Principio dell’universalità Per il principio dell’universalità, tutte le spese e tutte le entrate devono trovare adeguata collocazione in
bilancio e non sono ammesse gestioni fuori bilancio se non espressamente autorizzate. Il criterio dell’universalità è strettamente connesso con quello dell’integrità: anch’esso, infatti, costituisce, ai sensi dell’art. 24 della L. 196/2009, «profilo attuativo» dell’art. 81 della Costituzione; insieme, essi ribadiscono la necessità che il bilancio fornisca un quadro veritiero ed esauriente del complesso dell’attività finanziaria dello Stato. Non può essere considerata un’eccezione al principio dell’universalità la presenza dei bilanci allegati, vale a dire dei bilanci delle aziende e delle amministrazioni autonome allegati al bilancio dell’ente da cui dipendono. Va sottolineato che l’art. 2, comma 1, lettera e), della L. 196/2009 prevede l’adozione (per ciascuna amministrazione pubblica) di un bilancio consolidato con le proprie aziende, società o altri organismi controllati, secondo uno schema tipo definito dal Ministro dell’economia d’intesa con i Ministri interessati. Diverso è il discorso per quanto concerne le cosiddette gestioni fuori bilancio: gestioni costituite con fondi dello Stato amministrati al di fuori del bilancio e delle norme che ne regolano l’esecuzione; si tratta dunque di gestioni finanziarie che rientrano nella competenza delle amministrazioni centrali e i cui flussi di entrata e di spesa, pur essendo finalizzati allo svolgimento di compiti istituzionali dello Stato, non sono registrati in bilancio né assoggettati alle normali procedure di controllo (Monorchio). Di qui il sostanziale sfavore di cui, a partire dalla L. 598/1993, esse sono state oggetto fino ad arrivare al divieto
di gestire fondi fuori bilancio sancito dall’art. 24, comma 3, della L. 196/2009. Lo stesso comma 3 fa comunque salvi i casi di gestioni al di fuori del bilancio disciplinate dall’art. 40, comma 2, lettera p) della legge di riforma della contabilità pubblica; tale ultima norma ha previsto la progressiva eliminazione, delle gestioni contabili operanti a valere su contabilità speciali o conti correnti di tesoreria, ad eccezione delle gestioni relative, fra l’altro, alla Presidenza del Consiglio dei ministri, alle gestioni fuori bilancio istituite ai sensi della L. 1041/1971 ed a quelle autorizzate da apposite leggi (quali la L. 559/1993). Per le gestioni rimaste attive, si prevede l’obbligo di rendicontazione annuale delle risorse acquisite e delle spese effettuate secondo schemi classificatori armonizzati con quelli del bilancio dello Stato e a questi aggregabili a livello di dettaglio sufficientemente elevato. Infine, l’art. 15, co. 8 della L. 243/2012 ha disposto che con legge dello Stato sia disciplinato il progressivo superamento delle gestioni contabili cd. «fuori bilancio», cioè le gestioni operanti a valere su contabilità speciali o conti correnti di tesoreria, con la conseguente riconduzione delle relative risorse finanziarie al bilancio dello Stato.
1.7.4 Principio dell’unità L’art. 24, comma 4, L. 196/2009 enuncia il principio dell’unità secondo cui «è vietata... l’assegnazione di qualsiasi
provento per spese o erogazioni speciali, salvo i proventi e le quote di proventi riscossi per conto di enti, le oblazioni e simili, fatte a scopo determinato». Secondo tale criterio, dunque, tutte le entrate vanno a costituire, a prescindere dalla loro origine, un unico fondo, finalizzato a coprire tutte le spese pubbliche, ed è pertanto escluso che si possa stabilire una precisa correlazione fra singola entrata e singola spesa: le entrate costituiscono infatti una massa unica ed indistinta e non possono avere una destinazione specifica per determinate spese se non in casi espressamente previsti dalla legge.
1.7.5 I principi di veridicità e pubblicità Il principio della veridicità richiede che i bilanci rappresentino con la massima attendibilità le reali condizioni finanziarie ed economiche (true and fair view). Le informazioni contenute nel bilancio devono perciò essere
quanto
più
possibile
realistiche
nelle
stime:
nell’elaborare il bilancio, l’esecutivo dovrà evitare sovrastime o sottostime preordinate ad alterare l’equilibrio finale e a mascherare le reali condizioni delle operazioni e dovrà fornire dati attendibili. Il ssitema di bilancio assolve anche una funzione informativa ed è compito di ogni amministrazione rendere effettiva tale funzione. Il principio di pubblicità richiede la conoscibilità del documento di bilancio mediante pubblicazione con mezzi idonei; per lo Stato ciò avviene con le stesse modalità
con cui si rende nota una legge (pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Per gli altri enti pubblici le modalità con cui il principio di pubblicità è soddisfatto variano (pubblicazione nel Bollettino Ufficiale per le Regioni, pubblicazione in estratto su almeno un quotidiano a diffusione nazionale per altri enti pubblici). L’art. 29 del D.Lgs. 33/2013 fa obbligo a tutte le pubbliche amministrazioni di rendere pubblici il bilancio preventivo e il conto consuntivo entro 30 giorni dalla loro adozione.
1.7.6 Il pareggio di bilancio A differenza di quanto previsto dagli ordinamenti contabili degli altri enti pubblici, per il bilancio dello Stato non era richiesto il requisito del pareggio: nessuna norma positiva imponeva che il bilancio dello Stato presentasse una perfetta corrispondenza fra il totale delle entrate e quello delle spese. A partire dall’esercizio finanziario 2014, invece, a seguito dell’entrata in vigore della L. cost. 1/2012, è stato introdotto il principio dell’equilibrio tra entrate e spese del bilancio, il cd. «pareggio di bilancio», correlandolo a un vincolo di sostenibilità del debito di tutte le pubbliche amministrazioni. Il nuovo Allegato alla L. 196/2009 (in vigore dal primo gennaio 2019) specifica ora che il principio del pareggio di bilancio riguarda il pareggio finanziario complessivo di competenza e di cassa. Considerando l’evoluzione
dei
sistemi
contabili
che
prevedono
l’affiancamento a fini conoscitivi al sistema contabile di tipo finanziario anche della contabilità economico-patrimoniale,
l’osservanza di questo principio riguarda anche gli equilibri delle varie parti, finanziaria, economico-patrimoniale, che compongono il sistema di bilancio. Nel sistema del bilancio dello Stato, il principio del pareggio finanziario deve essere rispettato
sia
in
fase
di
previsione
che
in
fase
di
rendicontazione. Il pareggio finanziario di bilancio va inteso considerando tra le entrate destinate a assicurare la realizzazione delle spese previste in fase previsionale anche l’accensione di prestiti.
1.7.7 Principio della competenza finanziaria e della competenza economica La competenza finanziaria è il criterio con il quale le entrate e le spese si riconducono al periodo amministrativo in cui sorge il diritto a riscuotere (accertamento) e l’obbligo a pagare (impegno); il principio è applicato solo a quei documenti di natura finanziaria che compongono il sistema di bilancio di ogni amministrazione pubblica che adotta la contabilità finanziaria, e attua il contenuto autorizzatorio degli stanziamenti nel bilancio di previsione. Tale è il caso del bilancio di previsione annuale dello Stato: le risorse assegnate in bilancio costituiscono il limite per l’impegno e l’ordinazione della spesa da parte dei dirigenti (art. 34, comma 1 L. 196/2009); il bilancio di previsione annuale ha dunque carattere autorizzatorio, e rappresenta un limite agli impegni di spesa, ad eccezione delle partite di giro/servizi per conto di terzi e dei rimborsi delle anticipazioni di cassa. Gli stanziamenti
del
bilancio
pluriennale
sono
aggiornati
annualmente in sede di approvazione del bilancio di previsione. Per il principio della competenza economica, invece, l’effetto delle operazioni e degli altri eventi deve essere rilevato contabilmente ed attribuito all’esercizio al quale tali operazioni ed eventi si riferiscono e non a quello in cui si concretizzano i relativi movimenti finanziari. Il principio si applica anche alle rilevazioni di contabilità analitica (budget e rendiconto economico). Il nuovo Allegato 1 alla L. 196/2009 sottolinea che l’analisi economica delle operazioni
richiede
la
preliminare
individuazione
del
cosiddetto mercato relativo alla produzione di beni e servizi delle Amministrazioni centrali dello Stato: data la peculiarità di tali Amministrazioni la loro produzione (mercato per la collettività) ha natura prevalentemente non vendibile, pur potendo essere presenti anche beni e servizi con caratteristiche simili ai beni e servizi privati. A partire da tale fondamentale caratteristica va operata una distinzione tra fatti direttamente collegati a un processo di scambio (acquisizione di risorse umane e strumentali, trasformazione e vendita o messa a disposizione a titolo gratuito o semi gratuito), che danno luogo a costi e/o ricavi, e fatti per i quali il processo di scambio sul mercato di beni e servizi è assente, in quanto relativi ad altre attività istituzionali e/o erogative (tributi, contribuzioni, trasferimenti di risorse, altro) che danno luogo a proventi e oneri. Occorre, quindi, definire gli elementi necessari per l’imputazione dei ricavi e dei costi per le Amministrazioni centrali dello Stato e anche per gli altri
componenti economici positivi e negativi. Nel caso di processo di scambio sul mercato attraverso acquisizione di risorse umane e strumentali, trasformazione e vendita o messa a disposizione a titolo gratuito o semi gratuito, la competenza economica dei costi e dei ricavi è riconducibile ai contenuti dei principi contabili nazionali applicati alla contabilità civilistica (OIC 11), applicabili anche agli altri componenti positivi e negativi della gestione dell’esercizio. I ricavi, come regola generale, devono essere rilevati quando si verificano le seguenti due condizioni: 1) il processo produttivo dei beni o dei servizi è stato completato; 2) lo scambio è già avvenuto, si è cioè verificato il passaggio sostanziale e non solamente formale del titolo di proprietà per i beni e servizi resi. Tale momento è convenzionalmente rappresentato dalla spedizione o messa a disposizione del bene o dal momento in cui i servizi sono resi e sono fatturabili, se servizi di tipo vendibile, o sono resi quando si tratta di servizi messi a disposizione a titolo semi gratuito. I costi devono essere correlati con i ricavi dell’esercizio, se si tratta di un bene o servizio vendibile. Detta correlazione costituisce un corollario fondamentale del principio di competenza economica e intende esprimere la necessità di contrapporre ai ricavi dell’esercizio i relativi costi, siano essi certi o presunti. D’altra parte, considerando che la produzione delle
Amministrazioni
prevalentemente
nel
centrali
mettere
a
dello
Stato
disposizione
consiste dell’intera
collettività, e anche dei singoli individui, beni o servizi a titolo gratuito o semi gratuito la correlazione sopra indicata non è riscontrabile nella maggior parte dei casi. Pertanto, in tali casi i
costi associati al processo produttivo, che comunque ha avuto luogo, vanno rappresentati in corrispondenza all’erogazione del servizio o della prestazione o della messa a disposizione del bene. Per quanto riguarda le altre operazioni non connesse alla produzione di beni e servizi ma di natura erogativa o impositiva (nelle quali rientrano i proventi tributari, gli oneri per trasferimenti e contributi senza controprestazione) che rappresentano una consistente parte delle attività delle Amministrazioni centrali dello Stato dando luogo a proventi e oneri, la rilevazione avviene quando l’evento è certo; l’effettività dell’evento può essere collegata anche alla relativa manifestazione finanziaria, salvo specifiche operazioni a destinazione vincolata. Il nuovo sistema contabile delineato dal D.Lgs. 118/2011 (finalizzato ad armonizzare i sistemi contabili di Regioni, enti locali e loro enti e che si applica a partire dal 2016), invece, è caratterizzato dall’introduzione del principio della competenza finanziaria potenziata secondo cui le obbligazioni giuridiche attive e passive sono registrate nelle scritture contabili nel momento in cui l’obbligazione sorge, con imputazione all’esercizio nel quale vengono a scadenza, avvicinando i momenti della competenza e della cassa.
1.7.8 Altri principi e postulati dei bilanci pubblici La contabilità pubblica contempla inoltre una serie di regole tecniche e principi contabili che rispondono a prassi consolidate la cui funzione è duplice:
a) interpretare in chiave tecnica le norme di legge in tema di ordinamento finanziario e contabile, secondo i fini voluti dal legislatore; b) collegare a dette norme tutte quelle alle quali direttamente od indirettamente si fa o si deve fare riferimento. Citando l’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti
locali,
istituito
con
il
compito
di
«promuovere
l’applicazione dei principi contabili e la congruità degli strumenti applicativi per gli enti locali», possiamo ricordare i seguenti ulteriori principi e postulati del sistema di bilancio: imparzialità: esige che le grandezze dei dati non siano subordinate ad interessi o esigenze particolari; chiarezza:
il
sistema
di
bilancio
deve
essere
comprensibile e deve perciò presentare una chiara classificazione delle voci finanziarie, economiche e patrimoniali; significatività
e
rilevanza:
per
essere
utile,
un’informazione deve essere significativa per le esigenze informative
connesse
al
processo
decisionale
degli
utilizzatori; gli inevitabili errori e le semplificazioni non devono essere di portata tale da avere un effetto rilevante sui dati del sistema di bilancio e sul loro significato per i destinatari; attendibilità e congruità: per essere attendibile, l’informazione in bilancio deve rappresentare fedelmente le operazioni e gli altri eventi che intende rappresentare o che può ragionevolmente ritenere che essa rappresenti; l’attendibilità delle entrate e la congruità delle spese ha un
valore essenziale per la corretta gestione dell’ente, per salvaguardare l’equilibrio di bilancio e prevenire il possibile dissesto; ragionevole flessibilità; neutralità: l’informazione contenuta nel sistema di bilancio deve essere neutrale, ovverosia scevra da distorsioni preconcette; prudenza previsionale: nel bilancio di previsione devono essere iscritte solo le entrate che si prevede siano accertabili
nel
periodo
amministrativo
considerato,
mentre devono rientrare nelle spese tutti gli oneri che si prevede di dover impegnare; comparabilità: gli utilizzatori devono essere in grado di comparare il sistema di bilancio di un ente nel tempo e nello spazio al fine di identificare gli andamenti tendenziali.
1.7.9 I Principi contabili internazionali per il settore pubblico: gli IPSAS A livello internazionale, infine, occorre menzionare i cosiddetti IPSAS (International Public Sector Accounting Standards), Principi contabili internazionali per il settore pubblico. Tali principi non hanno un carattere vincolante: infatti, l’IFAC (l’Associazione Internazionale delle professioni
contabili
cui
aderiscono
le
organizzazioni
professionali di più di 130 Stati e che ha sviluppato tali specifici principi contabili per la contabilità e il bilancio nel settore pubblico) è un’entità non governativa e dunque
l’adesione agli IPSAS non può che essere volontaria. D’altra parte, la progressiva introduzione di concezioni aziendalistiche nella gestione delle amministrazioni pubbliche ha
destato
l’interesse
verso
queste
regole
tecniche
particolarmente attente ai principi dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità delle prestazioni. Gli IPSAS, infatti, sono stati sviluppati adattando al contesto del settore pubblico i cosiddetti Principi contabili internazionali (Ias/Ifrs) emanati dall’International accounting standards board (Iasb) per la contabilità delle aziende private. L’applicazione degli IPSAS prevede sia una contabilità finanziaria (cash basis, tipica delle pubbliche amministrazioni europee), sia una contabilità economico-patrimoniale (accrual basis), sebbene si raccomandi l’adozione di un sistema di rilevazione dei fatti di gestione basato sul principio della competenza economica. Il Board IPSAS (IPSASB), partendo dallo studio delle realtà che hanno già sperimentato tale
cambiamento
e
dell’interdisciplinarietà
consapevole della
della
tematica
in
complessità oggetto,
e ha
approntato una sorta di vademecum per l’implementazione della contabilità economica, prendendo in considerazione non solo gli aspetti tecnici ma anche quelli di natura organizzativa e gestionale. Gli IPSAS si applicano a tutte le entità economiche del
settore
pubblico
(amministrazioni
centrali,
enti
territoriali subordinati come le Regioni o gli enti locali), ma non si applicano alle imprese a controllo pubblico, che sono invece tenute ad applicare gli IAS/IFRS.
A livello europeo, il rapporto IPSAS del 2013 ha raccomandato lo sviluppo, attraverso una governance europea, di un insieme di principi contabili armonizzati per il settore pubblico sulla base degli IPSAS, ma integrati e adattati alle esigenze specifiche contabili e gestionali del settore pubblico nella UE. Questi standard futuri sono stati denominati da Eurostat “EPSAS” (European Public Sector Accounting Standards) per la cui progettazione e sviluppo è stata avviata sin dal 2013 un’iniziativa che prevede la creazione di una governance di autorità pubbliche e organismi privati sotto la guida della Commissione europea (Eurostat) per lo sviluppo degli standard in un nuovo settore di regolamentazione a livello europeo, relativo alla contabilità pubblica.
Capitolo 2 La manovra di bilancio 2.1 Il processo di bilancio L’esercizio finanziario è il complesso delle operazioni di incasso e di pagamento, che si riferiscono all’anno, ma che possono anche non manifestarsi nel corso dello stesso. La Legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), per ciascun esercizio finanziario, disegna un processo di bilancio articolato su un sistema di documenti contabili con cui: l’esecutivo programma il suo intervento nel sistema economico (Documento di Economia e Finanza, manovra finanziaria di fine anno, etc.); il Parlamento, con la legge di bilancio, autorizza il Governo ad accertare e riscuotere le entrate e ad impegnare e pagare le spese nei limiti del bilancio approvato; al termine dell’esercizio finanziario, il Governo presenta il rendiconto con cui riassume e dimostra al Parlamento i risultati della gestione dell’anno finanziario. Quello ora delineato nei suoi tre momenti essenziali (programmazione,
autorizzazione
alla
gestione,
rendicontazione) costituisce una semplificazione estrema di un processo che, invece, è molto più complesso, sia dal punto di vista temporale che nei suoi contenuti. Il processo di bilancio, infatti, investe un arco temporale ben più esteso dei 12 mesi dell’esercizio finanziario: la preparazione del bilancio di previsione inizia a marzo dell’anno precedente e termina a luglio dell’anno successivo. Soprattutto, esso si articola in una nutrita serie di documenti contabili, ciascuno caratterizzato da una propria procedura di redazione.
2.2 Il Documento di economia e finanza (DEF) L’art. 7, comma 2 della L. 196/2009 dispone che, entro il 10 aprile di ogni anno il Governo (tenendo conto delle linee guida elaborate dal Consiglio europeo di primavera in cui sono indicati i principali obiettivi di politica economica per l’Unione europea e l’Area euro e le possibili strategie di riforma per conseguire tali obiettivi, vale a dire le cosiddette linee guida) presenta il DEF al Parlamento. L’art. 7, comma 3 della legge di riforma di contabilità dispone inoltre che il DEF sia inviato, entro lo stesso termine, anche alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica per il relativo parere; la Conferenza è tenuta ad esprimersi in tempo utile per le deliberazioni parlamentari (che devono intervenire entro il mese di aprile per permettere al Governo di presentare alle istituzioni europee il Programma di stabilità e il Programma di riforma).
Il
DEF,
infatti,
è
sicuramente
lo
strumento
di
programmazione di respiro più «europeo»: la sua introduzione si è resa necessaria proprio per assicurare la piena integrazione tra il ciclo di programmazione nazionale e il semestre europeo, il nuovo sistema di governance economica dell’Unione europea. La nuova procedura di sorveglianza sugli squilibri macroeconomici, infatti, prevede che gli obiettivi programmatici di finanza pubblica e le politiche economiche e di bilancio di ciascun Paese siano trasmesse, per la relativa valutazione, alla Commissione UE in una fase antecedente la loro attuazione a livello di singolo Stato. Per questa ragione, due delle tre sezioni di cui si
compone il DEF, il Programma di Stabilità (PS) e il Programma Nazionale di Riforma (PNR), devono essere inviati contestualmente alle autorità europee entro la fine del mese di aprile. Occorre sottolineare il ruolo del Parlamento nella definizione degli obiettivi programmatici di finanza pubblica: solo dopo la risoluzione parlamentare di approvazione scaturisce il valore vincolante (attenzione: vincolante da un punto di vista solo politico, non giuridico) del DEF e sono formalizzati i vincoli quantitativi e procedurali che interessano la successiva sessione di bilancio. Mediante il DEF, il Governo rende esplicita l’impostazione della politica economica che si appresta a varare; il Parlamento, dal canto suo, con apposite «risoluzioni» approva il contenuto del Documento e legittima in tal modo la manovra governativa; tali risoluzioni non hanno comunque natura di atti legislativi e, pertanto, i limiti quantitativi individuati dal DEF impegnano solo da un punto di vista politico (in maniera indicativa e non precettiva) il Governo nella elaborazione dei documenti della manovra di finanza pubblica (bilancio, collegati) e lo stesso Parlamento nella presentazione di emendamenti. La circostanza che il DEF diventi tale solo dopo il voto del Parlamento è ben sintetizzata dall’art. 10, comma 1 della L. 196/2009 secondo cui «il DEF, come risultante delle conseguenti deliberazioni parlamentari, è composto da tre sezioni».
Entro il successivo 27 settembre, infine, il Governo invia alle Camere la Nota di aggiornamento del DEF con cui adegua le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica e gli
obiettivi
programmatici,
per
recepire
osservazioni del Consiglio dell’Unione europea. Con la presentazione della Nota il Governo: – aggiorna le previsioni economiche e di finanza pubblica in relazione alla maggiore stabilità e affidabilità delle informazioni disponibili sull’andamento del quadro macroeconomico (per cui sono disponibili i dati relativi ai primi due trimestri dell’anno) e di finanza pubblica rispetto a quelle utilizzate per il DEF; non si dimentichi, infatti, che il principale documento di programmazione economica e finanziaria è stato redatto più di cinque mesi prima; – aggiorna gli obiettivi programmatici, in considerazione delle eventuali raccomandazioni approvate dal Consiglio dell’Unione europea sull’Aggiornamento del PS, o la loro articolazione, anche sulla base delle intese raggiunte con la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica. In questi casi, l’art. 10-bis, comma 2 dispone che il Governo, entro il 10 settembre, invii alla Conferenza e alle Camere le linee guida per la ripartizione degli obiettivi del DEF; – presenta un rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva e indica, altresì, le strategie che intende seguire (art. 10-bis.1 L. 196/2009).
le
eventuali
2.2.1 Il Programma di Stabilità (prima sezione del DEF) Secondo l’art. 10 della L. 196/2009, il Documento di economia e finanza si compone di tre sezioni: la prima contiene il Programma di Stabilità, in cui si concentra la strategia di riequilibrio dei conti pubblici e si indicano gli interventi di correzione del disavanzo necessari nell’orizzonte temporale di riferimento; la seconda analizza il conto economico e di cassa delle
amministrazioni
pubbliche
dell’anno
precedente e gli eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi programmatici e fornisce le previsioni sul debito delle amministrazioni pubbliche; la terza include il Programma nazionale di riforma, che indica gli interventi di segno espansivo. La prima sezione del DEF (art. 10, comma 2 della L. 196/2009) espone i contenuti richiesti per il Programma di Stabilità (PS) dal nuovo Codice di condotta sull’attuazione del Patto di Stabilità e Crescita e dai regolamenti dell’Unione europea, nonché alcune informazioni non espressamente previste dalla normativa comunitaria. In questa sezione sono dunque riportati: gli obiettivi di politica economica ed il quadro tendenziale delle previsioni economiche e di finanza pubblica, almeno per il triennio successivo;
gli
obiettivi
programmatici
triennali
per
l’indebitamento netto, per il saldo di cassa, in rapporto al prodotto interno lordo, al netto ed al lordo degli interessi e delle misure una tantum, e per il debito, articolati per i sottosettori del conto economico delle amministrazioni pubbliche; l’indicazione dell’articolazione della manovra necessaria per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica accompagnata anche da un’indicazione di massima delle misure attraverso le quali si prevede di raggiungere i predetti obiettivi; il
prodotto
programmatici
potenziale del
e
gli
conto
indicatori
strutturali
economico
delle
amministrazioni pubbliche; le previsioni di finanza pubblica di lungo periodo e gli interventi che si intende adottare per garantire la sostenibilità della finanza pubblica; le diverse ipotesi di evoluzione dell’indebitamento netto e del debito rispetto a scenari di previsione alternativi riferiti al tasso di crescita del prodotto interno lordo, della struttura dei tassi di interesse e del saldo primario.
2.2.2 La seconda sezione del DEF Questa sezione del DEF ha ad oggetto dati attinenti soprattutto le amministrazioni pubbliche e il settore statale. Infatti, fra i dati richiesti dall’art. 10 troviamo:
l’analisi del conto economico e del conto di cassa delle
amministrazioni
pubbliche
dell’anno
precedente e gli eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi programmatici; le previsioni tendenziali triennali del saldo di cassa del settore statale con l’indicazione delle modalità di copertura; le informazioni di dettaglio sui risultati e sulle previsioni dei conti dei principali settori di spesa, nonché sul debito delle amministrazioni pubbliche e sul relativo costo medio; le indicazioni triennali delle previsioni a politiche invariate per i principali aggregati del conto economico delle amministrazioni pubbliche; le regole generali sull’evoluzione della spesa delle amministrazioni pubbliche, in coerenza con gli obiettivi programmatici definiti dallo stesso DEF.
2.2.3 Il Programma nazionale di riforma (terza sezione del DEF) La terza sezione del DEF espone lo schema del Programma nazionale di riforma: nel quadro generale europeo delineato dalla Strategia di Lisbona, gli Stati Membri devono presentare i Programmi (o Piani) Nazionali di Riforma, documenti in cui sono individuati gli interventi a sostegno della crescita economica,
della
produttività,
dell’occupazione
e
della
sostenibilità. I PNR, che hanno una valenza triennale, individuano le priorità accorpando in 3 macro aree le 24
linee
guida:
la
prima
parte
riguarda
le
misure
macroeconomiche e di politica di bilancio, la seconda include le riforme strutturali e microeconomiche, la terza riguarda le politiche del lavoro. Il Programma nazionale di riforma indica (art. 10, comma 5 L. 196/2009): lo stato di avanzamento delle riforme avviate; gli squilibri macroeconomici nazionali e i fattori di natura macroeconomica che incidono sulla competitività; le priorità del Paese e le principali riforme da attuare, i tempi previsti per la loro attuazione e la compatibilità con gli obiettivi programmatici indicati nella prima sezione del DEF; gli effetti prevedibili delle riforme in termini di crescita dell’economia, di rafforzamento della competitività del sistema economico e di aumento dell’occupazione. Sono previsti, infine, alcuni allegati al DEF, tra cui: – gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, ciascuno dei quali reca disposizioni omogenee per materia. Tali disegni di legge collegati concorrono al raggiungimento degli obiettivi programmatici fissati nel DEF, con esclusione di quelli relativi alla fissazione dei saldi programmatici, nonché all’attuazione del Programma nazionale di riforma, anche attraverso interventi di carattere ordinamentale, organizzatorio ovvero di rilancio e sviluppo dell’economia. La norma rinvia comunque ai regolamenti parlamentari per l’individuazione delle procedure e dei termini per il loro esame; in ogni caso,
disegni di legge collegati possono essere indicati anche dalla Nota di Aggiornamento di settembre mentre il termine per la presentazione dei disegni di legge collegati è stabilito nel mese di gennaio; – il programma delle infrastrutture strategiche (quello di cui alla cosiddetta legge obiettivo 443/2001, ora art. 201, co. 6 D.Lgs. 50/2016) e lo stato di avanzamento dello stesso programma relativo all’anno precedente; – una relazione, predisposta dal Ministro dell’ambiente, sullo stato di attuazione degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, in coerenza con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia; – in relazione alla spesa del bilancio dello Stato, sono esposte, con riferimento agli ultimi dati di consuntivo disponibili, distinte tra spese correnti e spese in conto capitale, le risorse destinate alle singole Regioni, con separata evidenza delle categorie economiche relative ai trasferimenti correnti e in conto capitale agli enti locali, e alle Province autonome di Trento e di Bolzano; – qualora, in prossimità della presentazione del DEF si verifichino eventi eccezionali (periodi di grave recessione economica, eventi straordinari al di fuori del controllo dello Stato) la relazione con cui il Governo giustifica il temporaneo scostamento dall’obiettivo programmatico e aggiorna gli obiettivi programmatici di finanza pubblica (art. 10, comma 5-bis).
2.3 La manovra di finanza pubblica Sulla base delle previsioni del DEF (come riviste con la Nota di aggiornamento), ogni anno, entro il 20 ottobre, il Governo deve presentare alle Camere (art. 7, comma 2 della L. 196/2009) il disegno di legge di bilancio dello Stato. A partire dal 1° gennaio 2016 (quindi, dalla manovra di bilancio 2017) l’art. 15 della L. 243/2012 ha previsto l’unificazione in un solo documento (la legge di bilancio), articolato in due sezioni, dei contenuti della legge di stabilità e della legge di bilancio, i due strumenti contabili che costituivano la manovra triennale di finanza pubblica. Questa
unificazione
dei
due
tradizionali
documenti
contabili costituisce lo sbocco del processo di costruzione delle nuove regole di bilancio avviato con la legge costituzionale n. 1 del 2012. Fino alla riforma operata dalla L.cost. 1/2012, infatti, l’originario terzo comma dell’articolo 81 della Costituzione, disponeva che “con la legge di bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese”. La legge con cui annualmente il Parlamento approvava il bilancio, perciò, doveva limitarsi a riassumere in un unico documento contabile le decisioni relative all’entrata e alla spesa, decisioni già assunte con le leggi ordinarie. Come chiarì la
Corte Costituzionale (sentenza 7/1959) «la legge del bilancio è una legge formale che non può portare nessun innovamento nell’ordine legislativo, sì che da essa non possono derivare né impegni, né diritti (...) diversi da quelli preesistenti alla legge stessa». In tal modo, però, era esclusa la possibilità che la legge di bilancio potesse incidere sulla programmazione finanziaria. Con la L. 468/1978 si introdusse perciò la legge Finanziaria con la quale si salvaguardava il carattere di legge formale del bilancio e si affiancava ad essa una legge sostanziale (la Finanziaria, appunto) per regolamentare e coprire l’area di variazione della spesa e dell’entrata rispetto all’anno precedente; in realtà, la Finanziaria si trasformò ben presto in un «comodo strumento legislativo che consentiva ai parlamentari di salire sull’omnibus per depositarvi emendamenti ed istanze di ogni genere, sicuri che esse sarebbero giunte alla destinazione finale in tempi molto più rapidi rispetto a quelli consentiti dall’ordinario iter parlamentare» (Vegas); essa diventò cioè uno strumento di espansione della spesa e di aggiramento sostanziale del comma 4 dell’art. 81. Anche l’originaria la legge 196/2009, ovviamente, in ossequio al dettato costituzionale, faceva riferimento alla natura formale del bilancio e aveva previsto quale strumento sostanziale la Legge di stabilità.
La legge costituzionale 1/2012 nel riscrivere l’art. 81 non ha riproposto il divieto di introdurre nuovi tributi e nuove spese,
permettendo così il passaggio da una concezione formale ad una concezione sostanziale della legge di bilancio. Dopo le modifiche apportate dalla L. 163/2016, è perciò divenuto effettivo il passaggio dal consolidato schema della manovra
annuale
di
finanza
pubblica
fondato
sulla
predisposizione di due distinti provvedimenti – la legge di bilancio e la legge di stabilità – ad uno schema radicalmente diverso
che
vede
la
presentazione
di
un
unico
provvedimento, costituito dalla legge di bilancio: questa, oltre alle poste contabili, può ora anche contenere disposizioni che integrano o modificano la legislazione di entrata o di spesa, incorporando in tal modo i contenuti della legge di stabilità.
2.3.1 La prima sezione del bilancio di previsione La prima sezione assorbe, in gran parte, con alcune modifiche e adattamenti, il contenuto della legge di stabilità. L’art. 21 della L. 196/2009 (profondamente modificato dalla L. 163/2016) dispone ora che la prima sezione contiene esclusivamente le misure volte a realizzare gli obiettivi programmatici di finanza pubblica indicati dal DEF ed i loro eventuali aggiornamenti risultanti dalla relativa Nota di aggiornamento, con effetti finanziari aventi decorrenza nel triennio considerato dal bilancio. In particolare, si ribadisce che la prima sezione della legge di bilancio deve contenere esclusivamente (nuovo comma 1ter) :
a. il livello massimo del ricorso al mercato finanziario e del saldo netto da finanziare; b. norme in materia di entrata e di spesa che determinano effetti finanziari, con decorrenza nel triennio di riferimento, sulle previsioni di bilancio indicate nella seconda sezione o sugli altri saldi di finanza pubblica attraverso la modifica, la soppressione o l’integrazione dei parametri che regolano l’evoluzione delle entrate e della spesa previsti dalla normativa vigente o dalle sottostanti autorizzazioni legislative o attraverso nuovi interventi; c. le
norme
volte
a
rafforzare
il
contrasto
e
la
prevenzione dell’evasione fiscale e contributiva; d. i fondi speciali; e. l’importo massimo da destinare, in ciascun anno del triennio, al rinnovo dei contratti del pubblico impiego e alle modifiche del trattamento economico e normativo del personale dipendente dalle amministrazioni statali in regime di diritto pubblico; f. le eventuali norme recanti misure correttive degli effetti finanziari delle leggi la cui attuazione possa recare pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica nonché di quelli derivanti dalle sentenze definitive; g. le norme eventualmente necessarie a garantire il concorso degli enti territoriali agli obiettivi di finanza pubblica. Il comma 1-quinquies dell’articolo 21 della legge n. 196/2009 esclude dalla prima sezione:
norme di delega e quelle a carattere ordinamentale ovvero organizzatorio, nonché gli interventi di natura localistica o microsettoriale, conformemente a quanto già previsto dalla vigente legge di contabilità con riferimento alla legge di stabilità; le norme che dispongono la variazione diretta delle previsioni di entrata o di spesa contenute nella seconda sezione del disegno di legge di bilancio. Con riferimento specifico alle spese, il comma 1-quater indica che le nuove o maggiori spese disposte dalla prima sezione del disegno di legge di bilancio non possono concorrere a determinare tassi di evoluzione delle spese complessive incompatibili con gli obiettivi di finanza pubblica determinati nel DEF, come risultante dalle conseguenti deliberazioni parlamentari. Rispetto alla previgente normativa (art. 11 comma 3, lettera i) L. 196/2009) dunque non è stata riproposta la disposizione ai sensi della quale la legge di stabilità indicava le sole norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa. Pertanto, la legge di bilancio può ora avere (secundum legem oltre che nella prassi come avvenuto negli ultimi anni) anche un carattere espansivo.
2.3.2 La seconda sezione del bilancio di previsione La seconda sezione del disegno di legge di bilancio riprende i contenuti del precedente bilancio di previsione, come definiti
dall’articolo 21 della legge di contabilit à, ma viene ora ad assumere un contenuto sostanziale, potendo incidere direttamente, attraverso rimodulazioni ovvero rifinanziamenti, definanziamenti o riprogrammazioni, sugli stanziamenti previsti a legislazione vigente. La seconda sezione indica ora le previsioni di entrata e di spesa, espresse in termini di competenza e di cassa, formate sulla base della legislazione vigente, tenuto conto dell’aggiornamento delle previsioni relative alle spese per oneri inderogabili e fabbisogno e delle proposte di variazioni di fattori legislativi. Tali previsioni vengono inoltre integrate con gli effetti delle variazioni derivanti dalle disposizioni della prima sezione, alle quali viene assicurata una autonoma evidenza contabile (c.d. bilancio integrato). Infatti, la seconda sezione comprende le previsioni di entrata e di spesa, espresse in termini di competenza e di cassa ed è formata (comma 1-sexies dell’art. 21) sulla base della legislazione vigente, tenuto conto dei parametri indicati nel DEF, ai sensi dell’evoluzione economico-finanziaria (articolo 10, comma 2, lettera c)), dell’aggiornamento delle previsioni per le spese per oneri inderogabili e fabbisogno di cui, rispettivamente, alle lettere a) e c) del comma 5 dell’articolo 21 della legge n. 196 e delle rimodulazioni proposte ai sensi dell’articolo 23 della medesima legge. Inoltre essa evidenzia, per ciascuna unità di voto parlamentare, gli effetti finanziari derivanti dalle disposizioni contenute nella prima sezione. In particolare, secondo l’art. 21, comma 10 della L. 196/2009, la seconda sezione è costituita:
dallo stato di previsione dell’entrata; dagli stati di previsione della spesa distinti per Ministeri; dal quadro generale riassuntivo con riferimento al triennio. Il successivo comma 14 specifica che l’approvazione di ciascuna di tali articolazioni del disegno di legge deve avvenire con distinti articoli del disegno di legge, con riferimento sia alle dotazioni di competenza sia a quelle di cassa. Le previsioni di entrata e di spesa del disegno di legge di bilancio, formate sulla base della legislazione vigente, secondo i parametri indicati nel DEF, tengono quindi conto: dell’aggiornamento delle previsioni relative alle spese per oneri inderogabili e di fabbisogno; delle rimodulazioni e variazioni disposte ai sensi dell’articolo 23, che interessano anche i fattori legislativi. La seconda sezione evidenzia inoltre, per ciascuna unità di voto, gli effetti delle variazioni derivanti dalle disposizioni contenute nella prim sezione. Coerentemente con quanto disposto dalla L. 196/2009, dunque: con il primo articolo si definisce l’ammontare delle entrate previste per l’anno successivo; seguono poi gli articoli nei quali si autorizzano gli impegni e i pagamenti che fanno capo ai singoli Ministeri; con apposito comma all’interno dell’articolo relativo al Ministero dell’economia è inoltre inserito (art.
21, comma 11-ter, L. 196/2009), in relazione alla indicazione del fabbisogno del settore statale, l’importo massimo di emissione di titoli pubblici, in Italia e all’estero, al netto di quelli da rimborsare (in tal modo il fabbisogno entra a far parte dell’equilibrio di bilancio e si pone un limite alla somma dei titoli del debito pubblico che è possibile emettere); segue il totale generale della spesa dello Stato (sia in termini di cassa che di competenza) con cui si approva il Quadro generale riassuntivo (di cui fra poco si dirà).
2.3.3 Il disegno di legge di bilancio: dalla circolare del MEF alla presentazione alle Camere La formazione del disegno di legge di bilancio ha inizio con un’apposita circolare con cui il Ministero dell’economia (meglio,
la
Ragioneria
Generale
dello
Stato)detta
le
istruzioni per la formulazione degli schemi degli stati di previsione. I Ministri, anche sulla base delle proposte dei responsabili della gestione dei programmi, indicano gli obiettivi di ciascun Dicastero e quantificano le risorse necessarie per il loro
raggiungimento
anche
mediante
proposte
di
rimodulazione delle stesse risorse tra programmi appartenenti alla medesima Missione di spesa. L’art. 22-bis della L. 196/2009 (introdotto dal D.Lgs. 90/2016), dettando misure in materia di programmazione finanziaria, tenta di avviare un progressivo superamento di
una delle criticità del processo di formazione del disegno di legge di bilancio, costituito dal criterio c.d. della spesa storica: questo, com’è noto, si sostanzia in un approccio incrementale alla formazione del disegno di legge di bilancio, vale a dire alla tendenza da parte delle amministrazioni a concentrarsi sulla formulazione di richieste di stanziamenti aggiuntivi a quelli degli esercizi precedenti. Le nuove procedure di formazione delle decisioni di spesa possono per alcuni profili ricondursi al principio del cosiddetto bilancio “a base zero” (zero base budgeting). Infatti, al comma 1 si prevede che, sulla base degli obiettivi programmatici indicati nel Documento di economia e finanza,
nonché
secondo
quanto
previsto
nel
cronoprogramma delle riforme riportato nel medesimo Documento, entro il 31 maggio di ciascun anno con apposito Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (su
proposta
del
Ministro
dell’economia
e
previa
deliberazione del Consiglio dei ministri) siano definiti gli obiettivi di spesa per ciascun Ministero, con riferimento al successivo triennio di programmazione. Gli obiettivi possono essere definiti sia in termini di risparmi da conseguire o di risorse da impiegare. Ai fini del conseguimento degli obiettivi in tal modo stabiliti, il comma 2 dispone che i Ministri propongano gli interventi da inserire nella manovra di finanza pubblica, mediante il disegno di legge di bilancio.
Dopo l’approvazione della legge di bilancio, il Ministro dell’economia e ciascun ministro di spesa con appositi accordi stabiliscono (entro il 1° marzo di ciascun anno) modalità e termini del monitoraggio del conseguimento degli obiettivi che, viene precisato, deve concernere anche “quantità e qualità” dei beni e servizi erogati.
Il Ministro dell’economia ha il compito di valutare la congruità e la coerenza tra gli obiettivi perseguiti da ciascun Ministro e le risorse richieste per la loro realizzazione, tenendo anche in considerazione: lo stato dei programmi in corso e dei risultati conseguiti negli anni precedenti in termini di efficacia ed efficienza della spesa; le risultanze illustrate nella nota integrativa al rendiconto; le risultanze delle attività di analisi dei nuclei di valutazioni (art. 39, comma 1, L. 196/2009); il Rapporto sulla spesa delle amministrazioni dello Stato. Gli schemi degli stati di previsione di entrata e di spesa così verificati formano il disegno di legge del bilancio a legislazione vigente che viene predisposto dal Ministro dell’economia e presentato alle Camere entro il 20 ottobre. Inoltre, particolare rilievo assume il comma 1-ter dell’art. 23, introdotto dal D.Lgs. 93/2016, con cui si rafforza il ruolo della cassa nella fase di formazione del bilancio grazie all’introduzione del Piano finanziario dei pagamenti come strumento propedeutico alla predisposizione delle
proposte da parte delle amministrazioni: ai fini della predisposizione delle proposte da parte dei responsabili della gestione
dei
programmi,
le
previsioni
pluriennali
di
competenza e di cassa iscritte nel bilancio dello Stato, dal 2017, sono formulate mediante la predisposizione di un apposito Piano
finanziario
dei
pagamenti
(detto
Cronoprogramma), recante dettagliate indicazioni sui pagamenti che si prevede di effettuare nel periodo di riferimento, ivi distinguendosi la quota della dotazione di cassa destinata al pagamento delle somme iscritte in conto residui da quella destinata al pagamento delle somme da iscrivere in conto competenza. È altresì stabilito che le dotazioni di competenza, in ciascun anno, si adeguino a tale piano, fermo restando
l’ammontare
complessivo
degli
autorizzati dalla normativa vigente. Dopo le modifiche della L. 163/2016, l’art. 23 della L. 196/2009 consente una maggiore flessibilità nel processo di formazione del bilancio. In particolare, il comma 1 dell’art. 23 relativo alla formulazione da parte dei Ministri degli schemi degli stati di previsione della seconda sezione del disegno di legge di bilancio, conferma la possibilità per i Ministri di effettuare proposte di rimodulazione delle risorse finalizzate alla realizzazione di obiettivi del proprio dicastero, eliminando tuttavia il vincolo della compensatività all’interno di una stessa missione (il previgente testo riconosceva tale facoltà solo fra programmi della stessa missione di spesa).
stanziamenti
Analoga flessibilità è prevista anche (art. 23, comma 3 come
modificato
dal
D.Lgs.
116/2018)
per
le
rimodulazioni di spesa di fattore legislativo: con il disegno di legge di bilancio, nell’ambito della seconda sezione, per motivate esigenze e nel rispetto dei saldi di finanza pubblica programmati, all’interno di ciascuno stato di previsione possono essere effettuate: – la rimodulazione in via compensativa delle dotazioni finanziarie di spesa di parte corrente e in conto capitale previste a legislazione vigente relative ai fattori legislativi; – la rimodulazione in via compensativa delle dotazioni finanziarie relative alle autorizzazioni di spesa per l’adeguamento delle dotazioni di competenza e di cassa a quanto previsto nel piano finanziario dei pagamenti; –
il
rifinanziamento,
definanziamento
e
la
riprogrammazione, per un periodo temporale anche pluriennale, delle dotazioni finanziarie di spesa di parte corrente e in conto capitale ma limitatamente alle sole spese di fattore legislativo.
2.3.4 La struttura della seconda sezione e le unità di voto parlamentare Il comma 2 dell’art. 21 L. 196/2009 dispone che l’unità elementare ai fini della decisione parlamentare sia costituita dall’Unità di voto parlamentare (il “disegno di legge del bilancio
di
previsione
deve
esporre
per
l’entrata
e
distintamente, per ciascun Ministero, per la spesa le unità di
voto
parlamentare
determinate
con
riferimento
rispettivamente alla tipologia di entrata e ad aree omogenee di attività”). Esaminiamo dunque l’articolazione del bilancio iniziando dallo stato di previsione delle entrate. Queste ultime sono articolate su quattro livelli di aggregazione (art. 25, L. 196/2009): titoli, secondo la specifica provenienza: tributarie (Titolo I) ed extratributarie (Titolo II), derivanti dall’alienazione, dall’ammortamento
di
beni
patrimoniali
e
dalla
riscossione di crediti (Titolo III), dall’accensione di prestiti (Titolo IV). I primi tre titoli rappresentano le entrate finali; il quarto titolo corrisponde in sostanza all’entità del ricorso al mercato finanziario; le entrate sono suddivise in entrate ricorrenti e non ricorrenti, a seconda che si riferiscano a proventi la cui acquisizione sia prevista a regime ovvero limitata soltanto ad alcuni esercizi; il successivo livello differenzia le entrate sulla base della tipologia, ai fini dell’approvazione parlamentare e dell’accertamento dei cespiti (ad esempio, le unità di voto delle entrate tributarie sono costituite dai tributi più importanti quali l’IRES, l’IVA, oppure da raggruppamenti di tributi con caratteristiche analoghe quali le imposte sostitutive); categorie, secondo la natura dei cespiti; unità elementari di bilancio, ai fini della gestione e della rendicontazione, eventualmente suddivise in articoli
secondo il rispettivo oggetto, ai fini della rendicontazione.
In ciascuno degli stati di previsione delle spese, queste sono articolate su tre livelli di aggregazione (art. 25, comma 2): missioni, che rappresentano (art. 21, comma 2) le funzioni principali e gli obiettivi strategici della spesa. Le missioni indicano le funzioni principali e gli obiettivi strategici perseguiti con la spesa pubblica e costituiscono una rappresentazione politico-istituzionale, necessaria per rendere più trasparenti le grandi poste di allocazione della spesa e per meglio comunicare le direttrici principali di azione delle singole amministrazioni. Le missioni indicano, in sostanza, le grandi finalità perseguite con la spesa pubblica (Istruzione scolastica,
Ordine pubblico, Giustizia, Infrastrutture pubbliche e logistica, etc.). Ogni missione si realizza concretamente attraverso più programmi;
programmi, ossia le unità di voto parlamentare, definiti dall’articolo 21, comma 2 quali aggregati di spesa con finalità omogenea diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell’ambito delle missioni. I programmi sono presentati suddivisi in macroaggregati. I programmi rappresentano «aggregati omogenei di attività svolte all’interno di ogni singolo Ministero, per perseguire obiettivi ben definiti nell’ambito delle finalità istituzionali, riconosciute al Dicastero competente». La norma specifica che «la realizzazione di ciascun programma è affidata ad un
unico
centro
di
responsabilità
amministrativa»,
corrispondente all’unità organizzativa di primo livello dei Ministeri (in base al D.Lgs. 300/1999, nei Ministeri costituiscono strutture di primo livello i Dipartimenti ovvero le Direzioni generali). Sempre per quanto riguarda i programmi, il comma 2 dell’art. 21 dispone altresì un loro raccordo con i livelli della classificazione funzionale COFOG (Classification of the functions of government): in particolare, viene previsto che i programmi siano univocamente raccordati alla nomenclatura COFOG di secondo livello (i cosiddetti 69 Gruppi che, secondo tale sistema di classificazione contabile internazionale rappresentano le specifiche aree di intervento delle politiche pubbliche;
dal primo gennaio 2017, però, il D.Lgs. 90/2016 ha previsto l’introduzione delle azioni, quale ulteriore articolazione di dettaglio dei programmi di spesa, destinate a costituire, in prospettiva, le unità elementari del bilancio dello Stato anche ai fini gestionali e di rendicontazione. Le azioni (art. 25-bis) costituiscono un livello di dettaglio dei programmi di spesa che specifica ulteriormente la finalità della spesa rispetto a quella individuata in ciascun programma, tenendo conto della legislazione vigente, e sono individuate sulla base delle seguenti caratteristiche (comma 3): a.
raggruppano
le
risorse
finanziarie
dedicate
al
raggiungimento di una stessa finalità; b. migliorano l’informazione sulle finalità cui sono destinate le risorse finanziarie del programma, in termini di settori di intervento, tipologie di servizi erogati o categorie di utenti; categorie di beneficiari di trasferimenti o contribuzioni in denaro; ogni altro elemento che descriva esplicitamente le realizzazioni, i risultati e gli scopi della spesa; c. corrispondono a insiemi omogenei di autorizzazioni di spesa, sotto il profilo delle finalità; d. sono significative sotto il profilo finanziario e, quanto più possibile, stabili.
L’individuazione delle azioni, rimessa ad un apposito decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia (comma 6 dell’art. 25bis) è avvenuta con D.P.C.M. 14 ottobre 2016.
unità elementari di bilancio ai fini della gestione e della rendicontazione (in luogo dei capitoli), classificate secondo
il
contenuto
economico
e
funzionale,
eventualmente ripartite in articoli (i quali, in analogia con quanto
in
precedenza
previsto
per
i
capitoli,
corrisponderebbero ai piani di gestione). È possibile perciò distinguere due differenti tipologie di bilancio, ciascuna con una propria finalità: un bilancio politico per la decisione parlamentare (bilancio
decisionale)
le
cui
unità
minime
di
deliberazione sono costituite per le entrate da tipologia, e per le spese, dai programmi; con tale bilancio il Parlamento identifica e determina le funzioni e gli obiettivi generali che lo Stato si prefigge di conseguire; un bilancio amministrativo per la gestione (bilancio gestionale), articolato in unità elementari di bilancio. A tal fine, ogni anno dopo l’approvazione del bilancio da parte del Parlamento e prima dell’inizio del nuovo anno finanziario, un decreto del Ministro dell’economia dispone la ripartizione delle unità di voto.
Si noti che il Parlamento esercita il suo potere di vincolare l’esecutivo ponendo un limite autorizzatorio che coincide con l’unità di voto, la partizione su cui esso è chiamato a
votare; spostando tale vincolo dal capitolo all’unità, risulta più ampio il perimetro delle risorse che delimitano un intervento e la connessa responsabilità gestionale del dirigente. Per questo motivo si prevede (art. 21, comma 2) che la realizzazione di ciascun programma sia affidata ad un unico centro di responsabilità amministrativa. Da tale differenziazione fra bilancio per la decisione e bilancio gestionale deriva inoltre che: per modificare le dotazioni delle diverse unità di voto (fissate con legge del Parlamento) è necessario uno specifico
provvedimento
legislativo
(la
legge
di
assestamento del bilancio); per
modificare
le
dotazioni
delle
diverse
unità
elementari di bilancio all’interno di una stessa unità di voto, è sufficiente un decreto ministeriale su proposta del dirigente responsabile. Per ogni unità di voto sono indicati (art. 21, comma 3): a. l’ammontare presunto dei residui attivi o passivi alla chiusura dell’esercizio precedente a quello cui il bilancio si riferisce; b. l’ammontare delle entrate che si prevede di accertare e delle spese che si prevede di impegnare nell’anno cui il bilancio
si
riferisce
(concetto
di
bilancio
di
competenza); c. le previsioni delle entrate e delle spese relative al secondo e al terzo anno del bilancio triennale; solo le
previsioni del primo anno, tuttavia, costituiscono limite alle autorizzazioni di impegno e pagamento (comma 9); d. l’ammontare delle entrate che si prevede di incassare e delle spese che si prevede di pagare nell’anno cui il bilancio si riferisce, senza distinzione fra operazioni in conto competenza ed in conto residui. Si intendono per incassate le somme versate in Tesoreria e per pagate le somme erogate dalla Tesoreria (concetto di bilancio di cassa). Le somme comprese in ciascuna unità sono suddivise, relativamente alla spesa, in spese correnti (con enucleazione delle spese di personale) e spese di investimento (con enucleazione delle spese di investimento destinate alle regioni in ritardo di sviluppo). Nell’ambito
della
dotazione
finanziaria
di
ciascun
programma di spesa, le spese vanno ripartite in: oneri inderogabili, in quanto vincolati a meccanismi o parametri determinati da leggi o da altri atti normativi; vi rientrano le cosiddette spese obbligatorie, ossia quelle relative al pagamento di stipendi, assegni, pensioni ed altre spese fisse, le spese per interessi passivi, quelle derivanti da obblighi comunitari ed internazionali, quelle per ammortamento di mutui, nonché quelle vincolate a particolari parametri determinati per legge (comma 5); fattori legislativi, vale a dire spese autorizzate da espressa
disposizione
legislativa
che
ne
determina
l’importo, considerato quale limite massimo di spesa, e il periodo di iscrizione in bilancio; spese di adeguamento al fabbisogno (spese non predeterminate legislativamente che sono quantificate tenendo conto delle esigenze delle amministrazioni). Ciascuno
stato
di
previsione
(sia
quello,
unico,
dell’entrata, sia quelli della spesa) è illustrato da una serie di elementi informativi che andranno aggiornati al momento dell’approvazione della legge di bilancio. In particolare, ogni stato di previsione è accompagnato da (art. 21, comma 11) una nota integrativa al bilancio di previsione che, per le entrate, illustra i criteri utilizzati per la previsione relativa alle principali imposte e tasse e specifica, per ciascun titolo, la quota di risorse avente carattere ricorrente, mentre per la spesa illustra:
le informazioni relative al quadro di riferimento in cui l’amministrazione opera e le priorità politiche, in coerenza con quanto indicato nel Documento di economia e finanza e nel decreto che entro il 31 maggio individua gli obiettivi di spesa per ciascun Ministero di cui all’articolo 22-bis; il contenuto di ciascun programma di spesa con riferimento
alle
azioni
sottostanti,
le
risorse
finanziarie per il triennio di riferimento con riguardo alle categorie economiche di spesa, i relativi riferimenti legislativi e i criteri di formulazione delle previsioni;
il piano degli obiettivi, intesi come risultati che le amministrazioni intendono conseguire, correlati a ciascun programma e formulati con riferimento a ciascuna azione, e i relativi indicatori di risultato in termini di livello dei servizi e di interventi. Allo stato di previsione della spesa di alcuni Ministeri erano storicamente allegati come appendici i bilanci delle aziende ed amministrazioni autonome che ad essi fanno capo e erano annessi i conti consuntivi degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria: Archivi notarili, facenti capo al Ministero di grazia e giustizia; Istituto agronomico per l’oltremare, dipendente dal Ministero degli affari esteri; Amministrazione del Fondo edifici di culto, il cui bilancio era annesso a quello del Ministero dell’interno. Il D.Lgs. 90/2016, mirando a semplificare i documenti di bilancio e di rendiconto, definisce un nuovo iter autonomo rispetto al disegno di legge di bilancio dello Stato per l’approvazione e successiva presentazione al Parlamento dei bilanci
preventivi
e
consuntivi
delle
sopracitate
amministrazioni autonome e non prevede più che essi costituiscano parte integrante dei bilanci preventivi e dei
rendiconti
consuntivi
delle
Amministrazioni
vigilanti.
2.3.5 Il quadro generale riassuntivo
Oltre allo stato di previsione dell’entrata e agli stati di previsione della spesa distinti per Ministeri, il bilancio è costituito anche dal quadro generale riassuntivo riferito al triennio (art. 21, comma 10). In tale documento, con riferimento sia alle dotazioni di competenza che a quelle di cassa (art. 25, comma 7) e con riferimento al triennio è data distinta indicazione: del risultato differenziale tra il totale delle entrate tributarie ed extratributarie ed il totale delle spese correnti (risparmio pubblico); del risultato differenziale tra tutte le entrate e le spese, escluse
le
operazioni
riguardanti
le
partecipazioni
azionarie ed i conferimenti, nonché la concessione e riscossione di crediti e l’accensione e il rimborso di prestiti (indebitamento o accrescimento netto); del
risultato
differenziale
delle
operazioni
finali,
rappresentate da tutte le entrate e le spese, escluse le operazioni di accensione e di rimborso di prestiti (saldo netto da finanziare o da impiegare); del risultato differenziale fra il totale delle entrate finali e il totale delle spese (ricorso al mercato).
I saldi di finanza pubblica Le informazioni sulla situazione della finanza pubblica sono desumibili da alcuni indicatori rappresentativi degli andamenti dei conti del bilancio dello Stato e dell’aggregato delle pubbliche amministrazioni, con riguardo sia ai valori nell’anno di
riferimento che a quelli per i periodi immediatamente successivi. Oltre ai saldi evidenziati nel quadro generale riassuntivo, occorre citare i saldi rilevanti per i regolamenti europei: indebitamento netto nominale e strutturale. Risparmio pubblico Il risparmio pubblico è il saldo della parte corrente del bilancio, dato dalla differenza tra le entrate correnti (tributarie ed extratributarie) e le spese correnti. Esso costituisce il parametro in base al quale si verifica il rispetto dell’obbligo di copertura da parte della Legge di bilancio: questa può infatti introdurre nuovi oneri correnti (nella forma di maggiori spese e/o di minori entrate) solo in presenza di un ammontare equivalente di risorse correnti (minori spese e/o maggiori entrate). Gli eventuali margini di miglioramento del risparmio pubblico risultante a legislazione vigente possono essere utilizzati per la copertura finanziaria delle riduzioni di entrata (ma non degli aumenti di spesa) disposte dalla legge di bilancio, purché si mantenga un valore positivo del risparmio in questione. Riferito ai conti consolidati della Pubblica Amministrazione e del Settore Pubblico Allargato esso misura, se positivo, la quota di risparmio prodotta (e, se negativo, la quota di risparmio assorbita) dai settori intestatari dei conti. Nel primo caso esso è denominato avanzo corrente, e nel secondo caso disavanzo corrente. Saldo netto da finanziare Il saldo netto da finanziare è la differenza tra le entrate finali e le spese finali, includendo pertanto in entrambe sia il conto capitale che le partite finanziarie (con esclusione solo delle voci relative all’accensione ed al rimborso dei prestiti). Il disegno di
legge di bilancio indica espressamente l’importo del saldo netto da finanziare (ora, sia in termini di competenza che di cassa), il cui valore non può risultare modificato nel corso dell’esame parlamentare del provvedimento: pertanto, qualora vengano introdotte nuove norme onerose, le stesse devono recare le corrispondenti risorse a compensazione, al fine di lasciare invariato tale saldo che, con riguardo al bilancio dello Stato, costituisce il perno attorno al quale viene strutturata la manovra annuale di bilancio. Indebitamento netto Un ulteriore indicatore è rappresentato dall’indebitamento netto, che costituisce il saldo del conto economico delle amministrazioni pubbliche, dato dalla differenza tra le entrate finali e le spese finali, al netto delle operazioni finanziarie: esso, misurando il differenziale tra le entrate e le spese con riferimento al momento economico in cui si compie ciascuna operazione (e non al momento in cui se ne effettua la regolazione finanziaria), corrisponde in sostanza al saldo netto da finanziare, escluse le partite finanziarie sia di entrata che di uscita. L’indebitamento netto, in concreto, misura l’eccedenza della spesa rispetto alle risorse a disposizione del settore pubblico, da finanziare attraverso la vendita di attività o l’aumento delle passività: ne consegue che di fatto esso misura la variazione del debito pubblico prodotta a seguito del risultato di esercizio nell’anno di riferimento. Qualora abbia valore positivo, tale saldo indica invece l’ammontare delle risorse nette a disposizione dell’operatore
pubblico,
accreditamento netto.
venendo
in
tal
caso
definito
Ricorso al mercato Il ricorso al mercato costituisce il saldo congiunto del conto economico e delle operazioni finanziarie ed è dato dalla differenza tra tutte le entrate (escluse quelle per accensione di prestiti) e tutte le spese, incluso il rimborso dei prestiti. Corrisponde alla somma del saldo netto da finanziare e del rimborso dei prestiti e, pertanto, esprime l’ammontare massimo dell’indebitamento effettuabile in relazione all’esercizio finanziario. Saldo di parte corrente e saldo primario Oltre a tali saldi, può essere opportuno segnalare ulteriori indicatori che, pur avendo carattere parziale, possono risultare significativi per l’analisi della situazione e dell’evoluzione dei conti pubblici, tra cui il saldo di parte corrente, risultante dal differenziale tra le entrate e le uscite di parte corrente, che, qualora
positivo,
indica
il
“risparmio”
delle
pubbliche
amministrazioni, ed il saldo primario. Quest’ultimo, in particolare, riporta il differenziale tra le entrate complessive delle amministrazioni pubbliche e le uscite, con esclusione della spesa per interessi. Di fatto esso indica il risultato d’esercizio, al netto degli oneri, (costituiti dagli interessi) derivanti dai risultati negativi degli anni finanziari precedenti. Si tratta di un saldo che costituisce uno dei principali fattori che concorrono alla variazione annua del debito pubblico, ed ha pertanto uno specifico rilievo per l’analisi di sostenibilità del debito medesimo. Indebitamento netto nominale L’indebitamento netto nominale misura la differenza tra le entrate e
le
uscite
complessive
del
conto
consolidato
delle
amministrazioni pubbliche e rappresenta uno dei parametri di
riferimento del Patto di stabilità e crescita. È questo l’indicatore che rileva ai fini della procedura europea per deficit eccessivo. Indebitamento netto strutturale Dati i parametri di bilancio e le procedure di valutazione degli impegni assunti dai singoli Stati membri con il Patto di Stabilità e Crescita ed il Fiscal compact, assume una particolare rilevanza, tra le variabili dei conti pubblici alla base della programmazione di medio periodo della finanza pubblica e delle decisioni di politica
fiscale,
l’indebitamento
netto
strutturale,
pari
all’indebitamento netto corretto per gli effetti del ciclo economico sulle componenti di bilancio e per gli effetti delle misure una tantum, che influiscono solo temporaneamente sull’andamento del disavanzo.
2.4 La manovra di finanza pubblica in Parlamento Entro il 20 ottobre il Governo presenta alle Camere il disegno di Legge di bilancio dello Stato. Per convenzione, ogni anno i due rami del Parlamento si alternano nell’affrontare la prima lettura dei disegni di legge governativi. Ha così inizio l’iter parlamentare per l’approvazione della manovra di bilancio, iter che i regolamenti parlamentari disciplinano con particolare attenzione. L’art. 119 del regolamento della Camera dei deputati, ad esempio, prevede che “l’esame del disegno di legge di approvazione dei bilanci di previsione, annuale e pluriennale, dello Stato e dei documenti relativi alla politica economica nazionale e alla gestione del pubblico denaro, collegati alla presentazione dei predetti disegni di legge, ha luogo nell’ambito di una apposita sessione parlamentare di bilancio”. Durante
la
deliberazione,
sessione
di
da
parte
bilancio
è
sospesa
dell’Assemblea
e
ogni delle
Commissioni in sede legislativa, sui progetti di legge che comportino nuove o maggiori spese o diminuzioni di entrate. Le uniche eccezioni sono previste per le deliberazioni relative alla conversione di decreti-legge, ai progetti di legge collegati alla manovra contenuta nel DEF approvato dal Parlamento, nonché quelle concernenti i
disegni di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e di ricezione e attuazione di atti normativi dell’Unione europea, quando dalla mancata tempestiva approvazione dei medesimi possa derivare responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di obblighi internazionali o comunitari.
I regolamenti parlamentari fissano una rigida scansione temporale dei lavori delle Commissioni e dell’Assemblea (anche perché occorre ovviamente rispettare la scadenza del 31 dicembre, pena l’esercizio provvisorio come previsto dalla Costituzione). Il Presidente dell’assemblea in cui i disegni sono in prima lettura verifica, innanzitutto, che la Legge di bilancio non rechi disposizioni estranee e che sia rispettata la regola della copertura. Eventuali disposizioni estranee sono stralciate dopodiché l’analisi del disegno di legge avviene, per ogni ramo, prima attraverso il lavoro delle Commissioni parlamentari (Commissione Bilancio per l’esame generale, mentre l’esame dei singoli stati di previsione è affidato alle Commissioni competenti per materia), poi attraverso il voto dell’intera assemblea. Dopo l’approvazione di una Camera, il disegno di legge (nella versione con le modifiche approvate) passa all’altra Camera e questa navetta parlamentare continua fino a che le due assemblee non approvano lo stesso testo di legge. L’ordine di votazione dei provvedimenti è stabilito dalla stessa legge di contabilità; infatti, secondo l’art. 21, commi 14 e 15, L. 196/2009, si approvano (con riferimento sia alle
dotazioni di competenza che di cassa) con distinti articoli del disegno di legge di bilancio: lo stato di previsione dell’entrata; ciascuno stato di previsione della spesa; i totali generali della spesa; il quadro generale riassuntivo; i fondi di riserva e speciali disciplinati dagli artt. 26-29 della legge di contabilità. È importante notare che (art. 21, comma 12) gli effetti finanziari derivanti dalle modifiche apportate alla prima sezione del disegno di legge di bilancio nel corso della discussione parlamentare sono integrati nella seconda sezione attraverso un’apposita nota di variazioni. Sintetizzando il nuovo quadro legislativo, la previsione di spesa per ciascun programma (che, si rammenta, costituisce l’unità di voto in sede parlamentare) si forma secondo tale sequenza: – partendo dal dato contabile a legislazione vigente, ciascun programma
può
essere
modificato
prima
dalle
rimodulazioni compensative per fattori legislativi e cronoprogramma e poi dalle variazioni alle dotazioni finanziarie relative ai fattori legislativi; si forma in tal modo il dato contabile di spesa risultante dalla seconda sezione; – su questo dato contabile va quindi inserito l’effetto finanziario determinato sul programma dalle eventuali modifiche risultanti dalla prima sezione;
– si forma in tal modo il dato di bilancio “integrato”, cioè comprensivo di entrambe le sezioni, che costituirà l’unità di voto. In termini analoghi si procede per l’unità di voto parlamentare delle entrate - vale a dire la tipologia delle stesse – per la quale, al dato contabile risultante dalla seconda sezione, formato sulla base della legislazione vigente, vanno inseriti gli effetti finanziari derivanti dalla prima sezione, determinandosi così il dato “integrato” delle due sezioni. La nota di variazioni, con cui si incorporano nella seconda sezione gli effetti finanziari derivanti dalle modifiche apportate da ciascuna Camera alla prima sezione del disegno di legge di bilancio, è presentata dal Governo e votata dalla medesima Camera prima della votazione finale. Per ciascuna unità di voto la nota evidenzia, distintamente con riferimento sia alle previsioni contenute nella seconda sezione sia agli effetti finanziari derivanti dalle disposizioni della prima sezione, le variazioni apportate rispetto al testo del disegno di legge presentato dal Governo ovvero rispetto al testo approvato nella precedente lettura parlamentare. Prima delle modifiche introdotte dalla L. 163/2016, invece, dopo che le Camere avevano approvato i singoli articoli del disegno di legge di bilancio, la votazione finale sul disegno di legge di bilancio rimaneva invece sospesa: le Camere dovevano prima approvare la Legge di stabilità. Dopo che quest’ultima era stata approvata, infatti, il Governo
presentava una nota di variazione al bilancio di previsione dello Stato per incorporarne gli effetti sullo stesso bilancio dello Stato. La Commissione Bilancio esaminava la nota di variazione e solo a questo punto l’assemblea procedeva alla votazione finale del disegno di legge di bilancio.
Dopo l’approvazione parlamentare, il disegno di legge è presentato
al
Presidente
della
Repubblica
per
la
promulgazione e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Alla data di entrata in vigore della legge di bilancio (come previsto dall’art. 21, comma 17 della L. 196/2009) un apposito decreto del Ministro dell’Economia, d’intesa con le amministrazioni interessate, ripartisce le unità di voto parlamentare in unità elementari ai fini della gestione e della rendicontazione. Entro dieci giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio i Ministri assegnano le risorse ai responsabili della gestione e si procede al raccordo tra il bilancio di previsione dello Stato approvato e il sistema di contabilità nazionale per i conti del settore della pubblica amministrazione.
2.5 Il bilancio di assestamento Durante
l’esercizio
finanziario,
mentre
viene
data
esecuzione al bilancio di previsione, può accadere che si verifichino nuove o maggiori entrate rispetto a quelle previste in bilancio oppure che si dimostrino necessarie nuove o maggiori spese rispetto agli stanziamenti. Per variare ed aggiornare le poste del bilancio sono perciò previsti strumenti diversificati in relazione alla nuova struttura del bilancio nella doppia articolazione di bilancio politico (quello approvato dalle Camere, basato sulle unità di voto parlamentare) e di bilancio gestionale (articolato per unità elementari). Poiché il primo documento (bilancio politico) è stato oggetto di approvazione legislativa, è necessario che le dotazioni delle singole unità di base siano variate con un provvedimento avente analoga forza di legge: a tale finalità risponde il bilancio di assestamento (mentre per le variazioni delle ripartizioni amministrative del bilancio, si provvede con decreti presidenziali o ministeriali). Al riguardo, l’art. 33, comma 1, della L. 196/2009 stabilisce che entro il mese di giugno di ciascun anno il Ministro dell’Economia
presenta
un
disegno
di
legge
ai
fini
dell’assestamento delle previsioni di bilancio formulate a legislazione vigente, anche in considerazione della consistenza dei residui attivi e passivi accertata in sede di rendiconto
dell’esercizio scaduto il 31 dicembre dell’anno precedente. Dopo le modifiche della L. 163/2016, con il disegno di legge di assestamento
possono
essere
proposte,
limitatamente
all’esercizio in corso, variazioni compensative tra le dotazioni finanziarie previste a legislazione vigente, anche relative a unità di voto diverse, restando comunque precluso l’utilizzo degli stanziamenti di spesa in conto capitale per finanziare spese correnti (art. 33, comma 3 che ha in tal modo aumentato la flessibilità in sede di assestamento: la possibilità di compensazione era originariamente limitata soltanto nell’ambito dei programmi di una medesima missione).
Capitolo 3 L’esecuzione del bilancio 3.1 La gestione delle entrate Con l’approvazione parlamentare del bilancio, il Governo è autorizzato ad acquisire le entrate e ad erogare le spese indicate nel documento contabile; l’insieme di atti e di attività amministrativo-contabili poste in essere a tal fine si definisce gestione del bilancio. È possibile distinguere diverse fasi, sia sul versante dell’entrate che su quello delle spese. Le fasi dell’entrata sono: l’accertamento; la riscossione; il versamento.
3.1.1 L’accertamento L’accertamento
è
la
fase
nel
corso
della
quale
l’amministrazione competente determina la ragione (giuridica) del credito, identifica la persona del debitore e provvede ad iscrivere
la
somma
che
dovrà
essere
incassata
nella
competenza dell’anno finanziario (così l’art. 222 del R.D. 827/1924,
Regolamento
di
Contabilità
generale).
Più
analiticamente la fase dell’accertamento evidenzia quattro elementi fondamentali: motivo giuridico del credito; individuazione del debitore; importo da riscuotere; imputazione dell’importo (in entrata al bilancio). Ai sensi del comma 2 del citato art. 222 del Regolamento di contabilità generale, l’accertamento avviene secondo diverse modalità: a) mediante ruoli, per le imposte dirette e per le altre entrate a scadenze determinate, emessi nelle forme e con le modalità prescritte dalle relative leggi e regolamenti aventi effetto costitutivo del debito (in realtà, l’accertamento mediante ruoli ha attualmente ceduto il passo al principio dell’autoaccertamento e autoliquidazione dei tributi da parte del debitore d’imposta, il quale si avvale a tal fine dell’intermediazione delle aziende di credito); b) mediante liste di carico, per affitti, censi, canoni, livelli e per ogni altra prestazione periodica; c) mediante prenotazione in registri o campioni tenuti dalle Ragionerie territoriali dello Stato e notificazioni fatte dalle Direzioni del Tesoro, per le entrate amministrate dal Dipartimento del Tesoro; d) altri specifici atti amministrativi per tutte le altre entrate di natura eventuale e variabile accertabili nello stesso momento
della
riscossione,
liquidabili
entro
l’esercizio
finanziario (è il caso, ad es., del lotto, i cui proventi sono accertati all’atto della giocata). Si badi che l’accertamento come stadio contabile della entrata
va
tenuto
concettualmente
distinto
dall’accertamento tributario che attiene al rapporto giuridico di imposta. Mentre l’accertamento della entrata costituisce una fase contabile interna con la quale, ai fini della gestione del bilancio di competenza, si accerta il diritto alla riscossione, l’accertamento d’imposta attiene al rapporto giuridico d’imposta ed ha la funzione di rendere liquido ed esigibile il debito d’imposta e rende esigibile l’obbligazione tributaria all’esito di un procedimento che si snoda attraverso altri adempimenti da parte dello stesso contribuente e degli uffici amministrativi (dichiarazioni, visite, rettifiche, variazioni, avvisi).
L’accertamento di qualsiasi entrata non incontra limiti negli stanziamenti di entrata iscritti in bilancio poiché, diversamente dalla spesa, la previsione di bilancio non ha funzione autorizzatoria di modo che il diritto a riscuotere rimane impregiudicato anche se le relative entrate non siano previste (art. 219 del Regolamento di Contabilità generale).
L’accertamento qualificato Il decreto legislativo 16 marzo 2018, n. 29 ha introdotto (art. 21bis L. 169/2009) il concetto di accertamento qualificato, con il quale si intende l’iscrizione nello stato di previsione dell’entrata del bilancio dello Stato di tutti i redditi, proventi e crediti di
qualsiasi natura, per un ammontare corrispondente all’importo che lo Stato, avendone diritto sulla base della legislazione vigente, prevede di riscuotere nel triennio di riferimento. In questo modo, si tiene distinto l’accertamento “giuridico” - che permane ed esplica i propri effetti ai fini dell’attività di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria, oltre a formare egualmente oggetto di rilevazione gestionale da esporre nel conto del bilancio, indipendentemente dal suo grado di riscuotibilità - da quello contabile c.d. “qualificato”, volto a incidere sui saldi contabili per la sola componente ritenuta riscuotibile. Mentre l’accertamento contabile mira a privilegiare l’aspetto giuridico del diritto dello Stato all’acquisizione delle risorse, con l’accertamento qualificato si ha uno spostamento della fase dell’accertamento, quanto alla sua rilevazione contabile nel bilancio dello Stato, al momento della riscossione del credito, quando, cioè, il credito diventa esigibile. Tale cambiamento si inserisce nell’ambito della più ampia attività finalizzata al potenziamento della funzione del bilancio di cassa. Le modalità per l’applicazione, in via sperimentale, della nozione di accertamento qualificato sono state definite con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 25 maggio 2018, che ha provveduto a disciplinare le varie fasi della sperimentazione.
3.1.2 La riscossione È la fase in cui il debitore paga la somma dovuta allo Stato. La riscossione è fatta “per conto delle singole Amministrazioni che sotto la propria responsabilità” amministrano le somme (art. 224 Regolamento di contabilità generale) per mezzo di
“agenti designati dalle relative leggi e regolamenti nei modi e nelle forme da essi prescritti” (art. 223 Reg. Cont.). Il ruolo di agente di riscossione può essere svolto: da dipendenti dell’amministrazione (agenti contabili, tenuti a rendere il conto della loro gestione alle Amministrazioni da cui dipendono – art. 74 Legge contabilità generale e art. 252 Reg. Cont. – e, in quanto agenti contabili – art. 178 Reg. Cont. –, sono altresì tenuti alla presentazione del conto giudiziale alla Corte dei Conti); da un ente pubblico incaricato sia dell’accertamento che della riscossione di alcune entrate erariali specifiche (ad esempio il CONI per i concorsi pronostici dello sport; l’ACI per le tasse automobilistiche; la RAI per il canone radiotelevisivo); altri soggetti esterni cui sia stato affidato per contratto l’incarico o che hanno preso in concessione il servizio (Poste italiane, banche etc.). La riscossione delle entrate avviene generalmente con il versamento spontaneo da parte dei contribuenti, dietro quietanza delle somme versate. In caso contrario, cioè quando il debitore risulta insolvente, si procede alla riscossione coattiva tramite titoli esecutivi (ruolo e ingiunzione). Il sistema della riscossione, che prima era diversificato e disomogeneo nelle procedure, è stato riordinato, con il D.Lgs. 22 febbraio 1999 n. 37, che ha abolito l’obbligo del non riscosso come riscosso (secondo cui i concessionari
della
riscossione
avevano
l’obbligo
di
versare
all’amministrazione le somme iscritte a ruolo come se fossero state incassate, salvo ottenerne il rimborso una volta dimostrata la loro inesigibilità ), e il D.Lgs. 26 febbraio 1999 n. 46, che ha riordinato il sistema dei ruoli come strumento di riscossione coattiva di tutte le entrate tributarie ed extratributarie dello Stato e degli enti pubblici istituzionali. Dal primo ottobre 2006 (art. 3 del D.L. 30-9-2005, n. 203, convertito in L. 248/2005), è stato soppresso il Servizio nazionale della riscossione e le relative funzioni sono state attribuite all’Agenzia delle Entrate attraverso Equitalia (ex Riscossione S.p.A.), società per azioni a totale capitale pubblico (51 per cento all’Agenzia delle Entrate, 49 per cento all’INPS). A decorrere dal 1° luglio 2017, le società del gruppo Equitalia sono state sciolte e l’esercizio delle funzioni di riscossione sono svolte da “Agenzia delle Entrate Riscossione”, ente strumentale dell’Agenzia (D.L. 193/2016).
3.1.3 Il versamento La procedura di acquisizione delle entrate si esaurisce con il versamento alla Tesoreria delle somme riscosse dagli esattori, nei termini stabiliti dalle leggi e dai regolamenti, e con la conseguente imputazione al bilancio. Il versamento può essere: diretto, se fatto direttamente dal debitore (art. 232 Reg. Cont.), indiretto, se avviene tramite gli agenti delle
riscossione, oppure per commutazione di un titolo di spesa in quietanza di entrata o in vaglia del tesoro (art. 430 Reg. Cont.).
3.2 La gestione delle spese L’articolazione del procedimento contabile della spesa è disciplinata dagli articoli 270 e seguenti del Regolamento di Contabilità di Stato, secondo cui la procedura di spesa si sviluppa attraverso: l’impegno; la liquidazione; l’ordinazione; il pagamento.
3.2.1 L’impegno L’impegno è la prima fase del procedimento di spesa con la quale, a seguito di obbligazione giuridicamente perfezionata, è determinata la somma da pagare, individuato il soggetto creditore, indicata la ragione e costituito il vincolo sulle previsioni
di
bilancio,
nell’ambito
della
disponibilità
finanziaria accertata. Per lungo tempo è mancata una definizione legislativa dell’impegno: il R.D. 2440/1923 (Legge sull’ordinamento contabile dello Stato) si limitava infatti a prescrivere l’obbligo di
dare
avvio
al
procedimento
per
la
registrazione
dell’impegno, comunicando alle rispettive ragionerie tutti gli atti con i quali si approvano contratti o si autorizzano spese o
dai quali derivi un obbligo di pagare somme a carico del bilancio (art. 50). Ora, tale formula ha trovato conferma nell’art. 34 della L. 196/2009; prima di analizzare i principi, è bene ricordare che gli impegni, a seconda della fonte, possono derivare: da leggi, che dispongono determinate spese (impegni legislativi). Ad esempio, formano impegno sui relativi fondi della competenza le spese in conto capitale autorizzate da speciali disposizioni di legge, ripartite in più anni, per la quota che si è stabilita potersi erogare nell’anno. In realtà, anche in questi casi, fatta eccezione per l’ipotesi dei cd. residui di stanziamento, se non interviene un atto amministrativo di impegno concreto al termine dell’esercizio finanziario la spesa erogata non dà luogo a residui ma passa in economia. Pertanto, anche in questo caso, perché si producano gli effetti contabili tipici dell’impegno amministrativo è necessario comunque che quest’ultimo intervenga; da contratti stipulati dalla pubblica amministrazione (impegni contrattuali, ad esempio per affitti o per contratti di appalto); da
atti
amministrativi
non
contrattuali
(impegni
amministrativi); da sentenze passate in giudicato che condannano lo Stato a pagare una certa somma (impegni giudiziali). La disciplina degli impegni e dei pagamenti è ora dettata dall’art. 34 della L. 196/2009 come modificato dai decreti
legislativi 93/2016, 29/2018 e 116/2018. L’articolo in questione individua i seguenti principi: l’impegno di spesa ed il pagamento, in linea generale, è compito dei dirigenti, nell’ambito delle attribuzioni ad essi demandate e nei limiti delle risorse assegnate in bilancio (comma 1 che conferma gli atti 16 e 17 D.Lgs. 165/2001); per quanto riguarda le somme dovute dallo Stato in relazione all’adempimento di obbligazioni giuridiche perfezionate, gli impegni di spesa sono assunti nel rispetto delle leggi vigenti e, nei limiti dei pertinenti stanziamenti iscritti in bilancio, con imputazione agli esercizi in cui le obbligazioni sono esigibili, dando pubblicità
mediante
divulgazione
periodica
delle
informazioni relative agli impegni assunti per gli esercizi in cui l’obbligazione diviene esigibile. Questa nuova modalità di imputazione agli esercizi finanziari in cui le obbligazioni sono esigibili (in vigore dal 1° gennaio 2019: art. 9, co. 2 D.Lgs. 93/2016, come mod. da D.L. 148/2017) è stata disposta nell’ottica del rafforzamento del bilancio di cassa. Per la sua attuazione è necessario che le amministrazioni predispongano e aggiornino l’apposito Piano finanziario dei pagamenti pluriennale (cosiddetto Cronoprogramma) sulla base del quale ordinare e pagare le spese. Tale Piano finanziario dei pagamenti riporta, quali elementi necessari e presupposti del pagamento stesso, in relazione a ciascun impegno, l’ammontare del debito e l’esatta individuazione della persona del creditore, supportati dai titoli e dai documenti comprovanti il diritto
acquisito, nonché la data in cui viene a scadenza l’obbligazione; l’assunzione dei suddetti impegni è possibile solo in presenza
delle
necessarie
disponibilità
finanziarie, in termini di competenza e di cassa, e dei seguenti elementi costitutivi: la ragione del debito, l’importo ovvero gli importi da pagare, l’esercizio finanziario o gli esercizi finanziari su cui gravano le previste scadenze di pagamento e il soggetto creditore univocamente individuato. L’impegno può essere assunto solo in presenza, sulle pertinenti unità elementari di bilancio, di disponibilità finanziarie sufficienti, in termini di competenza, a far fronte in ciascun anno alla spesa imputata in bilancio e, in termini di cassa, a farvi fronte almeno nel primo anno, garantendo comunque il rispetto del piano finanziario dei pagamenti; non è possibile assumere impegni di spesa a carico dell’esercizio scaduto successivamente alla data di chiusura dell’esercizio finanziario, ovvero il 31 dicembre (comma 6). Tuttavia, in via derogatoria, le risorse assegnate con variazioni di bilancio, adottate con decreti del Ministro dell’economia e delle finanze e trasmessi alla Corte dei conti entro il 28 febbraio, sono conservate tra i residui passivi dell’anno successivo a quello di iscrizione in bilancio, nei casi previsti dal comma 6-bis (applicazione di provvedimenti
legislativi
pubblicati
nell’ultimo
quadrimestre dell’anno; riassegnazione di entrate di scopo, adottate nell’ultimo mese dell’anno; attribuzione
delle risorse di fondi la cui ripartizione, tra le unità elementari di bilancio interessate, è disposta con il predetto decreto di variazione di bilancio del Ministro dell’economia e delle finanze, a seguito dell’adozione di un provvedimento amministrativo che ne stabilisce la destinazione); per le spese afferenti all’acquisto di beni e servizi, sia di parte corrente che in conto capitale, l’assunzione dell’impegno
è
subordinata
alla
preventiva
registrazione, sul sistema informativo per la gestione integrata della contabilità economica e finanziaria, dei contratti
o
degli
ordini
che
ne
costituiscono
il
presupposto; le spese per competenze fisse ed accessorie relative al personale, sono imputate alla competenza del bilancio dell’anno finanziario in cui vengono disposti i relativi pagamenti; per gli impegni di spesa in conto capitale che prevedono opere o interventi ripartiti in più esercizi le amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti o comunque assumere impegni nei limiti dell’intera somma indicata dalle leggi pluriennali di spesa ovvero nei limiti indicati dalla Legge di bilancio (art. 34, comma 5 che rinvia all’art. 30, comma 2). L’impegno in concreto avviene in sede di controllo preventivo della competente Ragioneria dello Stato la quale, ricevuto l’atto di rilievo finanziario e riscontratane la regolarità contabile ed amministrativa, effettua la
registrazione contabile delle somme necessarie con conseguente effetto di rendere indisponibili ad altri fini le somme ad essa riferite (art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 123/2011 di riforma dei controlli di regolarità amministrativa e contabile). Per garantire una corretta programmazione dell’utilizzo degli stanziamenti di cassa del bilancio statale, il dirigente responsabile della gestione, in relazione a ciascun impegno assunto sulle unità elementari di bilancio di propria pertinenza, con esclusione delle spese relative alle competenze fisse e accessorie da corrispondere al personale e al rimborso del debito pubblico, ha l’obbligo di predisporre ed aggiornare, contestualmente all’assunzione del medesimo impegno, un apposito piano finanziario dei pagamenti sulla base del quale ordina e paga le spese. Le informazioni contenute nei piani finanziari di pagamento sono rese pubbliche con cadenza periodica. Il dirigente responsabile della gestione ha l’obbligo di aggiornare il piano finanziario dei pagamenti, con riferimento alle unità elementari di bilancio di propria pertinenza, almeno con cadenza mensile, anche in assenza di nuovi impegni e, in ogni caso, in relazione a provvedimenti di variazioni di bilancio adottati ai sensi della normativa vigente in materia di flessibilità in fase di gestione (art. 34, co. 7 L. 196/2009).
3.2.2 La liquidazione La liquidazione è la fase del procedimento di spesa attraverso la quale, in base a titoli e documenti comprovanti il
diritto acquisito dal creditore dello Stato: si individua il creditore; si delimita e precisa la causa giuridica della spesa; si determina la somma certa e liquida da pagare nei limiti dell’ammontare dell’impegno definitivo assunto. In genere la liquidazione spetta allo stesso organo che ha promosso l’impegno; come dispone l’art. 208 del Regolamento di Contabilità di Stato, in ciascuna Amministrazione essa spetta agli “uffici amministrativi cui è affidata la trattazione degli affari”. La liquidazione da parte degli uffici amministrativi deve essere appoggiata a titoli e documenti comprovanti il diritto acquisito dal creditore. A tal proposito, si ricorda che l’art. 1, comma 209, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 ha stabilito che
l’emissione,
la
trasmissione,
la
conservazione
e
l’archiviazione delle fatture, emesse nei rapporti con le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e con gli enti pubblici nazionali deve essere effettuata esclusivamente in forma elettronica (cosiddetta fatturazione elettronica). Il D.M. n. 55 del 3 aprile 2013, dando attuazione a tale disposizione, ha fissato al 6 giugno 2014 la decorrenza degli obblighi di utilizzo della fatturazione elettronica nei rapporti economici con le amministrazioni centrali; dal 31 marzo 2015, l’obbligo è esteso a tutte le rimanenti amministrazioni pubbliche.
3.2.3 L’ordinazione
Per ordinazione si intende quella fase della spesa nella quale lo Stato manifesta documentalmente la volontà di adempiere all’obbligazione precedentemente assunta nei confronti del creditore, emettendo un “titolo di spesa”, ed ordinandone il pagamento in favore del creditore medesimo. A seconda della forma di pagamento, l’ordinazione può avvenire (art. 54 del R.D. 2440/1923): – con assegni a favore dei creditori: essi vengono tratti sull’istituto bancario incaricato di svolgere il servizio di tesoreria; – attraverso ordinativi diretti sulle Tesorerie dello Stato (sportelli della Banca d’Italia), i cd. “mandati diretti”. Il dirigente responsabile della spesa, una volta che siano stati verificati l’esatto adempimento delle obbligazioni assunte dai terzi ovvero la sussistenza delle altre condizioni o prestazioni stabilite in rapporto al corrispondente impegno, emette (anche sulla scorta della valutazione di organi tecnici e di controllo della qualità) l’ordine di pagare le somme impegnate,
richiamando
i
riferimenti
contabili
del
corrispondente impegno; l’ordine di pagare dà luogo, a cura del competente Ufficio centrale del bilancio, ad apposita “transazione”
sul
Sistema
informativo
integrato,
a
completamento dei dati della clausola di ordinazione della spesa già presenti a sistema, che vengono definitivamente convalidati e, infine, sulla base del visto dell’Ufficio Centrale di Bilancio viene effettuato il pagamento;
– mediante ruoli di spese fisse: si tratta di ruoli speciali emessi
dall’Amministrazione
ed
aventi
efficacia
permanente. Sono utilizzati per il pagamento di stipendi, pensioni e spese varie con scadenze determinate; – attraverso aperture di credito a favore di funzionari delegati, che si sostanziano in un ordine di accreditamento che l’Amministrazione dispone in favore di un proprio funzionario (“delegato”) su di una tesoreria, mettendo così a disposizione una determinata somma, che potrà essere utilizzata o mediante propri ordinativi in favore di creditori oppure mediante prelevamenti diretti in contanti, per provvedere a determinate spese (ad es., per l’attuazione di programmi, o per lo svolgimento di attività rientranti nelle competenze
dei
dirigenti
deleganti).
Di
tale
movimentazione il funzionario delegato è tenuto a rendere conto alla propria Amministrazione, a dimostrazione della corretta gestione dei fondi utilizzati; – forme speciali, per spese atipiche quali vincite a pronostici, spese di giustizia ed altre.
3.2.4 Il pagamento Il pagamento è l’atto conclusivo della procedura di spesa con il quale il debito dello Stato viene totalmente o parzialmente estinto. In quanto ultimo stadio della spesa, esso determina l’effettiva uscita di denaro comportando una movimentazione passiva di cassa e perciò assume rilievo ai fini del bilancio di cassa.
Ai pagamenti delle spese provvedono le sezioni di Tesoreria provinciale per lo Stato e, per gli altri enti pubblici, gli istituti affidatari della funzione di tesoreria. I pagamenti di tutte le amministrazioni pubbliche devono avvenire tramite il SIOPE che è un sistema di rilevazione telematica degli incassi e pagamenti per migliorare la conoscenza dei conti pubblici nazionali e per rispondere tempestivamente alle varie esigenze di verifica delle regole comunitarie; alla sua base vi è l’obbligo degli enti di codificare ogni incasso e pagamento al fine di individuare la natura economica di ciascuna operazione in maniera uniforme; i tesorieri ed i cassieri non possono accettare disposizioni di pagamento prive della codificazione uniforme e tutti gli incassi e pagamenti codificati devono essere trasmessi quotidianamente alla banca dati SIOPE (art. 14, comma 6, L. 196/2009); l’art. 25 (Anticipazione obbligo fattura elettronica) del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, inoltre,
per
i
pagamenti
dovuti
dalle
pubbliche
amministrazioni, ha fatto divieto di procedere al pagamento delle fatture elettroniche che non riportano il Codice identificativo di gara (CIG) e il Codice Unico di Progetto (CUP).
L’art. 69 del R.D. 2440/1923 elenca una serie di atti (cessioni, delegazioni, costituzione di pegno, pignoramenti, sequestri,
opposizioni)
che,
qualora
siano
notificati
all’amministrazione prima che sia ordinato il pagamento, possono impedire il pagamento della spesa in maniera assoluta o relativa, a favore del creditore.
Una particolare forma di sospensione del pagamento è il fermo
amministrativo
in
base
a
cui
qualsiasi
amministrazione dello Stato che vanti, a qualsiasi titolo, una ragione di credito verso i creditori dello Stato ha facoltà di chiedere la sospensione del pagamento e questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo (art. 69, ultimo comma R.D. 2440/1923). Si tratta di una forma di autotutela privilegiata,
di
compensazione
carattere legale
tra
cautelare, crediti
e
preordinata debiti
delle
alla varie
amministrazioni dello Stato; tale autotutela non è però utilizzabile da altre amministrazioni pubbliche diverse da quelle statali e ha carattere provvisorio. Per i pagamenti, a qualunque titolo, di importo superiore a 5.000 euro, l’art. 48-bis del D.P.R. n. 602/1973 (come modificato
dalla
L.
205/2017)
dispone
che
le
Amministrazioni Pubbliche e le società a prevalente partecipazione pubblica verifichino se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento. In caso affermativo, il soggetto pubblico non procede al pagamento e segnala la circostanza all’agenzia della riscossione competente per territorio.
3.3 La gestione di tesoreria Le operazioni pratiche di incasso e di pagamento per conto dello Stato sono svolte dalla Banca d’Italia che svolge dunque il ruolo di cassiere dello Stato. Tale delicato servizio è regolato da una Convenzione fra Ministero dell’Economia e Banca d’Italia che è stata rinnovata tacitamente fino al 2030. Ma il complesso dell’attività finanziaria dello Stato non si esaurisce con la gestione del bilancio: esso si proietta in una serie di attività collegate (la cosiddetta gestione di tesoreria) in cui
rientrano
soprattutto
le
operazioni
necessarie
a
fronteggiare momentanei squilibri di cassa tra incassi e pagamenti imputabili al bilancio. Essenziale, a tal proposito, è stato l’intervento dell’art. 44 della L. 196/2009 che, per la prima volta, ha fornito la definizione del saldo di cassa del settore statale, come risultato del consolidamento dei flussi di cassa del bilancio dello Stato con quelli generati dalla tesoreria del settore statale ed esprime quindi il fabbisogno da finanziare attraverso emissioni di titoli di Stato ed altri strumenti a “breve termine”. Il comma 2 fornisce invece la definizione del saldo di cassa delle amministrazioni pubbliche, che risulta dal consolidamento dei flussi di cassa dei diversi sottosettori. Si ricordi, a tal proposito, che nella seconda sezione del disegno di legge di bilancio è stabilito annualmente, per ogni anno del triennio di riferimento, in relazione alla indicazione
del fabbisogno del settore statale, l’importo massimo di emissione di titoli dello Stato, in Italia e all’estero, al netto di quelli da rimborsare (art. 21, comma 11-ter).
La tesoreria unica Presso la Tesoreria, oltre a quello dello Stato, sono inoltre aperti conti correnti e contabilità speciali delle diverse amministrazioni pubbliche non statali. Con la L. 720/1984, infatti, sono stati accentrati nella Tesoreria le giacenze di cassa degli enti pubblici (cosiddetto sistema di Tesoreria unica) e si è disposto l’obbligo per i soggetti pubblici di mantenere le proprie disponibilità liquide (eccedenze di cassa) in contabilità speciali o conti correnti infruttiferi presso le sezioni di tesoreria dello Stato. In particolare, la L. 720/1984 ha individuato due gruppi: ciascuno degli enti del primo gruppo (elencato nella Tabella A allegata alla L. 720/1984) si avvale (per lo svolgimento del servizio di cassa vero e proprio) di una banca che ha l’obbligo di accendere presso la Banca d’Italia dei conti speciali: tali conti sono infruttiferi, se su di essi sono versati i trasferimenti statali, o fruttiferi se in essi confluiscono le entrate proprie dell’ente. Tali entrate sono utilizzate prioritariamente per i pagamenti; gli enti del secondo gruppo (compresi nella Tabella B allegata alla L. 720/1984) non possono detenere presso il proprio tesoriere disponibilità liquide superiori al 3 per cento del complesso delle entrate di competenza e le eventuali eccedenze sono versate presso la Tesoreria dello Stato su
appositi conti: fruttiferi (se in esso confluiscono le entrate tributarie ed extratributarie degli enti) o infruttiferi (in cui confluiscono
tutte
le
altre
entrate,
comprese
quelle
provenienti da mutui); anche in questo caso i pagamenti sono effettuati in via prioritaria a valere sulle contabilità fruttifere. Con il D.Lgs. 7 agosto 1997 n. 279 (art. 7) i vincoli della Tesoreria unica erano stati attenuati mantenendoli solamente per i fondi di provenienza direttamente o indirettamente dal bilancio dello Stato (sistema di tesoreria unica mista) e si era previsto il graduale superamento del sistema per Regioni ed enti locali, sulla base dell’ampiezza demografica dell’ente. Per
tutelare
“l’unità
economica
della
Repubblica
e
il
coordinamento della finanza pubblica”, l’art. 35, commi 8 e 9, D.L. n. 1/2012 ha tuttavia sospeso, fino al 31 dicembre 2021, il regime di tesoreria mista, con ritorno a quello della L. n. 720/1984, con l’obbligo di versamento in due tranches delle disponibilità liquide esigibili sulle rispettive contabilità speciali, sotto conto fruttifero, aperte presso la tesoreria statale. L’art. 45 della L. 196/2009 ha fatto salve le disposizioni della L. 720/1984 in materia di tesoreria unica.
3.4 I residui La formazione del bilancio secondo il principio della competenza finanziaria, a causa dell’inevitabile sfalsamento tra la fase iniziale (accertamento o impegno) e quella in cui la spesa entra o esce materialmente dal bilancio (versamento e pagamento) comporta che ogni anno, al 31 dicembre (termine dell’esercizio finanziario) alcune entrate accertate non siano state riscosse e alcune spese impegnate non siano state pagate. Si determinano in tal modo i cosiddetti residui, che possono essere distinti in: residui attivi, che corrispondono a entrate accertate ma non ancora riscosse o versate; essi rappresentano dei crediti vantati dallo Stato e vengono classificati, in funzione della loro esigibilità, in: residui la cui riscossione può considerarsi certa; residui connessi a dilazioni di pagamento concesse ai debitori; residui
incerti
in
quanto
giudizialmente
controversi; residui riconosciuti di dubbia e difficile esazione; residui riconosciuti assolutamente inesigibili e che, con decreto ministeriale, vengono eliminati dalle scritture contabili;
residui passivi, che sono espressione di spese già impegnate e non ancora ordinate, ovvero ordinate ma non ancora pagate; in altri termini, essi rappresentano debiti dell’azienda statale nei confronti di terze economie, ovvero possono riferirsi sia a spese deliberate, ma di fatto non ancora impegnate (cd. residui per impegni latenti), sia a spese previste in bilancio in relazione alle quali non si è ancora
avuto
l’accertamento
(cd.
residui
per
stanziamento). I residui sono accertati al momento della chiusura dell’anno finanziario ed iscritti nel rendiconto generale e di qui riportati nella contabilità del successivo esercizio (ed iscritti in un apposito conto, il conto dei residui) e mantenuti nella contabilità degli esercizi successivi fino a quando non siano effettuate le relative operazioni di incasso o pagamento oppure siano eliminati per perenzione amministrativa. La perenzione amministrativa è un istituto tipico della contabilità pubblica, in virtù del quale le somme stanziate e non utilizzate, una volta divenute residui, possono permanere in bilancio soltanto per un periodo di tempo determinato, decorso il quale vengono eliminate dalle scritture in bilancio per essere eventualmente reiscritte in esse dietro richiesta del creditore che agisce nei termini di prescrizione del relativo diritto. Tale istituto risponde essenzialmente a finalità di natura pratica, individuate nell’esigenza di semplificare le scritture contabili ed eliminare le partite passive relative ad esercizi
trascorsi. Essa non estingue il diritto del creditore che potrà chiederne il soddisfacimento entro i termini previsti dalla prescrizione estintiva civilistica ai sensi dell’art. 2934 del codice civile.
In particolare: i residui attivi sono mantenuti in bilancio fino a quando non vengono riconosciuti di dubbia o difficile esazione (in tal caso passano al patrimonio dello Stato e sono iscritti nei registri contabili del demanio) ovvero assolutamente inesigibili (in questo caso sono eliminati dalle scritture contabili con decreto ministeriale registrato dalla Corte dei conti, ai sensi dell’art. 265 R. D. 827/1924); per i residui passivi la disciplina è stata modificata prima dal D.Lgs. 93/2016 e poi dal D.Lgs. 29/2018 e, ora, gli stanziamenti di parte corrente non impegnati alla chiusura dell’esercizio costituiscono economie di bilancio (salvo eccezioni). L’art. 34-bis comma 2 della L. 196/2009 dispone un termine di conservazione biennale dei residui propri di parte corrente con l’eccezione rappresentata dai residui relativi alle
spese
destinate
ai
trasferimenti
correnti
alle
amministrazioni pubbliche per i quali il termine di conservazione è differito a tre anni. Per quanto riguarda la disciplina della conservazione degli stanziamenti di bilancio delle spese in conto capitale, le somme
stanziate
e
non
impegnate
alla
chiusura
dell’esercizio possono essere mantenute in bilancio, quali
residui impropri, non oltre l’esercizio successivo a quello di iscrizione in bilancio. Il periodo di conservazione è protratto di un ulteriore anno per le somme stanziate in bilancio in forza di leggi di spesa entrate in vigore nell’ultimo quadrimestre dell’esercizio precedente. Per gli stanziamenti derivanti da autorizzazioni di spesa pluriennali non aventi carattere permanente e non impegnati alla chiusura dell’esercizio, l’amministrazione ha facoltà di conservare tali somme non come residui di stanziamento ma come risorse da reiscrivere con la legge di bilancio nelle competenze degli esercizi successivi (grazie al piano finanziario dei pagamenti di cui al comma 2 dell’articolo 30). Per i residui propri attinenti le spese in conto capitale è fissato a tre anni (art. 34-bis, comma 4) il termine di conservazione in bilancio, termine oltre il quale i residui si intendono perenti agli effetti amministrativi. I residui generati da leggi relative a contributi pluriennali possono essere utilizzati a favore di altri soggetti, ferme restando le finalità per le quali le risorse sono state originariamente iscritte in bilancio (nuova possibilità prevista dall’art. 34bis, comma 5).
La disciplina relativa al decreto di riaccertamento dei residui, dopo l’abrogazione dell’art. 53 del R.D. 2440/1923, è ora
dettata
dall’art.
34-ter.
Al
termine
dell’esercizio
finanziario, per ogni unità elementare di bilancio, con decreto ministeriale da registrarsi alla Corte dei conti, è determinata la somma da conservarsi in conto residui per impegni riferibili
all’esercizio scaduto: le amministrazioni competenti verificano la sussistenza delle ragioni del mantenimento in bilancio dei residui provenienti dagli anni precedenti a quello di consuntivazione e comunicano ai competenti Uffici centrali di bilancio le somme da conservare e quelle da eliminare per economia e per perenzione amministrativa. Gli uffici di controllo, dal canto loro, verificano le somme da conservarsi nel conto dei residui per impegni riferibili all’esercizio scaduto e quelle da eliminare al fine della predisposizione, a cura dell’amministrazione, del decreto di riaccertamento dei residui.
3.5 Variazioni del bilancio e ricorso ai fondi di riserva Per far fronte ad esigenze sopravvenute o non esattamente quantificate al momento dell’approvazione del bilancio di previsione, la legislazione contabile ha sin dall’origine previsto idonei strumenti di variazione. Oltre alle variazioni legislative (disposte con il disegno di legge di assestamento del bilancio dello Stato), le norme hanno dunque previsto che, in casi ben definiti e delimitati, si possa far luogo a variazioni amministrative degli stanziamenti di bilancio con modalità varie a seconda del tipo e della natura della spesa. Innanzitutto, è sempre possibile riassegnare somme da un capitolo all’altro della stessa Unità di voto mediante un
decreto
del
Ministro
competente;
l’autorizzazione
parlamentare, infatti, ha avuto ad oggetto non le singole unità elementari di bilancio ma l’Unità di voto; il principio di gerarchia delle fonti, secondo cui una legge (quale è il bilancio approvato dal Parlamento) non può essere modificata da un atto amministrativo, è rispettato. Altre variazioni possono avvenire mediante prelevamento delle somme occorrenti da appositi fondi di copertura (c.d. fondi di riserva) già inseriti in bilancio ed autorizzati dal Parlamento.
Ai sensi dell’art. 26 L. 196/2009, è possibile effettuare prelievi dal fondo di riserva per le spese obbligatorie; tale fondo di riserva è istituito fra le spese di parte corrente del Ministero dell’economia e il suo importo è determinato con apposito articolo della legge di bilancio. Le somme necessarie per aumentare gli stanziamenti di spesa aventi carattere obbligatorio sono trasferite da tale fondo ed iscritte in aumento delle dotazioni sia di competenza sia di cassa delle competenti unità elementari di bilancio con decreto del Ministro dell’economia, da registrare alla Corte dei conti. Altro fondo cui è possibile attingere è il fondo di riserva delle spese impreviste, finalizzato a coprire eventuali mancanze negli stanziamenti connessi ad eventi imprevedibili e che non impegnino i bilanci futuri con carattere di continuità (articolo 28 L. 196/2009); anche il trasferimento delle somme di questo fondo e la corrispondente iscrizione alle unità elementari di bilancio ha luogo con decreto del Ministro dell’economia. L’art. 29 della L. 196/2009 disciplina poi i prelievi dal fondo
di
riserva
per
l’integrazione
delle
autorizzazioni di cassa. Anche in questo caso, l’ammontare del fondo è determinato annualmente con la legge di bilancio; con decreto del Ministero dell’economia, da comunicare alla Corte dei conti e compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica, è quindi possibile trasferire le somme necessarie per sopperire ad eventuali deficienze delle dotazioni delle unità elementari di bilancio iscritte negli stati di previsione delle amministrazioni statali.
Non rientrano fra le spese impreviste quelle per la copertura di provvedimenti legislativi da approvare nel corso dell’anno. L’art. 18 della L. 196/2009, infatti, dispone ogni anno che la legge di bilancio (prima sezione) preveda gli importi dei fondi speciali destinati alla copertura finanziaria di provvedimenti legislativi che si prevede siano approvati nel corso degli esercizi finanziari compresi nel bilancio pluriennale ed in particolare di quelli correlati al perseguimento degli obiettivi indicati. Tali somme sono iscritte in apposite tabelle allegate alla Legge di bilancio (una di parte corrente e una in conto capitale) e non possono essere utilizzate per destinazioni diverse da quelle previste nelle relative tabelle per la copertura finanziaria di provvedimenti adottati in casi straordinari di necessità e d’urgenza (articolo 77, secondo comma, della Costituzione), salvo che essi riguardino spese di primo intervento per fronteggiare calamità naturali o improrogabili esigenze connesse alla tutela della sicurezza del Paese o situazioni di emergenza economico-finanziaria.
A seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 90/2016, l’art. 33 della legge di contabilità prevede ora maggiori ambiti di flessibilità anche nella fase gestionale: la possibilità di variare le dotazioni finanziarie interne a ciascun programma e limitatamente alle sole spese di fabbisogno con decreto del Ministro dell’economia, è stata infatti estesa a tutte le tipologie di spese, ad eccezione di quelle predeterminate per legge.
Più in particolare, i commi da 4 a 4-sexies dell’articolo 33, consentono: – variazioni compensative tra le dotazioni finanziarie di ciascun programma nell’ambito di uno stesso stato di previsione da parte del Ministro competente, con proprio decreto da comunicare alla Corte dei conti, per motivate esigenze, previa verifica del Ministero dell’economia, con esclusione delle spese predeterminate per legge. Resta precluso l’utilizzo degli stanziamenti di spesa in conto capitale per finanziare spese correnti (comma 4 dell’art. 33). Con l’unica eccezione delle spese da fattore legislativo, le rimodulazioni consentite dalla norma in esame con decreto del Ministro competente possono riguardare pertanto seppure nell’ambito di ciascun programma del proprio stato di previsione - tutte le tipologie di spese, comprese, dunque, quelle qualificate come oneri inderogabili secondo la nuova formulazione del comma 5 dell’articolo 21; – variazioni compensative nell’ambito degli stanziamenti di spesa di ciascuna azione, con decreti direttoriali previa verifica del Ministero dell’economia, con esclusione delle spese predeterminate per legge. Anche in questo caso è ribadito il divieto di utilizzo degli stanziamenti di spesa in conto capitale per finanziare spese correnti (comma 4-bis dell’art. 33); – variazioni compensative nell’ambito di ciascuno stato di previsione tra gli stanziamenti di bilancio iscritti nella Categoria 2 “Consumi intermedi” e quelli iscritti nella
Categoria 21 “Investimenti fissi lordi”, da parte del Ministro
dell’economia
su
proposta
del
Ministro
competente, con esclusione degli stanziamenti riguardanti le spese predeterminate per legge e fermo restando il divieto di utilizzo degli stanziamenti di spesa in conto capitale per finanziare spese correnti (comma 4-ter dell’art. 33); – variazioni compensative di sola cassa, tra capitoli di uno stesso stato di previsione, con decreto del Ministro competente, fatta eccezione per i pagamenti effettuati mediante l’emissione di ruoli di spesa fissa, previa verifica da parte del Ministero dell’economia, della compatibilità delle medesime con gli obiettivi programmati di finanza pubblica (comma 4-quinquies dell’art. 33); –variazioni di bilancio in termini di residui, competenza e cassa necessarie alla ripartizione, anche tra amministrazioni diverse, dei Fondi istituiti per legge in ciascuno stato di previsione della spesa, da operare con decreti del Ministro dell’economia (comma 4-sexies dell’art. 33).
Capitolo 4 Il rendiconto generale dello Stato 4.1 Le funzioni Il rendiconto generale dello Stato è un bilancio di carattere consuntivo che riassume i risultati dell’esercizio scaduto il 31 dicembre dell’anno precedente, e viene detto “generale” per distinguerlo dai rendiconti relativi a specifiche operazioni, denominati, invece, “speciali”. La predisposizione del rendiconto generale dello Stato costituisce innanzitutto un obbligo costituzionale: l’art. 81, comma 4 dispone che “le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo”. Per comprendere perché la Carta costituzionale ne imponga la predisposizione (da parte dell’esecutivo) e la successiva approvazione (da parte delle Camere) occorre considerare che, mentre il bilancio previsionale rappresenta un documento programmatico riferito alla gestione dell’esercizio finanziario che sta per iniziare, il rendiconto è relativo alla verifica successiva di tale gestione, realizzata attraverso l’analisi delle operazioni effettivamente poste in essere. Il rendiconto svolge dunque una doppia funzione:
una funzione di controllo politico, poiché con l’approvazione del rendiconto il Parlamento valuta la conformità dell’azione del Governo agli indirizzi di politica economica
ed
al
programma
di
governo
della
maggioranza; una
funzione
l’approvazione
di
controllo
parlamentare
giuridico,
sancisce
che
poiché l’azione
dell’Esecutivo è stata condotta nel rispetto dei limiti imposti dalla legge di approvazione del bilancio di previsione.
4.2 Struttura Al dettato costituzionale dà attuazione la L. 196/2009 che a questo documento contabile dedica gli artt. dal 35 al 38 secondo
cui
il
rendiconto
è
presentato
dal
Ministro
dell’Economia al Parlamento entro il mese di giugno (art. 35, L. 196/2009) e si articola in due documenti fondamentali (art. 36), rappresentati dal Conto del bilancio e dal Conto generale del patrimonio (art. 36, co. 2-4), nonché da alcuni allegati recanti: una nota integrativa per ciascuna amministrazione. Per le entrate, la nota integrativa espone le risultanze della gestione; per la spesa, è articolata per missioni e programmi in coerenza con le indicazioni contenute nella nota integrativa al bilancio di previsione. La nota integrativa al rendiconto per ciascun programma di spesa, con riferimento alle azioni sottostanti, illustra i risultati finanziari per categorie economiche di spesa, motivando gli eventuali scostamenti tra le previsioni iniziali di spesa e quelle finali indicate nel rendiconto generale dello Stato tenuto conto dei principali fatti di gestione intervenuti nel corso dell’esercizio. Essa contiene inoltre l’analisi e la valutazione del grado di realizzazione degli obiettivi indicati nella nota integrativa al bilancio di previsione, in coerenza con il relativo schema e i relativi indicatori,
motivando gli eventuali scostamenti rispetto a quanto previsto, anche tenuto conto dell’evoluzione del quadro socio economico e delle eventuali criticità riscontrate (art. 35, comma 2); le risultanze economiche per ciascun Ministero; i costi sostenuti sono rappresentati secondo le voci del piano dei conti, distinti per programma e per centri di costi (art. 36, comma 5); l’illustrazione delle risultanze delle spese relative ai programmi aventi natura o contenuti ambientali, allo scopo di evidenziare le risorse impiegate per finalità di protezione dell’ambiente, riguardanti attività di tutela, conservazione, ripristino e utilizzo sostenibile delle risorse e del patrimonio naturale.
4.2.1 Il Conto del bilancio In via generale, il Conto del bilancio espone le risultanze delle entrate e delle spese con riferimento alla gestione finanziaria. Per il principio della corrispondenza tra bilancio di previsione e bilancio consuntivo, unitamente alla necessità di conseguire un’attenta ricognizione ex post dell’attività svolta, il Conto del bilancio indica le predette risultanze secondo la stessa natura e la medesima struttura del bilancio annuale di previsione. Ai sensi dell’art. 36 della L. 196/2009, il Conto del bilancio, in
relazione
comprendere:
alla
classificazione
del
bilancio,
deve
le entrate di competenza dell’anno, accertate, versate e rimaste da versare; le spese di competenza dell’anno, impegnate, pagate o rimaste da pagare; la gestione dei residui attivi e passivi degli esercizi anteriori; le somme versate in tesoreria e quelle pagate per ciascuna unità elementare del bilancio distintamente in conto competenza e in conto residui; il conto totale dei residui attivi e passivi che si tramandano all’esercizio successivo.
4.2.2 Il Conto generale del patrimonio Il Conto generale del patrimonio illustra la composizione delle poste patrimoniali e delle variazioni determinatesi nella consistenza del patrimonio a seguito della gestione finanziaria; la struttura del conto generale del patrimonio evidenzia, altresì, i punti di concordanza tra la contabilità del bilancio e quella patrimoniale. Ai sensi del citato art. 36, il Conto generale comprende: le attività e le passività finanziarie e patrimoniali con le variazioni derivanti dalla gestione del bilancio e quelle verificatesi per qualsiasi altra causa; la dimostrazione dei vari punti di concordanza tra la contabilità del bilancio e quella patrimoniale. Il Conto generale del patrimonio è inoltre corredato del conto del dare ed avere relativo al servizio di Tesoreria statale,
con allegati il movimento generale di cassa e la situazione del Tesoro e la situazione dei debiti e crediti di tesoreria (art. 36, comma 4).
4.3 Il giudizio di parificazione e l’approvazione parlamentare Al termine dell’anno finanziario ogni Ministero, a cura del direttore del competente Ufficio centrale del bilancio, compila il conto del bilancio ed il conto del patrimonio relativi alla propria Amministrazione (art. 37 della L. 196/2009). Detti conti sono quindi trasmessi al Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato entro il 30 aprile successivo alla conclusione dell’anno finanziario. Entro il mese di maggio, il Ministro dell’economia, attraverso il Ragioniere generale dello Stato, invia alla Corte dei conti il rendiconto generale dell’esercizio scaduto ai fini della prescritta parificazione (art. 37 della L. 196/2009 che dà così attuazione a quanto previsto dall’art. 100, comma 2 Cost.); la Carta costituzionale, infatti, assegna alla magistratura contabile il compito di esercitare il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e tale controllo ha per oggetto appunto il rendiconto generale dello Stato relativo all’esercizio finanziario dell’anno precedente. Oggetto dell’attività di parificazione è la verifica della
legittimità
e
finanziario-contabile:
regolarità la
Corte
dei
della conti
gestione verifica
il
rendiconto generale e ne confronta i risultati, ponendoli a riscontro con il bilancio di previsione e il suo assestamento.
Il documento adottato dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti si compone di due parti: la deliberazione e la relazione. La deliberazione attesta la corrispondenza tra i dati contenuti nel rendiconto generale dello Stato e quelli del correlato bilancio di previsione, valutando le ragioni di eventuali scostamenti; essa si conclude con una vera e propria deliberazione, che prende il nome di parificazione del rendiconto generale dello Stato, emessa dalla Corte dei conti a Sezioni Riunite con le formalità della sua giurisdizione contenziosa, ai sensi dell’art. 40 R.D. 1214/1934 (T.U. delle leggi sulla Corte dei conti). La Corte, in dettaglio, verifica se le entrate riscosse e versate ed i resti da riscuotere e da versare risultanti dal rendiconto siano conformi ai dati esposti nei conti periodici e nei riassunti generali trasmessi alla Corte stessa dai singoli Ministeri; verifica se le spese ordinate e pagate durante l’esercizio concordino con le scritture tenute o controllate dalla Corte; accerta i residui passivi in base alle dimostrazioni allegate ai Decreti Ministeriali di impegno ed alle proprie scritture. La Corte, inoltre, verifica i rendiconti delle aziende, gestioni ed Amministrazioni statali con ordinamento autonomo soggette al suo riscontro. Poiché il giudizio di parificazione si svolge con le formalità della propria giurisdizione contenziosa (ovvero, con la partecipazione del Procuratore generale, in contraddittorio con i rappresentanti dell’amministrazione) e si conclude con una pronunzia adottata in esito a pubblica udienza, la Corte dei conti è legittimata a sollevare questione di legittimità
costituzionale nel corso del giudizio annuale sul rendiconto generale dello Stato (Corte Cost., 13 giugno 1995, n. 244).
Alla pronuncia di parificazione del rendiconto generale dello Stato (che deve essere adottata entro il mese di giugno ed è definitiva e insindacabile) è unita una Relazione annuale che riporta, tra l’altro, le osservazioni della Corte sul modo con il quale le varie amministrazioni si sono conformate alle discipline di ordine amministrativo e finanziario e le modifiche opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione e sui conti del pubblico denaro (art. 41 T.U. del 1934). La deliberazione di parificazione e la Relazione annuale della Corte sono presentate al Parlamento mentre il rendiconto e i relativi allegati, corredati della deliberazione e della Relazione, sono restituiti al Ministro dell’economia (art. 38 L. 196/2009). Entro il mese di giugno, il Ministero dell’economia, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e con l’autorizzazione del Presidente della Repubblica, presenta al Parlamento il disegno di legge per l’approvazione del rendiconto generale; il disegno di legge viene discusso secondo le ordinarie procedure e l’esame parlamentare si conclude con il voto sulla legge di approvazione.
Capitolo 5 La responsabilità amministrativa e contabile 5.1 La responsabilità in genere I lavoratori delle amministrazioni pubbliche rispondono del loro operato non soltanto sul piano penale e disciplinare, ma anche sul piano civile o patrimoniale, in quanto obbligati a risarcire i danni da essi causati all’amministrazione o ai terzi. Tale forma di responsabilità, che secondo la terminologia adottata dalla Corte dei conti viene definita responsabilità patrimoniale, assume aspetti diversi a seconda dei soggetti cui si riferisce, delle norme violate e del tipo di danno cagionato. Essi sono: la responsabilità civile verso i terzi; la responsabilità amministrativa; la responsabilità contabile. Il fondamento giuridico va trovato nell’art. 28 Cost. (che ha sancito la responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti e l’estensione di tale responsabilità allo stesso Stato e agli enti pubblici) e nell’art. 55 del D.Lgs. 165/2001 (norme sul pubblico impiego) che, nel regolare la
materia delle sanzioni disciplinari dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, fa innanzitutto salva la «disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile».
5.2 La responsabilità civile Per responsabilità civile si intende la conseguenza dell’atteggiamento commissivo od omissivo di una persona che, intenzionalmente o colposamente, viola norme cogenti poste a tutela di interessi di rilevanza privatistica, che nel caso concreto sono riferite ad un singolo o ad oggetti determinati; l’istituto trova fondamento in una molteplicità di norme, ma in particolare nel codice civile, e possono essere distinte in due grandi gruppi, di cui agli artt. 1218 ss. c.c. (responsabilità da inadempimento contrattuale) e agli artt. 2043 ss. c.c. (responsabilità residuale, cd. extracontrattuale da fatto illecito). Norma cardine della responsabilità civile verso terzi è costituita dall’art. 28 della Costituzione (“I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”) che è stato recepito nell’ordinamento degli impiegati civili dagli artt. 22 e 23 del T.U. 10 gennaio 1957 n. 3, che disciplinano l’esposizione diretta dei dipendenti pubblici. La responsabilità civile può essere distinta in: responsabilità contrattuale, quando l’obbligo di risarcimento del danno deriva dalla violazione di un
obbligo derivante da preesistente rapporto obbligatorio; responsabilità precontrattuale, che scaturisce dalla violazione del dovere di buona fede nelle trattative negoziali; responsabilità
extracontrattuale,
quando
un
soggetto, in violazione del principio del neminem laedere, provoca a terzi un danno ingiusto.
5.3 La responsabilità amministrativa Per
responsabilità
amministrativa
si
intende
la
responsabilità a contenuto patrimoniale di amministratori o dipendenti pubblici per i danni causati all’ente di appartenenza nell’ambito o in occasione del rapporto d’ufficio. L’art. 18 del D.P.R. 3/1957 (Testo Unico degli impiegati civili
dello
Stato)
prevede
che
“l’impiegato
delle
amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo è tenuto a risarcire alle amministrazioni stesse i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio”. Tale principio (nel
D.P.R.
3/1957
limitato
ai
soli
dipendenti
delle
amministrazioni statali) è stato esteso agli altri ordinamenti contabili dalle rispettive normative (art. 71 D.Lgs. 118/2011 per le Regioni; art. 93 D.Lgs. 267/2000 per gli amministratori e il personale degli enti locali; art. 8 L. 70/1975 per gli enti del parastato, ecc.). Elementi costituivi della responsabilità amministrativa sono: l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave); l’elemento oggettivo (condotta antigiuridica, danno patrimoniale alla P.A., nesso di causalità fra l’evento dannoso e la condotta antigiuridica).
Presupposto necessario, infine, è l’esistenza di un rapporto di servizio fra l’autore del danno e l’ente pubblico. Esaminiamo dunque i singoli elementi. A seguito della riforma operata dalla L. 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), i caratteri della responsabilità amministrativa possono essere così sintetizzati: la responsabilità è personale e si estende agli eredi nei soli casi di illecito arricchimento del dante causa e di indebito arricchimento degli eredi (art. 1, comma 1); parziarietà, poiché in caso di fatto dannoso causato da più persone, ciascuno è condannato per la parte che vi ha preso; in tali casi rispondono solidalmente i soli concorrenti
che
abbiano
conseguito
un
illecito
arricchimento o abbiano agito con dolo (art. 1, comma 1quinquies, L. 20/1994). Gli
elementi
costitutivi
della
responsabilità
amministrativa non differiscono da quelli della comune responsabilità presenza
civile,
del
comportamento
con
l’aggiunta
rapporto lesivo
dei
della
di
servizio.
doveri
d’ufficio
necessaria Oltre
al
tenuto
dal
lavoratore, dunque, gli elementi costitutivi sono: il danno, o lesione di un interesse patrimoniale economicamente valutabile, che deve essere effettivo ed attuale e, oltre a comprendere il danno emergente (cioè la diminuzione patrimoniale subita dalla P.A.), si estende al lucro cessante (vale a dire agli incrementi patrimoniali
non conseguiti a causa del fatto dannoso). Il danno rilevante
ai
fini
dell’azione
di
responsabilità
amministrativo-contabile deve essere: certo (il depauperamento patrimoniale deve essersi prodotto); attuale
(deve
sussistere
sia
all’atto
della
proposizione della domanda che al momento della decisione); effettivo (il pregiudizio patrimoniale, pur se non definitivo, non deve essere meramente ipotetico). Negli ultimi anni, la magistratura contabile ha sempre più spesso sanzionato anche i comportamenti di coloro che recano un danno all’immagine dell’amministrazione presso cui lavorano. Si tratta principalmente dei casi di corruzione o reati analoghi, situazioni nelle quali oltre al danno diretto al servizio si colpisce il prestigio della P.A. In materia di risarcimento del danno all’immagine la L. 190/2012 ha disposto che, nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della P.A. si presuma, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente;
il
dolo
o
la
colpa
(elemento
soggettivo
della
responsabilità). L’art. 1, comma 1 della L. 20/1994 limita esplicitamente la responsabilità amministrativa “ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave”:
il
dolo
consiste
comportamento
nella
produttivo
intenzionalità dell’evento
del
lesivo;
presuppone cioè la volontà cosciente dell’agente di provocare
con
il
suo
comportamento
un
determinato evento; dopo il D.L. 76/2020 (art. 21), la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso; la colpa, in generale, è invece riferita ad un atteggiamento volontario antidoveroso o negligente che
prescinde
dalla
intenzionalità
delle
conseguenze dannose. Come detto, nel caso della responsabilità
amministrativa
l’elemento
psicologico rileva solo nei casi di colpa grave: occorre cioè che al soggetto agente sia imputabile un comportamento di negligenza particolarmente accentuato, non conforme alla diligenza media. La gravità della colpa è esclusa (e quindi i fatti o le omissioni commesse non sono soggette ad azione di
responsabilità)
se
il
danno
trae
origine
dall’emanazione di un atto vistato o registrato in sede di controllo preventivo di legittimità. È in ogni caso esclusa la sindacabilità nel merito delle scelte discrezionali (art. 1, comma 1, L. 20/1994); il rapporto di servizio, che deve essere inteso in senso lato: esso è ravvisabile tutte le volte che «un soggetto privato
si
inserisca
funzionalmente,
anche
temporaneamente, nell’organizzazione della P.A. quale organo tecnico e straordinario, in modo da aversi un
inserimento o una sostituzione in un’attività di interesse pubblico, ancorché in nome proprio, ma in vece e per conto di un’amministrazione, indipendentemente dalla natura giuridica dell’atto di affidamento (provvedimento, convenzione o contratto) e dal tipo di rapporto funzionale (codipendenza,
delegazione
intersoggettiva)
o
professionale» (Santoro).
Il rapporto può perciò essere di tipo organico (rapporto d’impiego), onorario (esercizio di funzioni pubbliche), professionale
comportante
esercizio
di
prerogative
pubbliche (incarichi); il nesso di causalità, diretto ed immediato, tra le conseguenze dannose ed il comportamento illecito o poco diligente del pubblico impiegato che le ha provocate.
5.4 La responsabilità contabile e il giudizio di conto Una
particolare
amministrativa
è
tipologia costituita
di
responsabilità
dalla
responsabilità
contabile: essa grava su coloro che hanno gestione di fondi pubblici ed è dunque limitata ai soggetti che hanno “maneggio di pubblico denaro” e sono tenuti a renderne il conto, vale a dire gli agenti contabili che l’art. 74 della L. 2440/1923 definisce come “agenti incaricati della riscossione delle entrate e dell’esecuzione dei pagamenti delle spese, o che ricavano somme dovute allo Stato e altre delle quali lo Stato diventa debitore, o hanno maneggio qualsiasi di denaro ovvero debito di materia, nonché coloro che si ingeriscono negli incarichi attribuiti ai detti agenti”. Quanto ad elementi costitutivi, la responsabilità contabile si modella dunque sullo stesso paradigma che connota la responsabilità amministrativa ma se ne differenzia per la peculiare caratterizzazione dell’elemento soggettivo (gli “agenti contabili”). Pertanto, mentre la responsabilità amministrativa tutela la pubblica amministrazione per eventuali danni arrecati da soggetti cui è demandata la gestione di risorse pubbliche, la responsabilità contabile è circoscritta ai soli soggetti che hanno, legalmente o di fatto, avuto in consegna denaro, beni o altri valori pubblici.
Gli agenti contabili, così come i titolari di gestioni di tesoreria, hanno l’obbligo di rendere il conto giudiziale all’amministrazione da cui dipendono. Il giudizio di conto è appunto la speciale verifica di regolarità cui è sottoposto il conto giudiziale dell’agente contabile. Ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. 123/2011, entro i due mesi successivi alla chiusura dell’esercizio finanziario di riferimento e comunque alla data della cessazione della gestione, gli agenti incaricati della riscossione delle entrate e dell’esecuzione dei pagamenti delle spese, o che ricevono somme dovute allo Stato e altre delle quali lo Stato diventa debitore, o hanno maneggio qualsiasi di denaro ovvero debito di materie, nonché coloro che si ingeriscono negli incarichi attribuiti ai detti agenti, devono rendere il conto della propria gestione alle amministrazioni centrali o periferiche dalle quali dipendono, ovvero dalla cui amministrazione sono vigilati, per il successivo inoltro ai competenti uffici di controllo. Gli uffici di controllo, qualora non abbiano nulla da osservare, appongono sui singoli conti il visto di regolarità amministrativo-contabile e li trasmettono alla Corte dei conti
entro
i
due
mesi
successivi.
La
Sezione
giurisdizionale competente assegna il conto ad un magistrato relatore che compie gli accertamenti volti a verificare la regolarità del conto e della gestione; al termine dell’istruttoria il magistrato propone al Presidente della sezione o l’approvazione del conto, quando esso è ritenuto regolare, con emanazione del decreto presidenziale di
discarico del contabile o, in caso contrario, l’iscrizione del giudizio al ruolo della Sezione, con fissazione dell’udienza di discussione. Decorsi cinque anni dal deposito del conto senza che sia stata depositata la relazione del magistrato istruttore o siano state elevate contestazioni a carico del contabile, il giudizio si estingue, salva l’eventuale responsabilità amministrativa e contabile (art. 150 D.Lgs. 174/2016. L’art. 21, comma 2 del D.L. 76/2020 interviene in materia di responsabilità amministrativa-contabile e limita, con riguardo ai fatti commessi dal 17 luglio 2020 e fino al 31 luglio 2021, la responsabilità per danno erariale, ai soli casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente sia stata compiuta con dolo. Questa limitazione di responsabilità si applica ai danni cagionati dalle sole condotte attive, mentre nel caso di danni cagionati da omissione o inerzia il soggetto agente continuerà a risponderne sia a titolo di dolo, sia di colpa grave.
5.5 Il giudizio di responsabilità Il giudice competente a conoscere della responsabilità amministrativa e della relativa obbligazione risarcitoria nei confronti dello Stato è la Corte dei conti. La giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica è infatti affidata dalla Costituzione (art. 103, comma 2) alla Corte dei conti. In particolare, essa è chiamata a decidere in merito alle controversie in materia di contabilità pubblica ed in particolare alle azioni di responsabilità amministrativa nei confronti dei pubblici dipendenti e dei pubblici amministratori (giudizio di responsabilità), nonché degli amministratori e funzionari delle società sotto il controllo pubblico, e riguardo al contenzioso pensionistico. L’azione di responsabilità amministrativa è esercitata: dal pubblico ministero contabile, cioè dal Procuratore regionale competente presso le Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti; in
grado
d’appello,
dal
Procuratore
generale
rappresentante il pubblico ministero innanzi alle Sezioni d’appello della Corte dei conti. Il P.M. è l’unico soggetto che può attivare l’azione di responsabilità, non potendo il giudice procedere d’ufficio in assenza di domanda di parte. Se, quindi, il P.M. contabile ritiene che non vi siano i presupposti per l’esercizio dell’azione
di responsabilità, il processo non avrà inizio. Inoltre, le Procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale solo a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge (art. 51 D.Lgs. 174/2016). Il Pubblico ministero contabile promuove il giudizio attraverso un atto di citazione, nel quale deve dimostrare il danno erariale, la condotta dolosa o colposa dell’agente pubblico ed il nesso di causalità. Prima di emettere l’atto di citazione in giudizio, il Procuratore regionale svolge un’attività istruttoria volta alla raccolta delle prove; tale fase preliminare presuppone una “notizia di danno erariale” che può provenire sia da privati cittadini o organi di stampa, sia dalla stessa P.A. o, comunque, da ogni istituzione. Il Procuratore regionale, sempre che non ritenga di dover archiviare la denuncia per mancanza di elementi, svolge un’attività di raccolta delle prove durante la quale (avvalendosi, se necessario, della Guardia di finanza o di altri organi di polizia giudiziaria) può disporre, tra l’altro, l’esibizione di documenti, ispezioni e accertamenti, il sequestro di documentazione e qualsiasi altra attività preordinata alla ricerca delle prove. Solo al termine dell’istruttoria, ove il P.M. ritenga di avere elementi di prova sufficienti per emettere una citazione in giudizio, è tenuto a notificare al presunto responsabile un
atto, chiamato invito a dedurre, disciplinato dall’art. 67 del D.Lgs. 174/2016. Il procuratore contabile, nel caso in cui le deduzioni difensive della controparte non lo convincano a desistere dall’azione di responsabilità, emette l’atto di citazione entro un termine perentorio di centoventi giorni di tempo.
Lo svolgimento del processo è disciplinato dalla Parte II (“Giudizi di responsabilità”), Titolo III (dedicato al “Rito ordinario”) del Codice di giustizia contabile (decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174). Per quanto non disciplinato dal decreto in esame, l’art. 7 comma 2 del D.Lgs. 174/2016 prevede l’applicabilità dei principi generali del codice di procedura civile. È un processo di parti (P.M. attore e convenuto/i) che si svolge innanzi a un giudice terzo e imparziale sulla base dei principi costituzionali che regolano il giusto processo (art. 111 Cost.). Compito del giudice è pronunciarsi, al termine del processo, sulla base della domanda del P.M. (citazione in giudizio), per stabilire se sussistano o meno i presupposti per poter pronunciare una sentenza di condanna al risarcimento del danno nei confronti dei convenuti in giudizio. Il processo, che consta di una fase introduttiva scritta e di una fase orale (udienza dibattimentale), è regolato dal principio del contraddittorio, nel senso che ognuna delle parti può svolgere le proprie difese e produrre i mezzi di prova che ritenga opportuni. Al termine del processo, il giudice emette sentenza sulla base della citazione in giudizio del pubblico ministero
contabile e stabilisce se sussistano o meno i presupposti per la condanna al risarcimento del danno nei confronti del convenuto in giudizio. Ai sensi dell’art. 1 (commi 2 e 3 L. 20/1994), il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta. Una particolarità del giudizio contabile è costituita dal potere riduttivo dell’addebito: esso consiste nel potere della Corte dei conti di ridurre l’entità del risarcimento a carico dei pubblici ufficiali stipendiati in relazione a vari fattori, quali il grado di gravità della colpa e altre circostanze come i precedenti di servizio del dipendente etc. Il potere di riduzione del danno era previsto già dalla legge di contabilità di Stato del 1923 (art. 83 della L. 2440/1923: il giudice contabile valutate le singole responsabilità può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato) ed è stato riconfermato dall’art. 1, comma 1-bis della L. 20/1994 secondo cui, nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata
in
relazione
al
comportamento
degli
amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità.
Contro le sentenze delle Sezioni giurisdizionali regionali è ammesso appello (proponibile dalle parti, dal Procuratore regionale
o
dal
Procuratore
generale)
alle
Sezioni
giurisdizionali centrali. Per soli motivi di giurisdizione, le sentenze della Corte dei conti possono essere impugnate dinanzi alle Sezioni Unite della Cassazione.
Capitolo 6 Il sistema dei controlli 6.1 Definizione di attività di controllo Si può definire il controllo come quell’attività di riesame che un organo esercita sull’attività espletata in precedenza da un altro organo alla stregua di un prefissato parametro di valutazione ed in vista di una possibile misura sanzionatoria. Occorre in primo luogo precisare che i controlli possono differenziarsi in base all’oggetto. Pertanto, si hanno controlli sull’attività, sugli atti e sugli organi. I controlli sull’attività possono essere: interni, se sono esercitati da organi interni allo stesso ente che vi è soggetto; esterni, se li effettua un ente diverso da quello controllato. I controlli sugli atti sono essenzialmente: preventivi: un eventuale esito negativo preclude la produzione dei relativi effetti;
successivi: intervengono quando gli effetti si sono già prodotti; mediante riesame: l’autorità che ha già deliberato è chiamata ad una nuova deliberazione condizionante l’efficacia dell’atto. Per quanto concerne i controlli sugli organi, in relazione a quelli degli enti terri toriali, va ricordato che alla luce della riforma costituzionale realizzata con L. cost. 3/2001, la materia non è più riservata allo Stato: perciò i controlli esterni statali sono compatibili con il nuovo assetto costituzionale solo se limitati alle amministrazioni statali decentrate e non se indirizzati anche agli enti territoriali.
6.2 I controlli interni Il modello tradizionale di attività di controllo nelle pubbliche amministrazioni si è per lungo tempo identificato con un tipo di controllo formale e legalistico, esercitato da organi esterni. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, una serie di riforme (L. 142/1990, Leggi Bassanini, L. 20/1994) ha progressivamente ridotto la tipologia di atti soggetti a valutazione esterna. Contemporaneamente hanno assunto sempre maggiore importanza i controlli interni, effettuati anche da organi diversi, con metodologie ed approcci differenti, ma tutti accomunati
dalla
dell’amministrazione
messa di
a
disposizione
maggiori
nei
informazioni
confronti circa
la
gestione delle risorse pubbliche. Tale processo è culminato nell’emanazione del D.Lgs. 286/1999 recante il riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59. Questi sono i punti principali della riforma operata con il D.Lgs. 286/1999: la distinta individuazione delle attività di competenza delle strutture di controllo interno; l’affidamento di tali attività a strutture diverse.
Più in generale, sono stati ridisegnati contenuti e competenze dei controlli interni, prevedendo un sistema articolato in quattro differenti funzionalità: controllo di regolarità amministrativo-contabile, che deve garantire la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa (su tale tipologia di controllo è poi intervenuto il D.Lgs. 123/2011); controllo di gestione, che deve verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, per consentire ai dirigenti di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati; valutazione dei dirigenti, necessaria, fra l’altro, ad attivare la responsabilità dirigenziale; controllo strategico, un controllo a lungo termine che va sempre necessariamente integrato al controllo di gestione, che è, invece, a breve termine. Circa l’ambito di applicazione, l’art. 1, comma 2 del decreto dispone che la progettazione d’insieme dei controlli interni rispetti i principi generali ora sintetizzati e che tali principi sono: obbligatori per i Ministeri; applicabili alle Regioni sulla base dell’autonomia organizzativa e legislativa, loro
garantita;
derogabili
dalle
altre
amministrazioni
pubbliche, sempreché non sia inficiato il principio di separazione fra indirizzo politico e gestione amministrativa. Gli enti locali e le Camere di commercio hanno facoltà di adeguare le normative regolamentari alle disposizioni del
citato decreto, nel rispetto dei propri ordinamenti generali e delle norme concernenti l’ordinamento finanziario e contabile.
6.2.1 Il controllo di regolarità amministrativa e contabile Il controllo di regolarità amministrativa e contabile deve (art. 1, comma 1 lett. a D.Lgs. 286/1999) garantire la legittimità contabile e amministrativa, al fine di assicurare
la
trasparenza,
la
correttezza
e
la
regolarità dell’azione amministrativa. A seguito del D.Lgs. 30 giugno 2011 n. 123 (attuativo della delega di cui all’art. 49 L. 196/2009), l’art. 2 del D.Lgs. 286/1999 è stato parzialmente modificato. Nel dettare i principi generali del controllo di regolarità amministrativa e contabile, l’art. 2 del D.Lgs. 123/2011 specifica: che esso ha ad oggetto gli atti aventi riflessi finanziari sui bilanci dello Stato, delle altre amministrazioni pubbliche e degli organismi pubblici; che a seguito dell’esito
positivo
del
controllo
preventivo, gli atti divengono efficaci a decorrere dalla data della loro emanazione; non si dimentichi, comunque, che (art. 2, comma 3 del D.Lgs. 286/1999 tuttora vigente) le verifiche preventive sono espressamente limitate ai casi previsti dalla legge ed in ogni caso non possono riguardare valutazioni di merito che spettano all’organo di
controllo strategico per gli atti di indirizzo e all’organo di controllo di gestione per gli atti di gestione; le sue finalità, ossia assicurare la trasparenza, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa, sia in via preventiva, sia in via successiva.
6.2.2 Il controllo di gestione Secondo l’art. 1, comma 1 lett. b) del D.Lgs. 286/1999, tale tipologia di controllo è diretta a verificare l’efficacia (rapporto fra obiettivo e risultato), l’efficienza (rapporto output/input) e l’economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati; infatti, nelle amministrazioni dello Stato, il sistema dei controlli di gestione supporta la funzione dirigenziale e ciascuna amministrazione è chiamata a definire (art. 4, comma 1): l’unità o le unità responsabili della progettazione e della gestione del controllo di gestione; le unità organizzative a livello delle quali si intende misurare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa; le procedure di determinazione degli obiettivi gestionali e dei soggetti responsabili; l’insieme dei prodotti e dei fini dell’azione amministrativa, con riferimento all’intera amministrazione o a singole unità organizzative;
gli indicatori specifici per misurare efficacia, efficienza e economicità; la frequenza di rilevazione delle informazioni (art. 4 D.Lgs. 286/1999). La struttura preposta al controllo di gestione e riceve direttive dal dirigente al quale risponde e riferisce. L’esito del controllo consiste nella redazione di relazioni per segnalare, al suddetto dirigente, gli aspetti critici che si evidenziano nell’unità organizzativa e le conseguenti proposte correttive.
6.2.3 La valutazione della dirigenza L’art. 1, comma 1 lett. c) del D.Lgs. 286/1999, definisce tale tipologia di controllo interno come la valutazione del personale con qualifica dirigenziale sia riguardo le prestazioni (risultati raggiunti) sia con riferimento alle capacità organizzative dei dirigenti, vale a dire delle capacità di sviluppare,
motivare,
collaboratori,
coordinare
valutazioni
predeterminati,
portano
che,
e
valutare
sulla
base
all’erogazione
Proprio al fine di rendere effettivo il principio della responsabilità dirigenziale, l’art. 13 D.Lgs. 150/2009 aveva l’istituzione
valutazione,
la
della
trasparenza
Commissione e
propri
di
fattori
dell’indennità
risultato o alla revoca dell’incarico.
previsto
i
per
l’integrità
la delle
amministrazioni (CIVIT), un organismo autonomo ed indipendente, con il compito di indirizzare, coordinare e sovraintendere alle funzioni da parte degli Organismi
di
indipendenti di valutazione delle performance organizzative (OIV) istituiti in ogni amministrazione. A seguito della legge del 6 novembre 2012 n. 190, l’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) ha preso il posto della CiVIT. In seguito, il D.L. 90/2014, convertito con modificazioni dalla L. 114/2014 ha disposto (art. 19, comma 9) che al fine di concentrare l’attività dell’Autorità nazionale anticorruzione sui compiti di trasparenza e di prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni, le funzioni della predetta Autorità in materia di misurazione e valutazione della performance, di cui agli articoli 7-14 del D.Lgs. 150/2009, siano trasferite al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri.
6.2.4 L’attività di valutazione e controllo strategico L’attività di valutazione e controllo strategico (art. 1, comma 1, lett. dD.Lgs. 286/1999) mira a verificare, in funzione dell’esercizio dei poteri di indirizzo da parte dei competenti organi, l’effettiva attuazione delle scelte contenute nelle direttive ed altri atti di indirizzo politico. L’attività stessa consiste nell’analisi, preventiva e successiva, della congruenza e/o degli eventuali scostamenti tra le missioni affidate dalle norme, gli obiettivi operativi prescelti, le scelte operative effettuate e le risorse umane, finanziarie e materiali assegnate, nonché nella identificazione degli eventuali fattori ostativi, delle eventuali
responsabilità per la mancata o parziale attuazione, dei possibili rimedi. Lo svolgimento di tale controllo per le Amministrazioni dello
Stato,
prima
affidato
all’apposito
servizio
di
controllo interno per effetto del D.Lgs. 150/2009, è esercitato (dal 30 aprile 2010) dall’apposito Organismo indipendente di valutazione delle performance che riferisce
direttamente
all’organo
di
indirizzo
politico-
amministrativo (cfr. art. 14, D.Lgs. 150/2009). L’esito dell’attività di controllo strategico consiste nella predisposizione di relazioni annuali sui risultati delle analisi effettuate, con proposte di miglioramento della funzionalità delle amministrazioni.
6.3 La Ragioneria Generale dello Stato Di particolare rilevanza, ai fini contabili-amministrativi, è il controllo esercitato dalla Ragioneria Generale dello Stato tramite gli Uffici centrali del bilancio cui la Legge di contabilità generale dello Stato (art. 27 R.D. 2440/1923) affida il compito di vigilare affinché siano osservate le norme in materia di conservazione del patrimonio dello Stato, esatto accertamento delle entrate, regolare gestione dei fondi di bilancio. In attuazione della delega disposta dall’art. 49 della L. 196/2009, il D.Lgs. 30 giugno 2011, n. 123 ha disposto il potenziamento delle strutture e degli strumenti di controllo e monitoraggio
della
Ragioneria
generale
dello
Stato
e
riordinato il sistema dei controlli preventivi e dei controlli successivi sulle spese delegate.
6.3.1 Il controllo preventivo degli uffici di ragioneria L’art. 5 del D.Lgs. 123/2011 assoggetta al controllo preventivo di regolarità amministrativa e contabile di ragioneria: tutti gli atti dai quali derivino effetti finanziari per il bilancio dello Stato (ad eccezione di quelli posti in essere
dalle amministrazioni, dagli organismi e dagli organi dello Stato dotati di autonomia finanziaria e contabile); rientrano in tale tipologia tutti gli atti che vanno ad incidere sui singoli stati di previsione, in quanto comportanti un’attività di gestione delle relative risorse finanziarie, quali gli impegni, i pagamenti, gli ordini di accreditamento ed in genere tutti gli atti e provvedimenti che comportano una transazione sul sistema informativo della Ragioneria generale dello Stato, nonché gli atti di variazione patrimoniale ed i provvedimenti di gestione degli stati di previsione dell’entrata e della spesa. Per questi atti, all’esito positivo del controllo seguirà il visto di regolarità amministrativa e contabile, con registrazione dell’impegno o del pagamento; tutti gli atti elencati al comma 2, a prescindere dalla produzione di effetti finanziari a carico del bilancio dello Stato: a. atti soggetti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti (il controllo di legittimità della Corte dei conti non è interessato dalla riforma operata dal D.Lgs. 123/2011); b. decreti
di
approvazione
di
contratti
o
atti
aggiuntivi, atti di cottimo e affidamenti diretti, atti di riconoscimento di debito; c. provvedimenti
o
contratti
di
assunzione
di
personale a qualsiasi titolo; d. atti relativi alle modifiche della posizione giuridica o della base stipendiale del personale statale in
servizio; e. accordi in materia di contrattazione integrativa, di qualunque livello, intervenuti ai sensi della vigente normativa legislativa e contrattuale. Gli accordi locali
stipulati
periferiche
dei
dalle
articolazioni
Ministeri
sono
centrali
sottoposti
e al
controllo da parte del competente Ufficio centrale del bilancio; f. atti e provvedimenti comportanti trasferimenti di somme dal bilancio dello Stato ad altri enti o organismi; g. atti e provvedimenti di gestione degli stati di previsione dell’entrata e della spesa, nonché del conto del patrimonio;
g-bis) contratti passivi, convenzioni, decreti ed altri provvedimenti riguardanti interventi a titolarità delle
Amministrazioni
centrali
dello
Stato,
cofinanziati in tutto o in parte con risorse dell’Unione europea, ovvero aventi carattere di complementarità rispetto alla programmazione dell’Unione europea, giacenti sulla contabilità del Fondo di rotazione di cui all’articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183. Ad eccezione degli atti di cui al comma 2, lettera a) (soggetti al controllo preventivo di legittimità da parte della Corte dei conti ai sensi dell’articolo 3 della L. 20/1994, atti che le amministrazioni inviano contestualmente agli Uffici di controllo e agli uffici della Corte dei conti competenti per
l’effettuazione del controllo di legittimità), gli altri atti soggetti al controllo preventivo elencati dalle lettere da b) a g-bis) del comma 2 sono inviati agli Uffici di controllo per il controllo di regolarità amministrativa e contabile contestualmente alla loro adozione. L’ufficio
di
controllo,
entro
trenta
giorni
dal
ricevimento (art. 8) provvede all’apposizione del visto di regolarità amministrativa e contabile. Fanno eccezione i provvedimenti o contratti di assunzione del personale (art. 5, comma 2, lettera c) e gli atti relativi alle modifiche della posizione giuridica o della base stipendiale del personale statale in servizio (art. 5, comma 2, lettera d) per i quali è previsto un termine di 60 giorni, nonché per gli accordi in materia di contrattazione integrativa (art. 5, comma 2, lettera e), per i quali restano fermi i termini previsti dalle vigenti disposizioni contrattuali (articolo 8, comma 1). Una particolare disciplina è prevista per gli atti di pagamento emessi a titolo di corrispettivo nelle transazioni commerciali (art. 8, comma 4-bis): essi devono pervenire all’ufficio di controllo almeno 15 giorni prima della data di scadenza del termine di pagamento. L’ufficio di controllo espleta i riscontri di competenza e dà comunque corso al pagamento entro i 15 giorni successivi al ricevimento degli atti di pagamento, sia in caso di esito positivo, sia in caso di formulazione di osservazioni o richieste di integrazioni e chiarimenti. L’art. 6 del decreto legislativo reca invece la disciplina del controllo contabile, afferente alla fase dell’impegno di
spesa. In questo caso, l’ufficio di controllo effettua la registrazione contabile delle somme relative agli atti di spesa di cui all’articolo 5, con conseguente effetto di rendere indisponibili ad altri fini le somme ad essa riferite. Gli atti di spesa non possono avere corso (rifiuto assoluto di registrazione, art. 6, comma 2 come modificato dal D.Lgs. 29/2018) qualora: a) siano pervenuti oltre il termine perentorio di ricevibilità del 31 dicembre dell’esercizio finanziario cui si riferisce la spesa,
fatti
salvi
quelli
direttamente
conseguenti
all’applicazione di provvedimenti legislativi pubblicati nell’ultimo quadrimestre dell’anno, quelli relativi a risorse iscritte in bilancio a seguito dell’adozione, nell’ultimo mese dell’anno, di decreti di riassegnazione di entrate di scopo, nonché di quelli relativi alla attribuzione delle risorse di fondi la cui ripartizione, tra le unità elementari di bilancio interessate,
è
disposta
con
dell’economia,
a
seguito
provvedimento
amministrativo
decreto
del
dell’emanazione che
ne
Ministro di
stabilisce
un la
destinazione; b) la spesa ecceda lo stanziamento dell’unità elementare di bilancio, ovvero dell’articolo, qualora l’unità elementare sia suddivisa in articoli; c) l’imputazione della spesa sia errata rispetto all’unità elementare di bilancio o all’esercizio finanziario, o alla competenza piuttosto che ai residui;
d) siano violate le disposizioni che prevedono specifici limiti a talune categorie di spesa; e) non si rinviene la compatibilità dei costi della contrattazione integrativa con i vincoli di bilancio ai sensi dell’articolo 40-bis del D.Lgs. 165/2001; e-bis) i relativi provvedimenti di impegno non risultino conformi a quanto stabilito dall’articolo 34, comma 2, della legge 196/2009, ovvero, nel caso in cui dispongano l’utilizzo
di
risorse
destinate
ad
altre
finalità,
i
corrispondenti decreti di variazione di bilancio non risultino registrati dalla Corte dei conti.
L’art.
7
disciplina
il
controllo
amministrativo,
comportante l’esame degli atti con riferimento alla normativa vigente,
ossia
alle
specifiche
norme
sostanziali
che
sovrintendono l’atto, riscontro che completa l’iter del controllo preventivo. Infatti, a seguito della registrazione contabile, sono accantonate e rese indisponibili le somme fino al momento del pagamento e l’ufficio di controllo procede all’esame degli atti di spesa sotto il profilo della regolarità amministrativa, con riferimento alla normativa vigente. Prima di tutto, però, l’Ufficio verifca che i pagamenti siano coerenti con il cronoprogramma previsto dall’art. 34, comma 7 della L. 196/2009. Il controllo può determinare i seguenti esiti: – esito negativo; qualora vengano rilevati vizi dell’atto sotto il profilo amministrativo, l’ufficio deve, entro il termine di 30 giorni dal ricevimento dello stesso, muovere
formale osservazione, indicando le norme che si ritengono violate; il termine dei 30 giorni è perentorio, decorso il quale l’atto acquista efficacia a tutti gli effetti e l’ufficio di controllo dovrà obbligatoriamente effettuare le registrazioni contabili. In caso di riscontro negativo, gli atti non producono effetti a carico del bilancio dello Stato, salvo che sia esplicitamente richiesto di dare ulteriore corso al provvedimento, sotto la responsabilità del dirigente titolare della spesa: infatti (art. 10, comma 1) il dirigente titolare della spesa può richiedere esplicitamente, sotto la propria responsabilità, di dare ulteriore corso al provvedimento che, conseguentemente, acquista efficacia pur in presenza di osservazioni; – esito positivo; l’ufficio di controllo appone il visto di regolarità amministrativa e contabile; nel caso di decorso dei termini senza che siano state formulate osservazioni o richiesti chiarimenti, l’ufficio di controllo restituirà gli atti muniti di «Visto ai sensi dell’articolo 8, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123».
6.3.2 Il controllo successivo L’art. 11 del D.Lgs. 123/2011 sottopone al controllo successivo di regolarità amministrativa e contabile i seguenti atti: a) rendiconti amministrativi relativi alle aperture di credito alimentate con fondi di provenienza statale resi dai funzionari delegati titolari di contabilità ordinaria e speciale;
b) rendiconti amministrativi resi dai commissari delegati titolari di contabilità speciale di cui all’articolo 5, comma 5-bis, della L. 225/1992, nonché da ogni altro soggetto gestore, comunque denominato; c) rendiconti amministrativi afferenti a un’unica contabilità speciale alimentata con fondi di provenienza statale e non statale per la realizzazione di accordi di programma; d) ogni altro rendiconto previsto da specifiche disposizioni di legge; e) conti giudiziali; ebis) ordini collettivi di pagamento per competenze del personale dello Stato. Quanto al procedimento, l’art. 14 introduce una nuova tempistica che prevede, fatti salvi i termini stabiliti per determinati casi (art. 14), i rendiconti vanno presentati al competente ufficio riscontrante entro 25 giorni dal termine dell’esercizio finanziario di riferimento. Gli uffici di controllo, entro l’esercizio finanziario successivo alla presentazione dei rendiconti, provvedono al discarico di quelli ritenuti regolari e li restituiscono al funzionario delegato muniti del visto di regolarità amministrativocontabile,
unitamente
alla
documentazione
originale,
debitamente obliterata. Nel caso in cui siano riscontrate irregolarità, gli uffici di controllo non discaricano i rendiconti e inviano al funzionario delegato una nota di osservazione. I funzionari delegati rispondono ai rilievi entro trenta giorni dal ricevimento della predetta nota di osservazione.
Qualora
nell’esame
dei
rendiconti
siano
riscontrate
irregolarità tali da non consentirne il discarico e non siano intervenute controdeduzioni idonee a superare le osservazioni formulate, gli uffici di controllo devono informare la competente Sezione di controllo della Corte dei conti (art. 14, comma 8).
6.4 I controlli esterni: la Corte dei Conti Il sistema dei controlli esterni nelle materia di contabilità pubblica è imperniato sulla Corte dei conti, organo di rilevanza costituzionale. L’art. 100, comma 2 della Costituzione, infatti, così recita: «La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito». Possiamo, perciò, affermare che la Corte dei conti svolge innanzi tutto: un controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo; un controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato; un controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce un via ordinaria. Oltre a tali funzioni di controllo, altre sono state introdotte nel tempo da leggi ordinarie: infatti, nulla preclude al legislatore di introdurre nuove forme di controllo purché, per
queste ultime, sia rintracciabile un adeguato fondamento normativo (Corte Cost., sentenza 29/1995). Ad esempio, sono state attribuite alla Corte dei conti importanti funzioni di controllo/referto quali: il controllo sulla copertura finanziaria delle leggi di spesa (art. 17 L. 196/2009); in materia di costo del lavoro pubblico e di certificazione dell’attendibilità dei costi (art. 47 del D.Lgs. 165/2001); referti sulla finanza regionale e locale.
6.4.1 Il controllo preventivo di legittimità Il controllo preventivo di legittimità consiste in un procedimento teso a valutare la conformità degli atti che ne formano oggetto alle norme del diritto oggettivo, ad esclusione di qualsiasi apprezzamento che non sia di ordine strettamente giuridico ed è volto unicamente a garantire la legalità degli atti. A seguito della L. 20/1994 (art. 3), il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti si esercita esclusivamente sui seguenti atti non aventi forza di legge: a) provvedimenti emanati a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri; b) atti del Presidente del Consiglio dei Ministri e atti dei Ministri aventi ad oggetto la definizione delle piante organiche, il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali e le
direttive generali per l’indirizzo e per lo svolgimento dell’azione amministrativa; c)
atti
normativi
a
rilevanza
esterna,
atti
di
programmazione comportanti spese ed atti generali attuativi di norme comunitarie; d) provvedimenti dei comitati interministeriali di riparto o assegnazione di fondi ed altre deliberazioni emanate nelle materie di cui alle lettere b) e c); f) provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio immobiliare; f-bis) atti e contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale
o
coordinata
e
continuativa
con
cui
le
amministrazioni affidano incarichi individuali ad esperti qualificati (articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165); f-ter) atti e contratti concernenti studi e consulenze di cui all’articolo 1, comma 9, della legge 23 dicembre 2005, n. 266; g) decreti che approvano contratti delle amministrazioni dello Stato, escluse le aziende autonome: attivi, di qualunque importo, ad eccezione di quelli che per loro natura devono essere consegnati immediatamente all’acquirente (ipotesi prevista
dall’ultimo
comma
dell’articolo
19
del
R.D.
2440/1923); di appalto d’opera, se di importo superiore alla soglia comunitaria; altri contratti passivi, se di importo superiore ad un decimo del valore suindicato; h) decreti di variazione del bilancio dello Stato, di accertamento dei residui e di assenso preventivo del Ministero
del tesoro all’impegno di spese correnti a carico di esercizi successivi; i) atti per il cui corso sia stato impartito l’ordine scritto del Ministro; l) atti che il Presidente del Consiglio dei Ministri richieda di sottoporre temporaneamente a controllo preventivo o che la Corte dei conti deliberi di assoggettare, per un periodo determinato, a controllo preventivo in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevate in sede di controllo successivo. Ai sensi dell’art. 27 della L. n. 340/2000, gli atti trasmessi alla Corte dei conti diventano in ogni caso esecutivi trascorsi sessanta giorni dalla loro ricezione, senza che sia intervenuta una pronuncia della Sezione del controllo, salvo che la Corte, nel suddetto termine, abbia sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 81 Cost., delle norme aventi forza di legge che costituiscono il presupposto dell’atto, ovvero abbia sollevato, in relazione all’atto, conflitto di attribuzione; detto termine è sospeso per il periodo intercorrente tra le eventuali richieste istruttorie e le risposte delle
Amministrazioni
o
del
Governo,
che
non
può
complessivamente essere superiore a trenta giorni. Il comma 3 del citato art. 3 della L. n. 20/1994, inoltre, fissa il principio secondo il quale le Sezioni Riunite della Corte dei conti possono, con deliberazione motivata, stabilire che singoli atti di notevole rilievo finanziario, individuati per categorie ed Amministrazioni statali, siano sottoposti all’esame della Corte per un periodo determinato.
La Corte può chiedere il riesame degli atti entro quindici giorni dalla loro ricezione, ferma rimanendone l’esecutività. Le Amministrazioni trasmettono gli atti adottati a seguito del riesame della Corte dei conti, che ove rilevi illegittimità, ne dà avviso al Ministro. L’art. 25 del T.U. n. 1214 del 1934 disciplina l’istituto della registrazione
con
riserva:
in
caso
di
rifiuto
di
registrazione, qualora il controllo riguardi un atto governativo,
il
Ministro
interessato
può
chiedere
un’apposita deliberazione da parte del Consiglio dei ministri, il quale può ritenere che l’atto risponda ad interessi pubblici superiori e debba avere comunque corso. In questo caso la Corte dei conti ordina la registrazione dell’atto e vi appone il visto con riserva. L’atto registrato con riserva acquista piena efficacia, ma il Governo se ne assume la responsabilità
politica
poiché
la
Corte
trasmette
periodicamente al Parlamento l’elenco degli atti registrati con riserva.
6.4.2 Il controllo successivo sulla gestione A differenza del controllo preventivo di legittimità, oggetto del controllo successivo non sono singoli atti, ma la gestione nel suo complesso. L’art. 3, comma 4 della L. 20/1994, dispone infatti che la Corte dei conti svolge, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria.
Nei confronti delle amministrazioni regionali, l’art. 3 comma 5 prevede espressamente che il controllo della gestione concerne il perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi di princìpio e di programma. A ciò si aggiunga che l’art. 20 della L. 243/2012 (attuazione della L. cost. 1/2012 sul pareggio di bilancio) afferma che la Corte dei conti è competente a svolgere, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione dei bilanci delle Regioni
e
degli
enti
territoriali
nonché
delle
amministrazioni pubbliche non territoriali; inoltre, il D.L. 174/2012, dal canto suo, oltre ad estendere a tutte le Regioni il giudizio di parifica sui rendiconti generali con le stesse modalità procedurali previste per il bilancio statale, ha introdotto nuove tipologie di controllo di regolarità della gestione (cd. auditing finanziario contabile) correlandolo, tra l’altro, alla necessità di garantire il rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, quali: – la verifica semestrale sulle coperture finanziarie adottate dalle leggi regionali; – il controllo di regolarità sui bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi delle regioni e degli enti del SSN; – la verifica annuale sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e sull’adeguatezza del sistema dei controlli interni; – il controllo di regolarità sui rendiconti dei Gruppi consiliari e dei Consigli regionali.
Per quanto invece concerne gli enti locali, la L. 14 gennaio 1994, n. 20 ha mantenuto in vigore i controlli già previsti dalla L. 26 febbraio 1982, n. 51 e successive modifiche secondo cui Province e Comuni con popolazione superiore ad ottomila abitanti sono tenuti ad inviare i conti consuntivi alla Corte che riferisce annualmente al Parlamento i risultati dell’esame compiuto. Anche in questo caso, il D.L. 174/2012 (art. 3, comma 1) ha ampliato consistentemente la funzione di controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti locali, la quale viene a comprendere, anche in corso di esercizio, la regolarità della gestione finanziaria, gli atti di programmazione, nonché la verifica del funzionamento dei controlli interni di ciascun ente. Alla Corte è anche affidato un potere sanzionatorio nei confronti degli amministratori dell’ente locale.
Finalità di tale tipologia di controllo (svolto a campione) è quello di accertare il conseguimento da parte dell’Amministrazione degli obiettivi prestabiliti dalla legge o dal programma e le caratteristiche dell’attività posta in essere per realizzarli, secondo i parametri di legittimità e di regolarità, termine quest’ultimo riferito ai criteri di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Infatti, a mente della L. 20/1994, tale controllo è teso a verificare «la legittimità
e
funzionamento
la
regolarità dei
delle
controlli
gestioni, interni
nonché a
il
ciascuna
amministrazione» e accertare, «anche in base all’esito di altri controlli,
la
rispondenza
dei
risultati
dell’attività
amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa». Il controllo avviene sulla base di una programmazione dei lavori: la Corte approva ogni anno per l’anno successivo i programmi e i criteri di riferimento del controllo sulla base delle priorità previamente deliberate dalle competenti Commissioni
parlamentari
a
norma
dei
rispettivi
regolamenti, anche tenendo conto, ai fini di referto per il coordinamento del sistema di finanza pubblica, delle relazioni redatte dagli organi, collegiali o monocratici, che esercitano
funzioni
di
controllo
o
vigilanza
su
amministrazioni, enti pubblici, autorità amministrative indipendenti o società a prevalente capitale pubblico.
La Corte dei conti, poi, secondo il disposto del successivo comma 6, riferisce, almeno annualmente, al Parlamento ed ai Consigli regionali sull’esito del controllo eseguito. Le
relazioni
della
Corte
sono
altresì
inviate
alle
amministrazioni interessate, alle quali la Corte formula, in qualsiasi altro momento, le proprie osservazioni, con l’obbligo, in capo alle suddette amministrazioni, di comunicare alla Corte ed agli organi elettivi, entro sei mesi dalla data di ricevimento della relazione, le misure conseguentemente adottate. Circa le differenze fra controllo «sulla gestione» e controllo interno «di gestione» la Corte Costituzionale ha chiarito che il primo costituisce un controllo successivo ed esterno
all’amministrazione,
di
natura
imparziale
e
collaborativa, mentre il secondo è invece concomitante all’azione della pubblica amministrazione e di natura amministrativa.
Il controllo concomitante La L. n. 15/2009 (legge Brunetta) ha aggiunto un ulteriore tassello nel sistema dei controlli sulla gestione, fondati sull’art. 100 Cost. e, sul piano applicativo, sulle leggi n. 20/1994, n. 131/2003 e n. 266/2005 e successive modificazioni. Per quanto riguarda le amministrazioni dello Stato, l’art. 11, comma 2, della citata L. n. 15 dispone che la Corte dei conti, anche a richiesta delle competenti Commissioni parlamentari, possa effettuare controlli su gestioni pubbliche statali in corso di svolgimento. Nel caso in cui essa accerti gravi irregolarità gestionali ovvero gravi deviazioni da obiettivi, procedure o tempi di attuazione stabiliti da norme (nazionali o comunitarie), ovvero da direttive del Governo, la Corte ne individua, in contraddittorio con l’amministrazione, le cause e provvede, con decreto motivato del Presidente, su proposta della competente sezione, a darne comunicazione (anche con idonei strumenti telematici), al Ministro competente, il quale, con decreto da comunicare al Parlamento e alla presidenza della Corte, sulla base delle proprie valutazioni, anche di ordine economico-finanziario, può disporre la sospensione dell’impegno di somme stanziate sui pertinenti capitoli di spesa. La norma aggiunge che, qualora emergano rilevanti ritardi nella realizzazione di piani e programmi, nell’erogazione di contributi ovvero nel trasferimento di fondi, la Corte ne individua, in contraddittorio con l’amministrazione, le
cause, e provvede, con decreto motivato del Presidente, su proposta della competente sezione, a darne comunicazione al Ministro competente. Entro sessanta giorni l’amministrazione competente adotta i provvedimenti idonei a rimuovere gli impedimenti, ferma restando la facoltà del Ministro, con proprio decreto da comunicare alla presidenza della Corte, di sospendere il termine stesso per il tempo ritenuto necessario, ovvero di comunicare, al Parlamento ed alla presidenza della Corte, le ragioni che impediscono di ottemperare ai rilievi formulati dalla Corte. Il successivo comma 3 stabilisce che le Sezioni Regionali di controllo della Corte dei conti, previo concerto con il Presidente della Corte, possono applicare le disposizioni in parola nei confronti delle gestioni pubbliche regionali o degli Enti locali. In tal caso la facoltà attribuita al Ministro competente si intende attribuita ai rispettivi organi di governo e l’obbligo di riferire al Parlamento è da adempiere nei confronti delle rispettive Assemblee elettive. Vanno dunque evidenziate le seguenti particolarità di questo controllo concomitante: a. l’area di applicazione delle disposizioni della L. n. 15 appare esplicitamente riferita alle ‘gestioni pubbliche statali’ (comma 2 dell’art. 11) ed alle ‘gestioni pubbliche regionali e degli Enti locali’ (comma 3), il che comporta dunque l’inapplicabilità delle disposizioni in esame ad amministrazioni diverse, quali quelle degli enti pubblici non territoriali o delle Università; b. il carattere marcatamente ‘concomitante’ è riconducibile al controllo su gestioni ‘in corso di svolgimento’, e cioè su
gestioni non ancora concluse, in ordine alle quali sono possibili interventi correttivi ‘in corso d’opera’ (di tipo preventivo), tali da determinare il mancato avverarsi, o quanto meno l’interruzione di situazioni illegittime o pregiudizievoli; c. variano anche gli schemi di riferimento, atteso che il controllo concomitante pone uno specifico accento, fermo il comune requisito del contraddittorio con l’amministrazione, sul piano dell’individuazione delle cause sottese alle gravi irregolarità gestionali ovvero alle gravi deviazioni da obiettivi, procedure e tempi di attuazione stabiliti da norme (nazionali o comunitarie), ovvero da direttive del Governo, così come sulle cause di rilevanti ritardi nella realizzazione di piani e programmi,
nell’erogazione
di
contributi
ovvero
nel
trasferimento di fondi. L’art. 22 del D.L. 76/2020, intervenendo sulla disciplina dei controlli concomitanti della Corte dei conti, ha previsto una procedura speciale in caso di accertamento di gravi irregolarità gestionali, ovvero di rilevanti e ingiustificati ritardi nell’erogazione di contributi per la realizzazione dei “principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale”. In tali casi, il risultato dell’accertamento è immediatamente trasmesso all’amministrazione competente ai fini della responsabilità dirigenziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 21, comma 1, D.L.gs. 165/2001.
6.4.3 Il controllo sugli enti sovvenzionati
Sono sottoposti a tale tipo di controllo (L. 21 marzo 1958 n. 259) i seguenti enti: gli enti che godono di contribuzione periodica a carico dello Stato; gli enti che si finanziano con imposte, contributi, tasse che sono autorizzati ad imporre; gli enti che godono di un apporto al patrimonio in capitale, servizi, beni ovvero mediante concessione di garanzia; le società derivanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni, fino a quando permanga la partecipazione maggioritaria dello Stato o degli altri pubblici poteri al capitale sociale (Corte costituzionale, sentenza 28 dicembre 1993 n. 466). Tali soggetti devono far pervenire alla Corte dei conti (Sezione controllo enti) i conti consuntivi ed i bilanci di esercizio col relativo conto dei profitti e delle perdite corredati dalle relazioni dei rispettivi organi amministrativi e di revisione, non oltre quindici giorni dalla loro approvazione e, in ogni caso, non oltre sei mesi e quindici giorni dalla chiusura dell’esercizio finanziario al quale si riferiscono. Alla Corte sono trasmesse altresì le relazioni degli organi di revisione che vengano presentate in corso di esercizio (art. 4). La legge 21 marzo 1958 n. 259 ha previsto due modalità di controllo: quello svolto direttamente dall’apposito ufficio della Corte dei conti (Sezione controllo enti);
quello svolto da una magistrato della Corte (art. 12) che partecipa alle sedute degli organi di amministrazione e revisione dell’ente. In entrambi i casi il controllo, che è sia di legittimità che di merito, è concomitante, cioè si svolge nel corso della gestione dell’ente, e ha per oggetto l’intera gestione finanziaria e amministrativa dell’ente stesso. Il controllo sugli enti sovvenzionati differisce dunque sia dal controllo di legittimità (preventivo o successivo) su atti, sia dal controllo sulla gestione, essendo partecipe dei caratteri sia dell’uno che dell’altro. La Corte, in caso di accertata irregolarità nella gestione di un ente, può in ogni momento formulare i propri rilievi al Ministro del tesoro e al Ministro competente (art. 8 legge 1958/259). Anche in questo caso, l’art. 20 della L. 243/2012 (attuazione della L. cost. 1/2012 sul pareggio di bilancio) ha sancito
nuove
competenze
per
la
Corte
dei
conti
riconoscendone la competenza a svolgere, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione dei bilanci
delle
amministrazioni
pubbliche
non
territoriali ai fini del coordinamento della finanza pubblica e dell’equilibrio dei bilanci.
6.4.4 Il controllo finanziario e contabile nei confronti di Regioni e Autonomie locali Tale tipologia di controllo trova la sua originaria disciplina nell’art. 7, co. 7, della L. n. 131/2003, che ha attribuito alla
Corte dei conti la verifica del rispetto degli equilibri di bilancio, anche in relazione ai vincoli comunitari, e un controllo collaborativo, da esercitare attraverso le Sezioni regionali di controllo del medesimo istituto, rivolto a perseguire la sana gestione finanziaria e sempre più avanzati livelli di efficienza e di economicità. Nell’esercizio
dei
predetti
compiti,
a
garanzia
dell’autonomia degli Enti controllati, la Corte non è chiamata ad operare come organo ausiliario del Governo o comunque dello Stato centrale, ma come organo della Repubblica, nella nuova definizione di cui all’art. 114 Cost., e, quindi, come organo sia dello Stato che delle Regioni e degli altri Enti territoriali (Parisi). A tal fine, le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti verificano, nel rispetto della natura collaborativa del controllo sulla gestione, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché la sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei controlli interni e riferiscono sugli esiti delle verifiche esclusivamente ai consigli degli enti controllati (art. 7, co. 7 L. 131/2003). Tale forma di controllo è stata poi compiutamente disciplinata dall’art. 1, commi da 166 a 170, della L. n. 266/2005 (legge finanziaria 2006). Più in dettaglio, il comma 166 ha previsto che gli organi degli Enti locali di revisione
economico-finanziaria
trasmettano
alle
competenti Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
una
relazione
sul
bilancio
di
previsione
dell’esercizio
di
competenza
e
sul
rendiconto
dell’esercizio medesimo. Detta relazione, ai sensi del successivo comma 167, deve dare conto, in ogni caso, del rispetto degli obiettivi annuali posti dal Patto di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall’art. 119, ultimo comma, della Cost., e di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria in ordine alle quali l’Amministrazione non abbia adottato le misure correttive segnalate dall’organo di revisione. Il comma 170 estende i predetti adempimenti anche agli enti del S.S.N.
Con il D.L. 174/2012 si è infine proceduto ad una nuova strutturazione dei controlli della Corte dei conti, finalizzata a “rafforzare il coordinamento della finanza pubblica, in particolare tra i livelli di governo statale e regionale, e di garantire
il
rispetto
dei
vincoli
finanziari
derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” (art. 1, co. 1). Con riguardo ai controlli sugli enti locali, in particolare, l’art. 3 lett e) modifica l’art. 148 del TUEL (Testo Unico Enti Locali, D.Lgs. 267/2000) e amplia in maniera consistente la funzione di controllo della Corte, la quale ha ad oggetto, anche in corso di esercizio, la regolarità della gestione finanziaria, gli atti di programmazione, nonché la verifica del funzionamento dei controlli interni di ciascun ente. Recita infatti il comma 1: “Le sezioni regionali della Corte dei conti verificano, con cadenza semestrale, la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto
delle regole contabili e dell’equilibrio di bilancio di ciascun ente locale”. Il comma 2 prevede che i controlli esterni vengono esercitati, oltre che dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, anche, autonomamente, dal Ministero dell’economia e finanze – Ragioneria Generale dello Stato, il quale può procedere ad effettuare verifiche sulla regolarità della gestione amministrativo-contabile in presenza di specifici indicatori di squilibrio finanziario. Il
comma
5
affida
alla
Corte
anche
un
potere
sanzionatorio nei confronti degli amministratori dell’ente locale: fermo restando quanto previsto dalla L. 20/1994 in materia di responsabilità erariale, la Corte può irrogare “agli amministratori responsabili la condanna ad una sanzione pecuniaria da un minimo di cinque fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione”. Il D.L. 78/2012 introduce inoltre l’articolo 148-bis del TUEL (rubricato “Rafforzamento del controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria degli enti locali”) nel quale si prevede che le Sezioni regionali di controllo della Corte, al fine di verificare il “rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno [ora, il rispetto degli equilibri di bilancio], dell’osservanza
del
vincolo
indebitamento
dall’articolo
Costituzione,
della
previsto 119,
sostenibilità
in
sesto
materia
comma,
di della
dell’indebitamento,
dell’assenza di irregolarità, suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari degli enti”,
esaminino i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi degli enti locali ai fini della verifica di specifici elementi suscettibili
di
pregiudicare
gli
equilibri
economico
finanziari degli enti. L’accertamento ha anche ad oggetto la verifica che i rendiconti consuntivi tengano conto delle partecipazioni dell’ente locale in società controllate alle quali è affidata la gestione di servizi pubblici per le collettività locali o attività
strumentali
all’ente.
Sono
previste
specifiche
conseguenze nell’ipotesi in cui la Corte riscontri irregolarità e l’ente locale non provveda a rimuoverle. L’ accertamento, da parte delle competenti sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, di squilibri economico-finanziari, della mancata copertura di spese, della violazione di norme finalizzate a garantire la regolarità della gestione finanziaria, o del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno comporta per gli enti interessati l’obbligo di adottare, entro sessanta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia
di
accertamento,
i
provvedimenti
idonei
a
rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio. Tali provvedimenti sono trasmessi alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che li verificano nel termine di trenta giorni dal ricevimento. Qualora l’ente non provveda alla trasmissione dei suddetti provvedimenti o la verifica delle sezioni regionali di controllo dia esito negativo, è preclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria.
Capitolo 7 L’ordinamento contabile degli enti pubblici istituzionali 7.1 Le amministrazioni pubbliche: definizione e disciplina contabile La Legge di contabilità e finanza pubblica fornisce una definizione abbastanza precisa di “amministrazioni pubbliche”. Per amministrazioni pubbliche, ai fini della disciplina contabile, l’art. 1, comma 2, della L.196/2009 intende: 1. gli enti e i soggetti indicati a fini statistici nell’elenco oggetto del comunicato dell’ISTAT pubblicato in Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre di ogni anno; nella stesura di tale elenco (il cd. settore istituzionale delle amministrazioni pubbliche) l’ISTAT si uniforma alle definizioni dettate da specifici regolamenti europei.
Nel sistema europeo dei conti pubblici il settore amministrazioni pubbliche (Settore S13) è costituito (Reg. 549/2013,
istitutivo
del
SEC
2010)
dalle
unità
istituzionali che agiscono da produttori di beni e servizi non destinabili alla vendita, la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali e sono finanziate da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori, nonché dalle unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese. L’elenco delle amministrazioni pubbliche è monitorato costantemente da Eurostat poiché la sua correttezza è una della condizioni della qualità dei dati della finanza pubblica, per assicurare statistiche confrontabili a livello europeo. 2. le autorità indipendenti, organismi caratterizzati da uno specifico grado di indipendenza dal potere politico, dall’esercizio di funzioni neutrali in diversi settori dell’ordinamento (principalmente economici) e da un elevato livello di competenze tecniche (Autorità garante della concorrenza e del mercato, Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, ANAC...); 3. comunque, le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2011, secondo cui per amministrazioni
pubbliche
si
intendono
tutte
le
amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio e loro associazioni, tutti gli enti
pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie fiscali. Il tentativo di delimitare in modo preciso il settore degli enti pubblici ha una storia abbastanza lunga. Risale infatti agli anni Settanta del secolo scorso il tentativo di classificare prima e ridurre poi il numero degli enti parastatali (quegli enti pubblici istituzionali, cioè, creati per legge al fine di svolgere funzioni pubbliche e di fornire servizi pubblici d’interesse nazionale venendo a porsi in posizione ausiliare e strumentale rispetto allo Stato). La L. 70/1975 (cosiddetta legge sul parastato) classificò questi enti in sette categorie e per essi, oltre a dettare norme in materia di stato giuridico e trattamento economico del personale, sanciva all’articolo 30 alcuni obblighi contabili. A seguito della riforma del bilancio e della contabilità di Stato degli anni Novanta (L. 94/1997, D.Lgs. 279/1997), tali obblighi risultarono insufficienti e si avvertì l’esigenza di estendere le innovazioni introdotte anche alle amministrazioni pubbliche diverse da quella statale: l’art. 1, comma 3, della L. 208/1999 dispose quindi che un apposito provvedimento adeguasse il sistema di contabilità ed i bilanci degli enti pubblici disciplinati dalla legge 20 marzo 1975, n. 70. Il nuovo regolamento per l’amministrazione e la contabilità degli enti pubblici
istituzionali
fu
emanato
con
decreto
del
Presidente della Repubblica 27 febbraio 2003, n. 97. Il provvedimento è tuttora vigente ma è destinato ad essere
superato: il decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 91, in modo analogo a quanto previsto dal D.Lgs. 118/2011 per Regioni, enti locali e enti del Servizio sanitario nazionale), è volto all’armonizzazione dei sistemi contabili di tutte le amministrazioni pubbliche. A tal fine, l’art. 4, comma 3 lett. b) ha previsto che un apposito regolamento riveda le disposizioni di cui al D.P.R. 97/2003. Nelle more dell’adozione di tale Regolamento di aggiornamento degli schemi di bilancio di cui al DPR 97/2003, gli enti non territoriali tenuti all’adozione del piano dei conti (il documento che consente il raccordo dei dati contabili con la classificazione SEC, facilitando così la costruzione dei dati di contabilità nazionale e il colloquio con l’Unione Europea) hanno utilizzato la tabella di correlazione tra le voci del medesimo piano e i vecchi schemi di bilancio, seguendo le indicazioni contenute nella circolare della Ragioneria generale dello Stato n. 27 del 25 settembre 2015.
7.2 Il D.P.R. 97/2003 Il regolamento per l’amministrazione e la contabilità degli enti pubblici istituzionali emanato con D.P.R. 97/2003 costituisce tuttora un riferimento normativo per “gli enti pubblici nazionali” di cui alla L. 70/1975. In sostanza, rientrano nel campo di applicazione del decreto (o hanno adottato regolamenti ispirati al D.P.R. 97/2203) tutti i principali enti pubblici, a cominciare da quelli previdenziali quali l’INPS e l’INAIL. Il regolamento ha mirato a migliorare la capacità di previsione ed il controllo dei flussi finanziari e di quelli patrimoniali ed economici degli enti pubblici: tale esigenza conoscitiva è soddisfatta ricorrendo ad un sistema «misto» di contabilità che, pur ispirandosi ai principi aziendalistici, prevede forme particolari di bilanci, sia preventivi sia consuntivi, che sono quelli tipici dei rendiconti degli enti pubblici non economici. Si tratta dunque di un ordinamento contabile in cui la disciplina dei documenti di pianificazione e programmazione (che svolgono essenzialmente la funzione autorizzativa tipica dei bilanci preventivi delle amministrazioni pubbliche), convive con l’adozione di principi civilistici (elencati nell’Allegato 1 al Decreto stesso) e di tecniche economico-aziendali. Le principali novità introdotte dal D.P.R. 97/2003 hanno riguardato la redazione di un budget per centri di costo,
un consuntivo economico- patrimoniale redatto secondo schemi civilistici con un quadro di classificazione dei risultati economici che distingue fra costi, ricavi tipici e determinazione del risultato operativo (Monorchio-Mottura). Per quanto concerne invece la gestione, il D.P.R. 97/2003 ha sostanzialmente riproposto le tradizionali norme di contabilità pubblica (fasi di gestione delle entrate e delle uscite, gestione dei residui etc.)
7.2.1 Il bilancio previsionale e gli altri documenti di programmazione Il D.P.R. 97/2003, all’articolo 5, tratta del bilancio previsionale degli enti pubblici non economici stabilendo innanzitutto che l’esercizio finanziario ha la durata di un anno (inizia il 1° gennaio e termina il successivo 31 dicembre). La gestione finanziaria si svolge in base al bilancio di previsione, deliberato dall’organo di vertice entro il 31 ottobre, salvo diverso termine previsto da norme di legge o da disposizione statutaria. Il bilancio è unico e contiene tutte le entrate e tutte le uscite iscritte nel loro importo integrale, senza alcuna riduzione per effetto di correlative spese o entrate. Esso, inoltre, è formulato in termini di competenza e di cassa ed è articolato in unità previsionali di base che sono determinate dall’organo di vertice in modo da assicurare la rispondenza della gestione finanziaria agli obiettivi e ai programmi definiti annualmente.
Il comma 3 dell’articolo 10 del decreto dispone che il bilancio di previsione è composto dai seguenti documenti: il preventivo finanziario; secondo quanto disposto dall’articolo 11 del D.P.R. 97/2003, deve essere distinto in decisionale (oggetto della deliberazione degli organi competenti) e gestionale (in cui l’unità elementare di classificazione è il capitolo) e deve essere formulato in termini di competenza e di cassa. Il preventivo finanziario è illustrato da una nota preliminare (che ha funzione illustrativa) ed integrato da un allegato tecnico in cui sono descritti i programmi, i progetti e le attività da realizzare nell’esercizio ed i criteri adottati per la formulazione delle valutazioni finanziarie ed economiche; il
quadro
generale
riassuntivo
della
gestione
finanziaria; ha una funzione riepilogativa e che deve essere redatto secondo le istruzioni contenute nell’allegato 4 al decreto, cui lo stesso articolo 13 del D.P.R. 97/2003 rimanda; il preventivo economico; la sua stesura deve attenersi a quanto stabilito nell’allegato 5 del decreto ed è costituito dalla somma dei budget economici dei centri di responsabilità di 1° livello, che a loro volta sono elaborati come sintesi dei budget economici di tutti i centri di responsabilità ad essi subordinati. Il preventivo economico racchiude le misurazioni economiche dei costi e/o dei proventi che, in via anticipata, si prevede di dover realizzare durante la gestione nei diversi centri di
responsabilità
di
1°
livello
cui
si
riferiscono
le
programmate valutazioni economiche.
7.2.2 Il rendiconto generale Il processo gestionale (che trae origine dal quadro normativo ed istituzionale dell’ente, trova copertura nelle risorse disponibili ed è rappresentato nel bilancio di previsione: art. 38 del decreto) si conclude con l’illustrazione dei
risultati
conseguiti
nel
rendiconto
generale.
Tale
documento è costituito da: a. il conto di bilancio; b. il conto economico; c. lo stato patrimoniale; d. la nota integrativa. Il rendiconto generale deve essere deliberato dall’organo di vertice entro il mese di aprile successivo alla chiusura dell’esercizio finanziario, deve essere sottoposto all’esame del collegio dei revisori dei conti (che redige apposita relazione) e deve infine essere trasmesso entro dieci giorni dalla data della deliberazione ai Ministeri vigilanti, corredato dei relativi allegati (vale a dire: la situazione amministrativa; la relazione sulla gestione; la relazione del collegio dei revisori dei conti).
7.3 L’armonizzazione contabile: il D.Lgs. 91 del 2011 L’esigenza di assicurare un adeguato livello di uniformità dei sistemi contabili e degli schemi di classificazione ha portato la L. 196/2009 (art. 2) a delegare il Governo per emanare uno o più decreti legislativi di armonizzazione dei sistemi contabili
e
degli
schemi
di
bilancio
delle
amministrazioni pubbliche, ad eccezione delle Regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio Sanitario Nazionale (per i quali l’art. 2 della L. 42/2009 aveva già previsto analoga delega). In attuazione della delega è stato emanato il decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 91. Il provvedimento (in modo analogo a quanto previsto dal D.Lgs. 118/2011 per Regioni, enti locali e enti del Servizio sanitario nazionale), è volto all’armonizzazione dei sistemi contabili secondo i criteri elencato nella legge delega all’art. 2, comma 2.
7.3.1 Ambito di applicazione L’ambito di applicazione del D.Lgs. 91/2011 è più ampio di quello interessato dal D.P.R. 97/2003: l’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto fa infatti riferimento all’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 e dunque
sono
destinatari
delle
norme
tutte
le
amministrazioni pubbliche, diverse dalle amministrazioni centrali
dello
Stato,
che
adottano
una
contabilità
finanziaria, cui si affianca una contabilità economicopatrimoniale secondo quanto già previsto dal D.P.R. 27 febbraio 2003, n. 97. Sono, altresì, destinatarie del decreto, limitatamente però ai principi in esso contenuti, le amministrazioni pubbliche che adottano la contabilità civilistica, ove ricomprese nell’ambito di riferimento del citato art. 1, comma 2, della legge di contabilità e finanza pubblica del 2009. Nel perimetro tracciato dal D.Lgs. 91/20111 vengono così a trovarsi soggetti di natura giuridica sia pubblica, sia privata ed anche soggetti, quali le casse previdenziali dei professionisti, privatizzati dalla legislazione nel frattempo intervenuta ma comunque
ricomprese
nell’Elenco
ISTAT
delle
unità
istituzionali appartenenti al settore delle Amministrazioni Pubbliche.
7.3.2 Principi contabili generali e applicati Si definiscono principi contabili quei principi, ivi inclusi i criteri, le procedure ed i metodi di applicazione, che stabiliscono l’individuazione dei fatti da registrare, le modalità di contabilizzazione degli eventi, i criteri di valutazione e quelli di esposizione dei valori nel sistema di bilancio, funzionale allo svolgimento dei processi di programmazione e controllo. La finalità dei principi contabili, generali ed applicati, è quella di consentire a tutti gli operatori coinvolti, sia di
governo
che
di
amministrazione,
di
ottemperare
con
professionalità alle proprie responsabilità. L’articolo 2, comma 2 del D.Lgs. 91/2011 fa obbligo alle amministrazioni pubbliche di: conformare i propri ordinamenti finanziari e contabili ai principi contabili generali contenuti nell’allegato 1 al medesimo decreto; uniformare l’esercizio delle funzioni di programmazione, gestione, rendicontazione e controllo a tali principi, che costituiscono regole fondamentali, nonché ai principi contabili applicati definiti definiti da un apposito regolamento. I principi contabili generali I principi contabili generali costituiscono i fondamenti e le regole di carattere generale cui deve informarsi l’intero sistema di bilancio. L’Allegato 1 del D.Lgs. 91/2011 ne individua 24. Si tratta di postulati in gran parte derivati da quelli della contabilità di impresa (ad esempio, la competenza economica, la neutralità, la significatività e rilevanza, la continuità e costanza, la verificabilità). In ogni caso, l’insieme dei postulati rappresenta un sistema, poiché essi – seppure eterogenei – sono coordinati fra loro e rivolti ad un’unica fondamentale finalità, che è la rappresentazione contabile e informativa di bilancio veritiera e corretta. Questi sono i 24 principi contabili generali che elenca l’Allegato al D.Lgs. 91/2011: 1. Principio dell’annualità
2. Principio dell’unità 3. Principio dell’universalità 4. Principio dell’integrità 5. Principio della veridicità 6. Principio della attendibilità 7. Principio della correttezza 8. Principio della comprensibilità 9. Principio della trasparenza 10. Principio della significatività e rilevanza 11. Principio della flessibilità 12. Principio della congruità 13. Principio della prudenza 14. Principio della coerenza 15. Principio della continuità 16. Principio della costanza 17. Principio della comparabilità 18. Principio della verificabilità 19. Principio della neutralità 20. Principio della pubblicità 21. Principio degli equilibri di bilancio 22. Principio della competenza finanziaria 23. Principio della competenza economica
24. Principio della prevalenza della sostanza sulla forma
Si
noti
che
le
definizioni
contenute
nell’Allegato
ripropongono, con notevole fedeltà, quelle espresse nel Documento n. 11 dell’OIC (Organismo Italiano di Contabilità) con riferimento alle imprese. Essendo stati integrati nel D.Lgs. 91/2011, i principi espressi da un organismo professionale, quale è l’Organismo Italiano di Contabilità, assurgono ora a norme giuridiche con riferimento alle amministrazioni pubbliche (codificazione dei principi contabili): infatti, l’Allegato n. 1 è parte integrante del decreto legislativo e quanto è in esso pubblicato ha valore di norma giuridica. I principi contabili applicati Per quanto concerne i principi contabili riguardanti i comuni criteri di contabilizzazione (principi contabili applicati) l’articolo 4, comma 3, lettera c) del D.Lgs. 91/2011 ne demanda la definizione ad un apposito regolamento che non è ancora stato emanato. L’adozione di tale regolamento, infatti, necessariamente presuppone il perfezionamento dell’iter approvativo del regolamento di contabilità degli enti pubblici di cui all’art. 4, comma 3, lettera b) dal momento che dovrà recare norme di carattere integrativo ed interpretativo dello stesso.
7.3.3 Sperimentazione dell’avvicinamento tra contabilità finanziaria e contabilità economico-patrimoniale L’articolo 25 del D.Lgs. n. 91/2011 ha inoltre previsto, a partire dal l° gennaio 2015, un periodo di sperimentazione al
fine di valutare gli effetti derivanti dall’avvicinamento tra contabilità finanziaria e contabilità economico-patrimoniale. Nella sperimentazione sono state coinvolte alcune pubbliche amministrazioni operanti in contabilità finanziaria che hanno redatto il bilancio di previsione sperimentale annuale 2015 e pluriennale 2015-2017, secondo gli schemi ed i principi contabili contenuti nel decreto 1 ottobre 2013. Tale
decreto
sperimentazione,
ha sulla
infatti base
individuato di
una
l’oggetto
definizione
della del
principio della competenza finanziaria secondo la quale le obbligazioni attive e passive giuridicamente perfezionate, che danno luogo a entrate e spese per l’amministrazione pubblica di riferimento, sono registrate nelle scritture contabili con l’imputazione all’esercizio nel quale esse vengono a scadenza. In considerazione degli esiti della sperimentazione, va valutata la possibilità di estendere alle altre amministrazioni pubbliche la tenuta di una contabilità finanziaria sulla base del principio di competenza finanziaria come sopra configurato.
7.3.4 Il piano dei conti integrato Una delle principali novità introdotte dal D.Lgs. 91/2011 è costituita dal Piano dei conti integrato per gli enti che adottano un regime di contabilità finanziaria. Disciplinato dall’art. 4 del decreto, il piano dei conti integrato consente il raccordo dei dati contabili con la classificazione europea SEC2010, facilitando così la costruzione dei dati di contabilità
nazionale e il confronto con le altre istituzioni dell’Unione Europea. Le modalità di attuazione del piano sono dettate dal D.P.R. 4 ottobre 2013, n. 132. Il piano si compone di tre moduli: uno finanziario (con i conti che servono per classificare i movimenti di entrata e di uscita registrati secondo le logiche della contabilità c.d. “camerale”); uno economico (con i conti per accogliere i proventi/ricavi e i costi/oneri registrati nell’ambito della contabilità economico-patrimoniale e che trovano rappresentazione nel conto economico); uno patrimoniale (con i conti per registrare attività e passività che sono rappresentate nello Stato patrimoniale). Il piano consiste nell’elenco delle unità elementari di bilancio finanziario gestionale e dei conti economicopatrimoniali ed è basato su una struttura gerarchica a più livelli. L’applicazione di tale strumento riguarda in primo luogo le amministrazioni pubbliche in contabilità finanziaria, ad eccezione delle amministrazioni centrali dello Stato: Enti territoriali, loro enti e organismi strumentali, Enti nazionali di previdenza e assistenza, le Agenzie regionali sanitarie e altri Enti dell’Amministrazione centrale diversi dallo Stato (Enti di regolazione dell’attività economica, Enti produttori di servizi economici e gli Enti e le Istituzioni di ricerca).
Rispetto alla lista ISTAT, dunque, sono esclusi gli enti in regime esclusivo di contabilità civilistica e quelli appartenenti alle Amministrazioni centrali dello Stato (Enti del comparto Sanità escluse le Agenzie regionali sanitarie, le Camere di commercio, alcune Fondazioni lirico-sinfoniche, i Teatri stabili a iniziativa pubblica, le Università e gli Istituti di istruzione universitaria pubblici, i Consorzi interuniversitari di ricerca, i Consorzi e gli Enti gestori di parchi e aree naturali protette e le Federazioni sportive). La previsione normativa che stabilisce l’adozione di “criteri di classificazione uniformi su tutto il territorio nazionale” può comunque dirsi realizzata grazie:
all’adozione di un sistema omogeneo di codifiche. Dal primo gennaio 2017, anche i codici della rilevazione SIOPE con riferimento ai dati di incassi e pagamenti si sono uniformati ai codici del piano dei conti, costituendo anche per gli Enti non obbligati alla tenuta di questo ultimo (ad esempio le ASL), un riferimento essenziale per la riclassificazione dei dati contabili e di bilancio; l’allineamento degli schemi e delle articolazioni contabili. Anche per gli enti che non hanno adottato né il piano dei conti né le nuove codifiche SIOPE (ad esempio le Camere
di
Commercio),
il
consolidamento
e
il
monitoraggio dei conti pubblici sono salvaguardati dall’obbligo di predisporre un conto consuntivo di cassa che rispecchia la classificazione del terzo livello del piano dei conti, redatto secondo il prospetto di cui all’allegato 3
del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 27 dicembre 2013 (tassonomia).
7.3.5 Articolazione del bilancio per missioni e programmi Altro aspetto qualificante delle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 91 del 2011 è la prescrizione di un generale obbligo per le amministrazioni pubbliche di adottare una rappresentazione dei dati di bilancio che evidenzi le finalità della spesa secondo una omogenea classificazione per missioni e programmi. Detta rappresentazione è diretta a privilegiare l’aspetto ed il contenuto funzionale della spesa, al fine di conoscere le finalità e gli scopi da perseguire e gli obiettivi da conseguire, e nel contempo
evidenziare
i
profili
connessi
alla
struttura
organizzativa nella quale risiede la “responsabilità” per l’impiego delle risorse assegnate e la conseguente misurazione e verifica dei risultati raggiunti. A tale riguardo è stato adottato il D.P.C.M 12 dicembre 2012 che stabilisce le linee guida per una rappresentazione dei dati di bilancio che evidenzi le finalità della spesa, secondo l’articolazione per missioni e programmi, al fine di assicurare il consolidamento e il monitoraggio dei conti pubblici, nonché la maggiore trasparenza nel processo di allocazione delle risorse pubbliche.
7.3.6 Le Amministrazioni pubbliche in regime di contabilità civilistica
Pur nel percorso di armonizzazione degli schemi contabili e degli schemi di bilancio, il decreto 91/2011 ha rispettato i margini di autonomia di soggetti, di natura giuridica privata, che proprio in ragione dello status ad essi riconosciuto dalla legge, adottano la contabilità civilistica. Per essi, infatti, il D.Lgs. n. 91 del 2011 (articolo 16, comma 2) affida a un decreto, di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, criteri e modalità di predisposizione del budget economico (pluriennale e annuale) al fine di raccordare lo stesso documento con gli analoghi
documenti
amministrazioni
previsionali
pubbliche
che
predisposti
adottano
la
dalla
contabilità
finanziaria. Tale decreto è stato adottato in data 27 marzo 2013 e prevede che gli enti in parola siano tenuti a predisporre, oltre al budget economico in sede previsionale, il rendiconto previsto dalla normativa civilistica e un rendiconto finanziario in termini di liquidità. L’art. 17 del D.Lgs. 91/2011 prevede inoltre di definire una tassonomia per la riclassificazione dei dati contabili e di bilancio, volta a consentire la trasformazione dei dati economico-patrimoniali
in
dati
di
natura
finanziaria
(relativamente agli enti e alle società che non abbiano adottato le codifiche SIOPE).
7.3.7 Il piano di budget Altro aspetto di rilievo contenuto nel decreto legislativo n. 91 del 2011, è la definizione di un sistema di indicatori ai fini della misurazione dei risultati attesi dai programmi di bilancio.
Il piano illustra il contenuto di ciascun programma di spesa ed espone informazioni sintetiche relative ai principali obiettivi da realizzare, con riferimento agli stessi programmi del bilancio per il triennio della programmazione finanziaria, e riporta gli indicatori individuati per quantificare tali obiettivi, nonché la misurazione annuale degli stessi indicatori per monitorare i risultati conseguiti. Con D.P.C.M. 18 settembre 2012 sono state dettate le linee guida per la predisposizione da parte delle amministrazioni pubbliche del piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio, al fine di illustrare gli obiettivi della spesa, misurarne i risultati e monitorarne l’effettivo andamento in termini di servizi.
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Libro VII Normativa fiscale e tributaria SOMMARIO Capitolo 1 Il diritto tributario Capitolo 2 Le fonti del diritto tributario Capitolo 3 I principi costituzionali Capitolo 4 La fattispecie tributaria Capitolo 5 I soggetti passivi Capitolo 6 La dichiarazione tributaria Capitolo 7 L’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria Capitolo 8 L’accertamento tributario Capitolo 9 La riscossione e il rimborso dei tributi Capitolo 10 Le sanzioni tributarie Capitolo 11 Il contenzioso tributario Capitolo 12 L’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) Capitolo 13 L’imposta sul reddito delle società (IRES) Capitolo 14 L’imposta sul valore aggiunto (IVA) Capitolo 15 L’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP)
Capitolo 1 Il diritto tributario
1.1 La definizione di tributo Nel nostro sistema giuridico non esiste un’esplicita definizione normativa di tributo; esso rappresenta la principale tipologia di entrata pubblica di diritto pubblico, rientrante nella più ampia categoria delle prestazioni patrimoniali imposte (Amatucci), caratterizzate dall’irrilevanza della volontà dei soggetti tenuti alla loro effettuazione (Tinelli). Il tributo – che origina sempre un’obbligazione – è definito in dottrina come un’entrata acquisita dallo Stato e dagli enti pubblici coattivamente (iure imperii) in relazione ad un determinato fatto economico, con la quale si attua il concorso di tutti al finanziamento della spesa pubblica, come sancito dall’art. 53 Cost. (Tesauro). Le entrate pubbliche si distinguono in: entrate pubbliche di diritto privato: sono acquisite in forza di rapporti contrattuali di natura privatistica (entrate derivanti dalla vendita o dall’affitto di beni pubblici, entrate derivanti da attività economiche svolte da imprese pubbliche ecc.); entrate pubbliche di diritto pubblico: sono acquisite coattivamente in base alla legge (tributi, sanzioni pecunarie, i contributi previdenziali e assistenziali ecc.).
1.2 La classificazione dei tributi Nell’ambito dei tributi è possibile distinguere, in relazione al loro diverso presupposto, le imposte, le tasse, i contributi ed i monopoli fiscali.
1.2.1 Imposta L’imposta è una prestazione pecuniaria coattiva il cui presupposto è costituito da una situazione di fatto, che il legislatore ritiene indicativa di capacità contributiva, realizzata dal
soggetto
l’obbligazione
passivo,
dalla
tributaria.
Non
quale
si
genera
sussiste,
quindi,
ex
lege
alcuna
connessione tra l’imposta ed una specifica attività o servizio dell’ente pubblico destinatario del prelievo (Tesauro). L’imposta rappresenta la tipologia di tributo più rilevante del sistema tributario. La finalità è quella di ripartire, tra tutti i membri della collettività, la spesa pubblica (Amatucci, Ferlazzo Natoli), ossia il costo dei servizi pubblici generali e indivisibili (Santamaria).
1.2.2 Tassa La tassa è una prestazione pecuniaria obbligatoria il cui presupposto è costituito dalla fruizione di un servizio pubblico,
di
natura
amministrativa
o
giurisdizionale,
richiesto dal soggetto passivo (si pensi, ad esempio, alla tassa
dovuta per la frequenza universitaria). La tassa è, quindi, un tributo
nel
quale
paracommutatività
vi
è
un
(Falsitta)
nesso tra
di
correlatività
l’entrata
pubblica
o e
l’erogazione di uno specifico servizio pubblico, senza che ciò comporti il sorgere, tuttavia, di un rapporto di sinallagmaticità (Cass. 17-10-2006, n. 22245 e Cass. 7-12-2007, n. 25551). La tassa, dunque, è un’entrata che il legislatore richiede coattivamente al soggetto fruitore di una determinata attività svolta da un ente pubblico. Essa ha la funzione di ripartire il costo di determinati servizi pubblici, divisibili tra i consociati che ne beneficiano (Santamaria).
1.2.3 Contributi I contributi (o tributi speciali) sono prestazioni pecuniarie
coattive
il
cui
presupposto
è
costituito
dall’arricchimento o dal vantaggio che un soggetto trae dalla realizzazione di un’opera pubblica, destinata indistintamente alla collettività di cui il soggetto fa parte (l’opera non è richiesta dal soggetto passivo del tributo). Si pensi, ad esempio, ai contributi, di miglioria o di bonifica.
1.2.4 Monopoli fiscali Il monopolio fiscale è un regime giuridico che consente allo Stato di svolgere una determinata attività economica in esclusiva; si pensi, ad esempio, al monopolio dei tabacchi lavorati ed a quello del gioco del lotto.
Alcuni autori (Tesauro) ritengono che, dal punto di vista strutturale, l’entrata derivante da un monopolio non costituisca un tributo, ma un corrispettivo dovuto per una compravendita. Altri autori (Ferlazzo Natoli), invece, ritengono che l’entrata derivante da un monopolio sia qualificabile come un’imposta sui consumi.
1.3 Evasione, elusione e risparmio d’imposta 1.3.1 Evasione fiscale L’evasione fiscale (tax insolvency) consiste in un comportamento contra legem che, in palese violazione delle norme
tributarie,
si
realizza
quando
il
contribuente
intenzionalmente non adempie l’obbligazione tributaria, pur sussistendo il relativo presupposto. Il contribuente, quindi, si sottrae fraudolentemente all’obbligo impositivo occultando o riducendo il presupposto d’imposta che si è già manifestato, ossia ponendo in essere una condotta volontariamente finalizzata
a
commettere
un
illecito,
sanzionato
amministrativamente e, nei casi più gravi, penalmente.
1.3.2 Elusione fiscale Diverso dall’evasione fiscale è il fenomeno dell’elusione fiscale (tax avoidance), il quale non si concretizza in un’espressa violazione delle norme tributarie, ma è realizzato mediante un utilizzo strumentale delle stesse, ossia attraverso un comportamento conforme alla formulazione testuale della norma tributaria, ma non alla sua ratio, finalizzato solo a conseguire un trattamento fiscale altrimenti non spettante.
Quindi, mentre l’evasore pone in essere un comportamento fraudolento, rientrante nell’area dell’illecito, l’elusore opera “alla luce del sole” (Lupi) e persegue la riduzione del carico tributario non in modo illegale, ma abusando di determinate forme giuridiche previste dalla normativa stessa. L’elusione
comporta
l’utilizzazione
di
“scappatoie”
formalmente legittime (ossia espedienti essenzialmente interpretativi) allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici, ottenendo abusivamente vantaggi che ordinariamente il sistema
non
consente
e
indirettamente
disapprova.
L’elusore, in sostanza, pone in essere una condotta formalmente rispettosa della legge (ma non del suo spirito), mediante la quale abusa dei vari istituti giuridici, astrattamente
utilizzabili
per
l’effettuazione
di
un’operazione economica (Amatucci), al solo scopo di farla rientrare nell’ambito di applicazione della normativa tributaria che comporta il minor carico fiscale.
1.3.3 Risparmio d’imposta Dall’elusione d’imposta
(tax
va
distinto saving)
il
legittimo
derivante
da
risparmio un
lecito
comportamento del contribuente, il quale si limita a scegliere, senza alcun abuso del diritto, tra più alternative – aventi pari dignità e che, in modo strutturale e fisiologico, l’ordinamento gli mette a disposizione – quella fiscalmente più conveniente (ossia meno onerosa) non implicitamente vietata dal sistema, ma al contrario esplicitamente o implicitamente consentita.
L’evasione fiscale si manifesta, ad esempio, nel caso in cui un soggetto ometta di dichiarare un reddito posseduto, al fine di non pagare l’IRPEF su tale reddito. Invece, un esempio di elusione fiscale è dato dalla realizzazione di una fusione per incorporazione al solo fine di consentire all’incorporante di utilizzare le perdite fiscali pregresse dell’incorporata, e non per un accrescimento della capacità produttiva. Infine, un esempio di legittimo risparmio d’imposta è dato dalla scelta di aderire al consolidato fiscale nazionale, che consente di compensare redditi imponibili e perdite delle società del gruppo.
Capitolo 2 Le fonti del diritto tributario 2.1 Le fonti di produzione del diritto tributario Le fonti di produzione del diritto sono gli atti o i fatti che l’ordinamento giuridico ritiene idonei a produrre norme giuridiche. I criteri che nel nostro ordinamento consentono di ordinare le norme giuridiche prodotte dalle diverse fonti del diritto, nonché di risolvere eventuali contrasti tra le stesse sono: il criterio gerarchico, in base al quale si applica la norma posta
dalla
fonte
di
grado
superiore
(o
fonte
sovraordinata); il criterio della competenza, in base al quale si applica la norma posta dalla fonte competente per territorio o per materia.
2.2 La Costituzione e le leggi costituzionali La Costituzione e le leggi costituzionali sono situate all’apice della gerarchia delle fonti del nostro ordinamento; in esse trovano legittimità e fondamento di validità tutti i processi di produzione delle norme giuridiche (Bin-Pitruzzella). Le
norme
costituzionali
superlegislativo
(Ferlazzo
sono Natoli),
definite in
di
quanto
rango esse
contengono i principi cardine della materia tributaria, su cui è imperniato tutto il sistema fiscale nazionale, e, unitamente agli atti giuridici dell’Unione Europea, limitano il legislatore nazionale nell’emanazione della disciplina dei singoli tributi (Amatucci). La
preminenza
della
Costituzione
e
delle
leggi
costituzionali su tutte le norme contenute nelle altre fonti del diritto, che hanno un rango subordinato, implica che, nell’ipotesi di conflitto, quest’ultime si qualificano come costituzionalmente illegittime (Santamaria). Specificamente dedicati alla materia tributaria sono l’art. 23 Cost., che stabilisce il principio della riserva di legge, e l’art. 53 Cost., che prevede i principi della capacità contributiva e di progressività.
2.2.1 La riserva di legge in materia tributaria
In materia tributaria, l’art. 23 Cost. stabilisce che “nessuna prestazione personale e patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. Tale articolo contiene il principio della riserva di legge, in base al quale la disciplina di tale materia è attribuita solo alla legge ed agli atti ad essa equiparati,
sottraendola
alla
disciplina
di
fonti
gerarchicamente inferiori ad essa. Ratio La ratio attuale della riserva di legge in materia tributaria è riconducibile alla funzione di tutelare la libertà e la proprietà degli individui rispetto al potere del Governo (organo esecutivo), in materia di prestazioni personali e patrimoniali. Pertanto, il potere di imporre autoritativamente le citate prestazioni, ossia il potere di determinare la diminuizione del patrimonio di un soggetto, indipendentemente dalla sua volontà, in applicazione del cd. principio del consenso all’imposizione
(Tinelli),
è
attributo
esclusivamente
al
Parlamento, i cui atti sono sottoposti al controllo di conformità ai
principi
della
Costituzione
da
parte
della
Corte
costituzionale (Falsitta). Relatività della riserva di legge La riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. è relativa, non quindi assoluta, e riguarda solo le norme tributarie sostanziali o norme impositive. Affinché essa sia rispettata è necessario che la legge contenga un minimum (cd. “base
legislativa”)
che
consenta
di
determinare
il
presupposto ed i soggetti passivi (an debeatur), nonché i criteri per l’individuazione della misura del tributo, ossia la
base imponibile e l’aliquota (quantum debeatur) (Tesauro; Santamaria). Sono quindi disciplinabili da norme di grado inferiore alla legge sia le procedure di accertamento sia quelle di riscossione (Ferlazzo Natoli). Si ammette che, ai fini del rispetto della riserva di legge, la legge
contenga
successivamente,
principi mediante
che norme
trovano
attuazione,
di
gerarchico
rango
inferiore alla legge (Tinelli). È stato osservato, inoltre, che la riserva di legge dovrebbe applicarsi anche alle norme strumentali (o formali) che incidono, in concreto, sulla prestazione patrimoniale dovuta del contribuente (Gaffuri).
2.3 Le fonti primarie: leggi ordinarie e atti aventi forza di legge Ad
un
livello
gerarchico
subordinato
rispetto
alla
Costituzione ci sono le leggi formali e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi) che, in virtù della riserva ex art. 23 Cost., costituiscono le più rilevanti fonti del diritto tributario. Le leggi formali dello Stato sono atti normativi, a competenza generale, emanati dal Parlamento e promulgati dal Presidente della Repubblica.
2.3.1 Lo Statuto dei diritti del contribuente Con la L. 27-7-2000, n. 212, è stato approvato il cd. Statuto dei diritti del contribuente, le cui disposizioni si autoqualificano come attuative degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione e come principi generali dell’ordinamento tributario (art. 1). Inoltre, il legislatore ha previsto che le disposizioni dello Statuto possono essere derogate o modificate solo espressamente – quindi, non in modo tacito – e mai da leggi speciali. Nonostante ciò, le norme dello Statuto, dal punto di vista della gerarchia delle fonti, non essendo state approvate con
legge costituzionale ma con legge ordinaria, possono essere derogate da leggi ordinarie successive. Tuttavia, le disposizioni dello Statuto, per la loro organicità e solennità, costituiscono importanti criteri-guida (Tesauro; Lupi) per l’applicazione
delle
norme
tributarie,
sia
in
sede
amministrativa sia in sede giurisprudenziale, trattandosi di principi che il legislatore ha ricavato dalla Costituzione e trasformato in legge ordinaria.
2.3.2 I decreti legge L’art. 77 Cost. prevede la possibilità per il Governo di emanare, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, decreti legge, ossia provvedimenti provvisori con forza di legge. I decreti legge, deliberati dal Consiglio dei Ministri ed emanati dal Presidente della Repubblica, devono essere presentati al Parlamento per la conversione in legge il giorno stesso in cui sono emanati. Se non sono convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione, i decreti legge perdono efficacia sin dall’inizio (decadenza ex tunc), fermo restando la possibilità, per il Parlamento, di emanare una legge che regoli i rapporti giuridici sorti nel periodo di vigenza dei decreti non convertiti. Tra i motivi del frequente utilizzo, in materia tributaria, dei decreti legge vi è, in primo luogo, la necessità di evitare comportamenti opportunistici o illeciti in occasione dell’adozione di determinati provvedimenti (si pensi, ad esempio, all’aumento delle aliquote nel settore delle accise ovvero all’introduzione di una norma antielusiva). In secondo luogo, lo strumento del decreto legge consente, nel
caso di spese urgenti, il rispetto dell’art. 81 Cost., in base al quale ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. L’art. 4 dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/2000) stabilisce che non si può disporre con decreto legge
l’istituzione
di
nuovi
tributi,
né
prevedere
l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Tuttavia, trattandosi di una disposizione contenuta in una legge ordinaria, che comunque non riguarda i decreti legge modificativi delle aliquote (cd. decreti catenaccio), la stessa può essere comunque derogata dal Governo.
2.3.3 I decreti legislativi In base all’art. 76 Cost., il Governo può emanare atti aventi forza di legge in attuazione di una specifica legge di delegazione emanata dal Parlamento, la quale deve definire l’oggetto della delega, i principi ed i criteri direttivi che il Governo dovrà rispettare nell’esercitarla, nonché il termine entro il quale tale delega potrà essere esercitata. Il decreto legislativo, una volta approvato dal Consiglio dei Ministri, è emanato dal Presidente della Repubblica con proprio decreto. Le principali riforme tributarie degli ultimi anni sono state realizzate attraverso lo strumento del decreto legislativo, in quanto il notevole tecnicismo della materia è difficilmente gestibile
nell’ambito
parlamentari. Testi unici
dei
dibattiti
e
delle
procedure
I testi unici delegati sono provvedimenti normativi, aventi natura di decreti legislativi, i quali hanno lo scopo di unificare in un unico testo normativo, organico e sistematico, le norme vigenti – contenute in diverse fonti – che disciplinano una determinata materia. Si pensi, ad esempio, al Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), approvato con D.P.R. 22-12-1986, n. 917. In ragione del loro contenuto, distinguiamo: testi unici compilativi, che raccolgono norme vigenti; testi unici innovativi, che contengono norme correttive e integrative di quelle già esistenti.
2.3.4 Il divieto di referendum abrogativo in materia tributaria In base a quanto disposto dall’art. 75, comma 2, Cost., in materia tributaria è vietato il referendum abrogativo, sia con riguardo alle norme tributarie sostanziali, sia con riguardo a quelle strumentali. Secondo
la
giurisprudenza
costituzionale,
ai
fini
dell’applicazione del divieto di referendum abrogativo, deve farsi riferimento ad una nozione di tributo ampia, dovendosi ricomprendere a tal fine, ad esempio, i contributi per l’assistenza sanitaria (Corte cost. 12-1-1995, n. 2). La Corte ritiene ammissibile, invece, il referendum abrogativo in materia di tariffe e prezzi amministrati (Corte cost. 7-21985, n. 35).
2.4 Le fonti secondarie dell’ordinamento nazionale Le fonti secondarie, subordinate a quelle primarie, sono costituite dai regolamenti, ossia dagli atti normativi emanati dal Governo, dai Ministri e dagli organi centrali e periferici della pubblica amministrazione, dalle Regioni e dagli altri enti locali. L’applicazione del principio gerarchico comporta che, in caso di contrasto tra le norme di un regolamento e le norme di legge, il giudice ordinario deve disapplicare il regolamento. Spetta, invece, al giudice amministrativo annullare, con efficacia erga omnes, un regolamento contrario alla legge dichiarandolo invalido. Alla luce del loro carattere normativo, ai regolamenti si applicano i principi ignorantia legis non excusat e iura novit curia, che, invece, non si applicano ai provvedimenti amministrativi generali (Lupi).
2.4.1 Regolamenti governativi I regolamenti governativi, disciplinati dall’art. 17 della L. 23-8-1988, n. 400, sono emanati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato. È previsto,
inoltre, che i regolamenti siano sottoposti al visto ed alla registrazione della Corte dei conti. I regolamenti governativi, attraverso i quali il Governo esercita una potestà regolamentare generale, senza che sia necessaria una specifica norma di legge che la autorizzi, si distinguono in:
regolamenti di esecuzione, che consentono la concreta applicazione di leggi e decreti legislativi, mediante la previsione di prescrizioni di dettaglio; regolamenti di attuazione e
di
integrazione,
che
completano leggi e decreti legislativi recanti norme di principio, escludendosi quelli relativi a materie comunque riservate alla competenza regionale; regolamenti indipendenti, che disciplinano materie non regolate da leggi o atti aventi forza di legge, sempre che tali materie non siano comunque riservate alla legge; regolamenti
di
l’organizzazione
organizzazione, ed
il
che
disciplinano
funzionamento
delle
amministrazioni pubbliche in base alle disposizioni stabilite dalla legge. Il Governo può altresì emanare, in base ad un’apposita legge
di
autorizzazione,
regolamenti
delegati
o
delegificanti, i quali sono finalizzati a disciplinare materie non coperte da riserva assoluta di legge. In sostanza, con la cd. delegificazione, la legge ordinaria autorizza, con finalità di semplificazione, la sostituzione di norme di fonti primarie con norme regolamentari. L’abrogazione delle norme vigenti,
disposta dalla legge di autorizzazione, ha effetto dall’entrata in vigore del regolamento di delegificazione.
2.4.2 Regolamenti ministeriali ed interministeriali I regolamenti ministeriali sono adottati nelle materie dei singoli ministri (con decreto ministeriale) o di autorità sott’ordinate al singolo ministro, previa autorizzazione di un’apposita legge. I regolamenti interministeriali, invece, sono adottati (con decreto interministeriale) nelle materie di competenza di più ministri, previa autorizzazione di un’apposita legge. Sia i regolamenti ministeriali, sia quelli interministeriali sono sempre subordinati ai regolamenti governativi e devono essere comunicati, prima della loro emanazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono assimilabili ai regolamenti ministeriali i regolamenti approvati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che, pur non espressamente previsti dalla L. 23-8-1988, n. 400, sono sempre più frequenti negli ultimi anni (Barbera-Fusaro).
2.4.3 Provvedimenti dei direttori delle Agenzie fiscali Sono
provvedimenti
che
hanno
natura
di
atti
amministrativi generali, i quali svolgono una funzione oggettivamente normativa in quanto integrano, nei casi di minore importanza, le previsioni legislative (Lupi). Ad
esempio, la modulistica fiscale (dichiarazioni, istanze ecc.) è approvata con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate.
2.5 La ripartizione della potestà legislativa tributaria tra lo Stato e le autonomie territoriali 2.5.1 La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni Gli artt. 117 e 119 Cost., riformati dalla L. cost. 18-10-2001, n. 3, disciplinano il riparto della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni, in base ad un criterio ordinatorio di competenze per materie. In dettaglio, le citate disposizioni attribuiscono: allo Stato, una potestà legislativa esclusiva in materia di sistema tributario e contabile dello Stato, di armonizzazione dei bilanci pubblici e di perequazione delle risorse finanziarie; alle Regioni, sia una potestà legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, da esercitare nell’ambito dei principi fondamentali determinati dalla legislazione dello Stato, sia un’autonoma
potestà
legislativa
(cd.
potestà
legislativa residuale) in materia di sistema tributario degli enti territoriali. L’art. 119 Cost., a seguito della riforma costituzionale del 2001, prevede la possibilità per le Regioni – dotate di
autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nonché di risorse autonome – di stabilire ed applicare tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Secondo la giurisprudenza costituzionale, per poter attuare la citata riforma e rendere effettiva l’autonomia tributaria delle Regioni, è necessario l’intervento del legislatore statale che, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, deve sia fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, sia determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente di Stato, Regioni ed enti locali (Corte cost. 26-1-2004, n. 37). In sostanza, il riparto delle competenze legislative in materia tributaria tra Stato e Regioni potrà trovare piena attuazione solo dopo l’emanazione delle legge statale di coordinamento e dei provvedimenti relativi attuativi. Sul punto, con l’approvazione della Legge 5-52009, n. 42, in materia di federalismo fiscale, sono stati stabiliti i principi ed i criteri direttivi della finanza regionale, prevedendo che le Regioni dispongano di tributi e di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali (tra i quali è espressamente indicata, in via prioritaria, l’IVA), idonei a finanziare le spese relative all’esercizio delle materie che la Costituzione affida alla loro competenza legislativa residuale o concorrente e quelle relative a materie di competenza esclusiva statale con riguardo alle
quali le Regioni esercitano funzioni amministrative (Martines-Ruggeri-Salazar). La citata L. n. 42/2009 distingue i tributi regionali in:
tributi propri derivati, ossia tributi istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni, le quali possono modificarne con legge le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni, nei limiti fissati dalla legge statale; addizionali sulle basi imponibili di tributi erariali, con riguardo alle quali le Regioni possono introdurre variazioni percentuali delle aliquote e disporre detrazioni, nei limiti posti dalla legge statale; tributi propri istituiti dalle leggi regionali, in relazione ad ambiti non coperti da tributi erariali (al fine di evitare il configurasi di ipotesi di cd. doppia imposizione). È da ricordare, inoltre, che l’art. 120 Cost. stabilisce il divieto per le Regioni di istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le stesse.
2.5.2 La potestà legislativa in materia di tributi degli enti locali È la legge statale che individua i tributi propri degli enti locali, anche in sostituzione o trasformazione di tributi già esistenti e anche attraverso l’attribuzione agli stessi enti di tributi o parti di tributi già erariali, definendone i presupposti,
i soggetti passivi, le basi imponibili e le aliquote di riferimento valide per tutto il territorio nazionale. Anche le Regioni hanno il potere di istituire, con legge regionale, nuovi tributi dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane nel proprio territorio, specificando gli ambiti di autonomia riconosciuti ai citati enti locali, ai quali resta la possibilità di modificare le aliquote dei tributi loro attribuiti e di introdurre agevolazioni.
2.6 La potestà regolamentare delle Regioni e degli enti locali In ambito tributario, non trattandosi di una materia rientrante nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, le Regioni hanno una potestà regolamentare generale. I regolamenti regionali sono subordinati sia alla legge statale sia a quella regionale. L’art. 119 Cost. prevede per i Comuni, le Province e le Città metropolitane, oltre che per le Regioni, un’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nonché risorse autonome. È altresì previsto che i suddetti enti possano stabilire ed applicare tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, e che essi dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. Al riguardo, però, mentre le Regioni hanno una potestà legislativa primaria, che consente loro di disciplinare i propri tributi con leggi proprie, gli enti locali, essendo sprovvisti di tale potestà legislativa, possono solo emanare regolamenti (potestà regolamentare) in materia di tributi propri, la cui disciplina di base deve essere prevista da una legge statale o regionale. Si pensi, ad esempio, all’imposta municipale propria (IMU), istituita con D.Lgs. 14-3-2011, n. 23, in relazione alla quale
i singoli Comuni, nel rispetto delle previsioni di legge, stabiliscono, con proprio regolamento, l’aliquota.
2.7 Le fonti dell’ordinamento europeo Tra le fonti del diritto tributario, un ruolo di assoluto rilievo è rivestito dalle fonti dell’Unione Europea: regolamenti, direttive, decisioni. I regolamenti europei hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, senza la necessità di essere recepiti dai singoli ordinamenti nazionali. In quanto dotati di efficacia diretta nell’ordinamento nazionale, i regolamenti attribuiscono ai cittadini diritti tutelabili in sede giurisdizionale nazionale. Le direttive vincolano gli Stati membri cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, restando salva la competenza e la discrezionalità degli organi legislativi dei singoli Stati in merito a forma e mezzi. Le direttive, quindi, non hanno portata generale e non sono direttamente esecutive come i regolamenti, in quanto non rivolte ai cittadini uti singuli,
e
recepimento.
necessitano Tuttavia,
dell’emanazione secondo
la
di
dottrina
norme
di
dominante
(Amatucci; Santamaria) e la giurisprudenza europea (Corte Giust. CE 17-12-1970, n. 33/70) e nazionale (Cass., sez. un., 124-1996, n. 3458), nel caso di direttive contenenti disposizioni sufficientemente
precise,
dettagliate
ed
incondizionate,
scaduto inutilmente il termine previsto per il loro recepimento, tali direttive (cd. direttive self executing) devono ritenersi direttamente
e
automaticamente
applicabili
all’interno
dell’ordinamento nazionale (da parte dei giudici nazionali e di tutti gli organi della pubblica amministrazione), anche in assenza di uno specifico atto di recepimento. Le decisioni sono atti obbligatori in tutti i loro elementi; se designano i destinatari, sono obbligatori soltanto nei confronti di questi (art. 288, par. 4, TFUE). In materia tributaria, sono frequenti le decisioni che ordinano ad uno Stato membro la revoca di determinati benefici fiscali, perché ritenuti aiuti di Stato incompatibili con l’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). In
applicazione
del
criterio
di
ripartizione
delle
competenza, nelle materie che il Trattato riserva alla potestà legislativa degli organi dell’Unione europea, vi è una prevalenza gerarchica delle norme europee sulle norme nazionali, anteriori o posteriori alle stesse. Secondo
il
consolidato
orientamento
della
Corte
costituzionale, conforme a quello della Corte di Giustizia UE, sussiste un primato del diritto europeo su quello nazionale e, pertanto, in caso di contrasto tra norme interne e norme europee, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la norma interna, di qualsiasi rango, ad eccezione delle norme della
Costituzione
contenenti
i
principi
fondamentali
immodificabili (tra cui quello della capacità contributiva ex art. 53 Cost.), che sia incompatibile con quella europea. Il citato principio, tuttavia, non implica che il diritto interno
eventualmente in contrasto debba ritenersi abrogato o invalido in quanto, nel presupposto che l’ordinamento europeo e quello italiano sono separati anche se coordinati, il diritto interno è semplicemente non applicabile quando esiste una disciplina dell’Unione europea.
2.8 Le convenzioni internazionali Le
convenzioni
internazionali
in
materia
tributaria
riguardano essenzialmente la doppia imposizione (dei redditi, dei patrimoni e delle successioni), i dazi e la collaborazione tra le autorità fiscali dei vari Paesi. Le norme delle convenzioni, in base all’art. 80 Cost., devono essere ratificate con legge e, a seguito
di
tale
ratifica,
diventano
norme
interne
dell’ordinamento italiano che, in quanto norme speciali, prevalgono sulle altre norme interne, salvo che queste ultime siano più favorevoli rispetto a quelle convenzionali, come prescritto dall’art. 169 del TUIR.
2.9 L’efficacia delle norme tributarie nel tempo 2.9.1 Entrata in vigore delle norme tributarie L’art. 10 disp. prel. c.c. dispone che, in generale, le leggi ed i regolamenti diventano obbligatori, e sono quindi efficaci erga omnes, decorsi 15 giorni dalla loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. È tuttavia possibile per il legislatore derogare a tale regola, stabilendo un diverso momento di inizio dell’efficacia delle norme, allungando o riducendo il periodo di vacatio legis.
2.9.2 Criterio cronologico In materia di efficacia nel tempo delle norme tributarie si applicano i principi generali e quindi, in primis, il criterio cronologico, in base al quale tra fonti equiparate, cioè tra norme dello stesso rango gerarchico e aventi la stessa competenza, si applica la norma emanata successivamente nel tempo (lex posterior derogat priori). Il citato criterio cronologico, utilizzato per risolvere le antinomie normative, è comunque subordinato: sia rispetto a quello gerarchico (lex superior derogat inferiori), in quanto la norma posta da una fonte di rango
inferiore non può mai abrogare quella posta da una fonte superiore, sebbene ad essa posteriore; sia rispetto a quello di specialità, in quanto la norma posteriore generale non abroga la norma anteriore speciale (lex posterior generalis non derogat priori speciali).
2.9.3 Il principio di irretroattività delle norme tributarie In applicazione del principio generale contenuto nell’art. 11 disp. prel. c.c., secondo il quale la legge non dispone che per l’avvenire, le norme tributarie, normalmente, non hanno effetto retroattivo. Tuttavia, trattandosi di un principio posto da una legge ordinaria, esso può essere derogato da un’altra legge ordinaria posteriore e, quindi, il legislatore può espressamente prevedere l’efficacia retroattiva di una norma tributaria. Il citato art. 11 disp. prel. c.c. non può però essere derogato da una fonte subordinata, come un regolamento (principio di assoluta non retroattività dei regolamenti). In materia tributaria, il legislatore nello Statuto del contribuente (art. 3 L. n. 212/2000) ha espressamente previsto che: le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo; relativamente ai tributi periodici (IRES, IVA ecc.), le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono;
le disposizioni tributarie, in ogni caso, non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al 60° giorno dalla data della
loro
entrata
in
vigore
o
dell’adozione
dei
provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti.
2.10 L’interpretazione delle norme tributarie Per l’interpretazione delle norme tributarie non esistono regole specifiche e, pertanto, si applicano i criteri stabiliti, in generale,
dall’art.
12
dell’interpretazione significato
disp.
prel.
letterale,
grammaticale
delle
c.c.,
volta parole,
ossia
alla
quello
ricerca
considerate
del non
isolatamente ma nella loro connessione sintattica, e quello sussidiario dell’interpretazione logica, volta alla ricerca dello scopo del legislatore (voluntas legis o ratio legis). In ambito tributario, è frequente che sia lo stesso legislatore
a
fornire
la
definizione
legislativa
di
un
determinato termine utilizzato dalla norma, la quale è vincolante per l’interprete. Un esempio di definizione legislativa è dato dall’art. 25 del TUIR, il quale stabilisce che i redditi fondiari sono quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano.
2.10.1 Interpretazione dell’Amministrazione finanziaria In ambito tributario si assiste ad un’intensa attività interpretativa
da
parte
degli
uffici
centrali
dell’Amministrazione finanziaria, finalizzata ad impartire direttive agli uffici periferici e, al contempo, a fornire ai contribuenti
un
punto
di
riferimento
in
materia
di
adempimenti tributari. Tale attività interpretativa si estrinseca attraverso l’emanazione dei seguenti atti: circolari, che hanno lo scopo di illustrare e chiarire una determinata disciplina, soprattutto in occasione di rilevanti modifiche legislative. Molto frequenti sono le circolari interpretative dell’Agenzia delle Entrate; risoluzioni, che contengono risposte a quesiti posti, in relazione a casi specifici, stimolate dai contribuenti o da uffici periferici della stessa Amministrazione finanziaria; istruzioni, atti che illustrano le corrette modalità di compilazione della modulistica fiscale; pareri, resi a seguito di specifica istanza di interpello presentata da un singolo contribuente. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza (Cass. 24-2-2012, n. 2850; Cass., sez. un., 2-11-2007, n. 23031),
le
circolari
interpretative
dell’Amministrazione
finanziaria sono da ritenere atti interni, che non costituiscono una fonte del diritto e che non esplicano alcun effetto giuridico nei confronti dei soggetti estranei all’Amministrazione, né acquistano efficacia vincolante per quest’ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti, senza poter incidere sul rapporto tributario.
2.10.2 L’interpretazione analogica del diritto tributario L’ordinamento giuridico è per sua natura completo e, pertanto, per colmare le inevitabili lacune del sistema, il legislatore prevede lo strumento dell’interpretazione analogica, la quale consiste nell’applicare ad una fattispecie non prevista la disciplina stabilita per fattispecie diverse. In primo luogo, ai sensi dell’art. 12, comma 2, disp. prel. c.c., deve farsi ricorso alla disciplina dettata per casi simili o materie analoghe (analogia legis) e, nel caso in cui manchino anche norme che regolino casi simili, deve farsi ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico (analogia iuris). È espressamente stabilito il divieto di analogia per le leggi penali e per le leggi eccezionali (art. 14 disp. prel. c.c.). Nel diritto tributario è controversa la possibilità di fare ricorso
all’analogia
con
riferimento
alle
norme
tributarie impositrici, quelle cioè che disciplinano il presupposto ed i soggetti passivi del tributo (an debeatur). È, invece, unanimemente ammessa in dottrina la possibilità di un ricorso all’interpretazione analogica delle norme tributarie non impositive (o non sostanziali), che consentono la cd. attuazione del tributo, sia in relazione ai casi in cui la legge preveda che una determinata fattispecie sia imponibile ma, per una lacuna tecnica, non preveda i criteri per
la
determinazione
dell’imponibile
(quantum
debeatur), sia con riferimento alla disciplina degli aspetti procedurali (dichiarazioni, accertamento, riscossione ecc.) e processuali.
Capitolo 3 I principi costituzionali 3.1 I tributi nella Costituzione Il sistema tributario nazionale è imperniato sul principio della capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost. che, al primo comma, stabilisce per tutti il dovere di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Tale
principio
non
va
interpretato
isolatamente, ma nel più ampio quadro delle altre norme costituzionali
e,
in
particolare,
esso
va
correlato
inscindibilmente con i principi contenuti negli artt. 2 e 3 Cost.; solo tale legame, infatti, giustifica il sacrificio del singolo soggetto, nei cui confronti è esercitata la pretesa tributaria (Amatucci). Infatti, nell’ambito dei valori tutelati dalla Costituzione, i tributi realizzano l’attuazione sia del principio solidaristico (art. 2 Cost.), il quale richiede a tutti i consociati l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, sia del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), il quale attribuisce allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
3.2 Il principio della capacità contributiva (art. 53, c.1) 3.2.1 Definizione e fattori costitutivi di capacità contributiva La capacità contributiva di un soggetto esprime la sua forza economica, quale presupposto cui commisurare la ripartizione delle spesa pubblica (Tinelli; Ferlazzo Natoli), che può essere individuata in base a indici rilevatori di ricchezza: diretti, quali il reddito e il patrimonio; indiretti, quali il consumo ed i trasferimenti di ricchezza. Si tratta, in sostanza, dell’astratta attitudine di un soggetto a sostenere il depauperamento di risorse economiche causato dall’applicazione del tributo, desunta da specifici elementi che la legge qualifica come presupposti d’imposta (Gaffuri). Autorevole dottrina (Falsitta) individua due fattori costitutivi della capacità contributiva di un soggetto (presupposti della capacità contributiva): un indice oggettivo di forza economica, ossia il fatto generatore o situazione base, il quale deve essere suscettibile di valutazione economica (Santamaria); l’imputabilità dell’indice al soggetto passivo del tributo, quale requisito indispensabile per conferire allo stesso
un’effettiva capacità di contribuzione.
3.2.2 Applicabilità del principio di capacità contributiva alle tasse Secondo la giurisprudenza costituzionale ed un certo orientamento dottrinale (La Rosa), il principio della capacità contributiva contenuto nell’art. 53 Cost., non costituendo un criterio di riparto di tutte le spese pubbliche, ma solo di quelle indivisibili, deve ritenersi applicabile solo alle imposte e non anche alle tasse. Diversamente, secondo l’opinione prevalente, il principio di capacità contributiva deve ritenersi comunque operante anche per la ripartizione delle spese pubbliche divisibili (servizio sanitario, istruzione, difesa ecc.), alla luce della funzione di garanzia attribuita all’art. 53 Cost. (Santamaria; Tesauro). Infatti, si ritiene (Falsitta) che la richiesta del pagamento di una tassa ai fruitori di servizi essenziali, anche in assenza di indici di capacità contributiva, violerebbe la tutela del cd. minimo vitale contenuta nell’art. 53 Cost.
3.2.3 L’effettività della capacità contributiva La capacità contributiva di un soggetto per essere tale deve possedere il requisito dell’effettività, ossia l’imposizione deve avvenire su fatti concretamente riscontrabili e non su fatti meramente affermati o presunti. In sostanza, la ricchezza colpita dal tributo non può essere potenziale o apparente in quanto, diversamente, verrebbe svuotato il principio della capacità contributiva (Tinelli).
Una rigorosa interpretazione del principio di effettività della capacità contributiva dovrebbe comportare l’illegittimità costituzionale di tutte quelle norme che, nei casi in cui sia difficile una puntuale determinazione del tributo, quantificano, seguendo un’impostazione realistica, l’imponibile o l’imposta con l’ausilio di criteri presuntivi ovvero di criteri forfettari. Il principio di effettività della capacità contributiva dovrebbe altresì implicare la necessità di depurare la base imponibile di un tributo degli effetti derivanti dalla svalutazione
monetaria,
ossia
degli
incrementi
esclusivamente nominali. Tuttavia, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 8-11-1979, n. 126) deve ritenersi che rientri nel potere discrezionale del legislatore la scelta di tenere conto o meno dei fenomeni inflattivi.
3.2.4 Attualità della capacità contributiva Un altro degli aspetti che caratterizza il principio della capacità contributiva è rappresentato dalla sua attualità (Tesauro) da intendersi come sussistenza di un ragionevole collegamento tra il momento in cui avviene l’imposizione ed il momento in cui si verifica il fenomeno economico assunto, quale presupposto, dalla fattispecie impositiva (Tinelli). In altri termini, l’arco temporale intercorrente tra il verificarsi del presupposto d’imposta e il momento in cui si verifica la tassazione deve essere breve (Ferlazzo Natoli). Il requisito dell’attualità implica, come logica conseguenza, dei limiti alla
retroattività delle norme tributarie, ossia alla possibilità di istituire tributi che colpiscono fatti del passato.
3.2.5 Capacità contributiva e uguaglianza sostanziale Dall’interpretazione sistematica degli artt. 53 e 3 Cost. discende quello che la dottrina (Paladin; Tesauro) definisce come principio di uguaglianza tributaria, in base al quale situazioni che esprimono un’identica capacità contributiva devono essere assoggettate allo stesso regime impositivo e, al contempo, situazioni che esprimono una diversa capacità contributiva devono essere assoggettate ad un differente regime impositivo. L’uguaglianza richiede che le norme tributarie non siano contraddittorie tra loro, ossia che il legislatore realizzi una giustizia fiscale attraverso una coerenza sia esterna alla singola imposta e al sistema tributario (non devono sussistere contraddizioni tra regimi in due diversi campi dell’ordinamento giuridico), sia all’interno di una medesima imposta (le fattispecie imponibili devono esprimere la specifica ipotesi di capacità contributiva che il legislatore intende colpire) (Amatucci; Falsitta). In tal senso, rientra nella discrezionalità
del
legislatore
individuare,
ed
eventualmente disciplinare in modo differente, situazioni diverse,
salvo
il
potere
della
Corte
costituzionale
di
controllarne le scelte, sotto il profilo della legittimità costituzionale, in base al canone della ragionevolezza o meno della disparità di trattamento. Pertanto, a seguito del citato procedimento valutativo, la Corte costituzionale dovrà
censurare, in quanto costituzionalmente illegittime, le scelte legislative
caratterizzate
irragionevolezza (Lupi).
da
irrazionalità,
arbitrarietà
o
3.3 Il principio di progressività (art. 53, c.2) L’art. 53 Cost., secondo comma, dispone che il sistema tributario è informato a criteri di progressività, ossia imperniato
su
criteri
che
prevedano
un
aumento
dell’imposizione più che proporzionale rispetto all’aumento dell’imponibile. Il
principio
autorevole
di
dottrina
progressività
rappresenta,
secondo
(Santamaria),
un’accentuazione
del
principio solidaristico piuttosto che un criterio precettivo. Secondo la giurisprudenza costituzionale, il principio di progressività contenuto nell’art. 53 Cost. è rispettato se il sistema tributario è progressivo nel suo complesso. La prevalenza è da intendersi con riguardo all’importanza dei tributi, ma non anche necessariamente con riguardo al numero degli stessi (Gaffuri). È quindi ammissibile che esistano molteplici tributi non progressivi (proporzionali o fissi), a condizione che esista un tributo progressivo che qualifichi tutto il sistema (Corte cost. 29-12-1966, n. 128).
Nel nostro ordinamento la progressività del sistema tributario è garantita dall’IRPEF, la quale è strutturata in base ad una progressività per scaglioni, attraverso l’applicazione di aliquote, a mano a mano crescenti, ai diversi scaglioni di reddito (l’aliquota è costante nell’ambito del singolo scaglione).
Capitolo 4 La fattispecie tributaria 4.1 La fattispecie tributaria: elementi costitutivi ed effetti Tradizionalmente si suole distinguere tra norme tributarie sostanziali e norme tributarie formali. Le norme tributarie sostanziali sono quelle che individuano gli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria (Amatucci), ossia il soggetto passivo, il presupposto impositivo e la misura del tributo (base imponibile ed aliquota). Le
norme
tributarie
formali
sono
norme
che
prevedono, sia a carico del soggetto passivo del tributo sia a carico di altri soggetti, adempimenti procedurali e strumentali all’applicazione dei tributi, i quali possono anche non essere collegati al presupposto d’imposta. Si pensi alla norma che stabilisce l’obbligo di comunicare, ai fini dell’IVA, l’inizio dell’attività all’Amministrazione finanziaria.
4.2 Il presupposto d’imposta Il presupposto d’imposta, chiamato anche presupposto di fatto, fattispecie imponibile, fatto generatore o fattispecie d’imposta, è il fenomeno economico (atto o fatto) il cui verificarsi determina, direttamente o indirettamente, la nascita dell’obbligazione tributaria. Il presupposto non va confuso con l’oggetto del tributo, identificabile con la ricchezza che il tributo colpisce (Amatucci). Il presupposto dell’IRPEF, ad esempio, è costituito, ex art. 1 del TUIR, dal possesso di redditi, in denaro o in natura, rientranti in una delle categorie espressamente individuate.
4.2.1 Imposte dirette e indirette In relazione agli indici di forza economica assunti dal legislatore come presupposto, distinguiamo: le imposte dirette, le quali hanno come presupposto indici
che
manifestano
direttamente
la
capacita
contributiva di un soggetto, come il reddito e il patrimonio; a loro volta, le imposte dirette si distinguono in imposte personali (o soggettive), nelle quali assumono rilevanza, ai fini della loro quantificazione, elementi relativi alla sfera personale e familiare del soggetto passivo, e imposte reali (o oggettive), nelle quali i citati elementi non hanno alcun rilievo;
le imposte indirette, le quali hanno come presupposto indici che manifestano indirettamente, ossia in via indiziaria, la capacità contributiva di un soggetto, come i consumi ed i trasferimenti di ricchezza. Nel nostro sistema tributario sono imposte dirette sul reddito l’IRPEF e l’IRES, mentre la principale imposta diretta sul patrimonio è l’IMU. Tradizionalmente le imposte indirette si dividono in:
imposte sugli affari, che a loro volta includono: le imposte sui trasferimenti di ricchezza, tra le quali
l’imposta
di
registro,
l’imposta
sulle
successioni e donazioni, l’imposta ipotecaria e l’imposta catastale; le imposte sui consumi, tra cui l’IVA e le accise; imposte sugli atti e negozi giuridici, tra cui l’imposta di bollo.
4.2.2 Imposte istantanee e periodiche Sotto il profilo temporale, distinguiamo: le imposte istantanee, il cui presupposto è costituito da un evento immediato, che genera un’autonoma ed unica obbligazione e, pertanto, la ripetizione di tale evento nel medesimo anno fa sorgere una nuova obbligazione tributaria. Si pensi, ad esempio, all’imposta di registro; le imposte periodiche, il cui presupposto è costituito da un fenomeno economico che si prolunga nel tempo; per le
imposte periodiche, pertanto, la norma tributaria deve individuare l’arco temporale (cd. periodo d’imposta), tendenzialmente coincidente con l’anno solare, con riferimento al quale si configura in concreto il presupposto e, di riflesso, la distinta obbligazione periodica d’imposta (Falsitta); si pensi, ad esempio, all’IRPEF, all’IRES e all’IVA.
4.2.3 Imposte generali e speciali In relazione all’ampiezza del presupposto del tributo, distinguiamo: imposte generali, che colpiscono manifestazioni di ricchezza considerate nel loro complesso (ad esempio, il reddito o il patrimonio nella loro globalità); imposte speciali, che colpiscono manifestazioni di ricchezza considerate parzialmente (ad esempio, solo una parte del reddito o solo una parte del patrimonio).
4.2.4 Il restringimento e l’ampliamento del presupposto d’imposta Il
restringimento
del
presupposto
d’imposta
può
configurarsi come esenzione o come esclusione. In entrambi i casi non sussisterà l’obbligo di versare il tributo previsto dalla norma impositrice generale. Esenzione ed esclusione L’esenzione d’imposta si configura quando una norma (speciale) riduce il raggio d’azione del presupposto di un
tributo, evitando di tassare, di solito per finalità extrafiscali, determinate situazioni e soggetti che altrimenti, in assenza di una specifica deroga, ricadrebbero nell’ambito di applicazione della norma impositiva generale (D’Amati). L’esclusione d’imposta si configura quando il legislatore emana una disposizione che ha lo scopo di chiarire l’ambito di applicazione della fattispecie di un tributo, ossia di esplicitare il raggio di azione del presupposto impositivo (Falsitta; Tesauro). Non si tratta, quindi, di una deroga alla norma generale impositiva, che ha lo scopo di restringere il presupposto impositivo (Ferlazzo Natoli), come avviene invece nel caso delle esenzioni. Fattispecie equiparata La fattispecie equiparata (o assimilata) si configura quando il legislatore, al fine di assoggettare ad imposizione fatti ritenuti espressivi di una medesima capacità contributiva, estende l’ambito di applicazione di un tributo, attraverso l’esplicita
previsione
di
fattispecie
aggiuntive,
ritenute
equivalenti alla fattispecie tipica (Tesauro; Falsitta; Amatucci). Si veda l’art. 2 del D.P.R. n. 131/1986 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di seguito indicato come T.U. Reg.) che, in deroga alla regola generale, prevede l’applicazione dell’imposta di registro anche a determinati contratti verbali.
Fattispecie sovrapposte Si
configura
una
fattispecie
sovrapposta
(o
sovrapposizione) quando il legislatore prevede che la
fattispecie di un tributo (imposta madre) costituisca anche la fattispecie di un altro tributo (imposta figlia o sovrimposta). Si configura, invece, un’imposta addizionale quando la misura di un tributo è calcolata come aumento percentuale dell’aliquota applicata ad un altro tributo (tributo base). Si pensi, ad esempio, all’addizionale regionale all’IRPEF (art. 50 del D.Lgs. 15-12-1997, n. 446).
4.3 La quantificazione del tributo 4.3.1 Base imponibile La base imponibile è il valore che esprime il fenomeno economico, qualificato come presupposto dal legislatore, al quale si applica un tasso per quantificare la misura del tributo (quantum debeatur). La base imponibile può essere costituita da: un valore monetario: è l’ipotesi più frequente (si pensi all’IRPEF, all’IRES, all’IVA ecc.); una quantità di beni, come nel caso delle accise, la cui misura è rapportata alle quantità fisiche (espresse in litri, chilogrammi, metricubi ecc.) di prodotto assoggettati a imposizione.
4.3.2 Tasso Per quantificare il tributo si applica un tasso alla base imponibile. Il tasso può essere: fisso, quando l’ammontare dell’imposta è dato da un importo predeterminato, che cioè prescinde dall’entità della base imponibile; variabile, quando l’ammontare dell’imposta si ottiene applicando un’aliquota alla base imponibile; le aliquote possono essere proporzionali, ossia costanti al variare
della
base
imponibile,
progressive,
ossia
crescenti
all’aumentare della base imponibile, e regressive, ossia decrescenti all’aumentare della base imponibile. A seconda del tasso scelto per la quantificazione dell’imposta, conseguentemente distinguiamo: imposte fisse, il cui ammontare corrisponde ad un importo predeterminato, che non varia quindi in relazione alla base imponibile; imposte variabili, il cui ammontare è commisurato, mediante l’applicazione di un tasso variabile, alla base imponibile. Le imposte variabili possono essere, a seconda delle aliquote adoperate, proporzionali, progressive e regressive. Esistono
diverse
tecniche
per
rendere
un’imposta
progressiva. In particolare, la progressività può essere:
continua (se l’aliquota aumenta in maniera continua all’aumentare della base imponibile, secondo una specifica funzione matematica); per detrazione (se l’aliquota che si applica alla base imponibile è costante e, dall’imposta così calcolata, si sottrae un ammontare fisso per tutti i contribuenti); per deduzioni (se si applica un’aliquota costante alla base imponibile, previa sottrazione dalla base imponibile di un importo fisso per tutti i contribuenti); per classi (nella quale ad ogni classe di imponibile individuata si applica un’aliquota costante, la quale è
crescente a mano a mano che si passa da una classe inferiore ad una superiore); per scaglioni (nella quale l’imponibile è suddiviso in scaglioni ed a ciascuno di essi si applica un’aliquota, la quale è crescente a mano a mano che si passa da uno scaglione inferiore a uno superiore; la progressività per scaglioni è il sistema scelto dal legislatore per l’IRPEF).
4.3.3 Aliquota marginale e aliquota media L’aliquota
marginale
è
data
dal
rapporto
tra
l’incremento dell’imposta dovuta e l’incremento della base imponibile; essa esprime, in sostanza, in che modo varia l’imposta per ogni unità aggiuntiva di base imponibile. L’aliquota media è data, invece, dal rapporto fra l’imposta dovuta e la base imponibile; essa esprime, quindi, l’imposta che mediamente grava su ogni unità di imponibile. Nelle imposte proporzionali l’aliquota media è costante al variare della base imponibile (l’aliquota marginale è uguale all’aliquota media): l’importo dell’imposta dovuta aumenta in
misura
direttamente
proporzionale
all’aumentare
dell’imponibile. Nelle imposte progressive l’aliquota media aumenta all’aumentare della base imponibile (l’aliquota marginale è sempre
maggiore
dell’imposta
dovuta
dell’aliquota aumenta
media): in
misura
proporzionale all’aumentare dell’imponibile.
l’importo più
che
Nelle imposte regressive l’aliquota media diminuisce all’aumentare della base imponibile (l’aliquota marginale è sempre minore dell’aliquota media): l’importo dell’imposta dovuta aumenta in misura meno che proporzionale all’aumentare dell’imponibile. Ipotizziamo un contribuente con un reddito di 20.000 euro sul quale grava un’imposta sul reddito progressiva per scaglioni (come l’IRPEF). L’imposta si calcola applicando l’aliquota del 23% sui primi 15.000 euro, ottenendo un importo di 3.450 euro, e l’aliquota del 27% sui restanti 5.000 euro (differenza tra 20.000 e 15.000), ottenendo un importo di 1.350 euro. Conseguentemente, l’imposta complessiva gravante sul reddito è pari a 4.800 euro (3.450 + 1.350). Nel caso esaminato l’aliquota media è pari al 24%, quale risultato del rapporto 4.800/20.000, mentre l’aliquota marginale è pari al 27% (infatti, se il reddito imponibile aumentasse da 20.000 euro a 21.000 euro si avrebbe un aumento dell’imposta pari al 27% di 1.000, ossia pari ad euro 270; aliquota marginale = 270/1.000 = 27%).
4.4 L’obbligazione tributaria Il principale effetto generato, in via diretta o indiretta, dal presupposto d’imposta è il sorgere dell’obbligazione tributaria, in base alla quale il soggetto passivo (debitore) è tenuto ad una prestazione, il cui contenuto è sempre il pagamento di una somma di denaro, a favore dell’ente pubblico (creditore). L’obbligazione tributaria, sebbene modellata sulla base della disciplina dell’obbligazione del diritto civile, ha tuttavia una sua specifica peculiarità (si pensi, ad esempio, alla disciplina del tempo e del luogo dell’adempimento, alla disciplina della compensazione, alla posizione di supremazia del soggetto creditore ecc.).
Capitolo 5 I soggetti passivi 5.1 La soggettività passiva tributaria La soggettività passiva tributaria, definita come l’attitudine ad essere soggetto passivo di un’obbligazione tributaria, è attribuita sia alle persone fisiche ed agli enti collettivi con personalità giuridica, sia ai soggetti non personificati, ossia alle organizzazioni collettive (autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici). Soggetto passivo, quindi, è chi è tenuto all’adempimento
dell’obbligazione
tributaria
(Amatucci),
ovvero al versamento del tributo, nonché agli adempimenti (dichiarazioni,
comunicazioni,
conservazione
della
documentazione giustificativa ecc.) funzionali a tal fine (Gaffuri). In particolare, l’art. 73, comma 2, del TUIR include tra i soggetti passivi IRES, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo.
La parola “contribuente”, che non è un termine giuridico, viene tendenzialmente utilizzata dal legislatore per individuare
il
soggetto
passivo
tenuto
al
pagamento
del
tributo
(contribuzione), in quanto ne ha realizzato il presupposto. Tipica è la distinzione tra contribuente di diritto, ossia il soggetto che è obbligato al versamento del tributo, e contribuente di fatto, ossia il soggetto che sostiene l’onere del tributo (cd. soggetto inciso dal tributo).
Ciascun soggetto passivo è identificato dal Fisco mediante l’assegnazione di un codice fiscale (16 segni alfanumerici per le persone fisiche, 11 segni numerici per gli altri soggetti), il quale va indicato nei principali atti con rilevanza tributaria.
5.1.1 Il domicilio fiscale L’art. 58 del decreto sull’accertamento (D.P.R. 29-9-1973, n. 600) dispone che, agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi, ogni soggetto è domiciliato in un Comune dello Stato (comma 1) e che negli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni
che
sono
presentati
all’Amministrazione
finanziaria deve essere indicato il Comune di domicilio fiscale delle parti, precisando l’indirizzo ove espressamente richiesto (comma 4). Il domicilio fiscale rappresenta un concetto di assoluta rilevanza in quanto determina l’ufficio finanziario che è competente ad effettuare l’accertamento, a ricevere le istanze di autotutela e di rimborso, nonché il luogo in cui devono essere notificati gli atti tributari. La nozione di domicilio fiscale non coincide con quella civilistica fornita dall’art. 43 c.c., il quale dispone che il domicilio di una
persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede dei propri affari e interessi.
Le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno il domicilio fiscale nel Comune nella cui anagrafe sono iscritte (art. 58, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973). Le persone fisiche non residenti in Italia hanno, invece, il domicilio fiscale nel Comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più Comuni, nel Comune in cui si è prodotto il reddito più elevato. I cittadini italiani che risiedono all’estero in forza di un rapporto di servizio con la pubblica amministrazione, nonché quelli che si presumono residenti, sebbene cancellati dalle anagrafi della popolazione residente, in quanto emigrati in Stati con regime fiscale privilegiato, hanno il domicilio fiscale nel Comune di ultima residenza in Italia. Le persone giuridiche hanno il domicilio fiscale nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la loro sede amministrativa; se anche questa manchi, nel Comune ove è stabilita una sede secondaria, una stabile organizzazione, ovvero nel Comune in cui esercitano prevalentemente la loro attività (art. 58, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973). Elezione di domicilio Il contribuente ha la facoltà di eleggere il proprio domicilio, ai fini della notificazione degli atti che lo riguardano, presso una persona o un ufficio del Comune del proprio domicilio fiscale, mediante un’espressa comunicazione da effettuarsi all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente (in base al domicilio fiscale) con apposito modello da inviare mediante
raccomandata A/R, ovvero telematicamente (art. 60 del D.P.R. n. 600/1973). Domicilio digitale Ai sensi dell’art. 3bis del D.Lgs. 7-3-2005, n. 82 al fine di facilitare la comunicazione con le pubbliche amministrazioni, ogni cittadino ha la facoltà di eleggere il proprio domicilio digitale da iscrivere in un apposito elenco pubblico. Le
pubbliche
amministrazioni,
i
soggetti
tenuti
all’iscrizione nel Registro delle imprese e i professionisti tenuti all’iscrizione in albi ed elenchi hanno invece l’obbligo di dotarsi di un domicilio digitale. Salvo i casi in cui è prevista una diversa modalità di comunicazione o di pubblicazione in via telematica, ogni comunicazione
deve
avvenire
esclusivamente
tramite
domicilio digitale. Ai sensi del comma 4 dell’art. 16bis del D.Lgs. n. 546/1992, inserito dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 156/2015
a
decorrere
dal
1-1-2016,
l’indicazione
dell’indirizzo PEC per le comunicazioni e le notificazioni ha, a tutti gli effetti, valore di elezione di domicilio.
Differenza tra il domicilio fiscale e la residenza fiscale Il domicilio fiscale assume rilevanza sotto il profilo formale, ai fini della ripartizione della competenza territoriale degli uffici dell’Amministrazione finanziaria, mentre la residenza fiscale assume rilevanza sotto il profilo sostanziale, ai fini dell’applicazione del principio di tassazione del reddito mondiale dei soggetti residenti.
5.2 La solidarietà passiva tributaria La solidarietà passiva tributaria, che si configura nelle ipotesi espressamente stabilite dal legislatore, implica che più soggetti
siano
dell’obbligazione
obbligati tributaria.
in Le
solido
all’adempimento
norme
tributarie
non
contengono una nozione di solidarietà passiva e, pertanto, occorre riferirsi alla nozione civilistica contenuta nell’art. 1292 c.c., a norma del quale l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri. La solidarietà passiva tributaria può essere: paritetica, quando il presupposto del tributo è realizzato congiuntamente da più soggetti, tutti coobbligati verso il Fisco; dipendente, quando il presupposto del tributo è realizzato da un solo soggetto, ma è prevista anche la responsabilità solidale di un altro soggetto, chiamato responsabile d’imposta. In assenza di un’espressa disciplina tributaria dei rapporti interni tra condebitori, secondo l’orientamento che li considera
rapporti di natura privatistica, agli stessi sono applicabili le norme del codice civile (artt. 1298 e 1299 c.c.) e, pertanto: l’obbligazione in solido si divide pro quota tra i diversi debitori; le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente; il debitore in solido che ha pagato l’intero debito può ripetere dai condebitori soltanto la parte di ciascuno di essi e, se uno di essi è insolvente, la perdita si ripartisce per contributo tra gli altri condebitori, compreso quello che ha fatto il pagamento.
5.3 Gli effetti della solidarietà tributaria 5.3.1 Notifica dell’avviso di accertamento Nel
caso
di
solidarietà
passiva,
l’Amministrazione
finanziaria ha la facoltà, non l’obbligo, di notificare l’avviso di accertamento a tutti i condebitori in solido e, pertanto: l’atto di accertamento notificato soltanto ad alcuni dei coobbligati ha effetto solo nei confronti di questi e non verso gli altri (Cass. 12-5-1973, n. 1312); si potrebbero avere tanti atti quanti sono i debitori e, in caso di ricorso, tante decisioni, anche contrastanti tra loro, quante sono state le impugnazioni; l’adempimento di uno dei coobbligati ha efficacia liberatoria per tutti gli altri.
5.3.2 Altri effetti della solidarietà tributaria La regola civilistica in base alla quale l’adempimento dell’obbligazione da parte di un coobbligato in solido libera tutti gli altri, si applica anche con riguardo agli obblighi dichiarativi, in quanto l’art. 1, comma 7, del D.P.R. n. 600/1973 stabilisce che se più soggetti sono obbligati alla stessa dichiarazione, la dichiarazione fatta da uno di essi esonera gli altri.
In base all’art. 20, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997, se la notifica dell’atto di contestazione delle sanzioni tributarie amministrative è stata effettuata nei termini nei confronti di almeno un soggetto obbligato in solido, il termine è prorogato di un anno nei confronti di tutti i condebitori.
5.4 La sostituzione d’imposta Nella sostituzione d’imposta (o sostituzione tributaria o sostituzione soggettiva) è previsto che l’obbligazione tributaria sia adempiuta da un soggetto (chiamato sostituto) in luogo del soggetto (chiamato sostituito) che ha posto in essere il presupposto d’imposta. In particolare, secondo la definizione legislativa contenuta nell’art. 64, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, il sostituto è il soggetto che, in virtù di una specifica disposizione di legge, è obbligato al pagamento di un’imposta in luogo di altri, anche a titolo di acconto, per fatti o situazioni a questi riferibili. La sostituzione d’imposta può avvenire a titolo d’imposta ovvero a titolo d’acconto (cd. sostituzione impropria). La ratio dell’istituto è riconducibile alla garanzia, per il Fisco, di una sicura e rapida riscossione dei tributi e, più in generale, all’esigenza di contrastare l’evasione, considerato che il soggetto terzo (sostituto) coinvolto nell’adempimento del tributo, ha una posizione fiscalmente neutrale, in quanto la norma gli riconosce il diritto-dovere di rivalsa (cd. contrasto di interessi), ossia il diritto di recuperare, effettuando una ritenuta alla fonte, l’importo dell’imposta da versare nei confronti del sostituito (Tesauro; Lupi). I soggetti qualificati come sostituti d’imposta, obbligati all’applicazione delle ritenute, sono tassativamente individuati dal legislatore (art. 23, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973).
5.4.1 Obblighi del sostituto d’imposta Il
sostituto
d’imposta
che
ha
corrisposto
somme
assoggettate a ritenute alla fonte (a titolo d’acconto o d’imposta) è obbligato: ad operare le ritenute previste e versarle all’Erario, mediante il Modello di pagamento F24, entro il giorno 16 del mese successivo a quello nel quale ha effettuato il pagamento delle somme sulle quali ha operato le ritenute (art. 8 del D.P.R. n. 602/1973); se il termine scade di sabato o in un giorno festivo, il versamento è comunque tempestivo se effettuato il primo giorno lavorativo successivo; a rilasciare a ciascun soggetto percipiente, entro il 31 marzo di ogni anno, un’apposita certificazione dalla quale risultino le somme erogate e le ritenute operate nell’anno precedente. Per i redditi di lavoro dipendente si utilizza il Mod. CU (ex CUD), il quale, nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, deve essere consegnato entro 12 giorni dalla richiesta da parte del lavoratore; a presentare una dichiarazione annuale, entro il 31 ottobre dell’anno successivo a quello nel quale sono state operate le ritenute, nella quale vanno riepilogati i principali dati relativi alle citate ritenute (generalità del soggetto percettore, importi assoggettati a ritenuta ecc.). Per la dichiarazione dei sostituti d’imposta sono previsti due modelli: un Modello 770 semplificato, da utilizzarsi per le
ritenute effettuate sui redditi di lavoro dipendente e assimilati, sui redditi di lavoro autonomo, sulle provvigioni e sui redditi diversi; e un Modello 770 ordinario, da utilizzarsi per le ritenute effettuate sulle restanti tipologie di reddito (dividendi, altri redditi di capitale ecc.); i citati modelli 770 devono essere presentati esclusivamente per via telematica, direttamente o tramite un intermediario abilitato.
5.4.2 La sostituzione a titolo d’imposta La sostituzione a titolo d’imposta si configura come un regime fiscale sostitutivo, in quanto l’effettuazione della ritenuta, in base ad un’aliquota predeterminata, da parte del sostituto nei confronti del percipiente (sostituito) esaurisce definitivamente il prelievo tributario sul provento assoggettato a ritenuta. Pertanto tale provento non dovrà essere dichiarato dal sostituito e non concorrerà alla determinazione del suo reddito imponibile IRPEF, in deroga all’ordinaria tassazione progressiva del reddito complessivo delle persone fisiche. Nella sostituzione a titolo d’imposta il soggetto passivo titolare
dell’obbligazione
tributaria,
consistente
nel
versamento del tributo applicato sul presupposto realizzato da un altro soggetto (sostituito), è unicamente il sostituto.
5.4.3 La sostituzione a titolo di acconto Con la sostituzione a titolo di acconto il legislatore attua, attraverso l’effettuazione della ritenuta alla fonte da parte del sostituto, in base ad un’aliquota predeterminata, ed il suo successivo versamento all’Erario, una riscossione anticipata,
rispetto alla chiusura del periodo d’imposta, del tributo che sarà eventualmente dovuto dal sostituito in relazione al presupposto che egli ha realizzato. Tra le principali ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’applicazione della ritenuta a titolo d’acconto, rientrano le ritenute sui redditi di lavoro dipendente e assimilati (artt. 26 e 27 del D.P.R. n. 600/1973), sui redditi di lavoro autonomo e assimilati (art. 25 del D.P.R. n. 600/1973), sulle provvigioni per prestazioni inerenti ai rapporti di commissione, agenzia, mediazione, rappresentanza di commercio e procacciamento d’affari (art. 25bis del D.P.R. n. 600/1973) e su determinati redditi di capitale (interessi, dividendi ecc.) erogati a soggetti diversi dalle persone fisiche non esercenti imprese o arti e professioni (artt. 26 e 27 del D.P.R. n. 600/1973).
Nella sostituzione a titolo di acconto, nella quale al rapporto tra il sostituto e Stato si affianca sempre il rapporto, collaterale ma autonomo, tra sostituito e Stato: il sostituto non è soggetto passivo dell’obbligazione tributaria connessa al presupposto posto in essere da un altro soggetto (come invece accade nel caso di sostituzione a titolo d’imposta), ma è il soggetto passivo di uno specifico ed indipendente obbligo di versamento; al sostituto la legge riconosce un diritto-dovere di rivalersi nei confronti del sostituito; il sostituito, unico soggetto passivo dell’obbligazione tributaria derivante dal presupposto che egli ha realizzato
(che non risulta estinta dalla ritenuta operata dal sostituto) deve, pertanto, indicare la somma percepita, al lordo della ritenuta subita, nella propria dichiarazione annuale, al fine di farla concorrere alla determinazione del suo reddito imponibile complessivo IRPEF, salvo il diritto di scomputare dall’imposta totale dovuta l’importo delle ritenute subite e certificate dal sostituto (in sostanza, in sede di dichiarazione si effettua un conguaglio).
5.5 La traslazione La traslazione delle imposte è il fenomeno che si verifica quando un soggetto (contribuente di diritto o percosso) trasferisce, totalmente o parzialmente, l’onere del tributo dovuto a un altro soggetto, in genere l’acquirente di un bene o di un servizio (contribuente di fatto o inciso), mediante la determinazione del prezzo. La traslazione delle imposte può essere:
di fatto, quando il trasferimento dell’onere del tributo dal soggetto passivo al consumatore è attuato attraverso l’inclusione dello stesso nel prezzo di vendita del bene (possibile, ad esempio, nelle imposte sui consumi dovute dai venditori, ma che gravano sui consumatori finali); di diritto, quando il trasferimento dell’onere tributario è l’effetto economico derivante dall’esercizio del dirittoobbligo di rivalsa, nei confronti dei cessionari dei beni e dei committenti dei servizi, espressamente attribuito dalla legge al soggetto passivo del tributo, che ne realizza il presupposto di fatto, come nel caso dell’IVA.
5.6 L’accollo dell’imposta Si definiscono patti di accollo dell’imposta gli accordi, di solito formalizzati mediante clausole contrattuali, in base ai quali un soggetto (accollante) assume l’obbligo, nei confronti di un altro soggetto (accollato), di pagare un debito tributario cui quest’ultimo è obbligato dalla legge. In sostanza, le clausole convenzionali di accollo dell’imposta prevedono una rivalsa facoltativa a favore dell’accollato.
5.7 La responsabilità solidale degli eredi In assenza di una specifica disciplina tributaria in materia di successione ereditaria, l’art. 752 c.c. si applica anche alle situazioni
giuridiche
tributarie
e,
pertanto,
i
coeredi
contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari, in proporzione delle loro quote ereditarie (quindi, non in solido). Tuttavia, ai soli fini delle imposte sui redditi, in deroga al citato criterio generale della divisibilità dell’obbligazione in capo agli eredi, l’art. 65 del D.P.R. n. 600/1973 prevede la responsabilità solidale paritetica degli eredi per le obbligazioni tributarie il cui presupposto si sia verificato anteriormente alla morte del de cuius.
Capitolo 6 La dichiarazione tributaria 6.1 La dichiarazione tributaria Nel
sistema
sull’autoliquidazione
tributario
italiano,
dei
(cd.
tributi
sistema
basato della
denuncia verificata), un ruolo fondamentale è rivestito dalla dichiarazione tributaria, il cui obbligo di presentazione è previsto per la quasi totalità delle imposte. In tale sistema, inoltre, è altresì rilevante il ruolo di soggetti qualificati (commercialisti, CAF ecc.) che assistono i contribuenti negli adempimenti stabiliti dalle norme tributarie.
6.2 Natura giuridica ed effetti della dichiarazione Con riferimento al suo contenuto tipico, costituito dall’indicazione dei dati del contribuente, degli elementi attivi e
passivi
dell’imponibile
e
dei
dati
che
consentono
l’effettuazione dei controlli (artt. 1, comma 2, e 2 del D.P.R. n. 600/1973), la dichiarazione tributaria è considerata, secondo la giurisprudenza consolidata (Cass. 28-2-2011, n. 4776; Cass. sez. un. 25-10-2002, n. 15063), un atto che non ha natura negoziale
e
dispositiva,
ma
che
contiene
una
mera
esternazione di scienza e di giudizio, il quale costituisce un
momento
dell’iter
procedimentale
finalizzato
all’accertamento dell’obbligazione tributaria. Dalla presentazione della dichiarazione da parte del contribuente derivano effetti ai fini: della riscossione delle imposte dovute, ma non versate, in base ai dati dichiarati; la dichiarazione infatti è un titolo giustificativo per l’Amministrazione finanziaria ai fini dell’iscrizione a ruolo a titolo definitivo degli importi dovuti (art. 14 del D.P.R. 29-9-1973, n. 602); del
diritto
al
rimborso
ovvero,
in
alternativa,
dell’utilizzo in compensazione, dell’eventuale saldo a credito (art. 22, comma 2, del TUIR);
dell’attività di liquidazione, controllo formale e accertamento
sostanziale
da
parte
dell’Amministrazione finanziaria; la dichiarazione, infatti, costituisce la base di partenza dei citati controlli.
6.3 La dichiarazione dei redditi La dichiarazione dei redditi è sicuramente la dichiarazione tributaria più rilevante; essa è caratterizzata da annualità, in quanto ne è previsto l’obbligo di presentazione per ciascun periodo d’imposta, e da unicità, in quanto essa include tutti i redditi posseduti dal contribuente nell’anno (ad esclusione di quelli assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta). Il contenuto tipico della dichiarazione dei redditi, sia ai fini dell’IRPEF sia ai fini dell’IRES (artt. 1, 2 e 4 del D.P.R. n. 600/1973), è costituito dall’indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per determinare i redditi imponibili, dell’imposta dovuta e dell’imposta da versare (singoli redditi, reddito complessivo, oneri deducibili e detraibili, ritenute subite, acconti versati ecc.). In dichiarazione vanno altresì indicati anche i redditi soggetti a tassazione separata. Inoltre, in sede di dichiarazione, il contribuente esercita anche
determinate
opzioni
(regime
di
contabilità,
rateizzazione delle plusvalenze, utilizzo di perdite pregresse ecc.) che incidono sull’an e sul quantum del tributo (IRPEF o IRES).
6.3.1 La dichiarazione dei redditi delle persone fisiche
In generale, le persone fisiche sono obbligate a presentare, annualmente, la dichiarazione relativa ai redditi posseduti, anche se non ne consegue alcun debito d’imposta (art. 1, comma 1, D.P.R. 600/1973). Tuttavia, il legislatore ha previsto (art. 1, comma 4, del D.P.R. 600/1973), con finalità di semplificazione, alcune ipotesi di esonero dalla presentazione della dichiarazione dei redditi per le persone fisiche, anche in presenza di redditi posseduti, a condizione che non siano obbligate alla tenuta delle scritture contabili (in tal caso, infatti, l’obbligo sussiste anche in assenza di redditi), che possiedano solo: redditi di lavoro dipendente o di pensione, corrisposti da un unico sostituto d’imposta obbligato ad effettuare le ritenute d’acconto, e il reddito derivante dal possesso dell’immobile adibito ad abitazione principale e sue pertinenze; redditi esenti (ad esempio, le pensioni sociali); redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (ad esempio, interessi su conti correnti bancari). I soggetti esonerati, tuttavia, hanno comunque la facoltà di presentare la dichiarazione allo scopo di esercitare il diritto alle previste detrazioni o deduzioni per oneri, ovvero allo scopo di chiedere il rimborso di imposte versate in eccesso.
6.3.2 La dichiarazione dei redditi delle società di persone
Le società di persone (società semplici, s.n.c. e s.a.s.) hanno sempre l’obbligo di presentare, annualmente, la dichiarazione, agli effetti dell’IRPEF o dell’IRES dovuta dai soci, in relazione ai redditi posseduti, anche se non ne consegue alcun debito d’imposta. Inoltre, l’obbligo sussiste anche in mancanza di redditi, nel caso di società obbligate alla tenuta delle scritture contabili (art. 1 del D.P.R. n. 600/1973).
6.3.3 La dichiarazione dei redditi dei soggetti IRES I soggetti IRES (società di capitali, enti commerciali, enti non commerciali obbligati a tenere le scritture contabili) sono sempre obbligati a presentare, annualmente, la dichiarazione dei redditi, anche in mancanza di redditi, ovvero quando, pur avendo conseguito un reddito, non ne consegue alcun debito d’imposta (art. 1 del D.P.R. n. 600/1973). Sono esonerati dalla presentazione della dichiarazione gli enti non commerciali, non obbligati alla tenuta delle scritture contabili, che abbiano conseguito solo redditi esenti, ovvero redditi soggetti a ritenuta a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva.
6.3.4 Obblighi di conservazione ed esibizione I contribuenti devono, fino al termine di decadenza del potere
di
accertamento
da
parte
dell’Amministrazione
finanziaria, previsto dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973,
conservare, esibire o trasmettere, su richiesta dell’ufficio competente ad effettuare i controlli: l’originale della dichiarazione trasmessa telematicamente; le certificazioni dei sostituti di imposta; i documenti probatori dei crediti di imposta, dei versamenti eseguiti, degli oneri deducibili o detraibili ed ogni
altro
documento
previsto
dal
modello
di
dichiarazione dei redditi; il bilancio relativo al periodo d’imposta, nel caso di imprenditori commerciali individuali, società di persone e di soggetti IRES.
6.3.5 I requisiti formali, modalità e termini di presentazione Modelli di dichiarazione La dichiarazione dei redditi, così come la dichiarazione IVA, dei sostituti d’imposta e IRAP, deve essere redatta, a pena di nullità, sui modelli conformi a quelli approvati dall’Agenzia delle Entrate. I modelli di dichiarazione sono: il Modello Redditi Persone Fisiche (PF), previsto per le persone fisiche obbligate alla tenuta delle scritture contabili (ossia titolari di reddito d’impresa o di reddito di lavoro autonomo), ovvero dalle persone fisiche, obbligate a presentare la dichiarazione dei redditi, che non possono utilizzare il Modello 730;
il Modello Redditi Società di Capitali (SC), previsto per i soggetti IRES; il Modello Redditi Società di Persone (PF), previsto per società semplici, s.n.c. e s.a.s., associazioni tra professionisti ed altri categorie assimilate; il Modello Redditi per gli Enti non commerciali (ENC); il Modello 730, che rappresenta un modello semplificato, che non richiede calcoli per liquidare l’imposta (a differenza del Modello Redditi), e può essere utilizzato da lavoratori dipendenti e pensionati; esso ha il vantaggio di consentire di ottenere, in tempi rapidi, i rimborsi direttamente con la retribuzione o con la pensione. A pena di nullità, l’art. 1 del D.P.R. n. 322/1998 dispone che le dichiarazioni devono essere sottoscritte: nel caso di persone fisiche, dal contribuente stesso, ovvero dal soggetto che ne ha la rappresentanza legale o negoziale (comma 3); nel caso di soggetti diversi dalle persone fisiche, dal loro rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione, anche di fatto, o da un rappresentante negoziale (comma 4). La dichiarazione è omessa quando il contribuente, sebbene
vi
sia
obbligato,
non
la
presenta.
La
presentazione della dichiarazione può avvenire secondo due diverse modalità (artt. 2 e 3 del D.P.R. n. 322/1998):
in formato cartaceo, presso gli uffici di Poste Italiane S.p.A. (modalità ormai residuale); mediante
trasmissione
telematica
all’Agenzia
delle
Entrate, sia direttamente sia mediante un intermediario abilitato. Le persone fisiche devono presentare la dichiarazione dei redditi dal 2 maggio al 30 giugno, se la presentazione è in forma cartacea, ovvero entro il 30 novembre, se la presentazione è effettuata per via telematica, dell’anno successivo a quello cui i redditi si riferiscono. Le società di persone devono presentare la dichiarazione dei redditi entro il 30 novembre dell’anno successivo a quello cui i redditi si riferiscono.
I
soggetti
IRES
devono
presentare
la
dichiarazione dei redditi entro l’ultimo giorno del 11° mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta (ossia entro il 30 novembre per i soggetti con un esercizio coincidente con l’anno solare), indipendentemente dalla data di approvazione del bilancio d’esercizio.
6.4 La rettifica delle dichiarazioni A seguito della presentazione della dichiarazione è possibile, entro il termine ordinario di presentazione della stessa, presentare una nuova dichiarazione (cd. dichiarazione correttiva nei termini), al fine di correggere qualsiasi errore od omissione commesso nella dichiarazione originaria; la nuova dichiarazione
sostituisce
integralmente
la
precedente
dichiarazione erronea e non possono essere irrogate sanzioni amministrative a carico del contribuente. Scaduti i termini, il contribuente può rettificare una dichiarazione presentata in precedenza, a condizione che la dichiarazione originaria sia stata a suo tempo validamente e tempestivamente (ossia entro i termini previsti) presentata, con una nuova dichiarazione rettificativa o integrativa, la quale può essere a favore del Fisco ovvero del contribuente stesso. La dichiarazione integrativa, sia a favore del Fisco che a favore del contribuente, può essere presentata entro il termine di decadenza dell’azione di accertamento, ossia entro il 31 dicembre del 5° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione originaria (4° anno successivo fino al periodo d’imposta in corso al 31-12-2015).
6.5 Visto di conformità, asseverazione e certificazione tributaria Esistono, in materia di dichiarazioni, alcuni istituti di controllo fiscale (artt. 35 e 36 del D.Lgs. 9-7-1997, n. 241 e D.M. 31-5-1999, n. 164).
6.5.1 Visto di conformità Il visto di conformità assolve la funzione di attestare che i dati ed i calcoli esposti nella dichiarazione sono conformi alla relativa documentazione giustificativa, nonché alle risultanze delle scritture contabili (ove tenute). Il visto di conformità consiste essenzialmente in un riscontro di carattere formale, che
non
implica
anche
valutazioni
di
merito
l’applicazione della normativa fiscale. Il visto, che può essere rilasciato da un CAF o da un professionista abilitato, a condizione che le dichiarazioni e le scritture siano state predisposte e tenute da tali soggetti, agevola il Fisco nella selezione delle posizioni da controllare.
6.5.2 Asseverazione
circa
L’asseverazione ha la funzione di certificare la correttezza dei dati, contabili ed extracontabili, che il contribuente ha comunicato
all’Amministrazione
finanziaria
ai
fini
dell’applicazione degli studi di settore, ossia la loro corrispondenza ai dati esposti nelle scritture contabili ovvero a quelli desumibili da altra idonea documentazione. L’asseverazione mira, in sostanza, ad attestare la congruità dei ricavi dichiarati, l’esistenza di eventuali cause giustificatrici di elementi di scostamento, la coerenza o le cause che giustificano l’incoerenza del contribuente agli studi di settore. Essa può essere rilasciata da un professionista abilitato ovvero da un CAF Imprese, anche se il contribuente non ha richiesto il visto di conformità.
6.5.3 Certificazione tributaria La certificazione tributaria (cd. “visto pesante”) ha la funzione di attestare al Fisco la corretta applicazione, da parte del contribuente, delle norme di materia di reddito d’impresa, con specifico riferimento ai principali componenti reddituali. La certificazione tributaria è rilasciata da revisori contabili iscritti negli albi dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e dei consulenti del lavoro che abbiano esercitato la professione per almeno cinque anni, ai soli titolari di redditi d’impresa in regime di contabilità ordinaria, a condizione che preventivamente siano stati posti:
visto di conformità e asseverazione, ai soggetti cui si applicano gli studi di settore; visto di conformità, ai soggetti cui non si applicano gli studi di settore. I principali effetti del rilascio della certificazione tributaria sono:
l’inapplicabilità
delle
norme
in
materia
di
accertamento induttivo; il beneficio della riduzione del termine di prescrizione per gli accertamenti basati sugli studi di settore, che devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del 3° anno successivo a quello di presentazione delle dichiarazioni, anziché entro il quarto (termine ordinario); in caso di contenzioso tributario, l’iscrizione a ruolo delle maggiori imposte, con relativi interessi e sanzioni, solo dopo la sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale.
Capitolo 7 L’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria 7.1 La struttura dell’Amministrazione finanziaria Con il D.Lgs. 30-7-1999, n. 300, è stata profondamente riformata la struttura dell’Amministrazione finanziaria dello Stato, con il trasferimento dell’esercizio dei poteri impositivi alle Agenzie fiscali, pur lasciando la titolarità dell’obbligazione tributaria in capo allo Stato.
7.1.1 Ministero dell’Economia e delle Finanze Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) svolge funzioni di indirizzo e controllo spettanti allo Stato in materia di politica economica, finanziaria e di bilancio, programmazione degli investimenti pubblici, coordinamento della spesa pubblica e verifica dei suoi andamenti (incluso il settore della spesa sanitaria), politiche fiscali e sistema tributario, demanio e patrimonio statale, catasto e dogane. Inoltre il Ministero svolge compiti di vigilanza su enti e attività e le funzioni relative ai rapporti con le autorità di vigilanza e
controllo previsti dalla legge (art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 300/1999). Il Ministero si articola in quattro Dipartimenti, tra i quali il Dipartimento delle Finanze, che ha la regia complessiva del sistema fiscale, di progettazione del suo sviluppo, di strategia di politica fiscale, di indirizzo e controllo delle Agenzie fiscali, delle società ed enti economici che compongono l’Amministrazione finanziaria.
7.1.2 Agenzie fiscali Alle Agenzie fiscali sono attribuite funzioni operative; a tal fine, per ciascun esercizio finanziario, le Agenzie stipulano con il Ministero apposite convenzioni con le quali si individuano, tra l’altro, i servizi che le stesse sono tenute a prestare, gli obiettivi prefissati e le strategie per conseguirli. Le Agenzie fiscali hanno personalità giuridica di diritto pubblico,
autonomia
regolamentare,
amministrativa,
patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria (artt. 61 e ss. del D.Lgs. n. 300/1999). Inoltre, le Agenzie operano nell’esercizio delle funzioni pubbliche ad esse affidate in base ai principi di legalità, imparzialità e trasparenza, con criteri
di
efficienza,
economicità
ed
efficacia,
nel
perseguimento delle rispettive missioni, e la loro gestione finanziaria è sottoposta al controllo della Corte dei conti. Con il D.Lgs. n. 157/2015, emanato in attuazione della Legge per la riforma del sistema fiscale n. 23 del 2014, la
disciplina dell’organizzazione delle Agenzie fiscali è stata oggetto di revisione. Le Agenzie fiscali sono tre:
Agenzia delle Entrate, che svolge tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenze di altre agenzie, enti od organi, con il compito di perseguire il massimo livello di adempimento
degli
obblighi
fiscali
sia
attraverso
l’assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a contrastare gli inadempimenti e l’evasione fiscale; in particolare, l’Agenzia delle Entrate svolge i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso delle imposte dirette e dell’IVA, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali o locali affidati alla sua gestione in base alla legge o apposite convenzioni con gli enti impositori; dall’1-12-2012 (art. 23quater del D.L. n. 95/2012, conv., con modif., in L. n. 135/2012), l’Agenzia delle
Entrate
svolge
anche
le
funzioni
che
precedentemente erano svolte dall’Agenzia del Territorio (che è stata incorporata dalla citata Agenzia delle Entrate), ossia: servizi relativi al catasto, servizi geotopocartografici e
servizi
relativi
alle
conservatorie
dei
registri
immobiliari; Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, che svolge i servizi relativi all’amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei diritti doganali e della fiscalità interna connessa agli scambi internazionali, delle accise sulla
produzione e sui consumi. Dall’1-12-2012 (art. 23quater del D.L. n. 95/2012) ha incorporato l’Agenzia autonoma dei Monopoli di Stato; Agenzia
del
Demanio,
alla
quale
è
attribuita
l’amministrazione e la manutenzione dei beni immobili dello Stato.
7.1.3 Guardia di Finanza La Guardia di Finanza è una forza di polizia ad ordinamento militare, dipendente direttamente dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, che assolve le funzioni di polizia economica e finanziaria a tutela del bilancio pubblico, delle Regioni, degli enti locali e dell’Unione europea, con particolare riguardo alla prevenzione, ricerca e repressione delle violazioni in materia di imposte dirette e indirette, tasse, contributi, monopoli fiscali, diritti doganali, di confine, di ogni altro tributo di tipo erariale o locale, nonché di uscite del bilancio dell’Unione Europea (D.Lgs. 19-3-2001, n. 68).
7.1.4 Garante del contribuente Il Garante del contribuente è un organo monocratico nominato
dal
Presidente
della
Commissione
tributaria
regionale, scelto tra persone altamente qualificate in ambito tributario, istituito presso ogni Direzione regionale delle entrate (art. 13 della L. n. 212/2000, come modificato dalla L. n.
183/2011).
Si
tratta
di
un’autorità
amministrativa
indipendente, alla quale è attribuita essenzialmente una funzione di persuasione morale in quanto il Garante non ha
il potere di annullare direttamente gli atti delle Agenzie fiscali (Tesauro; Lupi). Ai sensi del citato art. 13, il Garante del contribuente, anche a seguito di segnalazioni inviate per iscritto dal contribuente che lamenti disfunzioni, irregolarità, prassi amministrative anomale, o altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e Amministrazione finanziaria, ha la facoltà di:
rivolgere richieste di documenti o chiarimenti agli uffici competenti, i quali rispondono entro 30 giorni, e di attivare le procedure di autotutela nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione notificati al contribuente; richiamare gli uffici al rispetto dei diritti e delle garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale, nonché dei termini previsti per il rimborso di imposte; prospettare al Ministro dell’Economia e delle Finanze i casi in cui possono essere esercitati i poteri di rimessione in termini, qualora il tempestivo adempimento di obblighi tributari è impedito da cause di forza maggiore.
7.2 Il modello di attuazione dei tributi Il sistema tributario italiano si fonda sul modello dell’autotassazione, in base al quale, in linea di principio, i tributi sono versati spontaneamente dal contribuente, senza
che
sia
necessaria
una
specifica
attività
dell’Amministrazione finanziaria. In altri termini, l’intervento degli uffici finanziari non è ordinariamente previsto ma solamente eventuale, ossia è riservato essenzialmente ai casi di omissione di un adempimento, prescritto dalla normativa tributaria, da parte del contribuente. In particolare, secondo tale modello:
sul
contribuente
gravano
diversi
obblighi
(di
autoliquidazione dei tributi, dichiarativi, di versamento a titolo di acconto ed a titolo di saldo, di comunicazione preventiva di determinate operazioni ecc.); all’Amministrazione finanziaria sono attribuiti diversi poteri (di imposizione o di accertamento, di polizia tributaria, sanzionatoria, di riscossione e di indirizzo), strumentali
all’applicazione
della
norma
tributaria
(Falsitta); la spontanea collaborazione del contribuente diminuisce i costi di attuazione della pretesa tributaria e permette la
riscossione anticipata del gettito finanziario (Tinelli). ha assunto un ruolo sempre più rilevante il consenso e la partecipazione del contribuente all’attuazione del prelievo tributario (Ferlazzo Natoli).
7.3 Il procedimento tributario Il legislatore non ha previsto una specifica disciplina del procedimento tributario, il quale è caratterizzato da aspetti del tutto peculiari rispetto al procedimento amministrativo, ed è difficilmente
riconducibile
ad
uno
schema
prestabilito
(Perrone). In concreto, la sua disciplina va desunta sia dai principi previsti dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. 27-7-2000, n. 212), sia dai principi generali del procedimento amministrativo contenuti nella L. 7-8-1990, n. 241, riformata dalla L. 11-2-2005, n. 15, in quanto compatibili, oltre che dalle più specifiche norme previste ai fini dell’accertamento in materia di imposte sui redditi (D.P.R. n. 600/1973) e IVA (D.P.R. n. 633/1972). La L. n. 212/2000 contiene numerose norme che disciplinano il rapporto tra contribuente e Amministrazione finanziaria che, in generale, deve essere improntato ai principi di collaborazione e buona fede (art. 10, comma 1); si tratta, dunque, della solenne affermazione del dovere reciproco, per contribuente e Fisco, di assumere un comportamento corretto e leale (cd. buona fede oggettiva). Inoltre, lo Statuto prevede, all’art. 10, comma 2, che non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora:
egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione successivamente
finanziaria, modificate
ancorché
dall’Amministrazione
medesima (tutela del legittimo affidamento); il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni o errori dell’Amministrazione
stessa
(cd.
buona
fede
soggettiva). Nell’ambito del procedimento tributario, l’Amministrazione finanziaria non ha l’obbligo, ma la facoltà, di instaurare il contraddittorio con il contribuente, al quale l’ordinamento non riconosce il diritto di essere interpellato prima che sia emesso un avviso di accertamento nei suoi confronti; tuttavia, in determinati casi, il legislatore obbliga l’ufficio ad ascoltare il contribuente, al fine di consentirgli di fornire chiarimenti o prove contrarie. Il diritto di accesso agli atti amministrativi, generalmente riconosciuto, è espressamente escluso nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano (art. 24, comma 1, lett. b), della L. n. 241/1990).
7.3.1 L’autotutela L’autotutela
consiste
nel
potere-dovere
dell’Amministrazione finanziaria di correggere un atto, emanato in precedenza, quando essa riconosca, nell’ambito dei poteri di riesame e autocontrollo della propria attività,
finalizzati all’attuazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione, contenuti nell’art. 97 Cost. (Ferlazzo Natoli; Ripa), tale atto come viziato, ossia illegittimo o infondato. L’autotutela, quindi, rientra tra gli istituti deflativi del contenzioso (gli istituti che hanno lo scopo di ridurre il contenzioso tributario). L’autotutela tributaria, disciplinata dall’art. 2quater del D.L. 30-9-1994, n. 564, conv., con modif., in L. n. 656/1994, da ultimo modificato dall’art. 11 del D.Lgs. n. 159/2015, e dal D.M. 11-2-1997, n. 37, concerne sia l’annullamento di atti con vizi di legittimità (di forma o procedimentali) sia la revoca di atti infondati.
L’autotutela
comprende
anche
il
potere
di
sospendere gli effetti di un atto che appaia viziato. Il soggetto titolare del potere di autotutela è l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emanato l’atto illegittimo o infondato ovvero competente per l’accertamento d’ufficio e, in caso di grave inerzia, la Direzione regionale dalla quale l’ufficio dipende.
7.4 Il diritto di interpello Il diritto di interpello consente al contribuente di conoscere preventivamente la posizione dell’Amministrazione finanziaria in merito all’interpretazione di una determinata norma tributaria ad uno specifico caso concreto. Il diritto di interpello è attualmente disciplinato dall’art. 11 della L. n. 212/2000 (Statuto del contribuente), come sostituito dall’art. 1 del D.Lgs. n. 156/2015, e dal Titolo I del medesimo decreto. Le istanze di interpello vanno presentate secondo le regole procedurali stabilite con il Provv. 4-1-2016. Le tipologie di interpello esistenti sono state raggruppate in quattro diverse categorie: interpello ordinario (art. 11, comma 1, lett. a); interpello probatorio (art. 11, comma 1, lett. b): interpello antiabuso (art. 11, comma 1, lett. c); interpello disapplicativo (art. 11, comma 2). A questi tipi di interpello si aggiungono il cd. interpello o ruling internazionale e quello per nuovi investimenti.
7.5 L’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria e l’Anagrafe tributaria L’attività istruttoria è l’attività conoscitiva (acquisizione di dati
e
documenti,
indagini,
investigazioni
ecc.)
che
l’Amministrazione finanziaria pone in essere, al fine di disporre di tutte le informazioni e gli elementi utili al controllo degli adempimenti dei contribuenti. Attualmente, la fase istruttoria è sdoppiata (Falsitta), in quanto è articolata in:
controlli “formali”, svolti prevalentemente in modo indistinto, i quali consistono in un riscontro documentale, mediante procedure automatizzate, delle dichiarazioni presentate dai contribuenti (liquidazione delle imposte dovute e controllo formale vero e proprio); controlli “sostanziali”, svolti nei confronti di una parte dei contribuenti,
appositamente
selezionati,
mediante
l’esercizio di incisivi poteri ispettivi (attività di verifica fiscale). Ai fini istruttori, fondamentale è il ruolo dell’Anagrafe tributaria (A.T.), un archivio informatico (D.P.R. n. 605/1973), nel quale sono raccolti ed elaborati, su scala
nazionale e con riguardo a tutti i contribuenti (persone fisiche, società ecc.), identificati mediante il loro codice fiscale, i dati delle dichiarazioni presentate (imponibili, versamenti ecc.), nonché i dati che possono comunque assumere rilevanza fiscale, tra cui, ad esempio, quelli relativi ai rapporti intrattenuti con gli intermediari finanziari, ai trasferimenti immobiliari ed alle utenze (telefoniche, per l’energia elettrica ecc.).
7.6 Il controllo formale delle dichiarazioni Il cd. controllo formale delle dichiarazioni, che riguarda le fattispecie tassativamente individuate dal legislatore, si articola: nella liquidazione delle imposte dovute in base alle dichiarazioni presentate, effettuato nei confronti di tutti i contribuenti; nel controllo formale vero e proprio, che invece è svolto nei confronti di un numero ridotto di contribuenti, appositamente scelti.
7.6.1 Liquidazione Avvalendosi di procedure automatizzate (cd. controllo automatico), l’Amministrazione finanziaria procede, entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo (termine di natura ordinatoria, avente efficacia esortativa, non stabilito quindi a pena di decadenza: art. 28 della L. n. 449/1997), alla liquidazione delle imposte, dei contributi, dei premi dovuti e dei rimborsi spettanti in base alle dichiarazioni dei redditi e dei sostituti d’imposta presentate (art. 36bis del D.P.R. n. 600/1973). Medesima
procedura è prevista anche ai fini dell’IVA (art. 54bis del D.P.R. n. 633/1972). In base ai dati direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate ed a quelli rilevabili dall’Anagrafe tributaria, gli uffici provvedono ad effettuare operazioni di calcolo volte a verificare l’esattezza numerica dei dati dichiarati, senza alcuna valutazione di merito. In dettaglio, il citato esame cartolare consiste nel:
correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione degli imponibili, delle imposte, dei contributi e dei premi; correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze delle imposte, dei contributi e dei premi risultanti dalle precedenti dichiarazioni; ridurre le detrazioni d’imposta indicate in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni; ridurre le deduzioni dal reddito indicate in misura superiore a quella spettante; ridurre i crediti d’imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni; controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti delle imposte, dei contributi e dei premi dovuti a titolo di acconto e di saldo e delle ritenute alla fonte operate in qualità di sostituto d’imposta.
Quando dai controlli automatici eseguiti emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione, l’esito della liquidazione è comunicato al contribuente con una comunicazione di irregolarità (“avviso bonario” o “invito di pagamento”), quindi non con un “avviso di liquidazione”, tipico atto impositivo, al fine di evitare la reiterazione di errori e per consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, mediante raccomandata ovvero, su opzione del contribuente, mediante avviso telematico all’intermediario che ha trasmesso la dichiarazione (il quale è obbligato ad avvisarlo entro 30 giorni). Qualora a seguito della comunicazione il contribuente rilevi eventuali dati o elementi
non
considerati
o
valutati
erroneamente
dall’ufficio, lo stesso può fornire i chiarimenti necessari entro i 30 giorni successivi al ricevimento della comunicazione cartacea, ovvero entro 90 giorni da quando l’avviso
telematico
è
stato
reso
disponibile
all’intermediario.
7.6.2 Controllo formale L’Amministrazione finanziaria può procedere, entro il 31 dicembre
del
secondo
anno
successivo
a
quello
di
presentazione, al controllo formale delle dichiarazioni dei redditi e dei sostituti d’imposta presentate, in base a criteri selettivi fissati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze (art. 36ter del D.P.R. n. 600/1973). Con riferimento alla dichiarazione precompilata i poteri di controllo formale hanno subito forti limitazioni.
Ai fini del controllo formale, il contribuente può essere invitato (telefonicamente, in forma scritta o telematica), a fornire chiarimenti in ordine ai dati contenuti nella dichiarazione o trasmettere ricevute di versamento e altri documenti non allegati alla dichiarazione o difformi dai dati forniti da terzi. L’esito del controllo è comunicato al contribuente (avviso bonario), con l’indicazione dei motivi che
hanno
dato
luogo
alle
rettifiche,
mediante
raccomandata ovvero, in caso di opzione del contribuente, mediante avviso telematico all’intermediario che ha trasmesso la dichiarazione (il quale è obbligato ad avvisarlo entro 30 giorni), per consentire anche la segnalazione di eventuali dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente dell’ufficio, entro i 30 giorni successivi al ricevimento della comunicazione cartacea, ovvero entro 90 giorni da quando l’avviso telematico è stato reso disponibile all’intermediario. Rispetto alla liquidazione, quindi, il legislatore ha previsto la garanzia della motivazione.
7.6.3 Iscrizione a ruolo In mancanza di chiarimenti forniti dal contribuente, le imposte, le sanzioni e gli interessi derivanti dalla liquidazione e dal controllo formale sono iscritti direttamente a ruolo. Successivamente, l’Agente della riscossione notifica la cartella di pagamento, senza la necessità di alcun avviso di accertamento.
7.6.4 Definizione in via breve
Il contribuente ha la facoltà, prima che sia emesso il ruolo nei suoi confronti, di usufruire della cd. definizione in via breve degli importi dovuti in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione (artt. 2 e 3 del D.Lgs. 1812-1997, n. 462), con conseguente beneficio della riduzione delle sanzioni dovute. Per fruire della definizione in via breve il contribuente deve effettuare il pagamento – entro 30 giorni dalla data di ricevimento della raccomandata contenente l’avviso bonario (ovvero entro 60 giorni dalla data in cui l’avviso bonario è reso disponibile presso l’intermediario) – delle imposte, degli interessi (al tasso del 3,5% annuo) e della sanzione ridotta nella misura di:
1/3 della sanzione dovuta a seguito della liquidazione (pari al 30% delle imposte non versate o versate in ritardo); in sostanza, la sanzione ridotta è pari al 10% delle imposte dovute; 2/3 della sanzione dovuta a seguito del controllo formale (pari al 30% delle imposte non versate o versate in ritardo); in sostanza, la sanzione ridotta è pari al 20% delle imposte dovute.
7.7 L’attività di controllo sostanziale L’attività di controllo “sostanziale” (art. 37 del D.P.R. n. 600/1973) è svolta nei confronti di una parte dei contribuenti, individuati in base a criteri selettivi fissati annualmente dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, mediante l’esercizio di incisivi poteri investigativi (accesso, ispezione, ricerca ecc.), di cui sono dotati gli uffici finanziari, e che caratterizzano la cd. attività di verifica fiscale.
7.7.1 Le richieste di informazioni e documenti Gli uffici finanziari hanno la facoltà di invitare il contribuente, con atto motivato (art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 e art. 51 del D.P.R. n. 633/1972): a comparire, personalmente o a mezzo di rappresentanti, per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei suoi confronti; ad esibire o trasmettere atti e documenti, nonché, se si tratta di soggetto obbligato alla tenuta delle scritture contabili, bilanci, rendiconti, libri o registri previsti dalle disposizioni tributarie, rilevanti ai fini dell’accertamento nei suoi confronti;
a rispondere a questionari relativi a dati e notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento nei suoi confronti nonché nei confronti di altri contribuenti con i quali abbia intrattenuto rapporti. Il Fisco può richiedere informazioni e documenti anche a soggetti diversi dal contribuente, sia pubblici sia privati.
7.7.2 Accessi, ispezioni, verificazioni e ricerche Accessi, ispezioni, verificazioni e ricerche (art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 e art. 33 del D.P.R. n. 600/1973 che richiama espressamente il citato art. 52) rappresentano le attività che caratterizzano la “verifica fiscale”, ossia l’attività istruttoria, avente natura di sub procedimento amministrativo, che costituisce la più importante forma di controllo sostanziale della posizione fiscale del contribuenti. Accesso Il potere di accesso è il potere che i verificatori hanno di entrare e permanere in determinati luoghi, anche senza o contro il consenso di chi ne ha la disponibilità, avvalendosi, se necessario, della forza pubblica, al fine di eseguire ispezioni, verificazioni, ricerche ed ogni altra rilevazione utile ai fini della verifica fiscale. Si tratta, quindi, di un potere molto invasivo, attribuito all’Amministrazione finanziaria, che incide sulla sfera privata dei cittadini. Per tale motivo, quindi, sono altresì previste una serie di garanzie che contemperano l’interesse
fiscale con i diritti, costituzionalmente garantiti, dei contribuenti.
Ispezione L’ispezione consiste nell’analisi delle scritture e dei documenti contabili reperiti in sede di accesso, inclusi quelli la cui tenuta non è obbligatoria, e nel suo raffronto con altri documenti, anche di terzi (cd. controllo incrociato), al fine di controllarne la corretta istituzione, tenuta e conservazione, nonché l’attendibilità complessiva. Le scritture, i registri ed i documenti contabili non possono essere sequestrati dai verificatori, che possono però estrarne copia, ad eccezione dell’ipotesi in cui non sia possibile riprodurre o riportare il loro contenuto nel verbale, ovvero nell’ipotesi in cui il contribuente si rifiuti di firmare o contesti il contenuto del verbale.
Ricerca Il potere di ricerca consente ai verificatori, all’atto dell’accesso, di procedere autoritativamente al materiale reperimento dei documenti (contabili ed extracontabili) ritenuti utili al controllo, anche se il contribuente dichiara di aver esibito tutta la documentazione in suo possesso. È tuttavia necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica per procedere a perquisizioni personali, all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale, ferme restando le garanzie stabilite
dall’art. 103 c.p.p., poste a tutela dell’intangibilità dei documenti inerenti al mandato fiduciario tra il difensore (o il consulente tecnico) e il cliente.
Documentazione dell’attività istruttoria I verificatori hanno l’obbligo di redigere un processo verbale, contenente la descrizione di tutte le operazioni ispettive eseguite nell’ambito dell’attività di verifica fiscale (accesso, ispezioni, ecc.), nonché le richieste fatte al contribuente e le risposte ricevute. Il verbale deve essere sottoscritto dal contribuente (o da chi lo rappresenta), che ha diritto al rilascio di una copia, ovvero deve indicare il motivo della mancata sottoscrizione. Nella prassi, gli uffici redigono un processo verbale di verifica per la descrizione delle operazioni compiute e, al termine
della
constatazione,
verifica, che
un
processo
sintetizzata
tutte
verbale le
di
violazioni
riscontrate. Tali verbali, in quanto redatti da pubblici ufficiali, sono atti pubblici e, ai sensi dell’art. 2700 c.c., fanno piena prova, fino a querela di falso, della loro provenienza dal pubblico ufficiale che li ha formati e degli atti o fatti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
Sanzioni penali in caso di esibizione di documenti falsi L’art. 11, comma 1, del D.L. n. 201/2011, conv., con modif., dalla L. n. 214/2011, stabilisce che chiunque, a seguito delle richieste effettuate dagli uffici finanziari nell’esercizio dei loro poteri istruttori, esibisce o trasmette atti o documenti falsi, in
tutto o in parte, ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero, è punito con le sanzioni penali previste dall’art. 76 del D.P.R. n. 445/2000 (relative ai delitti di falso). Relativamente ai dati e alle notizie non rispondenti al vero, le sanzioni penali si applicano solo se, al termine dell’attività istruttoria, si configura uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000.
7.8 Diritti e doveri del contribuente sottoposto a verifiche fiscali Con riguardo all’attività di verifica fiscale – che deve svolgersi nel rispetto del principio di cooperazione tra Amministrazione e contribuente – il legislatore ha previsto una serie di diritti e obblighi per il soggetto verificato. Lo
Statuto
del
contribuente
riconosce
al
soggetto
sottoposto a verifica fiscale diritti e garanzie. In generale, l’art. 6, comma 4, della L. n. 212/2000 dispone che al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente. Il contribuente sottoposto a controllo ha l’obbligo di collaborare,
ottemperando
alle
richieste
degli
organi
verificatori; il suo eventuale comportamento reticente o ostruzionistico è sanzionato dall’ordinamento sotto più profili (applicazione di sanzioni amministrative, pregiudizio nelle facoltà di difesa, sottoposizione ad accertamento induttivo).
Capitolo 8 L’accertamento tributario 8.1 L’avviso di accertamento Al termine dell’attività istruttoria (richiesta documenti, verifica fiscale, indagini finanziarie ecc.), qualora in esito alla stessa siano emerse violazioni tributarie, l’ufficio finanziario competente emette, nei confronti del contribuente, un provvedimento
amministrativo
detto
“avviso
di
accertamento”, con il quale, rettificando la dichiarazione del contribuente, stabilisce l’obbligazione tributaria (imponibile, imposta, sanzioni ecc.), per il periodo d’imposta accertato. L’avviso di accertamento è un atto:
avente la natura di titolo esecutivo, relativamente agli avvisi emessi ai fini delle imposte sui redditi, dell’IRAP e dell’IVA, dei tributi e delle entrate degli enti locali; vincolato, in quanto il suo contenuto è predeterminato dalla legge, conformemente all’art. 23 Cost.; pertanto, al verificarsi di determinati presupposti, l’ufficio, senza alcun potere discrezionale, è obbligato ad emanarlo (Tesauro); autoritativo, in quanto produce i suoi effetti ed è idoneo a diventare definitivo, anche se affetto da vizi, se non impugnato nei termini previsti (Falsitta).
Inoltre, in generale l’avviso di accertamento è unico e globale, ossia deve basarsi su tutti gli elementi in possesso dell’ufficio al momento della sua emissione (Falsitta) per ciascun periodo di imposta. Tuttavia, il legislatore ha previsto specifiche ipotesi in cui è possibile l’emanazione di più avvisi di accertamento per ciascun periodo di imposta (accertamento parziale, accertamento integrativo ecc.).
L’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente ad emanare l’avviso di accertamento, nonché ad effettuare la preliminare attività istruttoria, è quello nella cui circoscrizione è situato il domicilio fiscale del contribuente (art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973). L’ingiunzione fiscale, disciplinata dal R.D. 14-4-1910, n. 639, deve ritenersi sopravvissuta nella sua componente di atto di accertamento della pretesa erariale in materia di imposte doganali e accise (Cass. 15-1-2007, n. 6949).
8.2 Il contenuto dell’avviso di accertamento Il contenuto dell’avviso di accertamento, che può variare in relazione alle diverse imposte, si compone tipicamente di due parti: la motivazione, ossia l’indicazione delle ragioni di fatto e di diritto poste alla base dell’atto, ed il dispositivo, ossia la statuizione cui si ricollegano gli effetti dell’accertamento (imponibile, imposta, sanzioni ecc.).
8.2.1 Disposizioni dello Statuto del contribuente L’art. 7 della L. n. 212/2000 dispone che tutti gli atti dell’Amministrazione
finanziaria
e
dell’Agente
della
riscossione (e, quindi, anche gli avvisi di accertamento) debbano tassativamente indicare: la motivazione, ossia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che li hanno determinati, in conformità al generale obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (art. 3 della L. n. 241/1990); l’ufficio presso il quale si possono ottenere informazioni complete circa l’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento;
l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame, anche nel merito, dell’atto in autotutela; le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili. Per gli avvisi di accertamento esecutivi, inoltre, è prevista l’indicazione degli ulteriori elementi informativi
relativi
alla
loro
specifica
disciplina
(intimazione ad adempiere, avvertimento sulla riscossione coattiva, importo dovuto a titolo provvisorio ecc.).
8.2.2 La motivazione La motivazione dell’avviso di accertamento svolge una fondamentale funzione di garanzia per il contribuente circa l’imparzialità e la trasparenza dell’azione degli uffici finanziari (Ripa), in quanto essa: consente al contribuente di conoscere il percorso logicogiuridico seguito dall’ufficio, al fine di poter esercitare, se ritiene l’accertamento illegittimo, il suo diritto di difesa mediante la presentazione del ricorso (Falsitta; Tesauro); di delimitare l’oggetto dell’eventuale fase contenziosa, nella quale si discuterà se l’imposta accertata sia dovuta in base alle ragioni contenute nell’avviso e non, quindi, se sia dovuta in base a qualsiasi ragione (Lupi). Differenza tra motivazione e prova La motivazione, diversa a seconda della metodologia accertativa utilizzata, ha la funzione di informare il
contribuente delle ragioni dell’accertamento, mediante la descrizione delle argomentazioni dell’ufficio (è un requisito dell’avviso e non riguarda, quindi, la sua fondatezza). La prova, invece, ha la funzione di dimostrare (al giudice) che la pretesa avanzata è fondata. Si può avere, quindi,
un
accertamento
motivato
(valido),
che
sia
successivamente annullato dal giudice nell’ipotesi in cui sia ritenuto non provato (infondato). Motivazione per relationem L’ufficio ha la facoltà, giustificata da ragioni di efficienza, di motivare un avviso di accertamento per relationem, ossia mediante un rinvio ad un altro atto del procedimento tributario (quale, ad esempio, un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza ovvero un precedente avviso di accertamento). L’art. 7, comma 1, dello Statuto del contribuente stabilisce che quando nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama. Tuttavia, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 42, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973, introdotto in ottemperanza a quanto stabilito dal citato art. 7, restringe l’obbligo di allegazione dell’atto, ovvero di riproduzione del suo contenuto, alle sole ipotesi in cui l’atto richiamato non sia stato né conosciuto né ricevuto dal contribuente.
8.3 Esecutività degli avvisi di accertamento Al fine di velocizzare l’attività di riscossione dei tributi evasi, l’art. 29 del D.L. n. 78/2010, conv., con modif., dalla L. n. 122/2010, e succ. mod. e int., ha radicalmente riformato la disciplina della riscossione, attribuendo la natura di titolo esecutivo agli avvisi di accertamento, emessi a decorrere dal 1-10-2011, ed aventi ad oggetto i periodi d’imposta 2007 e successivi, eliminando, per la riscossione coattiva di tali atti, la fase della formazione del ruolo e della successiva notifica della cartella di pagamento. In dettaglio, dalla suddetta data è previsto che gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’IRAP e dell’IVA, ed i connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni, abbiano efficacia esecutiva decorso il termine utile per la proposizione del ricorso. Dopo 30 giorni dal termine ultimo per il suo pagamento, qualora il contribuente non effettui il versamento di quanto richiesto con l’avviso di accertamento, la riscossione è affidata in carico all’Agente della riscossione, anche ai fini dell’esecuzione forzata. L’Agente della riscossione informa il contribuente, mediante raccomandata semplice, di aver preso in carico le somme per la riscossione. La nuova disciplina prevede inoltre che:
nel caso di fondato pericolo per il positivo esito della riscossione (ad esempio, nell’ipotesi di fallimento del contribuente), la riscossione dell’avviso di accertamento, decorsi 60 giorni dalla sua notifica, può essere affidata all’Agente
della
riscossione
immediatamente
(senza
attendere, quindi, gli ulteriori 30 giorni ordinariamente previsti); l’esecuzione forzata è ordinariamente sospesa, salvo il caso di fondato pericolo per la riscossione, per 180 giorni dalla data di affidamento dell’avviso all’Agente della riscossione, senza che sia richiesto alcun tipo di adempimento da parte del contribuente; la citata sospensione non si applica alle azioni cautelari e conservative a tutela del credito tributario (ipoteca, fermo amministrativo ecc.). La sospensione non opera in caso di accertamenti definitivi, anche in seguito a giudicato e in caso di recupero di somme derivanti da decadenza dalla rateazione; il contribuente ha comunque la facoltà di chiedere la sospensione giudiziale o la sospensione amministrativa della riscossione dell’avviso di accertamento; l’avviso di accertamento deve contenere: l’intimazione ad adempiere al pagamento degli importi richiesti entro 60 giorni dalla sua notifica; l’avvertimento che, decorsi inutilmente 30 giorni dalla scadenza del temine per il pagamento, sarà affidato
all’Agente
l’esecuzione coattiva;
della
riscossione
per
l’indicazione dell’importo (pari ad 1/3 delle maggiori imposte accertate) che il contribuente deve pagare, a titolo provvisorio, nel caso di presentazione di ricorso, salvo l’ipotesi in cui sia stata
richiesta
la
sospensione
giudiziale
o
amministrativa. Inoltre, il D.L. n. 16/2012, all’art. 3, comma 10, dispone, a decorrere
dal
1-7-2012,
che
non
si
procede
all’accertamento, all’iscrizione a ruolo e alla riscossione dei crediti relativi a tributi qualora l’ammontare dovuto, comprensivo di sanzioni ed interessi, non superi 30 euro.
La Legge di bilancio 2020 (art. 1 co. 784 L. 160/2019) ha esteso
anche
agli
enti
locali
(Province,
Città
metropolitane, Comuni, Comunità montane, unioni di Comuni e consorzi tra gli enti locali) l’istituto dell’accertamento esecutivo, in analogia a quanto disposto per le entrate erariali dagli artt. 29 e 30, D.L. n. 78 del 2010, e ha introdotto un unico atto di accertamento avente in sé tutti gli elementi per costituire titolo idoneo all’esecuzione forzata. L’accertamento esecutivo degli enti locali opera a partire dal 1° gennaio 2020; gli atti di accertamento riguardano non solo i tributi ma anche le entrate patrimoniali degli enti, con esclusione delle contravvenzioni stradali.
8.4 La notificazione La notificazione dell’avviso di accertamento, ossia la procedura che ha lo scopo di comprovare la conoscenza legale, ancorché non definitiva dell’avviso (Amatucci), ne determina l’esistenza e la produzione dei suoi effetti giuridici. È, dunque, il procedimento attraverso il quale si porta nella sfera di conoscenza del destinatario l’atto amministrativo, che in tal modo diviene efficace. Il procedimento è svolto attraverso modalità che certificano l’avvenuta consegna al destinatario (o altro soggetto legittimato a ricevere l’atto), il luogo e la data. Con riferimento alla data, essa rappresenta un termine essenziale, tanto per il notificante, ai fini del rispetto del termine decadenziale, tanto per il destinatario, ai fini del computo dei termini per la proposizione dell’eventuale ricorso. La disciplina della notifica degli atti tributari è contenuta nell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973, il quale rinvia espressamente agli artt. 137 e ss. c.p.c., stabilendo, però, alcune deroghe. In dettaglio, è previsto che la notifica degli atti tributari sia eseguita per il tramite di messi comunali ovvero di messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria.
Il
messo
deve
far
sottoscrivere
dal
consegnatario l’atto ovvero indicare i motivi per i quali il consegnatario non lo ha sottoscritto. Con riferimento alle modalità di notifica, è stabilito che la stessa possa essere
eseguita nelle mani proprie del contribuente ovvero mediante spedizione a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento. Se il contribuente ha indicato un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC), la notifica deve avvenire con modalità digitale, salvo che sia richiesta una modalità di notificazione diversa.
Salvo che l’atto sia consegnato in mani proprie, la notifica deve essere effettuata presso il domicilio fiscale del contribuente,
ovvero
presso
altro
domicilio
eletto
eventualmente dallo stesso nel Comune del proprio domicilio fiscale. Il messo notificatore deve ricercare il contribuente cui deve notificare l’atto, seguendo un ordine tassativo (Cass. 11-51998, n. 4739), nei seguenti luoghi del domicilio fiscale: casa di abitazione, ufficio, luogo di svolgimento della propria attività. Se il contribuente non viene trovato in uno di tali luoghi, la notifica può essere effettuata nei confronti di una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda (purché non minore di 14 anni o palesemente incapace) ovvero, se mancante, al portiere dello stabile o ad un vicino di casa. Se non è possibile eseguire la consegna (per irreperibilità, per incapacità o rifiuto delle suddette persone), il messo deposita la copia dell’atto da notificare nella casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge l’avviso del deposito alla porta dell’abitazione o
dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento. Le notificazioni degli avvisi e degli altri atti effettuate a decorrere
dal
1-7-2017
possono
essere
effettuate
direttamente dal competente ufficio a mezzo di posta elettronica
certificata,
all’indirizzo
del
destinatario
risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC, art. 7quater, comma 6, del D.L. n. 193/2016, conv., con modif., in L. n. 225/2016).
8.5 Le patologie dell’avviso di accertamento La normativa tributaria non contiene conseguenze tipizzate in merito all’ipotesi di invalidità dell’avviso di accertamento (Amatucci); le stesse, pertanto, vanno ricavate in via interpretativa, in base alla L. n. 241/1990 ed alle singole leggi d’imposta.
8.5.1 Nullità L’avviso di accertamento è nullo, ai sensi dell’art. 21septies, comma 1, della L. n. 241/1990, quando: manca degli elementi essenziali (omessa sottoscrizione, omessa notifica ecc.); è viziato da difetto assoluto di attribuzione, ossia è emesso in una situazione di carenza di potere, come nel caso di ufficio privo del potere impositivo esercitato (per incompetenza funzionale o territoriale); è stato adottato in violazione o elusione del giudicato; negli altri casi espressamente previsti dalla legge, come, ad esempio, nel caso di mancanza di motivazione dell’avviso di accertamento ai fini delle imposte sui redditi (art. 42 del D.P.R. n. 600/1973).
8.5.2 Annullabilità e irregolarità
Il legislatore tributario non ha previsto un criterio generale che consenta di distinguere i vizi che rendono l’avviso di accertamento annullabile (forma di invalidità suscettibile di sanatoria), ovvero solo irregolare. Un ausilio, al riguardo, è offerto dall’art. 21octies, primo comma, della L. n. 241/1990, secondo il quale è annullabile il provvedimento adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
8.5.3 Divieto di doppia imposizione In ossequio al principio generale del sistema tributario del divieto di doppia imposizione, peraltro espressamente enunciato in materia di imposte sui redditi (art. 67 del D.P.R. n. 600/1973 e art. 163 del D.P.R. n. 917/1986), gli uffici non possono accertare, sia nei confronti di un medesimo soggetto, sia nei confronti di soggetti diversi, la stessa imposta, ovvero imposte diverse, su un medesimo presupposto, due o più volte.
8.6 Il termine per l’accertamento L’avviso
di
accertamento
deve
essere
notificato
al
contribuente, a pena di decadenza, entro termini prestabili dalla legge, al fine di favorire la stabilità del rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuente, il quale non può soggiacere sine die all’esercizio del potere impositivo da parte dello Stato (Ferlazzo Natoli). Pertanto, anche l’esercizio dei poteri istruttori da parte del Fisco avviene, in generale, entro i predetti termini. In merito, l’art. 2, comma 3, dello Statuto del contribuente (L. n. 212/2000) dispone che “i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati”. Ai fini delle imposte sui redditi (art. 43, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 600/1973) e dell’IVA (art. 57, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 633/1972), in seguito alle modifiche operate dall’art. 1, commi 130 e 131, della L. n. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016) i termini per l’esercizio del potere accertativo sono stati oggetto di modifiche. In particolare:
in relazione agli anni d’imposta fino al 2015 i termini per l’emissione degli avvisi di accertamento scadono: in caso di presentazione della dichiarazione, entro il 31.12 del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione ;
in caso di dichiarazione omessa, entro il quinto anno successivo a quello entro il quale la dichiarazione sarebbe dovuta essere presentata. Tali termini sono raddoppiati in caso di violazioni aventi rilevanza penale;
per gli anni d’imposta dal 2016 e successivi i termini di accertamento sono stati ampliati. I termini per l’emissione degli avvisi di accertamento scadono in caso di presentazione della dichiarazione, entro il 31.12 del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione; in caso di dichiarazione omessa, entro il settimo anno successivo a quello entro il quale la dichiarazione sarebbe dovuta essere presentata. Il raddoppio dei termini di accertamento in caso di violazioni aventi rilevanza penale non è più previsto.
8.7 Le diverse tipologie di accertamento Il legislatore prevede diversi metodi di accertamento, i quali si differenziano sia in relazione ai presupposti che ne legittimano
l’adozione
sia
in
relazione
ai
criteri
di
quantificazione del reddito, e dalla cui scelta deriva la denominazione dell’avviso di accertamento. Inoltre, l’adozione di diverse metodologie di accertamento risponde anche all’esigenza di contrastare, con strumenti differenti, le varie forme di evasione fiscale, realizzate con modalità diverse a seconda della tipologia di contribuenti.
8.8 L’accertamento analitico L’accertamento analitico, esperibile nei confronti di tutti i contribuenti, è il metodo che l’ufficio adotta ordinariamente per accertare il reddito complessivo, quale somma delle singole categorie reddituali, quando quello dichiarato risulti inferiore a quello effettivo. Tale metodo, che presuppone che l’ufficio sia a conoscenza delle fonti di reddito, comporta la specifica rettifica o determinazione (cd. recupero a tassazione) di singole componenti dell’imponibile (art. 38 del D.P.R. n. 600/1973). Anche ai fini IVA, l’accertamento analitico rappresenta la metodologia ordinaria (art. 54 del D.P.R. n. 633/1972).
8.9 L’accertamento sintetico nei confronti delle persone fisiche L’accertamento sintetico comporta la determinazione del reddito complessivo netto delle persone fisiche in base al valore induttivo di elementi e circostanze di fatto certi, ritenuti segnaletici dell’esistenza di redditi non dichiarati (Falsitta). In sostanza, dall’analisi delle spese e degli investimenti effettuati, l’ufficio presume il reddito che consente un determinato “tenore di vita” (Ferlazzo Natoli), indipendentemente dal reddito dichiarato. Tale metodo non è adottabile ai fini IVA. Tale metodologia prescinde, diversamente dagli altri metodi, dall’individuazione delle specifiche fonti di reddito e si fonda sulla capacità di spesa quale indice presuntivo di un reddito non tassato – attribuibile al contribuente – idoneo a sostenere tale capacità di spesa. È un metodo basato su un procedimento logico “a ritroso” (dalla spesa al reddito).
Circa i presupposti, ai sensi dell’art. 38, commi 4 e ss., del D.P.R. n. 600/1973, come modificato dal D.L. n. 78/2010 (conv., con modif., dalla L. n. 122/2010), l’ufficio può determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente quando il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno 1/5 quello dichiarato. Nei confronti dei contribuenti soggetti agli studi di settore che abbiano dichiarato, anche per
effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori a quelli derivanti dall’applicazione degli studi stessi, perché si possa
ricorrere
all’accertamento
sintetico,
il
reddito
complessivo accertabile deve invece eccedere di almeno 1/3 quello dichiarato (art. 10, comma 9, del D.L. n. 201/2011 – cd. decreto Salva Italia, conv., con modif., dalla L. n. 214/2011). L’ufficio che intende avvalersi dell’accertamento sintetico ha l’obbligo di instaurare il contraddittorio con il contribuente, invitandolo a comparire di persona, o per mezzo di rappresentanti, per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento
e,
successivamente,
di
avviare
il
procedimento di accertamento con adesione (art. 38, comma 7). Per la quantificazione sintetica del reddito, ai cui fini sono comunque riconosciuti al contribuente gli oneri deducibili e le detrazioni spettanti (art. 38, comma 8), l’ufficio può basarsi, alternativamente: sulle spese di qualsiasi genere (investimenti mobiliari e immobiliari netti, mutui ecc.) sostenute nel corso del periodo d’imposta (cd. spesometro: art. 38, comma 4); sul cd. redditometro, ossia avvalersi di elaborazioni matematico-statistiche che consentano di quantificare un reddito (standard) tassabile, attribuibile al contribuente in base alla disponibilità di elementi indicativi di capacità contributiva
(immobili
abitativi,
imbarcazioni,
assicurazioni, mezzi di trasporto, istruzione, attività sportive e ricreative ecc.), differenziati in funzione del nucleo
familiare
e
dell’area
territoriale
di
appartenenza (art. 38, comma 5 come modificato dal D.L. 87/2018.
8.10 L’accertamento nei confronti di imprese e professionisti L’accertamento nei confronti di soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili (imprenditori, artisti e professionisti) può svolgersi secondo tre diverse metodologie: analitico-contabile,
analitico-induttivo
e
induttivo-
extracontabile.
8.10.1 L’accertamento analitico-contabile L’accertamento analitico-contabile è il metodo ordinario in materia di reddito d’impresa e di reddito di lavoro autonomo (art. 39, commi 1 e 3, del D.P.R. n. 600/1973); esso presuppone l’attendibilità delle scritture contabili nel loro complesso e comporta rettifiche, giustificate da ragioni di diritto ovvero da ragioni di fatto, alle singole componenti di reddito. L’ufficio
procede
all’accertamento
analitico-contabile
quando (si tratta di ipotesi tassative):
gli
elementi
indicati
nella
dichiarazione
non
corrispondono a quelli del bilancio; non sono state esattamente applicate le disposizioni in materia di determinazione del reddito d’impresa, ovvero di determinazione del reddito di lavoro autonomo;
l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione risulta in modo certo e diretto dai verbali redatti nei confronti del contribuente; dalle risposte ai questionari inviati al contribuente; dagli atti, documenti e registri esibiti o trasmessi dal contribuente; dalle dichiarazioni di altri soggetti; dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti; da altri atti e documenti in possesso dell’ufficio; l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dall’attività di verifica fiscale (accessi, ispezioni, ecc.) svolta nei confronti del contribuente ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti contabili, nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nell’ambito dell’attività istruttoria. Anche in materia di IVA, il metodo analitico-contabile rappresenta la modalità ordinaria di accertamento (art. 54 del D.P.R. n. 633/1972).
8.10.2 L’accertamento analitico-induttivo L’accertamento analitico-induttivo, previsto ai fini del reddito d’impresa, del reddito di lavoro autonomo e dell’IVA, presuppone, come quello analitico-contabile, la complessiva attendibilità dell’impianto contabile del contribuente. Esso può fondarsi:
su presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti, al fine di sostenere l’esistenza di attività non dichiarate ovvero l’inesistenza di passività dichiarate (art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973); sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (art. 62sexies della L. n. 427/1993).
8.10.3 Gli indici sintetici di affidabilità fiscale L’art. 9bis del D.L. n. 50/2017 (conv., con modif., in L. n. 96/2017) ha istituito gli indici sintetici di affidabilità fiscale per gli esercenti attività di impresa, arti o professioni, che, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31-12-2018 (termine prorogato dall’art. 1, comma 931, della L. n. 205/2017 - Legge di bilancio 2018), sostituiscono gli studi di settore e i parametri presuntivi negli accertamenti analitico-induttivi. Gli indici sono elaborati sulla base dell’analisi di dati e informazioni relativi a più periodi d’imposta e rappresentano la sintesi di indicatori elementari tesi a verificare la normalità e la coerenza della gestione aziendale o professionale, ed esprimono, su una scala da 1 a 10, il grado di affidabilità fiscale di ciascun contribuente. I dati rilevanti ai fini della progettazione, realizzazione, costruzione ed applicazione degli indici sono acquisiti dalle dichiarazioni fiscali, dalle fonti informative disponibili presso
l’anagrafe tributaria, le agenzie fiscali, l’INPS, l’INAIL e la Guardia di Finanza, nonché da altre fonti. In relazione ai diversi livelli di affidabilità fiscale conseguenti
all’applicazione
degli
indici
(anche
grazie
all’adeguamento agli stessi in sede di dichiarazione), al contribuente sono riconosciuti alcuni importanti benefici. Nello specifico:
esonero dall’apposizione del visto di conformità per la compensazione di crediti per un importo non superiore a 50.000 euro annui relativamente all’IVA e per un importo non superiore a 20.000 euro annui relativamente alle imposte dirette e all’IRAP; esonero dall’apposizione del visto di conformità ovvero dalla prestazione della garanzia per i rimborsi dell’IVA per un importo non superiore a 50.000 euro annui; esclusione dell’applicazione della disciplina delle società non operative; esclusione degli accertamenti basati sulle presunzioni semplici; anticipazione di almeno un anno, con graduazione in funzione del livello di affidabilità, dei termini di decadenza per l’attività di accertamento ordinario; esclusione della determinazione sintetica del reddito complessivo, a condizione che il reddito complessivo accertabile non ecceda di due terzi il reddito dichiarato.
8.10.4 L’accertamento induttivoextracontabile
L’accertamento induttivo-extracontabile consente all’ufficio di determinare il reddito d’impresa o di lavoro autonomo (art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973), nonché l’imponibile IVA (art. 55 del D.P.R. n. 633/1972), in via globale e indiziaria, in base ai dati ed alle notizie comunque raccolti o di cui è a conoscenza, con la facoltà: di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti; di avvalersi anche di presunzioni non qualificate (o semplicissime), ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. L’ufficio deve, in primis, individuare, con riferimento al caso
concreto,
i
fatti
circostanziati
(presupposti)
che
legittimano l’adozione dell’accertamento induttivo e, in secundis, esso procede alla stima del reddito in base a qualsiasi informazione in suo possesso (come, ad esempio, le statistiche delle percentuali di ricarico del settore, il rapporto tra il consumo di tovaglioli ed il numero di pasti consumati in un ristorante ecc.).
8.11 L’accertamento d’ufficio L’accertamento d’ufficio è esperibile, ai fini delle imposte sul reddito (art. 41 del D.P.R. n. 600/1973) e dell’IVA (art. 55 del D.P.R. n. 633/1972), nelle ipotesi di omissione ovvero di nullità della dichiarazione. Con tale metodo, il quale si differenzia dall’accertamento svolto nel caso in cui il contribuente abbia validamente presentato la dichiarazione (che si conclude, se ne ricorrono i presupposti, con l’emissione di avviso in rettifica degli elementi della dichiarazione), il Fisco determina l’imponibile e l’imposta sostituendosi totalmente al contribuente inadempiente (Falsitta).
8.12 L’accertamento parziale e l’accertamento integrativo In
deroga
al
principi
di
unicità
e
globalità
dell’accertamento, gli uffici possono effettuare accertamenti parziali e accertamenti integrativi. L’accertamento parziale è effettuato dal competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate qualora dalle attività istruttorie di cui all’art. 32, comma 2, nn. 1-4) del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 51, comma 2, nn. 1-4) del D.P.R. n. 633/1972 (accessi, verifiche, ispezioni ecc.) nonché dalle segnalazioni scaturenti dall’attività ispettiva svolta da altri uffici dell’Agenzia delle Entrate, dalla Guardia di Finanza, da altre pubbliche amministrazioni, ovvero in base ai dati dell’Anagrafe tributaria, risulti: ai fini delle imposte sui redditi (art. 41bis del D.P.R. n. 600/1973), un reddito non dichiarato o parzialmente dichiarato, ovvero l’esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonché l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate; ai fini dell’IVA (art. 54, comma 5 e ss., del D.P.R. n. 633/1972), l’esistenza di corrispettivi o di imposta non dichiarati, totalmente o parzialmente, ovvero detrazioni non spettanti.
8.13 Partecipazione dei Comuni all’attività di accertamento Per rendere più efficace l’attività di accertamento delle imposte dovute dai contribuenti, è stato predisposto un meccanismo
di
collaborazione
tra
l’Amministrazione
finanziaria e i Comuni per l’emersione degli imponibili non dichiarati. Tale cooperazione – che trova il suo fondamento nelle disposizioni dettate dall’art. 44 del D.P.R. n. 600/1973, nel D.L. n. 203/2005, conv., con modif., in L. n. 248/2005, e nel D.L. 201/2011, conv., con modif., in L. n. 214/2011 – si basa sulle cd. “segnalazioni qualificate” che prendono vita dall’individuazione da parte del personale dell’ente locale di presunte anomalie durante lo svolgimento delle proprie attività istituzionali. L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, mette a disposizione dei Comuni le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti persone fisiche in esso residenti. Inoltre i Comuni possono richiedere dati e notizie alle amministrazioni ed enti pubblici, i quali hanno l’obbligo di rispondere gratuitamente. Prima di emettere avvisi di accertamento sintetico, gli Uffici finanziari inviano una segnalazione al Comune di residenza fiscale del soggetto passivo ed il Comune deve rispondere entro 30 giorni con l’indicazione di ogni elemento
utile in suo possesso per la determinazione del reddito complessivo. Come incentivo ai Comuni viene riconosciuta la percentuale del 50% del gettito accertato grazie alla loro collaborazione (art. 2, comma 10, lett. b), del D.Lgs. n. 23/2010). Per gli anni dal 2012 al 2021, l’aliquota di compartecipazione è stata portata al 100% (art. 1, comma 12bis, del D.L. n. 138/2011, come modificato dall’art. 34 del D.L. 124/2019). La Legge di bilancio 2019 (L. 30 dicembre 2018, n. 145), all’art. 1, comma 1091 prevede un dispositivo che permette ai Comuni di accantonare una quota di gettito tributario per utilizzarla nel potenziamento della gestione delle entrate: con proprio regolamento, i Comuni possono prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso sia destinato, limitatamente all’anno di riferimento, al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente.
8.14 Gli istituti deflativi del contenzioso Il legislatore ha previsto una serie di istituti amministrativi che hanno lo scopo di ridurre il contenzioso tributario, consentendo nel contempo: al contribuente di definire la pretesa erariale senza proporre ricorso, beneficiando di una notevole riduzione delle sanzioni ed evitando i costi dell’assistenza tecnica del difensore (necessaria in caso di contenzioso); all’Amministrazione finanziaria di acquisire le maggiori imposte accertate con certezza ed in tempi rapidi.
8.14.1 L’accertamento con adesione L’accertamento con adesione (cd. concordato) è un istituto, disciplinato dal D.Lgs. 19-6-1997, n. 218, mediante il quale l’accertamento è definito, a seguito di un contraddittorio tra l’ufficio finanziario ed il contribuente, con l’emanazione di un provvedimento dell’ufficio che è firmato, per adesione, anche dal contribuente. I benefici dell’accertamento con adesione consistono: per il Fisco, nella possibilità di acquisire definitivamente, con immediatezza e senza conflittualità, le somme accertate (Falsitta);
per il contribuente, nella possibilità di ridurre la pretesa tributaria dell’ufficio, qualora siano accolte le sue ragioni (Cissello-Odetto-Valente), e nella riduzione delle sanzioni amministrative ad 1/3 del minimo previsto, nonché, in caso di reati tributari, nella riduzione delle sanzioni penali fino alla metà e nella non applicabilità delle sanzioni accessorie, se il debito tributario è estinto, a seguito dell’accertamento con adesione, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado. Inizialmente ammesso solo per i redditi di impresa e di lavoro autonomo, l’accertamento con adesione è stato esteso a tutte le tipologie reddituali (C.M. n. 235/E del 1997). Il procedimento può essere avviato (artt. 5-6 del D.Lgs. n. 218/1997): sia dall’ufficio il quale ha l’obbligo (dal 1° luglio 2020: art. 4-octies D.L. 34/2019) di inviare al contribuente un invito a comparire (o invito al contraddittorio), nel quale sono indicati: i periodi di imposta interessati dall’eventuale
adesione,
il
giorno
ed
il
luogo
di
comparizione, le maggiori imposte, ritenute, contributi, sanzioni e interessi dovuti, nonché le relative motivazioni; sia dal contribuente, che può presentare apposita istanza nel caso in cui siano iniziati nei suoi confronti accessi, ispezioni e verifiche ovvero abbia ricevuto un avviso di accertamento non preceduto dall’invito a comparire.
8.14.2 La definizione agevolata delle sanzioni Il contribuente ha la facoltà, qualora rinunci a proporre ricorso, di avvalersi della definizione agevolata delle sanzioni irrogate mediante atto di contestazione o atto contestuale all’avviso di accertamento (art. 16, comma 3, e art. 17, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997), effettuando il pagamento, entro 60 giorni dalla notifica dell’atto, di un importo pari ad 1/3 delle sanzioni irrogate; tale importo non può comunque essere inferiore ad 1/3 dei minimi edittali, previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo. Un ulteriore beneficio dell’istituto de quo è costituito dalla non applicazione delle eventuali sanzioni accessorie.
8.14.3 L’adempimento collaborativo Gli artt. da 3 a 7 del D.Lgs. 5-8-2015, n. 128 hanno introdotto nel nostro ordinamento tributario il regime dell’adempimento collaborativo, un nuovo schema di relazioni tra Agenzia delle Entrate e contribuenti, dando così attuazione all’art. 6 della L. n. 23/2014 (cd. delega fiscale). La finalità dell’istituto,
infatti,
è
la
promozione
di
forme
di
comunicazione e di cooperazione rafforzate basate sul reciproco affidamento tra Amministrazione finanziaria e contribuenti, nonché di favorire, nel comune interesse, la prevenzione e la risoluzione delle controversie in materia fiscale.
Le modalità applicative del regime sono disciplinate dai provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 14-42016 e 26-5-2017.
8.14.4 Procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata (cd. web tax) L’art. 1bis del D.L. n. 50/2017, conv., con modif., in L.n. 96/2017, ha previsto una particolare procedura per la definizione
dei
debiti
tributari
dell’eventuale
stabile
organizzazione presente nel territorio dello Stato per le società e gli enti di cui alla lett. d) del comma 1 dell’art. 73 del TUIR (enti e società di ogni tipo, compresi i trust, non residenti nel territorio
dello
Stato),
che
appartengono
a
gruppi
multinazionali con ricavi consolidati superiori a 1 miliardo di euro annui e che effettuino cessioni di beni e prestazioni di servizi nel territorio dello Stato per un ammontare superiore a 50 milioni di euro annui.
Capitolo 9 La riscossione e il rimborso dei tributi 9.1 Riscossione volontaria e riscossione coattiva Nel nostro sistema tributario, basato sull’autotassazione, la riscossione dei tributi avviene generalmente mediante il pagamento spontaneo del contribuente (cd. riscossione volontaria), salvo il potere di controllo del Fisco che può procedere, in caso di inadempimento del contribuente ed in forza di propri atti, alla riscossione coattiva. In ogni caso, la riscossione dei tributi è caratterizzata dal principio di tipicità, in quanto il contribuente può adempiere l’obbligazione tributaria solo nei modi previsti dalla legge e l’ente impositore può riscuotere i tributi solo mediante gli atti e con le forme previste dalla legge (Falsitta). Non sono ammesse in ambito tributario, quindi, quelle forme di estinzione delle obbligazioni, tipiche del diritto civile, che presuppongono il potere di disporre del rapporto (Tesauro).
9.1.1 Agente della riscossione
Fino al 30 giugno 2017 il servizio di riscossione dei tributi e delle altre entrate dello Stato era esercitato da Equitalia S.p.A., società a totale capitale pubblico, detenuto per il 51% dall’Agenzia delle Entrate e per il 49% dall’INPS (art. 3 del D.L. n. 203/2005, conv., con modif., in L. n. 248/2005), le cui funzioni
consistevano
essenzialmente
nell’incasso
dei
pagamenti effettuati mediante versamento diretto e ruolo, nello svolgimento dell’esecuzione forzata e nell’effettuazione dei rimborsi ai contribuenti. A decorrere dal 1-7-2017, il D.L. 22-10-2016, n. 193, conv., con modif., in L. n. 225/2016, ha disposto la soppressione delle società del gruppo società Equitalia (ad eccezione della società Equitalia Giustizia) e la conseguente attribuzione dalla medesima data delle funzioni di riscossione all’Agenzia delle Entrate, che le svolge per il tramite dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, ente pubblico economico sottoposto all’indirizzo e alla vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze. L’art. 9 del D.Lgs. n. 159/2015 ha riformato, in attuazione della L. n. 23/2014 (legge delega per la riforma del sistema fiscale), a decorrere dal 22-10-2015, il previgente sistema della remunerazione del servizio nazionale della riscossione fondato sul cd. aggio. L’attuale sistema riconosce agli Agenti della riscossione il ristoro degli oneri di riscossione e di esecuzione commisurati al costo di funzionamento del servizio.
9.1.2 Conto fiscale
I soggetti passivi IVA sono titolari di un conto fiscale, gestito dall’Agente della riscossione, nel quale sono registrati i versamenti e i rimborsi in materia di IRES, IRPEF, IRAP, IVA e ritenute alla fonte riferibili a tali soggetti (art. 78, comma 27, della L. n. 413/1991). Con l’introduzione della compensazione dei crediti e debiti tributari ad opera dell’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, il ricorso al conto fiscale per i rimborsi si è molto affievolito. Esso continua ad essere utilizzato solo per il rimborso di somme non ammesse alla compensazione o che eccedono il limite delle somme compensabili (700.000 euro per periodo di imposta). Anche il rimborso su conto fiscale non può superare il suddetto limite (art. 34 della L. n. 388/2000).
9.1.3 Riscossione dei tributi locali L’attività di riscossione, unitamente alla relativa attività di liquidazione ed accertamento, dei tributi e delle altre entrate delle Province e dei Comuni può essere svolta, oltre che dall’Agente della riscossione, dai suddetti enti in proprio ovvero può essere affidata a soggetti privati abilitati, iscritti nell’apposito albo istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze; non possono però essere affidate a terzi (i soggetti di cui all’art. 52, comma 5, lettera b), numeri 1, 2 e 3) le attività di incasso diretto (così l’art. 53, co. 1 D.Lgs. 446/1997 dopo le modifiche della L. 160/2019). La riscossione coattiva dei tributi locali delle Province e dei Comuni è effettuata mediante ruolo, se è affidata all’Agente della riscossione, ovvero mediante ingiunzione,
se è svolta in proprio dall’ente locale, ovvero se è affidata a terzi diversi dall’Agente della riscossione (art. 36, comma 2, del D.L. n. 248/2007, conv., con modif., in L. n. 31/2008). Ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. gg-ter), del D.L. n. 70/2011, conv., con modif., in L. n. 106/2011 (cd. decreto Sviluppo), a decorrere dal 1-1-2012, la società Equitalia S.p.a. avrebbe dovuto cessare le attività di accertamento, liquidazione e riscossione delle entrate, tributarie o patrimoniali, dei Comuni e delle società da essi partecipate. Tale termine è stato posticipato più volte, l’ultima al 30-62017 dall’art. 2, comma 1, del D.L. n. 193/2016, conv., con modif., in L. n. 225/2016, come modificato dall’art. 35 del D.L. 24-4-2017, n. 50, conv., con modif., in L. n. 96/2017. Con
deliberazione
adottata
entro
il
1-7-2017,
le
amministrazioni locali potevano deliberare di affidare al soggetto preposto alla riscossione nazionale (ente Agenzia
delle
Entrate-
Riscossione)
le
attività
di
riscossione, spontanea e coattiva, delle entrate tributarie o patrimoniali proprie e delle società da essi partecipate.
La Legge di bilancio 2020 (art. 1, commi 784-815, L. 160/2019, n. 160) ha operato una complessiva riforma della riscossione degli enti locali, con particolare riferimento agli strumenti per l’esercizio della potestà impositiva; le nuove norme: intervengono sulla disciplina del versamento diretto delle entrate degli enti locali, prevedendo che tutte le somme a
qualsiasi titolo riscosse appartenenti agli enti locali affluiscano direttamente alla tesoreria dell’ente; introducono
anche
per
gli
enti
locali
l’istituto
dell’accertamento esecutivo, sulla falsariga di quanto già previsto per le entrate erariali (cd. ruolo), che consente di emettere un unico atto di accertamento avente i requisiti del titolo esecutivo; in assenza di regolamentazione da parte degli enti, disciplinano puntualmente la dilazione del pagamento delle somme dovute; istituiscono
una
concessionari
sezione
della
speciale
riscossione,
nell’albo cui
dei
devono
obbligatoriamente iscriversi i soggetti che svolgono le funzioni
e
le
attività
di
supporto
propedeutiche
all’accertamento e alla riscossione delle entrate locali; prevedono la gratuità delle trascrizioni, iscrizioni e cancellazioni di pignoramenti e ipoteche richiesti dal soggetto che ha emesso l’ingiunzione o l’atto esecutivo.
9.2 Il pagamento volontario delle imposte Il pagamento spontaneo (o su iniziativa) delle imposte autoliquidate dal contribuente, in base agli obblighi tributari vigenti, può avvenire mediante (artt. 1 e ss. del D.P.R. 29-91973, n. 602): ritenuta diretta, per le imposte sui redditi; versamento diretto, per le imposte sui redditi, l’IRAP e l’IVA; ruolo, per tutti i tributi.
9.2.1 La ritenuta diretta La ritenuta diretta, che può essere a titolo di acconto ovvero a titolo d’imposta, è una forma di riscossione delle imposte sui redditi adottata quando un’amministrazione dello Stato eroga al contribuente determinate somme (ad esempio, redditi di lavoro autonomo, redditi di lavoro dipendente ecc.). In sostanza, l’amministrazione che effettua la ritenuta, sugli importi assoggettati a imposizione (di cui è debitrice) trasferisce, con una sorta di compensazione, l’importo trattenuto (ossia i tributi calcolati sulle somme da erogare) direttamente all’Erario (Gaffuri).
9.2.2 Il versamento diretto
Il versamento diretto, che rappresenta la principale forma di riscossione volontaria dei tributi in termini di gettito, consiste nel pagamento effettuato dal contribuente, a seguito dell’autoliquidazione
dell’importo
dovuto;
il
versamento
diretto è tipicamente realizzato mediante: l’effettuazione delle ritenute alla fonte da parte dei sostituti d’imposta e il loro successivo versamento all’Erario; i versamenti a titolo di acconto e di saldo, in materia di imposte sui redditi, IRAP e IVA, effettuati dai contribuenti obbligati. Con il versamento diretto si attua la cd. riscossione anticipata delle imposte periodiche, ossia una riscossione anteriore rispetto all’integrale verificarsi del presupposto (alla fine del periodo d’imposta), fondata sulla presunzione che il reddito si produca, di anno in anno, nella stessa misura (Tesauro).
I versamenti diretti, destinati alla Tesoreria provinciale dello Stato, sono effettuati mediante il Modello F24, il quale consente di versare cumulativamente (cd. versamento unitario) le principali imposte (IRES, IRPEF, IRAP, IVA, IMU), i contributi previdenziali ed assistenziali (dovuti all’INPS e ad altri enti), i premi INAIL, i diritti annuali alle Camere di Commercio, l’imposta di bollo virtuale, numerose altre imposte, tra queste, dal 1-1-2020, anche le tasse sulle concessioni governative e le tasse scolastiche. Il versamento unitario, inoltre, consente al contribuente di effettuare la
compensazione tra le proprie partite attive (crediti) e passive (debiti). Per
tutti
i
versamenti
in
favore
di
enti
esterni
all’Amministrazione finanziaria (Comuni, uffici giudiziari ecc.) e per quelli relativi ad alcune imposte indirette (come ad esempio l’imposta di registro e le imposte ipotecarie e catastali), il modello di pagamento da utilizzare presso banche, uffici dell’Agente della riscossione e uffici postali è il Modello F23. I versamenti delle ritenute operate dai sostituti d’imposta, nonché delle imposte autoliquidate dal contribuente, sia a titolo di acconto sia a titolo di saldo, devono essere effettuati entro termine perentori. Quando il termine di scadenza cade di sabato o di giorno festivo, il versamento è considerato tempestivo se effettuato il primo giorno lavorativo successivo (art. 6, comma 8, del D.L. n. 90/1994, non convertito, e art. 18, comma 1, del D.Lgs. n. 241/1997).
9.2.3 Il ruolo Il ruolo è, per tutti i tributi (erariali, regionali, ecc.) e per le entrate extratributarie, sia uno strumento di riscossione volontaria, nelle ipotesi in cui non sono previsti né la ritenuta diretta né il versamento diretto, sia uno strumento di riscossione contribuente.
coattiva,
nei
casi
di
inadempimento
del
Il ruolo è un provvedimento amministrativo collettivo emanato dagli uffici finanziari, contenente un elenco dei contribuenti e delle somme (a titolo di imposta, interessi e sanzioni) dovute da ciascuno di essi, il quale viene portato a conoscenza del singolo contribuente mediante la cartella di pagamento. In dettaglio, il ruolo:
rende esigibile l’obbligazione tributaria derivante da avvisi di accertamento non esecutivi; ha natura giuridica di titolo esecutivo, perché legittima l’esecuzione forzata in caso di inadempimento del contribuente. L’iscrizione a ruolo deve essere legittimata da una dichiarazione presentata dal contribuente ovvero da un avviso di accertamento. Iscrizione a ruolo in base alla dichiarazione e in base all’avviso di accertamento Sono iscritte a ruolo in base alla dichiarazione presentata dal contribuente: le imposte, gli interessi e le sanzioni che risultano dovute in base alla dichiarazione, ma che non sono state versate; le imposte, gli interessi e le sanzioni che risultano dovute a seguito della liquidazione e del controllo formale della dichiarazione; le imposte relative ai redditi soggetti a tassazione separata. A pena di nullità dei provvedimenti emessi è previsto che, prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla
liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni e quando dalla liquidazione emerga la spettanza di un minor rimborso di imposta rispetto a quello richiesto, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’ufficio deve invitare il contribuente, a mezzo posta o con mezzi telematici (cd. avviso bonario), a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a 30 giorni dalla ricezione della richiesta (art. 6, comma 5, della L. n. 212/2000).
Sono iscritte a ruolo le imposte, gli interessi e le sanzioni dovute in base agli avvisi di accertamento (diversi da quelli esecutivi) emessi nei confronti del contribuente. Iscrizioni a titolo provvisorio e a titolo definitivo Le iscrizioni a ruolo possono essere distinte, in relazione al grado di stabilità del titolo giustificativo della riscossione, in: iscrizioni a titolo provvisorio, se effettuate in base ad avvisi di accertamento non definitivi; iscrizioni a titolo definitivo, se effettuate in base alla dichiarazione ovvero in base ad avvisi di accertamento definitivi. Gli interessi (per la ritardata iscrizione a ruolo) sulle maggiori imposte dovute dal contribuente, in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione o in base all’accertamento d’ufficio, sono calcolati, a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento e fino
alla data di consegna dei ruoli all’Agente della riscossione, al tasso del 4% annuo (art. 20 del D.P.R. n. 602/1973). A decorrere dal 1-7-2012, non sono iscrivibili a ruolo i crediti relativi a tributi qualora l’ammontare dovuto, comprensivo di sanzioni amministrative e interessi, non superi, l’importo di 30 euro (art. 3, comma 10, del D.L. n. 16/2012, conv., con modif., in L. n. 44/2012).
Ruoli ordinari e straordinari Ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 602/1973, i ruoli si differenziano in ordinari e straordinari. Nei ruoli straordinari sono iscritti, anticipatamente rispetto ai termini ordinari, gli importi per i quali vi sia fondato pericolo per la loro riscossione (come, ad esempio, nel caso di fallimento del contribuente). Riscossione
degli
accertamenti
esecutivi
non
definitivi L’eventuale
proposizione
del
ricorso
da
parte
del
contribuente non sospende la riscossione degli avvisi di accertamento esecutivi, emessi dall’Agenzia delle Entrate, ai fini delle imposte sui redditi, dell’IVA e dell’IRAP. In dettaglio, i citati avvisi di accertamento non definitivi sono riscossi, a titolo provvisorio, dopo la notifica dell’avviso di accertamento, nella misura di 1/3 delle maggiori imposte accertate e dei relativi interessi (art. 15 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 7, comma 2quinquies, del D.L. n. 70/2011, conv., con modif., dalla L. n. 106/2011).
9.3 La cartella di pagamento La cartella di pagamento (cd. cartella esattoriale) è l’atto riscossivo con cui il contribuente è informato della partita del ruolo iscritta nei suoi confronti (Amatucci); essa è formata, in base al ruolo emesso dall’ufficio finanziario, dall’Agente della riscossione competente per territorio. A partire dal 1-10-2011, la cartella di pagamento è utilizzata esclusivamente per la riscossione dei tributi relativi agli atti derivanti da controllo automatizzato e controllo formale delle dichiarazioni e agli atti notificati prima di tale data e relativi a crediti ante 2007 in quanto, ai sensi dell’art. 29 del D.L. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 122/2010, gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate sono divenuti titoli esecutivi e sostituiscono la cartella di pagamento per i crediti erariali maturati dal periodo d’imposta 2007.
9.3.1 Notifica della cartella La cartella di pagamento deve essere notificata entro i termini perentori, a pena di decadenza del diritto di riscossione dei tributi, dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dall’Agente della riscossione ovvero, previa convenzione tra Comune e Agente della riscossione, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale; in tal caso,
qualora per il perfezionamento della notifica occorrano più formalità, queste possono essere compiute, non oltre 30 giorni, da soggetti diversi da quelli su menzionati tenuti alla certificazione dell’attività svolta mediante relazione datata e sottoscritta (art. 26 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 19octies, comma 2, del D.L. n. 148/2017, conv., con modif., in L. n. 172/2017). Ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, a pena di decadenza, le cartelle di pagamento devono essere notificate al contribuente (art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 4 del D.Lgs. n. 159/2015 a decorrere dal 22-10-2015): per le somme dovute a seguito della liquidazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del 3° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione; per le somme dovute a seguito del controllo formale della dichiarazione, entro il 31 dicembre del 4° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione; per le somme dovute in base ad avvisi di accertamento, entro il 31 dicembre del 2° anno successivo a quello in cui l’accertamento è divento definitivo; per le somme dovute a seguito degli inadempimenti di cui all’art. 15ter del D.Lgs. n. 602/1973, entro il 31 dicembre del 3o anno successivo a quello di scadenza dell’ultima rata del piano di rateazione (definizione in via breve delle sanzioni e accertamento con adesione). Termini particolari di decadenza sono invece stabiliti dal comma 1bis dell’art. 25, sempre a pena di decadenza, nelle
ipotesi di concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti e accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento.
9.3.2 Interessi di mora Decorsi 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, se il contribuente non effettua il pagamento dovuto, sull’importo iscritto a ruolo si applicano, a decorrere dalla data di notifica e fino alla data del pagamento, interessi di mora ad un tasso predeterminato annualmente con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, attualmente pari al 3,50% (art. 30 del D.P.R. n. 602/1973).
9.3.3 Dilazioni di pagamento Il contribuente, che si trovi in una temporanea situazione di obiettiva difficoltà, può chiedere all’Agente della riscossione la ripartizione del pagamento delle somme iscritte a ruolo, con esclusione dei diritti di notifica, fino a un massimo di 72 rate mensili. Nel caso in cui le somme iscritte a ruolo sono superiori a 50.000 euro, la dilazione può essere concessa purché il contribuente documenti la temporanea situazione di obiettiva difficoltà. È quanto stabilisce l’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 10 del D.Lgs. n. 159/2015, le cui disposizioni trovano applicazione alle dilazioni concesse dal 22-10-2015 e ai piani di rateazione in essere alla stessa data. Sugli importi rateizzati, ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. n. 602/1973, si applicano gli interessi del 4,5%.
9.3.4 Definizione agevolata delle cartelle di pagamento e degli accertamenti esecutivi (cd. rottamazione delle cartelle di pagamento) L’art. 3 D.L. 119/2018 (conv. in L. 136/2018) reca la disciplina della definizione agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione (cd. rottamazione delle cartelle di pagamento) nel periodo compreso tra il 1-1-2000 ed il 31-122017. In modo simile alle precedenti rottamazioni (previste dal D.L. 193/2016 e dal D.L. 148/2017, relative, rispettivamente, ai carichi affidati 2000-2016 e ai carichi affidati fino al 30-92017), la nuova definizione agevolata permette al debitore di beneficiare dell’abbattimento di sanzioni, interessi di mora, sanzioni e somme aggiuntive e ne ricalca le procedure pur differenziandosene per alcuni aspetti sostanziali. Il debitore, per aderire alla definizione, doveva presentare (entro il 30-11-2019, termine così prorogato dall’art. 37 D.L. 124/2019) una dichiarazione all’agente della riscossione per la restante parte del debito – con le modalità e in conformità alla modulistica pubblicate dallo stesso agente sul proprio sito internet – indicando anche il numero di rate prescelto per l’eventuale pagamento dilazionato, nel limite massimo di 18 rate. L’art. 15 del D.L. 30 aprile 2019, n. 34 (cd. decreto crescita) ha esteso alle entrate regionali e degli enti locali la definizione agevolata dei provvedimenti di ingiunzione fiscale emanati dagli enti stessi o dai concessionari della riscossione e
notificati negli anni dal 2000 al 2017: a tal fine, gli enti (con proprio regolamento) disciplinano l’esclusione delle sanzioni relative alle entrate in questione, il numero di rate e la relativa scadenza, le modalità con cui il debitore manifesta la volontà di avvalersi della definizione agevolata.
9.3.5 Istanza di sospensione amministrativa del ruolo Il ricorso del contribuente non sospende la riscossione da parte del Fisco. Tuttavia, l’art. 39 del D.P.R. n. 602/1973 consente al contribuente ricorrente avverso l’iscrizione a ruolo di chiedere, in aggiunta alla richiesta giurisdizionale di sospensione che può essere presentata alla Commissione tributaria provinciale, una sospensione amministrativa del ruolo al competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
9.4 L’esecuzione forzata Se entro 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento o decorsi 30 giorni dal termine di pagamento indicato nell’avviso di accertamento, il contribuente non versa le somme dovute, a titolo provvisorio o definitivo, l’Agente della riscossione, in forza del titolo esecutivo (ruolo o avviso di accertamento esecutivo), può intraprendere l’esecuzione forzata sui suoi beni, ovvero dei beni di eventuali coobligati (ipoteca su beni immobili, espropriazione forzata dei beni mobili e immobili, fermo amministrativo sui beni mobili registrati ecc.). Il comma 544 dell’art. 1 della L. n. 228/2012 prevede che per la riscossione coattiva di debiti fino a euro 1.000, intrapresa dopo il 1-1-2013, non si può procedere ad azioni cautelari ed esecutive prima che siano decorsi 120 giorni (60 nel caso di tributi locali: art. 1, comma 795 L. 160/2019) dall’invio, mediante posta ordinaria, di una comunicazione con il dettaglio delle iscrizioni a ruolo. Per gli accertamenti esecutivi, l’esecuzione forzata è ordinariamente sospesa, salvo il caso di fondato pericolo per la riscossione, per 180 giorni dalla data di affidamento dell’avviso dell’Agente della riscossione, senza che sia richiesto alcun tipo di adempimento da parte del contribuente (art. 29, comma 1, del D.L. n. 78/2010, conv.,
con modif., in L. n. 122/2010, come modificato dall’art. 5 del D.Lgs. n. 159/2015 a decorrere dal 22-10-2015). La citata sospensione non si applica alle azioni cautelari e conservative a tutela del credito tributario (ipoteca, fermo amministrativo ecc.)
9.5 Le misure cautelari patrimoniali del credito tributario Le misure cautelari patrimoniali sono istituti che hanno lo scopo di aumentare la probabilità per l’Amministrazione finanziaria di soddisfare i crediti vantati nei confronti del contribuente (Falsitta).
9.5.1 Privilegi A favore dello Stato è previsto un privilegio: generale sui beni mobili del contribuente debitore, in materia di IRPEF, IRES, IRAP, IVA e tributi comunali (art. 2752 c.c.); speciale sui beni mobili ai quali i tributi si riferiscono (art. 2758 c.c.), in materia di tributi indiretti e di crediti di rivalsa IVA del cedente verso il cessionario, nonché sui beni mobili strumentali all’esercizio dell’impresa, in materia di IRPEF e di IRES (art. 2759 c.c.); speciale sui beni immobili cui si riferisce il tributo del contribuente in materia di tributi indiretti (art. 2772 c.c.).
9.5.2 Ipoteca e sequestro conservativo Quando l’ufficio finanziario ha il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito nei confronti del contribuente,
per tributi, sanzioni e interessi, risultante da un atto notificato (avviso di accertamento, processo verbale di constatazione ecc.), può chiedere, con istanza motivata, al Presidente della Commissione tributaria provinciale, l’iscrizione di ipoteca sui beni del contribuente e dei soggetti obbligati in solido e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda (art. 22 del D.Lgs. n. 472/1997, come modificato dal D.L. 119/2018). Ai sensi dell’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 8 del D.L. 24-4-2017, n. 50 (conv., con modif., in L. n. 96/2017), l’Agente della riscossione non può procedere all’espropriazione:
se l’unico immobile di proprietà del debitore (con esclusione delle abitazioni di lusso e dei fabbricati di classe A/8 e A/9) è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente; per uno specifico paniere di beni definiti “beni essenziali” individuato con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze d’intesa con l’Agenzia dell’Entrate e l’Istituto nazionale di statistica; se l’importo complessivo del credito non supera 120.000 euro. Tuttavia, l’agente della riscossione, anche quando non ricorrano le condizioni per procedere all’espropriazione, può iscrivere ipoteca, anche solo al fine di tutelare il credito da riscuotere, purché l’importo complessivo del credito non
sia inferiore a 20.000 euro (art. 77, comma 1bis, del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 52, comma 1, del D.L. n. 69/2013, conv., con modif., in L. n. 98/2013).
9.5.3 Fermo amministrativo dei beni mobili registrati Decorsi 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento o 30 giorni dal termine ultimo di pagamento indicato nell’avviso di accertamento, in caso di inadempimento del contribuente, l’agente della riscossione ha la facoltà di procedere al fermo dei beni mobili registrati (autoveicoli, motoveicoli ecc.) del contribuente o dei coobbligati in solido, al fine di vietarne la circolazione (art. 86 del D.P.R. n. 602/1973 e art. 41 del D.L. n. 203/2005, conv., con modif., in L. n. 248/2005). L’agente della riscossione deve notificare al debitore o ai coobligati
in
solido
una
comunicazione
preventiva
contenente l’avviso che, nel caso di mancato pagamento delle somme dovute entro 30 giorni, sarà eseguito il fermo, senza che sia necessaria un’ulteriore comunicazione, attraverso l’iscrizione del provvedimento di fermo nei registri mobiliari. Il debitore o i coobligati possono, nel medesimo termine, dimostrare che il bene è strumentale all’attività dell’impresa o della professione.
9.5.4 Contrasto all’evasione da riscossione
Al fine di contrastare la cd. “evasione da riscossione”, attuata mediante l’occultamento dei propri beni (ad esempio, mediante l’intestazione a terzi) e, in generale, rendere più rapida l’attività di riscossione dei tributi, il legislatore ha previsto alcune specifiche disposizioni. In particolare, a tal fine, è stabilito che:
le
Amministrazioni
pubbliche,
prima
di
effettuare
pagamenti di importo superiore a 5.000 euro, verificano, anche telematicamente, se il beneficiario non sia debitore per un importo iscritto a ruolo almeno di pari importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo (art. 48bis del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 1, comma 986, della L. n. 205/2017 - Legge di bilancio 2018, a decorrere dal 1-3-2018 e art. 37, comma 7ter, del D.L. n. 66/2014, conv. con modif., in L. n. 89/2014); gli ufficiali della riscossione, per i loro fini istituzionali, possono svolgere indagini e sono autorizzati ad accedere agli uffici pubblici, anche in via telematica, con facoltà di prendere visione e di estrarre copia degli atti riguardanti i beni dei debitori iscritti a ruolo e dei coobbligati, e di ottenere, in carta libera, le relative certificazioni, nonché ad accedere alle informazioni disponibili presso l’Anagrafe tributaria e presso i sistemi informativi degli altri soggetti creditori, salve le esigenze di riservatezza e segreto
opponibili in base a disposizioni di legge (art. 18 del D.Lgs. 13-4-1999, n. 112); in caso di mancato pagamento di importi superiori a 25.000 euro, al fine di favorire il pignoramento dei redditi vantati dal contribuente verso i terzi, l’agente della riscossione ha il potere di effettuare accessi, ispezioni e verifiche, secondo le norme previste in materia di imposte sui redditi ed IVA, presso la sede dell’attività del contribuente (art. 35, comma 25bis, del D.L. n. 223/2006, conv., con modif., in L. n. 248/2006); è preclusa ai contribuenti la possibilità di effettuare la compensazione dei crediti erariali fino a concorrenza dei debiti erariali, di importo superiore a 1.500 euro, iscritti a ruolo e per i quali siano scaduti i termini di pagamento in caso di inosservanza del citato divieto è prevista una sanzione pari al 50% dell’importo dei debiti iscritti a ruolo, fino
a
concorrenza
dell’ammontare
indebitamente
compensato (art. 31 del D.L. n. 78/2010, conv., con modif., in L. n. 122/2010). I crediti oggetto di compensazione in misura eccedente l’importo del debito erariale iscritto a ruolo sono rimborsati al contribuente secondo la disciplina e i controlli previsti dalle singole leggi d’imposta; l’Agenzia delle Entrate può utilizzare le banche dati e le informazioni alle quali è autorizzata ad accedere sulla base di specifiche disposizioni di legge anche per l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione (art. 3 del D.L. n. 193/2016, conv., con modif., in L. n. 225/2016);
l’Agenzia delle Entrate può sospendere, fino a 30 giorni, le deleghe di pagamento delle imposte effettuate mediante compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997 che presentano profili di rischio al fine di controllare l’utilizzo del credito (art. 1, comma 990, della L. n. 205/2017 - Legge di bilancio 2018).
9.6 I rimborsi d’imposta. La cessione dei crediti d’imposta a terzi e altre alternative La posizione creditoria del contribuente nei confronti del Fisco può ricondursi a due diverse ipotesi: crediti derivanti dall’eccedenza di versamenti dovuti; crediti
derivanti
da
versamenti
indebitamente
effettuati. In alternativa al rimborso, caratterizzato da notevoli lungaggini burocratiche, il contribuente, per recuperare le somme versate in eccedenza rispetto a quanto dovuto, ha la facoltà di riportare a nuovo il credito nel periodo d’imposta successivo, al fine di scomputarlo con l’eventuale debito della stessa imposta (compensazione verticale), di utilizzarlo
in
compensazione
orizzontale
versamento di altri tributi, ovvero di cederlo a terzi.
per
il
Capitolo 10 Le sanzioni tributarie 10.1 Illeciti amministrativi e illeciti penali La violazione delle norme tributarie può costituire un illecito
amministrativo
o
un
illecito
penale.
La
distinzione è operata in applicazione del cd. criterio formale della pena, ossia in base al tipo di sanzione comminata per una determinata condotta illecita (Tinelli; Lupi). In altri termini, a seconda
del
nomen
della
sanzione
stabilita
per
una
determinata fattispecie, si desume se essa costituisce un illecito di natura amministrativa ovvero un illecito di natura penale. Gli illeciti amministrativi sono violazioni punite con sanzioni amministrative, che si distinguono in sanzioni pecuniarie, consistenti nel pagamento di una determinata somma di denaro, e sanzioni accessorie, consistenti in misure interdittive. Le sanzioni amministrative sono irrogate dall’Amministrazione finanziaria. I reati tributari, come quelli comuni, si distinguono, in base al nomen iuris della sanzione (principio nominalistico), in delitti, se la sanzione prevista è la multa o la reclusione, e contravvenzioni, se la sanzione prevista è l’arresto o
l’ammenda. Le sanzioni penali sono irrogate dall’Autorità giudiziaria.
10.2 Il sistema sanzionatorio amministrativo 10.2.1 Principi fondamentali La
disciplina
organica
delle
sanzioni
tributarie
amministrative è contenuta nel D.Lgs. 18-12-1997, n. 472. I principi
fondamentali
sui
quali
è
basato
il
sistema
sanzionatorio amministrativo tributario sono: il principio di legalità, in base al quale nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge (art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 472/1997); tale principio ha come corollari la riserva assoluta di legge (nulla poena sine lege), in quanto le sanzioni non possono essere stabilite da fonti di rango inferiore alla legge, la tassatività dei fatti illeciti e delle conseguenti previsioni sanzionatorie ed il divieto di integrazione analogica delle norme sanzionatorie; il principio di irretroattività, in base al quale la sanzione deve essere prevista da una norma entrata in vigore prima della commissione della violazione (art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 472/1997); il principio del favor rei (art. 3, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 472/1997), in base al quale, salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Corollari di tale principio sono la retroattività dell’abolitio criminis, ossia se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato, nonché la retroattività della norma più favorevole, ossia se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo.
10.2.2 Elemento soggettivo L’illecito tributario amministrativo si configura solo se sussistono, contemporaneamente, sia un comportamento, commissivo od omissivo, vietato dalla norma, sia l’elemento soggettivo. L’esistenza dell’elemento soggettivo (o psicologico) richiede la contestuale presenza sia dell’imputabilità, ossia della capacità di intendere e di volere (art. 4 del D.Lgs. n. 472/1997), sia della colpevolezza, ossia del dolo o della colpa (art. 5 del D.Lgs. n. 472/1997), dell’autore della violazione (Tesauro; Santamaria; Amatucci), che, fino a prova contraria, si presume essere chi ha sottoscritto ovvero compiuto gli atti illegittimi (art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997). Il contribuente che commetta una violazione, ha l’onere di provare l’assenza di colpa, che si presume nel caso di
compimento di atti vietati (Cass. 25-10-2006, n. 22890). Secondo l’art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 472/1997, la colpa grave si ha quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari. Non si considera determinato da colpa grave l’inadempimento occasionale di obblighi di versamento del tributo. Invece, ai sensi del comma 4 del citato art. 5, è dolosa la violazione attuata con l’intento di pregiudicare la determinazione dell’imponibile o dell’imposta, ovvero diretta ad ostacolare l’attività amministrativa di accertamento.
Quando più persone concorrono in una violazione, ciascun coautore soggiace alla sanzione per questa disposta. Tuttavia, quando
la
violazione
consiste
nell’omissione
di
un
comportamento cui sono obbligati in solido più soggetti, è irrogata una sola sanzione e il pagamento eseguito da uno dei responsabili libera tutti gli altri, salvo il diritto di regresso (art. 9 del D.Lgs. n. 472/1997). Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di omessa registrazione di un atto, per la quale la sanzione irrogabile alle parti è unica (obbligazione solidale).
10.2.3 Cause di non punibilità Sono previste determinate cause di non punibilità, la cui sussistenza comporta l’inapplicabilità delle sanzioni.
Le cause di non punibilità previste dall’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997 sono:
l’errore incolpevole sul fatto non determinato da colpa dell’agente; in merito, le rilevazioni eseguite nel rispetto della continuità dei valori di bilancio e secondo corretti criteri contabili e le valutazioni eseguite secondo corretti criteri di stima non danno luogo a violazioni punibili; in ogni caso, inoltre, non si considerano colpose le
violazioni
conseguenti
a
valutazioni
estimative,
ancorché relative alle operazioni straordinarie (fusioni, scissioni ecc.), se differiscono da quelle accertate in misura non eccedente il 5%; l’errore di diritto derivante da ignoranza inevitabile della legge; le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono le violazioni; l’indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento dei tributi; la forza maggiore e la dimostrazione che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’Autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi; la sussistenza di violazioni meramente formali, ossia di violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle
azioni
di
controllo
e
non
incidono
sulla
determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul
versamento del tributo (art. 6, comma 5bis, del D.Lgs. n. 472/1997). Inoltre, altre due cause di non punibilità sono previste dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/2000); in particolare, la punibilità è altresì esclusa nel caso di:
violazioni commesse conformandosi a indicazioni contenute
in
atti
dell’Amministrazione
finanziaria, ancorché successivamente modificate dalla stessa, o in relazione a comportamenti posti in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni o errori dell’Amministrazione stessa (art. 10, comma 2); si tratta di un’applicazione del principio di tutela dell’affidamento; mancata
risposta
all’istanza
di
dell’ufficio,
interpello
entro
ordinario
120
giorni,
presentata
dal
contribuente (art. 11, comma 3).
10.2.4 Le sanzioni Misura della sanzione pecuniaria La sanzione pecuniaria può essere determinata in misura fissa, in proporzione all’ammontare del tributo evaso ovvero può variare da un minimo ad un massimo. In tale ultimo
caso,
l’entità
della
sanzione
è
determinata
discrezionalmente con riguardo alla gravità della violazione, desunta anche dalla condotta del trasgressore, dall’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché dalla sua personalità e dalle condizioni economiche e
sociali. A tal fine, la personalità del trasgressore è desunta anche dai suoi precedenti fiscali (art. 7 del D.Lgs. n. 472/1997, come modificato dell’art. 16 del D.Lgs. n. 158/2015 a decorrere dal 1-1-2016). La somma irrogata a titolo di sanzione non produce interessi. Sanzioni accessorie Le sanzioni amministrative accessorie, applicabili per una durata massima di 6 mesi (art. 21 del D.Lgs. n. 472/1997) sono: l’interdizione dalle cariche di amministratore, sindaco o revisore di società di capitali e di enti con personalità giuridica, pubblici o privati; l’interdizione dalla partecipazione a gare per l’affidamento di pubblici appalti e forniture; l’interdizione dal conseguimento
di
licenze,
concessioni
o
autorizzazioni
amministrative per l’esercizio di imprese o di attività di lavoro autonomo e la loro sospensione; la sospensione dall’esercizio di attività di lavoro autonomo o di impresa. Sanzioni civili Le violazioni tributarie possono dar luogo anche sanzioni civili, quali, ad esempio, gli interessi di mora previsti per il ritardato pagamento dei tributi.
10.2.5 Le modalità di irrogazione delle sanzioni Le sanzioni amministrative sono irrogate dall’ufficio competente all’accertamento del tributo cui si riferiscono le violazioni, applicative:
mediante
una
delle
tre
seguenti
modalità
nel caso di sanzioni collegate al tributo cui si riferiscono, mediante atto contestuale all’avviso di accertamento, motivato a pena di nullità, senza previa contestazione e con l’osservanza, in quanto compatibili, delle disposizioni che regolano il procedimento di accertamento del tributo medesimo (art. 17, comma 1, del D.Lgs. n. 472/1997); nel caso di sanzioni non collegate al tributo, mediante atto di contestazione. L’atto di contestazione deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione dei fatti attribuiti al trasgressore, degli elementi probatori, delle norme applicate, dei criteri seguiti per la determinazione delle sanzioni e della loro entità, dei minimi edittali previsti dalla legge per le singole violazioni. Inoltre deve contenere l’invito al pagamento delle somme dovute nel termine previsto per la proposizione del ricorso, con l’indicazione della possibilità di fruire della definizione agevolata (effettuando il pagamento di 1/3 della sanzione irrogata) e dei relativi benefici, nonché l’invito a produrre nello stesso termine, se non si intende addivenire a definizione agevolata, le deduzioni difensive e, infine, l’indicazione dell’organo al quale proporre l’impugnazione immediata (art. 16 del D.Lgs. n. 472/1997);
mediante iscrizione a ruolo, senza previa contestazione, con riferimento alle sanzioni per omesso o ritardato pagamento
dei
tributi,
anche
se
risultanti
dalla
liquidazione o dal controllo formale delle dichiarazioni (art. 17, comma 3, del D.Lgs. n. 472/1997).
Termine per la notifica L’atto di contestazione o di irrogazione delle sanzioni deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del 5° anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione ovvero, nel caso di sanzioni collegate all’ammontare del tributo cui si riferiscono, entro il diverso termine previsto per notifica dell’avviso di accertamento dei singoli tributi. Riscossione La riscossione delle sanzioni avviene mediante le stesse modalità previste per la riscossione dei tributi cui si riferiscono le violazioni. Il diritto alla riscossione delle sanzioni irrogate si prescrive nel termine di 5 anni da quando è divenuto definitivo l’atto di irrogazione delle stesse (art. 20, comma 3, del D.Lgs. n.
472/1997).
L’impugnazione
del
provvedimento
di
irrogazione interrompe la prescrizione, che non corre fino alla definizione del procedimento.
10.2.6 Il ravvedimento Il ravvedimento è un istituto che consente al contribuente di
rimediare
spontaneamente
alle
violazioni
tributarie
commesse, beneficiando del pagamento delle sanzioni in misura ridotta (art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997), come modificato dal D.Lgs. 158/2015). L’istituto è stato da ultimo modificato dall’art. 16 del D.Lgs. n. 158/2015 , dall’art. 5, comma 1bis, del D.L. n. 193/2016 e dall’art. 10-bis D.L. 124/2019 (che ha esteso l’istituto ai tributi locali). La disciplina prevede una riduzione automatica delle sanzioni tanto più vantaggiosa quanto più breve è il lasso
temporale intercorrente tra il momento in cui è sorto l’adempimento tributario e il ravvedimento. Le sanzioni sono pari:
ad 1/10 del minimo nei casi di mancato pagamento del tributo o di un acconto, se esso viene eseguito nel termine di 30 giorni dalla data della sua commissione; ad 1/9 del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene entro 90 giorni dalla data
dell’omissione
o
dell’errore,
ovvero
se
la
regolarizzazione delle omissioni e degli errori commessi in dichiarazione avviene entro 90 giorni dal termine per la presentazione della dichiarazione in cui l’omissione o l’errore è stato commesso; ad 1/8 del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene entro il termine per la della dichiarazione relativa all’anno nel corso del quale è stata
commessa
la
violazione
o
entro
un
anno
dall’omissione o dall’errore quando non è prevista dichiarazione; ad 1/7 del minimo se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene entro il termine per la presentazione
della
dichiarazione
relativa
all’anno
successivo a quello nel corso del quale è stata commessa la
violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, entro due anni dall’omissione o dall’errore; ad 1/6 del minimo se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene oltre il termine per la presentazione
della
dichiarazione
relativa
all’anno
successivo a quello nel corso del quale è stata commessa la violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, oltre due anni dall’omissione o dall’errore; ad 1/5 del minimo se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene dopo la constatazione della violazione ai sensi dell’art. 24 della L. 7-1-1929, n. 4, salvo che la violazione non rientri tra quelle indicate negli artt. 6, comma 3, o 11, comma 5, del D.Lgs. n. 471/1997; ad 1/10 del minimo per l’omissione della presentazione della dichiarazione, se questa viene presentata con un ritardo non superiore a 90 giorni (30 giorni per la dichiarazione periodica IVA). Inoltre, l’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997, come sostituito dall’art. 15 del D.Lgs. n. 158/2015, stabilisce che la
sanzione
per
ritardato,
insufficiente
od
omesso
versamento diretto, già ridotta ad 1/10 ai sensi dell’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 472/1997, è ulteriormente ridotta nella misura di 1/15 per ogni giorno di ritardo se il versamento avviene con un ritardo non superiore a 15 giorni.
Ai fini del perfezionamento del ravvedimento è necessario che il contribuente proceda alla regolarizzazione degli adempimenti formali e di versamento del tributo, in precedenza omessi, nonché al versamento degli interessi moratori, se dovuti, al saggio legale. È possibile fruire del ravvedimento a condizione che le violazioni tributarie non siano state già constatate e comunque non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o le altre attività amministrative di accertamento (inviti, richieste ecc.) delle quali l’autore, o i soggetti solidalmente obbligati, abbiano avuto formale conoscenza.
10.2.7 Principali fattispecie di illecito amministrativo Le sanzioni amministrative in materia di imposte sui redditi ed IVA sono disciplinate dal D.Lgs. 18-12-1997, n. 471, mentre quelle in materia di imposte sugli affari, sulla produzione e sui consumi sono disciplinate dal D.Lgs. 18-121997, n. 473. Violazioni in materia di contabilità Le violazioni in materia di contabilità comportano sanzioni la cui entità prescinde dall’ammontare dell’imposta evasa, che variano da un minimo ad un massimo. Per l’ipotesi di irregolare od omessa tenuta o conservazione delle scritture contabili previste ai fini fiscali è prevista una sanzione amministrativa da euro 1.000 ad euro 8.000 (art. 9,
comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997, come modificato dall’art. 15 del D.Lgs. n. 158/2015).
Violazioni in materia di dichiarazione Le violazioni in materia di dichiarazione comportano sanzioni commisurate all’entità dell’imposta evasa, che variano da un minimo ad un massimo. Per l’ipotesi di omessa dichiarazione dei redditi la sanzione va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di 250 euro (art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997, come sostituito dall’art. 15 del D.Lgs. n. 158/2015). Nel caso di dichiarazione dei redditi infedele – ossia riportante un reddito valore della produzione imponibile inferiore a quello accertato, un’imposta inferiore a quella dovuta ovvero un credito superiore a quello spettante – invece, la sanzione va dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato (art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471/1997, come sostituito dall’art. 15 del D.Lgs. n. 158/2015).
Violazioni in materia di riscossione Le violazioni in materia di riscossione dei tributi comportano sanzioni commisurate all’entità dell’imposta di cui è stato omesso o ritardato il versamento. Per la ritardata od omessa effettuazione dei versamenti diretti dei tributi, alle scadenze previste (in acconto, a saldo, periodici ecc.), è stabilita una sanzione pari al 30% dell’importo non versato (art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997, come modificato dall’art. 15 del D.Lgs. n. 158/2015).
10.3 Il sistema sanzionatorio penale La disciplina dei reati tributari, contenuta nel D.Lgs. 17-32000, n. 74, è caratterizzata dall’esclusiva previsione di delitti in materia di imposte sui redditi (IRPEF e IRES) ed IVA, caratterizzati dal dolo specifico di evasione. Quasi tutte le fattispecie previste si configurano come illecito penale solo al superamento di determinate soglie di punibilità; in tal modo, il legislatore ha inteso limitare l’intervento penale alle ipotesi più gravi, ossia economicamente più rilevanti. Il bene giuridico tutelato è l’interesse dello Stato alla tempestiva e completa riscossione dei tributi.
10.3.1 Principio di specialità Quando uno stesso fatto è punito sia da una norma che prevede una sanzione penale, sia da una norma che prevede una
sanzione
amministrativa,
si
applica
soltanto
la
disposizione speciale (art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 74/2000) e non opera, quindi, il cumulo tra sanzioni amministrative e sanzioni penali. Considerato che la disposizione speciale è quella che contiene tutti gli elementi della disposizione generale e, inoltre, uno o diversi elementi caratterizzanti ulteriori, il citato principio di specialità comporterà, in concreto, la
costante applicazione della norma sanzionatoria penale, speciale rispetto a quella sanzionatoria amministrativa, in quanto connotata dall’elemento del dolo specifico di evasione (che non è richiesto ai fini dell’illecito amministrativo). Un’importante deroga al principio di specialità è prevista per gli illeciti commessi da una persona fisica nell’interesse di altri, ad esempio in ambito societario. La ratio è quella di sfuggire alla strumentalizzazione dell’applicazione del principio di specialità, al fine di evitare che gli enti eludano il pagamento delle sanzioni amministrative a seguito dell’irrogazione della sanzione penale
nei
confronti
degli
autori
della
violazione
(dipendenti o amministratori) (Di Amato). È previsto, quindi, che nei casi di reati commessi dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato, ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore, anche di fatto, di società, associazioni o enti, con o senza personalità giuridica, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, permane la responsabilità (esclusiva o solidale) della società, dell’associazione o dell’ente nel cui interesse ha agito l’autore della violazione (si applica, quindi, una sorta di cumulo improprio delle sanzioni penali e amministrative).
10.3.2 Sanzioni accessorie La condanna per taluno dei delitti previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 importa, in aggiunta alla pena principale, sanzioni
accessorie di natura interdittiva (art. 12 del D.Lgs. n. 74/2000). In particolare, le sanzioni accessorie previste sono: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a 3 anni; l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a 3 anni; l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a 5 anni; l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria e la pubblicazione della sentenza a norma dell’art. 36 c.p. Inoltre, la condanna per taluno dei delitti previsti dagli artt. 2, 3 e 8 del D.Lgs. n. 74/2000 importa altresì l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano le circostanze previste dagli artt. 2, comma 3, e 8, comma 3.
Capitolo 11 Il contenzioso tributario 11.1 La giurisdizione tributaria La giurisdizione tributaria è esercitata, in primo grado, dalle Commissioni tributarie provinciali, con sede in ogni capoluogo di provincia, e, in secondo grado, dalle Commissioni tributarie regionali, con sede in ogni capoluogo di regione (art. 1 del D.Lgs. 31-12-1992, n. 546). Il giudizio di terzo ed ultimo grado si svolge dinanzi alla Corte di Cassazione.
11.1.1 Oggetto della giurisdizione tributaria Sono devolute alla giurisdizione tributaria tutte le controversie relative ai tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio (art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, come da ultimo modificato dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 156/2015 a decorrere dal 1-1-2016). La giurisdizione delle Commissioni tributarie comprende altresì le controversie in materia catastale e di estimo, di imposta o canone comunale sulla pubblicità e di diritto sulle pubbliche affissioni. Le controversie relative alle sanzioni
non tributarie, irrogate dagli uffici finanziari, sono devolute alle Commissioni tributarie sempreché derivanti dalla violazione di norme tributarie (Corte cost. 14-5-2008, n. 130). Le Commissioni, inoltre, risolvono in via incidentale (ossia senza efficacia di giudicato) ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio (cd. “principio di autosufficienza” della giurisdizione tributaria) (Cissello-Saggese).
Il processo tributario è disciplinato dal D.Lgs. n. 546/1992; qualora si manifestino lacune in tale disciplina, per espressa previsione dell’art. 1, comma 2, del citato decreto, si applicano le norme del codice di procedura civile, sempreché compatibili.
11.1.2 Competenza territoriale Le Commissioni tributarie provinciali sono competenti per le controversie proposte nei confronti degli enti impositori, degli agenti della riscossione e dei soggetti iscritti all’albo di cui all’art. 53 del D.Lgs. n. 446/1997 (enti preposti alla riscossione dei tributi locali), che hanno sede nella loro circoscrizione (art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, come sostituito dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 156/2015 a decorrere dal 1-1-2016); rileva, quindi, la sede dell’ufficio che ha emesso l’atto che il contribuente intende impugnare.
Se la controversia è proposta nei confronti di articolazioni dell’Agenzia delle Entrate, con competenza su tutto o parte del territorio nazionale, è competente la Commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso.
Le
Commissioni
tributarie
regionali,
invece,
sono
competenti per le impugnazioni avverso le decisioni delle Commissioni tributarie provinciali con sede nella loro circoscrizione (art. 4, comma 2). Le Commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, ispezione, richiesta dati, informazioni e chiarimenti conferite agli uffici finanziari dalle singole leggi d’imposta (art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992).
11.2 Le parti del processo tributario Parti necessarie del processo tributario sono il ricorrente e il resistente. Il ricorrente, ossia il soggetto che promuove il giudizio, si identifica con il contribuente destinatario dell’atto impugnato. Il legislatore ha previsto per il ricorrente l’obbligo di farsi assistere in giudizio da un difensore tecnico abilitato (dottore commercialista, avvocato ecc.); l’obbligo di assistenza tecnica, tuttavia, non sussiste per le cd. “liti minori”, ossia per le controversie di valore inferiore a 3.000 euro, per le quali il contribuente può proporre ricorso e stare in giudizio personalmente nonché qualora il ricorrente sia soggetto avente i requisiti richiesti per i difensori abilitati (art. 12 del D.Lgs. n. 546/1992, come sostituito dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 156/2015 a decorrere dal 1-1-2016: in precedenza l’importo era fissato a 2.582,28 euro). Ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 546/1992, come sostituito dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 156/2015 a decorrere dal 1-12016, il resistente è il soggetto che ha emesso l’atto impugnato o l’atto richiesto (ufficio dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, altri enti impositori, Agenti della riscossione e enti preposti alla riscossione dei
tributi locali iscritti nell’albo di cui all’art. 56 del D.Lgs. n. 446/1997). Liticonsorzio necessario e liticonsorzio facoltativo Il litisconsorzio
necessario si configura quando
l’oggetto della controversia riguarda inscindibilmente più soggetti i quali, pertanto, devono necessariamente essere parti nello stesso processo tributario e la lite non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi (art. 14, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992). Una delle ipotesi più frequenti di litisconsorzio necessario è quella prevista dall’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999, in base al quale l’Agente della riscossione, nelle liti promosse nei suoi confronti che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente impositore interessato.
Ai sensi dell’art. 14, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992, possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio, su istanza delle parti o per ordine della Commissione tributaria, i soggetti che, insieme al ricorrente, sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso (cd. liticonsorzio facoltativo).
11.3 Il giudizio di primo grado 11.3.1 Atti impugnabili Il processo tributario è introdotto mediante ricorso del contribuente, territorialmente
alla
Commissione
competente,
tributaria
contro
uno
provinciale degli
atti
autonomamente impugnabili, elencati dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. In dettaglio, ai sensi del citato art. 19, come modificato da ultimo dall’art. 12 del D.L. 2-3-2012, n. 16 (conv., con modif., in L. n. 44/2012), il ricorso può essere proposto contro: l’avviso di accertamento del tributo (inclusa l’ingiunzione), l’avviso di liquidazione del tributo, il provvedimento che irroga le sanzioni, il ruolo e la cartella di pagamento, l’avviso di mora, l’iscrizione di ipoteca sugli immobili, il fermo amministrativo di beni mobili registrati, gli atti relativi alle operazioni catastali, il rifiuto espresso o tacito alla restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti, il diniego o la revoca di agevolazioni, il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari e ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni tributarie.
11.3.2 Il ricorso
Il ricorso è l’atto introduttivo del giudizio tributario per tutte le controversie di valore superiore a 50.000 euro (valore così elevato a decorrere dal 1-1-2018), per le quali non è infatti previsto l’obbligo, per il contribuente, della presentazione di un’apposita istanza di reclamo. Il suo contenuto tipico ed essenziale consiste in una domanda motivata che il ricorrente indirizza al giudice (vocatio iudicis), come nel processo amministrativo (Tesauro); esso non contiene anche la chiamata in giudizio della controparte (vocatio in ius), come nel caso della citazione nel processo civile (Falsitta). L’oggetto
della
domanda
è
rappresentato
dal
provvedimento che il ricorrente chiede al giudice di emanare. In dettaglio, nel processo tributario il contribuente può esperire (Tesauro): azioni di impugnazione, che sono finalizzate ad ottenere l’annullamento, parziale o totale, dell’atto impugnato (avviso di accertamento, avviso di liquidazione ecc.); azioni di condanna, che sono finalizzate ad ottenere una sentenza che obblighi l’Amministrazione finanziaria a porre in essere uno specifico comportamento (ad esempio, effettuare il pagamento di un rimborso d’imposta rifiutato).
11.3.3 Il reclamo e la mediazione Allo scopo di diminuire il contenzioso tributario e migliorare la cd. tax compliance, con l’art. 39, comma 9, del D.L. n. 98/2011, conv., con modif., in L. n. 111/2011 (che ha
introdotto l’art. 17bis del D.Lgs. n. 546/1992), il legislatore ha previsto l’istituto del reclamo, per le controversie di valore non superiore a 20.000 euro, relative ad atti impugnabili (ossia quelli individuati dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992) emessi dall’Agenzia delle Entrate, notificati a decorrere dal 1-42012. Tale istituto è stato successivamente sensibilmente modificato e da ultimo, l’art. 10, comma 1, del D.L. 24-4-2017, n. 50, conv. con modif., in L. 96/2017, con applicazione agli atti impugnabili notificati a decorrere dal 1-1-2018, ha elevato il valore massimo delle liti per l’accesso all’istituto da 20.000 euro a 50.000. Si tratta di uno strumento deflativo del contenzioso che, come evidenziato nella circ. dell’Agenzia delle Entrate 193-2012, n. 9, inizialmente si caratterizzava, diversamente da tutti gli altri strumenti deflativi, per il suo carattere obbligatorio, in quanto il contribuente che intendeva presentare ricorso doveva preliminarmente presentare il reclamo, a pena l’inammissibilità (rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio) del successivo ricorso (cd. funzione pre-processuale). A seguito dell’intervento della L. n. 147/2013, il reclamo è condizione di procedibilità e, nel caso di deposito del ricorso prima del decorso del termine di 90 giorni di cui al comma 9 dell’art. 17bis del D.Lgs. n. 546/1992, l’Agenzia delle Entrate, in sede di costituzione in giudizio, può eccepire l’improcedibilità del ricorso e il presidente della Commissione, trattazione
per
se
rileva
l’improcedibilità,
consentire
la
mediazione
rinvia
la
(quindi
l’improcedibilità è rilevabile solo su eccezione di parte e non d’ufficio). Successivamente, l’art. 9 del D.Lgs. n. 156/2015, sostituendo l’art. 17bis del D.Lgs. n. 546/1992, ha modificato in modo rilevante la disciplina in commento, sia dal punto di vista sostanziale che per quanto concerne l’ambito di applicazione, dando così attuazione alla legge delega per la riforma del sistema fiscale n. 23/2014. La modifica di maggiore rilievo riguarda la natura del reclamo che diventa giurisdizionale. Il primo comma dell’art. 17bis, infatti, stabilisce che “il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa”. Con la notificazione del ricorso, nelle ipotesi ricadenti nell’art. 17bis, si dà, dunque, automaticamente avvio alla procedura del reclamo.
Ambito di applicazione Per quanto concerne l’ambito di applicazione, esso risulta notevolmente ampliato in quanto l’istituto, fino al 31-12-2015 circoscritto alle controversie tributarie relative agli atti emessi dalle Agenzie dalle Entrate, è ora esteso alle controversie inerenti atti emessi da altri enti impositori (art. 17bis, comma 4). Per gli agenti della riscossione e i soggetti preposti alla riscossione di tributi locali, la disciplina del reclamo si applica solo in quanto compatibile (art. 17bis, comma 9). I commi 1, 1bis e 10 dell’articolo in commento elencano le liti escluse. Il valore massimo delle liti ammesse alla procedura
è attualmente fissato a 50.000 (art. 10, comma 1, del D.L. n. 50/2017, conv., con modif., in L. n. 96/2017). Avvio della procedura La procedura si avvia dunque con la presentazione del ricorso avverso l’atto di cui si chiede l’annullamento, totale o parziale, entro 60 giorni dalla notifica dell’atto da parte dell’ente impositore. Il ricorso può contenere una proposta di mediazione per la rideterminazione dell’ammontare delle pretesa tributaria. La procedura deve essere conclusa entro 90 giorni, decorrenti dalla notifica del ricorso. Al fine del computo dei 90 giorni si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale e il ricorso non è procedibile fino alla scadenza del suddetto termine. Perfezionamento della mediazione Ai sensi del comma 6 dell’art. 17bis, il perfezionamento della mediazione avviene: con il pagamento dell’importo dovuto per la mediazione, entro 20 giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo, o, in caso di pagamento rateale, della prima rata, se oggetto della controversia è un atto impositivo o di riscossione; con la sottoscrizione dell’accordo, nel quale sono indicate le somme dovute, con i termini e le modalità di pagamento, se oggetto della controversia è la restituzione di somme.
L’accordo costituisce titolo per il pagamento delle somme dovute al contribuente, in base al quale, qualora l’ente impositore non dia esecuzione al pagamento concordato, egli potrà esperire l’azione davanti al giudice ordinario per ottenere un decreto ingiuntivo.
Riduzione delle sanzioni In caso di conclusione positiva della mediazione, le sanzioni amministrative vengono applicate nella misura del 35% del minimo previsto dalla legge (art. 17bis, comma 8). Sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi. Maggiorazione delle spese di giudizio Il comma 2septies dell’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 9 del D.Lgs. n. 156/2015, stabilisce che le spese di giudizio che la parte soccombente è condannata a rimborsare sono maggiorate del 50% nelle controversie proposte avverso atti reclamabili ai sensi del medesimo art. 17bis
a
titolo
di
rimborso
delle
maggiori
spese
del
procedimento di reclamo.
11.3.4 Sentenze, ordinanze e decreti del giudice tributario I provvedimenti delle Commissioni tributarie possono assumere la forma di sentenza, ordinanza o decreto. La sentenza è il provvedimento collegiale che la Commissione emette in tutti i casi in cui si definisce il giudizio. In merito, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., salvi i casi previsti dalla legge (nei quali la prova può essere assunta
d’ufficio), il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti (principio dispositivo), nonché i fatti non
specificatamente
contestati
dalla
parte
costituita
(principio di non contestazione); infatti, nel processo tributario, il potere di indicare i fatti rilevanti ai fini del giudizio è attribuito in via esclusiva alle parti (Tesauro). L’ordinanza è il provvedimento collegiale emesso dalla Commissione in tutti i casi in cui essa non definisce il giudizio. Il decreto è il provvedimento con il quale il presidente della Commissione tributaria o della sezione disciplina lo svolgimento del processo.
11.3.5 La conciliazione giudiziale La conciliazione giudiziale è un istituto che consente di definire la controversia a seguito di un accordo tra Fisco e contribuente. La sua disciplina, dettata dall’art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992, è stata interessata da un incisivo intervento normativo a seguito dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 156/2015, distinguendo fra conciliazione fuori udienza (art. 48) e conciliazione in udienza (art. 48-bis).
11.3.6 La definizione agevolata delle controversie tributarie L’art. 6 D.L. 119/2018 (conv. in L. 136/2018) consente di definire con modalità agevolate le controversie tributarie pendenti, anche in Cassazione e a seguito di rinvio, in cui è
parte l’Agenzia delle Entrate, aventi ad oggetto atti impositivi con il pagamento della metà del valore della controversia. Possono essere definite le controversie in cui il ricorso in primo grado è stato notificato alla controparte entro il 24-102018 e per le quali alla data della presentazione della domanda di definizione il processo non si sia concluso con pronuncia definitiva. La definizione si perfeziona con la presentazione della domanda e con il pagamento degli importi dovuti o della prima rata entro il 31-5-2019. È ammesso il pagamento rateale, in un massimo di 20 rate trimestrali se gli importi dovuti superano 1.000 euro.
11.4 L’esecuzione delle sentenze delle Commissioni tributarie A seguito del passaggio in giudicato di una sentenza emessa dalle
Commissioni
tributarie,
la
parte
creditrice
può
intraprendere l’esecuzione forzata in base alle norme del codice di procedura civile. Il contribuente nei cui confronti è stata emessa una sentenza favorevole passata in giudicato può intraprendere il giudizio di ottemperanza (art. 70 del D.Lgs. n. 546/1992 come modificato dall’art. 9 del D.Lgs. n. 156/2015 a decorrere dal 1-1-2016), al fine di richiedere alla Commissione tributaria di adottare, in luogo dell’ente impositore inadempiente, i provvedimenti necessari all’esecuzione del giudicato (Lupi).
11.5 Le impugnazioni La parte perdente in un grado di giudizio ha la facoltà di impugnare la sentenza e chiedere un nuovo giudizio. Alle impugnazioni nel processo tributario, per effetto dell’espresso richiamo effettuato dall’art. 49 del D.Lgs. n. 546/1992, si applica la disciplina civilistica, che riguarda la sospensione dell’esecuzione delle sentenze appellate e dei processi in cui sia invocata l’autorità di una sentenza impugnata, fatte salve le deroghe previste dal citato D.Lgs. n. 546/1992. Nel processo tributario, i mezzi per impugnare le sentenze sono: l’appello alla Commissione tributaria regionale, avverso
la
sentenza
della
Commissione
tributaria
provinciale; il ricorso per Cassazione, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale; la revocazione, avverso la sentenza della Commissione tributaria
provinciale
(revocazione
straordinaria)
o
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (revocazione ordinaria o straordinaria).
Capitolo 12 L’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) 12.1 Il presupposto dell’IRPEF Ai sensi dell’art. 1 del Testo Unico delle Imposte sul Reddito (TUIR), approvato con D.P.R. 22-12-1986, n. 917, il presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) è costituito dal possesso di redditi, in denaro o in natura, rientranti in una delle categorie tassativamente previste dall’art. 6 del TUIR, ossia: redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, d’impresa e diversi. Per ciascuna delle citate categorie si possono individuare, in linea di principio dei peculiari criteri di determinazione nonché specifici adempimenti formali ad essi connessi. Il TUIR non contiene una definizione legislativa di reddito, ma identifica, con una metodologia casistica, le fattispecie reddituali (ritenute, in linea di principio, tassative) che sono ricomprese in ciascuna delle sei categorie di reddito imponibile previste (ognuna delle quali è contraddistinta da un certo grado di omogeneità). Secondo l’orientamento prevalente, il reddito individua la variazione positiva che subisce il patrimonio di un individuo in un determinato periodo di
tempo, di solito coincidente con l’anno solare (cd. periodo di imposta). Possesso Il termine possesso utilizzato dal legislatore per definire il presupposto dell’IRPEF non va inteso nella sua accezione civilistica (art. 1140 c.c.), ma come relazione giuridica che deve sussistere tra il reddito ed il soggetto al quale esso deve essere attribuito (Falsitta); si identifica, in sostanza, con la fattispecie
(incasso,
disponibilità
ecc.)
che
origina
l’assoggettamento a imposizione di un reddito. Nel TUIR non è fornita un’unica definizione normativa del possesso, ma sono contenute distinte disposizioni connesse alle diverse concezioni di possesso riferibili a ciascuna delle categorie di reddito previste. In particolare, assumono rilevanza ai fini della configurazione del possesso del reddito: l’incasso, ossia la materiale percezione ed effettiva disponibilità,
per
i
redditi
di
capitale,
di
lavoro
dipendente, di lavoro autonomo e diversi; la competenza economica, ossia la maturazione economica (realizzazione del processo produttivo e conseguente scambio dei beni e servizi prodotti), indipendentemente dal materiale incasso, per i redditi d’impresa; il possesso secondo i principi dettati dall’art. 1140 c.c., per i redditi fondiari. Proventi conseguiti in sostituzione di redditi I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto della cessione dei relativi crediti, e le indennità
conseguite,
anche
in
forma
assicurativa,
a
titolo
di
risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Non hanno natura reddituale e, pertanto, non sono imponibili, i proventi e le indennità dipendenti da invalidità permanente o da morte. Gli interessi di mora e per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati (art. 6, comma 2, del TUIR). Redditi esclusi dalla base imponibile Ai sensi dell’art. 3, comma 3, del TUIR, sono in ogni caso esclusi dalla base imponibile: i redditi esenti dall’imposta e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva; gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli spettanti al coniuge in conseguenza di separazione legale ed effettiva o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria; gli assegni familiari e l’assegno per il nucleo familiare, nonché, con gli stessi limiti e alle medesime condizioni, gli emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati nei casi consentiti dalla legge; la
maggiorazione
sociale
dei
trattamenti
pensionistici prevista dall’art. 1 della L. n. 544/1988;
le somme corrisposte a titolo di borsa di studio dal Governo italiano a cittadini stranieri in forza di accordi e intese internazionali.
12.2 Soggetti passivi Soggetti passivi dell’IRPEF sono le persone fisiche (art. 2 del TUIR): residenti nel territorio dello Stato, per tutti i redditi posseduti ovunque prodotti nel mondo (principio di tassazione del reddito mondiale o worldwide income taxation principle); non residenti nel territorio dello Stato, limitatamente ai redditi ivi prodotti (principio di territorialità o sourcebased taxation principle). Residenza Ai fini IRPEF si considerano residenti in Italia le persone che, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni o 184 giorni nel caso di anno bisestile, anche non continuativi), alternativamente (art. 2, comma 2, del TUIR): sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente; hanno nel territorio dello Stato il domicilio ai sensi dell’art. 43, comma 1, c.c., ossia il luogo in cui hanno stabilito la sede principale dei propri affari e interessi; hanno nel territorio dello Stato la residenza ai sensi dell’art. 43, comma 2, c.c., ossia il luogo di loro abituale dimora.
Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze (cd. white list). In tal caso, quindi, si realizza un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente che ha trasferito la propria residenza in un cd. paradiso fiscale.
12.3 I redditi prodotti in forma associata 12.3.1 Le società di persone commerciali Il reddito conseguito dalle società di persone commerciali (s.n.c. e s.a.s.), che – ai sensi dell’art. 6, comma 3, del TUIR – si
qualifica
sempre
come
reddito
d’impresa,
è
automaticamente attribuito ai soci delle stesse (risultanti come tali
alla
data
di
chiusura
del
periodo
d’imposta),
indipendentemente dall’effettiva percezione, nel medesimo periodo d’imposta di produzione del reddito (art. 5, comma 1, del TUIR: principio di trasparenza). Le quote di partecipazione si presumono proporzionali al valore dei conferimenti, salvo diversa pattuizione risultante da atto pubblico o scrittura privata autenticata di data anteriore all’inizio del periodo d’imposta. Le quote si presumono uguali nell’ipotesi in cui il valore dei conferimenti non risulti determinato (art. 5, comma 2, del TUIR). Perdite fiscali Le perdite fiscali realizzate dalle società di persone commerciali sono attribuite ai soci con i medesimi criteri di attribuzione degli utili (art. 8, comma 2, TUIR). In base all’art. 8, comma 3, del TUIR (come modificato dall’art. 1, comma 23, L. 145/2018), la quota di perdita imputata al singolo socio, nel
caso di perdite realizzate da società in contabilità ordinaria, è compensabile (solo) con altri redditi d’impresa (anche derivanti dalla partecipazione in altre società di persone commerciali), conseguiti nel medesimo periodo d’imposta di attribuzione della perdita; l’eventuale eccedenza non utilizzata può essere riportata negli esercizi successivi, in misura non superiore all’80% ai fini dello scomputo dai redditi della stessa natura, ossia in riduzione di futuri redditi d’impresa. Ciò indipendentemente dal regime contabile adottato. Sono tuttavia riportabili illimitatamente le perdite realizzate nei primi 3 esercizi di imposta purché si riferiscano a una nuova attività produttiva.
12.3.2 Le società semplici Le società semplici possono conseguire direttamente redditi fondiari, redditi di lavoro autonomo, redditi di capitale e redditi diversi, ma non possono conseguire redditi d’impresa, considerato
che
esse
non
possono
svolgere
attività
commerciale (art. 2249 c.c.). I citati redditi devono essere determinati con le stesse regole previste per le persone fisiche e, successivamente, sommati per la determinazione del reddito complessivo dalla società, il quale è attribuito ai soci per trasparenza, secondo i criteri previsti per le società di persone commerciali.
12.3.3 Le associazioni professionali Il reddito di lavoro autonomo conseguito dalle associazioni prive di personalità giuridica (e delle società tra professionisti),
costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni, le quali sono equiparate alle società semplici, è attribuito per trasparenza, indipendentemente dalla percezione, agli associati (art. 5 del TUIR). Le quote del reddito conseguito dall’associazione attribuite agli associati sono determinate in proporzione al valore dei conferimenti, salvo diverso accordo risultante da atto pubblico o scrittura privata autenticata, che possono essere redatti fino alla data di presentazione della dichiarazione dei redditi dell’associazione. Perdite fiscali Le perdite fiscali maturate dalle associazioni professionali sono attribuite ai soci con i medesimi criteri di attribuzione degli utili e sono utilizzabili in compensazione, dal socio cui sono attribuite pro quota, con gli altri redditi di qualsiasi natura, realizzati dal socio nel medesimo periodo di imposta di attribuzione della perdita (cd. compensazione orizzontale). L’eventuale eccedenza della perdita non può essere utilizzata negli esercizi successivi.
12.3.4 Il Gruppo europeo di interesse economico (GEIE) Il Gruppo europeo di interesse economico (GEIE) residente ovvero avente una stabile organizzazione in Italia (reg. CEE n. 2137 del 25-7-1985) non è un autonomo soggetto passivo ai fini IRPEF (né ai fini IRES, né ai fini IRAP) (art. 11 del D.Lgs. n. 240/1991). I redditi (e le perdite) e le ritenute d’acconto del GEIE, aventi natura di reddito d’impresa, ovvero di lavoro autonomo
(a seconda dell’attività esercitata), sono attribuiti ai suoi membri, per trasparenza, nell’esercizio in cui sono prodotti, indipendentemente dall’effettiva percezione. Il GEIE ha l’obbligo di tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali e di presentare la dichiarazione dei redditi, ai fini della determinazione del reddito imponibile attribuibile a ciascun membro.
12.4 L’imputazione dei redditi nella famiglia Per i redditi conseguiti dai coniugi vige il principio di autonomia e, pertanto, ciascuno di essi è un autonomo soggetto passivo IRPEF. I redditi derivanti dall’esercizio di attività lavorativa sono imputati per intero al coniuge che li ha conseguiti (art. 4, comma 1, lett. a), del TUIR). Redditi dei beni in comunione legale I redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale sono imputati a ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare netto o per la diversa quota stabilita con specifico accordo. I redditi derivanti dei beni esclusi dalla comunione, invece, sono imputati esclusivamente al coniuge che ne è titolare (art. 4, comma 1, lett. a), del TUIR). Nel caso di regime di separazione legale, ciascun coniuge è titolare dei redditi derivanti dai beni di cui è titolare esclusivo. Fondo patrimoniale I redditi dei beni che formano oggetto del fondo patrimoniale (artt. 167 e ss. c.c.) sono imputati per metà del loro ammontare netto a ciascuno dei coniugi (art. 4, comma 1, lett. b), del TUIR). Redditi dei figli minori I redditi dei beni dei figli minori che sono soggetti all’usufrutto legale dei genitori sono imputati per metà del loro
ammontare netto a ciascun genitore. Se vi è un solo genitore, o se l’usufrutto legale spetta a un solo genitore, i redditi sono imputati per l’intero ammontare a quest’ultimo. Diversamente, i figli minori sono titolari dei redditi derivanti dalla propria attività lavorativa e dai beni non soggetti all’usufrutto legale dei genitori (art. 4, comma 1, lett. c), del TUIR).
12.4.1 L’impresa familiare I
redditi
dell’impresa
limitatamente
al
49%
familiare
(art.
dell’importo
230bis
risultante
c.c.), dalla
dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente
la
sua
attività
di
lavoro
nell’impresa,
proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili (art. 5, comma 4, del TUIR). A tal fine, per familiari si intendono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (art. 5, comma 5, del TUIR).
12.5 La determinazione del reddito imponibile La determinazione del reddito imponibile IRPEF di un soggetto residente in Italia comporta, in primo luogo, l’individuazione e la quantificazione delle singole categorie di reddito (fondiario, di lavoro dipendente ecc.), secondo le regole proprie di ciascuna categoria. Successivamente, si procede alla somma algebrica di tutti redditi imponibili netti del contribuente, secondo il principio di globalità (Ferlazzo Natoli). A tal fine, il contribuente può sottrarre le perdite derivanti dall’esercizio di arti e professioni mentre può scomputare, esclusivamente in riduzione dei redditi d’impresa realizzati nell’esercizio, eventuali perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali o dalla partecipazione in società in nome collettivo o in accomandita semplice. Dal
reddito
complessivo
così
determinato
occorre
scomputare gli oneri deducibili al fine di ottenere il reddito imponibile IRPEF. Periodo di imposta L’IRPEF è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma (art. 7 TUIR), salvo la deroga rappresentata dal riporto, agli anni successivi, delle perdite d’impresa e dei crediti d’imposta (e di
alcune detrazioni) eccedenti l’imposta netta. L’imputazione temporale dei redditi al periodo d’imposta è regolata dai precipui criteri (cassa, competenza ecc.) previsti per ciascuna delle sei categorie alla quale i redditi sono riconducibili.
12.5.1 Criteri generali di valutazione Redditi in natura I redditi in natura sono valutati in base al valore normale dei beni e dei servizi da cui sono costituiti, intendendosi per tale il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni ed i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali ed ai listini delle Camere di Commercio ed alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore (art. 9, commi 2 e 3, del TUIR). Titoli Per quanto riguarda i titoli, il loro valore normale è dato (art. 9, comma 4, del TUIR): nel caso di titoli (azioni, obbligazioni ecc.) negoziati in mercati regolamentati, italiani o esteri, dalla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese;
nel caso di titoli non negoziati in mercati regolamentati, italiani o esteri: dal valore proporzionale del patrimonio netto della società, con riferimento ai titoli partecipativi (azioni e quote di società); per le società di nuova costituzione
si
fa
riferimento
all’ammontare
complessivo dei conferimenti; dalla comparazione con il valore normale di titoli aventi analoghe caratteristiche negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri e, in mancanza, in base ad altri elementi obiettivi, con riferimento ai titoli obbligazionari. Proventi e oneri in valuta estera I corrispettivi, i proventi, le spese e gli oneri in valuta estera sono valutati secondo il cambio del giorno in cui sono stati percepiti o sostenuti o del giorno antecedente più prossimo e, in mancanza, secondo il cambio del mese in cui sono stati percepiti o sostenuti (art. 9, comma 2, del TUIR). Conferimenti e trasferimento di diritti reali Ai fini delle imposte sui redditi, il legislatore equipara alle cessioni a titolo oneroso sia i conferimenti in società, sia gli atti a titolo oneroso che importano la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento (art. 9, comma 5, del TUIR).
12.5.2 Gli oneri deducibili
In relazione al carattere personale dell’IRPEF, il legislatore ammette, entro specifici limiti, la possibilità di tener conto di determinate spese sostenute dal contribuente, per le quali sono riconosciute deduzioni (dall’imponibile) ovvero detrazioni (dall’imposta lorda). L’elenco tassativo degli oneri deducibili e di quelli detraibili risponde alla finalità di non assoggettare ad imposizione il cd. “minimo vitale”, nonché di incentivare determinati impieghi di risorse (Falsitta). Sia per gli oneri deducibili sia per gli oneri detraibili è necessario che il contribuente: abbia effettivamente sostenuto la spesa nell’anno di imposta (principio di cassa) e la stessa sia rimasta a suo carico; disponga di un’idonea documentazione giustificativa (fattura, ricevuta fiscale ecc.) che deve essere conservata fino al termine di decadenza per l’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.
12.6 La determinazione dell’imposta 12.6.1 La determinazione dell’imposta lorda Ai fini della determinazione dell’IRPEF, è necessario, in primo luogo, applicare al reddito imponibile le aliquote progressive previste per i diversi scaglioni di reddito, al fine di ottenere l’imposta lorda. Attualmente, le aliquote IRPEF previste sono le seguenti (art. 11 del TUIR): 23%, per lo scaglione di reddito fino 15.000 euro; 27%, per lo scaglione di reddito da oltre 15.000 euro a 28.000 euro; 38%, per lo scaglione di reddito da oltre 28.000 euro a 55.000 euro; 41%, per lo scaglione di reddito da oltre 55.000 euro a 75.000 euro; 43%, per lo scaglione di reddito oltre 75.000 euro.
12.6.2 La determinazione dell’imposta netta e dell’imposta a debito Per determinare l’imposta netta occorre scomputare dall’imposta
lorda,
calcolata
applicando
le
aliquote
progressive, le detrazioni d’imposta (per carichi di famiglia, di
lavoro e per oneri) ed i crediti d’imposta spettanti (agevolazioni per il riacquisto prima casa, per incremento dell’occupazione ecc.). Quindi, per determinare l’imposta dovuta a saldo (imposta a debito), ovvero il credito vantato dal contribuente nei confronti del Fisco (imposta a credito), è necessario scomputare dall’imposta netta il credito per le imposte pagate all’estero, le ritenute a titolo di acconto subite ed i versamenti d’acconto effettuati e scomputare l’eventuale eccedenza
IRPEF
dell’anno
d’imposta
precedente
(che
costituisce un credito riportato in avanti).
12.6.3 Le detrazioni d’imposta Detrazioni per carichi di famiglia Al contribuente sono riconosciute detrazioni d’imposta per il coniuge, per i figli e per gli altri familiari, a condizione che tali persone abbiano un reddito complessivo, al lordo degli oneri deducibili, non superiore a 2.840,51 euro (4.000 euro per i figli di età non superiore a 24 anni a decorrere dal 1-12019), ossia siano considerate fiscalmente a carico (art. 12, comma 2, del TUIR). Detrazioni per lavoro Al
contribuente
sono
riconosciute
delle
detrazioni
d’imposta collegate alla percezione di redditi derivanti da determinate attività lavorative ovvero di redditi da pensione (art. 13 del TUIR). Sono detrazioni aventi un carattere oggettivo, il cui ammontare effettivamente spettante decresce all’aumentare del reddito complessivo imponibile (non competono per redditi superiori a 55.000 euro).
Il D.L. 5 febbraio 2020, n. 3 è intervenuto sul tema. L’art. 1 del decreto citato ha, infatti, disposto il riconoscimento di una somma a titolo di trattamento integrativo dei redditi da lavoro dipendente e assimilati, sempreché l’imposta lorda dovuta sia superiore all’ammontare della detrazione spettante per lavoro dipendente e assimilati. Il trattamento integrativo spettante viene determinato in funzione dei giorni di lavoro con riferimento alle prestazioni rese dal secondo semestre dell’anno 2020. I sostituti d’imposta sono chiamati a riconoscere
il
trattamento
integrativo
ripartendone
l’ammontare sulle retribuzioni erogate, verificandone in sede di conguaglio la spettanza. Il trattamento non spettante potrà essere recuperato dai sostituti d’imposta mediante l’istituto della compensazione. L’art. 2 del medesimo decreto ha istituito una detrazione dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche, spettante ai titolari di redditi di lavoro dipendente, con esclusione delle pensioni, e ai titolari di specifiche categorie di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. L’importo della detrazione è pari a 600 euro in corrispondenza di un reddito complessivo di 28.000 euro e decresce linearmente fino ad azzerarsi al raggiungimento di un livello di reddito pari a 40.000 euro. La detrazione ha carattere temporaneo, in quanto si applica limitatamente alle prestazioni rese nel semestre che va dal 1° luglio al 31 dicembre 2020, in vista di una revisione strutturale del sistema delle detrazioni. L’art. 3 del decreto ha, invece, disposto l’abrogazione del cd. bonus 80 euro di cui all’art. 13, comma 1bis, del TUIR; l’articolo precisa
quindi la definizione di reddito complessivo da considerare ai fini della spettanza delle misure di cui agli artt. 1 e 2. Detrazione per oneri Le
detrazioni
d’imposta
per
oneri
consentono
di
scomputare dall’IRPEF lorda un importo pari al 19% di determinate spese, tassativamente individuate, sostenute dal contribuente nel periodo d’imposta (principio di cassa). Le detrazioni d’imposta spettano nei limiti dell’imposta lorda e, pertanto, l’eventuale eccedenza non può essere richiesta a rimborso o riportata nell’anno successivo.
12.7 Le categorie di reddito: i redditi fondiari I redditi fondiari derivano dai terreni e dai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano (art. 25 del TUIR). I redditi fondiari si distinguono in redditi dei terreni e redditi dei fabbricati. La caratteristica principale dei redditi fondiari è data dal fatto che sono, salvo specifiche deroghe, redditi figurativi, ossia
sono
quantificati
ed
imputati
al
contribuente,
indipendentemente dalla loro reale entità e dal loro effettivo incasso. Infatti, il legislatore assoggetta ad imposizione, adottando criteri forfetari ed astratti, non l’effettiva ricchezza realizzata da un soggetto, ma la potenziale capacità del bene di originare un reddito (Falsitta). Si tratta, in altri termini, di un reddito medio-ordinario, calcolato in base alle risultanze dei dati del Catasto dei terreni e del Catasto dei fabbricati (Nuovo Catasto Edilizio Urbano), gestiti dall’Agenzia delle Entrate, che contengono le informazioni relative agli immobili esistenti in Italia (individuazione puntuale, generalità dei proprietari ecc.) nonché alla rendita ad essi attribuita. L’unità elementare del catasto è la particella catastale, alla quale, in base alle tariffe d’estimo, è attribuita una rendita catastale (cd. classamento).
I redditi derivanti da immobili (fabbricati o terreni) ubicati all’estero non si qualificano come redditi fondiari, ma come redditi diversi (art. 67, comma 1, lett. f), del TUIR). Imputazione I redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale (art. 26, comma 1, del TUIR). Tuttavia, nell’ipotesi di terreno dato in affitto per uso agricolo, il relativo reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo dell’affittuario, anziché quello del possessore, a partire dalla data in cui ha effetto il contratto (art. 33, comma 1, del TUIR). In caso di contitolarità della proprietà o di coesistenza di diritti reali su un medesimo immobile, il reddito fondiario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun soggetto contitolare per la parte proporzionalmente corrispondente al suo diritto (art. 26, comma 2, del TUIR). Se il possesso dell’immobile è stato trasferito, in tutto o in parte, nel corso del periodo d’imposta, il reddito fondiario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun soggetto proporzionalmente alla durata (in giorni) del suo possesso (art. 26, comma 3, del TUIR). Non sono produttivi di reddito fondiario gli immobili relativi a imprese commerciali e quelli che costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni, i quali concorrono
a
determinare,
rispettivamente,
il
reddito
d’impresa ovvero il reddito di lavoro autonomo del soggetto possessore (art. 43, comma 1, del TUIR).
12.7.1 Il reddito dei terreni: il reddito dominicale e il reddito agrario Il reddito dei terreni è scomponibile, a sua volta, in: reddito dominicale reddito agrario. Reddito dominicale Il reddito dominicale (artt. 27-31 del TUIR) è attribuito al possessore di un terreno, avente uso agricolo, a titolo di diritto reale (proprietà, enfiteusi ecc.) e rappresenta il reddito figurativo che, indipendentemente da un’effettiva coltivazione del fondo, quantifica la remunerazione (media e ordinaria) della terra nel suo stato naturale ed il capitale stabilmente investito nella stessa (Falsitta). A decorrere dall’anno 2012, l’IRPEF dovuta sul reddito dominicale e le relative addizionali sono sostituite dall’IMU per i terreni non dati in locazione (art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2011). Non si considerano produttivi di reddito dominicale i redditi dei terreni (art. 27, comma 2, del TUIR): costituenti
pertinenze
di
fabbricati
urbani
(che
costituiscono parte integrante degli stessi; si pensi, ad esempio, al giardino di una villa); dati in affitto per usi non agricoli (che generano redditi diversi; si pensi, ad esempio, ad un campeggio);
strumentali all’attività d’impresa (che generano reddito di impresa). Reddito agrario Il reddito agrario (artt. 32-35 del TUIR) è attribuito al soggetto che coltiva il terreno e rappresenta il reddito figurativo che quantifica la remunerazione (media e ordinaria) del capitale di esercizio e del lavoro di organizzazione impiegati nella coltivazione del fondo. Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività agricole su di esso (art. 32 del TUIR). Esso è imputato al soggetto che svolge l’attività agricola su un terreno posseduto a titolo di proprietà, usufrutto o enfiteusi, ovvero che è affittuario dello stesso. Il reddito agrario deriva dallo svolgimento di attività: agricole in senso stretto, ossia le attività dirette alla coltivazione del terreno ed alla silvicoltura, le quali sono sempre considerate attività agricole, e quindi produttive di reddito agrario, senza alcun limite quantitativo; agricole
per
connessione,
sempreché
svolte
entro
determinati limiti quantitativi.
12.7.2 Il reddito dei fabbricati Il reddito dei fabbricati è dato dal reddito medio ordinario ritraibile da ciascuna unità immobiliare urbana, ossia dai fabbricati e dalle altre costruzioni stabili o da loro porzioni
suscettibili di reddito autonomo (art. 36 del TUIR). Le aree occupate dalle costruzioni e quelle che ne costituiscono pertinenze
si
considerano
parti
integranti
delle
unità
immobiliari. Abitazione principale Per abitazione principale si intende l’immobile nel quale il contribuente che la possiede, a titolo di proprietà o di altro diritto reale, e/o i suoi familiari, dimorano abitualmente (generalmente coincide con l’immobile abitativo che risulta indicato all’anagrafe del Comune di residenza). Per l’immobile abitativo adibito ad abitazione principale e per le sue pertinenze (cantina, autorimessa ecc.) è prevista una deduzione dal reddito complessivo pari all’importo della sua rendita catastale (art. 10, comma 3bis, del TUIR), rapportata al periodo dell’anno durante il quale l’immobile è stato adibito ad abitazione principale, proporzionalmente alla quota di possesso dello stesso. In sostanza, è prevista la detassazione ai fini IRPEF del reddito fondiario derivante dall’abitazione principale.
12.8 Le categorie di reddito: i redditi di capitale Il TUIR non contiene una definizione generale dei redditi di capitali, ma un’elencazione casistica dei proventi che rientrano in tale categoria, nonché una norma residuale, a chiusura della citata elencazione, che fa rientrare nell’ambito dei redditi di capitale gli interessi e gli altri proventi, predeterminati o variabili, derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale (art. 44, comma 1, lett. h), del TUIR). Sono esclusi dal novero dei redditi di capitale quelli derivanti da
rapporti
attraverso
cui
possono
essere
realizzati
differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto. Sebbene eterogenee tra loro, le fattispecie generatrici di redditi di capitale individuate dal legislatore possono essere suddivise in due gruppi: interessi e altri proventi derivanti da rapporti di finanziamento; proventi derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti a IRES. Criteri di determinazione I redditi di capitale sono tassati (art. 45, comma 1, del TUIR):
nel periodo d’imposta in cui sono percepiti (principio di cassa),
indipendentemente
dalla
loro
maturazione
economica (salvo limitate deroghe); al lordo, in quanto non sono ammesse in deduzione (analiticamente o forfetariamente) le spese sostenute per la loro produzione e, inoltre, sono del tutto irrilevanti i fenomeni inflattivi. Inoltre, differentemente da quanto previsto per i redditi diversi, ai fini della determinazione dei redditi di capitale, il contribuente non può dedurre (a scomparto dei proventi positivi) gli eventuali differenziali negativi, realizzati nel medesimo periodo di imposta.
12.8.1 Gli interessi e i proventi derivanti da rapporti di finanziamento Il primo gruppo di fattispecie che generano redditi di capitale è dato dagli interessi e dai proventi derivanti da mutui e da rapporti di finanziamento; si tratta delle cd. rendite finanziarie. Interessi derivanti da mutui, depositi e conti correnti Costituiscono redditi di capitale gli interessi e gli altri proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti (bancari e postali), liberi o vincolati, compresa la differenza tra la somma percepita (o il valore normale dei beni ricevuti alla scadenza) e il prezzo di emissione o la somma impiegata, apportata o affidata in gestione (o il valore normale dei beni impiegati, apportati od affidati in gestione) (art. 44, comma 1, lett. a), e art. 45, comma 1, del TUIR).
Per i capitali dati a mutuo, salvo prova contraria, gli interessi si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto. Se le scadenze non sono stabilite per iscritto, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta; inoltre, se la misura non è determinata per iscritto, gli interessi si computano al saggio legale (art. 45, comma 2, del TUIR). Versamenti dei soci Le somme versate alle società commerciali (di capitale e di persone) ed agli enti commerciali residenti, dai loro soci o partecipanti si considerano date a mutuo, se dai bilanci o dai rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo (art. 46 del TUIR). Interessi
e
proventi
da
titoli
di
Stato
e
obbligazioni Costituiscono redditi di capitale gli interessi e gli altri proventi derivanti dalle obbligazioni, dai titoli similari alle obbligazioni, dai titoli di Stato, dagli altri titoli diversi dalle azioni e dai certificati di massa, compresa la differenza tra la somma percepita e il prezzo di emissione (disaggio di emissione) (art. 44, comma 1, lett. b), e art. 45, comma 1, del TUIR). A seguito delle modifiche apportate dal D.L. 138/2011 e dal D.L. 83/2012 (convertiti rispettivamente nelle Leggi n. 148/2011 e n. 134/2012), gli interessi derivanti da: obbligazioni emesse da banche e da società, sia quotate sia non quotate in Borsa, sono assoggettati a una ritenuta del 26% (20% fino al 30-6-2014);
titoli di Stato sono assoggettati a una ritenuta del 12,5%. Pronti contro termine e riporto Costituiscono redditi di capitale i proventi derivanti da operazioni di pronti contro termine e di riporto aventi a oggetto azioni e obbligazioni.
12.8.2 I proventi derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti a IRES La seconda tipologia di proventi che si qualificano come redditi di capitale è rappresentata dagli utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti soggetti all’imposta sul reddito delle società (IRES) (art. 44, comma 1, lett. e), del TUIR). Si tratta, essenzialmente, dei dividendi societari derivanti dalla partecipazione al capitale di rischio di società di capitali, rappresentata da azioni e da titoli similari
alle
azioni
(come,
ad
esempio,
le
quote
di
partecipazione in s.r.l.). Si considerano similari alle azioni, i titoli e gli strumenti finanziari, la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale i titoli e gli strumenti finanziari sono stati emessi. Sono inoltre assimilati agli utili e, quindi, costituiscono redditi di capitale (art. 44, comma 1, lett. f), del TUIR): i proventi percepiti dall’associato in partecipazione, nel caso in cui il suo apporto sia di solo capitale ovvero di
lavoro e capitale (apporto misto); diversamente, nel caso in cui l’apporto dell’associato sia esclusivamente costituito da prestazioni di lavoro, i proventi si qualificano come redditi di lavoro autonomo; i proventi derivanti dai contratti di cointeressenza (art. 2554 c.c.), nel caso di apporto di solo capitale o di lavoro e capitale; diversamente, nel caso di apporto costituito esclusivamente da prestazioni di lavoro, i proventi si qualificano come reddito di lavoro autonomo. Utili percepiti da persone fisiche A decorrere dal 1-1-2018, ai sensi dell’art. 1, comma 1004, della L. n. 205/2017 – Legge di bilancio 2018, gli utili percepiti da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio d’impresa, sono assoggettati a imposta sostitutiva del 26%, indipendentemente dalla natura della partecipazione da cui essi derivano (qualificate o non qualificate). Utili in natura Nel caso di utili in natura, ai fini della loro determinazione, occorrerà fare riferimento al criterio del valore normale (art. 47, comma 3, del TUIR). Distribuzione di riserve Non costituiscono utili le somme e i beni ricevuti dai soci delle società soggette all’IRES a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con sovrapprezzi di emissione delle azioni o quote, con interessi di conguaglio versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale e con saldi di
rivalutazione monetaria esenti da imposta (art. 47, comma 5, del TUIR). In sostanza, la ripartizione delle citate riserve di capitale (cd. “riserve non tassate”) non determina imposizione in capo ai soci. Tuttavia, qualora le somme ricevute siano superiori al costo
fiscalmente
riconosciuto
della
partecipazione,
la
differenza è tassata come utile mediante ritenuta a titolo d’imposta del 26% del loro ammontare. Le somme o il valore normale dei beni ricevuti riducono, in misura corrispondente, il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute (simmetricamente, i versamenti effettuati a fondo perduto o in conto capitale lo aumentano). In caso di aumento del capitale sociale mediante passaggio di riserve a capitale, le azioni gratuite di nuova emissione e l’aumento gratuito del valore nominale delle azioni o quote già emesse non costituiscono utili per i soci (art. 47, comma 6, del TUIR). Presunzione di distribuzione di utili Indipendentemente
dalla
delibera
assembleare
(che
preveda la distribuzione di riserve di capitale “non tassate”), si presumono prioritariamente distribuiti l’utile dell’esercizio e le riserve di utili disponibili per la distribuzione (non, quindi, quelle indisponibili come la riserva legale), per la quota di esse non accantonata in sospensione d’imposta (art. 47, comma 1, del TUIR). Le citate riserve di utili si definiscono riserve “tassate” in quanto determinano un’imposizione in capo ai soci. Riduzione del capitale
Nel caso di riduzione del capitale esuberante di soggetti IRES, la distribuzione di somme di denaro o beni costituisce distribuzione di utili limitatamente alla parte che eccede il costo fiscalmente riconosciuto per la sottoscrizione o l’acquisto dei titoli annullati (art. 47, comma 6, del TUIR). La riduzione si imputa con precedenza alla parte dell’aumento complessivo di capitale derivante dai passaggi a capitale di riserve o fondi tassati, a partire dal meno recente, ferme restando le norme delle leggi di rivalutazione monetaria che dispongono diversamente. Utili da partecipazione di fonte estera Il regime impositivo dei dividendi distribuiti da società non residenti in Italia è, in linea generale, il medesimo di quelli distribuiti da società residenti in Italia.
12.9 Le categorie di reddito: i redditi di lavoro dipendente Sono redditi di lavoro dipendente quelli derivanti da rapporti, pubblici o privati, aventi per oggetto una prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro (art. 49, comma 1, del TUIR). Costituiscono inoltre redditi di lavoro dipendente le: pensioni di ogni genere (e gli assegni equiparati), che trovano la loro causale in una precedente attività lavorativa, anche diversa dall’attività di lavoro dipendente, quali l’attività di lavoro autonomo o d’impresa individuale; si pensi, ad esempio, alle pensioni di quiescenza (di vecchiaia, di anzianità ecc.); diversamente, sono esenti da IRPEF le pensioni di natura assistenziale o risarcitoria (come, ad esempio, le pensioni di guerra e le pensioni assistenziali corrisposte agli invalidi civili) mentre le quote di pensione in favore dei superstiti corrisposte agli orfani sono escluse dal reddito imponibile fino a un limite di importo pari a 1.000 euro; somme dovute dal datore di lavoro, a seguito di una sentenza di condanna, a titolo di interessi sui crediti di
lavoro dipendente e di rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 429, ultimo comma, c.p.c.
12.9.1 La determinazione del reddito di lavoro dipendente Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro (art. 51, comma 1, del TUIR). In tale
disposizione
sono
contenuti
i
principi
di
onnicomprensività e di cassa. Principio di onnicomprensività Ai fini del reddito di lavoro dipendente, sono imponibili tutti i compensi, in denaro o in natura, che sono comunque
riconducibili
al
rapporto
di
lavoro
dipendente (salario, stipendio, indennità di maternità, indennità di malattia, compensi per straordinari, diarie, trattamento di fine rapporto ecc.), anche indipendentemente dal nesso sinallagmatico tra l’effettività della prestazione resa e le somme o i valori percepiti; sono inclusi, quindi, le erogazioni effettuate dal datore di lavoro a titolo di sussidio o liberalità (C.M. 3-12-1997, n. 326). Non sono tuttavia imponibili gli indennizzi risarcitori del danno emergente. Ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente, non è prevista la deducibilità di eventuali costi sostenuti dal lavoratore per svolgere le sue mansioni e, in generale, per conseguire tale reddito. Principio di cassa
I redditi di lavoro dipendente sono imponibili nel periodo di imposta in cui sono percepiti (principio di cassa). A tal fine, ai sensi dell’art. 51, comma 1, del TUIR, si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme, e i valori in genere, percepiti entro il 12 gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono (principio di cassa allargata). All’atto dell’erogazione dei redditi di lavoro dipendente è prevista (art. 23 D.P.R. n. 600/1973) l’effettuazione di una ritenuta alla fonte, a titolo di acconto, da parte del datore di lavoro (sostituto d’imposta), con riguardo al periodo di retribuzione (mensile, settimanale ecc.). A tal fine, il datore di lavoro calcola la ritenuta in base agli scaglioni di reddito IRPEF commisurati al periodo di retribuzione, considerando anche le detrazioni spettanti al dipendente. Successivamente, con riferimento alle retribuzioni corrisposte nell’anno, entro il 28 febbraio dell’anno successivo, il sostituto d’imposta procede al conguaglio tra l’importo delle ritenute
operate
e
l’imposta
dovuta
dal
dipendente,
computando anche gli elementi non considerati all’atto dell’effettuazione
delle
ritenute
nei
singoli
periodi
di
retribuzione. Entro il 31 marzo (16 marzo dal 2021, ai sensi dell’art. 16bis, comma 2, D.L. 124/2019), il datore di lavoro deve altresì consegnare al lavoratore il Modello CU (ex CUD), una certificazione dalla quale risultino le somme erogate e le ritenute operate nell’anno precedente. Nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, il CU deve essere consegnato entro 12 giorni dalla richiesta da parte del lavoratore.
Fringe benefits Si qualificano come redditi di lavoro dipendente anche i compensi in natura (fringe benefits), ossia i beni ceduti e i servizi erogati al dipendente o ai suoi familiari dal datore di lavoro (si pensi, ad esempio, alla disponibilità di autovetture, telefoni cellulari, prestiti agevolati ecc.). Tuttavia, è prevista una franchigia di euro 258,23 per ciascun periodo d’imposta; pertanto, fino a tale importo, il valore normale dei beni e servizi non concorre a formare il reddito imponibile IRPEF. Occorre considerare che, secondo quanto dispone l’art. 112 D.L. 14 agosto 104, n. 2020 (cd. decreto agosto) per il solo periodo di imposta 2020, tale limite è elevato a 516,46 euro. Indennità e rimborsi spese Nel caso di trasferte, che si configurano quando il datore di lavoro richiede al dipendente lo svolgimento della prestazione lavorativa in una sede diversa da quella stabilita nella lettera di assunzione, ovvero nel contratto di lavoro, il trattamento fiscale applicabile alle indennità e ai rimborsi spese di vitto e alloggio percepiti dal dipendente varia in base alla circostanza che le trasferte siano effettuate nel territorio comunale in cui è situata l’abituale sede di lavoro, ovvero al di fuori dello stesso. Regime fiscale dei premi di produttività I premi di risultato dei lavoratori dipendenti privati di ammontare variabile, la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili, e le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa sono sottoposti
ad imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali con aliquota al 10%, entro il limite di 3.000 euro lordi
(4.000
euro
per
le
imprese
che
coinvolgano
pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro e nei riguardi dei dipendenti privati con reddito non superiore a 80.000 euro), salvo espressa rinuncia da parte del lavoratore (art. 1, commi 182-189, della L. n. 208/2015 – Legge di Stabilità 2016, come da ultimo modificati dall’art. 1, comma 161, della L. n. 205/2017 – Legge di bilancio 2018).
12.9.2 I redditi di lavoro dipendente non tassabili In deroga al principio di onnicomprensività, sono previste alcune ipotesi tassative di esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente. Ad esempio, non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente (art. 51, comma 2, del TUIR, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 677, L. 160/2019 – Legge di bilancio 2020): i
contributi
previdenziali
e
assistenziali
obbligatori per legge, versati sia dal datore di lavoro sia dal dipendente (ad esempio, i contributi INPS); si tratta di un’esclusione fondata su ragioni tecniche, considerato che l’assoggettamento ad imposizione avverrà al momento dell’erogazione della prestazione; i contributi di assistenza sanitaria versati dal datore di lavoro o dal lavoratore ad enti o casse aventi
esclusivamente finalità assistenziali, in conformità alle disposizioni del contratto di lavoro, per un importo non superiore complessivamente ad euro 3.615,20 annui; sono invece integralmente imponibili i contributi assistenziali non sanitari; le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o gestite da terzi; le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui le stesse siano rese in forma elettronica; le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti ai cantieri edili, ad altre strutture lavorative a carattere temporaneo o ad unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione fino all’importo complessivo giornaliero di euro 5,29; i contributi e i premi versati dal datore di lavoro, in favore della generalità dei dipendenti o di categorie di dipendenti, per prestazioni, anche in forma assicurativa, aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana o il rischio di gravi patologie; le prestazioni di servizi di trasporto collettivo a favore della generalità o di categorie di dipendenti, anche se affidate a terzi, ivi compresi gli esercenti servizi pubblici, concernenti lo spostamento dei lavoratori dall’abitazione al luogo di lavoro e viceversa;
il valore delle azioni offerte alla generalità dei dipendenti (cd. piani di azionariato diffuso) per un importo non superiore complessivamente nel periodo d’imposta ad euro 2.065,83, a condizione che non siano riacquistate dalla società emittente o dal datore di lavoro o comunque cedute prima che siano trascorsi almeno 3 anni dalla loro assegnazione.
12.9.3 I redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente Il TUIR contiene un’elencazione tassativa di fattispecie reddituali che, sebbene percepite in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, sono assimilate ai redditi di lavoro dipendente. In dettaglio, sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente (art. 50 del TUIR): i compensi percepiti, entro i limiti dei salari correnti maggiorati del 20%, dai lavoratori soci delle cooperative di produzione e lavoro, delle cooperative di servizi, delle cooperative agricole e di prima trasformazione dei prodotti agricoli e delle cooperative della piccola pesca; le indennità e i compensi percepiti, a carico di soggetti diversi dal datore di lavoro, da lavoratori dipendenti, per incarichi svolti in relazione a tale qualità, ad esclusione di quelli che per clausola contrattuale devono essere riversati al datore di lavoro e di quelli che per legge devono essere riversati allo Stato;
le somme, da chiunque corrisposte, a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale, se il beneficiario non è legato da rapporti di lavoro dipendente nei confronti del soggetto erogante; i proventi derivanti dalle collaborazioni coordinate e continuative, ossia le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione agli uffici di amministratore, sindaco o revisore di società, associazioni e altri enti con o senza personalità giuridica, alla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili, alla partecipazione a collegi e commissioni, nonché quelli percepiti in relazione ad altri rapporti di collaborazione, aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione, a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo, senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica
prestabilita,
sempreché
gli
uffici
o
le
collaborazioni non rientrino nei compiti istituzionali compresi
nell’attività
di
lavoro
dipendente,
ovvero
nell’attività di lavoro autonomo eventualmente svolta dal soggetto; le remunerazioni dei sacerdoti, nonché le congrue ed i supplementi di congrua; i
compensi
per
l’attività
libero
professionale
intramuraria, svolta dal personale dipendente del Servizio sanitario nazionale, da docenti e ricercatori
universitari che svolgono attività assistenziale presso cliniche ed istituti universitari di ricovero e cura convenzionati, dal personale di ruolo presso le facoltà di medicina e chirurgia e dal personale di Università che svolge attività di docenza e consulenza; le prestazioni comunque erogate dai fondi di previdenza integrativa ai sensi del D.Lgs. n. 124/1993; gli assegni periodici, comunque denominati, alla cui produzione
non
concorrono
attualmente
né
capitale né lavoro; i compensi percepiti da soggetti impegnati in lavori socialmente utili.
12.10 Le categorie di reddito: i redditi di lavoro autonomo Sono
redditi
di
lavoro
autonomo
quelli
derivanti
dall’esercizio di arti e professioni, ossia dall’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo, diverse da quelle di natura commerciale (che originano reddito d’impresa ai sensi dell’art. 55 del TUIR), anche se svolte in forma associata (art. 53 del TUIR). Elementi peculiari del reddito di lavoro autonomo sono: il carattere strettamente personale e tipicamente intellettuale dell’attività svolta, generalmente, in base ad un contratto d’opera (non è indispensabile l’iscrizione ad albi professionali, per cui originano redditi di lavoro autonomo sia lo svolgimento di attività “protette”, sia di quelle “non protette”); l’autonomia dell’attività svolta, ossia l’assenza di vincoli di subordinazione dal committente (tale requisito differenzia il lavoro autonomo dal lavoro dipendente); la professionalità, che si configura quando il soggetto realizza atti coordinati tra loro al fine del raggiungimento di uno scopo determinato; l’abitualità,
ossia
la
regolarità
e
la
sistematicità
dell’attività (non è necessario che essa costituisca
l’occupazione principale del soggetto); non generano redditi di lavoro autonomo (ma redditi diversi), quindi, le attività che un soggetto svolge in modo occasionale. Lo svolgimento di prestazioni di servizi (non rientranti tra quelli individuati dall’art. 2195 c.c.) da parte di un soggetto origina, in linea generale, reddito di lavoro autonomo. Tuttavia, qualora l’organizzazione di mezzi necessari allo svolgimento dei servizi assuma una propria autonomia, e non abbia quindi un ruolo strumentale e secondario rispetto all’apporto personale ed insostituibile del professionista (ossia si tratti di una vera e propria organizzazione imprenditoriale), il reddito generato dalla prestazione di servizi si configura come reddito d’impresa (Falsitta). Ritenuta d’acconto Nel confronti dei soggetti percettori di redditi di lavoro autonomo
è
prevista
l’applicazione,
all’atto
della
corresponsione dei loro compensi da parte di committenti che si qualificano come sostituiti d’imposta, di una ritenuta d’acconto, generalmente pari al 20%. Base imponibile Il reddito di lavoro autonomo è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi, in denaro o in natura, percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili (di associazioni professionali), e quello delle spese sostenute, nel periodo stesso, nell’esercizio dell’arte o della professione (art. 54, comma 1, del TUIR). Quindi, ai fini dell’imputazione temporale dei compensi e delle spese si applica il principio di cassa (rilevano, quindi,
l’incasso ed il pagamento), salve limitate deroghe per le quali si applica il principio di competenza. Diversamente da quanto previsto ai fini del reddito di lavoro dipendente, il reddito di lavoro autonomo è un reddito di matrice differenziale, nella quale assumono rilevanza, entro certi limiti, anche le spese che il professionista sostiene per svolgere la sua attività. Perdite fiscali L’eccedenza delle spese sostenute rispetto ai compensi percepiti in un periodo di imposta genera una perdita fiscale, la quale può essere utilizzata in compensazione degli altri redditi, di qualsiasi natura, conseguiti dal soggetto
nel
medesimo
periodo
d’imposta
(cd.
compensazione orizzontale). L’eventuale eccedenza della perdita non può essere riportata in avanti, per essere utilizzata negli esercizi successivi (art. 8, commi 2 e 3, del TUIR).
12.10.1 I redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo Costituiscono redditi assimilati ai redditi di lavoro autonomo (art. 53, comma 2, del TUIR): i redditi derivanti dall’utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali;
le partecipazioni agli utili spettanti all’associato in partecipazione,
quando
l’apporto
è
costituito
esclusivamente dalla prestazione di lavoro; le partecipazioni agli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di società di capitali; le indennità per la cessazione di rapporti di agenzia; i redditi derivanti dall’attività di levata dei protesti esercitata dai segretari comunali.
12.11 Le categorie di reddito: i redditi d’impresa Ai sensi dell’art. 55 del TUIR costituiscono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali,
ossia
dall’esercizio
per
professione
abituale (ossia non occasionale, ma stabile e durevole), ancorché non esclusiva, delle attività, anche se non organizzate in forma d’impresa: commerciali (in senso proprio) indicate nell’art. 2195 c.c. (attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi, attività intermediaria nella circolazione di beni, attività di trasporto per terra, per acqua o per aria, attività bancaria
o
assicurativa,
attività
ausiliarie
delle
precedenti); agricole per connessione che eccedono i limiti stabiliti per la loro qualificazione come reddito fondiario (agrario). Sono inoltre considerati redditi d’impresa quelli derivanti: dall’esercizio
di
attività
organizzate
in
forma
d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c. (come, ad esempio, le prestazioni sanitarie o di cure estetiche); dall’attività
di
sfruttamento
di
miniere,
cave,
torbiere, saline, laghi, stagni e delle altre acque
interne. Criteri di determinazione Il reddito di impresa conseguito da persone fisiche e dalle società di persone commerciali (s.n.c. e s.a.s.) in regime di contabilità ordinaria è determinato, per espresso rinvio operato dall’art. 56, comma 1, del TUIR, applicando i criteri stabiliti per determinazione del reddito imponibile IRES delle società di capitali e degli enti commerciali residenti, fatta salva l’applicazione di diversi criteri, espressamente previsti dal legislatore ai fini della quantificazione di determinati componenti reddituali. Per le persone fisiche e le società di persone commerciali in regime di contabilità semplificata, invece, il reddito è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi conseguiti nel periodo d’imposta e l’ammontare delle spese sostenute nel medesimo periodo rispettivamente aumentata e diminuita delle rimanenze finali e delle esistenze iniziali, aumentata delle plusvalenze realizzate e delle sopravvenienze attive e diminuita delle minusvalenze e sopravvenienze passive. Nel computo dell’imponibile dei ricavi rientra anche il valore normale dei beni destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore (art. 66 del TUIR, come modificato dall’art. 1, comma 17, della L. n. 232/2016 - Legge di bilancio 2017). A decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31-12-2016, dunque, per effetto delle modifiche apportate all’art. 66 del TUIR dalla Legge di bilancio 2017, la tassazione dei redditi delle cd. imprese minori, assoggettate alla contabilità
semplificata,
è
mutata
in
quanto
il
principio
di
competenza per il computo degli elementi che concorrono a formare l’imponibile è stato sostituito con il principio di cassa. Inoltre sono ammesse in deduzione: le quote d’ammortamento dei beni strumentali, purché sia tenuto il relativo registro; le perdite su crediti; le perdite di beni strumentali; gli accantonamenti per quiescenza e previdenza. Non sono ammessi altri accantonamenti. Perdite fiscali Qualora i componenti negativi eccedano i componenti positivi si determina una perdita fiscale che, al netto dei proventi esenti eccedenti gli interessi passivi e le spese generali negative non dedotte (per effetto del pro-rata), il contribuente può utilizzare in compensazione gli eventuali altri redditi d’impresa conseguiti nel medesimo periodo di imposta. L’eventuale eccedenza non utilizzata può essere riportata negli esercizi successivi ai fini dello scomputo da redditi della stessa natura, ma per l’importo massimo dell’80% (art. 8, comma 3, e art. 56, comma 2, TUIR). Beni dell’impresa Per le imprese individuali, l’art. 65 del TUIR dispone che si considerano, all’impresa:
per
presunzione
assoluta,
beni
relativi
i beni alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa (beni-merce); le materie prime e sussidiarie, i semilavorati e gli altri beni mobili non strumentali, acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione; i beni mobili strumentali per l’esercizio d’impresa; i crediti acquisiti nell’esercizio d’impresa. A scelta dell’imprenditore, ed a condizione che siano indicati nell’inventario come tali, si considerano inoltre relativi all’impresa i beni immobili strumentali, sia per natura sia per destinazione. Si considerano relativi all’impresa tutti i beni appartenenti alle società di persone commerciali (art. 65, comma 2, del TUIR).
12.12 Le categorie di reddito: i redditi diversi Nella categoria residuale dei redditi diversi (art. 67 del TUIR) sono ricomprese fattispecie eterogenee tra loro, che non sono inquadrabili nell’ambito delle altre cinque categorie di reddito previste dal TUIR (in quanto mancanti di uno dei loro elementi tipici). Le suddette fattispecie, che sono individuate dal legislatore mediante il metodo casistico e non, quindi, con una definizione generale, originano redditi diversi a condizione che tali redditi non siano conseguiti nell’esercizio impresa o di arti e professioni, né in relazione
alla
qualità
di
lavoratore
dipendente.
Sebbene non sia un rispetto presente in tutte le fattispecie che originano redditi diversi, molte di esse sono riconducibili ad eventi incerti (Gaffuri). I redditi diversi concorrono alla formazione del reddito imponibile IRPEF nell’esercizio in cui sono percepiti (principio di cassa).
12.12.1 Le plusvalenze da cessioni immobiliari occasionali Costituiscono redditi diversi le plusvalenze derivanti da cessioni immobiliari occasionali (o isolate), le quali sono determinate come differenza tra il corrispettivo incassato per
la vendita ed il costo di acquisizione dell’immobile (aumentato di specifici costi deducibili). Terreni edificabili Si qualificano come redditi diversi le plusvalenze realizzate mediante: la lottizzazione di terreni, o l’esecuzione di opere intese a renderli edificabili, e la successiva vendita, anche parziale, dei terreni e degli edifici costruiti sugli stessi; la cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria (cd. aree edificabili) secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione,
indipendentemente
sia
dalla
modalità
di
acquisizione (acquisto, donazione o successione), sia dal tempo che è intercorso tra acquisto e rivendita degli stessi. Fabbricati e terreni non edificabili Si qualificano come redditi diversi le plusvalenze realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di beni immobili, fabbricati e terreni non edificabili, acquistati o costruiti da non più di 5 anni. In caso di cessione a titolo oneroso di immobili ricevuti per donazione, il predetto periodo di 5 anni decorre dalla data di acquisto da parte del donante. Esproprio e occupazione Costituiscono redditi diversi le plusvalenze realizzate a seguito di esproprio o occupazione di terreni destinati ad opere pubbliche, ad infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C e D, e ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica popolare.
12.12.2 Le plusvalenze derivanti dalla cessione di attività finanziarie Costituiscono redditi diversi le plusvalenze derivanti dalla cessione di attività finanziarie, ossia di partecipazioni sociali (azioni, quote sociali di società di persone o di capitali ecc.), titoli obbligazionari e altri strumenti finanziari, effettuate da persone fisiche al di fuori dell’esercizio dell’attività di impresa (cd. regime del capital gains). La plusvalenza è determinata quale differenza tra il corrispettivo percepito ed il costo di acquisto delle partecipazioni; nel caso in cui il corrispettivo sia inferiore al costo di acquisto, si determina una minusvalenza.
12.12.3 La cessione di partecipazioni L’art. 1, comma 999, L. n. 205/2017, abrogando il comma 3 dell’art. 68 del TUIR, ha uniformato, dal 1-1-2019, il regime di tassazione
dei
proventi
derivanti
dai
diversi
tipi
di
partecipazione. Le cessioni a titolo oneroso delle partecipazioni societarie sono infatti integralmente assoggettate a imposta sostitutiva
nella
misura
del
26%,
sia
nel
caso
di
partecipazioni qualificate che di partecipazioni non qualificate. Dalla medesima data i regimi del risparmio gestito e del risparmio amministrato possono essere adottati (in aggiunta a quello della dichiarazione) anche per le partecipazioni qualificate in seguito alle modifiche apportate dalla L. 205/2017 (art. 1, commi 1000-1002) al D.Lgs. 461/1997.
Tobin Tax La tassa sulle transazioni finanziarie sui mercati regolamentati e non (cd. Tobin Tax) è stata introdotta dall’art. 1, commi 491-500, della L. n. 228/2012 (Legge di stabilità 2013), successivamente modificato dall’art. 56 del D.L. n. 69/2013 (cd. decreto del Fare), conv., con modif., in L. n. 98/2013, e colpisce il trasferimento della proprietà, a qualsiasi titolo, di azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi, emessi da società residenti nel territorio dello Stato. La tassa si applica al valore della transazione costituito, alternativamente, dal saldo netto delle transazioni regolate nello stesso giorno, riguardanti lo stesso strumento finanziario e concluse dallo stesso soggetto, o dal corrispettivo versato.
12.12.4 Gli altri redditi diversi Le altre principali fattispecie che generano redditi diversi, tassativamente individuate dall’art. 67 del TUIR, sono: i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente (cd. attività commerciali occasionali); i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere (cd. attività occasionali di lavoro autonomo); le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico, i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte ed i premi
attribuiti a titolo di riconoscimento di particolari meriti artistici, scientifici o sociali; i redditi di natura fondiaria non determinabili catastalmente; i redditi di beni immobili situati all’estero; i redditi derivanti dalla concessione in usufrutto e dalla sublocazione di beni immobili; i redditi derivanti dall’affitto, locazione, noleggio o concessione in uso di veicoli, macchine e altri beni mobili; i redditi derivanti dall’affitto e dalla concessione in usufrutto dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale; i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono
conseguiti
nell’esercizio
di
imprese
commerciali non percepiti dall’autore o inventore; la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore; le indennità di trasferta, rimborsi forfettari di spesa, premi e compensi erogati da cori, bande musicali e filodrammatiche nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche dal CONI nei limiti di 10.000 euro annui.
Capitolo 13 L’imposta sul reddito delle società (IRES) 13.1 Aspetti generali Il presupposto dell’imposta sul reddito delle società (IRES) è costituito dal possesso dei redditi, in denaro o in natura, rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 del TUIR, da parte degli enti collettivi qualificati come soggetti passivi di tale imposta (art. 72 del TUIR). Periodo d’imposta L’IRES è dovuta per periodi di imposta, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma, salvo quanto previsto per il riporto agli esercizi successivi delle eccedenze di imposta e delle perdite fiscali (art. 76 del TUIR) e quanto previsto per gli interessi passivi e gli oneri assimilati, deducibili in ciascun periodo di imposta fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati. Il periodo di imposta è costituito dall’esercizio o periodo di gestione della società, determinato dalla legge o dall’atto costitutivo. Se la durata dell’esercizio o periodo di gestione non è determinata dalla legge o dall’atto costitutivo, o se è determinata in due o più anni, il periodo di imposta è costituito dall’anno solare.
Aliquota L’IRES
è
un’imposta
proporzionale,
determinata
applicando l’aliquota del 24% al reddito complessivo netto del periodo d’imposta (art. 77 del TUIR). L’aliquota è stata così determinata, a decorrere dal 1-1-2017, con effetto per i periodi d’imposta successivi al 31-12-2016, ai sensi dell’art. 1, comma 61, della L. 208/2016 (Legge di Stabilità 2016). La precedente aliquota era del 27,5%. Imposta dovuta L’imposta
dovuta
o
la
differenza
a
favore
del
contribuente è calcolata mediante la determinazione, in primis, dell’imposta lorda, ottenuta applicando l’aliquota del 24% al reddito imponibile, al netto di eventuali perdite fiscali
di
periodi
precedenti
riportate
in
avanti,
e
scomputando, dall’imposta lorda, eventuali crediti per le imposte pagate all’estero e le detrazioni spettanti. L’IRES a debito, ovvero l’IRES a credito (eccedenza IRES), del periodo di imposta è determinata scomputando dall’imposta dovuta (ovvero sommando alla differenza a favore del contribuente) le ritenute subite, gli acconti versati, i crediti d’imposta spettanti e l’eventuale eccedenza IRES pregressa (per la parte non utilizzata in compensazione).
13.1.1 La doppia imposizione degli utili societari La tassazione del reddito realizzato da società soggette ad IRES può comportare, in caso di successiva distribuzione degli
utili e di nuova tassazione degli stessi in capo ai soci della società, un problema di doppia imposizione. La tassazione degli utili societari nell’IRES L’attuale sistema di tassazione degli utili societari nell’ambito della disciplina IRES, in vigore dall’1-1-2004, è fondato su un sistema di esenzione che, al fine di evitare la doppia imposizione, prevede, in linea di principio, che la tassazione dell’utile avvenga esclusivamente presso il soggetto che
lo
ha
realmente
prodotto
(società
partecipata),
considerando irrilevante il successivo trasferimento dell’utile ai soci. In realtà, l’esenzione da imposizione per il soggetto percettore è realizzata, quasi totalmente, nella sola ipotesi in cui il socio sia un soggetto passivo IRES (in tal caso gli utili sono esclusi da imposizione nella misura del 95% del loro ammontare). Diversamente, nel caso in cui il socio percettore sia una persona fisica, è prevista una parziale doppia imposizione.
13.2 I soggetti passivi IRES Sono soggetti passivi dell’IRES (art. 73, comma 1, del TUIR): le società di capitali residenti in Italia, ossia s.p.a., s.a.p.a., s.r.l., società cooperative, società di mutua assicurazione, società europee (Reg. CE n. 2157/2001) e società cooperative europee (Reg. CE n. 1435/2003); gli enti commerciali residenti in Italia; gli enti non commerciali residenti in Italia; le società e gli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, non residenti in Italia; i trust, residenti o non residenti in Italia. Sono espressamente esclusi dalla soggettività passiva IRES gli organi e le amministrazioni dello Stato (compresi quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i Comuni, le unioni di Comuni, i consorzi tra enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demanio collettivo, le comunità montane, le Province e le Regioni) (art. 74 del TUIR). Inoltre, ai fini IRES non costituiscono esercizio di attività commerciale l’esercizio di funzioni statali da parte di enti pubblici e l’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie da parte di enti pubblici istituiti esclusivamente a tal fine, comprese le aziende sanitarie locali.
La determinazione della base imponibile IRES avviene secondo principi e regole diverse, riconducibili alla natura del soggetto passivo; in particolare, si possono distinguere tre gruppi di norme applicabili, rispettivamente, alle società di capitali
(ed
agli
enti
commerciali),
agli
enti
non
commerciali ed agli enti non residenti. Natura commerciale dei soggetti passivi IRES Per individuare la natura commerciale di un ente, pubblico o privato, residente occorre riferirsi al suo oggetto esclusivo o principale, intendendosi per tale l’attività essenziale per realizzare direttamente i suoi scopi primari, determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata, ovvero, in mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato (art. 73, commi 4 e 5, del TUIR). Conseguentemente, si qualificano come: enti commerciali quelli che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale; enti non commerciali quelli che non hanno per oggetto esclusivo
o
principale
l’esercizio
di
un’attività
commerciale.
13.2.1 La residenza fiscale ai fini IRES Ai fini IRES si considerano residenti le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo di imposta (183 giorni o 184
giorni in caso di anno bisestile) hanno nel territorio dello Stato, alternativamente (art. 73, comma 3, del TUIR): la sede legale; la sede dell’amministrazione; l’oggetto principale dell’attività. Presunzione di residenza Il legislatore ha previsto delle presunzioni legali relative di residenza in Italia (art. 73, commi 5bis-5quater, del TUIR), le quali determinano un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.
13.3 Società ed enti commerciali residenti L’art. 81 del TUIR stabilisce che reddito complessivo IRES delle società di capitali e degli enti commerciali residenti in Italia, da qualsiasi fonte provenga (fondiario, di capitale ecc.), è considerato sempre reddito d’impresa (principio di attrazione del reddito d’impresa). Si tratta, in sostanza, di un criterio di qualificazione del reddito d’impresa soggettivo (o formale), fondato sulla forma giuridica dell’ente collettivo, diversamente da quanto previsto per le persone fisiche, per le quali il legislatore ha adottato un criterio di qualificazione oggettivo (o sostanziale) fondato sulla tipologia
dell’attività
economica
effettivamente
svolta
(Ferlazzo Natoli).
13.3.1 La determinazione del reddito imponibile Reddito complessivo Ai fini dell’IRES, il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali residenti è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico del bilancio d’esercizio, relativo all’esercizio chiuso nel periodo di imposta, le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti
all’applicazione dei criteri stabiliti dal TUIR (art. 83, comma 1, del TUIR). Si tratta del principio di derivazione (o dipendenza) parziale del reddito fiscale dal risultato civilistico, il quale rappresenta il punto di partenza per la determinazione dell’imponibile IRES. Dal principio di “derivazione” consegue quello di “non tassatività” della normativa tributaria in materia di reddito d’impresa (Ferlazzo Natoli); in sostanza, se le disposizioni tributarie non disciplinano specificamente un determinato componente positivo o negativo di reddito, lo stesso rileva automaticamente, così come determinato ai fini civilistici, anche ai fini fiscali; le norme tributarie, quindi, non hanno un carattere esaustivo, in quanto non contengono una disciplina organica di tutti gli elementi reddituali (Tesauro), ma impongono di apportare al risultato civilistico variazioni: in aumento, al fine di tassare specifici componenti positivi di reddito non imputati nel conto economico civilistico (o imputati per un importo inferiore a quello previsto ai fini fiscali), ovvero al fine di non far concorrere alla determinazione del reddito imponibile specifici componenti negativi di reddito imputati nel conto economico civilistico (o di farli concorrere in misura inferiore); in diminuzione, al fine di non tassare specifici componenti positivi di reddito imputati nel conto economico civilistico, ovvero di far concorrere alla determinazione
del
reddito
imponibile
specifici
componenti negativi di reddito che non sono stati imputati
al conto economico (ad esempio, perché sono stati imputati al conto economico di esercizi precedenti).
Esempio L’utile civilistico, per l’esercizio 2019, della società Alfa S.p.A. è pari a euro 100.000. Nell’ipotesi in cui tra i costi contabilizzati che hanno determinato il citato risultato ci siano costi indeducibili ai fini fiscali per euro 20.000 e che, inoltre, tra i ricavi contabilizzati vi siano ricavi non imponibili ai fini fiscali per 10.000 euro, il reddito imponibile IRES per l’esercizio 2019 è il seguente:
Soggetti IAS/IFRS Per la determinazione del reddito imponibile IRES dei soggetti che redigono il bilancio d’esercizio in base ai principi contabili internazionali IAS/IFRS (cd. soggetti IAS adopter) è previsto che, anche in deroga alle disposizioni stabilite dal TUIR in materia di IRES, si applicano, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai citati principi contabili IAS/IFRS (cd. principio generale di “derivazione rafforzata”) (art. 83 del TUIR e D.M. 1-4-2009, n. 48). I soggetti IAS adopter, quindi, determinano il reddito di impresa attribuendo rilevanza agli
elementi reddituali e patrimoniali rappresentati in bilancio in base al criterio della prevalenza della sostanza sulla forma sancito dai principi contabili IAS/IFRS (art. 1 del D.M. 1-4-2009, n. 48). Imprese che redigono il bilancio in base ai principi OIC Le norme di coordinamento tra principi contabili e norme fiscali dettate per i soggetti che adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS (D.M. 1-4-2009, n. 48 e D.M. 8-62011) sono estese anche alle imprese che redigono il bilancio sulla base dei nuovi principi contabili nazionali redatti dall’Organismo italiano di contabilità (OIC), ad eccezione delle micro-imprese (art. 83, comma 1bis, del TUIR, inserito dall’art. 13bis, comma 2, del D.L. n. 244/2016, conv., con modif., in L. n. 19/2017). Beni relativi all’impresa I beni appartenenti alle società di capitali si considerano sempre relativi all’impresa e si distinguono in: beni-merce, ossia beni alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa (prodotti finiti, merci, materie prime ecc.); tali beni sono classificati in bilancio nell’attivo circolante (o nell’attivo corrente per i soggetti IAS/IFRS) e concorrono alla determinazione del reddito di impresa con il sistema “costi, ricavi e rimanenze” (in particolare, il loro acquisto origina costi d’esercizio, la loro cessione origina ricavi d’esercizio e, alla fine di ciascun esercizio, se acquistati ma non ceduti, costituiscono rimanenze);
beni
strumentali,
durevolmente
al
ossia
processo
beni
che
partecipano
produttivo
dell’impresa
(impianti, macchinari ecc.); tali beni sono classificati in bilancio nelle immobilizzazioni (o nelle attività non correnti nel caso di soggetti IAS/IFRS) e partecipano alla determinazione del reddito dei singoli esercizi nei quali sono utilizzati mediante le quote di ammortamento; la dismissione di tali beni dal processo produttivo origina plusvalenze o minusvalenze; beni (meramente) patrimoniali, ossia beni che non sono né beni-merce né beni strumentali (come, ad esempio, un immobile abitativo di proprietà di un’impresa industriale); tali beni, che rappresentano una categoria residuale, sono classificati in bilancio, analogamente ai beni strumentali, nelle immobilizzazioni (o nelle attività non correnti nel caso di soggetti IAS/IFRS) e concorrono alla determinazione del reddito mediante quote di ammortamento, plusvalenze e minusvalenze. Rivalutazione
dei
beni
d’impresa
e
delle
partecipazioni Spesso il legislatore consente la rivalutazione dei beni d’impresa
(immobilizzazioni
materiali,
immateriali,
partecipazioni) a fronte del pagamento di un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’IRAP. Il comma 1 dell’art. 110 del D.L. 104/2020 prevede la possibilità per i soggetti indicati nell’art. 73, lett. a) e b) del D.P.R. 917/1986 (cioè le s.p.a. e s.a.p.a., le s.r.l., le società
cooperative e le società di mutua assicurazione, le società europee e le società cooperative europee residenti nel territorio dello Stato, nonché gli enti pubblici e privati diversi dalle società e i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), che non adottano i principi contabili internazionali, di rivalutare, con valenza solo contabile, i beni materiali e immateriali, con esclusione di quelli alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa, nonché le partecipazioni in società controllate e collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c. costituenti immobilizzazioni, risultanti dal bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2019.
Costo dei beni Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, il costo dei beni (art. 110 del TUIR): è assunto al lordo delle quote di ammortamento già dedotte (quindi, l’ammortamento effettuato in un esercizio non è influenzato dalle quote dedotte nei precedenti esercizi); comprende
anche
gli
oneri
accessori
di
diretta
imputazione, ossia i costi connessi all’acquisto del bene (spese di trasporto, provvigioni passive, costi di montaggio ecc.), esclusi gli interessi passivi e le spese generali. Tuttavia per i beni materiali e immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa si comprendono nel costo anche gli interessi passivi iscritti in bilancio ad incremento del costo
stesso per effetto di disposizioni di legge; inoltre, per gli immobili
alla
dell’impresa
cui (cd.
produzione
è
diretta
immobili-merce)
nel
l’attività costo
si
comprendono anche gli interessi passivi sui prestiti contratti per la loro costruzione o ristrutturazione (non anche per l’acquisto).
Con riferimento al costo di fabbricazione dei beni prodotti internamente dall’impresa, è possibile includere, con gli stessi criteri, anche i costi diversi da quelli direttamente imputabili al prodotto (ad esempio i costi della mano d’opera
e
delle
materie
prime
impiegati
per
la
realizzazione del bene).
13.3.2 Il riporto delle perdite fiscali Nel caso di perdita fiscale, ossia nel caso in cui il reddito imponibile del periodo di imposta sia negativo (componenti negativi maggiori dei componenti positivi), la stessa può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi di imposta successivi (cd. riporto “in avanti” o “a nuovo” delle perdite), senza alcun limite di tempo, in misura non superiore all’80% del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare (art. 84 del TUIR). Le perdite fiscali pregresse sono inoltre utilizzabili anche per compensare i maggiori redditi accertati dal Fisco. L’ammontare
della
perdita
fiscale
compensazione deve essere ridotto:
utilizzabile
in
nel caso di proventi esenti dall’imposta diversi dalla plusvalenze esenti di cui art. 87 del TUIR, la perdita deve essere diminuita per un importo pari alla quota di proventi esenti che eccede i componenti negativi non dedotti per effetto dell’applicazione del pro rata di deducibilità delle spese generali (art. 109, comma 5, del TUIR); tuttavia, la citata parte di perdita non utilizzabile può essere computata in diminuzione del reddito complessivo, in misura tale che l’imposta corrispondente al reddito imponibile risulti compensata da eventuali crediti di imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto ed eccedenze IRES pregresse; nel caso di soggetti che fruiscono di un regime di esenzione dell’utile, la perdita è riportabile a nuovo per l’ammontare che eccede l’utile che non ha concorso alla formazione del reddito negli esercizi precedenti. Perdite dei soggetti di nuova costituzione Le perdite realizzate nei primi 3 periodi d’imposta dalla data di costituzione dell’impresa sono riportabili a nuovo e scomputabili dai redditi futuri (per il loro intero ammontare capiente nel reddito imponibile), senza limiti temporali, a condizione che siano relative ad una nuova attività produttiva (art. 84, comma 2, del TUIR). Divieto del riporto delle perdite Con norma antielusiva, è esclusa la possibilità di riportare a nuovo le perdite se sussistono entrambe le seguenti condizioni (art. 84, comma 3, del TUIR, come da ultimo modificato
dall’art. 1, comma 549, della L. n. 232/2016 - Legge di bilancio 2017): la maggioranza delle partecipazioni aventi diritto di voto nelle assemblee ordinarie del soggetto che le ha realizzate venga trasferita o comunque acquisita da terzi, anche a titolo temporaneo; nel periodo di imposta in corso al momento del trasferimento od acquisizione ovvero nei due successivi od anteriori, venga modificata l’attività principale in fatto esercitata nei periodi di imposta in cui le perdite sono state realizzate. Utilizzo di perdite fiscali in start up La Legge di bilancio 2017 (L. n. 232/2016, art. 1, commi 7680) permette l’acquisizione delle perdite fiscali realizzate da società start up partecipate per almeno il 20% da parte di società quotate. Tali perdite sono utilizzabili in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite del reddito imponibile e per l’intero importo.
13.3.3 I criteri di imputazione temporale dei componenti di reddito Principio di competenza L’imputazione temporale dei componenti positivi e negativi del reddito di impresa al periodo d’imposta deve essere effettuata in base al principio di competenza economica, ossia in base alla maturazione economica dei fatti di gestione,
indipendentemente dalla data della loro manifestazione finanziaria (incasso o pagamento) e dall’emissione o ricezione della relativa documentazione giustificativa (fatture, ricevute fiscali ecc.). In dettaglio, l’art. 109, comma 1, del TUIR dispone che i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per
i
quali
le
specifiche
norme
tributarie
non
dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza. Il principio di competenza implica che siano i costi a dover seguire i ricavi e non viceversa; in sostanza, una volta individuati i ricavi di competenza dell’esercizio, sono deducibili in tale esercizio i costi ad essi correlati (principio di correlazione costiricavi). Principio di cassa In deroga al principio di competenza, sono previste alcune ipotesi tassative in cui l’imputazione temporale dei componenti di reddito deve avvenire in base al principio di cassa, in virtù del quale assume rilevanza la data di incasso (per i ricavi) o di pagamento (per i costi). In dettaglio, il citato principio di cassa è applicabile in materia di: utili derivanti dalla partecipazione in soggetti IRES, contributi in conto capitale, proventi derivanti dalla partecipazione in fondi comuni, interessi di mora (attivi e passivi), imposte deducibili, oneri contributivi, compensi agli amministratori, spese di emissione di cambiali finanziarie, obbligazioni e titoli similari emessi da grandi emittenti e società non quotate che li hanno negoziati in mercati regolamentati, perdite su crediti nei confronti di
debitori assoggettati a procedure concorsuali e accordi di ristrutturazione dei debiti.
Soggetti IAS/IFRS Le
norme
relative
all’imputazione
temporale
dei
componenti positivi e negativi di reddito non si applicano ai soggetti che redigono il bilancio d’esercizio in base ai principi contabili internazionali (caratterizzati dalla prevalenza della sostanza sulla forma), che individuano la competenza (D.M. 1-4-2009, n. 48): delle cessioni di beni, nel momento in cui si verifica il trasferimento all’acquirente dei rischi significativi e dei benefici connessi alla proprietà dei beni; delle prestazioni di servizi, in base allo stadio di completamento dell’operazione alla data di chiusura del bilancio. Certezza ed oggettiva determinabilità Ai sensi dell’art. 109, comma 1, del TUIR, i componenti di reddito
per
essere
considerati
di
competenza
di
un
determinato esercizio, ossia ai fini fiscali oltre che civilistici, devono rispettare i due ulteriori requisiti della: certezza nell’esistenza, da un punto di vista giuridico (in base a vincoli aventi origine in contratti, norme, atti amministrativi ecc.); oggettiva determinabilità del loro ammontare, ossia la loro quantificazione non deve fondarsi su elementi soggettivi, ma su informazioni obiettive; si deve, quindi,
fare riferimento alla concreta possibilità di esprimere i fatti aziendali in espressioni numeriche (R.M. 2-6-1998, n. 52/E). I menzionati requisiti si configurano, in altri termini, quando, in base alla tecnica aziendale, i ricavi ed i costi si considerano definitivamente formati in senso economico (Vasapolli).
13.3.4 Principi in materia di deducibilità dei componenti negativi I componenti negativi di reddito sono deducibili a condizione che siano rispettati gli ulteriori requisiti di inerenza e previa imputazione a conto economico. Il principio di inerenza I costi sono deducibili se inerenti, ossia se caratterizzati da un nesso funzionale rispetto all’attività d’impresa svolta (Tesauro), da intendersi come esistenza di una correlazione tra componenti negativi deducibili e l’attività economica posta in essere dall’impresa, dalla quale derivano componenti positivi tassabili. In sostanza, la deducibilità è ammessa per i costi che, anche se non connessi in modo diretto ed immediato ai ricavi imponibili, siano rapportati come causa ad effetto nel circuito della produzione del reddito (Cass. 11-8-1995, n. 8818). Ne deriva,
pertanto,
che
sono
indeducibili,
ai
fini
della
determinazione del reddito di impresa, i costi che difettano del requisito dell’inerenza.
Deducibilità dei costi in presenza di proventi esenti L’art. 109, comma 5, del TUIR stabilisce che le spese e gli altri componenti negativi di reddito, diversi dagli interessi passivi, oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (come, ad esempio, i dividendi). Pertanto, in applicazione della citata disposizione:
i costi correlati esclusivamente ad attività o beni che originano
proventi
esenti
sono
integralmente
indeducibili; i costi che si riferiscono indistintamente sia ad attività o beni produttivi di proventi imponibili (o esclusi), sia ad attività o beni produttivi di proventi esenti sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito di impresa, o che non vi concorrono in quanto esclusi, e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi (cd. pro-rata
di
deducibilità
delle
spese
di
titoli
l’indeducibilità,
come
generali). Indeducibilità
della
remunerazione
partecipativi È
espressamente
componenti
negativi
prevista di
reddito,
di
qualsiasi
remunerazione dovuta (art. 109, comma 9, del TUIR):
tipo
di
su titoli e strumenti finanziari comunque denominati, per la quota di essa che direttamente o indirettamente comporti la partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale gli strumenti finanziari sono stati emessi; relativamente
ai
contratti
di
associazione
in
partecipazione e di cointeressenza, allorché sia previsto un apporto, totalmente o parzialmente, diverso da quello di opere e servizi. Forfetizzazioni Per determinati costi (per autoveicoli, telefonia ecc.), in considerazione della difficoltà per gli uffici di accertarne, in concreto, la loro inerenza, il TUIR predetermina percentuali di deducibilità ai fini del reddito di impresa, che hanno quindi il fine di evitare contenziosi tra Fisco e contribuenti e, quindi, tutelare la certezza dei rapporti tributari (Falsitta). Il principio della previa imputazione al conto economico I componenti negativi di reddito non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza. Si considerano,
tuttavia,
imputati
a
conto
economico
i
componenti imputati direttamente a patrimonio per effetto dei principi contabili adottati dall’imprese (art. 109, comma 4, del TUIR). In deroga al principio della previa imputazione al conto economico, sono tuttavia deducibili i componenti negativi:
imputati al conto economico di un esercizio precedente, se la deduzione è stata rinviata in conformità alle norme del TUIR che obbligano o consentono il rinvio (si pensi, ad esempio, alle spese di pubblicità); che pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili per espressa disposizione di legge (si pensi, ad esempio, agli utili corrisposti agli amministratori); specificamente afferenti ai ricavi ed agli altri proventi che, pur non risultando imputati al conto economico, concorrono a formare il reddito imponibile, se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi; pertanto, in sede di accertamento, l’ufficio può riconoscere all’impresa la deducibilità di costi “in nero”, purché oggettivamente individuabili, correlati a ricavi non dichiarati. Per
i
soggetti
che
applicano
i
principi
contabili
internazionali (soggetti IAS/IFRS), in deroga al citato principio della previa imputazione al conto economico, sono deducibili i costi: imputati direttamente a patrimonio per effetto di tali principi; sostenuti per l’avviamento e per i marchi d’impresa.
13.3.5 I ricavi Sono considerati ricavi i corrispettivi derivanti dalle cessioni di beni (beni-merce) e dalle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività
dell’impresa. Si tratta dei ricavi tipici, ossia derivanti dall’attività caratteristica dell’impresa (art. 85 del TUIR). Sono assimilati ai ricavi i corrispettivi delle cessioni di: materie prime e sussidiarie, di semilavorati e di altri beni mobili, esclusi quelli strumentali, acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione; attività finanziarie, quali azioni, quote di partecipazioni in soggetti IRES (anche non rappresentate da titoli), strumenti finanziari similari alle azioni, obbligazioni e altri titoli in serie o di massa, che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa. Indennità risarcitorie Costituiscono ricavi le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento di beni produttivi di ricavi. Si tratta, in sostanza, di un componente positivo sostitutivo di un’altra forma di ricavo. Diversamente, l’indennizzo origina una plusvalenza o una minusvalenza se percepito a fronte della perdita di beni strumentali o beni patrimoniali, a seconda che l’indennizzo sia maggiore o minore del valore fiscalmente riconosciuto del bene (art. 86, comma 1, lett. b), del TUIR). Tuttavia, nell’ipotesi in cui l’indennità sia imputata, per competenza, al conto economico di un esercizio successivo a quello nel quale è stata imputata la perdita del bene, essa origina una sopravvenienza attiva (art. 88, comma 2, del TUIR).
Contributi Costituiscono ricavi, e sono imputati all’esercizio in base al principio di competenza, i contributi in denaro, o il valore normale di quelli in natura, spettanti sotto qualsiasi denominazione in base a contratto ed i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio, a norma di legge (contributi pubblici in conto esercizio). Con riferimento ai contributi pubblici è essenziale la distinzione tra:
contributi in conto esercizio erogati con la finalità di integrare i ricavi della gestione caratteristica o delle gestioni accessorie (diverse da quella finanziaria) o di ridurre i relativi costi, i quali sono considerati ricavi e, conseguentemente, concorrono alla determinazione del reddito di impresa in base al principio di competenza (nell’esercizio in cui è sorto con certezza il diritto a percepirli
ed
il
loro
importo
è
determinabile
obiettivamente), indipendentemente dalla data in cui avviene l’effettivo incasso (art. 85, comma 1, lett. h), del TUIR); contributi
in
conto
impianti
erogati
per
la
realizzazione di iniziative dirette alla costruzione, alla riattivazione ed all’ampliamento di immobilizzazioni materiali, e commisurati al costo delle medesime, i quali concorrono alla determinazione del reddito di impresa in base al principio di competenza, in relazione alla durata
del periodo di ammortamento del cespite cui si riferiscono (art. 88, comma 3, lett. b), del TUIR); contributi in conto capitale la cui erogazione è genericamente
finalizzata
all’incremento
dei
mezzi
patrimoniali dell’impresa (e non è subordinata all’obbligo di acquistare un determinato bene ammortizzabile né è finalizzata ad integrare i ricavi d’esercizio), che sono considerati sopravvenienze attive; tali contributi, in deroga al principio di competenza, concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono stati incassati (principio di cassa) ovvero, a scelta del contribuente, in quote costanti nell’esercizio in cui sono stati incassati e nei successivi ma non oltre il quarto (art. 88, comma 3, lett. b), del TUIR). Autoconsumo Si comprende tra i ricavi il valore normale dei beni relativi all’impresa che siano assegnati ai soci ovvero destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (art. 85, comma 2, del TUIR).
13.3.6 Le rimanenze Le variazioni delle rimanenze finali, rispetto alle esistenze iniziali, dei beni che danno origine a ricavi (beni-merce), delle materie prime e sussidiarie, di semilavorati e di altri beni mobili (esclusi quelli strumentali), acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione, concorrono a formare il reddito dell’esercizio (art. 92, comma 1). Le rimanenze finali di
un esercizio costituiscono le esistenze iniziali dell’esercizio successivo (comma 7). La valutazione delle rimanenze è effettuata: per i beni infungibili, in base al loro costo specifico (di acquisto o produzione); per i beni fungibili, in base al loro costo specifico o, in alternativa, per categorie omogenee per natura e per valore. Ai fini della valutazione per categorie omogenee delle rimanenze di beni fungibili, qualora l’impresa adotti, ai fini civilistici, il metodo del costo medio ponderato, il metodo del “primo entrato primo uscito” (FIFO) ovvero il metodo dell’“ultimo entrato primo uscito” (LIFO), il valore delle rimanenze risultante dal bilancio d’esercizio assume rilevanza anche ai fini fiscali. Qualora invece l’impresa adotti un metodo diverso dai precedenti, il valore fiscale minimo delle rimanenze deve essere determinato mediante l’applicazione del metodo del LIFO a scatti annuali. Si ritiene (ADC 168/2007) che il criterio del valore minimo non trovi applicazione nel caso di valutazione delle rimanenze a costi specifici. I medesimi criteri valgono anche per le imprese IAS/IFRS (che però determinano il costo dei beni fungibili solo con i metodi della media ponderata e FIFO). I commercianti al minuto hanno la facoltà, utilizzando una specifica contabilità di magazzino, di valutare le rimanenze
in base al valore, anziché in base alle quantità (metodo del prezzo al dettaglio: art. 92, comma 8, del TUIR).
Svalutazione del magazzino Se in un esercizio il valore unitario medio dei beni, determinato in base ad uno dei criteri ammessi ai fini fiscali, è superiore al loro valore normale medio nell’ultimo mese dell’esercizio, l’impresa può valutare le rimanenze moltiplicando l’intera quantità dei beni, indipendentemente dall’esercizio di formazione, per il suddetto valore normale (art. 92, comma 5, del TUIR). Il minor valore attribuito alle rimanenze vale anche per gli esercizi successivi (anche se il valore normale dei beni aumenta), a condizione che le rimanenze non risultino iscritte nello stato patrimoniale del bilancio d’esercizio per un valore superiore.
Titoli La valutazione delle rimanenze di titoli, partecipazioni (azioni, quote ecc.) e obbligazioni, che non costituiscono immobilizzazioni, si effettua con i medesimi criteri previsti per i beni-merce, salvo particolari eccezioni (art. 94 del TUIR). Prodotti in corso di lavorazione La valutazione, al termine dell’esercizio, dei prodotti in corso di lavorazione e dei servizi in corso di esecuzione deve essere effettuata in base ai costi (specifici) sostenuti nell’esercizio (art. 92, comma 6, del TUIR). Opere di durata ultrannale
L’art. 93 del TUIR detta specifici criteri per la valutazione delle
rimanenze
di
opere,
forniture
e
servizi
contrattualmente pattuiti come oggetto unitario e con durata di esecuzione ultrannuale (lavori su commessa o in corso su ordinazione). Si tratta di opere, forniture e servizi che, per essere compiutamente realizzati, necessitano di un tempo superiore a 12 mesi, investendo, di conseguenza, almeno due periodi d’imposta; pertanto, i lavori su commessa di
durata
inferiore
all’anno,
anche
se
non
ultimati
nell’esercizio, sono valutati secondo il criterio previsto per i prodotti in corso di lavorazione (ossia in base ai costi sostenuti). In particolare, la valutazione delle citate rimanenze deve essere effettuata:
per la parte eseguita e non coperta da stati di avanzamento lavori, in base ai corrispettivi pattuiti, ossia in base ai corrispettivi (e, quindi, agli utili) che si possono considerare, secondo una stima ragionevole, proporzionalmente maturati in relazione ai lavori già svolti (cd. criterio della percentuale di completamento); a tal fine, i principi contabili nazionali indicano come preferibile l’adozione del metodo cost to cost (ossia del rapporto tra i costi sostenuti ed i costi totali stimati); per
la
parte
eseguita
e
coperta
da
stati
di
avanzamento, in base ai corrispettivi liquidati provvisoriamente.
13.3.7 Gli utili derivanti da partecipazioni societarie Partecipazioni in soggetti IRES In base all’art. 89, comma 2, del TUIR, gli utili derivanti da partecipazioni societarie in enti assoggettati ad IRES sono esclusi da imposizione nella misura del 95% del loro importo (sono tassati, quindi, nella misura del 5%). Gli utili derivanti dalla partecipazione ad enti non commerciali sono invece esenti nella misura del 22,26% (art. 1, comma 655, L. n. 190/2014), per cui sono tassati nella misura del 77,74%, con applicazione dagli utili messi in distribuzione dal 1-1-2014. La tassazione avviene nell’esercizio in cui i dividendi sono effettivamente
percepiti
(principio
di
cassa),
indipendentemente dall’esercizio in cui sono imputati a conto economico. I costi inerenti alla gestione delle suddette partecipazioni sono integralmente deducibili. In deroga ai suddetti criteri, per i soggetti IAS/IFRS sono interamente imponibili i dividendi derivanti da partecipazioni detenute per la negoziazione (art. 89, comma 2bis, del TUIR). Utili di stabili organizzazioni di imprese residenti L’art. 168ter del TUIR, introdotto dall’art. 14 del D.Lgs. n. 147/2015 a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 7-10-2015, consente alle imprese residenti in Italia di optare per l’esenzione degli utili e delle perdite attribuibili a tutte le proprie stabili organizzazioni all’estero (cd. branch exemption), da determinarsi in ogni caso con i
criteri di cui all’art. 152 del TUIR ed a specifiche condizioni di legge. Utili da società di persone Gli utili derivanti da partecipazioni in società di persone concorrono alla determinazione del reddito di impresa nell’esercizio di maturazione (sono imputati per trasparenza), indipendentemente dall’esercizio in cui sono incassati.
13.3.8 Gli utili derivanti da partecipazioni in società estere In generale, anche gli utili di fonte estera sono esclusi da imposizione nella misura del 95% del loro importo (art. 89, comma 3, del TUIR). Tuttavia, in deroga a tale regime: sono integralmente imponibili i dividendi relativi a partecipazioni in soggetti residenti localizzati in Stati o territori
a
regime
fiscale
privilegiato.
È
possibile
dimostrare, a seguito dell’esercizio della procedura di interpello,
che
dalle
partecipazioni
non
sia
stato
conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso, l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato; ove ne sussistono i presupposti, si applica la disciplina Controlled Foreign Companies (o CFC rules) che prevede, ai sensi dell’art. 167, comma 6, TUIR, come da ultimo sostituito dall’art. 4 D.Lgs. 142/2018, in attuazione degli artt. 7 e 8 direttiva 2016/1164/UE (cosiddetta direttiva ATAD – Anti Tax Avoidance Directive), a decorrere dal
periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31-122018 i redditi del soggetto controllato non residente sono imputati al soggetto residente in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili. In caso di partecipazione indiretta i redditi sono imputati ai soggetti residenti o alle stabili organizzazioni presenti nel territorio dello Stato di soggetti non residenti, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione.
13.3.9 Le plusvalenze patrimoniali Le plusvalenze patrimoniali sono componenti positivi che derivano dalla cessione di beni diversi dai beni-merce (che originano ricavi d’esercizio) (art. 86 del TUIR). Pertanto, concorrono a formare il reddito imponibile le plusvalenze derivanti da beni strumentali e da beni patrimoniali se: sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso; sono realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento dei citati beni; i beni vengono assegnati ai soci ovvero sono destinati a finalità
estranee
all’esercizio
dell’impresa
autoconsumo). La plusvalenza emerge se il corrispettivo conseguito dall’impresa a fronte della vendita del bene (o risarcimento conseguito o valore normale per i beni assegnati), al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, è superiore al suo costo fiscalmente riconosciuto (pari al costo di
(cd.
acquisto o produzione non ancora ammortizzato). In caso contrario, per l’impresa si configura una minusvalenza. Nell’ipotesi di cessione di beni per i quali sono previsti limiti di deducibilità (ad esempio, mezzi di trasporto), la plusvalenza
(o
la
minusvalenza)
partecipa
alla
determinazione del reddito in misura pari al rapporto tra ammortamenti
fiscalmente
dedotti
e
ammortamenti
complessivamente effettuati.
Rateizzazione Per i beni posseduti da almeno 3 anni è prevista la facoltà, limitatamente alle plusvalenze realizzate, in alternativa alla tassazione integrale nell’esercizio di realizzo, di farle concorrere alla determinazione del reddito di impresa in quote
costanti,
nell’esercizio
di
competenza
e
nei
successivi, ma non oltre il quarto, mediante opzione da esercitare nella dichiarazione dei redditi. Irrilevanza delle plusvalenze iscritte Sono fiscalmente irrilevanti le plusvalenze iscritte in bilancio ai soli fini contabili (cd. plusvalenze da valutazione o rivalutazioni); pertanto, le stesse non sono imponibili (l’impresa dovrà operare, per il loro importo, una variazione in diminuzione in dichiarazione dei redditi) e, inoltre, non incrementano il valore fiscalmente riconosciuto dei beni rivalutati. Fanno eccezione i casi in cui la rivalutazione sia avvenuta in applicazione di norme che consentono l’ammortamento dei maggiori valori iscritti.
Inoltre, in deroga al citato principio generale assumono rilevanza:
le plusvalenze iscritte su titoli obbligazionari (iscritti tra le immobilizzazioni
o
tra
l’attivo
circolante),
fino
a
concorrenza delle minusvalenze iscritte dedotte; per i soggetti IAS/IFRS, le plusvalenze relative a titoli obbligazionari (iscritti tra l’attivo non corrente o tra l’attivo corrente) imputate a conto economico.
13.3.10 Le plusvalenze esenti L’art. 87 del TUIR prevede, per le società di capitali e gli enti
commerciali
residenti,
l’esenzione
(participation
exemption o PEX), nella misura del 95% del loro ammontare, delle
plusvalenze
derivanti
dalla
cessione
di
partecipazioni in società soggette ad IRES, residenti o non residenti in Italia, in società di persone commerciali e di quote e strumenti finanziari assimilati alle azioni, al verificarsi di determinate condizioni. In particolare, per qualificarsi come partecipazioni
esenti
è
necessaria
la
contemporanea
sussistenza di quattro requisiti; i primi due, di carattere soggettivo, sono relativi al periodo di possesso ed alla classificazione in bilancio della partecipazione da parte del cedente; gli altri due, di carattere oggettivo, sono relativi alla residenza fiscale ed all’attività svolta dalla partecipata. Il 5% della plusvalenza che concorre alla determinazione dell’imponibile IRES non è rateizzabile.
L’esenzione delle plusvalenze su partecipazioni non è un’agevolazione, ma risponde ad esigenze sistematiche, connesse allo scopo di impedire la doppia imposizione economica dei redditi prodotti dalle società di capitali. Le partecipazioni devono essere state ininterrottamente possedute dal 1° giorno del 12° mese precedente a quello della loro cessione (holding period). Nel caso di partecipazioni acquistate in tempi diversi, si considerano cedute per prime quelle acquisite in data più recente (criterio LIFO). Tale requisito è richiesto anche per le società di nuova costituzione per le quali, quindi, questo requisito non può configurarsi nel primo anno di vita. Le partecipazioni devono essere state classificate, nel primo bilancio d’esercizio chiuso durante il periodo di possesso, nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie. La società o ente partecipato deve essere residente fiscalmente o localizzato in Stati o territori diversi da quelli a regime fiscale privilegiato individuati in base ai criteri di cui all’art. 47bis, comma 1, TUIR o dimostrare, anche a seguito dell’esercizio dell’interpello, che il livello nominale di tassazione in esso applicato non sia inferiore al 50% di quello applicabile in Italia. La
società
partecipata
deve
esercitare
un’impresa
commerciale secondo la definizione dell’art. 55 del TUIR, ossia deve svolgere un’attività che dia luogo a reddito di impresa. Tale requisito deve sussistere ininterrottamente almeno dall’inizio del 3° periodo di imposta antecedente
alla cessione della partecipazione ovvero, se la partecipata è stata
costituita
successivamente,
dalla
sua
data
di
costituzione. Senza possibilità di prova contraria, si presume che questo requisito non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa, dagli impianti e dai fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio d’impresa.
Si
considerano
direttamente
utilizzati
nell’esercizio d’impresa gli immobili concessi in locazione finanziaria e i terreni su cui la società partecipata svolge l’attività agricola. Per le partecipazioni in società la cui attività consiste, in via esclusiva o prevalente, nell’assunzione di partecipazioni (holding), i requisiti della residenza fiscale e dello svolgimento di attività commerciale della partecipata si riferiscono alle società indirettamente partecipate e si verificano quando tali requisiti sussistono nei confronti delle partecipate che rappresentano la maggior parte del valore del patrimonio sociale della holding. Chiarimenti sono stati forniti in merito dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 7/E del 2013.
I costi connessi alle partecipazioni cedute in regime di esenzione e gli oneri accessori di diretta imputazione sostenuti per la cessione sono deducibili nella stessa misura in cui è tassata la plusvalenza, ossia nella misura del 5% del loro ammontare (art. 109, comma 5, del TUIR).
13.3.11 I proventi immobiliari I proventi immobiliari sono quelli derivanti dagli immobili facenti parte del patrimonio dell’impresa, i quali si possono distinguere in: immobili-merce, ossia immobili al cui scambio o produzione è diretta l’attività dell’impresa (si tratta degli immobili delle società immobiliari di costruzione e di compravendita), i quali partecipano alla determinazione del reddito di impresa, analogamente agli altri beni-merce, con il sistema “costi, ricavi e rimanenze”; immobili
strumentali,
destinazione,
per
all’esercizio
natura
d’impresa,
o i
per quali
partecipano alla determinazione del reddito di impresa mediante le quote di ammortamento; in caso di cessione, gli stessi originano plusvalenze o minusvalenze; immobili
(meramente)
patrimoniali,
ossia
gli
immobili diversi dai precedenti (si tratta degli immobili ad uso abitativo, classificabili nella categoria catastale A, esclusi gli A/10), i quali partecipano alla determinazione del reddito di impresa mediante i criteri previsti per i redditi fondiari, indipendentemente dai costi e dai ricavi (ad essi relativi) imputati al conto economico; in caso di dismissione,
tuttavia,
essi
originano
plusvalenze
minusvalenze. In particolare, per gli immobili patrimoniali (art. 90 del TUIR) è previsto che:
o
il concorso all’imponibile dell’esercizio avvenga per un importo corrispondente al maggiore tra la rendita catastale (rivalutata del 5%) ed il canone di locazione (ridotto delle spese di manutenzione ordinaria fino al limite del 15% del canone stesso); nel caso di immobili non locati la rendita è aumenta di 1/3; siano indeducibili le quote di ammortamento, le spese di manutenzione
straordinaria
(ristrutturazione,
restauro ecc.) e di gestione; siano deducibili gli interessi passivi (secondo i limiti previsti dall’art. 96 del TUIR) relativi a finanziamenti stipulati specificamente per il loro acquisto o per la loro costruzione (sono invece indeducibili gli interessi di funzionamento); tuttavia, per le società immobiliari di gestione
sono
deducibili
integralmente,
senza
l’applicazione dei limiti dell’art. 96 del TUIR, gli interessi passivi relativi a finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati alla locazione (art. 1, commi 35 e 36, della L. n. 244/2007).
13.3.12 Le sopravvenienze attive Le sopravvenienze attive sono componenti positivi di reddito che hanno la funzione di rettificare (e, quindi, far concorrere alla determinazione del reddito imponibile) componenti negativi di reddito dedotti in esercizi precedenti, in quanto costi di competenza dei suddetti esercizi (Vasapolli). Pertanto
è
stato
osservato
come
lo
strumento
delle
sopravvenienze attive non possa essere adoperato per rimediare a violazioni del principio di competenza (Falsitta). Ai sensi dell’art. 88, comma 1, del TUIR si considerano sopravvenienze attive proprie (o tecniche o in senso stretto): i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi; i ricavi o altri proventi conseguiti per un ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi; la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi (non sono pertanto imponibili le sopravvenienze attive rilevate a fronte di costi non dedotti nei precedenti esercizi). Sopravvenienze attive assimilate Costituiscono inoltre sopravvenienze attive improprie (o assimilate) quelle derivanti da eventi estranei alla gestione caratteristica dell’impresa (art. 88, comma 3, del TUIR), quali: le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di danni diversi da quelli connessi alla perdita di beni dell’impresa (ad esempio, per la perdita dell’avviamento commerciale); i proventi, in denaro o in natura, conseguiti a titolo di contributo o di liberalità (cd. contributi in conto capitale);
il valore normale del bene nel caso di cessione del contratto di leasing finanziario. Esclusioni Non si considerano sopravvenienze attive, e di conseguenza non sono imponibili: i versamenti in denaro o in natura a fondo perduto o in conto capitale ricevuti dalla società dai propri soci, nonché gli apporti effettuati dai possessori di strumenti similari alle azioni (art. 88, comma 4, del TUIR). Si tratta dei cd. conferimenti atipici (Lupi). La rinuncia dei soci ai crediti è considerata sopravvenienza attiva e quindi assoggettata ad imposizione, per la parte eccedente il relativo valore fiscale (art. 88, comma 4bis, del TUIR, introdotto dall’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 147/2015); le riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo (art. 88, comma 4ter, del TUIR, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 549, della L. 232/2016 - Legge di bilancio 2017). Le riduzioni di debiti in sede di accordi di ristrutturazione e di piani attestati di risanamento vengono considerate sopravvenienze attive solo in parte. La detassazione parziale è riconosciuta anche alle riduzioni di debiti in sede di concordato di risanamento e procedure estere equivalenti previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni.
13.3.13 Gli interessi attivi
Gli interessi attivi concorrono alla determinazione del reddito di impresa per l’importo proporzionalmente maturato nell’esercizio, in applicazione del principio di competenza (art. 89, comma 6, e art. 109, comma 1, del TUIR), ad eccezione degli interessi di mora, che sono tassati nell’esercizio in cui sono percepiti, in base al criterio di cassa (art. 109, comma 7, del TUIR). Se la misura degli interessi non è determinata per iscritto, gli stessi si computano al tasso legale.
13.3.14 Le spese per prestazioni di lavoro Le spese sostenute, in denaro o in natura, per prestazioni di lavoro dipendente (salari, stipendi, contributi previdenziali ecc.) sono integralmente deducibili, indipendentemente dalla loro tassazione in capo al dipendente, anche se a titolo di liberalità, ossia non sostenuti in adempimento di obblighi contrattuali (art. 95 del TUIR). Sono tuttavia indeducibili le seguenti liberalità:
i canoni di locazione e le spese relative al funzionamento di strutture recettive, ad esclusione di quelle per i servizi di mensa destinate alla generalità dei dipendenti e per servizi di alloggio destinati a dipendenti in trasferta temporanea; i canoni di locazione e le spese relative a fabbricati concessi in uso ai dipendenti, salvo che per un importo pari a quello che costituisce reddito in capo ai dipendenti; le spese sostenute volontariamente per opere e servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti ed aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, culto, assistenza
sociale e sanitaria, per l’importo eccedente il 5 per mille del totale delle spese per prestazioni di lavoro dipendente dell’esercizio. Trasferte I rimborsi delle spese di vitto, alloggio e trasporto da parte dell’impresa, a favore dei dipendenti che le hanno sostenute in occasione
di
trasferte,
sono
deducibili
entro
limiti
prestabiliti. In particolare i rimborsi:
analitici (a piè di lista) per prestazioni alberghiere e di ristorazione sono deducibili nel limite del 75% del loro ammontare se sostenute nel Comune di sede dell’impresa (art. 109, comma 5, del TUIR) ovvero, se sostenute al di fuori del Comune di sede dell’impresa, nel limite giornaliero di euro 180,76, se la trasferta è effettuata in Italia, o nel limite giornaliero di euro 258,23, se la trasferta è effettuata all’estero; forfetari e misti per spese di vitto e alloggio sono integralmente deducibili; chilometrici sono deducibili nei limiti del costo di percorrenza (desumibile dalle tariffe ACI) o delle tariffe di noleggio relativi ad automezzi di potenza non superiore, rispettivamente, a 17 o 20 cavalli fiscali, a seconda che si tratti di autoveicoli con motore a benzina o diesel; dei
biglietti
deducibili.
di
viaggio
sono
integralmente
Compensi agli amministratori I compensi spettanti agli amministratori delle società sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti (principio di cassa), indipendentemente dall’esercizio in cui tali costi sono imputati, in base al principio di competenza, al conto economico. In deroga ai principi generali, sono deducibili i compensi
agli
amministratori
erogati
sotto
forma
di
partecipazione agli utili, anche se non imputati a conto economico (art. 95, comma 5, del TUIR).
13.3.15 La deducibilità degli interessi passivi Gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati, compresi quelli capitalizzati nel costo dei beni ai sensi dell’art. 110 TUIR, sono deducibili in ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza dell’ammontare complessivo degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di competenza del periodo d’imposta e degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati riportati da periodi d’imposta precedenti (art. 96 TUIR, come sostituito dall’art. 1 D.Lgs. 142/2018). L’eccedenza degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati rispetto al suddetto ammontare complessivo degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati è deducibile nel limite dell’ammontare risultante dalla somma tra il 30% del risultato operativo lordo (ROL) della gestione caratteristica del periodo d’imposta e il 30% del risultato operativo lordo della gestione
caratteristica
precedenti.
riportato
da
periodi
d’imposta
L’articolo
specifica
che
deve
essere
utilizzato
prioritariamente il 30% del ROL del periodo d’imposta e successivamente il 30% del ROL riportato da periodi d’imposta precedenti, a partire dal più remoto. Per risultato operativo lordo (ROL) si intende la differenza tra il valore ed i costi della produzione di cui all’art. 2425, lett. A) e B), c.c., assunti nella misura risultante dall’applicazione
delle
disposizioni
volte
alla
determinazione del reddito di impresa. Dunque, in luogo del ROL contabile, nella nuova disciplina viene assunto il ROL fiscale. Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali si assumono le voci di conto economico corrispondenti.
Interessi rilevanti La disciplina in commento trova applicazione agli interessi passivi e attivi, nonché agli oneri e proventi finanziari ad essi assimilati qualificati come tali dai principi contabili adottati dall’impresa. Inoltre, gli interessi devono derivare da un’operazione o da un rapporto contrattuale che, in quanto tali, hanno causa finanziaria o che, pur non avendo causa finanziaria,
contengano
comunque
una
componente
di
finanziamento significativa. Inoltre, assumono rilevanza come interessi attivi o passivi anche i proventi e oneri che, pur derivando da strumenti rappresentativi di capitale, sono integralmente imponibili o
deducibili in capo al percettore o all’erogante. Gli interessi attivi assumono rilevanza nella misura in cui sono imponibili. Per i soggetti operanti con la pubblica amministrazione si considerano interessi attivi rilevati anche gli interessi legali di mora. Riporto in avanti degli interessi indeducibili e delle eccedenze di ROL Gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati che, per effetto delle suddette disposizioni, risultano indeducibili in un determinato periodo d’imposta sono dedotti dal reddito dei successivi
periodi
d’imposta,
per
un
ammontare
pari
all’eventuale differenza positiva tra la somma degli interessi attivi e dei proventi finanziari assimilati di competenza del periodo d’imposta e del 30% del ROL della gestione caratteristica e gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati di competenza del periodo d’imposta. Qualora in un periodo d’imposta l’importo degli interessi attivi e dei proventi finanziari assimilati di competenza risulti superiore alla somma tra gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati di competenza e gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati riportati da periodi d’imposta precedenti, l’eccedenza può essere riportata nei periodi d’imposta successivi. Se in un periodo d’imposta il 30% del ROL è superiore alla somma tra l’eccedenza degli interessi passivi ed oneri finanziari assimilati rispetto agli interessi attivi e proventi finanziari assimilati e l’importo degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati riportati da periodi d’imposta
precedenti, la quota eccedente può essere portata a incremento del ROL dei successivi 5 periodi d’imposta. Deroghe alla disciplina ordinaria La disciplina in oggetto non trova applicazione: agli interessi passivi relativi a prestiti utilizzati per finanziare un progetto infrastrutturale pubblico a lungo termine, a determinate condizioni; agli intermediari finanziari, alle imprese di assicurazione e alle società capogruppo di gruppi assicurativi. Gli interessi passivi sostenuti dalle imprese di assicurazione e dalle società capogruppo di gruppi assicurativi, dalle società di gestione dei fondi comuni d’investimento e dalle società di intermediazione mobiliare di cui al D.Lgs. 58/1998 sono deducibili nei limiti del 96% del loro ammontare.
13.3.16 Gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale Oneri fiscali L’art. 99 del TUIR sancisce l’indeducibilità dei seguenti oneri fiscali: imposte sui redditi (IRES ed IRPEF), imposte per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa (si pensi, ad esempio, all’IVA) e imposte qualificate come indeducibili dal legislatore (come, ad esempio, l’IMU relativa agli immobili non strumentali). È deducibile l’IRAP pagata (a titolo di saldo e acconto) nel periodo di imposta, relativa alla quota imponibile delle spese per il personale dipendente, al netto delle deduzioni spettanti
(art. 2 del D.L. n. 201/2011, conv., con modif., in L. n. 214/2011). Se l’impresa ha inoltre sostenuto interessi passivi, è altresì deducibile il 10% dell’IRAP residua. Il comma 4 della legge di bilancio 2020 (L. 27-12-2019, n. 160), sostituendo l’art. 3 del D.L. 34/2019 (cd. Decreto crescita) in tema di deducibilità dell’IMU relativa agli immobili strumentali, stabilisce la deducibilità dell’IMU nella misura del 50% nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2018 (pertanto nell’anno 2019), confermando quanto previsto a legislazione vigente. Si ricorda che
l’art.
3
del
D.L.
34/2019
ha
progressivamente
incrementato la percentuale deducibile dal reddito d’impresa e dal reddito professionale dell’IMU dovuta sui beni strumentali, sino a raggiungere la totale deducibilità dell’imposta a regime, ovvero a decorrere dal 2023 (più precisamente, dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2022). Sulla disciplina della deducibilità IMU è intervenuto, inoltre, il comma 772 della stessa L. 160/2019 che dispone, a decorrere dal 2020, la deducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali dal reddito di impresa e dal reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni. Il successivo comma 773, stabilisce, in via transitoria, che la deduzione si applichi nella misura del: 60% per gli anni 2020 e 2021 (ovvero per i periodi d’imposta successivi a quello in corso, rispettivamente, al 31-12-2019 e al 31-12-2020); 100% a decorrere dal 2022, ovvero dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31-12-2021.
I tributi diversi da quelli qualificati espressamente come indeducibili dalla legge sono deducibili nell’esercizio in cui sono pagati, secondo il principio di cassa (sono quindi deducibili: l’imposta di registro, l’imposta ipotecaria e l’imposta catastale). In particolare, l’IVA non detratta costituisce un componente negativo di reddito deducibile ai fini del reddito di impresa. In dettaglio:
l’IVA indetraibile oggettivamente (per destinazione o per effetto dell’esercizio dell’opzione per la dispensa degli adempimenti) costituisce un onere accessorio di diretta imputazione che accresce il costo del bene o servizio cui afferisce (se riguarda un bene strumentale, quindi, ne incrementa il costo ammortizzabile); l’IVA indetraibile per effetto del pro-rata di detraibilità costituisce un costo d’esercizio. Oneri contributivi I contributi ad associazioni sindacali e di categoria sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti (principio di cassa), se e nella misura in cui sono dovuti in base a formale deliberazione dell’associazione (art. 99, comma 3, del TUIR). Oneri di utilità sociale Gli oneri di utilità sociale consistono in erogazioni liberali, in denaro o in natura, che, in quanto costi privi di inerenza, sono generalmente indeducibili. Tuttavia, il legislatore ne ammette la deduzione entro precisi limiti (art. 100 del TUIR).
13.3.17 Le minusvalenze patrimoniali Le minusvalenze patrimoniali sono componenti negativi che derivano dalla vendita di beni diversi dai beni-merce, ossia dalla vendita di beni strumentali e beni patrimoniali. Esse sono deducibili integralmente se realizzate mediante cessione a titolo oneroso, ovvero mediante risarcimento per perdita o distruzione del bene (art. 101, comma 1, del TUIR). Non sono deducibili, quindi, le minusvalenze: soltanto iscritte in bilancio (cd. minusvalenze da valutazione); da autoconsumo (ossia derivanti dall’assegnazione dei beni ai soci o dalla loro destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa). La minusvalenza emerge se il corrispettivo conseguito dall’impresa a fronte della vendita del bene (o risarcimento conseguito), al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, è inferiore al loro costo fiscalmente riconosciuto (pari al costo di acquisto o produzione non ancora ammortizzato).
Minusvalenze su partecipazioni Per esigenze di simmetria (Falsitta), le minusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni che hanno i requisiti per fruire dell’esenzione (partecipazioni PEX) sono integralmente indeducibili; sono integralmente deducibili, invece, se derivano dalla cessione di partecipazioni che non hanno i requisiti PEX.
Al fine di contrastare il fenomeno del dividend washing, che consiste nell’acquisto di una partecipazione con utili pregressi accantonati, nella successiva distribuzione di tali utili (imponibili al 5%) e nella cessione della partecipazione ad un corrispettivo inferiore a quello di acquisto, al fine di beneficiare della minusvalenza deducibile, è stabilita l’indeducibilità
delle
partecipazioni,
fino
minusvalenze a
concorrenza
da
cessione
dell’importo
di dei
dividendi non imponibili percepiti nei 36 mesi precedenti alla
cessione.
Tuttavia,
è
possibile
richiedere
la
disapplicazione di tale normativa antielusiva presentando apposita istanza di interpello ai sensi del comma 2 dell’art. 11 della L. n. 212/2000 (art. 109, comma 3bis, del TUIR).
Svalutazione delle partecipazioni Ai sensi dell’art. 101, comma 2, del TUIR, le minusvalenze (soltanto
iscritte)
derivanti
dalla
valutazione
delle
partecipazioni (cd. svalutazione delle partecipazioni) e delle altre immobilizzazioni finanziarie sono sempre fiscalmente irrilevanti, anche se derivanti dall’applicazione del metodo del patrimonio netto. In deroga al citato principio, sono interamente deducibili le minusvalenze derivanti dalla svalutazione di obbligazioni (costituenti immobilizzazioni finanziarie), a condizione che siano
imputate
al
conto
economico
del
bilancio
dell’esercizio per un importo non superiore alla differenza tra il loro valore fiscalmente riconosciuto ed il valore determinato dalla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo semestre per i titoli quotati, ovvero dal valore
derivante dal raffronto con titoli di analoghe caratteristiche per i titoli non quotati. Per i soggetti IAS/IFRS le svalutazioni (e le rivalutazioni), derivanti
dalla
valutazione
delle
immobilizzazioni
finanziarie, imputate al conto economico:
sono fiscalmente irrilevanti nel caso di titoli partecipativi; concorrono alla determinazione del reddito imponibile nel caso di obbligazioni. Perdite da società di persone Le perdite attribuite per trasparenza dalle società di persone commerciali (s.n.c. e s.a.s.) sono utilizzabili solo in abbattimento degli utili attribuiti per trasparenza, come modificato dall’art. 1, comma 23, L. 145/2018, a decorrere dal 1-1-2018 dalla stessa società che ha generato le perdite (art. 101, comma 6, TUIR). La norma ha una ratio antielusiva, in quanto ha lo scopo di evitare la cd. trasformazione dei flussi di interessi passivi in flussi di perdite da partecipazione, ossia che la società controllante
(soggetta
l’indebitamento
(del
ad gruppo
IRES)
indirizzi
economico)
tutto
presso
la
controllata, al fine di usufruire del più vantaggioso regime di deducibilità degli interessi previsto per le società di persone, e, quindi, deduca dal proprio reddito le perdite fiscali formatesi presso la partecipata.
13.3.18 Le sopravvenienze passive
Ai fini IRES sono deducibili le sopravvenienze passive per (art. 101, comma 4, del TUIR): il mancato conseguimento di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi; il sostenimento di spese, perdite od oneri a fronte di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi; la sopravvenuta insussistenza di attività iscritte in bilancio in precedenti esercizi diverse dalle partecipazioni con i requisiti PEX.
13.3.19 Le perdite di beni L’art. 101, comma 5, del TUIR disciplina la deducibilità delle perdite di beni strumentali e di beni patrimoniali, ossia dei beni diversi dai beni-merce e dalle partecipazioni PEX, la quale è ammessa: per un importo corrispondente al valore fiscalmente riconosciuto (costo non ammortizzato) dei beni; a condizione che la perdita risulti da elementi certi e precisi. Tali perdite possono derivare, ad esempio, dal perimento fisico del bene materiale (dovuto ad eventi accidentali: furti, incendi
ecc.)
ovvero,
nel
caso
dall’estinzione di un diritto (Falsitta).
13.3.20 Le perdite su crediti
di
beni
immateriali,
Le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano attestato di risanamento o è assoggettato a procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni (art. 101, comma 5, del TUIR, come da ultimo modificato dall’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 147/2015). Gli elementi certi e precisi si ritengono esistenti, in ogni caso, se congiuntamente: il credito è di modesta entità, ossia è di importo non superiore a 2.500 euro ovvero non superiore a 5.000 euro per le imprese di dimensioni più rilevanti (ossia le imprese che hanno ricavi maggiori ai 100 milioni di euro); sia decorso un periodo di 6 mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso. Gli elementi certi e precisi, inoltre, si ritengono sussistenti: quando
il
diritto
alla
riscossione
del
credito
è
prescritto; per i soli soggetti che applicano i principi contabili nazionali, nell’ipotesi di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in nel rispetto dei principi contabili stessi. Le perdite relative a crediti di modesta entità e vantati nei confronti di debitori che siano assoggettati a procedure concorsuali o a procedure estere equivalenti o abbiano
concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano attestato di risanamento sono ammesse in deduzione anche in periodi di imposta successivi a quelli in cui sussistono elementi certi e precisi ovvero il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale (momenti dai quali sorge il diritto a portare in deduzione tali perdite), purché non oltre l’esercizio in cui si provvede alla cancellazione del credito dal bilancio in applicazione dei corretti principi contabili (art. 101, comma 5bis, del TUIR, introdotto dall’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 147/2015). Inoltre, il comma 3 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 147/2014 stabilisce che le svalutazioni contabili dei crediti indicati nel comma 5bis dell’art. 101 eventualmente non dedotte nei periodi di imposta in cui sussistono elementi certi e precisi ovvero il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale, sono comunque deducibili nell’esercizio in cui si provvede alla cancellazione del credito dal bilancio in applicazione dei principi contabili.
Se in precedenza sono stati dedotti accantonamenti per rischi su crediti, l’impresa deve prioritariamente utilizzare, a copertura della perdita su crediti manifestatasi, il fondo rischi accantonato (avente natura di fondo non tassato) e può dedurre la perdita solo per la sua (eventuale) eccedenza sul fondo.
13.3.21 Le spese pluriennali
La deducibilità di alcune spese relative a più esercizi (spese pluriennali), la cui utilità non si esaurisce in un solo periodo di imposta e che sono caratterizzate da maggior indeterminatezza
rispetto
alle
altre
immobilizzazioni
immateriali, è oggetto di specifica disciplina. Esse sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio (art. 108, comma 1, del TUIR, come sostituito dall’art. 13bis, comma 2, del D.L. n. 244/2016, conv., con modif., in L. n. 19/2017). Le spese pluriennali sostenute dalle imprese di nuova costituzione, comprese le spese di impianto, sono deducibili a partire dall’esercizio in cui sono conseguiti i primi ricavi (art. 108, comma 4, del TUIR).
Spese per studi e ricerche Le quote di ammortamento dei beni acquisiti in esito agli studi e alle ricerche sono calcolate sul costo degli stessi diminuito dell’importo già dedotto. Per i contributi corrisposti a norma di legge dallo Stato o da altri enti pubblici a fronte dei costi relativi a studi e ricerche trova applicazione l’art. 88, comma 3, del TUIR (art. 108, comma 3, del TUIR). Le spese di rappresentanza Le spese di rappresentanza sono deducibili, nel periodo di imposta di sostenimento, se rispondenti ai requisiti di inerenza stabiliti con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle spese stesse (art. 108, comma 2, del TUIR, come sostituito dall’art. 9 del D.Lgs. n. 147/2015).
Le
percentuali
di
deducibilità
sono
commisurate
all’ammontare dei ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa allo stesso periodo e, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del D.Lgs. n. 147/2015, possono essere modificate dal suddetto decreto ministeriale. L’eventuale eccedenza è indeducibile e non recuperabile in futuro. Le spese per l’acquisto di beni distribuiti gratuitamente (omaggi) di valore unitario non superiore a 50 euro sono sempre deducibili integralmente e non rilevano ai fini del calcolo del plafond di deducibilità.
13.3.22 I costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti situati in paradisi fiscali La Legge di Stabilità 2016 (L. n. 208/2015), con l’art. 1, commi 142-147, ha modificato la deducibilità dei costi sostenuti in relazione ad operazioni con i cd. Paesi black list eliminando la disciplina speciale della deducibilità dei costi sostenuti per operazioni intercorse con soggetti operanti in Stati a regime fiscale privilegiato dettata dai commi da 10 a 12bis dell’art. 110 del TUIR. Conseguentemente, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31-122015, a tali componenti si applicano le norme generali sulla deducibilità dei costi stabilite nei restanti commi dell’art. 110.
13.3.23 L’ammortamento dei beni strumentali L’ammortamento è quel procedimento tecnico-contabile che serve a ripartire, secondo il principio di competenza economica, il costo di beni, materiali e immateriali, strumentali
all’esercizio
d’impresa,
impiegati
nel
ciclo
produttivo di più esercizi (beni a fecondità ripetuta). Con l’ammortamento, quindi, si imputa a ciascun esercizio la frazione del costo pluriennale (bene ammortizzabile) deducibile in tale esercizio, al fine di evitare che tale costo incida solo sull’esercizio di acquisto del bene. Non è possibile
procedere
all’ammortamento
dei
terreni,
trattandosi di beni non suscettibili di deperimento (se il valore dei terreni sui quali insistono fabbricati non è indicato autonomamente in bilancio, si presume pari al 20% del costo complessivo, ovvero al 30% nel caso di fabbricato industriale).
L’ammortamento dei beni materiali Le quote di ammortamento dei beni materiali sono deducibili in misura non superiore a quella risultante dall’applicazione dei coefficienti stabiliti dal D.M. 31-121988, previsti per categorie di beni omogenei, in base al normale periodo di deperimento e consumo nei vari settori produttivi (art. 102, comma 2, del TUIR). L’ammortamento dei beni immateriali L’ammortamento dei beni immateriali, effettuabile a decorrere dall’esercizio di acquisto del relativo diritto, è
disciplinato diversamente in relazione alle varie tipologie di beni immateriali (art. 103 del TUIR).
13.3.24 I costi per beni in leasing Leasing finanziario I criteri di deducibilità dei canoni di leasing finanziario sostenuti dall’impresa utilizzatrice dei beni strumentali dipendono dalle modalità di contabilizzazione adottate per i citati costi. In particolare, in base all’art. 102, comma 7, del TUIR (come modificato dalla L. n. 147/2013, con applicazione ai contratti stipulati dal 1-1-2014), nel caso in cui l’impresa utilizzatrice adotti il metodo patrimoniale (principi contabili nazionali), la stessa può dedurre i canoni di competenza di ciascun esercizio, a prescindere dalla durata contrattuale prevista, in un periodo non inferiore:
alla metà del periodo di ammortamento derivante dall’applicazione del coefficiente ordinario per i beni mobili; a 12 anni, per i beni immobili; al periodo di ammortamento ordinario (generalmente 48 mesi), per i mezzi di trasporto. Diversamente, nel caso in cui l’impresa utilizzatrice adotti il metodo finanziario (soggetto IAS/IFRS), la stessa può dedurre l’ammortamento dei beni e gli interessi passivi imputati al conto economico (in tal caso l’acquisizione del
bene in leasing è assimilata all’acquisto vero e proprio); è irrilevante la durata minima del contratto. L’impresa concedente (società di leasing), obbligata all’adozione dei principi contabili IAS/IFRS e, quindi, del metodo finanziario, assoggetta ad imposizione gli interessi attivi imputati a conto economico.
Lease-back Il contratto di lease-back origina componenti reddituali riconducibili alle due operazioni, vendita e leasing finanziario, in cui esso è astrattamente scomponibile. Leasing operativo, affitto e usufrutto Nel caso di bene acquisito in base ad un contratto leasing operativo, affitto ed usufrutto, gli ammortamenti sono deducibili dall’impresa concedente. Tuttavia se il contratto ha ad oggetto un’azienda (non quindi un singolo bene) gli ammortamenti sono deducibili dall’impresa utilizzatrice, salvo diversa previsione contrattuale (art. 102, comma 8, del TUIR). Ammortamento finanziario Per i beni gratuitamente devolvibili alla scadenza di una concessione, in luogo dell’ammortamento ordinario, è consentita la deduzione di quote costanti di ammortamento finanziario, determinate dividendo il costo dei beni, diminuito degli eventuali contributi del concedente, per il numero degli anni di durata della concessione, considerando tali anche le frazioni (art. 104 del TUIR). In caso di modifica della durata della concessione, la quota deducibile è proporzionalmente ridotta o aumentata a partire
dall’esercizio in cui la modifica è stata convenuta. In caso di incremento o di decremento del costo dei beni, per effetto di sostituzione a costi superiori o inferiori, di ampliamenti, ammodernamenti o trasformazioni, di perdite e di ogni altra causa, la quota di ammortamento finanziario deducibile è rispettivamente
aumentata
o
diminuita,
a
partire
dall’esercizio in cui si è verificato l’incremento o il decremento, in misura pari al relativo ammontare diviso per il numero dei residui anni di durata della concessione.
13.3.25 Le spese relative ai mezzi di trasporto I
costi
relativi
ai
mezzi
di
trasporto
(quote
di
ammortamento, canoni di leasing, carburante, spese di manutenzione, assicurazione RCA ecc.) hanno un regime di deducibilità variabile in ragione della funzione assolta dai veicoli nell’attività d’impresa (art. 164 del TUIR, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 501, della L. n. 228/2012). Deducibilità integrale Sono deducibili integralmente i costi relativi a: veicoli utilizzati esclusivamente come strumentali nell’attività propria dell’impresa, veicoli adibiti ad uso pubblico con atto
della
pubblica
amministrazione
(taxi),
autobus,
autocarri (ossia veicoli destinati al trasporto di cose e delle persone addette all’uso o al trasporto delle cose stesse) e simili (autotreni, autoarticolati, trattori stradali ecc.), ed autoveicoli per uso speciale (autoambulanze, autofunebri ecc.). Si
considerano veicoli utilizzati esclusivamente come beni strumentali nell’attività propria dell’impresa, i veicoli senza i quali l’attività dell’impresa non può essere esercitata, ossia che la caratterizzano in modo indispensabile (impresa di noleggio auto, scuola guida ecc.). Deducibilità limitata I costi per mezzi di trasporto utilizzati in modo non esclusivamente strumentale nell’attività d’impresa (cd. auto aziendali) sono deducibili nei limiti del 20% del loro ammontare. Inoltre, essi soggiacciono a limiti per quanto concerne l’importo massimo rilevante per il loro acquisto e leasing (euro 18.075,99 per autovetture e autocaravan; euro 4.131,66 per motocicli; euro 2.065,83 per ciclomotori). Uso promiscuo ai dipendenti I costi sostenuti per mezzi di trasporto concessi in uso promiscuo ai dipendenti, per la maggior parte del periodo di imposta, sono deducibili nei limiti del 70% del loro importo. Agenti e rappresentanti I costi relativi a mezzi di trasporto sostenuti da agenti e rappresentanti di commercio sono deducibili nella misura dell’80% del loro ammontare e il limite massimo del costo di autovetture e autocaravan è elevato a euro 25.822,84. Per i canoni di locazione e noleggio, il limite massimo di deducibilità è di euro 5.164,57. Deducibilità
delle
spese
per
carburante
per
autotrazione Le spese per carburante per autotrazione sono deducibili solo se effettuate mediante carte di credito, carte di debito o
carte prepagate (art. 164, comma 1bis, del TUIR, introdotto dall’art. 1, comma 922, della L. n. 205/2017 - Legge di bilancio 2018, a decorrere dal 1-7-2018).
13.3.26 Le spese di manutenzione Le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e
trasformazione
dei
beni
strumentali
di
proprietà
dell’impresa, qualora dal bilancio non risultino capitalizzate (cioè imputate al costo dei beni cui si riferiscono), sono deducibili nel limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili risultante all’inizio dell’esercizio dal registro dei beni ammortizzabili (art. 102, comma 6, del TUIR, come modificato dal D.L. n. 16/2012, conv., con modif., in L. n. 44/2012). L’eventuale eccedenza non dedotta nell’anno di sostenimento del costo è deducibile per quote costanti nei 5 esercizi successivi. Prestazioni periodiche Sono
integralmente
deducibili,
nell’esercizio
di
competenza, i costi sostenuti per prestazioni periodiche (canoni)
dovuti
contrattualmente
a
terzi
per
la
manutenzione di determinati beni (ed il loro costo non rileva ai fini del plafond del 5%). Beni di terzi Le spese di manutenzione relative a beni non di proprietà dell’impresa (beni di terzi) sono deducibili: integralmente nell’esercizio di sostenimento, nel caso di spese di carattere ordinario;
nel limite della quota imputata, ai fini civilistici, nel bilancio dell’esercizio, nel caso di spese di carattere straordinario.
13.3.27 Le spese per prestazioni alberghiere e di ristorazione I costi sostenuti per prestazioni alberghiere e per la somministrazione di alimenti e bevande sono deducibili nella misura del 75% del loro importo, anche nel caso in cui essi costituiscano spese di rappresentanza (art. 109, comma 5, del TUIR).
13.3.28 Le spese di telefonia I costi sostenuti per gli impianti di telefonia fissa e mobile (quote di ammortamento, canoni di leasing, spese d’impiego ecc.) sono deducibili nella misura dell’80% del loro importo.
13.3.29 Gli accantonamenti Gli accantonamenti deducibili ai fini IRES sono solo quelli espressamente previsti dal TUIR, cioè costituiscono un numero chiuso (tassatività degli accantonamenti deducibili), in quanto rappresentano una deroga al criterio generale che consente la deduzione di costi certi nell’an e nel quantum (Tesauro). Pertanto, gli accantonamenti diversi da quelli specificamente disciplinati, effettuati ai fini civilistici nel bilancio d’esercizio, sono indeducibili (art. 107, comma 4, del TUIR).
Quiescenza e previdenza Gli accantonamenti ai fondi per le indennità di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente (istituiti ai sensi dell’art. 2117 c.c.), a condizione che siano costituiti in conti individuali dei singoli dipendenti, sono deducibili nei limiti delle quote maturate nell’esercizio, in conformità alle disposizioni legislative e contrattuali che regolano il rapporto di lavoro dei dipendenti stessi (art. 105 del TUIR). I maggiori accantonamenti necessari per adeguare i fondi a sopravvenute modificazioni normative e retributive sono deducibili nell’esercizio dal quale hanno effetto le modificazioni o per quote costanti nell’esercizio stesso e nei due successivi.
Rischi su crediti Gli accantonamenti per rischi su crediti e le svalutazioni dei crediti risultanti in bilancio, riferibili esclusivamente ai crediti commerciali (ossia derivanti dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di servizi che originano ricavi d’esercizio), per l’importo non coperto da garanzia assicurativa, sono deducibili in ciascun esercizio nel limite dello 0,50% del loro valore nominale (o di acquisizione). La deduzione non è più ammessa quando l’ammontare complessivo delle svalutazioni e degli accantonamenti ha raggiunto il 5% del valore nominale (o di acquisizione) dei crediti commerciali risultanti in bilancio alla fine dell’esercizio (art. 106, comma 1, del TUIR). Imposte
Gli accantonamenti relativi ai tributi deducibili, che non sono ancora definitivamente accertati, sono ammessi in deduzione nei limiti dell’ammontare corrispondente alle dichiarazioni presentate, agli accertamenti o provvedimenti degli uffici finanziari ed alle decisioni delle Commissioni tributarie (art. 99, comma 2, del TUIR). Operazioni e concorsi a premio Gli accantonamenti effettuati a fronte degli oneri derivanti da operazioni a premio e da concorsi a premio, sono deducibili in misura non superiore, rispettivamente, al 30% ed al 70% dell’ammontare degli impegni assunti nell’esercizio, a condizione che siano distinti per esercizio di formazione (art. 107, comma 3, del TUIR). L’utilizzo a copertura degli oneri relativi ai singoli esercizi deve
essere
effettuato
a
carico
dei
corrispondenti
accantonamenti, sulla base del valore unitario di formazione degli stessi e le eventuali differenze rispetto a tale valore costituiscono sopravvenienze attive o passive. L’ammontare dei fondi non utilizzato al termine del 3° esercizio successivo a quello di formazione concorre a formare il reddito dell’esercizio stesso.
Opere pubbliche Per
le
dell’esercizio
imprese di
subconcessionarie
concessionarie
opere delle
della
pubbliche
(e
stesse),
sono
costruzione
per
le
e
imprese
deducibili
gli
accantonamenti effettuati a fronte delle spese di ripristino o di sostituzione dei beni gratuitamente devolvibili allo scadere della concessione e delle altre spese di manutenzione,
riparazione, trasformazione ed ammodernamento (art. 107, comma 2, del TUIR). La deduzione è ammessa, per ciascun bene, nel limite massimo del 5% del costo e non è più ammessa quando il fondo ha raggiunto l’importo complessivo delle spese relative al bene medesimo sostenute negli ultimi 2 esercizi. Se le spese sostenute in un esercizio sono superiori all’importo del fondo l’eccedenza è deducibile in quote costanti nell’esercizio stesso e nei 5 successivi. L’importo degli accantonamenti non utilizzati concorre a formare il reddito dell’esercizio in cui avviene la devoluzione.
Navi e aeromobili Gli accantonamenti effettuati a fronte delle spese per lavori ciclici di manutenzione e revisione delle navi e degli aeromobili sono deducibili nei limiti del 5% del costo di ciascuna nave o aeromobile risultante all’inizio dell’esercizio dal registro dei beni ammortizzabili. La differenza tra l’ammontare dedotto e la spesa sostenuta concorre a formare il reddito, o è deducibile se negativa, nell’esercizio in cui ha termine il ciclo (art. 107, comma 1, del TUIR).
13.3.30 Tonnage tax Con la denominazione di “Tonnage tax” si indica un particolare regime di tassazione forfettaria del reddito, disciplinato dagli artt. 155-161 del TUIR, per cui possono optare le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e di
mutua assicurazione, le società in nome collettivo e in accomandita semplice, residenti nel territorio dello Stato, le società e gli enti non residenti ma dotati di stabile organizzazione in Italia che operano nel settore marittimo. Il reddito imponibile forfettario è determinato sulla base del reddito giornaliero di ciascuna nave calcolato con riferimento agli importi individuati nell’art. 156 del TUIR, previsti per determinati scaglioni di tonnellaggio netto, a cui corrisponde l’indeducibilità delle spese e degli altri componenti negativi afferenti alle attività in regime di Tonnage tax. Eventuali redditi derivanti dallo svolgimento di attività diverse da quelle su indicate devono essere determinati secondo le ordinarie regole del reddito d’impresa.
13.3.31 L’aiuto alla crescita economica (ACE) L’art. 1 del D.L. 6-12-2011, n. 201, conv., con modif., nella L. 22-12-2011, n. 214 aveva previsto l’introduzione di un’agevolazione consistente in una deduzione dal reddito di impresa correlata agli incrementi del capitale proprio (cd. “Aiuto alla crescita economica” o “ACE”). La norma è stata abrogata dall’art. 1, comma 1080, della L. n. 145/2018 (Legge di bilancio 2019) e poi ripristinata dall’art. 1, comma 287, L. 160/2019 (Legge di bilancio 2020).
13.3.32 Start up innovative
Il D.L. 18-10-2012, n. 179 (cd. decreto Crescita-bis), conv., con modif., in L. 17-12-2012, n. 221, ha introdotto nell’ordinamento fiscale italiano una disciplina per favorire la nascita e la crescita di nuove imprese innovative (start up). La normativa, in origine prevista per gli anni di imposta 2013, 2014 e 2015, è stata successivamente estesa al 2016 dal D.L. n. 76/2013, conv., con modif., in L. n. 99/2013 (cd. decreto Lavoro), che ha apportato anche modifiche alla disciplina, e agli anni di imposta 2017 e successivi dalla L. n. 232/2016 (Legge di bilancio 2017) che è intervenuta nuovamente in modo incisivo sulla normativa in commento. L’art. 57ter del D.L. 24-4-2017, n. 50, conv., con modif., in L. n. 96/2017, e il D.L. 24-1-2015, n. 3, conv., con modif., in L. n. 33/2015 hanno esteso alle PMI (piccole e medie imprese) alcune di queste disposizioni agevolative. La normativa in commento prevede agevolazioni, fiscali e creditizie, a favore delle start up (tra le quali si ricorda l’esenzione dall’imposta di bollo), ma anche a favore di chi investe in esse, consistenti nel riconoscimento di una detrazione dalle imposte sul reddito sia per soggetti IRPEF che per i soggetti IRES. La Legge di bilancio 2017 (L. n. 232/2016, art. 1, commi 7680) permette l’acquisizione delle perdite fiscali realizzate da società start up partecipate per almeno il 20% da parte di società quotate. Tali perdite sono utilizzabili in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite del reddito imponibile e per l’intero importo.
Il D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (cd. decreto rilancio), conv. in L. 17 luglio 2020, n. 77, con l’art. 38, tra l’altro, ha previsto: contributi a fondo perduto per acquistare servizi per lo sviluppo; sostegno al venture capital. Il comma 4 dell’art. 38, al fine di incentivare le attività di ricerca e sviluppo per fronteggiare l’emergenza derivante dalla diffusione del Covid-19, considera anche le spese relative a contratti di ricerca extra muros stipulati con start up innovative nel novero di quelle computabili nella misura del 150% per la percezione del credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo di cui ai commi 198 e seguenti dell’art. 1 della L. 160/2019. Il comma 6, invece, ai fini del rilascio delle garanzie del Fondo di garanzia PMI in favore delle start up innovative e delle PMI innovative, riserva una quota pari a 200 milioni di euro a valere sulle risorse già assegnate al Fondo, alla quale le predette imprese accedono sulla base delle modalità, tempo per tempo vigenti, ivi incluse le disposizioni applicabili previste dall’art. 13 del D.L. 23/2020.
13.3.33 Patent box La Legge di Stabilità 2015 (L. 190/2014), all’art. 1, commi 37-45, ha introdotto – a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31-12-2014 – un regime opzionale di tassazione agevolata per i redditi derivanti dall’utilizzo e/o dalla cessione di software protetto da
copyright, da brevetti industriali, da disegni e modelli, nonché da processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili conseguiti da imprese di qualsiasi forma giuridica e dimensione, cd. patent box. Il regime opzionale, che ha la durata di 5 esercizi sociali, consente di escludere dal reddito complessivo il 50% dei redditi derivanti dall’utilizzo dei beni immateriali e le plusvalenze derivanti dalla cessione dei beni immateriali indicati. L’opzione è valida anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini IRAP. Per il primo periodo di imposta il beneficio è pari al 30%, mentre per il secondo periodo di imposta è pari al 40%, per poi attestarsi sul 50% per i periodi successivi. Le disposizioni di attuazione sono state emanate con il D.M. 30-7-2015 e succ. modif. e integr., e la disciplina è stata modificata dalla Legge di Stabilità 2016 e dall’art. 56 del D.L. 24-4-2017, n. 50, che ha escluso i marchi d’impresa dai beni agevolabili e ha incluso i redditi derivanti dall’utilizzo congiunto di beni immateriali, anche se a specifiche condizioni. Occorre ricordare che l’art. 4 del D.L. n. 34/2019 mira a semplificare le procedure di fruizione di tale tassazione agevolata.
13.3.34 Le società di comodo
Per combattere l’utilizzo di società aventi finalità di mero godimento dei beni (immobili, autoveicoli di lusso ecc.), ossia di società che non sono costituite al fine di svolgere un’effettiva attività d’impresa ma solo allo scopo di schermare i veri proprietari dei beni (i soci) e, al contempo, di beneficiare del più favorevole regime fiscale applicabile ai beni d’impresa (rispetto a quello a beni posseduti da persone fisiche), il legislatore, con l’art. 30 della L. n. 724/1994 (modificata da ultimo dall’art. 7, comma 12, del D.Lgs. 156/2015), ha introdotto una specifica disciplina per tali società, denominate “società di comodo” o “società non operative”, attribuendo
loro
un
reddito
minimo
(tassabile),
predeterminato forfetariamente in via normativa. Sono tuttavia
esclusi
dall’applicazione
dalla
citata
disciplina
determinati soggetti (società quotate, società con almeno 50 soci, società finanziarie ecc.). Il
contribuente
ha
la
possibilità
di
interpellare
l’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. b), della L. n. 212/2000 (cd. interpello probatorio) in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito minimo o non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini IVA. Società in perdita sistematica L’art. 2, commi 36decies e 36undecies, del D.L. 138/2011, come da ultimo modificato dall’art. 18, comma 1, del D.Lgs. 175/2014 con decorrenza dal periodo di imposta 2014 – qualifica come società non operative, anche se superano il test
di operatività, le cd. “società in perdita sistematica”, ossia quelle società che hanno presentato dichiarazioni in perdita fiscale per cinque periodi di imposta consecutivi ovvero che, nello stesso arco di tempo, hanno presentato dichiarazioni in perdita fiscale per quattro periodi di imposta ed una dichiarazione con un reddito imponibile inferiore a quello minimo. Beni concessi in godimento ai soci Al fine di contrastare l’utilizzo delle società di comodo, il legislatore ha inoltre previsto l’indeducibilità dei costi relativi ai beni dell’impresa (beni-merce, beni strumentali e beni patrimoniali) concessi in godimento ai soci o familiari dell’imprenditore, per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento (art. 2, comma 36quaterdecies, della D.L. 138/2011.
13.3.35 Il transfer pricing Per combattere lo spostamento di quote di reddito tra le società di un gruppo, dislocate in diversi paesi, allo scopo elusivo di far “emergere” gli imponibili nei Paesi con un basso livello di tassazione, l’art. 110, comma 7, del TUIR – come sostituito dall’art. 59 del D.L. 24-4-2017, n. 50, conv., con modif., in L. 96/2017 – stabilisce che, indipendentemente dal corrispettivo pattuito, i componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle
condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, sia nell’ipotesi che da ciò derivi un aumento del reddito sia che ne derivi una diminuzione del reddito. In questo ultimo caso trovano applicazione le disposizioni dell’art. 31quater del D.P.R. 600/1973, introdotto dal comma 2 del suddetto art. 59 del D.L. 50/2017. Con il D.M. 14-5-2018 sono state approvate le Linee guida per l’applicazione delle disposizioni di cui al suddetto comma 7 dell’art. 110 TUIR ai fini del rispetto del principio di libera circolazione ivi contenuto. L’applicazione della normativa sui prezzi di trasferimento è subordinata all’esistenza di un rapporto di controllo tra l’impresa italiana e l’impresa non residente, da intendersi in senso
estensivo,
sostanzialmente
ossia unitaria,
come
strategia
comprendente
imprenditoriale ogni
forma
di
influenza economica potenziale o attuale. In merito, secondo la giurisprudenza (Cass. 13-7-2012, n. 11949), l’onere di fornire al Fisco le informazioni che consentono di verificare il valore normale delle transazioni infragruppo (ai fini della normativa sul transfer pricing, in forza del “principio di vicinanza della prova”) è a carico del contribuente.
13.4 Gli enti non commerciali Il reddito complessivo degli enti non commerciali, assoggettato ad IRES (aliquota del 24%), è costituito dalla sommatoria dei redditi (fondiari, di capitale, di impresa e diversi) posseduti, ovunque prodotti, ad esclusione di quelli esenti dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta sostitutiva (art. 143 del TUIR). Tali redditi sono quantificati secondo i criteri previsti per le persone fisiche (ai fini dell’IRPEF), salvo l’applicazione di alcune deroghe specifiche. Gli enti non commerciali hanno l’obbligo, nel caso in cui esercitino anche un’attività commerciale, di tenere una specifica contabilità separata. Attività decommercializzate Per gli enti non commerciali, non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi diverse da quelle propriamente commerciali (di cui all’art. 2195 c.c.), a condizione che siano rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente, senza una specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione sostenuti per le stesse. Regime forfettario di determinazione del reddito L’art. 145 del TUIR prevede un particolare regime di determinazione del reddito per gli enti non commerciali che non superano determinati ammontari di ricavi conseguiti nell’esercizio di attività commerciali.
Per questi enti, il reddito di impresa è determinato applicando a tali ricavi dei coefficienti di redditività differenziati
in
base
al
tipo
all’ammontare dei ricavi stessi.
di
attività
esercitata
e
13.5 Il reddito degli enti non residenti La determinazione del reddito imponibile delle società e degli enti non residenti in Italia segue regole diverse, a seconda che l’ente abbia o meno, come oggetto esclusivo o principale, l’esercizio di un’attività commerciale, desumibile in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato (art. 73, comma 5, del TUIR).
13.5.1 Le società e gli enti commerciali non residenti Il reddito imponibile IRES delle società e degli enti commerciali non residenti è formato solo dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, a esclusione di quelli esenti da imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o a imposta sostitutiva, determinati secondo le disposizioni dettate dal TUIR, relative alle categorie in cui rientrano, per i soggetti IRPEF (art. 151 TUIR).
13.5.2 Gli enti non commerciali non residenti Il reddito complessivo delle società e degli enti non commerciali non residenti è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, ad esclusione di quelli esenti
da imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva (art. 153 del TUIR).
Capitolo 14 L’imposta sul valore aggiunto (IVA) 14.1 Aspetti generali L’imposta sul valore aggiunto (IVA) è un’imposta di matrice europea, in quanto la sua disciplina nazionale (D.P.R. 26-10-1972, n. 633) costituisce un’attuazione delle direttive comunitarie che ne hanno previsto l’istituzione in ognuno dei Paesi membri dell’Unione Europea. Al riguardo, fondamentale è la direttiva n. 2006/112/CE del 28-11-2006, nella quale sono state rifuse tutte le direttive vigenti in precedenza (tra le quali la VI direttiva CEE del 17-5-1977, n. 77/388). Funzionamento dell’IVA L’IVA è un’imposta applicata, con aliquote proporzionali, sui corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni servizi effettuate nel territorio delle Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni, nonché sulle importazioni da chiunque effettuate (art. 1 del D.P.R. n. 633/1972). L’IVA rientra tra le imposte indirette e si configura come un’imposta
generale
sui
consumi,
assunti
quali
manifestazione indiretta di capacità contributiva (e che rappresentano la giustificazione costituzionale dell’IVA in relazione all’art. 53 Cost.). L’IVA, infatti, è sostenuta
definitivamente dai soggetti che acquistano beni e servizi al di fuori
dell’esercizio
d’impresa
o
di
arti
e
professioni
(consumatori finali), i quali pagano l’imposta sul valore pieno di tali beni e servizi (Falsitta), ossia il loro prezzo finale. Il meccanismo applicativo dell’IVA prevede l’imposizione, nei vari scambi, del valore aggiunto, inteso come quell’aumento di valore che, nelle diverse fasi della produzione o del commercio, un bene subisce (Portale), per effetto dell’attività svolta dai singoli operatori economici, mediante il sistema della detrazione “imposta da imposta” (Tesauro). L’IVA è dunque concepita come un’imposta plurifase non cumulativa, a prelievo frazionato: ad ogni passaggio in cui è applicata, viene colpito solo l’incremento del valore che un bene o servizio subisce nelle singole fasi di produzione o commercio (valore aggiunto) e non il suo valore pieno (Centore). Ciò la rende anche un’imposta neutrale perché la misura in cui colpisce il consumatore finale non dipende dal numero di transazioni che avvengono lungo tutto il ciclo di produzione
e
distribuzione
(Portale).
L’IVA
è
inoltre
un’imposta trasparente perché in ogni stadio del processo produttivo-distributivo è possibile identificare l’importo della base imponibile e l’importo dell’imposta, la cui somma costituisce il prezzo di vendita del bene o servizio (Ripa).
14.2 Campo di applicazione dell’IVA Affinché
un’operazione
applicazione
rientri
dell’IVA
è
nel
campo
necessario
di che
contemporaneamente sussistano i tre seguenti presupposti (art. 1 del D.P.R. n. 633/1972): oggettivo, ossia si tratti di cessione di beni o di prestazione di servizi; soggettivo, ossia sia posta in essere nell’esercizio di imprese, arti o professioni; territoriale, ossia sia effettuata nel territorio dello Stato italiano. Inoltre, l’IVA si applica sulle importazioni da chiunque effettuate (per tali operazioni non rileva, quindi, il presupposto soggettivo). Le operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’IVA si distinguono in: operazioni
imponibili,
le
quali
comportano
sia
l’addebito dell’imposta sia l’adempimento di determinati obblighi formali (fatturazione, registrazione ecc.) da parte del soggetto passivo; operazioni non imponibili, le quali non comportano l’addebito
dell’imposta,
ma
solo
l’adempimento
di
determinati obblighi formali da parte del soggetto passivo; anche le operazioni non imponibili conferiscono il diritto di esercitare la detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti; operazioni esenti, le quali non comportano l’addebito dell’imposta, ma solo l’adempimento di determinati obblighi formali da parte del soggetto passivo; le operazioni esenti limitano, a differenza di quelle non imponibili, il diritto alla detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti. Operazioni escluse Le operazioni escluse o fuori campo IVA sono estranee al campo di applicazione dell’IVA, in quanto caratterizzate dalla mancanza di uno (o più) dei tre presupposti del tributo, ovvero per espressa scelta legislativa.
14.3 Il presupposto oggettivo Il presupposto oggettivo dell’IVA è costituito dalle cessioni di beni o dalle prestazioni di servizi. Cessioni di beni Ai sensi dell’art. 2, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che comportano il trasferimento della proprietà ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere; rientrano negli atti a titolo oneroso, oltre ai contratti, anche gli atti della pubblica autorità (espropriazioni, vendite coattive ecc.). Prestazioni di servizi Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere, quale ne sia la fonte.
14.3.1 Le operazioni esenti Per finalità sociali ovvero per esigenze di tecnica tributaria (assoggettamento ad altri tributi), il legislatore qualifica, in deroga al generale principio di imponibilità, una serie di operazioni come esenti. Si tratta di operazioni che, pur non
comportando l’applicazione del tributo, fanno comunque sorgere gli obblighi formali (fatturazione, dichiarazione ecc.); l’effettuazione di operazioni esenti IVA, inoltre, comporta, in capo al soggetto passivo, limitazioni nell’esercizio della detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti. Dispensa
dagli
adempimenti
relativi
alle
operazioni esenti Il contribuente può optare, ai sensi dell’art. 36bis del D.P.R. n. 633/1972, per la dispensa dagli adempimenti relativi alle
operazioni
comunicazione
esenti
all’ufficio
nella
dandone
preventiva
dichiarazione
annuale
relativa all’anno precedente o nella dichiarazione di inizio dell’attività. In tal modo è dispensato dagli obblighi di fatturazione e di registrazione relativamente alle operazioni esenti, fermi restando l’obbligo di fatturazione e registrazione delle altre operazioni eventualmente effettuate, l’obbligo di registrazione degli acquisti e gli altri obblighi stabiliti dal decreto IVA, compreso l’obbligo di rilasciare la fattura quando sia richiesta dal cliente. La comunicazione ha effetto fino a quando non sia revocata e in ogni caso per almeno un triennio. La dispensa comporta l’impossibilità per il contribuente di detrarre dall’imposta eventualmente dovuta quella relativa agli acquisti e alle importazioni.
14.4 Il presupposto soggettivo Per essere rilevanti ai fini dell’applicazione dell’IVA, le operazioni che ne costituiscono il presupposto oggettivo (cessioni di beni e prestazioni di servizi) devono essere effettuate nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni.
14.4.1 Esercizio di impresa Ai fini IVA, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, per esercizio di impresa si intende: l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, dall’art.
delle 2195
attività c.c.
commerciali
(attività
industriale
individuate diretta
alla
produzione di beni o di servizi; attività intermediaria nella circolazione dei beni; attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria; attività bancaria o assicurativa; altre attività ausiliarie delle precedenti) o delle attività agricole individuate dall’art. 2135 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, ovvero l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’ambito di quelle individuate dall’art. 2195 c.c.
14.4.2 Esercizio di arti e professioni
Ai fini IVA, ai sensi dell’art. 5, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse.
14.5 Il presupposto territoriale Ai fini dell’applicazione dell’IVA è necessario che le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano effettuate nel territorio dello Stato italiano. In dettaglio, sotto il profilo della territorialità si distinguono: le operazioni interne o nazionali, che sono quelle effettuate in Italia e che, pertanto, sono soggette ad IVA in Italia (tali operazioni possono essere imponibili, non imponibili o esenti); le operazioni internazionali, che interessano anche il territorio di uno Stato estero, la cui disciplina varia a seconda che siano operazioni
extracomunitarie
ovvero operazioni intracomunitarie. Criteri di localizzazione Gli articoli da 7bis a 7octies del D.P.R. n. 633/1972 dettano una serie di criteri per individuare il luogo in cui si ritengono effettuate le operazioni, ai fini della verifica della sussistenza del presupposto territoriale IVA. Le operazioni che, in base a tali criteri, non si considerano effettuate in Italia, ossia che difettano del presupposto territoriale, sono da qualificare come escluse ai fini IVA. Il presupposto territoriale nelle prestazioni di servizio
L’individuazione della territorialità delle prestazioni di
servizi
è
attualmente
legata
allo
status
del
committente, in quanto: se il committente è un soggetto passivo IVA, nazionale o estero, ossia si tratta di un’operazione “business to business” (B2B), si applica il principio di destinazione;
quindi
la
prestazione
si
considera
effettuata nel luogo in cui è stabilito il committente, indipendentemente dal luogo di esecuzione della stessa (sarà quindi soggetta ad IVA in Italia se il committente è un soggetto passivo IVA stabilito in Italia) (art. 7ter, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 633/1972); uno dei principali
cambiamenti,
rispetto
alla
precedente
disciplina, è costituito dal fatto che i servizi resi a soggetti passivi stabiliti in altri Stati dell’Unione europea non sono più qualificabili come operazioni rilevanti ai fini IVA, ma costituiscono operazioni fuori campo IVA, per mancanza del presupposto territoriale; se il committente è un soggetto privato, ossia si tratta di un’operazione “business to consumer” (B2C), si applica il principio di origine; quindi la prestazione si considera effettuata nel luogo in cui è stabilito il prestatore del servizio indipendentemente dal luogo di esecuzione della stessa (sarà quindi soggetta ad IVA in Italia se il prestatore è un soggetto passivo IVA stabilito in Italia) (art. 7ter, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972).
I suddetti criteri generali sono tuttavia derogati in relazione a determinate fattispecie di prestazioni di servizio (prestazioni relative ad immobili, prestazioni artistiche, culturali, ricreative, didattiche ecc.), per le quali il legislatore ha
previsto
specifici
criteri.
Ai
fini
dell’appuramento
dell’esistenza del presupposto territoriale nelle prestazioni di servizio generiche è posto a carico del prestatore l’onere di effettuare la verifica sia dello status (soggetto passivo o soggetto
privato),
sia
del
luogo
di
stabilimento
del
committente. Statusdi soggetto passivo Ai fini dell’applicazione delle disposizioni relative al luogo di effettuazione delle prestazioni di servizi, si considerano soggetti passivi, per le prestazioni di servizi ad essi resi (art. 7ter, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972): i soggetti esercenti attività d’impresa, arti o professioni; gli enti, le associazioni e le altre organizzazioni (che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole), limitatamente alle prestazioni ricevute quando agiscono nell’esercizio di tali attività; gli enti non commerciali, identificati ai fini IVA. Luogo di stabilimento Ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633/1972, per soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato, deve intendersi:
un soggetto domiciliato nel territorio dello Stato (per le società il domicilio corrisponde al luogo in cui è situata la sede legale); un soggetto residente nel territorio dello Stato, a condizione che non abbia stabilito all’estero il domicilio (per le società la residenza corrisponde a luogo in cui è situata la sede effettiva); una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di un
soggetto
domiciliato
o
residente
all’estero,
limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute.
Stabile organizzazione Ai fini IVA, l’art. 11 del Reg. UE 282/2011 designa la stabile organizzazione come una qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività economica dell’impresa, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici, atti a consentirle di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le proprie esigenze, nonché di fornire i servizi di cui assicura la prestazione. La disponibilità di un numero di identificazione IVA non è di per sé sufficiente per ritenere che un soggetto passivo abbia una stabile organizzazione.
14.5.1 Le operazioni extracomunitarie A seguito dell’abolizione delle dogane tra gli Stati membri dell’Unione
europea,
extracomunitarie
dall’1-1-1993,
devono
intendersi
per solo
operazioni gli
scambi
commerciali, importazioni ed esportazioni, tra soggetti stabiliti in Paesi dell’UE e soggetti stabiliti in Paesi non facenti parte dell’UE (Stati extracomunitari). Le importazioni Costituiscono
operazioni
imponibili
in
Italia
le
importazioni, ossia le operazioni di introduzione in Italia di beni provenienti da Paesi extracomunitari, i quali non siano stati già immessi in libera pratica in un altro Paese membro dell’UE, da chiunque effettuate (artt. 1 e 67 del D.P.R. n. 633/1972). I beni importati in Italia sono assoggettati ad IVA come i beni ivi prodotti, in applicazione del principio di tassazione nel paese di destinazione, posto a base della disciplina dell’IVA intracomunitaria, il quale comporta, altresì, la detassazione delle esportazioni. L’IVA sulle importazioni è un tributo doganale (cd. diritto di confine), che duplica il tributo interno, allo scopo di uniformare il trattamento fiscale dei beni provenienti da Stati extracomunitari a quello dei beni provenienti da Stati comunitari (Tesauro). In merito, secondo l’orientamento prevalente, l’IVA sulle importazioni, sebbene sia applicata con un procedimento del tutto peculiare (ossia come un’imposta monofase, che è accertata, liquidata e riscossa per ciascuna operazione doganale di importazione) rispetto al procedimento applicativo dell’IVA interna (che è applicata dal contribuente “per masse”), non rappresenta un tributo separato ed indipendente rispetto all’IVA interna, ma ne costituisce un suo sub-sistema. La base imponibile dell’IVA
sulle importazioni è data dal valore dei beni importati, aumentato dei diritti doganali dovuti e delle spese di inoltro. Le esportazioni Costituiscono
operazioni
non
imponibili
le
esportazioni dirette (o cessioni all’esportazione), ossia le cessioni di beni, anche tramite commissionari (in tal caso sia il cedente sia il commissionario pongono in essere distinte operazioni non imponibili), eseguite mediante trasporto o spedizione al di fuori del territorio dell’UE, a cura o a nome dei cedenti o commissionari (art. 8 del D.P.R. n. 633/1972). Rientrano tra le esportazioni dirette anche: le cessioni di beni consegnati in Italia a cessionari non residenti, a condizione che il trasporto o la spedizione al di fuori del territorio dell’UE avvenga entro 90 giorni dalla data di consegna; le esportazioni triangolari, nelle quali un soggetto passivo italiano cede ad un altro soggetto passivo italiano dei beni e provvede, su incarico del cessionario, al trasporto o alla spedizione degli stessi, al cliente di quest’ultimo, al di fuori dell’UE. Le esportazioni, pur soggiacendo a tutti gli obblighi formali previsti (fatturazione, registrazione ecc.) e pur conferendo il diritto alla detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti (“a monte”) dal soggetto che esporta, sono operazioni che non comportano l’addebito dell’IVA (“a valle”); per tale motivo sono dette anche “operazioni ad aliquota zero”.
Esportatori abituali Sono non imponibili anche le esportazioni indirette, ossia le cessioni, anche tramite commissionari, di beni (diversi dai fabbricati e dalle aree edificabili) e le prestazioni di servizi rese a soggetti esportatori abituali che, avendo effettuato cessioni all’esportazione o operazioni intracomunitarie, si avvalgono della facoltà di acquistare, o importare beni e servizi senza pagamento dell’IVA, entro un limite annuale (plafond).
14.5.2 Le operazioni intracomunitarie A decorrere dall’1-1-1993, con l’abolizione delle frontiere fiscali tra gli Stati membri dell’UE, gli scambi tra soggetti comunitari non sono considerati più importazioni ed esportazioni, ma sono sottoposti al regime (sorto come transitorio) dell’IVA intracomunitaria basato: sul
principio
di
tassazione
nel
Paese
di
destinazione, per le cessioni di beni effettuate tra soggetti passivi IVA di diversi Stati membri dell’UE (il regime definitivo, invece, sarà basato sul principio di tassazione nel Paese di origine); sul principio di tassazione nel Paese di origine, per le
cessioni
di
beni
effettuate
nei
confronti
di
consumatori finali; l’operazione è imponibile IVA come se fosse una cessione interna (non si tratta, sotto il profilo tecnico, di acquisti intracomunitari ed il debitore d’imposta resta il venditore). Cessioni e acquisti intracomunitari
La disciplina dell’IVA intracomunitaria, contenuta nel D.L. 30-8-1993, n. 331, conv., con modif., in L. n. 427/1993 si applica, quindi, alle cessioni di beni poste in essere tra due soggetti passivi IVA appartenenti a diversi Stati dell’UE, che comportano il trasporto dei beni da uno Stato UE ad altro Stato UE. Tale regime prevede che: il cedente (fornitore) non applichi l’IVA, in quanto l’operazione è considerata non imponibile (detassazione nel paese di origine); il cessionario (cliente) autoliquidi l’IVA sull’operazione, mediante l’integrazione della fattura ricevuta dal fornitore e la sua successiva registrazione nel registro delle fatture emesse (che vale in luogo del pagamento dell’imposta in dogana). In sostanza, nelle cessioni intracomunitarie il debitore dell’IVA è l’acquirente, il quale, tuttavia, neutralizza tale debito d’imposta con una contestuale annotazione, di pari importo, nel registro degli acquisti. Dal 1-1-2018 l’obbligo di segnalazione mediante modelli avviene avverrà secondo le nuove modalità stabilite dall’art. 50, comma 6, del D.L. n. 331/1993, come sostituito dall’art. 13, comma 4quater, del D.L. n. 244/2016, conv., con modif, in L. n. 19/2017 (decreto milleproroghe 2017).
14.6 Il momento impositivo In materia di IVA assume un ruolo fondamentale il momento impositivo o momento di effettuazione delle operazioni, la cui individuazione è disciplinata dall’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972. Infatti, da tale momento si realizzano, salvo
espresse
deroghe,
le
condizioni
necessarie
per
l’esigibilità dell’imposta, la quale è definibile come il diritto che l’Erario (potenziale creditore dell’imposta) può far valere presso il debitore, a decorrere da un prestabilito periodo di tempo, per il pagamento dell’IVA (da tale momento sorge, in sostanza, l’obbligo per il cedente o prestatore di computare l’IVA “a debito”, nonché il diritto per il cessionario o committente di computarla l’IVA “a credito”). Dal momento di effettuazione decorrono, quindi, i termini stabiliti per l’assolvimento degli adempimenti formali e sostanziali
previsti
dalla
disciplina
IVA
(fatturazione,
registrazione, versamento ecc.). Cessioni di beni Le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della stipulazione (del contratto) se riguardano beni immobili e nel momento della consegna o spedizione se riguardano beni mobili. Le cessioni i cui effetti traslativi o costitutivi si producono posteriormente (vendite differite di cose generiche, di cosa futura, di cosa appartenenti a terzi, con riserva di gradimento ecc.) si considerano effettuate nel
momento in cui si producono tali effetti e comunque, se riguardano beni mobili, dopo il decorso di un anno dalla consegna o spedizione (art. 6 del D.P.R. n. 633/1972). Il comma 2 del suddetto art. 6 elenca i casi in cui tale regola è derogata. Prestazioni di servizi Le prestazioni di sevizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, a prescindere sia dalla data di conclusione del contratto sia dalla data di ultimazione della prestazione. Deroghe anticipative Se anteriormente al verificarsi dei suddetti eventi, o indipendentemente da essi, sia emessa fattura, ovvero sia pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento. Tale ultima fattispecie, in concreto, rileva solo per le cessioni di beni, considerato che per le prestazioni di servizi essa rappresenta la regola generale. Autoconsumo Nel caso di autoconsumo di beni le operazioni si considerano effettuate all’atto del prelievo dei beni; nel caso di autoconsumo di servizi, invece, le stesse si considerano effettuate, non essendoci il pagamento, nel momento di ultimazione delle prestazioni, ovvero, se di carattere periodico o continuativo, nel mese successivo a quello nel quale sono rese. Operazioni permutative
Le operazioni permutative non soggiacciono a regole particolari e, pertanto, si considerano come operazioni autonome. IVA a esigibilità differita In deroga ai criteri ordinari, il legislatore ha previsto un particolare regime IVA ad esigibilità differita, caratterizzato dalla mancata coincidenza tra momento di effettuazione dell’operazione ed esigibilità dell’imposta (art. 6, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972).
14.7 La base imponibile La base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore, come risultanti dalle condizioni contrattuali (art. 13, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972). Nella base imponibile sono compresi gli oneri accessori e le spese inerenti all’esecuzione del contratto, i debiti o gli altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, nonché le integrazioni dovute da altri soggetti (se direttamente connesse con i corrispettivi pattuiti). Non concorrono alla formazione della base imponibile, invece, le somme aventi natura risarcitoria (interessi moratori e le penalità per ritardi o irregolarità nell’adempimento del cliente) e le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate. Valore normale Nell’ipotesi in cui le parti non abbiano stabilito un corrispettivo in denaro la base imponibile IVA dell’operazione è costituita dal valore normale del bene o della prestazione (si pensi, ad esempio, alle operazioni permutative, alle dazioni in pagamento, alle cessioni gratuite di beni ed all’autoconsumo di beni e servizi). Per valore normale si intende (art. 14 del D.P.R. n. 633/1972):
qualora
sussistano
analoghe
operazioni,
l’intero
importo che il cessionario o il committente dovrebbe
pagare,
al
medesimo
stadio
di
commercializzazione, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i medesimi beni o servizi, nel tempo e nel luogo in cui è effettuata l’operazione (cd. valore normale comparato); qualora, invece, non siano accertabili analoghe operazioni, per le cessioni di beni, il prezzo di acquisto dei beni o di beni simili o, in mancanza, il prezzo di costo, determinati nel momento in cui si effettuano tali operazioni, ovvero, per le prestazioni di servizi, le spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi medesimi. Prestazioni accessorie Le prestazioni accessorie a una cessione di beni o a una prestazione di servizi, se effettuate direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale. Se la cessione o prestazione principale è soggetta all’imposta, i corrispettivi delle cessioni o prestazioni accessorie concorrono a formarne la base imponibile (art. 12 del D.P.R. n. 633/1972). Corrispettivi, spese e oneri in valuta estera I corrispettivi dovuti e le spese e gli oneri sostenuti in valuta estera sono computati secondo il cambio del giorno di effettuazione dell’operazione o, nel caso in cui tale indicazione manchi in fattura, del giorno di emissione di quest’ultima. In
mancanza del cambio del giorno di emissione della fattura, il computo è effettuato sulla base della quotazione del giorno antecedente più prossimo.
14.8 Le aliquote Per
quantificare
l’IVA
relativa
a
una
determinata
operazione si deve applicare l’aliquota in vigore al momento di effettuazione dell’operazione. Attualmente sono in vigore un’aliquota ordinaria del 22% (a decorrere dal 1-10-2013), applicabile alla generalità delle operazioni, e tre aliquote ridotte, del 4%, del 5% e del 10%, applicabili, rispettivamente, alle operazioni indicate nelle parti II, IIbis e III della tabella A allegata al D.P.R. n. 633/1972 (art. 16 del D.P.R. n. 633/1972, come modificato dall’art. 1, comma 960, della L. n. 208/2015 Legge di Stabilità 2016). La normativa relativa alle aliquote IVA è soggetta a continui cambiamenti. Da ultimo, per effetto della L. 27-122019, n. 160 (legge di bilancio 2020), le aliquote IVA sono le seguenti: l’aliquota del 10% resta fissa al 10% per l’anno 2020, mentre passa al 12% a decorrere dal 2021; l’aliquota del 22% resta fissa al 22% per l’anno 2020, mentre passa al 25% a decorrere dal 2021 e al 26,5% a decorrere dal 2022.
14.9 La rivalsa L’esercizio della rivalsa, da parte del soggetto passivo dell’IVA, è obbligatorio; in dettaglio, l’art. 18, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 dispone che il soggetto che effettua cessioni di beni o prestazioni di servizi imponibili IVA deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente. Nei soli casi di omaggi ed autoconsumo, la rivalsa è facoltativa. Il credito di rivalsa sorge a seguito dell’emissione della fattura che documenta l’operazione effettuata. In correlazione a tale obbligo, sussiste in capo al cessionario, o al committente, il diritto a ricevere la fattura recante l’addebito dell’IVA, ai fini del successivo esercizio del diritto di detrazione. Reverse charge Per contrastare le cd. “frodi carosello” in materia di IVA, sono state previste delle ipotesi in cui l’applicazione del tributo avviene con il meccanismo dell’inversione contabile, cd. reverse charge, in base al quale l’IVA è assolta dal cessionario o committente, che sia soggetto passivo IVA, in sostituzione del cedente o prestatore. In base al sistema del reverse charge, il cedente o il prestatore emette la fattura senza addebitare l’IVA. La citata fattura deve essere integrata dal cessionario o committente, con l’indicazione dell’IVA relativa all’operazione, e deve essere da questo annotata nel registro delle fatture emesse oltre che,
ai fini dell’esercizio della detrazione, nel registro delle fatture di acquisto. Split payment L’art. 17ter del D.P.R. n. 633/1972 (introdotto dall’art. 1, comma 629, della Legge di Stabilità 2015, da ultimo modificato dall’art. 3 del D.L. n. 148/2017, conv., con modif., in L. n. 172/2017), dispone che per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi eseguite nei confronti di Amministrazioni pubbliche per le quali i cessionari o i committenti non sono debitori d’imposta, l’imposta sul valore aggiunto è in ogni caso versata dalle stesse Amministrazioni secondo modalità e termini fissati con D.M. 23-1-2015 e succ. modif. e int. (cd. split payment). Ciò significa che i fornitori di beni e servizi (anche di natura professionale, grazie alla novella del D.L. n. 50/2017, conv., con modif., in L. n. 96/2017) alla Pubblica Amministrazione riceveranno l’importo del corrispettivo al netto dell’IVA che verrà così versata dalla P.A. direttamente all’Erario. I su citati D.L. n. 50/2017 e D.L. n. 148/2017 hanno esteso lo split payment alle società controllate dalla P.A., fondazioni partecipate della P.A. ed enti pubblici economici. Il 24 luglio 2020 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale della UE la Decisione n. 1105 del 24 luglio 2020 che autorizza l’Italia a continuare a prevedere il meccanismo dello split payment fino al 30 giugno 2023.
14.10 La detrazione Ai fini della determinazione dell’IVA dovuta per il periodo (mese, trimestre, anno), il soggetto passivo ha il diritto di detrarre, ossia di scomputare, dall’IVA relativa alle operazioni attive effettuate, l’ammontare dell’IVA relativa ai beni e servizi acquistati e importati, purché si tratti di acquisti afferenti (inerenti)
all’attività,
ossia
strettamente
strumentali
all’attività d’impresa, arte o professione esercitata (art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, come modificato dall’art. 2, comma 1, del D.L. 4-4-2017, n. 50, conv., con modif., in L. n. 96/2017 a decorrere dal 1-1-2017). Il meccanismo della detrazione comporta che, in linea di principio, per i soggetti passivi IVA, il tributo risulti neutrale (salvo limiti all’esercizio del diritto di detrazione). Il diritto alla detrazione dell’IVA relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile (ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972) e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al 2° anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo. L’esercizio del diritto di detrazione è comunque subordinato al rispetto dei previsti obblighi formali e, in particolare, alla previa annotazione, nel registro degli acquisti, delle fatture e delle bollette doganali relative agli acquisti ed alle importazioni di
cui si intende detrarre l’IVA, anteriormente alla liquidazione periodica, ovvero alla dichiarazione annuale, nella quale è esercitato il suddetto diritto.
14.10.1 I limiti alla detrazione dell’IVA Indetraibilità specifica Non è detraibile l’IVA relativa all’acquisto di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette a IVA (cd. indetraibilità specifica o analitica o per destinazione) (art. 19, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972). In nessun caso, inoltre, è detraibile l’IVA relativa all’acquisto di beni o servizi utilizzati per l’effettuazione di manifestazioni a premio (che sono operazioni escluse da IVA). Indetraibilità pro-quota Nel caso di beni e servizi utilizzati promiscuamente, ossia utilizzati sia per le operazioni che danno diritto alla detrazione sia per operazioni non soggette all’imposta, l’IVA è indetraibile per la quota imputabile alle utilizzazioni per le operazioni non soggette (art. 19, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972). L’ammontare indetraibile è determinato secondo criteri oggettivi, coerenti con la natura dei beni e servizi acquistati (cd. indetraibilità pro-quota). Indetraibilità oggettiva Il legislatore individua tassativamente determinati beni e servizi, in relazione ai quali sarebbe difficoltoso, in concreto, accertarne
l’inerenza
all’attività
d’impresa
o
all’attività
professionale svolta, per i quali è espressamente prevista l’indetraibilità, totale o parziale, dell’IVA relativa al loro
acquisto
(art.
19bis
1
del
D.P.R.
n.
633/1972)
(cd.
indetraibilità oggettiva). Detraibilità pro-rata Nel caso in cui il soggetto passivo eserciti sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione (imponibili, non imponibili, intracomunitarie ecc.), sia attività che danno luogo ad operazioni esenti, il diritto alla detrazione dell’IVA spetta in misura proporzionale alla prima categoria di operazioni e il relativo ammontare è quantificato
applicando
una
percentuale
forfetaria
di
detrazione (cd. pro-rata di detraibilità), determinata in base al rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto a detrazione, effettuate nell’anno, e lo stesso ammontare aumentato
delle
operazioni
esenti
effettuate
nell’anno
medesimo (artt. 19, comma 5, e 19bis del D.P.R. n. 633/1972).
14.10.2 La rettifica della detrazione Il soggetto passivo IVA esercita il diritto alla detrazione in base
all’utilizzo
oggettivamente
presumibile
all’atto
dell’acquisto dei beni e servizi, senza che sia necessario attendere l’effettivo utilizzo degli stessi nell’attività d’impresa o professionale. Tuttavia, nell’ipotesi in cui il bene o servizio acquistato sia impiegato in modo diverso rispetto a quello in precedenza prospettato, è necessario procedere alla rettifica della detrazione operata, in aumento o in diminuzione, in conformità all’utilizzo effettivo degli stessi (art. 19bis2 del D.P.R. n. 633/1972).
14.11 Gli obblighi formali e sostanziali Sono molteplici gli adempimenti, sia di natura formale sia di natura sostanziale, previsti a carico dei soggetti passivi IVA.
14.11.1 La dichiarazione di inizio attività I soggetti che intraprendono l’esercizio di un’attività d’impresa, arte o professione devono, in primo luogo, presentare una dichiarazione di inizio attività, entro 30 giorni dall’inizio effettivo dell’attività, all’Agenzia delle Entrate, che attribuisce al contribuente un numero di partita IVA. Tale
obbligo
è
assolto
mediante
la
presentazione
telematica, direttamente o per il tramite di soggetti abilitati, di uno specifico modello all’Agenzia delle Entrate. I soggetti tenuti all’iscrizione al Registro delle imprese
presso
la
Camera
di
Commercio,
possono
consegnare il modello direttamente su supporto informatico attraverso l’inoltro al suddetto registro della Comunicazione unica. Gli esercenti arti o professioni persone fisiche possono optare, in alternativa alla presentazione telematica del modello all’Agenzia delle Entrate, per la consegna diretta o tramite ufficio postale.
14.11.2 I documenti e i registri obbligatori Fatturazione I soggetti passivi IVA hanno l’obbligo di documentare, mediante fattura, tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate (art. 21 del D.P.R. n. 633/1972), le quali rientrano nel campo di applicazione dell’IVA (operazioni imponibili, non imponibili ed esenti), nonché le prestazioni di servizi effettuate nei confronti di soggetti passivi di altri Stati dell’Unione europea (che sono operazioni non soggette ad IVA per mancanza del presupposto territoriale). La fattura deve essere emessa obbligatoriamente in forma elettronica dal 1-1-2019 per la generalità delle cessioni e prestazioni di servizi (vedi infra) salvo specifiche ipotesi di esonero. Ove non sussista l’obbligo, previo accordo tra le parti, la fattura può essere predisposta in formato elettronico. In alcune ipotesi tassative è previsto l’esonero dall’obbligo di fatturazione (come, ad esempio, per i commercianti al minuto); in tal caso, permane l’obbligo di documentare l’operazione in altro modo (scontrino o ricevuta fiscale). La fattura deve essere datata e numerata in ordine progressivo per anno solare e contenere le seguenti indicazioni: ditta, denominazione o ragione sociale, residenza o domicilio dei soggetti fra cui è effettuata l’operazione del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione
per
i
soggetti
non
residenti
e,
relativamente al cedente o prestatore, numero di partita
IVA; se non si tratta di imprese, società o enti devono essere indicati, in luogo della ditta, denominazione o ragione sociale, il nome e il cognome; natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione; corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile, compreso il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono; valore normale degli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono; aliquota, ammontare dell’imposta e dell’imponibile; numero di partita IVA del cessionario del bene o del committente del servizio qualora sia debitore dell’imposta in luogo del cedente o del prestatore, con l’indicazione della relativa norma; il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro di stabilimento del cessionario o committente, per le operazioni effettuate nei confronti di soggetti stabiliti nel territorio di un altro Stato membro dell’Unione Europea; annotazione che la stessa è compilata dal cliente ovvero, per conto del cedente o prestatore, da un terzo. Dal 1-7-2019, la fattura deve indicare anche la data in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi ovvero la data in cui è corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo, se tale data sia diversa dalla data di emissione della fattura (art. 11 D.L. n. 119/2018, conv. in L. n. 136/2018). Fattura elettronica
Dal 1-1-2019, per la generalità dei contribuenti IVA, la fattura deve essere emessa esclusivamente nella forma elettronica attraverso il Sistema di Interscambio (art. 1, comma 3, D.Lgs. 127/2015, come modificato L. 205/2017, dalla D.L. 119/2018 e infine dalla L. 145/2018). Prima della novella legislativa l’emissione della fattura elettronica era oggetto di opzione. L’obbligo riguarda tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti privati residenti o stabiliti nel territorio dello Stato, e le relative variazioni. Sono esonerati coloro che rientrano nel regime forfetario agevolato per gli esercenti attività d’impresa e arti e professioni o che continuano ad applicare il regime fiscale dei minimi nonché le associazioni sportive dilettantistiche che applicano il regime forfettario opzionale. L’obbligo di emissione, trasmissione, conservazione e archiviazione delle fatture emesse esclusivamente in forma elettronica è già in vigore dal 6-6-2014 nei rapporti con Ministeri, Agenzie fiscali ed enti di previdenza e dal 31-3-2015 nei
rapporti
con
le
Amministrazioni
pubbliche
e
le
Amministrazioni autonome (art. 1, commi 209-213, L. 244/2007; D.M. 3-4-2013, n. 55; art. 25 D.L. 66/2014, conv. in L. 89/2014). A seguito dell’introduzione dell’obbligo della fatturazione elettronica: vengono meno gli obblighi di annotazione delle fatture nei registri di cui agli artt. 23 e 25 del decreto IVA (registro fatture emesse e registro fatture ricevute);
gli obblighi di conservazione di cui al D.M. 17-6-2014 si intendono soddisfatti per tutte le fatture elettroniche e i documenti informatici trasmessi attraverso il Sistema di interscambio; sono eliminate le comunicazioni dei dati delle fatture (cd. spesometro). In merito alla conservazione dei file delle fatture elettroniche che sono stati acquisiti dal Sistema di Interscambio, l’art. 1, comma 5bis, del D.Lgs. 127/2015 (inserito dal D.L. 124/2019) dispone che questi saranno memorizzati fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione di riferimento ovvero fino alla definizione di eventuali giudizi. Tali file possono essere utilizzati: dalla Guardia di Finanza per assolvere alle funzioni di polizia economica e finanziaria; dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza per le attività di analisi del rischio e di controllo a fini fiscali. Fattura immediata e fattura differita L’art. 21 del Decreto IVA (così come da ultimo modificato dall’art. 12ter D.L. 34/2019) dispone che la fattura può essere: immediata e, in tal caso, la stessa deve essere emessa entro 12 giorni dall’effettuazione dell’operazione; ovvero differita, per i soli beni mobili e le prestazioni di servizi, e, in tal caso, la stessa deve essere emessa entro il 15 del mese successivo a quello della consegna o spedizione dei
beni, come risultante da apposito documento di trasporto, o a quello di effettuazione della prestazione. Fattura semplificata L’art. 21bis del decreto IVA consente l’emissione delle fatture di ammontare complessivo (cioè IVA compresa) non superiore a 100 euro con modalità semplificate, ovvero riportanti un contenuto minimo rispetto alla contabilità ordinaria. La fattura semplificata è adottabile anche per le note di variazione a credito o a debito di cui all’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, di qualsiasi importo. Scontrino parlante Il cd. “scontrino parlante” è lo scontrino fiscale integrato con i dati relativi alla natura, alla qualità e alla quantità del bene o servizio oggetto dell’operazione e con il codice fiscale dell’acquirente o del committente. Le integrazioni devono essere effettuate tramite il registratore di cassa adattato per tale funzione e non sono ammesse integrazioni manuali o tramite timbri. Lo scontrino parlante permette di dedurre la spesa ai fini delle imposte sui redditi. Documento di trasporto (DDT) Il documento di trasporto (D.P.R. n. 472/1996) è stato introdotto in sostituzione della bolla di accompagnamento delle merci viaggianti, che tuttavia continua ad essere utilizzata per tabacchi, fiammiferi, prodotti soggetti ad accise ed imposte di consumo o a vigilanza fiscale.
Il DDT ha principalmente la funzione di accompagnare la merce in transito qualora non sia stata emessa la fattura immediata ma può essere utilizzata anche per i trasporti a titolo non traslativo della proprietà della merce. Il DDT, che non deve necessariamente accompagnare la merce in quanto può anche essere spedito o inviato per corriere, via fax o come documento informatico, deve essere emesso prima della consegna o spedizione della merce, con indicazione dei dati elencati nell’art. 1 del D.P.R. n. 472/1996. Autofattura In alcune ipotesi (autoconsumo, cessioni gratuite ecc.) è previsto che sia l’acquirente o il committente, se soggetto passivo IVA, in luogo del cedente o del prestatore, ad emettere un’autofattura che documenti l’operazione. Registro delle fatture emesse e registro dei corrispettivi I soggetti passivi IVA non obbligati all’emissione della fattura elettronica devono tenere un apposito registro delle fatture emesse, nel quale registrare tutte le fatture emesse nell’ordine della loro numerazione entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni e con riferimento allo stesso mese di effettuazione delle operazioni. Nel caso di registri tenuti con sistemi meccanografici (ossia mediante l’utilizzo di un computer e di un apposito software), le suddette registrazioni possono essere eseguite entro 60 giorni dalla data di effettuazione delle operazioni, fermo restando l’obbligo di considerare, nelle liquidazioni e nei
versamenti periodici IVA, tutte le operazioni effettuate nel periodo di riferimento, sebbene non ancora registrate. Registro delle fatture di acquisto Nel registro delle fatture di acquisto il soggetto passivo IVA deve registrare le fatture che documentano gli acquisti e le importazioni effettuate nell’esercizio dell’attività d’impresa o dell’attività professionale, al fine di poter esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA relativa a tali acquisti. La registrazione deve avvenire prima della liquidazione periodica nella quale è esercitato il diritto alla detrazione della relativa imposta e comunque entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale relativa all’anno di ricezione della fattura e con riferimento al medesimo anno (art. 25, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, come modificato dall’art. 13 D.L. n. 119/2018, conv. in L. n. 136/2018). Presunzioni di cessioni e di acquisto In materia di IVA il legislatore ha previsto delle presunzioni legali (relative) di cessione e di acquisto di beni, in evasione d’imposta, che i verificatori fiscali possono utilizzare in sede di controllo. Tali presunzioni, inoltre, esplicano i propri effetti (per l’accertamento di ricavi e acquisti “in nero”) anche ai fini del imposte sui redditi (Cass. 7-5-2008, n. 11112). In particolare, si presumono ceduti (art. 1 del D.P.R. n. 441/1997) i beni acquistati, importati o prodotti, come risultante dalla documentazione contabile, che non si trovano nei luoghi in cui l’impresa esercita le proprie operazioni (sede legale, sedi secondarie, filiali ecc.) ovvero presso suoi rappresentanti.
Il
contribuente
può
vincere
la
citata
presunzione se dimostra, in base ad idonea documentazione (registri IVA, documento di trasporto ecc.), che i beni sono stati impiegati nella produzione, consegnati a terzi a titolo non traslativo della proprietà (lavorazione, deposito ecc.), perduti, distrutti o trasformati in beni di altro tipo e di più modesto valore. Si presumono acquistati (art. 3 del D.P.R. n. 441/1997) i beni, non risultanti da fatture di acquisto, che si trovano in uno dei luoghi in cui l’impresa esercita la propria attività; anche in tal caso, tuttavia, il contribuente può vincere la presunzione se dimostra, in base ad idonea documentazione, che i beni sono stati ricevuti a titolo non traslativo della proprietà.
14.11.3 Le variazioni in aumento e le variazioni in diminuzione È possibile che, successivamente all’emissione di una fattura, vi sia la necessità di apportare delle rettifiche alla stessa, in aumento o in diminuzione (art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 567, della L. n. 232/2016 – Legge di bilancio 2017). Variazioni in aumento Nel caso di variazioni in aumento, ossia nel caso in cui successivamente all’emissione di una fattura si verifichino eventi che determinano l’aumento dell’imponibile o dell’IVA, il cedente o prestatore ha l’obbligo di inviare al cliente una fattura integrativa (o nota di addebito o nota di variazione in aumento), in relazione al maggior importo, indipendentemente dal tempo decorso dall’emissione
della fattura originaria e per qualsiasi motivo (inesattezza della fatturazione, venir meno di uno sconto originariamente concesso ecc.). Tale fattura integrativa sarà quindi annotata, dal cedente o prestatore, nel registro delle fatture emesse e sarà computata nella liquidazione IVA di competenza. Variazioni in diminuzione Nel caso di variazioni in diminuzione, ossia nell’ipotesi in cui un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla sua registrazione, venga meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, il cedente può, ma non è obbligato, emettere una nota di variazione in diminuzione (nota di credito) al fine di ridurre l’importo dell’IVA fatturata in precedenza. Se il cedente o prestatore esercita tale facoltà, il cessionario o committente che abbia già registrato la fattura (per lui di acquisto) ha l’obbligo di effettuare la rettifica corrispondente (e, quindi, ridurre l’importo dell’IVA detraibile). Il cedente o prestatore ha la possibilità di effettuare le variazioni in diminuzione senza alcun limite di tempo: nel caso di obbligo derivante da precise disposizioni di legge; in conseguenza della applicazione di sconti o abbuoni, a condizione che gli stessi siano previsti dalle condizioni originarie del contratto; nel caso di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, rescissione, risoluzione del contratto; nel caso di mancato pagamento, totale o parziale, della fattura a causa di procedure concorsuali o procedure
esecutive individuali rimaste infruttuose, accordo di ristrutturazione dei debiti o di piano di risanamento e di riequilibrio pubblicato nel Registro delle imprese. Diversamente, è possibile effettuare le variazioni in diminuzione entro il limite temporale di un anno dalla data di effettuazione dell’operazione, nelle ipotesi di sopravvenuto accordo tra le parti e di inesattezze della fatturazione.
14.11.4 Le liquidazioni e i versamenti Liquidazioni e versamenti periodici Con periodicità mensile o trimestrale, i soggetti passivi IVA hanno l’obbligo di effettuare la liquidazione dell’IVA, ossia di calcolare la differenza tra l’IVA relativa alle operazioni attive effettuate (cessioni di beni e prestazioni di servizi), che costituisce l’IVA esigibile nel periodo di riferimento (mese o trimestre), e l’IVA relativa alle operazioni passive, ossia relativa agli acquisti per i quali si esercita il diritto alla detrazione. La suddetta differenza (IVA a debito) deve essere versata, esclusivamente mediante F24 telematico, entro il 16 del mese successivo al mese di riferimento (contribuenti mensili), ovvero, su opzione, entro il 16 del secondo mese successivo al trimestre di riferimento (contribuenti trimestrali), con la maggiorazione dell’1% a titolo di interesse. I versamenti periodici
costituiscono
un’anticipazione
del
versamento
dell’IVA dovuta in base alla liquidazione definitiva effettuata in
sede di dichiarazione annuale. Possono optare per la liquidazione trimestrale dell’IVA i soggetti che hanno realizzato, nell’esercizio solare precedente, ricavi o compensi: non superiori a 400.000,00 euro, nel caso di soggetti esercenti arti o professioni ovvero esercenti attività d’impresa avente ad oggetto la prestazione di sevizi; non superiori a 700.000,00 euro, nel caso di soggetti esercenti attività d’impresa avente ad oggetto la cessione di beni. Il volume d’affari è dato dalla somma delle operazioni attive effettuate e registrate nell’anno solare, con esclusione delle operazioni fuori campo IVA, delle cessioni di beni ammortizzabili e dei passaggi interni tra più attività separate dello stesso soggetto. Acconto IVA Entro il 27 dicembre di ciascun anno, i soggetti passivi sono obbligati al versamento, con modello F24 telematico, dell’acconto
relativo
all’ultima
liquidazione
dell’anno;
l’importo dell’acconto versato sarà poi successivamente detratto dal risultato della liquidazione definitiva relativa al periodo cui esso si riferisce. La misura dell’acconto è pari all’88% del versamento dovuto per il mese di dicembre, per i contribuenti mensili, ovvero del versamento dovuto in base alla dichiarazione annuale relativa all’anno precedente, per i contribuenti trimestrali su opzione (cd. metodo storico).
Il contribuente ha tuttavia la facoltà di adottare un criterio
previsionale
e,
quindi,
di
versare
l’88%
dell’importo stimato per il periodo di riferimento. Infine, è prevista la possibilità di adottare il cd. criterio analitico, consistente nel versare l’importo dovuto in base ad un’apposita liquidazione delle operazioni effettivamente effettuate alla data del 20 dicembre. L’acconto non va versato se di importo inferiore a 103,29 euro. Versamento del saldo annuale L’IVA dovuta in base alla liquidazione definitivamente effettuata in sede di dichiarazione annuale deve essere versata, con modello F24 telematico, entro il 16 marzo dell’anno successivo al periodo d’imposta di riferimento ovvero entro il termine previsto dall’art. 17, comma 1, del D.P.R. n. 435/2001 per il versamento del saldo delle imposte sui redditi, maggiorando le somme da versare degli interessi nella misura dello 0,40% per ogni mese o frazione di mese successivo alla suddetta data.
14.11.5 Comunicazione dei dati delle fatture emesse e ricevute Al fine di potenziare l’azione di contrasto ai comportamenti fraudolenti posti in essere in materia di IVA, il legislatore aveva reintrodotto, tra gli adempimenti in materia di IVA, l’obbligo della comunicazione annuale delle operazioni, attive e passive, rilevanti ai fini IVA (cd. elenco “clienti e fornitori” o “spesometro”).
Gli obblighi di comunicazione dello spesometro sono venuti meno a decorrere dal 1-1-2019 per l’abrogazione dell’art. 21 del D.L. n. 78/2010 a opera del comma 916 dell’art. 1 della L. n. 205/2017 – Legge di bilancio 2018, direttamente collegata all’estensione obbligatoria della fatturazione elettronica ai soggetti privati.
14.11.6 Comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche A decorrere dal 1-1-2017, i soggetti passivi IVA devono trasmettere telematicamente all’Agenzia delle Entrate entro l’ultimo giorno del secondo mese successivo a ogni trimestre i dati riepilogativi delle liquidazioni periodiche IVA (art. 21bis del D.L. n. 78/2010, conv., con modif., in L. n. 122/2010, introdotto dall’art. 4, comma 2, del D.L. n. 193/2016, conv., con modif., in L. n. 225/2016). La comunicazione relativa all’ultimo trimestre deve essere effettuata entro l’ultimo giorno del mese di febbraio.
14.11.7 Comunicazione telematica dei dati analitici delle fatture L’art. 50bis del D.L. 21-6-2013, n. 69 (cd. decreto del Fare), conv., con modif., in L. 98/2013, con decorrenza dall’1-1-2015, consente agli operatori di optare per la comunicazione in via telematica all’Agenzia delle Entrate dei dati analitici delle fatture di acquisto e cessione di beni e servizi, incluse le relative rettifiche in aumento e in diminuzione, nonché
dell’ammontare dei corrispettivi delle operazioni effettuate e non soggette a fatturazione. La comunicazione, che deve avvenire quotidianamente, permette di omettere una serie di adempimenti informativi (invio
dell’elenco
clienti-fornitori,
comunicazione
delle
operazioni con soggetti economici di Paesi black list) e di evitare alcune forme di responsabilità solidale, evidentemente ritenute non necessarie vista la possibilità di vigilare costantemente sull’operato del soggetto passivo.
14.11.8 Comunicazione relativa a beni venduti tramite piattaforme digitali I soggetti passivi che facilitano, tramite un’interfaccia elettronica (mercato virtuale, piattaforma o portale), le vendite a distanza di beni importati o le vendite a distanza di beni all’interno dell’UE devono trasmettere all’Agenzia delle Entrate, entro il mese successivo a ciascun trimestre, un’apposita comunicazione contenente i seguenti dati: denominazione o dati anagrafici completi, residenza o domicilio,
codice
identificativo
fiscale
se
esistente,
indirizzo di posta elettronica; numero totale delle unità vendute in Italia; a scelta del soggetto passivo, per le unità vendute in Italia, ammontare totale dei prezzi di vendita o prezzo medio di vendita. Il soggetto passivo è considerato debitore d’imposta per le vendite a distanza per le quali non ha trasmesso, o ha
trasmesso in modo incompleto, i suddetti dati, presenti sulla piattaforma, se non dimostra che l’imposta è stata assolta dal fornitore. Tali disposizioni, dettate dall’art. 13 D.L. 34/2019, troveranno applicazione fino al 31-12-2020. Dal 1-1-2021 entreranno in vigore le disposizioni dettate dall’art. 11bis, co. 11-15, D.L. 125/2018.
14.11.9 La dichiarazione annuale IVA I soggetti IVA hanno l’obbligo di presentare, anche se nell’anno solare di riferimento non hanno effettuato operazioni imponibili, la dichiarazione annuale IVA, con la quale essi effettuano l’autoliquidazione definitiva dell’IVA dovuta (o a credito) per l’anno d’imposta. La presentazione deve essere effettuata esclusivamente in via telematica. A decorrere dalle dichiarazioni relative all’IVA dovuta per il 2016, è venuto meno l’obbligo di presentazione della dichiarazione unificata e la dichiarazione IVA deve essere presentata esclusivamente in via autonoma (art. 3, comma 1, e art. 8, comma 1, del D.P.R. n. 322/1998, come modificati dall’art. 1, comma 641, della L. 23-12-2014, n. 190 - Legge di Stabilità 2015 – a sua volta modificato dall’art. 10, comma 8bis, del D.L. n. 192/2014, conv., con modif., dalla L. n. 11/2015). Per quanto concerne i termini di presentazione della dichiarazione IVA, essa va presentata dal 1° febbraio al 30 aprile per l’IVA dovuta a decorrere dal 2017 (art. 8, comma 1,
del D.P.R. n. 322/1998, come modificato dall’art. 4, comma 4, del D.L. n. 193/2016, conv., con modif., in L. n. 225/2016).
14.11.10 La dichiarazione integrativa IVA Analogamente a quanto stabilito ai fini delle imposte dirette e dell’IRAP, ferma restando l’applicazione delle sanzioni e la facoltà di avvalersi dell’istituto del ravvedimento operoso ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997, l’art. 8, commi 6bis-6quinquies, del D.P.R. n. 322/1998 (introdotti dall’art. 5 del D.L. n. 193/2016, conv., con modif., in L. n. 225/2016),
consente
al
contribuente
di
integrare
la
dichiarazione IVA per correggere errori o omissioni che abbiano comportato l’indicazione di un maggior o minor reddito o, comunque, un maggior o minor debito d’imposta o un maggior o minor credito (dichiarazione integrativa “a favore” o “a sfavore” del contribuente).
14.11.11 Regimi speciali IVA Per alcuni settori di attività, il decreto IVA contempla regole particolari inerenti il calcolo dell’imposta, la detrazione dell’IVA
sugli
acquisti
e
gli
obblighi
contabili,
in
considerazione delle caratteristiche peculiari di questi settori. I regimi speciali IVA riguardano: le agenzie di viaggio e turismo; l’editoria; le agenzie di vendita all’asta; il settore dell’agricoltura e della pesca;
le attività di agriturismo e enoturismo; le attività di giochi, spettacoli e trattenimenti pubblici; la cessione di rottami, cascami, materiali di recupero; la cessione di beni usati, di oggetti d’arte, d’antiquariato e da collezione.
14.12 Il rimborso del credito IVA Se, nell’esercizio d’imposta, l’IVA detraibile (sulle operazioni passive) risulta superiore all’IVA dovuta (sulle operazioni attive), si determina un’eccedenza a credito (credito IVA annuale) che, in alternativa all’utilizzo in compensazione ovvero al riporto in avanti (ai fini dello scomputo dai debiti periodici IVA del periodo d’imposta successivo), può essere chiesta a rimborso, parziale o totale, se di importo superiore a 10,33 euro. Possono essere altresì chiesti a rimborso, oltre al credito IVA annuale, i crediti infrannuali. Il credito IVA annuale chiesto a rimborso, non quello infrannuale, può essere altresì ceduto a terzi mediante atto pubblico
o
scrittura
privata
autenticata,
da
notificare
obbligatoriamente all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate o dell’Agente della riscossione competente nei confronti del cedente.
14.12.1 Credito IVA annuale Il credito IVA annuale può essere chiesto a rimborso nel caso di cessazione dell’attività da parte del soggetto passivo (indipendentemente
dall’importo),
ovvero,
nel
caso
di
soggetto in attività, al ricorrere di determinate condizioni (art. 30 del D.P.R. n. 633/1972).
I soggetti in attività possono chiedere il rimborso del credito IVA annuale, se di importo superiore a 2.582,28 euro, al verificarsi di una delle seguenti condizioni: svolgimento di un’attività comportante l’effettuazione di acquisti con un’aliquota media superiore dell’aliquota media sulle operazioni attive, maggiorata del 10%; effettuazione di operazioni non imponibili per un ammontare superiore al 25% dell’ammontare complessivo delle operazioni attive effettuate; acquisto di beni ammortizzabili, anche mediante contratto d’appalto o di locazione finanziaria, e di beni e servizi per studi e ricerche; effettuazione di operazioni non soggette ad IVA, per difetto del presupposto territoriale, per un ammontare superiore al 50% dell’ammontare complessivo di tutte le operazioni attive effettuate; soggetti
non
residenti
in
Italia,
senza
stabile
organizzazione, che si sono identificati direttamente o che hanno nominato un rappresentante fiscale; soggetti che effettuano prevalentemente operazioni con la Pubblica
Amministrazione
e
che
possono
trovarsi
frequentemente in eccedenza di credito IVA a causa del mancato introito dell’imposta sulle operazioni attive (art. 1, comma 629, L. n. 190/2014). Inoltre,
indipendentemente
dall’importo,
è
possibile
chiedere il rimborso del credito IVA nel caso di eccedenze
detraibili per 3 anni consecutivi; in tal caso il rimborso spettante è pari alla minore eccedenza del triennio.
14.12.2 Crediti IVA infrannuali Il contribuente può chiedere, mediante apposita istanza, il rimborso dei crediti IVA maturati nei primi 3 trimestri dell’anno (art. 38bis D.P.R. n. 633/1972). Il rimborso infrannuale può essere richiesto a condizione che il credito sia superiore a 2.582,28 euro e, inoltre, si verifichi una delle seguenti condizioni: svolgimento di un’attività comportante l’effettuazione di acquisti con un’aliquota media superiore dell’aliquota media sulle operazioni attive, maggiorata del 10% (art. 3, co. 6, D.L. n. 250/1995, conv. in L. n. 349/1995); effettuazione di operazioni non imponibili per un ammontare superiore al 25% dell’ammontare complessivo delle operazioni attive effettuate; acquisto di beni ammortizzabili (con esclusione dei beni e servizi per studi e ricerche), per un importo superiore ai 2/3 dell’ammontare complessivo degli acquisti di beni e servizi imponibili effettuati nel trimestre; soggetto
non
residente
in
Italia,
senza
stabile
organizzazione, che si è identificato direttamente o che ha nominato un rappresentante fiscale.
Capitolo 15 L’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) 15.1 Il presupposto dell’IRAP Tra le entrate tributarie delle Regioni a statuto ordinario, la più importante è l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), disciplinata dal D.Lgs. 15-12-1997, n. 446, il cui presupposto si identifica nell’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. È inoltre stabilito che l’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto d’imposta. Nonostante la sua denominazione e sebbene il suo gettito sia destinato alle Regioni (nelle quali è localizzata l’attività produttiva tassata), l’IRAP non può essere considerata, secondo la Corte costituzionale (sent. del 26-9-2003, n. 296), un tributo proprio delle Regioni, in quanto istituito e disciplinato dalla normativa statale, mentre alle Regioni spettano solo competenze di carattere attuativo. L’art. 1, comma 43, L. n. 244/2007 ha previsto che l’IRAP, in attesa della completa attuazione del federalismo fiscale,
assumesse, dall’1-1-2009, la natura di tributo proprio della Regione e sia istituito con legge regionale (tuttavia, le Regioni hanno solo il potere di variare, nei limiti della legge statale, le aliquote, le detrazioni e le deduzioni, nonché stabilire apposite agevolazioni). L’IRAP, qualificata dal legislatore come un’imposta reale, colpisce, sotto il profilo economico, la ricchezza prodotta, e distribuita ai diversi fattori produttivi (lavoro, capitale dei finanziatori esterni all’impresa, lavoro imprenditoriale), da un’attività produttiva autonomamente organizzata (Falsitta). L’evento economico colpito dal tributo è considerato nella sua oggettività
e,
pertanto,
sono
irrilevanti
ai
fini
della
determinazione della base imponibile, i costi non relativi all’attività produttiva che origina la ricchezza tassabile (Gaffuri). È stato osservato come l’IRAP, dal punto di vista economico e giuridico, rappresenti un tributo di natura mista, assimilabile di più alle imposte indirette che a quelle dirette, mentre sotto il profilo della sua concreta applicazione (quantificazione, dichiarazione, riscossione ecc.) essa si configura come un’imposta diretta (Petrangeli).
15.2 Soggetti passivi Soggetti passivi dell’IRAP (art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997, come modificato dall’art. 1, comma 70, della Legge di Stabilità 2016 a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31-12-2015) sono coloro che esercitano abitualmente un’attività autonomamente organizzata, diretta alla produzione o allo scambio di beni, ovvero alla prestazione di servizi, ossia: i soggetti IRES; le società in nome collettivo e in accomandita semplice e quelle a esse equiparate; le persone fisiche esercenti attività commerciali; le persone fisiche, le società semplici e quelle ad esse equiparate esercenti arti e professioni; gli enti non commerciali, pubblici e privati; le Amministrazioni pubbliche, nonché le amministrazioni della Camera dei Deputati, del Senato, della Corte costituzionale, della Presidenza della Repubblica e gli organi legislativi delle regioni a statuto speciale. Non sono soggetti passivi IRAP i fondi comuni di investimento (a cui l’art. 9 del D.Lgs. n. 44/2014 ha equiparato le SICAF – Società di investimento a capitale fisso), i fondi pensione, i GEIE e, dal 2016, i soggetti che esercitano attività agricole e di pesca ai sensi dell’art. 32 del TUIR, nonché le cooperative e loro consorzi.
15.3 La base imponibile La base imponibile dell’IRAP, ossia il valore della produzione netta, è determinata secondo regole che si differenziano in relazione alla tipologia di soggetti passivi (società
di
capitali,
imprese
finanziarie,
imprenditori
individuali ecc.). La base imponibile delle società di capitali La base imponibile delle società di capitali e degli enti commerciali (pubblici e privati), che non esercitano attività finanziaria o assicurativa, è pari alla differenza tra il valore e i costi della produzione risultanti dal conto economico redatto ai sensi dell’art. 2425 c.c., con esclusione dei costi per il personale, delle svalutazioni delle immobilizzazioni, delle svalutazione dei crediti compresi nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide, degli accantonamenti per rischi e altri accantonamenti, nonché dei componenti positivi e negativi di natura straordinaria derivanti da trasferimenti di azienda o di rami di azienda (art. 5 del D.Lgs. n. 446/1997, come modificato dall’art. 13bis, comma 3, del D.L. n. 244/2016, conv., con modif., in L. n. 19/2017). È stabilito che concorrono in ogni caso alla formazione del valore della produzione: i contributi erogati in base a norma di legge, fatta eccezione per quelli correlati a costi indeducibili;
le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dalla cessione di immobili (meramente) patrimoniali (ossia immobili diversi dagli immobili strumentali e dagli immobilimerce). Indipendentemente dall’effettiva collocazione nel conto economico, i componenti positivi e negativi del valore della produzione rilevano ai fini IRAP secondo i criteri di corretta qualificazione, imputazione temporale e classificazione previsti dai principi contabili adottati. Tra
i
componenti
negativi
non
si
considerano
comunque in deduzione: le spese per il personale dipendente e assimilato e per prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa, che siano classificate in voci diverse dalla voce B9) del conto economico (che è una voce indeducibile ai fini IRAP), gli utili spettanti agli associati in partecipazione, i compensi per attività commerciali occasionali, i compensi per prestazioni di lavoro autonomo occasionale ed i compensi attributi per gli obblighi di fare, non fare e permettere; la quota interessi dei canoni di locazione finanziaria, desunta dal contratto; le perdite su crediti; l’IMU; il contributo sanitario obbligatorio versato sul premio RC auto e natanti (art. 12, comma 2bis, del D.L. n. 102/2013, conv., con modif., in L. n. 124/2013).
Deduzioni dalla base imponibile IRAP L’art. 11 D.Lgs. n. 446/1997, come modificato dall’art. 1, comma 1085, L. n. 145/2018, prevede alcune deduzioni dalla base imponibile per la generalità dei soggetti IRAP. Si tratta di deduzioni forfettarie rapportare all’ammontare della base imponibile e di deduzioni relative al costo del lavoro, in via generale non ammesso in deduzione ai fini dell’imposta regionale. Oltre alle deduzioni forfetarie ed analitiche relative al costo del lavoro (tra cui figurano anche quelle relative alle collaborazioni
coordinate
e
continuative),
dalla
base
imponibile IRAP è deducibile la differenza tra il costo complessivo
per
il
personale
dipendente
a
tempo
indeterminato e le suddette deduzioni nonché, nei limiti del 70%, il costo del lavoro per ogni lavoratore stagionale impiegato per almeno 120 giorni per 2 periodi d’imposta, a decorrere dal secondo contratto stipulato con lo stesso datore di lavoro nell’arco temporale di 2 anni a partire dalla data di cessazione del precedente contratto. Soggetti IAS/IFRS Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali, la base imponibile è determinata assumendo le voci del valore e dei costi della produzione, corrispondenti a quelle indicate per i soggetti che adottano i principi contabili nazionali. In sostanza, le imprese IAS adopter devono riclassificare le voci del bilancio IAS/IFRS secondo lo schema di un bilancio redatto in base ai principi contabili nazionali (OIC).
Le regole di coordinamento tra principi contabili e norme fiscali già dettate per i soggetti IAS/IFRS (D.M. 1-4-2009, n. 48 e D.M. 8-6-2011) sono estese anche alle imprese che redigono il bilancio sulla base dei nuovi principi contabili redatti dall’OIC, a eccezione delle micro-imprese (art. 83, comma 1bis, del TUIR, introdotto dall’art. 13bis, comma 2, del D.L. n. 244/2016, conv., con modif.,in L. n. 19/2017; D.M. 3-82017). Imprese
minori
in
regime
di
contabilità
semplificata Per i contribuenti che determinano il reddito ai sensi dell’art. 66 del TUIR, come modificato dall’art. 1, comma 17, della L. n. 232/2016 (Legge di bilancio 2017), ossia in base al principio di cassa e non più in base al principio di competenza, la base imponibile IRAP è determinata in base ai medesimi criteri previsti dall’art. 66 del TUIR: anche ai fini IRAP non rilevano le rimanenze finali (art. 5bis del D.Lgs. n. 446/1997, inserito dall’art. 1, comma 20, della L. n. 232/2016). Marchi e avviamento Indipendentemente dall’imputazione al conto economico, le
quote
di
ammortamento
dei
marchi
d’impresa
e
dell’avviamento sono ammesse in deduzione in misura non superiore a 1/18 del costo. Principio di correlazione I componenti positivi e negativi classificabili in voci del conto economico diverse da quelle rilevanti ai fini IRAP concorrono comunque alla formazione della base imponibile IRAP se correlati a componenti rilevanti (ossia deducibili o
imponibili) della base imponibile di periodi d’imposta precedenti o successivi.
15.4 La determinazione dell’imposta L’IRAP è calcolata applicando alla base imponibile, ridotta delle deduzioni spettanti ai sensi dell’art. 11 del D.Lgs. n. 446/1997 (deduzioni rapportate alla base imponibile e deduzioni per costi di lavoro dipendente), l’aliquota stabilita per lo specifico settore economico di appartenenza, che può essere aumentata fino ad un massimo dello 0,92% da ciascuna Regione. Le aliquote base (in seguito alla rideterminazione attuata dall’art. 1, comma 22, della L. n. 190/2014 – Legge di Stabilità 2015, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31-12-2013) sono stabilite dall’art. 16 D.Lgs. n. 446/1997 nella misura del: 3,9% per le imprese che svolgono attività industriali, commerciali o di servizi e per i lavoratori autonomi; 4,20% per le imprese concessionarie diverse da quelle di costruzione e gestione di autostrade e trafori; 4,65% per le banche e le società finanziarie; 5,9% per le imprese di assicurazioni; 8,5% per le pubbliche amministrazioni, relativamente al valore prodotto nell’esercizio di attività non commerciali.
15.5 La dichiarazione IRAP La dichiarazione annuale IRAP deve essere presentata con modalità
autonoma
esclusivamente
in
via
telematica,
direttamente o tramite intermediari abilitati, all’Agenzia delle Entrate. Il termine per la presentazione è: il 30 novembre dell’anno successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta per le persone fisiche, le società semplici, le società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché per le società e associazioni a esse equiparate; l’ultimo giorno del 11° mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta, per i soggetti IRES e le Amministrazioni pubbliche.
15.6 Versamento, accertamento e riscossione dell’imposta Per l’IRAP è previsto, come per le imposte sui redditi, il versamento in acconto e a saldo. Il D.Lgs. n. 446/1997, infatti, rinvia a quanto disposto per l’IRPEF e per l’IRES sia in materia di versamenti sia in materia di accertamento e riscossione (artt. 24, 25 e 30) finché le singole regioni non provvederanno a regolamentare con proprie leggi.
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Libro VIII Gestione e rendicontazione di progetti di ricerca nazionali, europei ed internazionali SOMMARIO Capitolo 1 La ricerca scientifica e la sua pianificazione Capitolo 2 La gestione dei progetti. Il rendiconto dei costi
Libro IX Gestione dei fondi strutturali SOMMARIO Capitolo Unico I fondi strutturali e gli altri finanziamenti europei
Capitolo Unico I fondi strutturali e gli altri finanziamenti europei 1.1 La politica di coesione dell’Unione europea e i suoi strumenti Secondo le indicazioni contenute nell’art. 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), con la politica di coesione economica, sociale e territoriale, spesso definita più semplicemente politica regionale europea, l’Unione
mira “a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie Regioni ed il ritardo delle Regioni meno favorite”. L’attuale disciplina della politica di coesione, dopo le modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona, è riportata nel Titolo XVIII del TFUE, agli articoli da 174 a 179. Nello specifico tali articoli stabiliscono che, per promuovere uno sviluppo armonioso
dell’insieme
dell’Unione,
questa
sviluppa
e
prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie Regioni ed il ritardo delle Regioni meno favorite
(zone
rurali,
zone
interessate
da
transizione
industriale e Regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le Regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le Regioni insulari, transfrontaliere e di montagna).
1.2 La Strategia Europa 2020 Il ciclo di programmazione della politica di coesione europea si svolge per un periodo di 7 anni. Quello attualmente operativo copre gli anni dal 2014 al 2020 ed è il frutto della cosiddetta Strategia Europa 2020 approvata nel 2010. Si tratta di un documento con il quale l’Unione europea ha fissato gli obiettivi
da
raggiungere
entro
la
fine
del
decennio,
promuovendo una crescita economica intelligente, sostenibile e inclusiva e creando le condizioni per un’economia competitiva che favorisca un più alto tasso di occupazione. Nello specifico i 5 grandi obiettivi fissati sono: 1. innalzare al 75% il tasso di occupazione; 2. aumentare al 3% del PIL gli investimenti pubblici e privati per la ricerca e lo sviluppo; 3. abbattere le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% la quota delle fonti derivanti da energie rinnovabili e puntare a un miglioramento dell’efficienza energetica; 4. migliorare i livelli d’istruzione; 5. promuovere la lotta alla povertà e all’emarginazione favorendo l’inclusione sociale.
1.3 I Fondi strutturali e di investimento (fondi SIE) Per il raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020, la UE ha previsto lo stanziamento di appositi fondi, più della metà dei quali viene erogata attraverso i 5 Fondi strutturali e d’investimento europei (fondi SIE). I Fondi sono gestiti congiuntamente dalla Commissione europea e dai paesi dell’UE. I Fondi strutturali e d’investimento europei sono: il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) – che promuove uno sviluppo equilibrato nelle diverse regioni dell’UE; il Fondo sociale europeo (FSE) – che sostiene progetti in materia di occupazione in tutta Europa e investe nel capitale umano dell’Europa: nei lavoratori, nei giovani e in tutti coloro che cercano un lavoro; il Fondo di coesione (FC) – che finanzia i progetti nel settore dei trasporti e dell’ambiente nei paesi in cui il reddito nazionale lordo (RNL) pro capite è inferiore al 90% della media dell’UE; il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) – che si concentra sulla risoluzione di sfide specifiche cui devono far fronte le zone rurali dell’UE;
il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) – che aiuta i pescatori a utilizzare metodi di pesca sostenibili e le comunità costiere a diversificare le loro economie, migliorando la qualità della vita nelle regioni costiere europee. Tutti questi Fondi sono gestiti dai paesi stessi, attraverso accordi di partenariato. Ogni paese prepara un accordo, in collaborazione con la Commissione europea, che illustra in che modo i Fondi saranno utilizzati durante il periodo di finanziamento 2014-2020. Con la programmazione 2014-2020 è stato riproposto e rafforzato un meccanismo incentivante in base al quale si assegnano risorse aggiuntive a quei programmi che, in sede di verifica dei risultati raggiunti, abbiano meglio realizzato i propri obiettivi. Disciplinata dagli articoli 20 e ss. del regolamento n. 1303/2013, la riserva di efficacia dell’attuazione è costituita da una percentuale (il 6%) delle risorse destinate ai Fondi; tale importo sarà assegnato a quei programmi operativi che, in seguito ad una verifica operata a partire dal 2019, avranno ottenuto i risultati migliori. Con il Regolamento 2017/2305 del 12 dicembre 2017 (che ha modificato il precedente Regolamento n. 1303/2013 per quanto riguarda l’ammontare delle risorse per la coesione e per i due Obiettivi “Investimenti” e “Cooperazione”), le risorse per la coesione economica, sociale e territoriale disponibili per gli impegni di bilancio per il periodo 2014-2020 sono state aggiornate.
Gran
parte
delle
risorse
è
destinata
all’obiettivo
“Investimenti in favore della crescita e dell’occupazione”, che interessa le seguenti tre categorie di regioni: regioni meno sviluppate, ovvero con un PIL pro capite inferiore al 75% della media UE-27 (per l’Italia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia e Puglia); regioni in transizione, con un PIL pro capite fra il 75% e il 90% della media UE (per l’Italia, Abruzzo, Molise e Sardegna); regioni più sviluppate, con un PIL pro capite superiore al 90% della media del’UE (per l’Italia, le regioni del centro nord non incluse nel nuovo obiettivo regioni in transizione). Le risorse residue sono destinate all’Obiettivo della cooperazione
transnazionale,
interregionale
e
transfrontaliera e all’iniziativa a favore dell’occupazione giovanile. Vediamo ora in maggior dettaglio i singoli fondi.
1.3.1 Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) Secondo quanto stabilito dall’art. 2 del regolamento n. 1301/2013, il FESR contribuisce al finanziamento del sostegno destinato a rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale
eliminando
le
principali
disparità
regionali
nell’Unione tramite lo sviluppo sostenibile e l’adeguamento strutturale delle economie regionali, compresa la riconversione
delle Regioni industriali in declino e delle Regioni in ritardo di sviluppo. Le attività sostenute dal fondo sono elencate dall’art. 3 regolamento n. 1301/2013 (fra cui: creazione di posti di lavoro sostenibili, tramite aiuti diretti a investimenti nelle PMI, investimenti produttivi finalizzati alla cooperazione tra grandi imprese e PMI; investimenti in infrastrutture nei settori dell’energia, dell’ambiente, dei trasporti e TIC; investimenti in infrastrutture sociali, sanitarie, di ricerca, di innovazione, economiche ed educative; infrastrutture per la cultura e il turismo sostenibile; creazione di reti, cooperazione e scambio di esperienze tra le autorità competenti regionali, locali e società civile). L’art. 4 del regolamento, inoltre, stabilisce delle regole per garantire la concentrazione degli investimenti dell’Unione su alcune priorità ed evitare in tal modo una dispersione eccessiva in microprogetti delle risorse disponibili. Nel regolamento, pertanto, è specificato che una determinata percentuale delle risorse disponibili deve essere destinata ai quattro obiettivi prioritari del FESR (rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione; migliorare l’accesso alle TIC, nonché l’impiego e la qualità delle medesime; promuovere la competitività delle PMI; sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori).
1.3.2 Il Fondo sociale europeo (FSE) Il FSE è il principale strumento finanziario dell’Unione europea per investire nelle risorse umane attraverso azioni che
consentano di accrescere le opportunità di occupazione dei cittadini europei, promuovere lo sviluppo dell’istruzione e migliorare la situazione dei soggetti più vulnerabili a rischio di povertà. Secondo quanto indicato dall’art. 2 del regolamento n. 1304/2013 il FSE ha infatti il compito di promuovere i livelli e la qualità dei posti di lavoro; migliorare l’accesso al mercato del lavoro; accrescere i livelli di istruzione e formazione; combattere la povertà e migliorare l’inclusione sociale. Anche per il FSE è introdotto un principio di concentrazione: l’art. 4, par. 2, del regolamento n. 1304/2013 stabilisce, infatti, che in ciascuno Stato membro almeno il 20% delle risorse totali dell’FSE deve essere attribuito all’obiettivo tematico “promuovere l’inclusione sociale, combattere la povertà e tutti i tipi di discriminazione”.
1.3.3 Il Fondo di coesione Istituito nel 1994, il Fondo di coesione ha come obiettivo principale quello di sostenere le Regioni europee più povere e stabilizzare le loro economie. Secondo le indicazioni del regolamento n. 1303/2013, il Fondo
sovvenziona
progetti
rientranti
negli
obiettivi
tematici 4, 5, 6 e 7 (sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio; promuovere l’adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione dei rischi; preservare e tutelare l’ambiente e promuovere l’uso efficiente delle risorse; promuovere sistemi
di trasporto sostenibili ed eliminare le strozzature nelle principali infrastrutture di rete). I
settori
di
intervento
del
Fondo
sono
quindi
sostanzialmente due: le reti transeuropee di trasporto, in sigla RTE-T (spesso indicate con la corrispondente sigla inglese TEN-T, Transeuropean networks–Transport); la tutela dell’ambiente. Il Fondo opera solo in quegli Stati membri con un reddito nazionale lordo (RNL) pro capite inferiore al 90% della media dell’Unione europea. Attualmente sono considerati ammissibili per il periodo 2014-2020 i seguenti Stati: Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. L’Italia è esclusa in quanto il RNL per abitante supera il 90% della media dell’Unione europea.
1.3.4 Il Fondo europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale (FEASR) Il FEASR è divenuto operativo in seguito all’approvazione del regolamento CE n. 1290/2005 di riforma dell’intera politica agricola europea (PAC) ed è attualmente disciplinato dal regolamento UE n. 1305/2013 che, all’articolo 4, ne individua gli obiettivi: nell’ambito generale della PAC, infatti, il Fondo deve fornire sostegno allo sviluppo rurale, comprese le attività nel settore alimentare e non alimentare, nonché forestale.
Il successivo articolo 5 individua le 6 priorità chiave dell’Unione in materia di sviluppo rurale, che a loro volta esplicitano i pertinenti obiettivi tematici inseriti del QSC:
1. promuovere il trasferimento di conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo e forestale; 2. potenziare in tutte le Regioni la redditività delle aziende agricole e la competitività dell’agricoltura; 3. promuovere l’organizzazione della filiera alimentare; 4. valorizzare gli ecosistemi connessi all’agricoltura e alla silvicoltura; 5. incentivare il passaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio; 6. adoperarsi per l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone rurali.
1.3.5 Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) Fino al 2013 nel settore della pesca ha operato il Fondo europeo per la pesca (FEP), sostituito in questo nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 dal FEAMP, disciplinato con il regolamento quadro n. 1303/2013. Gli obiettivi generali assegnati a questo strumento finanziario dal regolamento istitutivo n. 508/2014 sono (art. 5) in particolare: a. promuovere una pesca e un’acquacoltura competitive; b. favorire l’attuazione della politica comune della pesca (PCP)
e
della
dell’Unione.
politica
marittima
integrata
(PMI)
Nell’ambito di tali obiettivi generali, il successivo articolo 6 individua le priorità da perseguire, in particolare promuovere una pesca sostenibile sotto il profilo ambientale, efficiente in termini di risorse, innovativa, competitiva e basata sulle conoscenze.
1.4 La programmazione “a cascata” Da diversi anni, l’Unione europea ha abbandonato l’approccio centralistico che caratterizzava le prime azioni in questo settore per adottare un modello di programmazione “a cascata” che si articola nelle seguenti fasi: ogni 7 anni l’Unione elabora il proprio quadro finanziario pluriennale (QFP), il documento cardine della programmazione finanziaria europea nel quale sono individuate le risorse a disposizione dell’organizzazione e si procede alla loro suddivisione tra le diverse azioni intraprese. Il QFP attualmente in vigore è stato adottato con il regolamento UE n. 1311/2013 del 2 dicembre 2013 e copre il periodo 2014-2020; il
secondo
Commissione
step
è
l’elaborazione,
europea,
di
un
da
quadro
parte
della
strategico
comune (QSC), un documento nel quale sono definite le modalità con cui i fondi SIE devono contribuire alla strategia
dell’Unione
per
una
crescita
intelligente,
sostenibile e inclusiva e sono riportate le disposizioni per promuovere un uso integrato dei fondi SIE; sulla base del QSC, ogni Stato membro è tenuto ad elaborare uno specifico accordo di partenariato (AP), vale a dire un documento nel quale sono calate nel
contesto nazionale tutte le indicazioni contenute nel QSC, con indicazione di come si intende utilizzare le risorse disponibili, per quali progetti e con quali modalità di controllo e verifica. Tale documento copre l’intero periodo 2014-2020 ed è elaborato da ciascuno Stato membro con le competenti autorità regionali e locali, le parti economiche e sociali e le organizzazioni non governative. Tale
accordo
è
successivamente
trasmesso
alla
Commissione e approvato da quest’ultima. L’accordo di partenariato dell’Italia è stato adottato il 29 ottobre 2014; insieme all’accordo di partenariato gli Stati membri presentano anche i programmi
operativi
(PO),
documenti nei quali sono individuate le singole azioni che si intende intraprendere e per le quali sono richiesti i finanziamenti. Si suddividono a loro volta in programmi operativi nazionali (PON) e programmi operativi regionali (POR), che possono essere monofondo o plurifondo.
Per
i
fondi
del
FEASR
assumono
la
denominazione di programmi di sviluppo rurale (PSR).
1.4.1 L’accordo di partenariato L’accordo di partenariato è l’elemento centrale intorno al quale ruota l’intero sistema di gestione dei fondi europei. Si tratta di un documento elaborato dalle autorità centrali di ciascuno
Stato
membro
e
frutto
di
un’ampia
concertazione con le Regioni, le autorità locali e altri soggetti interessati, che viene sottoposto all’esame della Commissione europea, eventualmente discusso e modificato e
infine approvato da quest’ultima. Nell’accordo di partenariato ogni Stato indica le modalità con le quali intende utilizzare i fondi disponibili, con la dettagliata indicazione dei programmi che intende attuare, e si impegna a fornire un’ampia rendicontazione dei progressi conseguiti mediante le relazioni annuali. L’accordo di partenariato dell’Italia è stato presentato il 22 aprile 2014 e approvato dalla Commissione il 29 ottobre 2014. Riguarda le risorse stanziate per il periodo 2014-2020 nell’ambito di 4 fondi strutturali: FESR, FSE, FEASR e FEAMP (l’Italia non rientra tra gli Stati beneficiari dei finanziamenti del Fondo di coesione). Le priorità individuate, e sulle quali si concentra la maggior parte degli investimenti, sono le seguenti: creazione di un contesto imprenditoriale orientato all’innovazione
aumentando
gli
investimenti
privati
nell’ambito di ricerca e sviluppo, nonché, promuovendo lo sviluppo della “e-economy”, incentivando le start-up, la crescita e la competitività delle piccole imprese; realizzazione di infrastrutture efficienti per la crescita economica, l’occupazione e una gestione efficiente delle risorse naturali; promozione di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, sostegno all’inclusione sociale e miglioramento della
qualità
del
capitale
umano,
in
particolare
aumentando gli sbocchi occupazionali per i gruppi sociali più vulnerabili (giovani, donne, lavoratori più anziani, migranti e persone a rischio di esclusione sociale e
povertà), accrescendo la qualità dell’istruzione e della formazione, nonché ammodernando e potenziando le istituzioni del mercato del lavoro; supporto alla qualità, efficacia ed efficienza della pubblica amministrazione riducendo gli oneri amministrativi delle imprese,
promuovendo
servizi
di
“e-government”,
garantendo l’efficienza del sistema giudiziario; rafforzamento della capacità degli organismi preposti alla gestione dei programmi dei Fondi SIE, in particolare nelle aree meno sviluppate. Nel documento, come prescritto dalla regolamentazione europea, sono indicati anche i programmi operativi adottati.
1.4.2 I programmi operativi (PO) I PO, come detto, si suddividono in programmi operativi nazionali (PON) e programmi operativi regionali
(POR),
che
possono
essere
monofondo
o
plurifondo. Per i fondi del FEASR assumono la denominazione di programmi di sviluppo rurale (PSR). Ciascun programma copre il periodo compreso fra il primo gennaio 2014 e il 31 dicembre 2020. Le regole generali sulla predisposizione, sul contenuto e sull’eventuale modifica di tali programmi sono riportate negli articoli 26 e seguenti del regolamento n. 1303/2013. I programmi sono elaborati dagli Stati membri e presentati alla
Commissione
entro
3
mesi
dalla
presentazione
dell’accordo di partenariato. Tutti i programmi sono corredati
della valutazione ex ante (le precondizioni che devono essere individuate in anticipo affinché il programma operativo proposto possa portare ad un uso efficiente ed efficace delle risorse impegnate). Ciascun programma definisce le priorità, stabilendo gli obiettivi specifici, le dotazioni finanziarie del sostegno dei fondi SIE e il corrispondente cofinanziamento nazionale. Nell’accordo di partenariato presentato dall’Italia sono previsti:
11 programmi nazionali cofinanziati dal FESR e/o dal FSE: PO “Ricerca e innovazione”, PO “Politiche attive per l’occupazione”, PO “Inclusione”, PO “Istruzione”, PO “Imprese e competitività”, PO “Reti e mobilità”, PO “Iniziativa a favore dell’occupazione giovanile”, PO “Città metropolitane”, PO “Cultura”, PO “Legalità” e PO “Governance”; programmi regionali per le 21 Regioni e Province autonome, generalmente distinti per i due fondi FESR e FSE, con l’eccezione delle Regioni Calabria, Molise e Puglia che dispongono ciascuna di programmi plurifondo, per un totale di 39 programmi regionali. Inoltre sono previsti 23 programmi di sviluppo rurale, cofinanziati dal FEASR, di cui 21 a livello regionale e 2 a livello nazionale, e 1 programma per gli affari marittimi e la pesca cofinanziato dal FEAMP.
1.4.3 La gestione dell’accordo di partenariato e dei programmi operativi
Per quanto riguarda gli aspetti gestionali, il regolamento n. 1303/2013 prevede, per ciascun programma operativo, che lo Stato membro proceda alla nomina di: un’autorità di gestione, vale a dire un soggetto al quale lo Stato membro attribuisce il compito di gestire uno o più programmi operativi. Può essere un’autorità pubblica o un organismo pubblico nazionale, regionale o locale o un organismo privato designato dallo Stato membro per ciascun programma operativo e può essere designata anche per più di un programma operativo; un’autorità di certificazione, vale a dire un soggetto al quale lo Stato membro attribuisce il compito di certificare le dichiarazioni di spesa e le domande di pagamento prima del loro invio alla Commissione europea; un’autorità
di
audit,
funzionalmente
indipendente
dall’autorità di gestione e dall’autorità di certificazione, responsabile della verifica dell’efficace funzionamento del sistema di gestione e controllo. I controlli di audit cui sono sottoposte le spese dichiarate si basano su un campione rappresentativo e, come regola generale, su un metodo di campionamento statistico.
1.4.4 La verifica: il sistema di gestione e controllo (SI.GE.CO.) Il regolamento n. 1303/2013 prevede che ogni Stato membro istituisca un sistema di gestione e controllo
(SI.GE.CO.) dei Fondi europei ispirato ai seguenti principi generali (art. 72 del regolamento quadro): a. una descrizione delle funzioni degli organismi coinvolti nella gestione e nel controllo e la ripartizione delle funzioni all’interno di ciascun organismo; b. l’osservanza del principio della separazione delle funzioni fra tali organismi e all’interno degli stessi; c. procedure atte a garantire la correttezza e la regolarità delle spese dichiarate; d. sistemi
informatizzati
per
la
contabilità,
per
la
memorizzazione e la trasmissione dei dati finanziari e dei dati sugli indicatori, per la sorveglianza e le relazioni; e. sistemi di predisposizione delle relazioni e sorveglianza nei casi in cui l’organismo responsabile affida l’esecuzione dei compiti a un altro organismo; f. disposizioni per l’audit del funzionamento dei sistemi di gestione e controllo; g. sistemi e procedure per garantire una pista di controllo adeguata; h. la prevenzione, il rilevamento e la correzione di irregolarità, comprese le frodi, e il recupero di importi indebitamente versati, compresi, se del caso, gli interessi su ritardati pagamenti. La Commissione può sospendere (art. 142) la totalità o una parte dei pagamenti intermedi a livello di priorità o di programmi operativi qualora vi siano gravi carenze nel funzionamento effettivo del sistema di gestione e controllo, che
mettono a rischio il contributo dell’Unione al programma operativo e per le quali non sono state adottate misure correttive.
1.5 I finanziamenti diretti: programmi tematici e strumenti finanziari Quelli finora esaminati sono denominati nel linguaggio dell’Unione europea come finanziamenti indiretti (o fondi a gestione indiretta) dal momento che le istituzioni europee delegano ai singoli Stati membri tutte le fasi operative, adottando il cosiddetto sistema di “responsabilità condivisa”; la Commissione, in pratica, non ha un rapporto diretto con il beneficiario finale del finanziamento ma mediato da autorità nazionali, regionali o locali che hanno il compito di programmare gli interventi, emanare i bandi e gestire le risorse. Accanto a quelli indiretti, però, la Commissione gestisce anche una pluralità di finanziamenti diretti (o fondi a gestione diretta), operativamente facenti capo alle singole Direzioni generali sulla base del settore in cui si opera (ricerca, istruzione, ambiente, trasporti ecc.); in alcuni casi la gestione è delegata a specifiche Agenzie europee. I finanziamenti diretti sono
costituiti
essenzialmente
da
sovvenzioni,
prestiti,
garanzie o versamenti di natura non commerciale, che devono essere integrati da risorse proprie dei beneficiari. In particolare:
i programmi tematici pluriennali sono delle specifiche azioni intraprese dalla Commissione nei più svariati settori: rientrano in questa categoria programmi come Erasmus+ (per il settore della cultura), Cosme (per migliorare la competitività e la sostenibilità delle imprese dell’Unione sui mercati), Horizon 2020 (per il settore della ricerca e dell’innovazione), LIFE (nel settore ambientale e per promuovere lo sviluppo sostenibile); in effetti sono attualmente operativi una trentina di programmi che assumono le più disparate denominazioni e finalità e spesso sono articolati in sottoprogrammi. Tali programmi
offrono
una
forma
di
cofinanziamento
dall’importo variabile. I soggetti che intendono presentare proposte (possono essere sia enti pubblici che soggetti privati) devono soddisfare requisiti di ammissibilità legale, capacità
finanziaria
e
tecnica;
i
progetti,
inoltre,
richiedono la partecipazione di partnership a carattere transnazionale e devono coinvolgere normalmente più organismi di almeno due Stati membri diversi. I fondi a gestione diretta seguono due procedure di aggiudicazione distinte: a. le sovvenzioni (grants), che assumono la forma di un cofinanziamento assegnato a progetti le cui candidature sono presentate a seguito d’inviti a presentare proposte (call for proposals), pubblicati periodicamente
dagli
organismi
sovvenzioni
a
fondo
perduto
percentuale
dei
costi
europei. coprono
ammissibili
che
Le una
varia
mediamente tra il 50% e l’80%. Sono disciplinate dagli articoli 121 e seguenti del regolamento finanziario dell’Unione europea n. 966/2012; b. le
gare
d’appalto
(contracts)
finalizzate
all’acquisto di beni, servizi o opere da parte della Commissione Europea. I fondi sono erogati nell’ambito di bandi di gara (call for tenders) pubblicati periodicamente e coprono il 100% del valore del servizio, fornitura o lavoro prestato comprensivo dell’utile d’impresa. Si differenziano dalle sovvenzioni perché il beneficiario può porre in essere anche attività di tipo commerciale o con finalità di lucro. Sono disciplinate dagli articoli 101 e seguenti del regolamento finanziario dell’Unione europea n. 966/2012; gli strumenti finanziari. Si tratta di risorse destinate a fornire
un
sostegno
per
progetti
che
possono
potenzialmente divenire auto-sostenibili, ma che nella fase di start-up non possono contare su un capitale iniziale adeguato; si possono concretizzare in prestiti, garanzie o capitale netto, ma non è escluso che l’intervento assuma forme di sostegno non monetarie, quali assistenza tecnica e abbuoni di interesse. In genere sono gestiti dalla Banca europea per gli investimenti (BEI) e dal Fondo europeo per gli investimenti (FEI) e sono erogati ai soggetti beneficiari attraverso degli intermediari finanziari.
1.6 Il cofinanziamento nazionale e la programmazione complementare Ai fini della politica di coesione, oltre alle risorse comunitarie
vanno
considerate,
per
il
principio
della
addizionalità, le risorse provenienti dal cofinanziamento nazionale, posto a carico del Fondo di rotazione per l’attuazione delle politiche comunitarie (cd. Fondo IGRUE). Nell’ambito della programmazione delle politiche di coesione nazionali, un ruolo determinante è svolto dal Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) – disciplinato dal D.Lgs. n. 88 del 2011 che ha così ridenominato il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) – nel quale sono iscritte le risorse finanziarie aggiuntive nazionali, destinate a finalità di riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese, nonché a incentivi e investimenti pubblici. Le risorse, si ricorda, sono destinate a sostenere esclusivamente interventi per lo sviluppo, anche di natura ambientale, secondo la chiave di riparto dell’80 per cento nelle regioni del Mezzogiorno e del 20 per cento nelle aree del CentroNord.
All’attuazione delle politiche di coesione concorrono anche gli
interventi
della
cosiddetta
“Programmazione
complementare”. Alla luce delle precedenti esperienze relative ai ritardi nell’utilizzo delle risorse comunitarie e al rischio di non poterne beneficiare per effetto del cd. disimpegno automatico a cui sono assoggettate, la legge di stabilità 2014 (legge n. 147/2013, art. 1, co. 242) ha previsto che le risorse di cofinanziamento concorrono altresì al finanziamento di interventi cd. complementari rispetto ai programmi cofinanziati dai fondi strutturali, inseriti nell’ambito della programmazione
strategica
definita
con
l’Accordo
di
partenariato. Si tratta di quei programmi finanziati con le disponibilità del Fondo di rotazione resesi disponibili a seguito dell’adozione di Programmi operativi con un tasso di cofinanziamento
nazionale
inferiore
rispetto
a
quanto
programmato ai sensi del Reg. UE n. 1303/2013 (50% per i POR e 45% per i PON), che vengono pertanto trasferite al di fuori dei programmi operativi stessi, a favore di interventi definiti,
appunto,
complementari
rispetto
alla
programmazione dei fondi strutturali 2014-2020. I criteri di cofinanziamento nazionale dei programmi europei per il periodo 2014-2020 nonché la programmazione degli “interventi complementari” sono stati disciplinati dal CIPE, con la delibera 28 gennaio 2015, n. 10.
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