Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano. Saggi su «MondOperaio», 1975-1989 8860360072, 9788860360076

Gli anni settanta inaugurano una stagione decisiva della democrazia italiana. Consumatesi le esperienze del centrismo e

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Gli anni settanta inaugurano una stagione decisiva della giovane democrazia italiana. Consumatesi le esperienze del centrismo e del centro-sinistra, di fronte all'intensità dei cambiamenti sociali è venuto al pettine il nodo di un più maturo sviluppo del sistema politico. I comunisti di Bcrlinguer hanno lanciato l'idea del compromesso storico. Ma è questa la formula che può sbloccare la democrazia italiana? O non è piuttosto venuto il momento di porre in atto quel principio dell'alternanza al governo del paese, senza il quale una democrazia rappresentativa non può dirsi davvero compiuta? Il professor Bobbio, questa volta, sceglie di scendere in campo. Ed è un Bobbio inatteso, militante quello che spunta tra le pagine appassionate dei suoi interventi politici di quegli anni: un Bobbio battagliero, partecipe - sia pure con il suo inconfondibile e personalissimo stile - della battaglia intrapresa da quel gruppo di dirigenti politici e di intellettuali socialisti che si sono raccolti in quegli anni attorno alla rivista «MondOperaio». Si tratta di introdurre nel nostro sistema democratico quel fisiologico cambio di maggioranze e di governi cui l'Italia sembra volersi in tutti i modi sottrarre. E conseguentemente di abbracciare con forza anche quelle ragioni di un riequilibrio asinistra delle quali il Partito socialista sembra essere il primo, convinto assertore. Senza mai, beninteso, tradire le regole della democrazia rappresentativa, prima fra tutte quella che la vede come l'esatto contrario di

Saggine/ 89

Norberto Bobbio

COMPROMESSO E ALTERNANZA nel sistema politico italiano

Saggi su «MondOperaio», 1975-1989

con una introduzione di Carmine Donzelli e una postfazione di Luciano Cafagna

DONZELLI EDITORE

© 2006 Eredi di Nor~no Bobbio O 2006 Donzelli editore, Roma viaMentana2b INTERNET www.don:ielli.it E-MAIL [email protected] ISBNSS-6036-007-2

_ _ _ COMPROMESSO E ALTERNANZA _ __

Indice

p.

v11

Introduzione di Carmine Donzelli Nota bibliografica I. Esiste una donrina marxista dello stato? (1975)

29 59 85 121

143

11. Quali alternative alla democrazia rappresentativa? (1975) 111. Quale socialismo? (1976) 1v. Questione socialista e questione comunista (1976) v. Compromesso e alternanza nel sistema politico

italiano (1977) VI. Mao::ismo e socialismo (1978)

171 181 205

Vll. Un partito tra due fuochi (1980) VIII. Riformismo, socialismo, uguaglianza (1985) IX. L'occasionedacogliere(l989)

20

Ma c'è un futuro per questo partito? (1976)

Appendice Conversazione con Paolo Midi

219 223

La democrazia dell'applauso (1984) Norberto Bobbio e la politica militante Postfazione di Luciano Cafagna

_ _ _ COMPROMESSO E ALTERNANZA _ __

Introduzione di Carmine Donzelli

Gli scrini di Norbeno Bobbio comparsi su «MondOperaio» tra la metà degli anni settanta e la fine degli anni ottanta - di cui si raccoglie qui la pane più significativa' hanno un caranere dichiaratamente militante. Chiunque conosca la biografia intellettuale di Bobbio sa bene che l'interlocuzione intellettuale con la politica è stata per il professore di Torino una pratica costante che ha attraversato tutto l'arco della sua attività. Nella postfazione a questo volume, Luciano Cafagna ricostruisce, in un saggio ' Per un riforimen10 anali1ico alla pubblicazione dei 1esci, dr. la Nor.i biblwgrafica che segue questa introduzione. L'elenco completo degli scritti e dci:li interventi dì_Bobbio su MondOpc~aio si può consultare nell.a sezione Norberto Bobbro: le opere, gli stud1, , libn, del sito www.erasmo.ulgobem, esemplarmente curat.o d~I Centro studi Piero Gobeni di Torino. Tuni i testi in questione, vale a dire sia quelli compresi nel presente volume, sia quelli che non sono stati qui raccolti, sono anche consultabili •on line•, oltre che nella 0

0

1~~~hi~~~o

d~f!~i:ili~!e~~~d~~c:::;:~~PPr~!~?c:~~r: èB!~~~jt~ dj Norberto Bobbio, a cura di Pietro Polito. La sede dell'archivio è stata inaugurata il 14 ottobre 2005, quando un primo nucleo documentario è stato apcno alla consul1azione. Federico Coen, direttore di •MondOperaio• negli anni 1973-1984, e Luciano Pellicani, attuale direttore della rivista, sono stati messi al corrente del r.roçetto di questo volume e ne hanno apprezzato la realizzazione. A loro va ~~~:;;;~:lc~ti~ri!~:~~;~;i~:n~a:!:d:tnneegl\ ~:;t?~~~ti~erto Bobbio Va da sé che mia, e mia sohanm, è la responsabilità delle considerazioni e dei giudizi che avanzo nelle pagine che seguono.

_ _ _ _ _ _ Carmine Donzelli _ _ _ _ __

che è insieme una testimonianza diretta, un confronto appassionato e un contributo di grande rigore critico, le diverse fasi del rapporto tra Bobbio e la politica, mostrando come, nonostante il conclamato fastidio personale verso ogni forma di coinvolgimento troppo diretto nella mischia, la volontà di misurarsi con le discussioni e con le scelte dei partiti della sinistra italiana abbia rappresentato per lui una costante irrinunciabile. È proprio Cafagna, tuttavia, ad osservare che gli scritti di Bobbio su «MondOperaio» del decennio a cavallo tra anni settanta e ottanta hanno una intenzionalità particolare, un carattere esplicitamente politico, forse mai così presente nell'attività intellettuale di Bobbio. Un simile carattere non viene a questi scrini solo dal fatto di comparire su una testata che è l'organo teorico del Partito socialista. E nemmeno deriva solo dall'essere un contributo esplicito e consapevole all'elaborazione politica di quel partito, in cui Bobbio si impegnò direttamente in prima persona, anche se vi svolse «solo saltuariamente anività politica,., dichiarando di non identificarsi «del tutto,. con essoz. Visti nel loro insieme, e a distanza ormai di un congruo lasso di tempo, quegli scritti testimoniano un'intenzione di intervento diretto e consapevole, si sarebbe tentati di dire un «disegno politico,., che ne fa qualcosa di più che semplici contributi, pur impananti, a una discussione intellettuale. Essi sono in un certo senso il luogo di riferimento della coscienza critica della sinistra democratica del nostro paese, rappresentano una tappa decisiva di quel percorso che la dovrà portare - inclusa la sua componente numericamente maggioritaria, quella cioè di derivazione comuni' Cfr. infra, Un partito trd due fuochi, p. 171.

_ _ _ _ _ _ _ lmroduzionc _ _ _ _ _ __

sta - sul terreno di una salda e irrevocabile adesione alla teoria e alla pratica di una democrazia matura. Bobbio avverte, agli inizi degli anni settanta, che quel percorso è ormai irrevocabilmente avviato; ma sa anche perfettamente che non sarà un percorso semplice; che sarà anzi pieno di ostacoli, irto di trappole, prime fra tutte quelle che potrebbero adombrare finte scorciatoie, tortuose deviazioni, con tanto di pericolosi brancolamenti e smarrimenti, rispetto alla «via maestra» di una compiuta e tota1e adesione al modello della democrazia rappresentativa. Si potrebbe dire, assecondando così il profilo critico dell'uomo, che la motivazione essenziale che pana Bobbio ad abbandonare in quella fase le sue tradizionali prudenze, a scendere apertamente in campo, e ad impegnarsi così direttamente, è data da un sentimento di preoccupazione, quando non di contrarietà e di aperto dissenso, verso il modo con cui la sinistra italiana si avvia in quella fase ad affrontare il nodo decisivo dell'approdo a una compiuta democrazia di governo. Alla metà degli anni settanta, nell'agenda politica della sinistra italiana lo scenario di una conquista del governo si affaccia in effetti per la prima volta in modo concreto. Né si tratta più soltanto, come era accaduto nel decennio precedente, di una partecipazione minoritaria di una sua parte (il Psi), tesa nella migliore delle ipotesi a condizionare e correggere l'impostazione politica del partito dominante, della Democrazia cristiana. Le tornate elettorali del 1975 e del 1976 inaugurano infatti uno scenario nuovo, che avvicina per la prima volta i partiti della sinistra alla conquista per via democratica di una maggioranza parlamentare. Di fronte a questa prospettiva nuova. non solo persiste una fone conflittualità a sinistra, ma l'orizzonte politico si complica.

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Il Pci, che è il maggiore partito della sinistra italiana., e che si mostra in grado di intercettare la parte più impanante dello spostamento in ano nell'asse politico del paese, sente la necessità di avviare una profonda revisione dei propri strumenti teorici e dei propri orientamenti strategici. Il modo con cui sceglie di farlo apre però un insieme di questioni (e di contraddizioni a sinistra) di grande panata: la proposta politica berlingueriana del «compromesso storico» ipotizza infatti l'approdo democratico della sinistra al governo del paese attraverso una fase non puramente tattica di a1leanza con la Dc, che veda partecipi tutte le tre grandi formazioni politiche uscite protagoniste dalla lotta contro il fascismo e dalla costruzione della democrazia repubblicanai. Quel che più preoccupa Bobbio è che una simile prospettiva strategica comporta l'idea di una maggioranza talmente ampia da non poter contemplare, fuori di essa, nessuna credibile alternativa; col che l'idea di un'alternanza al potere, che è la quintessenza di ogni vera democrazia rappresentativa, rischia di sfumare in una prospettiva astratta e indistinta. D'altro canto, all'interno della sinistra. specialmente nelle sue componenti più radicali e nelle sue formazioni più estreme - con implicazioni che arrivano a toccare non solo 'Naturalmente, le innovazioni teoriche e strategiche sono l'effeuo del nuovo clima politico che sta crescendo nel paese e comemporaneamcmc la causa dei vasti spostamcn1i di consensi clenorali che si verificano, così co:~~~?~:~t:0d;;1ie;~:iJ::Jc::~~i~a;~ri:;1iann°o:~~c~:~:n~;i~i~:~r:::!~~ denza sovietica. Nel 1973 Enrico Berlinguer. coo la pubblicazione di due ~~:~:; =~~:;iri~d:;:is~~~i;i~i.s~~,1~~;~~lt?~fn~~1~::;,~i~i:t~:tr::pn:i 1976 accresce il suo successo alle elezioni politiche, anche se la Democrazia cristiana si conferma come il eanito di maggioranza relativa. Il Psi non riesce a scostarsi in modo sigmficativo dalla soglia del 10%. Complessivament~, i partiti di sinistra avvicinano. ma non raggiungono, la soglia della maggioranza, fermandosi a poco più del 4S"/., complessivo dei vou.

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i movimenti studenteschi, ma anche pani importanti del movimento e delle organizzazioni sindacali e che trovano significativi riscontri nell'ambito delle stesse formazioni politiche della sinistra «tradizionale» -si avvia in quegli anni una teorizzazione delle forme e dei modi della «democrazia diretta,. che tende a mettere in forse la legittimità di principio, oltre che l'effettiva funzionalità e praticabilità di una democrazia «rappresentativa». Quanto al Psi, che certo incarna la prospettiva cui Bobbio si sente più vicino, non mancano anche in questo caso motivi di preoccupazione e di dissenso. I socialisti infatti soffrono di un complesso dimensionale che ne favorisce l'ambiguità politica. Il fatto di essere un panito «medio», che si dimostra incapace di diventare «grande», li pana assai spesso a cedere alla tentazione della «terza forza», all'idea di una collocazione intermedia, equidistante, «centrale», che non aiuta il sistema politico italiano a raggiungere la prospettiva che il filosofo socialista considera veramente auspicabile: quella della costruzione di un maturo sistema di alternanza democratica. E se dell'alternanza democratica non si fa banditore il Psi - ecco la questione politica sottesa a tutta la riflessione di Bobbio in questo periodo - chi altri se ne potrà far carico? L'intera sinistra italiana è insomma attraversata da una fase di fonissima mobilitazione di risorse ed energie politiche, vecchie e nuove, che rischiano però - è questo il punto che motiva il particolare e diretto impegno militante di Bobbio - non solo di allontanare verso un futuro incerto e indefinito la prospettiva di un'alternativa di governo, ma di alterare in modo scrio e irreversibile i caratteri fisiologici di un corretto sistema democratico. Tre sono, in particolare, i nodi che Bobbio individua, e conseguentemente i campi di intervento che sceglie: la

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questione della democrazia rappresentativa; la questione dell'alternanza democratica e la questione del riformismo egualitario. Converrà qui cercare di seguirne brevemente gli argomenti, avvisando che, pur nella loro evidente concatenazione, le tre questioni hanno, nel corso degli interventi qui considerati, un cen:o sviluppo temporale.

Il primo nodo dell'agenda politica di Bobbio, la prima cosa da fare, è colmare il vero e proprio deficit di cultura di governo proprio della tradizione politica della sinistra, specie di quella di ispirazione marxista e leninista, ancorandola a una salda teoria della democrazia rappresentativa e del governo democratico. Su questo terreno si tratta anzitutto di sgomberare, a sinistra, il campo da ogni equivoco: nessun aiuto può venire dal marxismo - e ancor meno dalla tradizione e dalla pratica del leninismo - alla definizione di una seria teoria del governo democratico. Qui l'apertura del fronte polemico verso la tradizione teorica del comunismo italiano è di una forza tale da rivelarsi dirompente. Il saggio comparso in due parti, nel 1975, su «MondOperaio,., qui ripreso nei primi due capitoli•, ne è la riprova. L'argomento principe è, per quei tempi e in quel contesto, davvero clamoroso: sulla strada della definizione di una teoria del governo democratico e del nesso tra democrazia e socialismo, nulla di buono può venire né dalla teoria marxiana (che su questo punto è del tutto carente e priva di spessore di analisi), né tanto meno dall'esperienza storica del leninismo, che si è concretamente manifestato come un insieme di pratiche politiche contrarie ai principi della democrazia rappresentativa. D'altra parte, • Cfr. infra, Esiste una do/trina man:isla dello st,uo?, pp. J sgg., e Q11a· li ahernative a/LJ democraz,a rappresemativa?. pp. 29 sgg.

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"'tutti sappiamo oggi quanto sia questione di vita o di mane per il futuro del socialismo il recupero dell'istanza democra-

tica, nell'unico senso in cui si può parlare di democrazia senza ingannarci a vicenda». L'attacco di Bobbio ha dunque un doppio significato: da un lato, sgomberare il campo da ogni equivoco circa la riconvenibilità democratica del patri-

monio ideale del marxismo e delle esperienze storiche delle società sovietiche; dall'altro lato, mostrare quanto lavoro vi sia ancora da compiere sul terreno di quel saldo ancoraggio democratico, senza il quale la prospettiva stessa di una sinistra di governo perderebbe ogni significato. È a questo punto che Bobbio avanza il nucleo di quella elaborazione di una teoria della democrazia rappresentativa che costituisce la pane forse essenziale della sua riflessione di questi anni. Non solo la democrazia è un «mezzo» indispensabile al raggiungimento del risultato che una politica «socialista» si deve proporre; ma bisogna sonolineare che «vi è un nesso strettissimo tra i risultati ottenuti e il procedimento con cui sono ottenuti». La democrazia, ridotta al suo significato «ristreno», non è altro che «un insieme di regole (le cosiddene regole del gioco) che consentono la più ampia e più sicura panecipazione della maggior pane dei cittadini, sia in forma diretta, sia in forma indiretta, alle decisioni politiche». «Chi sostiene che la democrazia così intesa è una cosa buona» non può poi dichiararsi «indifferente rispeno alla scelta di una procedura piuttosto che di un'altra»'. Non è ovviamente qui possibile richiamare neanche per sommi capi tutte le implicazioni teoriche di questa riflessione, che il lettore troverà sviluppate nel corso delle pagine che seguono. Né si tratta di argomenti, in sé considerati, che possano essere definiti «nuovi». Nuova è per l'appunto l'i, Qi,afi alternative alla democrazia rappre,en1a1iva?, pp. )0-2.

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stanza esplicitamente politica che li sottende, giacché essi si inseriscono ora in una discussione che non riguarda la stretta cerchia degli addetti ai lavori, ma comporta un vero e proprio rivolgimento del senso comune di parti molto estese dello schieramento della sinistra. Se fino ad allora la democrazia era stata vissuta da tanta parte dei suoi militanti e simpatizzanti come una necessità «difensiva», come un terreno buono per coltivare le con-

traddizioni dell'avversario politico, come un'ambigua risorsa «formale» della lotta politica, cui avrebbe potuto e dovuto far seguito una più «sostanziale» idea della partecipazione «diretta»; se in molte aree della sinistra radicale e «di classe» aveva potuto farsi spazio la contrapposizione di una «democrazia dei produttori», presunta superiore per qualità ed esiti a quella borghese dei «cittadini», gli argomenti di Bobbio fissavano piuttosto i capisaldi irrinunciabili di un ancoraggio democratico destinato a divenire in quegli anni - con le opportune fatiche, con le ovvie resistenze, e con le dovute contraddizioni - patrimonio condiviso di larghissima pane della sinistra italiana. La discussione che quei saggi suscitarono nei mesi successivi sulle pagine di «MondOperaio», e su_ quelle di «Rinascita», il settimanale teorico del Pci, ne è la più completa testimonianza•. Se ne stupì lo stesso Bobbio, che questa volta comprese di aver colpito nel segno, tanto da rilevare la ben differente accoglienza che aveva avuto, presso gli intellettuali del Pci, questa discussione rispetto a quella, di vent'anni precedente, sul tema del rapporto tra intellettuali e potere: «Mi è accaduto di avere con amici intellettuali comunisti due

Jcr:oud' :a.s~~fà~~::;;~c;o~liu~~C!JcY!~~ Ji~~~~~:~t:d~~t~~!~:."8:i~ Noia bibl,ografìca 0

al fondo di questa introdu;,;ionc.

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discussioni sui problemi della libertà, della democrazia e del

socialismo a distanza di vent'anni. Può darsi anche che le mie posizioni non siano rimaste ferme, ma è certo che quelle dei comunisti sono cambiate»'. Vi era un punto, in particolare, su cui secondo Bobbio la svolta in atto tra i comunisti italiani rappresentava una novità di tale portata da risultare «sconcertante rispetto alla tradizione teorica marxista-leninista»; questo punto era dato dall'accettazione del pluralismo, «un corpo talmente estraneo alla tradizione marxista-leninista che non lo si può introdurre senza provocare uno scompaginamento in tutta la dottrina». Come poteva il comunismo italiano «conciliare la dottrina nuova con i principi da cui è sorto e per cui ha lottato per un intero periodo storico?». Vi era infatti, tra comunismo e socialismo, «una differenza, probabilmente insuperabile, di visione dell'uomo, della sua storia, del suo awenire», una differenza tra una «concezione totalizzante» e una «concezione laica», nella quale «non vi è più posto per i principi, né per il vecchio Principe cui Machiavelli aveva affidato il compito di liberare l'Italia dal barbaro dominio, né per il nuovo principe cui Gramsci aveva affidato il compito di trasformare la società»'. Attraverso la sua implacabile precisione analitica, Bobbio assestava così un colpo al cuore del sistema concettuale e identitario del «comunismo italiano». Ma accanto alla determinazione di questa vera e propria rottura teorica, di questa essenziale discontinuità con la precedente tradizione comunista (cui faceva riscontro, · Cfr. mfra, Questione socuilis1a e quemone comunista, p. 105. ' lb[d., p. _I 17. Sul tco!a della _comrapposiri(_mc al marxismo di una •Cooccz,ooc l:uca della s10na•, dr. LO pan,colarc, ,o quc,10 stesso volume, Mar.mmo e ~ocùfomo, pp. I O sgg.

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dall'altra parte, una faticosa, difficile, lacerante presa d'atto), vi era un altro tema da porre con forza all'interlocutore maggioritario della sinistra italiana, incalzandolo questa volta sul terreno diretto della sua proposta di strategia politica. Non solo si trattava di ancorare definitivamente la sinistra - tutta la sinistra - alle regole del gioco democratico. Si trattava di verificare la congruenza della strategia che i giocatori stavano adottando per vedere se davvero si trattasse di una strategia vincente. Prendendo le mosse da un saggio di Giuliano Amato, pubblicato su «MondOperaio• nel luglio del 1977, il cui titolo programmatico era Riforma de/io stato e alternativa della sinistra', Bobbio analizzava i tre possibili modelli di governo che si contendevano il campo del nostro sistema politico. Un primo modello era quello della •conventio ad excludendum,., il modello storico che aveva caratterizzato i primi trent'anni di storia repubblicana e che aveva dato adito, secondo la famosa formula di Giorgio Galli, al "'bipartitismo imperfetto»: un modello - osservava Bobbio - in cui "'tutti i partiti erano diseguali, ma uno era più diseguale degli altri (perché era, ed è tuttora, escluso dalla partecipazione al governo)». Secondo questo modello, la democrazia parlamentare è di fatto monca, giacché •governa sempre una sola parte». La novità era rappresentata dal fatto che a questo primo modello, che si mostrava ormai logoro e tendenzialmente improponibile, se ne contrapponeva ora, attraverso la formula del «compromesso storico,., un altro, che Bobbio definiva di •democrazia consociativa .. , caratterizzato da •un • cMondOpcraio•, a. 30, luglio-~gosm 1977, nn. 7-11, pp. 45-56.

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bipartitismo ... più che perfetto». Secondo questo modello, entrambe le pani essenziali dello schieramento politico erano chiamate a governare insieme: né si sarebbe trattato di una situazione puramente transitoria, come era accaduto altrove alle «grandi coalizioni». Nel caso italiano, il compromesso adombrato voleva essere per l'appunto «storico», cioè caratterizzato da un respiro strategico. In molti dei saggi qui raccolti Bobbio si impegna ad addurre le ragioni di fatto che rendono sconsigliabile e anzi pericolosa questa via di soluzione: sul terreno storico, troppo diverse e alternative sono le due principali parti contraenti, troppo antagonistiche, troppo legate a diverse forme di rappresentanza sociale. Ma vi è soprattutto un'essenziale ragione di principio, che riguarda non tanto e soltanto la sinistra, ma la funzionalità complessiva del sistema politico democratico: «una delle regole fondamentali del meccanismo parlamentare è non soltanto che esista una opposizione, ma che questa opposizione sia efficace: ora la prima condizione perché una opposizione sia efficace è che possa cessare di esserlo assumendo il governo, la seconda che sia consistente. Ebbene, i due sistemi favoriti dai due principali paniti italiani negano o l'una o l'altra di queste due condizioni: la conventio ad excludendum nega la prima, la democrazia consociativa nega la seconda»'0 , A questi due modelli bisognava dunque contrapporre un terzo modello, quello fisiologico, quello principe in ogni democrazia rappresentativa: il modello dell'alternanza, secondo cui «governa una pane fino a che l'altra non vince,.. E qui Bobbio aggiungeva una correzione essenziale al lessiço politico adoperato nel suo saggio da Giuliano Amato: «Dico "alternanza" e non "alternativa", perché "Cfr. infra, Cumpromew, e alternanza nel sistema po/itu:a italiano, p. 12~.

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l'alternanza fa parte di quelle regole di condurre il gioco

che ognuna delle parti è libera di seguire secondo la propria convenienza, mentre l'alternativa può essere intesa (ed è certamente intesa da alcuni) come implicante anche un mu-

tamento delle regole del gioco»". Vi era un punto essenziale, intrinsecamente connesso alla questione dell'alternanza, nella riflessione di Bobbio: per poter essere effettivamente proposta e praticata, l'alternanza aveva bisogno di sgomberare il campo da un equivoco in cui invece rischiava di impantanarsi la riflessione dei socialisti: l'equivoco, anzi la tentazione, era rappresentata dal cosiddetto «governo del centro», una soluzione in grado di massimizzare la funzione di equilibrio di quelle formazioni che non si riconoscevano né nella destra né nella sinistra. Anche in questo caso Bobbio si adopera, accraverso una serie di argomenti di fatto, a mostrare l'inconsistenza concreta di un partito «di centro», nel sistema politico italiano. Non lo è - se mai lo è stato - la Democrazia cristiana, che ha alla sua destra forze quantitativamente esigue e costituzionalmente gracili, e che incarna piuttosto gli interessi e la rappresentanza della destra democratica e parlamentare. Non lo è - né lo deve essere - il Partito socialista, che date le sue dimensioni esigue finirebbe necessariamente con I' essere chiuso in un ruolo di «terza forza» tra i due contendenti più grandi, ruolo che ne snaturerebbe la vocazione riformatrice. Ma anche in questo caso, l'argomento principe di Sabbio riguarda la sostanza della fisiologia politica di un sistema democratico. Un governo dal centro non è buona cosa per la democrazia: se questo centro fosse troppo consistente, esso annullerebbe appunto la possibilità delle opposi" lbid., p. 124.

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zioni di alternarsi al governo, rappresentando un elemento di congelamento e di blocco della dialettica democratica. Altra cosa è il «centro» come terza forza, come «ago della bilancia», in grado di spostare e condizionare il gioco delle maggioranze. Questa funzione, necessariamente minore, è quella che il centro ha spesso assunto negli esempi storici delle grandi democrazie rappresentative. Ma per l'appunto in esse la dialettica essenziale è quella che si attua tra una destra e una sinistra, che sono le vere titolari dell'alternanza democratica. Ed è una vera e propria destrutturazione dell'idea del «centro», del centrismo come punto d'approdo dell'equilibrio politico possibile, quella a cui Bobbio si dedica in molti passaggi essenziali di questi suoi scritti. Si veda l'intervista sull' «Espresso,. concessa a Paolo Mieli, all'indomani del voto per le elezioni politiche del 1976, che rappresenta. anche per i toni diretti cd esplicitamente politici, un documento di grande rilevanza ai fini del percorso che qui si sta ricostruendo, e che per questo motivo si è ritenuto opportuno di riportare integralmente in appendice". Dopo aver contrapposto il suo «atteggiamento laico,. a «una visione totalizzante della storia come un blocco unico in cui tutte le tappe sono segnate,., richiesto dal suo intervistatore di dare «una traduzione politica di questi concetti», Bobbio non ha esitazioni: «Un partito socialdemocratico che creda nella dialettica tra maggioranza e opposizione, nella possibilità di alternanza al potere [ ... ] non si sognerebbe mai di proporre il compromesso storico. Fatta eccezione per la grosse koalition tedesca che fu un accordo di emergenza [... ] l'ipotesi di un accordo era maggioranza e opposizione è impensabile in una democrazia occidentale,.. E all'obie"Cfr. infra, Mt:1 ,:'i, un futuro per questo partito?, pp. 217 sgg.

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zione per cui proprio un governo di emergenza è quello di cui si sta discutendo, Bobbio incalza: «la grande coalizione di emergenza di cui si discute in questi giorni avrebbe come obiettivo di stabilizzarsi e di diventare un governo "storico" [... ]. :È. compito dei socialisti spiegare meglio come da questa emergenza si debba uscire non con soluzioni unanimistiche ma con scelte precise e nette». «Una scelta tra la sinistra e il centro?,., chiede l'intervistatore. E Bobbio: «No. Tra la sinistra e la destra. Quest'equivoco della Dc partito di centro è ormai sfatato. Alla destra della Dc non c'è quasi più nulla». E alla successiva obiezione, per cui i socialisti italiani potrebbero avere un ruolo di mediazione, simile a quello dei liberali tedeschi, Bobbio replica ancora: «Sarebbe un grave errore per i socialisti accenare questa investitura», che invece è propria dei paniti laici. «I socialisti devono rinunciare a confondersi con queste forze. A loro non spetta di mediare tra i due grandi paniti, a loro spetta di mettersi alla testa della rigenerazione della sinistra,.1). Vi è, nell'impianto delle considerazioni di Bobbio in questo periodo, la percezione della difficoltà strategica che caratterizza il ruolo del Panito socialista. La storia passata, la dimensione elettorale, la collocazione politica pongono questo panito in difficoltà rispetto al compito storico che lo vorrebbe, appunto, alla testa della rigenerazione della sinistra italiana. Una simile posizione si può ottenere solo combattendo sul difficile crinale della riconquista di un primato del riformismo, che ha come contraltare il rischio continuo di uno scivolamento verso una deriva personalistico-plebiscitaria. "lbid.,p. 217.

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Gli avvenimenti successivi si incaricheranno in effeni di relegare nell'angolo la strategia berlingueriana del compromesso storico. E il decennio degli anni ottanta si aprirà sul registro di un cambio complessivo di umori e di propensioni, nel corpo profondo della società italiana, che renderà ancor più problematiche l'elaborazione di un coerente disegno riformista e la realizzazione di una conse-

guente strategia dell'alternanza. In presenza di questo nuovo scenario, la vicenda del Partito socialista sarà in effetti caratterizzata sempre più, nel corso degli anni ottanta, da una continua oscillazione tra queste due polarità: il pieno dispiegamento di una strategia riformista e la tentazione di colmare il vuoto della rappresentanza con una sovraesposizione della leadership. Su tale punto però, la distanza di sensibilità e di approccio tra Bobbio e Bettino Craxi si rivelerà forte e crescente, fino a coagularsi in una sorta di reciproca idiosincrasia. Agli occhi di Bobbio vi è infatti nel leaderismo di Craxi una componente personalistica, plebiscitaria, in ultima analisi ami-politica, che è incompatibile con l'idea della democrazia rappresentativa. Si veda un altro documento che per la sua icasticità ci è sembrato utile riportare anch'esso integralmente in appendice. Si tratta di un editoriale pubblicato da Bobbio su « La Stampa» nel maggio del 1984, all'indomani del Congresso del Partito socialista, che ha eletto Craxi segretario per acclamazione. La critica di Bobbio è esplicita, severa, perentoria: «Non riesco a capire come il Partito socialista che si considera democratico, ed anzi si ritiene al centro del sistema democratico italiano [ ... ] abbia acconsentito ad eleggere per acclamazione il suo segretario generale. L' elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica. È la maniera [ ... ] con cui i seguaci legittimano il capo carismatico; un capo che

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proprio per il fatto di essere eletto per acclamazione non è responsabile di fronte ai suoi elettori». La chiusura è drastica, priva di concessioni: "Capisco l'entusiasmo dei socialisti militami di oggi per un uomo politico di forte carattere, accorto, autorevole, che ha dato al partito un'unità finora sconosciuta all'interno e lo ha liberato da un vecchio complesso di inferiorità rispetto al partito comunista, ma forse è bene ricordare ancora una volta che la democrazia è il governo delle leggi e non degli uomini»". Il gioco politico, negli anni ottanta, si sviluppa in una maniera che è concettualmente assai distante dall'impostazione

di Bobbio. E la vischiosità del sistema politico si chiude in un cerchio che, mentre relega stabilmente e indefinitamente la sinistra di parte comunista all'opposizione, coinvolge sempre più i socialisti al governo, in una logica di cui Bobbio contesta la mancanza di ogni vera spinta riformatrice. Il riformismo, anzi, sta diventando la formula di tutti, buona per tutte le lingue e tutte le collocazioni, col rischio concreto di smarrire definitivamente l'unica prospettiva che rappresenta un criterio di distinzione chiara e forte del campo politico: quella del perseguimento dell'eguaglianza, senza la quale la sinistra non è tale, e il riformismo è destituito di significato politico. «L'ideale socialista non è sempre stato, oltre quello della libertà, anche quello dell'eguaglianza? - scrive Bobbio in un saggio del 1985 che può essere considerato per molti versi come uno dei luoghi fondativi della riflessione che lo condurrà, qualche anno più cardi, alla stesura di Destra e sinistra -. Ebbene, il principio dell'eguaglianza è proprio quello che serve a distinguere la libertà liberale dalla libertà socialista[ ... ]. Consi"Cfr. infra, LJ democrazia dell"appùmso, pp. 219 sgg.

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clero libertà socialista per eccellenza quella libertà che liberando eguaglia ed eguaglia in quanto elimina una discriminazione: una libertà che non solo è compatibile con l'eguaglianza ma ne è la condizione»'\ Non dunque l'idea di

una «economia pubblica», di una «socializzazione,. che appare sempre meno sostenibile - e che non è stata mai nell'orizzonte teorico della riflessione politica di Bobbio ma piuttosto quella di una progressiva egualizzazione, di una diminuzione dei livelli di «ingiustizia» rimane il criterio essenziale, la stella polare di una sinistra che voglia ritrovare la sua strada. Il cerchio, in qualche modo, si chiude: l'originario ideale azionista di «giustizia e libertà» si ripropone essenzialmente invariato, in termini di definizione dei valori. Ma il soggetto politico che si dovrebbe incaricare di rappresentarlo laicamente e concretamente, nello scenario politico del nostro paese, non c'è ancora. Ed è questo, più che mai, il punto che Bobbio vede proporsi all'ordine del giorno. Nel 1989, nell'ultimo tra gli scritti qui raccolti, alla vigilia di un congresso socialista che prelude ormai al definitivo scardinamento degli assetti del sistema politico, Bobbio esprime questa esigenza come un suo «desiderio»: «In un paese come il nostro in cui ci si trova di fronte a una situazione senza eguali, assurda per non dire grottesca, della coesistenza di due partiti socialisti riformisti, cui si aggiunge la presenza imponente di un partito comunista che da anni si dichiara anch'esso riformista, spetta al partito socialista il compito storico di ricomporre le membra sparse»••. Desiderio irrealizzato. Ben diversamente si sarebbe sviluppata di lì a qualche anno la vicenda politica. " Cfr. infra, Riformismo, sodali~mo, uguaglianza, pp. 181 sgg. "Cfr. ,rifra, l'occalwnc da cog/1crc, p. 206.

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È passato quasi un altro ventennio. li sistema politico italiano ha conosciuto, dopo molti rivolgimenti, un quakhe approdo a una sorta di sistema bipolare. Nessuno può sostenere che si sia trattato di un approdo indolore. Allo stesso modo, non è per nulla detto che si possa considerare quest'ultimo come un esito stabile. Il sistema della democrazia italiana ha apparentemente alle spalle le discussioni che queste pagine evocano, e di cui Bobbio è stato protagonista. È una stagione lontana. Sono discussioni inattuali. Si insinua un dubbio: inattuali? Roma, febbraio 2006

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Nota bibliografica

Vengono qui raccolti nove interventi di Norberto Bobbio comparsi tra il 1975 e il 1989 su •MondOperaio•, la rivista del Partito so-

cialis1a italiano. Diamo di seguito l'indicazione della fonte originaria e delle riprese successive in volume: I. Esiste una dottrina marxista dello stato?, a. 28, nn. 8-9, agostosenembre 1975, pp. 24-J I. Rise. in Aa.Vv., I/ marxismo e lo stato. li

dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio, prefazione di Federico Coen, Nuova serie dei quaderni di "'MondOperaio», 4, MondOperaio, Roma 1976, pp. 1-7; in N. Bob-

bio, Quale socialismo? Discussione di un'alternativa, Einaudi, Torino 1976, pp. 21-41; e in Aa.Vv., LJ1 stampa socialista: i quarant'anni di «MondOperaio», a cura di Mario Baccianini e Antonio Landolfi, •MondOperaio•, Roma 1988, pp. 180-4. 2. Quali alternative alla democrazM. rapp-resentativa?, a. 28, n. 10, onobre 1975, pp. 40-8. Rist. in Aa.Vv., Il marxismo e lo stato cit., pp. 42-65; in Aa.Vv., La stampa sorialisca: i quarant'anni di «MondOperaio,. cit., pp. 190-5; in N. Bobbio, Quale socialismo? cit., pp. 43-86. Seconda pane del saggio precedente. 3. Quale soci.alismo?, a. 29, n. 5, maggio 1976, pp. 55-63. Rist. in N. Bob bi o, Quale soci4lismo? cit., pp. 87-109. Replica ai contraddittori di Bobbio nel dibattito sul man:ismo e lo stato. 4. Questione socialista e questione comunista, a. 29, n. 9, settembre 1976, pp. 41-51. Rist. in Aa.Vv., EgemonÙJ. e democrazÙf.. Gramsd e la questione comunista nel dibattito di « MondOperaio», prefazione di Federico Coen, Nuova serie dei quaderni di •MondOpe-

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __ raio,., 7, MondOpcraio, Roma 1976, pp. 225-49. Relazione al convegno di «MondOperaio•, Roma, 20-21 luglio 1976, sul tema «La questione socialista dopo il 20 giugno». 5. Compromesso e alternanza nel sistema politico ilaliano, a. 30, n. 9, settembre 1977, pp. 63-9. Rist. in Aa.Vv., Quale riforma dello stato? La politica istituzionale della sinistra nel dibattito di «MondOperaio,., prefazione di Federico Coen, Nuova serie di ~MondOperaio», 9, MondOperaio, Roma 1977, pp. 27-40 e in Aa.Vv., Le trasformazioni

del comunismo italiano, a cura di Antonio Lombardo, Rizzo li, Milano 1978, pp. 237-56. Intervento nel dibattito aperto da Giuliano Amato sul tema «Riforma dello stato e alternativa di sinistra•. 6. Marxismo e socialismo, a. 31, n. 5, maggio 1978, pp. 61-9. ln-

tcrvcnto nel dibattito sul progetto socialista. 7. Un partito tra due fuochi, a. 33, n. 2, febbraio 1980, pp. 11-4. Intervento nel dibattito sul tema "Le due anime del Psi». 8. R1fonnismo, socialismo, uguaglianza, a. 38, n. 5, maggio 1985, pp. 64-71. Relazione al convegno di ~MondOperaio», Bologna, 2224 febbraio 1980, sul tema «Quale riformismo... 9. L'occasione da cogliere, a. 42, n. 5, maggio 1989, pp. 4-5. Intervento nel dibattito per la preparazione del XLV Congresso del Partito socialista (Milano, 13-16 maggio 1989). In appendice sono collocati due contributi significativi per comprendere il contesto in cui si è svolto il dibattito suscitato dalle tesi sostenme da Bobbio nei saggi precedenti: I. Ma c'è un futuro per questo partito?, intervista con Paolo Mieli, in «L'Espresso», a. XXXll, n. 27, 4 luglio 1976, pp. 21-3. 2. La democrazia dell'applauso, in "La Stampa», a. 118, n. I 15, 16 maggio 1984, p. I. A proposito dell'elezione, per acclamazione, di Bettino Craxi a segretario del Partito socialista italiano. I testi sono stati preparati sulla base della versione destinata alla rivista «MondOperaio», con alcuni interventi redazionali, quali la correzione di rdusi e una leggera annotazione che si avvale esclusivamente dei fascicoli della rivista e degli stessi testi bobbiani. La parola «Stato• è stata trasformata in «stato», secondo la predilezione di Bobbio, che più volte, con l'esclusione dei testi di natura giuridica, ha manifestato la propria preferenza per questa lezione.

Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano

_ _ _ COMPROMESSO E ALTERNANZA _ __

I.

Esiste una dottrina marxista dello stato? (1975)

In un saggio di alcuni anni or sono, apparso in un libro che si direbbe pubblicato alla macchia tanto è passato inosservato, avevo preso lo spunto da un'affermazione di Umberto Cerroni per fare alcune considerazioni sulla denunciata e deplorata inesistenza o insufficienza o deficienza o irrilevanza di una scienza politica marxistica, intesa come «mancanza di una teoria dello stato socialista o di democrazia socialista come alternativa alla teoria, o meglio alle teo-

rie dello stato borghese, della democrazia borghese»', Dopo alcuni anni si direbbe che le cose non siano molto cambiate se Lucio Colleni nella intervista «osservatissima», lamenta «la debolezza e lo sviluppo frammentario della teoria politica all'interno del marxismo,. e conclude «che al marxismo manca una vera e propria teoria politica»1 • Nel saggio Democrazia socialista?, per cercare di spiegare la situazione avevo addotto due argomenti: il prevalente, se non esclusivo, interesse dei teorici del socialismo per il problema della conquista del potere, onde il rilievo dato al problema del partito piuttosto che a quello dello

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ta,mai97J,p.OI. ' L. Colletti, lmero~ta politico-fdosofica, Lamza, Bari 1974, p. 30.

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stato, e la persistente convinzione che, una volta conquistato il potere, lo stato fosse un fenomeno di «transizione», cioè fosse destinato presto o tardi a scomparire, e quindi gli fosse particolarmente adatta quella forma di governo, per sua natura transitoria, che è la dittatura (nel senso originario di governo straordinario per tempi ed eventi straordinari). Qui intendo addurre un altro argomento, la cui portata, avverto subito, va molto al di là del tema specifico, e investe nientemeno il problema del modo d'essere o di non essere marxisti in un periodo storico in cui non c'è più un marxismo, ma ci sono tanti marxismi inimicissi-

mi tra loro e animati spesso l'un verso l'altro da vero e proprio furore teologico o che è lo stesso politico, e raggruppati, stavo per dire «racchiusi», in «scuole» (non abbiamo più alcuna inibizione a parlare di «Scuola di Francoforte» o di «Scuola di Budapest», cioè ad usare un termine «scuola» che riferito al marxismo sarebbe apparso in altri tempi insensato e anche sconveniente).

Vitalità del marxismo e dispute scolastiche Non già che non vi siano stati anche in altri tempi diversi marxismi; ma, mentre si può legittimamente parlare di un marxismo della Seconda e a maggior ragione della Terza Internazionale, non avrebbe alcun senso parlare di un marxismo degli anni cinquanta o sessanta o settanta. Molte del resto sono le ragioni di questa proliferazione, specie se paragonate a quelle che potevano essere addotte un secolo fa. Alcune sono di natura meramente filologica, quali la scoperta degli scritti giovanili, in genere degli inediti di Marx, che hanno diviso gl'interpreti fra coloro che ne tengono gran conto, come la Scuola di Budapest, e coloro che

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li ripudiano, come Althusser e la sua scuola, e sulla quale è stata fondata una contrapposizione fra marxismo umanistico e non umanistico (teologico?). Altre sono di natura più schiettamente filosofica, e sono da mettersi in relazione con la tendenza non nuova del marxismo ad allearsi alle filosofie di volta in volta emergenti, onde sono stati compiuti i vari tentativi di connubio fra marxismo ed esistenzialismo (Sartre), fra marxismo e fenomenologia (Paci in Italia, il gruppo di «Telos» negli Stati Uniti, ancora la Scuola di Budapest), fra marxismo e strutturalismo (Ahhusser e varie diramazioni): si capisce che le occasioni per questi arricchimenti (o confusioni secondo i punti di vista) sono aumentate (alla fine del secolo e all'inizio del nuovo le contaminazioni possibili erano state essenzialmente due, col positivismo e col neokantismo ). Altre ancora di natura politica, onde si distingue (il che era impossibile prima delle rivoluzioni socialistiche) un marxismo occidentale da un marxismo sovietico o cinese o jugoslavo, e si è parlato per la prima volta di «neo-marxismo» in rapporto ai problemi del Terzo mondo che il marxismo storico non aveva mai affrontato direttamente. Non si può poi dimenticare che fra i vari motivi- di dissenso all'interno del marxismo contemporaneo vi è pure la diversa valutazione del contributo di Engels al patrimonio comune: si tratta di un dissenso che si è andato inasprendo negli ultimi anni cd era ignoto al marxismo storico, o per lo meno non aveva mai raggiunto l'intensità di oggi, sino al punto in cui da collaboratore Engcls è diventato per alcuni soltanto volgarizzatore o peggio corruttore del pensiero di Marx, e se nella teoria marxistica c'è qualche cosa che non va, «la faute est à Engels». Che vi siano tanti marxismi non è, sia ben chiaro, uno scandalo. Anzi è un segno di vitalità, come fu un segno di vitalità del cristianesimo la moltiplicazione1 al tempo della

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Riforma, delle sette. Anche il «neo-,. è un buon segno: diffido dei sistemi filosofici che non rinascono sotto quel segno (ci sarà un neo-crocianesimo, un neo-gcncilianesimo?). Se fosse rimasto un solo marxismo, ci sarebbe da pensare che è morto o sta morendo, e io personalmente me ne terrei lontano, consigliando di fare lo stesso a coloro che credono ancora alla funzione critica della ragione. Ma non bi-

sogna chiudere gli occhi di fronte a certe conseguenze di questo pluralismo; prima fra tutte, un certo spreco di energia intellettuale nelle controversie fra i vari indirizzi, energia che sarebbe meglio impiegata a studiare con maggiore impegno i campi di sapere che sono rimasti fuori dai confini degl'interessi dei fondatori e dei loro più diretti discepoli e continuatori, e, quel che più importa, la realcà sempre più complessa del mondo circostante. Non sono del tutto convinto, per fare un esempio clamoroso, dell'utilità della disputa che infierisce fra filosofi marxisti, pro e contro lo storicismo. Agli occhi di alcuni dei maggiori filosofi marxisti di oggi (Ahhusser in Francia e Luporini in Italia) continuare a dire che il marxismo è storicismo, come per decenni è stato detto in Italia, e lo proclamò incautamente anche Gramsci, significa essere degli sprovveduti. La filosofia di Marx, si afferma, non è storicismo ma strutturalismo. Mi pare, anzitutto, non si tenga sufficientemente conto (di qui il carattere scolastico della disputa) che tutti questi «ismi,. filosofici hanno assunto nel corso della loro multiforme utilizzazione i più diversi significaci, e sono etichette appiccicabili a recipienti dal più diverso contenuto, con la conseguenza che, se è vero che «storicismo» è stato spesso coniugato con filosofie reazionarie, non è accaduto diversamente con «strutturalismo,. (che alcro è se non «strutturalistica"', e per questo condannata, la teoria di colui che i sociologi progressisti segnano a

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dito come il principe dei sociologi reazionari, Talcott Parsons?). E Nietzsche, domando, filosofo della «reazione» quanti altri mai, se non proprio dcll'impcrialismo, come voleva Luk.ics, non era ami-storicista? In secondo luogo, non si può astrarre dalla considerazione che gli «ismi» filosofici valgono più per quel che negano che per quel che affermano, e che in particolare «storicismo» ha sempre avuto un enorme significato polemico storicismo contro illuminismo, contro razionalismo astratto, contro giusnaturalismo e conseguente eternizzazione della natura umana. contro ogni concezione teologica e provvidenzialistica della storia - un significato polemico che strutturalismo sino a prova contraria non ha, e di cui sarebbe dar prova di scarsa avvedutezza privare la filosofia marxistica, che è stata ami-illuministica, ami-giusnaturalistica, ami-teologica ccc. Infine, resta tutta da dimostrare l'imponanza che questi dibattiti in apicibus hanno per la soluzione dei problemi del nostro tempo cui il marxismo dovrebbe invece offrire una chiave. Pongo la domanda in termini più precisi: qual esito politico o pratico in generale si ritiene abbia la tesi che Marx è uno strutturalista piuttosto che uno storicista? Questa domanda non può non essere posta a proposito di Marx. Marx non è né Kant né Leibniz per i quali una discussione puramente teorica può essere anche fine a se stessa. In una discussione su Marx, il problema della teoria è inscindibile da quello della prassi. Orbene, il rappono fra teoria e prassi è molto più complesso di quel che abbia sempre creduto il puro razionalista il quale ritiene che una cena prassi si possa dedurre da una cena teoria, e sarebbe forse scandalizzato se gli si dicesse che la maggior pane delle teorie sono in genere razionalizzazioni postume di prassi già compiute o che si vorrebbe compiere. Possibile che

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Pareto con la sua teoria delle derivazioni sia passato invano c non abbia scalfito la sicurezza nei nuovi razionalisti che deducono dallo storicismo una pratica reazionaria e dallo strutturalismo una pratica rivoluzionaria? Invece di adoperare Marx per dispute di questo genere, che dilettano i filosofi e sono oscure ai profani, i quali non sospettano che per essere rivoluzionari bisogna non essere storicisti, non sarebbe più saggio, come fanno del resto gli economisti e i sociologi che si richiamano al marxismo, utilizzare l'opera di Marx per quel che è ancora utilizzabile, allo scopo di ricavarne strumenti concettuali adatti all'analisi della società contemporanea?

Abuso del principio di autorità Ho detto che per spiegare la mancanza di una teoria socialista dello stato intendo servirmi di un nuovo argomento. Questo nuovo argomento è in poche parole l'abuso del principio d'autorità. Preciso subito. Di fronte alla constatata deficienza, si sarebbe indotti a pensare che il primo passo da compiere sia quello di studiare con strumenti sempre più perfetti di analisi la realtà presente, tanto quella degli stati capitalistici quanto quella degli stati collettivistici, allo scopo di scoprirne i difetti di funzionamento e avendo ben chiari in mente gli obiettivi che si vogliono raggiungere. Al contrario, accade ancora troppo spesso si ritenga primo dovere di un marxista andare a vedere che cosa aveva detto Marx (e magari anche Engels, e magari anche Lenin), e quindi cercare di persuadere gl'increduli o i male informati che nonostante tutto c'è in Marx una completa teoria dello stato che sinora non era stata intesa, o era stata addirittura fraintesa, o ingiustamente sottovalutata. Non credo di

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poter essere smentito se dico che alla dichiarata mancanza di una teoria socialista dello stato si sia creduto di poter sopperire più con dotte e sottili esegesi di testi marxiani o marxisti (che poi sono sempre gli stessi) che non con uno studio delle istituzioni politiche degli stati contemporanei, perpetuando un'abitudine, un vizio, una deformazione, tutta accademica (e così poco marxiana), che è quella di ccr~ car di capire lo stato liberale classico leggendo Kant, o quello della Restaurazione leggendo Hcgel, privilegiando la storia delle dottrine politiche (più facili a studiarsi) che non quella delle istituzioni. Così è accaduto che abbiamo ottimi libri su quel che pensavano Marx o Lenin o Gramsci sullo stato (penso al libro, davvero eccellente, di Christine Buci-Glucksmann, Gramsci. et l'Etat, apparso recentemente) o addirittura su un argomento di così scarsa attualità - tema ottocentesco per eccellenza - come l'estinzione dello stato (penso al libro, di cui sono peraltro il primo a riconoscere i meriti, come l'autore sa, di Danilo Zolo), ma non ne abbiamo né di ottimi né di pessimi sui sistemi politici degli stati che si autodefiniscono socialisti, e tanto meno sullo stato alternativo del futuro, posto che non si sia soddisfatti di quelli esistenti. Prendo ancora una volta lo spunto da Cerroni, che è considerato a giusto titolo uno specialista oltre che - è meglio dirlo subito perché le due cose non sempre coincidono - uno studioso con le carte in regola. Nel suo ultimo libro dal titolo pieno di promesse, Teoria politica e socialismo, c'è un capitolo su «democrazia e socialismo», cioè sul tema che non esito a considerare il problema drammatico e cruciale del nostro tempo; drammatico perché nessuno è sinora riuscito a risolverlo se non a parole (con le parole, specie se ambigue e adattabili ai più diversi usi, come sono in genere quelle del linguaggio politico,

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si può risolvere con estrema facilità qualsiasi problema); cruciale perché sembra a molti che dalla sua soluzione dipenda il destino di una società sempre più bisognosa di controllo e sempre più incontrollabile. Chi si attenda da questo capitolo una illuminazione, deponga subito le sue illusioni. Il capitolo comincia così: «t tempo di riqualificare il posto che nel pensiero di Marx tiene la critica dello stato ecc.». Dunque una nuova «lettura» (come si dice oggi) di Marx. Lo scopo di Ccrroni infatti è quello di dimostrare non solo che in Marx c'è una teoria politica, ma anche che la teoria politica ricavabile dalle opere di Marx è, contro tutte le degenerazioni di destra e di sinistra, l'unica teoria che permette di dare una soluzione al problema del socialismo attraverso la democrazia e della democrazia nello stato socialista. Non discuto se l'analisi di Cerroni sia o no esatta, anche se non da oggi sia convinto che la sopravvalutazione delle scarne indicazioni date da Marx sullo stato di transizione nel commento all'episodio della Comune sia una riprova della esiguità della documentazione sul tema dello stato rintracciabile nella tradizione del pensiero socialistico, soprattutto se paragonata alla ricca tradizione del pensiero liberale, che conta opere come quelle di Locke e di Kant, scrittori come Constant e Tocqueville. Discuto se sia utile. Mi domando cioè quale sia il beneficio che possiamo trarre per la soluzione dei problemi del nostro tempo dall'ennesima chiosa (anche se più ingegnosa, anche se più intelligente, anche se più conforme allo spirito - o alla lettera? del testo tormentatissimo) a Marx, a quella ventina di pagine di Marx, già voltate e rivoltate da tutte le parti, cioè di un autore il quale aveva sì tutte le buone intenzioni di scrivere anche una critica della politica accanto alla critica della economia, ma in realtà non l'ha mai scritta; e se non sia oggi as10

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sai più utile applicarsi agli studi di scienza politica e sociale così poco progrediti nel nostro paese in confronto a quelli di marxologia.

Marx e Hegel Mi domando persino se in un certo senso non sia anche dannoso. Il continuare a leggere e a rileggere Marx abitua a credere che una buona lettura, anzi una lettura migliore (ma qual è il criterio per giudicare quale sia la buona e quale sia la cattiva?), ci liberi dalla fatica di pensare. Non parlo del marxismo da strapazzo che sta dilagando nelle nostre università, un marxismo che troppo spesso serve di pretesto e da viatico alla propria ostinata e pervicace ignoranza, e favorisce la pigrizia con una buona dose di presunzione e talora anche di opportunismo (gli esami peggiori sono spesso di coloro che «portano» Marx). Parlo dei marxisti seri. Una delle mie massime preferite è che oggi non si possa essere buon marxista se si è soltanto marxisti. Ma il marxista ha una tendenza irresistibile a essere soltanto marxista. Tende a isolare Marx e il marxismo dal resto del mondo e a isolarsi. Commenta Marx con Marx o con alcuni scrittori autorizzati (Engcls, Lenin, Luk.i.cs, Korsch, Rosa Luxemburg, Gramsci, faccio alcuni nomi a caso), cioè con scrittori che appartengono sicuramente alla tradizione marxista. Getta uno sguardo distratto o sfuggente o sospettoso o addirittura infastidito alla cultura non marxista chiamata in blocco «borghese», o pre-marxista (il «pre» ha sempre un significato leggermente peggiorativo, come «pre-cristiano», «pre-industriale», «pre-classico», e, naturalmente, «pre-istorico» ). Quando vi getta uno sguardo «attento» è pieno di degnazione, non diverso da quello dei 11

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nostri idealisti che sapevano già sin dall'inizio che tutto quello che non rientrava nei loro schemi era sbagliato e se ne occupavano soltanto per esibire la loro superiorità. Mi rendo perfettamente conto di aver calcato la mano e di aver tracciato un ritratto di maniera, coi segni così grossi che nessuno vi si vorrà riconoscere. Ma faccio un esempio che spero riuscirà convincente (e si riconosca chi vuole): le interpretazioni marxistiche di Hegel. Sono tutte interpretazioni in maggiore o minor misura deformanti. E sono deformanti, sia che tendano a ridurre le distanze fra i due, o marxistizzando Hcgel o hegclianizzando Marx, sia che considerino al contrario Marx il capovolgitore di Hegel e Hcgel il grande capovolto (con la testa dove aveva messo i piedi), perché- a parte il fatto che, se può essere di qualche utilità (a parer mio esagerata) studiare bene Hegel per meglio comprendere Marx (ciò che viene dopo con ciò che viene prima), molto più dubbio e discutibile è che per capire Hegel si debba studiare Marx (ciò che viene prima con ciò che verrà dopo) - il leggere un'opera della complessità welt-historisch come quella hegeliana attraverso uno solo dei suoi esegeti e critici vuol dire compiere un'operazione storiografica aprioristicamente riduttiva e precludersi l'unica possibilità di fare della storiografia filosofica seria, che è quella di cominciare a interpretare Hegcl con Hegel. Di queste deformazioni due mi sembrano piuttosto gravi: a) poiché Marx ed Engcls usano l'espressione «società civile,. nel senso forte di sfera dei rapporti economici contrapposta alla sfera dei rapporti politici, è in uso presso i marxisti limitare la considerazione della «società civile,. in Hegel a quel momento del «sistema dei bisogni,., dove effettivamente Hegcl tratta di alcuni problemi fondamentali dell'economia politica. Ora tutti i non-marxisti sanno che 12

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il sistema dei bisogni è soltanto il primo momento della società civile comprendente anche i due momenti dell'ammi-

nistrazione della giustizia e dello stato di polizia, sanno cioè che «società civile» nella Filosofia del diritto di Hegcl non significa affatto società economica contrapposta a stato, ma una prima manifestazione dello stato, che lo stesso Hegel chiama «stato dell'intelletto o della necessità». A chi riduce la società civile hegeliana alla sfera dei bisogni sfugge uno dei caratteri più originali e problematici della teoria

dello stato di Hegel: perché una delle tre funzioni fondamentali dello stato, l'amministrazione della giustizia, viene assegnata alla società civile e non allo stato propriamente detto? Una risposta c'è cd è una risposta che si può dare solo mettendo a confronto Hcgel con Lockc (non certamente con Marx), e che comunque richiede la consapevolezza che la società civile non è la sfera dei bisogni, ma, in conformità del resto con l'accezione comune dell'espressione nei filosofi immediatamente precedenti come Kant e Fichte, è già lo stato se pure in una sua forma inferiore; b) siccome Marx ha criticato la teoria dello stato di Hegel e Marx è un critico della società e dello stato borghesi, ergo Hegel è, deve essere, il maggior rappresentante della teoria borghese dello stato. Il sillogismo è perfetto ma la conclusione è completamente sbagliata. Che lo Hegel della Filosofia del diritto sia il maggior teorico dello stato borghese è un'affermazione che non sta né in ciclo né in terra. Già suscita qualche sospetto il fatto che la teoria borghese dell'economia sia inglese (o francese) e la teoria politica, invece, tedesca, il fatto cioè che la borghesia inglese (e quella francese) abbia elaborato una teoria economica corrispondente alle sue idealità, vulgo ai suoi interessi, e abbia affidato per procura l'officio di elaborare la teoria dello stato a un professore di Berlino, cioè di uno stato economicamente e social13

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mente arretrato rispetto all'Inghilterra e alla Francia. Marx sapeva benissimo quello che non sanno più ceni marxisti, e cioè che la filosofia della borghesia era l'utilitarismo e non l'idealismo (nel Capitale il bersaglio è Bcntham non Hegel), e che uno dei tratti fondamentali e veramente innovatori della rivoluzione francese era la proclamazione dell'eguaglianza giuridica o eguaglianza di fronte alla legge, la cosiddetta eguaglianza formale (I' «emancipazione politica,.!): principio incompatibile con quello stato di ceti che sopravvive ancora in pane in Hegel, dove gl'individui contano politicamente non uti singu/i ma in quanto membri di una corporazione. Alla base del principio dell'eguaglianza formale c'era una teoria individualistica, atomistica, della società, che Hegel rifiutava esplicitamente, come rifiuta le tesi principali del «modello giusnaturalistica,., a comincia· re dal contrattualismo, cui si erano ispirate le riforme politiche «borghesi». Mi dispiace di dover ripetere cose che in altri ambienti culturali meno saturi, come il nostro, di hcgelo-marxismo, sono elementari. Ma la teoria liberal-borghese dello stato, tratteggiata in un famoso passo di Adam Smith sui limiti dei poteri dello stato, è l'antitesi esatta della concezione he· geliana dello stato etico. In questo errore di comprensione il marxismo italiano di oggi è puramente e semplicemente l'erede dello hegelismo napoletano per cui la grande filosofia politica inglese non è mai esistita e il massimo teorico dello stato liberale è stato Hegel. Ma chiunque abbia letto qualcuno degli scrittori della tradizione liberale, che va da Locke a Spenccr, o i grandi liberali italiani, da Cattaneo a Einaudi, sa che la loro principale preoccupazione è sempre stata quella di tener a bada lo stato, di salvare la società civile (nel senso marxiano della parola) dall'eccessiva ingerenza dello stato. Altro che stato etico! 14

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Le «dure repliche,. della storia Una prima conseguenza dell'abuso del principio di autorità è sempre l'ottundimento dello spirito critico. Se una

cosa l'ha detta Marx o è ricavabile da quel che ha detto Marx o un interprete autorizzato, la si prende per buona e non si va tanto per il sottile nel giudicarla e nel metterla al vaglio delle cose che succedono realmente. Così l'opera di Marx,

invece di essere, come potrebbe essere (la grandezza di Marx come critico dell'economia classica, come storico, come filosofo, in genere come scienziato, è assolutamente fuori questione), uno strumento di prim'ordine per capire la realtà, anche quella di oggi, diventa uno schermo interposto fra la realtà e il ricercatore, e quindi non un sussidio ma un ostacolo. Se ciò non accadesse, non si spiegherebbe la incredibile, insisto sull' «incredibile», disputa fra due marxisti, come John Lewis e Louis Althusser, su un problema di questo genere: se siano gli uomini o le masse che fanno la storia. Lewis ha scritto che «l'uomo fa la storia». Althusser gli scaraventa addosso un pamphlet per sostenere che no: «Ce sont !es masses qui font l'histoire»J. Sfido a trovare uno scienziato sociale al di fuori del campo marxista che si possa porre seriamente un problema di questo genere. Dico fra parentesi che delle due affermazioni quella di Lewis ha almeno il pregio di essere chiara, se pure generica, e di avere un significato polemico preciso (che la storia sia fatta dagli uomini significa che non è fatta da Dio, dalla provvidenza ecc.), mentre quella di Althusser, cha ha la pretesa di contrapporsi all'altra come una proposizione scientifica, è altrettanto generica e in più non è chiara, anzi, non c'è bisogno di essere dei patiti della filosofia analitica per conside' L. Al!husscr, Réponse à fohn lewis, Maspero, Paris 1973, pp. 24 si;g.

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rarla una proposizione senza senso, perché per darle un senso occorrerebbe definire che cosa sono le masse, che cosa significa «fare», e che cosa è la storia, impresa, come ognun

vede, sin dall'inizio disperata. Faccio un altro esempio che riguarda da vicino il problema dello stato. Tutti sappiamo quanto sia oggi questione di vita o di morte per il futuro del socialismo il recupero dell'istanza democratica, nell'unico senso in cui si può ragionevolmente parlare di democrazia senza ingannarci a vicenda, cioè di un sistema in cui vigano e siano rispettate alcune regole che permettano al maggior numero di cittadini di partecipare direttamente o indirettamente alle deliberazioni che a diversi livelli (locale, regionale, nazionale) e nelle più diverse sedi (della scuola, del lavoro ecc.) interessano la collettività. Siccome peraltro Lenin (e non solo Lenin del resto) ha affermato che la repubblica democratica è «il migliore involucro del capitalismo», molti continuano a ritenersi in obbligo di sostenere che la repubblica democratica non può essere l'involucro di uno stato socialista. Con un'affermazione di questo genere credono di fare un torto alla repubblica democratica, ma, ahimè! finiscono per rendere un ottimo servizio al capitalismo (e uno pessimo al socialismo). Di grazia, vien fatto di domandare: quale ritenete sia il migliore involucro del socialismo? La dittatura? (Mi viene in mente una battuta di Gobetti, che non ha perduto nulla del suo vigore polemico: «Il regime rappresentativo non ha più il favore popolare. Ma che cosa volete sostituirgli? La teocrazia?»)'. Mi dispiace di aver trovato questo giudizio di Lenin recentemente ripetuto senza alcun sospetto e senza la mini• ~. Go~ct~i, La:wmafede, in ~Energie Nove•,,. I, ora m 5mm politia, Einaudi, Turmo l 960, p. 76.

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11,

5 maggio 1919, n.

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ma riserva da uno studioso cui pur dobbiamo un libro del più grande interesse sulle istituzioni della economia capitalistica: il quale, dovendo spiegare come entro questo sistema che era nato da un suffragio ristrettissimo si sia arrivati al suffragio universale, all'istituzione del quale non risulta che i capitalisti abbiano contribuito con tutte le loro energie, non trova di meglio che ricorrere all'argomento «volpino» (la volpe che secondo la favola converte una sconfitta in un atto di suprema saggezza) della «sfida calcolata»\ (Vien fatto di dire: lasciatelo almeno dire alla volpe. O che siete diventati gli amici ... della volpe?). La conseguenza di una storiografia di questo genere, che per non essere ingenua finisce per rendere all'avversario onori non dovuti, è che tutte le conquiste che sono costate lacrime e sangue al movimento operaio, dal diritto allo sciopero al suffragio universale, dalla legislazione sociale allo statuto dei lavoratori, sono interpretate come abili mosse strategiche dei capitalisti per conservare il potere. Ad ogni sconfitta i fascisti parlavano di «ritirate strategiche», così che a furia di ritirate e di strategia gli alleati arrivarono in Sicilia: ma lo dicevano loro, non i loro avversari. Lenin poteva irridere alla democrazia rappresentativa e prender le difese di quella maggiore e più perfetta democrazia che Bernstein realisticamente aveva chiamata «dottrinaria» o «primitiva», perché forse riteneva in buona fede che rivoluzione proletaria e democrazia nuova fossero due facce della stessa medaglia. Ora noi non possiamo più permetterci simili irrisioni e si' Mi riferisco all'.articolo di F. Galgano, C,pitalism.o di srato I' democrazia rappresentatrva, in •Il Mulino~, XXIII, novcmbrc-d1cembrc 1974, n. 236, p. 880. (L'articolo riproduce pagine del libro Le istituzioni ddl'l',unomia capitali$1Ìca. Socieià per .izioni, st.ifo e dasse sori4/i, Zaniehelli, Bolog~a 1974, che ha già suscitato un importante dibattito in •Sociolni:iJ del dinno~, 1975,n. l,pp.14Jsia;.).

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li,

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mili difese anche a causa di quel che è avvenuto ... dopo Lenin. Non possiamo permetterci di anteporre l'autorità, fosse pure di un Lenin, alle «dure repliche,., come avrebbe detto Hegel, della storia.

Marx e Weber La seconda conseguenza si potrebbe chiamare, al contrario, eccesso di spirito critico. Siccome Marx ha sempre ragione, gli avversari o più semplicemente coloro che hanno fatto affermazioni che non coincidono con quelle di Marx e degli interpreti autorizzati hanno sempre torto. Mi perdoni Cerroni se lo prendo ancora ad esempio, ma confesso che l'aver letto in un suo libro, che pur non è di un marxista schematico e dogmatico, che Max Weber è soltanto un «attento studioso,. della burocrazia, e Wright Mills un "'grande sociologo»• mi ha fatto trasalire: una mancanza così visibile a occhio nudo del senso delle pro· porzioni è di per se stessa una spia di un giudizio prcco· stituito, che si fonda unicamente sulla maggiore o minore distanza dell'uno e dell'altro da Marx. Così soltanto si spiega che alcune pagine, innegabilmente acute e pungen· ti, scritte dal giovane Marx, di critica della burocrazia, peraltro non dissociabili dal contesto in cui sono inserite, che è la critica alla classe universale di Hegel, possano essere elevate a vera e propria teoria della burocrazia da contrapporre, e, quel che è più grave, da anteporre a quella weberiana. Si veda il paragrafo Due analisi della burocrazia: di queste, una è la gigantesca e tuttora sotto molti • U. Ccrmni, La libm.i dei moderni, Dc llonato, Bari 1968, pp. 191 e 202.

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aspetti insuperata opera di Wcber, l'altra sono le poche pagine tratte da una di quelle opere giovanili che Marx ave-

va abbandonato volentieri alla critica roditrice dei topi. Pur prescindendo dalla osservazione che in quest'opera giovanile Marx critica della Filosofia del diritto di Hegel soprattutto l'identificazione del potere governativo con la burocrazia, risoluzione che egli accetterà e illustrerà realisticamente nella lucida e spietata analisi delle conseguenze costituzionali del colpo di stato di Luigi Bonaparte, oggi nessuno, proprio nessuno, è ancora disposto a credere, e tanto meno Max Weber, quel che credeva Hegel, e cioè che i funzionari costituissero la «classe universale», e quindi a nessuno dovrebbero più fare molta impressione frasi ad effetto, nello stile giovane-hcgeliano così caratteristico del giovane Marx, come «le corporazioni sono il materialismo della burocrazia e la burocrazia è lo spiritualismo delle corporazioni». L'importanza delle considerazioni di Marx sulla burocrazia, che sono ben lungi dal negare, è da ricercarsi, semmai, altrove, nello scritto sul 18 brumaio, ma mi riesce difficile capire perché queste pagine in cui si legge che l'apparato burocratico formatosi con la monarchia assoluta fu rafforzato dalla borghesia nascente, ed è diventato quindi uno strumento di dominio della classe borghese al vertice della sua potenza, costituiscano un'analisi «alternativa» rispetto a quella di Wcber. E soprattutto mi preoccupano le conseguenze che se ne debbono trarre inevitabilmente: se davvero l'analisi weberiana della burocrazia è «del tutto opposta» a quella di Marx, il buon marxista non ne deve tenere alcun conto. Ma non è questo il modo per far diventare l'immensa opera di Marx una specie di para-occhi, cioè uno strumento per guardare in una sola direzione? 19

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

Oltretutto, sulla scorta di una frase del giovane Marx che spiega (ma si tratta di una spiegazione che avrebbe bisogno di molti commenti) il formarsi dello stato burocratico come effetto della separazione fra stato e società caratteristica della società borghese, Cerroni sembra rimpiangere l'età in cui potere economico e potere politico, potere privato e potere pubblico, non erano ancora separati, e non si accorge dell'enorme importanza storica che ha avuto e ha tuttora il processo (credo, o temo, irreversibile) che va dal potere tradizionale fondato sui rapporti personali (il cui cattivo residuo storico è il rapporto dicncelare) al potere legale-razionale che permette l'istituzione di rapporti impersonali fra cittadino e funzionario: a meno che si creda ancora seriamente che in uno stato sempre più mastodontico e sempre più sovraccarico di funzioni (necessarie) il problema della separazione fra pubblico e privato si possa risolvere con l'istituto da piccola società arcaica, o da confraternita, o da comunità di utopisti, del cittadino-funzionario, preconizzato nelle note sulla Comune di Marx, preannunciato da Lenin negli scritti incandescenti del tempo della rivoluzione. Che nel furore della lotta per la conquista del potere Lenin avesse iscritto sulla sua bandiera l'idea del cittadinofunzionario (creata del resto ad immagine e somiglianza dell'idea, pur essa di origine rivoluzionaria, del cittadinosoldato), passi (ma lo stesso Lenin dovette più tardi ricredersi). Che lo si ripeta oggi, dopo tutta l'acqua (e il sangue) passata sotto i ponti della storia, è imperdonabile. Fra l'altro, dalla efferata impostazione del problema, cioè dalla falsa credenza che lo stato burocratico sia nato, anziché dall'accrescimento e dal complicarsi e dal tecnicizzarsi dei compiti dello stato, dalla cosiddetta «separatezza» della società civile dalla sfera politica, in seguito all'ascesa della classe mercantile borghese, si trac la conseguenza che basta 20

_ _ _ Esiste una dottrina marxista dello stato? _ __

eliminare lo stato borghese per eliminare lo stato burocratico (il che, come tutti sanno, è avvenuto o sta avvenendo

negli stati socialisti). Naturalmente, mi guardo bene dal sopprimere di colpo tutte le differenze fra Weber e Marx (su cui del resto sono state scritte intere biblioteche). Marx e Weber divergevano, questo è ceno, rispetto alla previsione circa l'avvenire dello stato burocratico. Marx credeva che lo stato socialista avrebbe fatto a poco a poco a meno dell'apparato burocratico. Weber credeva al contrario che il futuro stato socialista, di cui vide soltanto gl'inizi non gli sviluppi, sarebbe stato altrettanto burocratico se non più burocratico dello stato capitalistico. Chi dei due avesse ragione, ai «posteri» l'ardua sentenza (ma è poi tanto ardua?).

La scoperta dell'ovvio Vedo una terza conseguenza dell'abuso del principio di autorità in quel fenomeno che chiamerei volentieri la scoperta dell'ovvio. Chi legge e rilegge sempre gli stessi libri, finisce per soffrire di un certo ritardo nel percepire i cambiamenti. Quando se ne accorge, crede di aver fatto una scoperta. Ma è la scoperta dell'ombrello. O meglio, ci sono marxisti che non hanno crisi e che riescono sempre a trovare una frase di Marx o di Engels o di Lenin (un tempo anche di Stalin) per far combaciare la realtà ribelle con la docile teoria. Ma ci sono anche coloro che entrano in crisi. Questa crisi si risolve quasi sempre in una scoperta, annunciata per lo più con una certa aria di trionfo. Ora queste scoperte sono di solito un recupero di cose che un non marxista conosceva da un pezzo, e si stupiva da tempo che i marxisti non le sapessero. 21

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

Una di queste scoperte davvero straordinarie, che almeno da vent'anni a questa parte ha mutato molte cose nel mondo del marxismo teorico, è che il potere quando è incontrollato può degenerare, e che contro le possibili degenerazioni del potere occorre predisporre rimedi, innalzare

barriere, ergere difese efficaci, quali il controllo democratico, la protezione di alcune libertà civili, in primis quella di esprimere la propria opinione, una agonistica pluralità delle forze sociali e delle loro organizzazioni ecc. Ma è una scoperta che non scopre nulla. Tutta la storia del pensiero politico è dominata da questo problema, tanto da poter essere considerata come un commento, ora amaro ora fiducioso, ora rassegnato ora combattivo, al problema del potere e della sua possibile degenerazione. Uno dei tipi umani la cui figura è stata il maggior numero di volte descritta è quella del tiranno: e come si assomigliano tutti! Che i due fondatori del materialismo storico o della filosofia della prassi non si siano mai interessati a fondo di questo problema, non è una buona ragione per ignorare che il problema è vecchio quanto il mondo, anche se può essere una buona spiegazione del fatto che i marxisti lo abbiano ignorato come problema irrilevante. Marx ed Engels (e sulle loro tracce un capo rivoluzionario come Lenin), convinti com'erano che la sfera della politica fosse la sfera della forza (e in ciò avevano perfettamente ragione), si sono sempre posti il problema del soggetto storico di questa forza, individuato nella classe di volta in volta dominante, piuttosto che non dei diversi modi con cui questa forza possa essere esercitata (che è il problema delle istituzioni). Chiunque abbia una certa familiarità coi classici del pensiero politico sa bene che i problemi fondamentali di ogni teoria politica sono sempre stati due: il problema che, tanto per semplificare, diremo del «chi» governa (in 22

_ _ _ Esiste una dottrina marxis1a dello stato? _ __

base al quale ha percorso i secoli la tipologia delle tre forme di governo, dell'uno, dei pochi e dei molti), e il problema del «come» (secondo il quale alla classificazione meramente descrittiva delle forme di governo si è sovrapposta quella prescrittiva delle forme buone e delle forme cattive). E non ha dubbi sul fatto che dei due problemi quello più importante sia sempre stato il secondo, non il primo. Certamente Marx cd Engels avevano le loro ragioni per sostenere il contrario. Avendo una concezione negativa della politica, essi ritenevano che tutte le forme di governo, in quanto «politiche», per il fatto di essere "'POiitiche», fossero cattive. Una volta definito lo stato come lo strumento di dominio della classe dominante essi non facevano che trarre la logica conseguenza dalle loro premesse: infatti il criterio fondamentale in base al quale la tradizione precedente aveva distinto le forme buone dalle forme cattive era se i detentori del potere governassero per il bene di tutti o per il bene proprio. Se ogni governo è sempre indirizzato all'interesse della classe dominante, è sempre, in base al criterio tradizionale di distinzione, cattivo, o per lo meno cade ogni possibilità di distinguere un governo buono da uno che non lo è. Per queste ragioni, del resto, per Marx ed Engels il problema del buon governo non si risolveva con la sostituzione di una forma «buona .. a una forma «cattiva .. , ma con la eliminazione di ogni forma di governo «politico» (cioè con l'estinzione dello stato e con la fine della politica). Ripeto che Marx ed Engels, e a maggior ragione un capo rivoluzionario come Lenin, avevano le loro buone ragioni storiche per dare più importanza al problema dei soggetti che non a quello delle istituzioni. Ma ciò non ci può esimere dal prendere atto che le loro indicazioni sul problema delle istituzioni sono sempre state generiche, 23

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e altcrnan1.a _ _ __

sommarie, e quel che è più grave irrealistiche, e che pertanto la loro teoria dello stato è incompleta, mancando proprio di quella parte che induce molti a riconoscere a ragione c~e una vera e propria teoria socialistica dello stato non esiste.

Il pensiero politico di Marx A scanso di equivoci, così facili in una materia come questa battuta dal vento delle passioni, preciso che quando dico

che una delle ragioni del ritardo di una teoria socialistica dello stato è «anche» l'eccessivo credito dato agli scritti politici

di Marx, di Engels o di Lenin, in cui si è voluto andare a cercare quello che non c'è e che quegli scrittori non ci avevano messo, non intendo affatto negare l'importanza di Marx, soprattutto di Marx, nella storia del pensiero politico. Ho parlato di «abuso». Non ho escluso il buon uso. Vi sono, a mio giudizio, almeno due aspetti del pensiero politico di Marx che meritano la massima attenzione. Il pensiero politico di Marx si iscrive nella grande corrente del realismo politico che spoglia lo stato dei suoi attributi divini e lo considera come organizzazione della forza, del massimo di forza disponibile ed esercitabile in un determinato gruppo sociale. Rispetto al suo grande predecessore immediato, Marx ha una concezione strumentale dello stato - lo stato come apparato al servizio della classe dominante - che è il rovesciamento radicale della concezione etica secondo cui la forza dello stato è prima di tutto una forza morale e spirituale (l'anti-hegelismo del giovane Marx è fuori discussione). L'originalità di Marx consiste nel fatto che egli è forse il primo scrittore politico che congiunge una concezione realistica dello stato con una teoria 24

_ _ _ Esiste una dottrina marxista dello stato? _ __

rivoluzionaria della società. I realisti sono stati di solito dei conservatori che hanno giustificato lo stato-forza come male necessario partendo da una concezione pessimistica dell'uomo. I due maggiori scrittori politici del Rinascimento, Machiavelli e Lutero, sono realistici e pessimisti: lo stato non può non essere fondato sulla forza (o sull'inganno) perché ha a che fare con sudditi indocili e subdoli. Marx è realista: condivide con gli scrittori realisti l'idea che lo stato è il dominio della forza. Ma non ha una concezione pessimistica della natura umana, o della storia. Che lo stato sia buono o cattivo dipende da chi ne tiene in mano le redini. Per questo può fare di una concezione realistica dello stato (lo stato come male necessario) una delle leve di una teoria rivoluzionaria della società. In secondo luogo Marx è l'unico scrittore realista che conduca la concezione realistica dello stato sino alle estreme conseguenze, con una consapevolezza che ne fa il continuatore e in un certo senso l'inveratore di Machiavelli. L'idea dello stato-forza non era mai andata disgiunta dall'idea che a ogni modo questa forza fosse destinata ad attuare il «bene comune», l' «interesse generale,., la «giustizia» e così via, e uno stato che non perseguisse questi nobili fini fosse uno stato corrotto, non fosse un «vero» stato ccc. Per la prima volta Marx denuncia con estrema chiarezza l'aspetto ideologico di questa presunta teoria: lo stato non soltanto è uno strumento, un apparato, un insieme di apparati, di cui il principale e determinante è quello che serve all'esercizio della forza monopolizzata, ma è uno strumento che serve alla realizzazione d'interessi non generali ma particolari (di classe). Marx giunge a questa conclusione in quanto rovescia la concezione precedente dei rapporti fra società e stato. Da Hobbes a Hegel la società prestatale (sia essa considerata come stato di natura o co25

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

me società civile), considerata come il luogo dello scatenamento delle passioni o degli interessi, si risolve, deve risolversi, tutta quanta nello stato, elevato a luogo della più alta forma di convivenza razionale fra gli uomini (lo stato come «dominio della ragione,. di Hobbes o come «il razionale in sé e per sé» di Hegcl). Per Marx, al contrario, lo stato, lungi dall'essere il superamento dello stato di natura, ne è in un certo senso la perpetuazione, in quanto è, come lo stato di natura, il luogo di un antagonismo permanente e insolubile. (Donde la conseguenza che, per essere troppo radicale, si trasforma in un salto al di fuori della realtà - quando il radicale non si ferma a tempo diventa utopista-: per abolire veramente lo stato di natura bisogna non perfezionare lo stato ma abolirlo). Individuando questi due aspetti salienti del pensiero politico di Marx, ritengo sia lecito dire che, anche se Marx non scrisse una critica della politica come scrisse una cri· tica dell'economia, la sua teoria politica costituisce una tappa obbligata nella storia della teoria dello stato moder· no. Dopo di che devo dire con altrettanta franchezza che non mi sono mai parse di eguale importanza le famose, troppo famose, indicazioni che Marx ha tratte dall' espe· rienza della Comune e che ebbero la ventura di essere esaltate (ma mai attuate) da Lenin. (Oggi sono ancora ri· petute pappagallescamente dal marxismo di strapazzo di cui ho parlato prima, ma purtroppo non soltanto da questo). La verità è che Marx non aveva alcuna intenzione con quelle poche formule di dare ricette per l'avvenire, e solo l'abuso del principio di autorità, da cui ho preso le mosse, ha trasformato cinque o sei tesi in un trattato di di· ritto pubblico. Con l'aggravante, di cui ancora una volta Marx non ha alcuna colpa, che in questi ultimi cent'anni i problemi dello stato, soprattutto il problema del rappor· 26

_ _ _ Esiste una dottrina marxista dello stato? _ __

fra organizzazione dello stato e democrazia, sono diventati sempre più complessi, e quindi sempre più refrattari ad essere racchiusi in formule ad effetto come «deto

mocrazia diretta», «autogoverno dei produttori» e simili. (Ma di ciò un'altra volta).

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_ _ _ _ COMPROMESSO E ALTERNANZA _ __

Il.

Quali alternative alla democrazia rappresentativa? (1975)

I problemi della «politica» - intesa come l'organizza-

zione globale di una società complessa - sono diventati sempre più complicati, e non possiamo più accontentarci di formule ad effetto. E siccome i problemi sono diventati sempre più complicati, le soluzioni soddisfacenti sono diventate sempre più rare (ed è per questo che la tentazione di prendere le scorciatoie diventa alcune volte irresistibile), Beninteso le buone soluzioni sono rare per chi non voglia rinunciare ad alcune istituzioni fondamentali che distinguono uno stato democratico da quello che non lo è (per chi invece crede nelle scorciatoie che, intendiamoci bene, in alcune circostanze sono inevitabili, tutto ciò che dirò in seguito è perfettamente inutile). Dico subito, per non fare un discorso a vuoto, che, per quanto si continui a ripetere che «democrazia» è un termine dai molti significati (cosa del resto comune a tutti i termini del linguaggio politico) e ognuno lo può intendere a modo suo, vi è un significato preponderante su cui tutti coloro che invocano la democrazia, e si preoccupano che il socialismo si attui attraverso la democrazia e, una volta attuato, governi democraticamente, sono ormai perfettamente d'accordo. Questo significato preponderante è 29

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

quello secondo cui per .. democrazia» s'intende un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) che consentono la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte

dei cittadini, sia in forma diretta sia in forma indiretta, alle decisioni politiche, cioè alle decisioni che interessano tutta la collettività. Le regole sono su per giù le seguenti: a) tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso ecc., debbono godere dei diritti politici, cioè del diritto di esprimere col voto la propria opinione e/o di eleggere chi la esprima per lui; b) il voto di tutti i cittadini deve avere peso eguale (cioè deve contare per uno); c) tutti i cittadini che godono dei diritti politici debbono essere liberi di votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara fra gruppi politici organizzati che competono fra loro per aggregare le domande e trasformarle in deliberazioni collettive; d) debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti nella condizione di avere reali alternative, cioè di scegliere fra soluzioni diverse; e) sia per le deliberazioni collettive sia per le elezioni dei rappresentanti vale il principio della maggioranza numerica, anche se possono essere stabilite diverse forme di maggioranza (relativa, assoluta, qualificata) in determinate circostanze preventivamente stabilite; f) nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, in modo pani~olare il diritto di diventare, a parità di condizioni, maggioranza. Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che questo significato di democrazia che ho chiamato preponderante è anche un significato ristretto. Avrei però qualche difficoltà ad ammettere che quando si parla di democrazia tout court, senza aggettivi, si voglia (e sia utile) intendere altro. Chi in30

_ _ _ Quali alternative alla democrazia rappresentativa? _ _

tende altro sarebbe meglio che lo dichiarasse in anticipo. E ancora: nessuna difficoltà ad ammettere che, affinché uno stato sia «veramente,. democratico, non basta l'osservanza di quelle regole, purché si sia disposti ad ammettere che basta l'inosservanza di una di esse perché non sia democratico (né veramente né apparentemente).

Il fme e i mezzi Non credo sia il caso di affrontare il problema del rapporto fra mezzi e fini, il problema cioè se il giudizio di bene e di male possa essere dato soltanto sui fini o non debba essere dato anche sui mezzi, e una volta che si sia convenuto che vi sono non soltanto fini buoni e cattivi ma anche mezzi buoni e cattivi, in quale misura e in quali condizioni sia desiderabile perseguire fini buoni con mezzi cattivi'. Mi preme per ora soltanto fare osservare che non si tiene mai sufficientemente conto del fatto che vi è un nesso strettissimo fra i risultati ottenuti e il procedimento con cui sono ottenuti, e soprattutto che non soltanto i risultati sono valutabili in base a criteri che ci permettono di distinguere risultati desiderabili da risultati non desiderabili, ma sono sottoponibili a giudizi di valore anche le procedure, per cui è possibile distinguere procedure buone di per se stesse e procedure di per se stesse cattive indipendentemente dai risultati: per fare un esempio estremo, una procedura giudiziaria che comprenda fra le sue regole anche quella della liceità della tortura, è una procedura che chi considera catti'Per un'ampia discussione su qucs10 argomento mi limito per ora a rin•·iarc al libro rcrcn1c, passato quasi inosservato, di Giuliano Pontara, Se il fine giustifichi i meni, pubblicam dal Mulino, 1974, salvo a ritornarvi su in altra occasione.

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_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

va considera tale di per se stessa senza tenere il minimo conto del risultato (cioè anche ammesso che si possa ottenere con la tortura un risultato desiderabile come quello di conoscere la verità). Lo stesso accade per la democrazia quando la s'intende, come qui è stata intesa, come insieme di regole procedurali volte al conseguimento di certi risultati, di cui il più importante è l'approvazione di decisioni

interessanti tutta la collettività (che poi sono, in termine tecnico, le «leggi»). Chi sostiene che la democrazia così intesa è una cosa buona sostiene anche che non si può essere indifferenti di fronte alla scelta di una procedura piuttosto che di un'altra: per fare anche qui un esempio, un procedimento elettorale che contenga fra le sue regole un premio alla lista o alle liste che conseguono la maggioranza assoluta o anche soltanto relativa è un procedimento di cui si può tranquillamente dire che è un cattivo procedimento (si può dire, ed è stato detto, e chi non ricorda?, che è una «leggetruffa,. ), indipendentemente dalle considerazioni che si possono fare e sono state fatte sulla necessità di una maggioranza stabile ecc. Naturalmente, il tener conto anche della bontà o non bontà delle procedure non significa affatto trascurare i risultati. Si capisce che l'ideale sarebbe ottenere i migliori risultati con le migliori procedure. Ma quali sono i risultati migliori? La difficoltà di sapere quali sono i risultati migliori e di mettere d'accordo un certo numero di persone (che possono essere anche decine di milioni) su di essi, ci costringe a ripiegare sulle operazioni compiute per ottenerli e a convenire che il risultato migliore è quello cui si è giunti con le regole migliori, di cui la più importante è certamente quella della maggioranza. Di qui l'enorme importanza delle regole e di qui la necessità di essere d'accordo sulle regole per trovare un accordo anche sui risultati. L'esempio del di32

_ _ _ Quali alicrnativc alla dcmocra1.ia rappresentativa? _ _

vorzio insegni. Il fatto di rimettere a una serie di regole procedurali concordate, come quelle previste dalla legge sul referendum, la decisione se sia meglio l'indissolubilità o il divorzio, presuppone un giudizio sulla bontà di quelle regole

e la convinzione che è buono il risultato ottenuto con una procedura buona. Si osservi che contrariamente a quello che

comunemente si crede, in questo caso non è il fine buono che giustifica il mezzo anche cattivo, ma è il mezzo buono o ritenuto tale che giustifica il risultato, o per lo meno fa accettare il risultato come buono anche da coloro che hanno dato un voto contrario, cioè da coloro che avrebbero considerato il risultato in quanto risultato, indipendentemente dal mezzo con cui è stato ottenuto, cattivo.

I paradossi della democrazia moderna Ho tratto l'esempio da un caso di democrazia diretta proprio perché la democrazia diretta è (del resto giustamente) esaltata da coloro che non sono soddisfatti della democrazia rappresentativa e la ritengono una specie di toccasana contro i difetti del «sistema». Ma se la democrazia, come ho avuto occasione più volte di dire, è difficile (ora vedo che anche lrving Fetscher, ma sarebbe meglio dire l'editore Laterza perché il titolo non è originale, pubblica un libro intitolato La democrazl4 difficile), la democrazia diretta è ancora più difficile. Aggiungo: è diventata sempre più difficile. Illustro questa affermazione facendo riferimento ad alcuni problemi di fronte a cui si trovano tutti i sistemi politici del nostro tempo, e che possono essere chiamati veri e propri «paradossi» della democrazia moderna. Nessun dubbio che la democrazia perfetta., la democrazia ideale, se democrazia significa governo del popolo e non 33

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

in nome del popolo, sia la democrazia diretta, che faceva dire a Rousseau che il popolo inglese era libero soltanto nel momento in cui deponeva il voto nell'urna. A Rousseau veramente si sarebbe potuto obiettare, ed è stato mille volte obiettato, che gli altri popoli non erano liberi neppure in quel momento. Rousseau, peraltro, sapeva - e lo sapeva anche Montesquieu - che la democrazia diretta, la democrazia dell'agorà contrapposta alla democrazia dell'aula, era un regime adatto ai piccoli stati, a quegli stati appunto le cui dimensioni permettevano ai cittadini (che poi erano una piccola pane soltanto degli abitanti di una città) di riunirsi tutti insieme in piazza. Dove sono ora i piccoli stati? Gli stati continuano a crescere, e le piazze servono ormai soltanto alla folla mobilitata, non ai cittadini partecipanti. (Montesquieu diceva anche che il principio delle democrazie era la virtù, intesa come l'amor di patria: ma solo le piccole patrie potevano essere amate, tanto che nella grande patria francese Robespierre, per salvare appunto la patria. aveva dovuto coniugare la virtù con il terrore). Il primo paradosso della democrazia dei moderni, contrapposta alla democrazia degli antichi (per ricalcare una celebre distinzione), nasce di qui: chiediamo sempre più democrazia in condizioni obiettive sempre più sfavorevoli. Non da oggi ci è stato spiegato che nulla è più difficile che far rispettare le regole del gioco democratico nelle grandi organizzazioni: e le organizzazioni diventano, a cominciare da quella statale, sempre più grandi. Chi ha messo il dito su questa piaga (che è stata chiamata la legge ferrea dell'oligarchia) si è sempre posto il problema rispetto alla democrazia rappresentativa: figuriamoci la democrazia diretta. La democrazia assembleare risuscitata dal movimento studentesco è quasi sempre stata, dal punto di vista del corretto funzionamento delle regole di cui ho par34

_ _ _ Quali alternative alla democrazia rappresentativa? _ _

lato prima, ingannevole: da un lato vi è un'assemblea che si limita, assai peggio del peggiore dei parlamenti, a ratificare (spesso per acclamazione) le decisioni dell'esecutivo, espresse in mozioni; dall'altro vi è un esecutivo la cui investitura è carismatica (nel senso tecnico della parola, nel senso cioè in cui «carismatico,. è contrapposto a «democratico»), e il cui potere è ben più stabile e irresistibile di quello di qualsiasi esecutivo di un corpo rappresentativo (altro che revoca del mandato!). Non dico questo per fare della facile polemica (anche se la pretesa degli «assemblearisti» di dar lezioni di democrazia è piuttosto irritante): lo dico per ripetere ancora una volta che la democrazia (non importa se diretta o indiretta, se assembleare o rappresentativa) è una «pratica,. estremamente complessa, che rifiuta improvvisazioni, facili generalizzazioni, più o meno ingegnose innovazioni, ed è per di più un meccanismo molto delicato che si guasta al minimo urto.

Burocrazia e tecnocrazia Un secondo paradosso, ancora più imbarazzante, nasce dal fatto che lo stato moderno è cresciuto non solo in dimensioni ma anche in funzioni, e ogni aumento delle ftmzioni dello stato si risolve in una crescita dell'apparato burocratico, cioè di un apparato a struttura gerarchica e non democratica, a potere discendente e non ascendente. Se si pone mente al fatto che al tempo di Cavour i ministeri erano sene o otto, e ora sono all'incirca quadruplicati, e che ogni ministero ha bisogno del proprio esercito di funzionari (senza contare il para-stato, anch'esso continuamente in aumento), ci si rende conto di quanto forte e, quel che è più, naturale sia la tendenza dello stato moderno verso l 'or35

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

ganizzazione burocratica, leggi essenzialmente anti-dcmocratica, del potere. :È. vero che in questi stessi stati è avanzato più o meno nello stesso periodo anche il processo di democratizzazione (allargamento del suffragio, morte lenta o violenta della seconda camera non eletta, declino o scomparsa delle monarchie, sviluppo del decentramento ecc.), ma è altrettanto vero che processo di democratizzazione e processo di burocratizzazione non solo procedono di pari passo, ma il secondo è la conseguenza diretta del primo. Via via che l'allargamento del suffragio consente a sempre nuove masse di far giungere al vertice le loro domande, dal momento che queste domande si risolvono quasi sempre nella richiesta che lo stato si assuma nuovi compiti e quindi nuovi oneri, lo stato è costretto ad accrescere le sue prestazioni e quindi il suo apparato. Ancora una volta non dico questo per riprendere la vecchia polemica degli scrittori liberali contro l'estensione della sfera pubblica a danno della sfera privata (si pensi alla lotta condotta giorno per giorno da Luigi Einaudi contro tutti coloro, fossero socialisti o conservatori, che chiedevano sempre nuovi interventi dello stato in faccende che secondo i principi del liberalismo classico non lo riguardavano), o per ripetere la previsione di Max Weber, citatissima, e tutt'altro che cervellotica, sulla «gabbia d'acciaio» destinata a imprigionare a poco a poco i cittadini del nuovo stato legale-razionale (ma di una razionalità soltanto formale). La crescita parallela dello stato burocratico e dello stato democratico è una vecchia idea di tutti coloro che videro crescere sotto i loro occhi, chi con soddisfazione chi con preoccupazione, lo stato moderno tanto da essere diventata oggi un luogo comune. Per fare una citazione ad effetto, Silvio Spaventa scriveva circa cent'anni fa (nel 1880): «Una società democratica, in cui avete proclamato l'eguaglianza 36

_ _ _ Quali alternative alla democrazia rappresentativa? _ _

giuridica di tutti innanzi alla legge, ha delle esigenze, che impongono allo stato un numero sempre maggiore di servigi ed uffizii, aventi per iscopo di procurare condizioni e

mezzi per cui ciascun individuo possa con l'attività propria conquistare uno stato, che sia in qualche corrispondenza con la sua eguaglianza di diritto. Di qui la necessità di allargare sempre più i limiti dell'amministrazione comune, che crea sempre nuovi rapponi tra i cittadini con il rappresentante di questa amministrazione comune che è appunto

lo stato»!. Dico questo perché non si dimentichi ciò che quei vecchi scrittori sapevano benissimo, e cioè che più democrazia (e più ancora, più socialismo) vuol dire, o almeno sinora ha sempre voluto dire, più burocrazia. Solo sapendolo ci si mette nella condizione di prendere coscienza delle enormi difficoltà in cui ci dibattiamo e di diffidare dei colpi di bacchetta magica. Un terzo paradosso - il più macroscopico - è l'effetto dello sviluppo tecnico, caratteristico delle società industriali, non importa se rette a economia capitalistica o socialistica, cioè del fatto che in queste società sono aumentati in forma sempre più accelerata i problemi che richiedono soluzioni tecniche, non affidabili se non a competenti, donde d.eriva .la. ricorrente te~tazione di governare attraverso i puri tecmc1, o tecnocrazia. Non c'è bisogno di molto acume per rendersi conto che tecnocrazia e democrazia fanno a pugni. La tecnocrazia è il governo dei competenti, cioè di coloro che sanno una cosa sola ma la sanno, o dovrebbero saperla, bene; la democrazia è il governo di tutti, cioè di coloro che dovrebbero decidere, non in base alla competenza, ma in base alla propria '5. Spaventa, Dùrorsi parklmentari, Tipografia della Camera dei Dcputati, Koma \9[},p.556. 37

_ _ _ _ Bobbio, Compromesso e alternanza _ _ __

esperienza. li protagonista della società industriale è lo scienziato, lo specialista, l'esperto, il protagonista della società democratica è il cittadino qualunque, l'uomo della strada, il quisque e populo. Non c'è paragone possibile fra la difficoltà dei problemi che si trova a dover affrontare l'uomo di una società arcaica e quelli di fronte ai quali ci troviamo noi ogni giorno: per far un esempio solo, quanti sono coloro che padroneggiano i problemi economici di un grande stato e sono in grado di proporre soluzioni corrette una volta posti ceni obiettivi? o peggio ancora, di indicare obiettivi che siano raggiungibili date certe risorse? Eppure la democrazia si regge sulla idea-limite che tutti possano decidere di tutto. Si può esprimere il paradosso anche in quest'altro modo: secondo l'ideale democratico l'unico competente negli affari politici è il cittadino (e in questo senso il cittadino può dirsi sovrano). Ma via via che le decisioni diventano sempre più tecniche e sempre meno politiche, non si restringe la sfera di competenza del cittadino, e di conseguenza la sua sovranità? Non è dunque contraddittorio chiedere sempre più democrazia in una società sempre più tecnicizzata? Non sto facendo l'apologia della società tecnocratica, anche perché ritengo che per quanto si estendano i problemi che richiedono soluzioni tecnicamente sempre più difficili, non si estenderanno mai tanto da occupare tutto il posto dei tradizionali problemi politici. Anzi lo sviluppo tecnico crea problemi politici sempre nuovi. Constato però un fatto che sarebbe da stolti non vedere. Chiedere più democrazia vuol dire chiedere l'estensione delle decisioni che sono di competenza di colui che si trova ad essere, per le condizioni obiettive dello sviluppo delle società moderne, sempre più incompetente, il che vale soprattutto nel settore della produzione, proprio nel settore che di fat38

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tosi è sottratto sino ad ora, tanto nei paesi a economia capitalistica quanto in quelli a economia socialistica, a ogni forma di controllo popolare, e che è quello in cui si vince o si perde la sfida democratica. Constatare fatti senza pregiudizi e senza troppe illusioni è oltretutto l'unico modo per mettersi nelle condizioni di escogitare rimedi pratica-

bili, non velleitari. Industria culturale e industria politica Considero come un guano paradosso, quarto cd ultimo (ultimo per modo di dire), quello che nasce dal contrasto fra processo democratico e società di massa. La democrazia presuppone il libero e pieno sviluppo