Comportamento organizzativo 9788838789786

Il libro di Kreitner e Kinicki, che proponiamo in una nuova edizione completamente rinnovata, offre una panoramica esaus

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Italian Pages 471

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Table of contents :
Sommario......Page 6
Presentazione dell’edizione italiana......Page 12
Prefazione......Page 14
I Il mondo del comportamento organizzativo......Page 16
1 - Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico......Page 0
Il comportamento organizzativo: un campo interdisciplinare......Page 19
Domande frequenti sullo studio del comportamento organizzativo......Page 20
Il comportamento organizzativo: una prospettiva storica......Page 21
La corrente delle relazioni umane......Page 22
La corrente della qualità totale......Page 24
La rivoluzione di Internet e dei social media......Page 26
La costruzione del capitale umano e sociale......Page 27
Il contesto manageriale: ottenere risultati con e attraverso gli altri......Page 29
Che cosa fanno i manager?Un profilo delle capacità manageriali......Page 30
I manager del XXI secolo......Page 31
Un modello di eticae responsabilità sociale globale d’impresa......Page 33
Principi morali generali......Page 35
Come migliorare il clima etico di un’organizzazione......Page 36
Un appello individuale all’azione......Page 37
Le cinque fonti di evidenza empirica......Page 38
Un modello per comprenderee gestire il comportamento organizzativo......Page 39
2 - La gestione delle diversità: liberare il potenziale di ogni persona......Page 41
I livelli della diversità......Page 42
Azioni positive e gestione delle diversità......Page 44
Gli argomenti a favore della gestione della diversità......Page 45
L’aumento della diversità nella forza lavoro......Page 46
Le implicazioni manageriali della diversità......Page 52
Effetti positivi e negativi della diversitànegli ambienti di lavoro......Page 55
Le barriere e le sfide alla gestione della diversità......Page 58
Pratiche organizzative per la gestione della diversità......Page 60
3 - Cultura organizzativa, socializzazione e mentoring......Page 63
La cultura organizzativa: definizione e contesto......Page 64
I livelli della cultura organizzativa......Page 65
Quattro funzioni della cultura organizzativa......Page 68
Tipi di culture organizzative......Page 69
Le conseguenze associate alla cultura organizzativa......Page 73
Il processo di cambiamento culturale......Page 75
Il processo di socializzazione organizzativa......Page 77
Un modello di socializzazione organizzativa a tre fasi......Page 78
Radicare la cultura organizzativa attraverso il mentoring......Page 81
Network per lo sviluppo alla base del mentoring......Page 82
Implicazioni personali e organizzative......Page 83
4 Comportamento organizzativo nel mondo: management interculturale......Page 84
La cultura di un gruppo sociale è complessa e multistratificata......Page 87
La cultura è una forza sottile ma pervasiva......Page 88
Cultura sociale e cultura organizzativa: un modello......Page 89
Etnocentrismo: un ostacolo per le interazioni interculturali......Page 90
L’intelligenza culturale è la soluzione ai paradossi culturali......Page 92
Culture a struttura complessa e culture lineari......Page 93
Le nove dimensioni culturali del progetto GLOBE......Page 95
Individualismo e collettivismo......Page 97
Percezione culturale del tempo......Page 98
Spazio interpersonale......Page 100
Religione......Page 101
Lo studio di Hofstede: le teorie di management statunitensisono applicabili in altri paesi?......Page 102
Lezioni di leadership dal progetto GLOBE......Page 103
Lo stile di management varia di paese in paese......Page 104
Perché gli americani falliscono negli incarichi all’estero?......Page 105
Come evitare gli elementi critici di comportamento organizzativo negli incarichi all’estero......Page 107
II Il comportamento individuale nelle organizzazioni......Page 111
5 - Le differenze individuali......Page 112
Il concetto di sé......Page 114
L’auto-efficacia......Page 115
L’auto-osservazione......Page 118
La personalità: concetti e controversie......Page 119
I Big Five......Page 120
La personalità proattiva......Page 121
Capacità (intelligenza) e performance......Page 122
Siamo dotati di intelligenze multiple?......Page 124
Emozioni positive ed emozioni negative......Page 126
Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva......Page 127
6 - Valori, atteggiamenti e soddisfazione lavorativa......Page 130
La teoria dei valori di Schwartz......Page 131
Conflitti di valori......Page 133
Conflitto tra lavoro e vita familiare......Page 134
Atteggiamenti......Page 135
La natura degli atteggiamenti......Page 136
Quanto sono stabili gli atteggiamenti?......Page 137
Gli atteggiamenti influenzano il comportamento attraverso le intenzioni......Page 138
Atteggiamenti nei confronti del lavoro......Page 139
L’impegno verso l’organizzazione......Page 140
Il coinvolgimento del personale......Page 142
Le cause della soddisfazione lavorativa......Page 143
Implicazioni e conseguenze della soddisfazione lavorativa......Page 144
Maltrattamenti......Page 147
Le cause e la prevenzione dei comportamenti controproducenti......Page 148
7 - Percezioni e attribuzioni sociali......Page 149
Una sequenza a quattro fasi e un esempio operativo......Page 151
Fase 1: selezione attiva/comprensione......Page 152
Fase 2: codificazione e semplificazione......Page 153
Fase 3: immagazzinamento e conservazione......Page 155
Implicazioni manageriali......Page 156
Formazione e radicamento dello stereotipo......Page 158
Stereotipi legati ai ruoli sessuali......Page 160
Stereotipi legati all’età......Page 161
Stereotipi legati alla razza e all’etnia......Page 162
Sfide manageriali e consigli utili......Page 163
La ricerca e un modello esplicativo......Page 164
Sfruttare al meglio la profezia che si autoavvera......Page 166
Attribuzioni causali......Page 167
Modello dell’attribuzione secondo Kelley......Page 168
Tendenze attributive......Page 169
Applicazioni e implicazioni manageriali......Page 170
8 - I fondamenti della motivazione......Page 173
La teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow......Page 175
La teoria ERC di Alderfer......Page 176
La teoria dei bisogni di McClelland......Page 177
La teoria dei fattori duali di Herzberg......Page 178
La teoria motivazionale dell’equità di Adams......Page 180
Iniquità negativa e positiva......Page 181
Espandere il concetto di equità: la giustizia organizzativa......Page 183
Implicazioni pratiche derivanti dalla teoria dell’equità......Page 184
Aspettativa......Page 185
Valenza......Page 186
Ricerca sulla teoria dell’aspettativae implicazioni a livello manageriale......Page 187
La motivazione attraverso il goal setting......Page 188
Come funziona il goal setting?......Page 189
Implicazioni pratiche delle ricerche sul goal setting......Page 190
Gli approcci top-down......Page 192
Gli approcci bottom-up......Page 196
Gli accordi personalizzati......Page 197
9 - Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi......Page 198
Il goal setting......Page 201
Due tipi di obiettivi......Page 202
Gestire il processo del goal setting......Page 203
Retribuzione legata alla performance......Page 216
Due funzioni del feedback......Page 206
I riceventi del feedback sono pronti, disponibili e capaci?......Page 207
Consigli pratici derivanti dalla ricerca sul feedback......Page 209
Feedback a 360 gradi......Page 210
Sistemi di ricompensa......Page 211
Criteri di distribuzione delle ricompense......Page 212
Le basi della motivazione e delle ricompense intrinseche......Page 213
Perché le ricompense estrinseche non riescono a motivare?......Page 215
Trarre il meglio da ricompense estrinseche e retribuzioni basate sulla performance......Page 217
Il modello di Skinner del condizionamento operativo......Page 218
Conseguenze contingenti......Page 219
Programmi di rinforzo......Page 220
Modellare il comportamento......Page 223
III I gruppi e i processi sociali......Page 225
10 - Dinamiche di gruppo......Page 226
I gruppi nell’epoca dei social media......Page 227
Funzioni dei gruppi formali......Page 228
L’era dei social media ha sfumato i confini tra formale e informale......Page 229
Il processo di sviluppo dei gruppi......Page 230
Le cinque fasi......Page 231
Sviluppo dei gruppi: studi e indicazioni pratiche......Page 233
Ruoli e norme: basi sociali per il comportamentoorganizzativo e di gruppo......Page 235
Ruoli......Page 236
Norme......Page 238
Risultati della ricerca e implicazioni per i manager......Page 240
Ruoli funzionali rivestiti dai membri del gruppo......Page 241
Dimensioni del gruppo......Page 243
Uomini e donne che lavorano insieme in un gruppo......Page 244
L’effetto Asch......Page 248
Groupthink......Page 250
Inerzia sociale......Page 251
11 - Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci......Page 253
Team di lavoro: tipi, efficacia e difficoltà......Page 255
Una tipologia generale dei team di lavoro......Page 256
Efficacia dei team di lavoro......Page 258
Perché i team di lavoro falliscono?......Page 261
Cooperazione......Page 263
Fiducia......Page 264
Coesione......Page 267
Team virtuali e team auto-gestiti......Page 268
Team virtuali......Page 269
Team auto-gestiti......Page 271
Team building......Page 273
La leadership dei team......Page 274
12 - Processi decisionali individuali e di gruppo......Page 275
Il modello razionale......Page 277
I modelli decisionali non razionali......Page 279
I bias decisionali......Page 281
Un modello di processo decisionale basato sull’evidenza......Page 284
Sette principi per l’implementazione......Page 286
Stili decisionali......Page 287
L’intuizione nel processo decisionale......Page 290
Processi decisionali di gruppo......Page 292
Il gruppo nei processi decisionali......Page 293
Vantaggi e svantaggi del processo decisionale di gruppo......Page 294
Tecniche per il problem-solving di gruppo......Page 296
Definizione e caratteristiche individuali associate alla creatività......Page 300
Le caratteristiche del contesto associate alla creatività......Page 301
Le fasi del processo creativo......Page 302
13 - Gestione del conflitto e negoziazione......Page 304
Conflitto: una prospettiva moderna......Page 305
Il linguaggio del conflitto: metafore e significati......Page 306
Il continuum dei conflitti......Page 307
Conflitto funzionale e conflitto patologico......Page 308
Soluzioni auspicabili dei conflitti......Page 309
Conflitto di personalità......Page 310
Conflitto tra gruppi......Page 311
Conflitti interculturali......Page 314
Gestire i conflitti......Page 315
Stimolare i conflitti funzionali......Page 316
Stili alternativi per la gestione del conflitto patologico......Page 318
Intervento da parte di terzi......Page 320
Lezioni pratiche dalla ricerca sui confl itti......Page 322
Due tipi di negoziazione......Page 323
Gestione del confl itto e negoziazione:un approccio contingente......Page 324
IV I processi organizzativi......Page 328
14 - Comunicazione organizzativa nell’era digitale......Page 329
Dimensioni di base del processo comunicativo e impatto dei social media......Page 330
Un modello di processo percettivo della comunicazione......Page 331
Barriere a una comunicazione effi cace......Page 333
Comunicazione interpersonale......Page 336
Assertività, aggressività e non assertività......Page 337
La comunicazione non verbale......Page 338
Ascolto attivo......Page 340
Stili linguistici e genere......Page 342
Comunicazione organizzativa......Page 344
I canali formali per la comunicazione verso l’alto,verso il basso, orizzontale ed esterna......Page 345
I canali di comunicazione informali......Page 346
La scelta del mezzo di comunicazione:una prospettiva contingente......Page 348
L’impatto della comunicazione digitale sul comportamento organizzativo......Page 351
Problemi strategici: la sicurezza e la privacy......Page 352
La dirompente Net Generation......Page 353
Telependolarismo e telelavoro: vantaggi e problemi......Page 354
Gestire le conseguenze indesiderate dell’era digitale......Page 356
15 - Influenza, empowerment e manovre politiche......Page 360
Nove tattiche di inf uenza generiche......Page 362
Potere sociale......Page 363
Dimensioni del potere......Page 364
Ricerche sul potere sociale......Page 366
Uso etico e responsabile del potere......Page 367
Empowerment: dalla condivisionealla distribuzione del potere......Page 368
Una questione di sfumature......Page 369
Delega......Page 370
Manovre politiche e gestione dell’impressione......Page 372
Definizione e dominio delle manovre politiche......Page 373
Tattiche politiche......Page 375
Gestione dell’impressione......Page 377
Gestione delle manovre politiche nelle organizzazioni......Page 379
16 - Leadership......Page 381
Che cos’è la leadership?......Page 382
Approcci alla leadership......Page 383
Teoria dei tratti e teoria comportamentaledella leadership......Page 384
Teoria dei tratti......Page 385
Teoria degli stili comportamentali......Page 388
Teorie contingenti......Page 390
Il modello contingente di Fiedler......Page 391
La teoria del percorso-obiettivo......Page 393
Cautela nell’applicazione delle teorie contingenti......Page 396
Il modello full range della leadership: dallo stile laissez-faire allo stile trasformazionale......Page 397
Come fa la leadership trasformazionalea infl uire sui follower?......Page 398
Ricerche e implicazioni manageriali......Page 399
Il modello dello scambio tra leader e collaboratore......Page 401
La leadership condivisa......Page 402
La leadership di servizio......Page 403
Il ruolo dei follower nel processo di leadership......Page 405
17 - Gestione del cambiamentoe dello stress......Page 406
Le forze del cambiamento......Page 407
Forze esterne......Page 408
Forze interne......Page 410
Tipologie di cambiamento......Page 411
Il modello del cambiamento di Lewin......Page 412
Un modello sistemico del cambiamento......Page 414
Le otto fasi di Kotter della gestionedel cambiamento organizzativo......Page 416
Determinare il cambiamento attraverso lo sviluppo organizzativo......Page 417
Capire e gestire la resistenza al cambiamento......Page 420
Le cause della resistenza al cambiamento......Page 421
Strategie alternative per vincerela resistenza al cambiamento......Page 423
Dinamiche dello stress......Page 424
Un modello di stress lavorativo......Page 426
Moderatori dello stress occupazionale......Page 430
Tecniche per ridurre lo stress......Page 433
Note al volume......Page 436
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 9788838789786

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Kreitner Kinicki

Robert Kreitner Angelo Kinicki

Seconda edizione Robert Kreitner è professore emerito di Management presso la Arizona State University. Angelo Kinicki insegna Management e Leadership presso la stessa università. L’edizione italiana è curata da Cristina Bombelli, Wise Growth, e Barbara Quacquarelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

€ 34,00

3146-8.indd 1

Il libro di Kreitner e Kinicki, che proponiamo in una seconda edizione completamente rinnovata, offre una panoramica esaustiva e organica degli studi sul comportamento organizzativo. Il volume illustra sia i principali schemi teorici di riferimento, sia i più importanti risultati della ricerca empirica, con una particolare attenzione per la dimensione applicativa e le implicazioni manageriali. Nella nuova edizione viene presentata un’ampia e approfondita trattazione di numerosi temi di frontiera nella ricerca attuale. Tra questi, gli effetti di Internet e dei social media sui comportamenti nei luoghi di lavoro; l’abbattimento dei confini tra l’ambito formale e informale della vita organizzativa; l’ingresso del concetto di sostenibilità nella gestione delle persone; lo sviluppo del tema dell’engagement; le questioni legate alla diversità relativa all’età; la gestione dello stress.

Comportamento organizzativo

Comportamento organizzativo

Comportamento organizzativo Seconda edizione

Robert Kreitner Angelo Kinicki

www.apogeonline.com/Education

16/01/13 16.08

CompOrga.indb i

11/01/2013 16.34.29

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CompOrga.indb ii

11/01/2013 16.34.48

Comportamento organizzativo Seconda edizione

Robert Kreitner Angelo Kinicki Edizione italiana a cura di Cristina Bombelli e Barbara Quacquarelli

CompOrga.indb iii

11/01/2013 16.34.49

Comportamento organizzativo. Seconda edizione Titolo originale: Organizational Behavior 10th ed. Autori: Robert Kreitner, Angelo Kinicki Original English language edition by The McGraw-Hill Companies, Inc. Copyright © 2013 – The McGraw-Hill Companies Copyright © 2013 – APOGEO – IF – Idee editoriali Feltrinelli s.r.l. Email [email protected] U.R.L. http://www.apogeonline.com/Education

ISBN: 978-88-503-1581-9 Traduzione: Chiara Bonan, Alessandra Donnini, Maristella Notaristefano Revisione: Cristina Bombelli, Barbara Quacquarelli Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla Legge sul diritto d’autore. Nomi e marchi citati nel testo sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive case produttrici.

Sommario

Presentazione dell’edizione italiana Prefazione

Principi morali generali 21 Come migliorare il clima etico di un’organizzazione 22 Un appello individuale all’azione 23 Apprendere il comportamento organizzativo: l’importanza della ricerca 24 Le cinque fonti di evidenza empirica 24 Un modello per comprendere e gestire il comportamento organizzativo 25

xi

xiii

Parte I Il mondo del comportamento organizzativo 1 1

Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico 3 Perché Zappos.com è così brava a battere la concorrenza? 3 Benvenuti nel mondo del comportamento organizzativo 5 Il comportamento organizzativo: un campo interdisciplinare 5 Domande frequenti sullo studio del comportamento organizzativo 6 Il comportamento organizzativo: una prospettiva storica 7 La corrente delle relazioni umane 8 La corrente della qualità totale 10 La rivoluzione di Internet e dei social media 12 La costruzione del capitale umano e sociale 13 Il contesto manageriale: ottenere risultati con e attraverso gli altri 16 Che cosa fanno i manager? Un profilo delle capacità manageriali 16 I manager del XXI secolo 17 L’approccio contingente al management 19 La sfida dell’etica 19 Un modello di etica e responsabilità sociale globale d’impresa 19

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2

La gestione delle diversità: liberare il potenziale di ogni persona 27 Sarà possibile per le donne fare carriera? 27 Definire la diversità 28 I livelli della diversità 28 Azioni positive e gestione delle diversità 30 Gli argomenti a favore della gestione della diversità 31 L’aumento della diversità nella forza lavoro 32 Le implicazioni manageriali della diversità 38 Effetti positivi e negativi della diversità negli ambienti di lavoro 41 Le barriere e le sfide alla gestione della diversità 44 Pratiche organizzative per la gestione della diversità 46

3

Cultura organizzativa, socializzazione e mentoring 49 Vi piacerebbe lavorare per Southwest Airlines? 49 La cultura organizzativa: definizione e contesto 50 Dinamiche della cultura organizzativa

51

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Sommario

vi I livelli della cultura organizzativa 51 Quattro funzioni della cultura organizzativa 54 Tipi di culture organizzative 55 Le conseguenze associate alla cultura organizzativa 59 Il processo di cambiamento culturale 61 Il processo di socializzazione organizzativa 63 Un modello di socializzazione organizzativa a tre fasi 64 Radicare la cultura organizzativa attraverso il mentoring 67 Funzioni del mentoring 68 Network per lo sviluppo alla base del mentoring 68 Implicazioni personali e organizzative 69 4

Perché gli americani falliscono negli incarichi all’estero? 91 Come evitare gli elementi critici di comportamento organizzativo negli incarichi all’estero 93 Parte II Il comportamento individuale nelle organizzazioni 97 5

CompOrga.indb vi

99

Un introverso può guidare Facebook verso il successo nel lungo periodo? 99 Il concetto di sé 101 L’autostima 102 L’auto-efficacia 102 L’auto-osservazione 105 L’identificazione organizzativa 106 La personalità: concetti e controversie 107 I Big Five 107 La personalità proattiva 108 È corretto utilizzare i test di personalità sul posto di lavoro? 109 Capacità (intelligenza) e performance 109 Intelligenza e capacità cognitive 111 Siamo dotati di intelligenze multiple? 111 Le emozioni nella vita organizzativa 113 Emozioni positive ed emozioni negative 113 Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva 114

Comportamento organizzativo nel mondo: management interculturale 71 Quante delle vostre supposizioni sulle culture straniere sono errate? 71 Cultura e comportamento organizzativo 73 La cultura di un gruppo sociale è complessa e multistratificata 74 La cultura è una forza sottile ma pervasiva 74 Cultura sociale e cultura organizzativa: un modello 75 Sviluppare l’intelligenza culturale 76 Etnocentrismo: un ostacolo per le interazioni interculturali 76 L’intelligenza culturale è la soluzione ai paradossi culturali 78 Comprendere le differenze culturali 79 Culture a struttura complessa e culture lineari 79 Le nove dimensioni culturali del progetto GLOBE 81 Individualismo e collettivismo 83 Percezione culturale del tempo 84 Spazio interpersonale 86 Religione 87 Conseguenze operative delle ricerche sul management interculturale 88 Lo studio di Hofstede: le teorie di management statunitensi sono applicabili in altri paesi? 88 Lezioni di leadership dal progetto GLOBE 89 Lo stile di management varia di paese in paese 90 Come prepararsi per incarichi all’estero 91

Le differenze individuali

6

Valori, atteggiamenti e soddisfazione lavorativa

117

Come conciliare i valori dichiarati con quelli praticati? 117 Valori personali 118 La teoria dei valori di Schwartz 118 Conflitti di valori 120 Conflitto tra lavoro e vita familiare 121 Atteggiamenti 122 La natura degli atteggiamenti 123 Che cosa succede quando gli atteggiamenti collidono con la realtà? La dissonanza cognitiva 124 Quanto sono stabili gli atteggiamenti? 124 Gli atteggiamenti influenzano il comportamento attraverso le intenzioni 125 Atteggiamenti nei confronti del lavoro 126 L’impegno verso l’organizzazione 127 Il coinvolgimento del personale 129

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Sommario

vii

La soddisfazione lavorativa 130 Le cause della soddisfazione lavorativa 130 Implicazioni e conseguenze della soddisfazione lavorativa 131 I comportamenti controproducenti in ambito lavorativo 134 Maltrattamenti 134 Le cause e la prevenzione dei comportamenti controproducenti 135 7

Percezioni e attribuzioni sociali

137

Mostrarsi vulnerabili è un bene o un male? 137 La percezione come modello di elaborazione delle informazioni 139 Una sequenza a quattro fasi e un esempio operativo 139 Fase 1: selezione attiva/comprensione 140 Fase 2: codificazione e semplificazione 141 Fase 3: immagazzinamento e conservazione 143 Fase 4: Recupero e reazione 144 Implicazioni manageriali 144 Stereotipi: percezioni relative a gruppi di persone 146 Formazione e radicamento dello stereotipo 146 Stereotipi legati ai ruoli sessuali 148 Stereotipi legati all’età 149 Stereotipi legati alla razza e all’etnia 150 Stereotipi sulla disabilità 151 Sfide manageriali e consigli utili 151 Profezia che si autoavvera: l’effetto Pigmalione 152 La ricerca e un modello esplicativo 152 Sfruttare al meglio la profezia che si autoavvera 154 Attribuzioni causali 155 Modello dell’attribuzione secondo Kelley 156 Tendenze attributive 157 Applicazioni e implicazioni manageriali 159 8

I fondamenti della motivazione

161

È giusto legare lo stipendio degli insegnanti al rendimento degli studenti? 161 La motivazione attraverso i contenuti del lavoro 163 La teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow 163 La teoria ERC di Alderfer 164

CompOrga.indb vii

La teoria dei bisogni di McClelland 165 La teoria dei fattori duali di Herzberg 166 Le teorie motivazionali incentrate sui processi 168 La teoria motivazionale dell’equità di Adams 168 La relazione di scambio tra individuo e organizzazione 169 Iniquità negativa e positiva 169 Espandere il concetto di equità: la giustizia organizzativa 171 Implicazioni pratiche derivanti dalla teoria dell’equità 172 La teoria dell’aspettativa di Vroom 173 Aspettativa 173 Strumentalità 174 Valenza 174 La teoria dell’aspettativa in azione 175 Ricerca sulla teoria dell’aspettativa e implicazioni a livello manageriale 175 La motivazione attraverso il goal setting 176 Obiettivi: definizione e antecedenti 177 Come funziona il goal setting? 177 Implicazioni pratiche delle ricerche sul goal setting 178 Motivare i collaboratori attraverso la riorganizzazione del lavoro 180 Gli approcci top-down 180 Gli approcci bottom-up 184 Gli accordi personalizzati 185 Applicare le teorie motivazionali nell’ambiente di lavoro 186 9

Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi 187 Quanto è importante conoscere il giudizio sulle proprie prestazioni? 187 Il goal setting 189 Due tipi di obiettivi 190 Il management by objectives 191 Gestire il processo del goal setting 191 Il feedback 194 Due funzioni del feedback 195 I riceventi del feedback sono pronti, disponibili e capaci? 195 Consigli pratici derivanti dalla ricerca sul feedback 197 Feedback a 360 gradi 198

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Sommario

viii Come fornire feedback finalizzato al coaching e all’efficacia organizzativa 199 Sistemi di ricompensa 199 Tipologie di ricompensa 200 Criteri di distribuzione delle ricompense 201 Risultati desiderati dal sistema di ricompense 201 Le basi della motivazione e delle ricompense intrinseche 201 Perché le ricompense estrinseche non riescono a motivare? 203 Retribuzione legata alla performance 204 Trarre il meglio da ricompense estrinseche e retribuzioni basate sulla performance 205 Il rinforzo positivo 206 La legge degli effetti di Thorndike 206 Il modello di Skinner del condizionamento operativo 206 Conseguenze contingenti 207 Programmi di rinforzo 209 Modellare il comportamento 211 Parte III 10

I gruppi e i processi sociali

Dinamiche di gruppo

11

215

Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci 243 Perché un servizio clienti eccellente somiglia a uno sport di squadra? 243 Team di lavoro: tipi, efficacia e difficoltà 244 Una tipologia generale dei team di lavoro 245 Efficacia dei team di lavoro 247 Perché i team di lavoro falliscono? 250 Lavoro di team efficace tramite cooperazione, fiducia e coesione 252 Cooperazione 252 Fiducia 253 Coesione 256 Team virtuali e team auto-gestiti 257 Team virtuali 258 Team auto-gestiti 260 Il team building e la leadership dei team 262 Team building 262 La leadership dei team 264

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Quanto sono utili i gruppi informali? 215 I gruppi nell’epoca dei social media 216 Gruppi formali e informali 217 Funzioni dei gruppi formali 217 L’era dei social media ha sfumato i confini tra formale e informale 218 Il processo di sviluppo dei gruppi 220 Le cinque fasi 220 Sviluppo dei gruppi: studi e indicazioni pratiche 222 Ruoli e norme: basi sociali per il comportamento organizzativo e di gruppo 224 Ruoli 225 Norme 228 Risultati della ricerca e implicazioni per i manager 229 Struttura e composizione del gruppo 230 Ruoli funzionali rivestiti dai membri del gruppo 230 Dimensioni del gruppo 232 Uomini e donne che lavorano insieme in un gruppo 233 Minacce all’efficacia del gruppo 237

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L’effetto Asch 237 Groupthink 239 Inerzia sociale 240

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Processi decisionali individuali e di gruppo 265 Perché i vertici di Google hanno adottato il processo decisionale di gruppo? 265 Modelli decisionali 266 Il modello razionale 266 I modelli decisionali non razionali 268 Integrare il modello razionale e i modelli non razionali 270 I bias decisionali 270 Il processo decisionale basato sull’evidenza 273 Un modello di processo decisionale basato sull’evidenza 273 Sette principi per l’implementazione 275 Perché è difficile adottare il processo decisionale basato sull’evidenza? 276 Dinamiche del processo decisionale 276 Stili decisionali 276 L’intuizione nel processo decisionale 279 Processi decisionali di gruppo 281 Il gruppo nei processi decisionali 282 Vantaggi e svantaggi del processo decisionale di gruppo 283

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Sommario

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Tecniche per il problem-solving di gruppo 285 Creatività 289 Definizione e caratteristiche individuali associate alla creatività 289 Le caratteristiche del contesto associate alla creatività 291 Le fasi del processo creativo 291 13

Gestione del conflitto e negoziazione 293 Quanto conta l’emotività nella gestione dei conflitti? 293 Conflitto: una prospettiva moderna 294 Il linguaggio del conflitto: metafore e significati 295 Il continuum dei conflitti 296 Conflitto funzionale e conflitto patologico 297 Antecedenti del conflitto 298 Soluzioni auspicabili dei conflitti 298 Tipologie di conflitto 299 Conflitto di personalità 299 Conflitto tra gruppi 300 Conflitti interculturali 303 Gestire i conflitti 304 Stimolare i conflitti funzionali 305 Stili alternativi per la gestione del conflitto patologico 307 Intervento da parte di terzi 309 Lezioni pratiche dalla ricerca sui conflitti 311 Negoziazione 312 Due tipi di negoziazione 312 Insidie di carattere etico nella negoziazione 313 Gestione del conflitto e negoziazione: un approccio contingente 313

Parte IV 14

I processi organizzativi

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Influenza, empowerment e manovre politiche 351 Quanto possono divergere i punti di vista? 351 Tattiche di influenza organizzativa 353 Nove tattiche di influenza generiche 353 Tre possibili esiti di un processo di influenza 354 Potere sociale 354 Dimensioni del potere 355 Ricerche sul potere sociale 357 Uso etico e responsabile del potere 358 Empowerment: dalla condivisione alla distribuzione del potere 359 Una questione di sfumature 360 Management partecipativo 361 Delega 361 Manovre politiche e gestione dell’impressione 363 Definizione e dominio delle manovre politiche 364 Tattiche politiche 366 Gestione dell’impressione 368 Gestione delle manovre politiche nelle organizzazioni 370

317

Comunicazione organizzativa nell’era digitale 319 I social network sono una perdita di tempo? 319 Dimensioni di base del processo comunicativo e impatto dei social media 320 Un modello di processo percettivo della comunicazione 321 Barriere a una comunicazione efficace 323 L’impatto dei social media sulla comunicazione 326

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Comunicazione interpersonale 326 Assertività, aggressività e non assertività 327 La comunicazione non verbale 328 Ascolto attivo 330 Stili linguistici e genere 332 Comunicazione organizzativa 334 I canali formali per la comunicazione verso l’alto, verso il basso, orizzontale ed esterna 335 I canali di comunicazione informali 336 La scelta del mezzo di comunicazione: una prospettiva contingente 338 L’impatto della comunicazione digitale sul comportamento organizzativo 341 Problemi strategici: la sicurezza e la privacy 342 La dirompente Net Generation 343 Telependolarismo e telelavoro: vantaggi e problemi 344 Gestire le conseguenze indesiderate dell’era digitale 346

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Leadership

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Quanto la realtà e l’apparenza coincidono nella leadership? 373

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Sommario

x I temi della leadership 374 Che cos’è la leadership? 374 Approcci alla leadership 375 Leadership vs management 376 Teoria dei tratti e teoria comportamentale della leadership 376 Teoria dei tratti 377 Teoria degli stili comportamentali 380 Teorie contingenti 382 Il modello contingente di Fiedler 383 La teoria del percorso-obiettivo 385 L’applicazione pratica delle teorie contingenti 388 Cautela nell’applicazione delle teorie contingenti 388 Il modello full range della leadership: dallo stile laissez-faire allo stile trasformazionale 389 Come fa la leadership trasformazionale a influire sui follower? 390 Ricerche e implicazioni manageriali 391 Altre prospettive sulla leadership 393 Il modello dello scambio tra leader e collaboratore 393 La leadership condivisa 394 La leadership di servizio 395 Il ruolo dei follower nel processo di leadership 397

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Gestione del cambiamento e dello stress 399 Il cambiamento organizzativo è un processo facile? 399 Le forze del cambiamento 400 Forze esterne 401 Forze interne 403 Modelli e dinamiche del cambiamento pianificato 404 Tipologie di cambiamento 404 Il modello del cambiamento di Lewin 405 Un modello sistemico del cambiamento 407 Le otto fasi di Kotter della gestione del cambiamento organizzativo 409 Determinare il cambiamento attraverso lo sviluppo organizzativo 410 Capire e gestire la resistenza al cambiamento 413 Le cause della resistenza al cambiamento 414 Strategie alternative per vincere la resistenza al cambiamento 417 Dinamiche dello stress 417 Definizione di stress 419 Un modello di stress lavorativo 419 Moderatori dello stress occupazionale 423 Tecniche per ridurre lo stress 426

Note al volume

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Presentazione dell’edizione italiana

Questa nuova edizione italiana del manuale Comportamento organizzativo di Kreitner e Kinicki nasce dall’esigenza di rendere sempre più aggiornata la trattazione di una materia che evolve di continuo, congiuntamente a eventi di contesto e aziendali che modificano sostanzialmente i modi di pensare e di lavorare degli individui. I cambiamenti di cui il testo dà conto sono soprattutto legati alla presenza sempre più pervasiva di Internet nelle diverse funzioni aziendali, presenza che comporta una evoluzione delle conoscenze, ma anche e soprattutto delle modalità di comunicazione e di interazione tra gli individui. A questo si affianca la novità costituita dai social network, sia nei processi di coesione organizzativa che di trasferimento immediato delle informazioni. Mutamenti di cui è necessario tenere conto articolando in modo gestionale le opportunità, ma anche i rischi che essi rappresentano. La necessità di aggiornare lo studio del comportamento organizzativo alla luce degli effetti, spesso dirompenti, della tecnologia sui comportamenti quotidiani e sulla vita delle organizzazioni non esime comunque dal conoscere e approfondire le basi, anche storiche, su cui si fonda questa disciplina. Nella realtà della formazione spesso si diffondono modelli poco fondati dal punto di vista della ricerca, che affascinano e seducono, ma non forniscono risposte di apprendimento adeguate. In questo contesto, l’obiettivo del manuale che presentiamo rimane essenzialmente quello di fornire della basi teoriche a temi che possono essere soggetti a mode e a influenzamenti di varia natura. Per questo riteniamo molto importante che il comportamento organizzativo si affermi a tutti gli effetti come disciplina universitaria, affiancando discipline più consolidate nella realtà italiana come Organizzazione Aziendale e Gestione delle Risorse Umane, ma anche trovando spazio nel più vasto ambito delle scienze umane, per completare la gamma essenziale degli strumenti a disposizione sia degli studiosi, che possono sostenere in modo attivo l’evoluzione della materia, sia di tutti coloro che gestiscono persone in ambiti profit e no-profit, che necessitano di mezzi concreti per intervenire sulle reali situazioni lavorative. Rispetto alla prima edizione italiana di questo libro (2004) molta acqua è passata sotto i ponti e il comportamento organizzativo si è legittimato in entrambi le sedi, quella accademica e quella formativa, costituendo un corpus ormai imprescindibile di riferimento.

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Presentazione dell’edizione italiana

Permangono, come abbiamo già sottolineato presentando le edizioni precedenti, dei pericoli che è sempre necessario tenere presenti, sia nell’approfondimento che nella gestione operativa. Il primo pericolo, cui già abbiamo accennato, riguarda la divulgazione estrema e la banalizzazione di contenuti dovute a una domanda ampia e molto spesso indifferenziata, che non è in grado di discernere tra la moda affascinante e la seria professionalità. In realtà, in questi anni, i referenti all’interno delle organizzazioni si sono fatti più competenti e abili nel riuscire a distinguere i contenuti e gli obiettivi adeguatamente sostenuti dalla teoria da quelli confezionati solo per attrarre. Ovviamente sul fronte dell’offerta si assiste a una amplissima gamma di possibilità, con proposte che spesso sono esclusivamente di fascinazione, con poca o nessuna attenzione sia al contesto organizzativo che all’apprendimento delle persone. Un secondo e ben più grave pericolo riguarda il sottile confine che divide gli interventi sul comportamento organizzativo dalla strumentazione psicologica tradizionale. Alcuni programmi proposti dalle aziende ai loro collaboratori sono costruiti con setting analoghi a quelli terapeutici. Quando questo avviene dovrebbero sorgere diverse domande. La principale di natura etica: può l’azienda legittimamente costringere le persone che offrono il loro lavoro a percorsi che possono mettere in discussione profondamente la loro identità? Non è intrinseco a un setting terapeutico la necessità della volontà del soggetto nella costruzione di un contratto psicologico adeguato? Questo problema si è fatto ancora più pressante ora, con l’affermarsi del coaching e in generale dei contesti formativi one-to-one. Come si può arguire, il panorama degli studi e degli interventi sul comportamento organizzativo necessita di alcuni chiarimenti, che possono rivelarsi estremamente utili nella costruzione di un sistema di conoscenze diffuso e articolato, che possa diventare un patrimonio sul quale sviluppare ricerche serie radicate nella realtà italiana, decisamente trascurata fino a ora. Il terzo pericolo riguarda la sottovalutazione degli elementi culturali nella proposta di modelli di lettura dei comportamenti. Si tratta di una contraddizione interessante, dato che le culture sono esattamente uno degli ambiti di studio del comportamento organizzativo. Quello che si intende sottolineare, e che sta emergendo in numerosi studi, è la collocazione culturale di alcuni modelli spesso identificati come universali. Il predominio di modelli interpretativi nati prevalentemente nelle business school americane, che può essere provato con solo un’occhiata alla bibliografia, non tiene conto delle concrete realtà locali, di universi linguistici differenti, come di contesti valoriali e di approcci al lavoro diversi. Per questo è molto importante che si sviluppi una ricerca capace di cogliere in profondità i cambiamenti del mondo del lavoro, ma anche le peculiarità locali e le relative differenze. Un compito che pochi, in Italia, si sono assunti, e che dovrebbe diventare fondamento di una ricerca diffusa, pur all’interno dei limitati mezzi delle università del nostro Paese, per far germogliare uno spirito critico e una diffusa capacità di innovazione. M. Cristina Bombelli Barbara Quacquarelli

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Prefazione

Indipendentemente dalle dimensioni, dal settore di attività e dalle tecnologie utilizzate, le persone sono il denominatore comune nel rispondere alle sfide dell’ambiente competitivo globale di oggi. Il successo o il fallimento dipendono dalla capacità di attrarre, trattenere e motivare individui dotati delle abilità necessarie. Il fattore umano è tutto. Acquisire una migliore conoscenza del comportamento sul lavoro significa guadagnare un significativo vantaggio competitivo. L’obiettivo di questo libro è aiutare i manager attuali e futuri a comprendere meglio le persone in un ambiente di lavoro, e a gestirle meglio. Sebbene la decima edizione americana del libro, come le precedenti, si rivolga in primo luogo a studenti universitari di discipline aziendali, il testo ha dimostrato di essere assai flessibile: è stato usato con successo in programmi MBA e corsi di formazione manageriale in diversi paesi. Il testo è il risultato dei nostri complessivi 65 e più anni di insegnamento e ricerca negli Stati Uniti, in Europa e nell’area del Pacifico. I feedback offerti da studenti, docenti e manager ci hanno aiutato a rifinirlo e migliorarlo nel tempo. Anche questa edizione è stata arricchita con nuovi temi, nuovi risultati di ricerca e nuove tecniche di management. Il libro, nelle sue successive edizioni, è stato guidato dal cliente (poiché abbiamo tenuto conto delle indicazioni dei nostri lettori), realizzato attraverso un lavoro in team tra autori ed editore, e ha comportato un miglioramento continuo. Questo approccio ci ha aiutati a raggiungere una serie di difficili compromessi: tra teoria e pratica manageriale, tra contenuti concettuali ed esempi attuali, tra rigore e leggibilità. La lettura di un libro di testo che, come in questo caso, aspira a dare una visione complessiva di una disciplina è un’esperienza sicuramente impegnativa; ci auguriamo che possa anche essere interessante, e a momenti persino piacevole.

Ringraziamenti Questo libro è frutto del lavoro di molte persone. I nostri colleghi alla Arizona State University ci hanno aiutato fin dall’inizio. Negli anni i nostri studenti alla ASU, all’American Graduate School of International Management (Thunderbird) e all’Università di

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Prefazione

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Tirana (Albania) sono stati “clienti” entusiasti e sinceri; siamo loro grati per i feedback forniti, dei quali abbiamo cercato di tenere conto. Un sincero apprezzamento per la realizzazione degli ausili didattici va a Mindy West della Arizona State University, a Brad Cox di Midland Tech e a Floyd Ormsbee della Clarkson University; un grazie a Terri Lawson per la gestione di diritti e autorizzazioni. I lettori delle precedenti nove edizioni hanno contribuito al nostro obiettivo di kaizen (miglioramento continuo). A questa edizione hanno fornito i loro commenti: Grace Auyang, Ph.D. University of Cincinnati

Ellen J. Mullen, Ph.D. Iowa State University

M. Suzanne Clinton University of Central Oklahoma

Jeff Peterson Woodbury School of Business, Utah Valley University

Elizabeth Cooper University of Rhode Island Tim DeGroot Midwestern State University Kathy Edwards University of Texas at Austin Leslie Elrod University of Cincinnati RWC Sean D. Jasso, Ph.D. University of California, Riverside Dr. Christopher McChesney, Ph.D. Indian River State College

Mary Pisnar Baldwin-Wallace College Consuelo M. Ramirez, Ph.D. University of Texas at San Antonio Donald R Schreiber Baylor University Jerry Stevens Texas Tech University Jerald T Storey Western Governors University Ethan P. Waples University of Central Oklahoma

Uno speciale ringraziamento va al nostro “branco” alla Irwin/McGraw-Hill: i nostri editor, Mike Ablassmeir e Kelly Pekelder; il marketing manager, Anke Weekes; il team di progetto e produzione, Matt Diamond, Dana Pauley, Michael McCormick e Jeremy Cheshareck. Infine vogliamo ringraziare le nostre mogli, Margaret e Joyce, per essere state “prime clienti” severe e attente del nostro lavoro. Bob Kreitner Angelo Kinicki

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Il mondo del comportamento organizzativo

Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4

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I

Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico La gestione delle diversità: liberare il potenziale di ogni persona Cultura organizzativa, socializzazione e mentoring Comportamento organizzativo nel mondo: il management interculturale

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Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico

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Perché Zappos.com è così brava a battere la concorrenza? Probabilmente sono in pochi ad aver sentito nominare Tony Hsieh (si pronuncia Shay), amministratore delegato di Zappos.com, ma i numerosissimi clienti fedeli e soddisfatti del sito di vendita online di calzature e altri articoli non possono che avere voglia di congratularsi con lui. Inizialmente come investitore/consulente, poi in veste di amministratore delegato, Hsieh ha traghettato Zappos dai difficili esordi come start-up digitale alla fusione con Amazon nel 2009 per 1,2 miliardi di dollari. Lungo la rotta, ha aiutato Zappos a sviluppare una bizzarra cultura aziendale basata sull’affiatamento tra i dipendenti e l’ossessione per l’eccellenza del servizio ai clienti sette giorni su sette e ventiquattro ore su ventiquattro. “Il Servizio Clienti non è solo un ufficio!”, proclama il sito web dell’azienda. Quando è stata annunciata la fusione con Amazon, Hsieh ha promesso a tutti i dipendenti un lettore di e-book Kindle e un bonus legato alla permanenza in azienda pari al 40% dello stipendio annuo. Aspetto ancora più importante, si è impegnato a mantenere la tanto amata cultura aziendale. Il seguente estratto dal libro di Hsieh Delivering Happiness: A Path to Profits, Passion, and Purpose illustra attraverso quale percorso Zappos.com è arrivata a mettere in primo piano le persone (clienti e dipendenti). Ho inviato diverse email a tutta l’azienda, ricevendo in risposta numerosi suggerimenti e feedback sui valori fondamentali considerati più importanti dal personale. La lentezza del processo mi ha sorpreso, ma non era nostra intenzione essere precipitosi perché, quali che

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risultassero i valori più importanti, volevamo poterli sposare con convinzione […] Abbiamo ottenuto un elenco finale di 10 valori (partendo da 37) che continuiamo a seguire ancora oggi: 1. Offrire un servizio DA URLO dall’inizio alla fine 2. Sposare il cambiamento ed esserne gli artefici 3. Creare un’atmosfera divertente e un po’ bizzarra 4. Essere avventurosi, creativi e di larghe vedute 5. Cercare la crescita e l’apprendimento 6. Instaurare rapporti aperti e onesti attraverso la comunicazione 7. Costruire uno spirito familiare e di squadra positivo 8. Fare di più con meno 9. Essere entusiasti e determinati 10. Essere umili Essere umili è forse il valore che incide maggiormente sulla nostra politica di assunzione: durante i colloqui incontriamo tanti candidati intelligenti, dotati di talento e grande esperienza, e notiamo in loro il potenziale per fare la differenza in termini di fatturato e profitti. Molti, però, sono profondamente individualisti e preferiamo non assumerli. La filosofia di Zappos è che siamo disposti a fare sacrifici nel breve periodo (anche in termini di minore fatturato) se riteniamo di poter cogliere benefici maggiori nel lungo periodo. Proteggere la cultura aziendale e rispettare i valori fondamenti è un beneficio nel lungo periodo.1

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Parte I

Il mondo del comportamento organizzativo

Tony Hsieh non si limita a spendere belle parole su quanto siano importanti i suoi collaboratori: ripone fiducia in loro, li ascolta e li responsabilizza. Non sorprende che nel 2011 Zappos.com abbia conquistato il sesto posto nella classifica della rivista Fortune delle migliori imprese in cui lavorare in America.2 Hsieh ha creato quella che Jeffrey Pfeffer della Stanford University definisce un’organizzazione “orientata alle persone”. Dai risultati delle ricerche condotte su aziende sia negli Stati Uniti sia in Germania emerge chiaramente una forte connessione fra l’adozione delle seguenti sette pratiche incentrate sulle persone, profitti molto più alti e un turnover dei dipendenti significativamente più basso: 1. Sicurezza dell’impiego (per eliminare la paura di licenziamenti in seguito a crisi aziendali). 2. Assunzioni selettive (che enfatizzano un buon adattamento con la cultura aziendale). 3. Potere alle persone (attraverso la decentralizzazione e i team autogestiti). 4. Retribuzioni elevate ma contingenti alle prestazioni. 5. Molta formazione. 6. Riduzione delle differenze di status (per costruire la sensazione del “noi”). 7. Costruzione della fiducia (attraverso la condivisione di informazioni critiche).3 È rilevante sottolineare che questi fattori costituiscono un pacchetto integrato, nel senso che necessitano di essere applicati in modo coordinato e sistematico e non in modo frammentato. Solo il 12% delle organizzazioni, secondo Pfeffer, hanno un approccio sistematico e la perseveranza per essere qualificate come vere organizzazioni centrate sulle persone, conseguendo per questo un vantaggio competitivo.4 A nostro parere, un 88% di organizzazioni non sufficientemente orientate alle persone rappresenta un tragico spreco di potenziale umano ed economico. Di recente Pfeffer ha espresso il suo appello per un maggiore orientamento alle persone con il termine sostenibilità, legato al cosiddetto green management: “Come ci si preoccupa di tutelare le risorse naturali, ci si dovrebbe preoccupare della tutela delle risorse umane.”5 Le implicazioni etiche dell’orientamento alle persone sono molto profonde, soprattutto durante le fasi recessive, che possono causare milioni di licenziamenti. Nelle organizzazioni orientate alle persone, il licenziamento è l’ultima alternativa possibile, non una reazione automatica alla difficile congiuntura economica. L’esperienza e i risultati di svariate ricerche dicono che i licenziamenti si ripercuotono negativamente su tutti, anche sui “sopravvissuti” che conservano il posto di lavoro. Un recente studio condotto su 318 imprese ha riportato la seguente conclusione: “Tre quarti dei 4.172 dipendenti che hanno mantenuto il posto di lavoro affermano che la propria produttività è calata dopo i licenziamenti.”6 Se in alcuni casi i licenziamenti sono purtroppo inevitabili, le organizzazioni orientate alle persone possono differirli quanto più a lungo possibile applicando strategie come la riduzione generalizzata degli stipendi e/o la riduzione degli orari di lavoro e l’aspettativa volontaria non retribuita. Quale che sia il nostro ruolo nella società (datore di lavoro/imprenditore, dipendente, manager, azionista, studente, insegnante, elettore, eletto, attivista in ambito sociale/ politico), è necessario che accettiamo la sfida di creare e salvaguardare organizzazioni che pongono al centro le persone. La missione di questo libro è incrementare il numero

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Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico

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di organizzazioni orientate alle persone e gestite in modo etico in tutto il mondo al fine di migliorare la qualità della vita di tutti.7 Lo scopo del primo capitolo è di definire il campo di studi del comportamento organizzativo, esaminarne la rilevanza attuale e analizzarne il profilo storico, manageriale ed etico. Viene infine presentata la struttura del libro.

Benvenuti nel mondo del comportamento organizzativo

Organizzazione: sistema di attività consapevolmente coordinate di due o più persone

Il comportamento organizzativo studia come le persone agiscono e reagiscono all’interno di organizzazioni di ogni tipo. Durante tutta la vita, nelle nostre attività quotidiane, entriamo continuamente in contatto con organizzazioni che offrono lavoro, istruzione, informazioni, cibo, cure sanitarie, protezione e attività di svago. Secondo la definizione classica di Chester Barnard, un’organizzazione è “un sistema di attività o di forze consapevolmente coordinate di due o più persone”.8 Le organizzazioni sono un’invenzione sociale che ci aiuta a ottenere collettivamente risultati che i singoli non potrebbero mai raggiungere e, nel bene o nel male, amplificano le nostre potenzialità. Consideriamo un interessante esempio riguardante l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Nel 1967 ogni anno il vaiolo colpiva dai 10 ai 15 milioni di persone in tutto il mondo. L’OMS decise di istituire un’unità per l’eradicazione del vaiolo, che riuscì a portare a termine la sua missione dopo 13 anni. Nel 1988 si registravano 350.000 casi di poliomielite e l’OMS istituì un’unità di eradicazione della malattia. Da quel momento, sono stati investiti nel progetto 3 miliardi di dollari e 20 milioni di volontari in tutto il mondo hanno offerto il proprio aiuto. Il risultato? Nel 2003, i casi di poliomielite sono stati solo 784.9 Al contrario, organizzazioni come al-Qaeda seminano terrore e morte, mentre altre come istituti bancari e aziende in bancarotta dilapidano le nostre risorse. Le organizzazioni sono la scacchiera su cui si svolge il gioco della vita: approfondire le conoscenze sul comportamento organizzativo – la vita all’interno delle organizzazioni – significa acquisire una maggiore consapevolezza sulla natura, le possibilità e le regole del gioco.

Il comportamento organizzativo: un campo interdisciplinare Comportamento organizzativo: campo di studi interdisciplinare che mira a una migliore comprensione e gestione delle persone nel contesto lavorativo

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Il comportamento organizzativo, a cui comunemente in inglese ci si riferisce con l’abbreviazione OB (Organizational Behavior), è un campo di studi interdisciplinare il cui fine è una migliore comprensione e gestione delle persone nel contesto lavorativo. Per definizione, il comportamento organizzativo è orientato sia alla ricerca teorica sia all’applicazione pratica. I tre livelli di base dell’analisi sono l’individuo, il gruppo e l’organizzazione. Il comportamento organizzativo attinge da un’ampia gamma di discipline, incluse la psicologia, l’economia aziendale, la sociologia, la teoria organizzativa, la psicologia sociale, la statistica, l’antropologia, la teoria dei sistemi, l’economia, i sistemi informativi, le scienze politiche, il counseling, la gestione dello stress, la psicometria, l’ergonomia, la teoria delle decisioni e l’etica.10 Da questa ricca eredità sono state generate molte prospettive e teorie in competizione fra loro riguardanti il

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Parte I

Il mondo del comportamento organizzativo

comportamento umano sul lavoro. Nel 2003 un ricercatore ha identificato 73 teorie distinte in quest’area.11

Domande frequenti sullo studio del comportamento organizzativo Nel corso degli anni, assieme ai colleghi abbiamo risposto a una serie di domande relative a questa disciplina rivolteci dai nostri studenti. Seguono le più comuni, con le relative risposte. Perché studiare il comportamento organizzativo? Studiando attentamente questo libro, scoprirete di più su voi stessi, su come interagire efficacemente con gli altri e su come crescere (non limitandosi a sopravvivere) all’interno delle organizzazioni. La seconda parte vi offre una molteplicità di spunti di riflessione sulla personalità, le emozioni, i valori, le gratificazioni lavorative, le percezioni, i bisogni e gli obiettivi. Per quanto concerne l’efficacia interpersonale, imparerete come fare gioco di squadra, costruire la fiducia, gestire i conflitti, negoziare, comunicare, influenzare e guidare gli altri. La trattazione di quasi tutti i principali argomenti si conclude con una serie di consigli pratici. L’idea è quella di aiutarvi ad acquisire competenze relative alla gestione di sé, al processo decisionale etico, al pensiero indipendente, all’ascolto, alla gestione delle politiche organizzative, del cambiamento e dello stress. Il noto studioso di comportamento organizzativo Edward Lawler III ha realizzato la “spirale di carriera virtuosa”, riportata in figura 1-1, per illustrare come le capacità legate al comportamento organizzativo possono indirizzare verso il successo professionale. “È la dimostrazione che capacità e prestazioni di maggiore qualità possono tradursi in posti di lavoro migliori e riconoscimenti più importanti.”12 Se i miei studi vertono su discipline tecniche, perché dovrei dedicarmi a studiare il comportamento organizzativo? Molti studenti di contabilità, finanza, informatica o ingegneria considerano il comportamento organizzativo una scienza “soft” di scarsa importanza. È probabile che la loro carriera lavorativa inizi in un ambito molto specifico, per poi evolversi in un ruolo di guida e controllo o in una posizione di leadership. A questo punto, le capacità di relazione “soft” rappresenteranno un fattore decisivo per il successo. Inoltre, nelle organizzazioni di oggi, orientate al lavoro di squadra e globalizzate, le capacità di lavorare in gruppo, relazionarsi con culture diverse, comunicare, gestire i conflitti, negoziare e persuadere i colleghi spesso si rendono necessarie molto presto. Jack Welch, il leggendario amministratore delegato di General Electric, e Suzy Welch, già direttrice della rivista Harvard Business Review, hanno risposto come segue alla domanda di un docente di una business school su come preparare al meglio gli studenti per il contesto aziendale globalizzato: A nostro avviso, i fondamenti della gestione delle persone dovrebbero assumere maggiore importanza nella formazione. Negli ultimi due anni abbiamo visitato 35 business school in tutto il mondo e in molti casi siamo rimasti sorpresi dalla poca attenzione dedicata ad aspetti quali i modi di assumere, motivare, costruire un team e licenziare. Si privilegiano concetti cervellotici, come tecnologie d’avanguardia, modelli di complessità e argomenti

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Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico

Figura 1-1 Le capacità legate al comportamento organizzativo sono il lasciapassare per una spirale lavorativa virtuosa

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Fonte: Edward E. Lawler, Treat People Right! How Organizations and Individual Can Propel Each Other into a Virtuous Spiral of Success, Jossey-Bass, 2003, p. 21. Riprodotto su autorizzazione di John Wiley & Sons, Inc.

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del genere, che sono utili soprattutto nel contesto delle società di consulenza. I manager però devono anzitutto sapere come tirare fuori il massimo dalle persone. Ci auguriamo che lei abbia un’influenza tale all’interno della sua università da porre al centro degli studi la gestione delle persone perché, se lo farà, i suoi studenti avranno una marcia in più quando entreranno nel mondo del lavoro.13

Troverò un lavoro nel campo del comportamento organizzativo? Comportamento organizzativo è una definizione accademica e, fatta eccezione per le posizioni di insegnamento e ricerca, non corrisponde a una categoria di attività aziendali come la contabilità, il marketing o la finanza. Ai collaboratori tipicamente non vengono assegnati compiti riguardanti il comportamento organizzativo come area a sé stante. Ciò non svilisce in nessun modo il comportamento organizzativo e non ne diminuisce l’importanza nell’efficace gestione di un’organizzazione. Il comportamento organizzativo è una disciplina trasversale che idealmente interseca ogni categoria delle attività quotidiane, ogni funzione aziendale e ogni specializzazione professionale. Chiunque progetti di guadagnarsi da vivere in un’organizzazione, grande o piccola, pubblico o privata, ha necessità di studiare il comportamento organizzativo.

Il comportamento organizzativo: una prospettiva storica Affrontando questo tema è utile adottare una prospettiva storica. Secondo un esperto di storia del management, questo è importante perché:

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Parte I

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Il mondo del comportamento organizzativo

La prospettiva storica è lo studio di una materia alla luce delle sue prime fasi e della sua successiva evoluzione. La prospettiva storica differisce dalla storia in quanto il suo scopo è raffinare una visione del presente, non del passato.14

In altre parole, è possibile comprendere meglio dov’e oggi il campo del comportamento organizzativo e dove sembra dirigersi ricostruendo cosa è stato sino a oggi e lungo quali direttrici si sta evolvendo.15 Si esaminano di seguito quattro punti di riferimento significativi nell’evoluzione della riflessione e della pratica di gestione: 1. 2. 3. 4.

la corrente delle relazioni umane; la corrente della qualità totale; la rivoluzione di Internet e dei social media; la costruzione del capitale umano e sociale.

La corrente delle relazioni umane Una combinazione di fattori unica durante gli anni ’30 promosse la corrente delle relazioni umane. Prima di tutto, a seguito della legalizzazione delle contrattazioni collettive tra sindacati e datori di lavoro negli Stati Uniti nel 1935, il management iniziò a cercare nuovi modi di gestire i dipendenti. In secondo luogo, gli scienziati del comportamento che conducevano ricerche sul campo iniziarono a richiamare l’attenzione sul “fattore umano”. I manager che avevano perso la battaglia per chiudere le porte delle fabbriche ai sindacati considerarono con più attenzione il miglioramento delle relazioni umane e delle condizioni lavorative. Uno studio condotto alla Western Electric di Chicago, nell’area dell’impianto di Hawthorne, fu il primo stimolo al movimento delle relazioni umane, anche se, ironia della sorte, i risultati di tale studio si sono rivelati in buona parte un mito. L’eredità di Hawthorne Le interviste condotte decenni dopo con tre soggetti coinvolti negli studi di Hawthorne e una seconda analisi dei dati originali attraverso moderne tecniche statistiche non hanno supportato le conclusioni allora raggiunte. In particolare, le cause che fecero registrare un aumento dell’output negli esperimenti condotti su un campione di operai furono il denaro, la paura della disoccupazione durante la Grande Depressione, la disciplina e materie prime di alta qualità; non fu dunque merito, come allora si credette, di un atteggiamento incoraggiante da parte dei superiori.16 Ciò nonostante, la corrente delle relazioni umane acquistò vigore durante gli anni ’50, quando accademici e manager sottolinearono il potente effetto che i bisogni individuali, il controllo motivante e le dinamiche di gruppo esercitavano sulla performance dei dipendenti. Gli scritti di Mayo e Follett Essenziali per lo sviluppo della corrente delle relazioni umane furono gli scritti di Elton Mayo e Mary Parker Follett. L’australiano Mayo, il quale aveva guidato i ricercatori di Harvard a Hawthorne, consigliò ai manager, con il suo classico scritto del 1933 “The Human Problems of an Industrial Civilization”, di rispondere ai bisogni emotivi dei propri dipendenti. La Follett fu una vera innovatrice, non solo come donna consulente di management nel mondo industriale maschilista

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Tabella 1-1 Le teorie X e Y di McGregor Ipotesi superate (teoria X)

Ipotesi moderne (teoria Y)

1. 2.

1.

3.

Le persone in genere non amano lavorare e lo evitano. Le persone devono essere costrette e spaventate con la minaccia di punizioni affinché lavorino e richiedono una stretta direzione. Le persone preferiscono essere guidate. Tendono a evitare la responsabilità e mostrano poca ambizione.

2. 3. 4. 5.

Il lavoro è un’attività naturale, al pari del gioco o del riposo. Le persone sono capaci di auto-dirigersi e di autocontrollarsi se sono coinvolte negli obiettivi. Le persone generalmente si impegnano negli obiettivi organizzativi se sono ricompensate per farlo. Il dipendente tipico può imparare ad accettare e a cercare la responsabilità. La persona media possiede immaginazione, ingegnosità e creatività.

Fonte: adattato da D. McGregor, The Human Side of Enterprise (New York: McGraw-Hill, 1960), cap. 4.

degli anni ’20, ma anche come studiosa che considerava gli individui una combinazione complessa di attitudini, credenze e bisogni. Mary Parker Follett precorreva i suoi tempi nel raccomandare ai manager di motivare la performance lavorativa al posto di richiederla semplicemente, seguendo una strategia “pull” piuttosto che “push”. Costruì inoltre una connessione logica fra la democrazia politica e lo spirito cooperativo sul posto di lavoro.17

Teoria Y: insieme di ipotesi formulate da McGregor secondo cui gli individui sono in genere responsabili e creativi

La teoria Y di McGregor Nel 1960, Douglas McGregor scrisse un libro intitolato The Human Side of Enterprise, che è diventato un’importante base filosofica per la moderna visione del comportamento sul lavoro.18 Prendendo spunto dalla sua esperienza come consulente manageriale, McGregor formulò due serie di ipotesi sulla natura umana nettamente in contrasto fra loro (tabella 1-1). Le ipotesi di quella che chiamò “teoria X” erano pessimistiche, negative e, secondo l’interpretazione di McGregor, tipiche di come i manager tradizionalmente percepiscono i loro dipendenti. Per aiutare i manager ad abbandonare questa visione negativa, McGregor formulò la teoria Y, un insieme di ipotesi più positive e moderne. Egli credeva che i manager potessero ottenere migliori risultati attraverso gli altri percependoli come persone dotate di energia propria, impegnate, responsabili e creative. Purtroppo, secondo quanto emerso da una ricerca tuttora in corso sul coinvolgimento dei dipendenti, la realtà dell’ambiente di lavoro è ancora molto lontana dalla teoria Y di McGregor. Nell’agosto 2009, l’indice del coinvolgimento dei dipendenti (Employee Engagement Index) elaborato dalla società di ricerca Gallup riportava che solo il 33% dei lavoratori era coinvolto nella propria attività professionale, il 49% non era coinvolto e il 18% era attivamente non coinvolto. La Gallup definisce le tre categorie come segue: i dipendenti coinvolti sono coloro che lavorano con passione, sentono un profondo legame con la loro azienda e stimolano l’innovazione, favorendo il progresso dell’organizzazione; i dipendenti non coinvolti sono praticamente “assenti”, dedicano tempo al lavoro, ma non energia e passione; infine, i dipendenti attivamente non coinvolti non solo sono infelici, ma esternano in tutti i modi la frustrazione minando ogni giorno i risultati

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raggiunti dai colleghi coinvolti. Secondo le stime dei ricercatori di Gallup, che elaborano l’indice conducendo un’indagine su un campione casuale di circa 42.000 adulti, negli Stati Uniti i lavoratori non coinvolti costano alle aziende circa 350 miliardi di dollari all’anno.19

Il coinvolgimento dei collaboratori e i tanti modi per accrescerlo saranno esaminati nei capitoli successivi. Nuove ipotesi sulla natura umana Sfortunatamente, metodi di ricerca sul comportamento poco sofisticati hanno portato gli studiosi appartenenti alla corrente delle relazioni umane a sostenere alcune conclusioni ingenue e fuorvianti.20 Per esempio, questi studiosi hanno creduto nell’assioma “un dipendente soddisfatto è un dipendente che lavora sodo”. Ricerche successive, come vedremo più avanti in questo libro, hanno dimostrato che il legame tra soddisfazione e performance è più complesso di quello che si era pensato originariamente. Nonostante i limiti, la corrente delle relazioni umane ha aperto le porte a un pensiero più moderno sulla natura umana. Piuttosto che continuare a considerare i collaboratori come oggetti economici passivi, i manager hanno iniziato a concepirli come soggetti sociali attivi, e questo ha portato a compiere passi importanti verso la creazione di ambienti di lavoro più umani.

La corrente della qualità totale Nel 1980 la NBC trasmise un documentario televisivo intitolato “Se il Giappone può… perché noi non possiamo?”. Era una sveglia per le aziende americane affinché migliorassero sostanzialmente la qualità dei loro prodotti come risposta alla continua perdita di quote di mercato a favore dei produttori di elettronica e delle case automobilistiche giapponesi. Durante gli anni ’80 e ’90 si sviluppò un’altra corrente di pensiero manageriale. Molto fu scritto, detto e fatto per migliorare la qualità sia dei prodotti che dei servizi.21 Grazie al concetto di management della qualità totale (TQM, Total Quality Management) e agli standard Six Sigma, la qualità della maggior parte dei beni che oggi compriamo è significativamente migliore rispetto al passato. Il Six Sigma fu sviluppato nel 1986 alla Motorola dall’ingegnere Bill Smith per conseguire uno straordinario obiettivo di qualità del 99,997% eliminando i difetti e riducendo gli sprechi. È stato concesso in licenza ad aziende come General Electric, che ne hanno fatto largo uso, e si stima che sia stato adottato dal 35% delle aziende americane. In termini generali, il Six Sigma rappresenta una prospettiva sui problemi aziendali che stimola la precisione e la prevedibilità. Il mantra delle “cinture nere” del Six Sigma è DMAIC, che sta per “Define, Measure, Analyze, Improve, and Control” ossia “definire, misurare, analizzare, migliorare e controllare”. “Sigma” è la lettera dell’alfabeto greco utilizzata in statistica per indicare la deviazione standard, mentre “Six” è legato all’obiettivo di non più di sei deviazioni standard dalla misura perfetta.22

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I principi sottostanti al management della qualità totale e al Six Sigma sono oggi più importanti che mai, date le aspettative sempre crescenti della clientela. La corrente della qualità totale ha profonde implicazioni pratiche per la gestione delle persone.

Management della qualità totale: una cultura organizzativa orientata alla formazione, al miglioramento continuo e alla soddisfazione del cliente

Che cos’è il management della qualità totale? Due studiosi dell’argomento hanno offerto la seguente definizione di management della qualità totale (indicato spesso con l’acronimo TQM: Total Quality Management): TQM significa che la cultura dell’organizzazione supporta ed è definita dal costante conseguimento della soddisfazione del cliente attraverso un sistema integrato di strumenti, tecniche e formazione. Questo implica il continuo miglioramento dei processi organizzativi, il cui risultato è un’alta qualità dei prodotti e dei servizi.23

Richard J. Schonberger, consulente specializzato sui temi della qualità, riassume il management della qualità totale come “un miglioramento continuo, centrato sul cliente e guidato dai collaboratori.”24 Il management della qualità totale è necessariamente guidato da questi ultimi perché la qualità del prodotto e del servizio non può essere continuamente migliorata senza l’apprendimento attivo e la partecipazione di ogni singola persona. Per tale motivo, nei programmi di miglioramento della qualità che hanno successo, i principi del management della qualità totale sono radicati nella cultura organizzativa. Secondo i risultati di una recente ricerca, i clienti che hanno interagito con impiegati di banca formati a fornire un servizio eccellente hanno riportato una maggiore soddisfazione.25 L’eredità di Deming Il management della qualità totale è oggi saldamente affermato in larga parte grazie al lavoro pionieristico di W. Edwards Deming.26 Strano a dirsi, il matematico cui è stata attribuita la rivoluzione della qualità nel Giappone del dopoguerra raramente ha parlato in termini di qualità; durante i seminari che ha tenuto fino alla morte, all’età di 93 anni, nel 1993, preferiva usare il termine “buon management”.27 Anche se la passione di Deming erano le misurazioni statistiche e la riduzione della variabilità nei processi industriali, egli ebbe molto da dire su come i collaboratori dovrebbero essere trattati. Riguardo alla componente umana del miglioramento della qualità, Deming richiese le seguenti condizioni: • una preparazione formale nelle tecniche statistiche di controllo dei processi e nel lavoro di squadra; • una leadership incentrata sul supporto piuttosto che su comandi e sanzioni; • l’eliminazione della paura per far sentire i collaboratori liberi di porre domande; • un’enfasi sui processi di miglioramento continuo più che sulle quote numeriche; • un lavoro di squadra; • l’eliminazione degli ostacoli al miglioramento delle capacità dei collaboratori.28 Una delle lezioni più durature di Deming per i manager è la sua “regola 85-15”.29 Nello specifico, quando le cose non procedono nel migliore dei modi vi è approssimativamente un 85% di possibilità che la colpa sia attribuibile al sistema (il quale include il

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management, i macchinari e le regole). Solo il 15% circa delle volte è il collaboratore singolo a sbagliare. Sfortunatamente, come osservato da Deming, il manager tipico passa la maggior parte del suo tempo incolpando erroneamente e punendo gli individui per gli insuccessi del sistema. I principi del management della qualità totale Nonostante le variazioni nel linguaggio e nello scopo dei diversi programmi di management della qualità totale, è possibile identificare quattro principi comuni. 1. Ottenere un risultato corretto la prima volta per eliminare costosi rifacimenti e ritiri dei prodotti dal mercato. 2. Ascoltare e imparare dai clienti e dai dipendenti. 3. Rendere quotidiano il miglioramento continuo. 4. Costruire il lavoro di squadra, la fiducia e il rispetto reciproco.30 È evidente in questo elenco l’influenza di Deming. Ancora una volta, com’è stato per la corrente delle relazioni umane, le persone sono concepite come fattore chiave del successo organizzativo. Riassumendo, i difensori del management della qualità totale hanno offerto un valido contributo allo studio del comportamento organizzativo fornendo un contesto pratico per la gestione delle persone. Il management della qualità totale è apprezzato in quanto, come rilevato in due recenti e importanti studi, funziona!31 Quando le persone sono gestite secondo questi principi, ne derivano migliori opportunità di lavoro e una più alta qualità di beni e servizi. Come sarà possibile osservare più volte nei capitoli seguenti, questo libro è basato sulla filosofia di Deming e sui principi del management della qualità totale, in particolare sull’idea del miglioramento continuo.

La rivoluzione di Internet e dei social media

E-business: l’utilizzo di Internet in ogni aspetto della gestione di un’impresa

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All’inizio degli anni ’90, periodo in cui proliferavano le start up digitali, i più entusiasti affermavano che Internet avrebbe segnato una rivoluzione. Nel 2001, dopo lo scoppio della bolla speculativa, le belle promesse della nuova tecnologia venivano ridicolizzate come una semplice illusione. Dopo alcuni “dolori di crescita”, però, Internet (ora anche mobile) si è confermato essere una vera e propria rivoluzione. I dati sono impressionanti: gli utenti nel mondo sono aumentati da 361 milioni nel 2001 a quasi 2 miliardi nel 2010.32 Quello che un tempo era l’e-commerce (l’acquisto e la vendita di beni e servizi attraverso Internet) è diventato e-business, ovvero l’utilizzo di Internet per facilitare ogni aspetto della gestione di un’impresa.33 Un osservatore del settore afferma: “Eliminando tutti i discorsi ampollosi, Internet è uno strumento che abbatte sostanzialmente i costi di comunicazione. Questo significa che è in grado di modificare radicalmente ogni settore o attività che dipende fortemente dal flusso di informazioni”.34 Un altro importante cambiamento nel mondo di Internet, generato da social media come Facebook, LinkedIn e Twitter, è la crescente importanza dei contenuti generati dagli utenti. I consumatori passivi di contenuti di massa (per esempio fruitori di programmi

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televisivi, film e giornali) sono diventati artefici e divulgatori di contenuti individuali: tengono un blog, un profilo Facebook oppure un account Twitter comunicando qualsiasi cosa desiderino in qualunque momento.35 Questa dinamica conferisce un grande potere al singolo consumatore, dipendente, cittadino o studente. Le nuove tecnologie, come gli smartphone, il cloud computing e la realtà aumentata, sono importanti propulsori di cambiamento.36 Relativamente al comportamento organizzativo, ci concentriamo su come Internet, in continua evoluzione, abbia modificato il comportamento di chi è cresciuto con Internet e dà per scontati Google, Facebook, YouTube e Twitter. Secondo Don Tapscott, autore dell’interessante libro Grown Up Digital: How the Net Generation Is Changing the World (in italiano, Net Generation. Come la generazione digitale sta cambiando il mondo, trad. di Elisa Tomassucci, Franco Angeli, Milano), coloro che sono nati tra il 1977 e il 1997 hanno una visione del mondo peculiare plasmata da Internet: Queste sono le otto norme della Net Generation. I giovani di oggi danno un grande valore alla possibilità di essere ciò che vogliono e alla libertà di scelta. Amano personalizzare ogni cosa, anche il loro lavoro. imparano presto a essere scettici e a verificare con attenzione tutto ciò che vedono e leggono sui media. Danno molta importanza all’integrità – essere onesti, rispettosi, trasparenti, ligi agli impegni presi. Sono grandi collaboratori, con gli amici on-line e al lavoro. sono rapidi, adorano le innovazioni. […] attraverso la loro [delle regole applicate dai giovani] comprensione si possono fare le necessarie modifiche a livello economico, educativo, politico e familiare per affrontare al meglio questo ventunesimo secolo.37

(Le idee di Tapscott sulla Net Generation sono trattate più dettagliatamente nel Capitolo 14.) In sintesi, le organizzazioni e la vita organizzativa sono ormai cambiate irreversibilmente per effetto del mondo virtuale di Internet.38 I manager sono chiamati a monitorare e guidare individui e team geograficamente dispersi comunicando attraverso le moderne tecnologie. La creazione e la gestione di team virtuali è trattata dettagliatamente nel Capitolo 11.

La costruzione del capitale umano e sociale I lavoratori della conoscenza, coloro che producono valore usando il cervello anziché le braccia, sono più importanti che mai nell’attuale economia globalizzata. Che cosa si sa e chi si conosce rappresentano sempre più le chiavi del successo individuale e organizzativo (vedi la figura 1-2). I paesi occidentali sono attraversati da una “tempesta perfetta” di tendenze già in atto ed emergenti che mette in luce l’importanza e l’urgenza della costruzione del capitale umano: • diffusione di tecnologie avanzate in paesi in via di sviluppo con una classe media in rapida crescita (per esempio la Cina, l’India, la Russia e il Brasile); • delocalizzazione di lavori sempre più sofisticati (per esempio progettazione, architettura, diagnosi mediche);

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Ipotesi strategica: le persone, individualmente e collettivamente, sono la chiave per il successo dell’organizzazione

Capitale umano individuale • Intelligenza/competenze/ conoscenza • Visioni/sogni/aspirazioni • Capacità tecniche e sociali • Fiducia/stima di sé • Iniziativa/intraprendenza • Adattabilità/flessibilità • Prontezza ad apprendere • Creatività • Entusiasmo • Motivazione/impegno • Tenacia • Valori etici/coraggio • Onestà • Maturità emotiva

• • • • • • Apprendimento organizzativo (conoscenza condivisa)

• • • • • • • • • •

Capitale sociale Condivisione di visioni e obiettivi Condivisione dei valori Fiducia Rispetto reciproco/benevolenza Amicizia/supporto nei gruppi Mentoring/modelli di ruolo positivi Partecipazione/empowerment Collegamenti/fonti Network/affiliazioni Cooperazione/collaborazione Lavoro di squadra Cameratismo Comunicazione assertiva (piuttosto che aggressiva) Conflitto funzionale (e non disfunzionale) Negoziazioni win-win Filantropia/volontariato

Figura 1-2 L’importanza strategica e le dimensioni del capitale umano e sociale Fonte: basato sulla discussione in P.S. Adler e S. Kwon, “Social Capital: Prospects for a New Concept,” Academy of Management Review, gennaio 2002, pp. 17-40; e C.A. Bartlett e S. Ghoshal,“Building Competitive Advantage through People,” MIT Sloan Management Review, inverno 2002, pp. 34-41.

• competenze matematiche e scientifiche lacunose dei giovani occidentali rispetto a quelli di altri paesi; • massiccia perdita di competenze legata al pensionamento dei cosiddetti baby-boomer del secondo dopoguerra.39 Che cos’è il capitale umano? Un gruppo di studiosi di gestione delle risorse umane ha offerto questa prospettiva: “Viviamo in un tempo in cui il nuovo paradigma economico – caratterizzato dalla velocità, dall’innovazione, dai cicli brevi, dalla qualità, dalla soddisfazione del cliente – sottolinea l’importanza dei beni immateriali, quali

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Capitale umano: il potenziale produttivo della conoscenza e delle azioni di un individuo

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il riconoscimento della marca, la conoscenza, l’innovazione e in particolar modo il capitale umano.”40 Il capitale umano è il potenziale produttivo della conoscenza e delle azioni di un individuo. La parola centrale in questa definizione volutamente ampia è potenziale. Quando abbiamo fame, il denaro è utile perché ha il potenziale di fornirci un pasto; allo stesso modo, un collaboratore, presente o futuro, con la giusta combinazione di conoscenza, capacità e motivazione a eccellere, rappresenta un capitale umano con il potenziale di fornire all’organizzazione un vantaggio competitivo. Secondo i risultati di un sondaggio del 2010 su 449 professionisti della gestione delle risorse umane, “Ottenere capitale umano e ottimizzare gli investimenti in tale direzione” è la sfida principale che le aziende saranno chiamate ad affrontare nei prossimi 10 anni.41 La Intel, per esempio, è un’azienda ad alta tecnologia molto attiva in questo ambito perché il suo futuro dipende dall’innovazione tecnologica e ingegneristica. Ci vogliono anni di studi in matematica e materie scientifiche per formare un ingegnere ben preparato; non volendo lasciare al caso l’offerta futura di tali figure, Intel ogni anno spende 100 milioni di dollari finanziando la ricerca a ogni livello in tutto il mondo.42 L’azienda incoraggia i giovani a studiare matematica e sponsorizza competizioni scientifiche con borse di studio fino a 100.000 dollari per i vincitori.43 Tutti gli studenti finiranno a lavorare per Intel? No. Non è questo il punto. L’obiettivo è molto più grande: costruire il capitale umano del mondo.

Capitale sociale: il potenziale produttivo risultante da relazioni forti, improntate a fiducia e collaborazione

Che cos’è il capitale sociale? La nostra attenzione si sposta ora dalla dimensione individuale a quella sociale (per esempio amici, famiglia, azienda, gruppo o associazione, nazione). Pensiamo alle relazioni. Il capitale sociale è il potenziale produttivo risultante dalle relazioni forti, dalla buona volontà, dalla fiducia e dalla collaborazione.44 Ancora una volta, la parola chiave è potenziale. Secondo alcuni esperti dell’argomento: “È vero: il capitale sociale che una volta si riscontrava normalmente nelle organizzazioni è ora raro e in pericolo. Ma il capitale sociale che possiamo costruire ci permetterà di capitalizzare sulle possibilità mutevoli e virtuali dell’attuale ambiente economico.”45 Le relazioni contano. In una recente indagine, il 77% delle donne e il 63% degli uomini hanno valutato estremamente importante “un buon rapporto con il proprio superiore”. Altri fattori – tra cui buone attrezzature, risorse, facilità di raggiungimento del luogo di lavoro e orari flessibili – hanno ricevuto una valutazione inferiore.46 Inoltre, la ricerca dimostra che le interazioni sociali positive giovano alla salute cardiovascolare e al sistema immunitario.47 Costruire il capitale umano e sociale Le diverse dimensioni del capitale umano e sociale sono elencate in figura 1-2. L’apprendimento organizzativo formale e i programmi di knowledge management, come si vedrà nel Capitolo 12, necessitano del capitale sociale per utilizzare il capitale umano individuale per il bene comune. È una semplice formula per il successo: la crescita dipende dalla tempestiva condivisione di conoscenze preziose. Dopo tutto, a che servono collaboratori brillanti che non si relazionano, non insegnano e non ispirano gli altri?

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Il contesto manageriale: ottenere risultati con e attraverso gli altri Management: lavorare con e attraverso gli altri per raggiungere gli obiettivi organizzativi in modo efficiente ed etico

I manager influenzano le nostre vite in molti modi. Scuole, ospedali, uffici statali e piccole e grandi imprese richiedono tutti una gestione sistematica. Secondo una definizione formale, il management è un processo che consiste nel lavorare con e attraverso gli altri per raggiungere gli obiettivi organizzativi in modo efficiente ed etico, in un contesto in continuo mutamento. Per gli studenti di comportamento organizzativo, la caratteristica centrale di questa definizione è “lavorare con e attraverso gli altri”. I manager ricoprono un ruolo costantemente in evoluzione. Oggi i manager di successo non sono più come i capi del passato, che affermavano di avere “tutto sotto controllo” e davano ordini da eseguire; piuttosto, hanno la necessità di prevedere in modo creativo e promuovere in modo attivo nuove direzioni, con coraggio, senso etico e sensibilità. I manager efficaci sono giocatori di una autorevole squadra il cui potere deriva dalla volontà e dal supporto attivo di altri individui, mossi da interessi divergenti. Ciascuno di noi è interessato a come i manager adempiono al loro ruolo. Secondo le conclusioni tratte da una recente rassegna della letteratura manageriale prodotta negli ultimi 30 anni, il buon management consiste nel “trovare un obiettivo chiaro; essere consapevoli che le esperienze passate e un accumulo di informazioni possono interferire con le decisioni sagge; mantenere una propensione all’azione; essere aperti al cambiamento; cercare il feedback”.48 La qualità del management può fare una grande differenza tanto per i dipendenti quanto per i clienti. Ampliando il tema, esaminiamo in maniera più approfondita le capacità che i manager non possono non avere e gli sviluppi futuri del management.

Che cosa fanno i manager? Un profilo delle capacità manageriali Gli studi basati sull’osservazione condotti da Mintzberg e da altri hanno scoperto che il giorno tipico di un manager è un susseguirsi frammentato di brevi episodi.49 Le interruzioni sono abituali, mentre non lo sono lunghi periodi di tempo dedicati alla pianificazione e alle riflessioni. In uno studio in particolare si rilevava come quattro manager di alto livello trascorressero il 63% del loro tempo in attività della durata di meno di un minuto ciascuna; solo il 5% del loro tempo era dedicato ad attività della durata maggiore di un’ora.50 Ma quali capacità specifiche i manager devono effettivamente dimostrare durante i loro movimentati e frammentati giorni lavorativi? Negli anni sono stati fatti molti tentativi per dipingere un quadro realistico delle attività che svolgono i manager. Sono stati suggeriti molti elenchi, assai diversi tra loro, dei ruoli e delle funzioni manageriali. Fortunatamente, negli ultimi vent’anni un filone di ricerca, facente capo a Clark Wilson e ai suoi collaboratori, ha fornito un profilo pratico e statisticamente convalidato delle capacità manageriali51 (tabella 1-2). Tale profilo si concentra su 11 categorie osservabili del comportamento manageriale e questo è perfettamente in sintonia con l’attuale enfasi sulle competenze manageriali. La tecnica di Wilson per la valutazione delle capacità va oltre il consueto approccio basato sull’auto-valutazione, con i suoi inevitabili rischi di distorsione: infatti, oltre a

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Le organizzazioni orientate alle persone e il comportamento etico Tabella 1-2 Le capacità di un manager efficace

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Rende chiari scopi e obiettivi a tutti coloro che sono coinvolti. Incoraggia la partecipazione, la comunicazione verso l’alto e i suggerimenti. Pianifica e organizza al fine di ottenere un ordinato flusso di lavoro. Possiede una competenza tecnica amministrativa per rispondere alle domande relative all’organizzazione. Facilita il lavoro attraverso la costruzione di team, la formazione, il coaching e il supporto. Fornisce feedback in modo onesto e costruttivo. Fa funzionare le attività basandosi su programmi, scadenze e solleciti. Controlla i dettagli senza essere invadente. Esercita una ragionevole pressione per il raggiungimento degli obiettivi. Autorizza e delega compiti chiave agli altri mantenendo chiarezza di obiettivi e di impegno. Riconosce una buona performance con ricompense e rinforzi positivi.

chiedere direttamente a un manager di auto-valutarsi rispetto alle 11 capacità, l’approccio di Wilson prevede anche di chiedere a coloro che riportano direttamente a lui di valutarlo. Secondo Wilson e i suoi colleghi, il risultato è una valutazione dell’effettiva padronanza delle capacità, non semplicemente della consapevolezza delle stesse.52 La logica sottostante all’approccio di Wilson è semplice e convincente. Chi è meglio in grado di valutare le capacità di un manager di coloro che fanno quotidianamente esperienza dei suoi comportamenti, ovvero di coloro che riportano direttamente a lui? La ricerca di Wilson sulle capacità manageriali ci offre quattro importanti lezioni: 1. Trattare efficacemente con le persone è l’essenza del management. Le 11 capacità riportate in tabella 1-2 costituiscono un ciclo di creazione degli obiettivi-impegnofeedback-ricompensa-realizzazione in ogni fase del quale compare l’interazione umana. 2. I manager con un’alta padronanza delle proprie capacità tendono a ottenere migliori performance dalle sotto-unità e un morale dei collaboratori migliore.53 3. Manager uomini e donne efficaci non presentano profili delle capacità significativamente diversi,54 contrariamente a quanto si è letto in anni recenti sulla stampa non specializzata.55 4. A ogni tappa della carriera, i manager deragliati (coloro che hanno fallito nella realizzazione del proprio potenziale) tendono a essere coloro che sovrastimano la padronanza delle proprie capacità (valutandosi in modo migliore rispetto a quanto facciano i loro collaboratori).56 Questo suggerisce la seguente conclusione del ricercatore: “quando si selezionano individui per promuoverli a posizioni manageriali, dovrebbero essere evitati gli arroganti, i riservati, gli insensibili e coloro che stanno sempre sulla difensiva”.57

I manager del XXI secolo L’attuale mondo del lavoro è davvero sottoposto a cambiamenti di grande entità e destinati a durare nel tempo.58 Le organizzazioni sono state “reingegnerizzate” per avere maggiore velocità, efficienza e flessibilità. Al posto dell’individuo, i team sono

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diventati la nuova componente costitutiva dell’organizzazione.59 Il management incentrato sul binomio “comando e controllo” sta lasciando il posto a una gestione partecipativa e orientata all’empowerment. I leader concentrati esclusivamente su se stessi sono sostituiti da leader concentrati sul cliente. In misura crescente i collaboratori sono considerati come clienti interni. In occasione di un summit tenutosi nel 2008, 35 dirigenti e studiosi di management hanno lanciato l’appello a reinventare il management. Il ricercatore Gary Hamel ha inquadrato la sfida in questi termini: [Storicamente,] i problemi sono sempre stati l’efficienza e la dimensione e la soluzione è sempre stata la burocrazia, con la struttura gerarchica, gli obiettivi a cascata, l’esatta definizione dei ruoli e norme e procedure complesse. Oggi i manager devono affrontare un insieme di problemi del tutto nuovi causati da un contesto volatile e intransigente. Come creare organizzazioni tanto flessibili e resistenti quanto attente ed efficienti in un’epoca di rapidi mutamenti? In un mondo battuto dai venti della distruzione creatrice, come innovare con la necessaria rapidità e audacia per continuare a contare e realizzare profitti? In un’economia creativa, nella quale il genio imprenditoriale è la chiave del successo, come incentivare i dipendenti a trasmettere spirito di iniziativa, immaginazione e passione nel lavoro di tutti i giorni? Come […] incoraggiare i dirigenti a fare fronte alle proprie responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder?60

Questi fattori impongono alle organizzazioni di rendersi più flessibili, innovative e reattive e disegnano un profilo nuovo del manager del XXI secolo (vedi tabella 1-3).

Tabella 1-3 L’evoluzione del manager del XXI secolo Ruolo primario

Apprendimento e conoscenza Criteri di ricompensa Orientamento culturale Fonte primaria di influenza Concezione delle persone Direzione principale della comunicazione Stile decisionale Riflessione etica Natura delle relazioni interpersonali Detenzione del potere e delle informazioni chiave Approccio al cambiamento

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Manager del passato Colui che dà ordini, appartiene a un’elite privilegiata, manipolatore, controllore Apprendimento periodico, strettamente specialistico Tempo, sforzo Monoculturale, monolinguistico Autorità formale Problema potenziale Verticale

Manager del futuro Facilitatore, membro del team, insegnante, difensore, sponsor, coach

Input limitati per decisioni individuali Ripensamento Competitiva (win-lose)

Input su base ampia per decisioni congiunte Anticipazione Cooperativa (win-win)

Accesso ristretto

Accesso condiviso e vasto

Resistenza

Facilitazione

Apprendimento continuo per tutta la vita, generale con molteplici specializzazioni Capacità, risultati Multiculturale, multlinguistico Conoscenza (tecnica e interpersonale) Risorsa primaria Multidirezionale

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L’approccio contingente al management

Approccio contingente: l’utilizzo delle tecniche di management in un modo appropriato alle situazioni

Gli studiosi per molti anni si sono posti il problema di come applicare nel modo migliore il crescente numero di strumenti e tecniche di management disponibili. La loro risposta è l’approccio contingente. Si definisce approccio contingente l’utilizzo delle tecniche di management in un modo appropriato alle situazioni, in contrapposizione al tentativo di applicare il concetto di ”one best way” o “one size fits all”. L’approccio contingente incoraggia i manager a concepire il comportamento organizzativo all’interno di un contesto. Secondo questa prospettiva moderna, a determinare quando e dove le diverse tecniche di management siano appropriate sono le situazioni in evoluzione, e non rigide e semplici regole. Come spiega Clayton Christensen, della Harvard University, “molti dei principi di buon management diffusamente accettati sono appropriati solo in situazioni specifiche.”61 Per esempio, come si vedrà nel Capitolo 16, i ricercatori che seguono questo approccio hanno sottolineato come non esista uno stile di leadership migliore in assoluto. Gli specialisti del comportamento organizzativo condividono l’approccio contingente perché li aiuta in modo realistico a interrelare gli individui, i gruppi e le mutevoli circostanze interne ed esterne all’organizzazione inviando inoltre un chiaro messaggio ai manager della presente economia globale: occorre leggere attentamente le situazioni ed essere abbastanza flessibili per adattarsi.

La sfida dell’etica

Etica: lo studio delle questioni morali con cui ci confrontiamo nelle nostre scelte

Esiste una varietà di caratteristiche individuali e organizzative che contribuiscono ai comportamenti non etici. Il comportamento organizzativo è un punto d’osservazione privilegiato per una migliore comprensione di questo aspetto e per il miglioramento dell’etica sul posto di lavoro: fornendo importanti indicazioni per la gestione del comportamento, può anche insegnare qualcosa su come evitare i comportamenti sbagliati. L’etica comprende lo studio delle questioni morali e delle scelte conseguenti. Riguarda la contrapposizione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra il bene e il male, e permette di individuare le molte sfumature di grigio in questioni che potrebbero apparire “bianche o nere”. Vi sono implicazioni morali virtualmente in ogni decisione, sia sul lavoro che fuori. I manager spesso devono avere immaginazione e coraggio per compiere la scelta giusta. Per migliorare la vostra comprensione dei rapporti tra l’etica e il comportamento organizzativo (1) presentiamo un modello di responsabilità sociale d’impresa, (2) esaminiamo sette principi morali generali per i manager, (3) ci chiediamo come migliorare il clima etico di un’organizzazione e (4) lanciamo un appello individuale all’azione.

Un modello di etica e responsabilità sociale globale d’impresa Per responsabilità sociale d’impresa (corporate social responsibility, CSR) si intende “l’idea che le aziende abbiano degli obblighi nei confronti di gruppi sociali diversi dagli azionisti che vanno oltre le disposizioni di legge o i contratti collettivi”.62 La

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responsabilità sociale d’impresa chiama le aziende a non limitarsi alla ricerca del profitto, ma a servire gli interessi e i bisogni dei cosiddetti “stakeholder”, cioè dipendenti ed ex dipendenti, clienti, fornitori e comunità e paesi dove sono situati gli impianti di produzione.63 L’appello per una maggiore responsabilità sociale d’impresa ha scatenato un’accesa polemica perché, secondo le teorie economiche classiche, il compito delle aziende è produrre beni e servizi per realizzare profitti, non risolvere problemi sociali, politici e ambientali.64 Proponendo una visione molto ampia, lo studioso di etica aziendale della University of Georgia Archie B. Carroll ha realizzato un modello di responsabilità sociale d’impresa/etica aziendale adeguato all’economia globale e alle multinazionali (figura 1-3). Il modello è decisamente in linea con il contesto attuale perché fotografa efficacemente tre macrotendenze: (1) la globalizzazione dell’economia, (2) le crescenti aspettative in rapporto alla responsabilità sociale d’impresa e (3) l’appello per un’etica aziendale più sana. La piramide della responsabilità sociale globale d’impresa, dalla base al vertice, offre i seguenti suggerimenti alle organizzazioni che operano nell’economica globalizzata: • realizzare profitti coerenti con le aspettative legate alle imprese internazionali; • rispettare le leggi dei paesi ospitanti e la normativa internazionale;

Essere un buon cittadino globale d’impresa

Agire come auspicato dagli stakeholder globali

Responsabilità filantropica

Seguire comportamenti etici

Rispettare le leggi

Conseguire redittività

Responsabilità etica

Responsabilità legale

Responsabilità economica

Agire come atteso dagli stakeholder globali

Agire come richiesto dagli stakeholder globali

Agire come richiesto nel contesto del capitalismo globale

Figura 1-3 La piramide della responsabilità sociale globale d’impresa Fonte: A.B. Carroll, Academy of Management Executive: The Thinking Managers’ Source. Copyright © 2004 The Academy of Management.

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seguire prassi etiche che tengano conto degli standard applicati dai paesi ospiti e a livello globale; • essere un buon “cittadino d’impresa” in particolare rispetto alle aspettative prevalenti nel paese ospitante.65 Come esemplificato dalla figura della piramide, Carroll sottolinea che la struttura può reggere solo se ciascun livello è solido: un approccio arbitrariamente selettivo alla responsabilità sociale d’impresa è inadeguato. Secondo Carroll, il vertice della piramide rispecchia “le aspettative nutrite dalla società globale che le aziende si impegnino in attività sociali non prescritte per legge né generalmente attese in senso etico”.66 Lo spirito della piramide della responsabilità sociale globale d’impresa è evidente nel tentativo tuttora in corso della Nike di scrollarsi di dosso l’immagine di azienda sfruttatrice. I progressi si sono manifestati lentamente nella catena di fornitura mondiale della Nike, che impiega circa 800.000 lavoratori in 52 paesi. Tuttavia, la multinazionale ha compiuto grandi passi avanti da quando ha sposato la causa della responsabilità sociale d’impresa. Quella che inizialmente rappresentava un massiccia operazione di facciata si è evoluta in una missione più ampia, che tocca le modalità di produzione e vendita dei prodotti. La Nike ha dimostrato grande inventiva nell’integrare il rispetto per l’ambiente nella fase di progettazione, valutando tutti i modelli di calzature sportive in base a un indice di sostenibilità. In materia di lavoro, l’azienda ammette che le misure iniziali (l’elaborazione di un codice di condotta e il monitoraggio della compliance) non hanno messo fine agli abusi nelle centinaia di stabilimenti produttivi dove si realizzano i prodotti. La lezione degli anni ’90 – prendere atto dei problemi e trovare soluzioni applicabili all’azienda nel suo insieme – sta aiutando molto il più grande produttore al mondo di calzature rispetto alle problematiche legate al lavoro. “Sono orgoglioso di quanto abbiamo conquistato, ma non siamo ancora arrivati al traguardo,” afferma l’attuale amministratore delegato dell’azienda Mark Parker.67

Tenendo a mente questa visione globale della responsabilità sociale d’impresa, restringiamo il campo al comportamento etico individuale.

Principi morali generali Kent Hodgson, studioso di management e consulente, ha aiutato i manager a raggiungere decisioni etiche identificando sette principi morali generali (tabella 1-4). Egli li chiama “i magnifici sette“ per enfatizzarne la rilevanza universale, senza limiti di tempo né geografici. Le prospettive sia della giustizia che della cura sono chiaramente presenti nei magnifici sette, che sono però più dettagliati e pratici. È importante sottolineare che secondo Hodgson non vi sono risposte etiche assolute nel momento in cui si deve prendere una decisione. I manager dovrebbe basarsi sui principi morali in modo da prendere decisioni ben fondate, appropriate e difendibili.68

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22 Tabella 1-4 I magnifici sette: principi morali generali per i manager

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Dignità della vita umana: la vita deve essere rispettata. Gli esseri umani, per il solo fatto di esistere, hanno valore e dignità. Non dovremmo agire con la diretta intenzione di ferire o uccidere una persona innocente. Gli esseri umani hanno diritto alla vita; siamo obbligati a rispettare questo diritto. La vita umana deve essere preservata e trattata come sacra. Autonomia: tutte le persone hanno valore intrinseco e hanno il diritto di autodeterminarsi. Dovremo comportarci in modo da dimostrare il valore di una persona, la sua dignità e il suo diritto alla libera scelta. Abbiamo il diritto di agire asserendo il nostro stesso valore e i nostri bisogni legittimi. Non dovremmo usare gli altri come “cose” o come mezzi per un fine. Ogni persona ha lo stesso diritto alla basilare libertà umana, compatibilmente con la libertà altrui. Onestà: la verità dovrebbe essere detta a coloro che hanno il diritto di conoscerla. L’onestà è conosciuta anche come integrità, sincerità e onore. Ognuno dovrebbe parlare e agire così da riflettere la realtà della situazione. Le parole e le azioni dovrebbero rispecchiare il modo in cui le cose sono realmente. A volte gli altri hanno il diritto di ascoltare la verità raccontata da noi; altre non hanno questo diritto. Lealtà: promesse, contratti e impegni dovrebbero essere onorati. La lealtà include la fedeltà, il mantenimento delle promesse, il rispetto della fiducia pubblica, il comportarsi da buoni cittadini, la qualità del proprio lavoro, l’affidabilità, l’impegno e il rispetto di leggi, regole e norme di condotta. Giustizia: le persone dovrebbero essere trattate giustamente. Ogni persona ha il diritto a essere trattata lealmente, con imparzialità ed equità. Ognuno ha l’obbligo di trattare gli altri lealmente e giustamente. Tutti hanno diritto al necessario per vivere – specialmente le persone profondamente bisognose e prive di aiuti. La giustizia include l’equità, l’imparzialità e un trattamento non discriminatorio. Coloro che operano con giustizia tollerano le diversità e accettano le differenze fra le persone e le loro idee. Umanità: comprende due parti: (1) bisognerebbe fare il bene e (2) bisognerebbe evitare di fare il male. Dovremmo fare il bene per gli altri e per noi stessi. Dovremmo preoccuparci del benessere degli altri; solitamente, dimostriamo questa preoccupazione nelle forme della compassione, della generosità, della gentilezza, del servizio e dell’attenzione. Bene comune: nelle proprie azioni si dovrebbe realizzare “il maggior bene possibile per il maggior numero di persone”. Ci si dovrebbe comportare in modo da aumentare il benessere della maggioranza di persone, cercando allo stesso tempo di proteggere i diritti degli individui.

Fonte: A Rock and a Hard Place: How to Make Ethical Business Decisions When the Choices Are Tough, © 1992 Kent Hodgson, pp. 69-73. Pubblicato da AMACOM, una divisione della American Management Association. Riprodotto su autorizzazione.

Come migliorare il clima etico di un’organizzazione Oltre a essere una cosa giusta, migliorare l’etica sul posto di lavoro può determinare effetti positivi sui risultati economici. Studi condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno dimostrato che l’impegno aziendale per l’etica può essere remunerativo: la reputazione di onestà e la buona cittadinanza d’impresa aumentano la redditività.69 Il profilo etico può influire anche sulla qualità dei potenziali candidati: in un sondaggio online condotto su 1.020 individui, l’83% ha affermato di considerare “molto importante” il profilo etico di un’azienda al momento di valutare una proposta di lavoro, mentre solo il 2% lo ha considerato “trascurabile”.70 Un team di ricercatori di management ha raccomandato le seguenti azioni per migliorare l’etica sul lavoro.71

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Comportarsi eticamente in prima persona. I manager sono importanti modelli di ruolo; le loro abitudini e i loro comportamenti inviano segnali chiari rispetto all’importanza della condotta etica. Il comportamento etico deve partire dall’alto. Esaminare i potenziali collaboratori. Sorprendentemente, i selezionatori in genere trascurano di controllare la veridicità di referenze, credenziali e altre informazioni fornite dai candidati. Un’azione più diligente in quest’area potrebbe individuare coloro che sono propensi alla menzogna e alla scorrettezza. Controlli sull’integrità sono piuttosto validi, ma non sono una panacea.72 Sviluppare un codice etico significativo. I codici etici possono avere un impatto positivo se soddisfano questi quattro criteri: 1. devono essere distribuiti a ogni dipendente; 2. devono essere fermamente supportati dal top management; 3. devono riferirsi a pratiche specifiche e a dilemmi etici che probabilmente un certo gruppo di collaboratori si trova ad affrontare (ad esempio le mazzette per i venditori o per i responsabili acquisti, la falsificazione dei dati per gli scienziati di laboratorio o per i contabili); 4. devono essere applicati in modo equanime, con opportune ricompense per chi li rispetta e penalità per i trasgressori.73 Fornire una formazione etica. I dipendenti possono essere formati a identificare e affrontare questioni etiche durante la fase di orientamento e mediante seminari, video e sessioni di formazione online.74 Rinforzare il comportamento etico. Il comportamento che viene rinforzato tende a essere ripetuto, mentre il comportamento che non lo è tende a scomparire. La condotta etica è troppo spesso punita, mentre il comportamento immorale è ricompensato. Creare posizioni, unità e altri meccanismi strutturali per affrontare le questioni etiche. L’etica deve diventare una questione quotidiana, non un singolo annuncio che viene archiviato e dimenticato. Un numero crescente di grandi aziende statunitensi ha introdotto la figura del “Chief ethics officer”, che collabora direttamente con l’amministratore delegato; in questo modo, le questioni legate alla condotta etica e all’assunzione di responsabilità diventano prioritarie . Creare un clima in cui non ci sia bisogno del “whistle-blowing”. Per whistle-blowing (letteralmente “soffiare nel fischietto”) si intende la denuncia ad autorità pubbliche, mezzi di comunicazione o gruppi di interesse pubblico di attività non etiche e/o illeciti commessi dall’azienda da parte di un dipendente. Sherron Watkins è salita agli onori delle cronache per aver denunciato lo scandalo della sua azienda, la Enron.75 Le organizzazioni possono prevenire questo fenomeno incoraggiando l’espressione libera e aperta del dissenso, dando voce ai dipendenti tramite procedure di vertenza giuste e/o linee telefoniche dedicate alle questioni etiche utilizzabili in forma anonima.

Un appello individuale all’azione In ultima analisi, l’etica tocca la percezione e la motivazione individuali. Il clima organizzativo, i modelli di ruolo, la struttura, la formazione e i riconoscimenti possono

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indirizzare i dipendenti verso la giusta direzione, ma in primo luogo è importante che gli individui siano attenti alla sfera morale, cioè che considerino in buona fede le implicazioni etiche di atti e circostanze.76 In secondo luogo, i collaboratori devono desiderare di fare la cosa giusta e avere il coraggio di agire. Bill George, lo stimato ex amministratore delegato di Medtronic, che produce dispositivi salvavita come i pacemaker, ha espresso questo appello all’azione: “Ciascuno di noi è chiamato a stabilire i propri paletti sul piano etico e deve rifiutarsi di oltrepassarli, se gli viene chiesto. Se questo significa rifiutarsi di eseguire un ordine diretto, dobbiamo essere pronti a rassegnare le dimissioni.”77 Per essere all’altezza di questa sfida, occorre essere dotati di forti valori individuali (argomento che approfondiremo nel Capitolo 6) e del coraggio di difenderli anche nelle avversità.

Apprendere il comportamento organizzativo: l’importanza della ricerca Il comportamento organizzativo è una disciplina vasta e in continua evoluzione. Per rendere quanto più informativo e utile il lungo percorso che ci attende seguiremo una strategia teoria-ricerca-pratica. Quasi tutti gli argomenti più importanti trattati in questo libro sono introdotti da una presentazione del quadro teorico di base (spesso con l’ausilio di grafici che illustrano le relazioni tra le variabili principali) e dei termini chiave, seguita da una rassegna delle ultime novità nell’ambito della ricerca, che possono fornire spunti di riflessione preziosi. La trattazione si conclude con esempi esplicativi e, quando possibile, consigli pratici.

Le cinque fonti di evidenza empirica Il comportamento organizzativo acquista credibilità come disciplina accademica perché si basa sulla ricerca. Il rigore scientifico spazza via congetture, pregiudizi e ipotesi non confermate riguardanti il comportamento negli ambienti di lavoro. Nel testo citiamo sistematicamente evidenze empiriche a sostegno, derivanti da cinque diverse categorie. Ecco, in ordine di priorità, le metodologie di ricerca da cui derivano i dati riportati: Meta-analisi: tecnica statistica che permette di riassumere i risultati di ricerche differenti

Studio sul campo: ricerca svolta in un contesto organizzativo reale Studio di laboratorio: ricerca svolta in situazioni artificiali

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Meta-analisi. La meta-analisi è una tecnica statistica riassuntiva che permette agli studiosi del comportamento di giungere a conclusioni generali riguardanti determinate variabili a partire da più studi differenti;78 tipicamente fa riferimento a un gran numero di individui, spesso migliaia. Le meta-analisi sono istruttive perché si concentrano sugli schemi generali emergenti dalla ricerca empirica, non su studi frammentari o isolati.79 • Studi sul campo. Nel comportamento organizzativo, uno studio sul campo indaga processi individuali o di gruppo in un contesto organizzativo concreto. Poiché gli studi sul campo prendono in considerazione situazioni di vita reale, i risultati che ne conseguono hanno spesso una rilevanza immediata e pratica per i manager. • Studi di laboratorio. In uno studio di laboratorio le variabili sono manipolate e misurate in situazioni artificiali. In questo caso i soggetti studianti sono spesso stu-

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Indagine campionaria: risultati ottenuti tramite questionari inviati a un campione di persone Studio di un caso: analisi approfondita su un individuo, un gruppo o un’organizzazione

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denti universitari. Il contesto altamente controllato degli studi di laboratorio aumenta la precisione della ricerca, ma generalizzare i risultati e applicarli al management richiede cautela. • Indagini campionarie. In una indagine campionaria, gruppi di persone tratti da popolazioni specifiche rispondono a questionari. I ricercatori traggono così le conclusioni sull’insieme della popolazione. La possibilità di generalizzare i risultati dipende dalla qualità del campionamento e dalle tecniche di costruzione dei questionari. • Studi di casi. Lo studio di un caso è un’analisi approfondita di un singolo individuo, di un gruppo o di un’organizzazione: a causa del loro ambito limitato, gli studi di casi fruttano risultati realistici, ma non molto generalizzabili.

Un modello per comprendere e gestire il comportamento organizzativo La figura 1-4 è una mappa sintetica degli argomenti trattati, utile per il nostro viaggio attraverso questo libro. La destinazione è l’efficacia organizzativa attraverso il miglioramento continuo.

Ambiente esterno (contesto culturale) Organizzazione (struttura, cultura, cambiamento) Comprendere e gestire il comportamento individuale

Manager e team leader responsabili del raggiungimento dei risultati organizzativi con e attraverso gli altri

Comprendere e gestire i processi di gruppo e sociali

Efficacia organizzativa attraverso il miglioramento continuo

Comprendere e gestire i processi e i problemi organizzativi

Figura 1-4 Un modello degli argomenti trattati nel seguito del libro

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Nell’angolo a sinistra della nostra mappa vi sono i manager e i team leader, coloro che sono responsabili del raggiungimento dei risultati organizzativi con e attraverso gli altri. I tre cerchi al centro corrispondono alle parti seconda, terza e quarta del testo. Logicamente, il flusso del discorso in questo libro (dopo la prima parte introduttiva) scorre dagli individui, ai processi di gruppo, fino ai processi e ai problemi organizzativi. Al cuore della mappa in figura 1-4 c’è l’organizzazione. La linea tratteggiata rappresenta un confine permeabile fra l’organizzazione e il suo ambiente; nel mondo attuale, altamente interattivo e interdipendente, nessuna organizzazione è un’isola. Il Capitolo 2 esamina le implicazioni in termini di comportamento organizzativo delle principali tendenze demografiche e sociali. Queste discussioni forniscono un contesto realistico per lo studio della gestione delle persone. I Capitoli 3 e 4 forniscono un contesto culturale per il comportamento organizzativo. Bon voyage! Buon viaggio attraverso il mondo difficile, interessante e spesso sorprendente del comportamento organizzativo.

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Sarà possibile per le donne fare carriera? Patrizia Guglielmi lavorava da quattro anni nelle Direzione del Personale di una grande azienda farmaceutica e in quel periodo si era sempre chiesta perché fossero così poche le donne ai vertici della sua organizzazione. Sia l’Amministratore Delegato che il Direttore del Personale erano seriamente orientati a supportare le carriere al femminile, eppure ciò non avveniva. Fu molto felice quando i suoi superiori le proposero un’indagine qualitativa, per capire meglio il fenomeno. Con una società esterna costruì interviste e focus group da cui emersero molti risultati e spunti di riflessione, tra cui due le parvero più importanti, perché non espliciti, ma profondamente inseriti nella cultura aziendale. Il primo riguardava la valutazione della prestazione e il secondo quella di potenziale. Nel caso della prestazione, nonostante le schede fossero costruite in modo univoco, emerse che i capi usavano un metro di giudizio più rigoroso verso le donne. Siccome erano poche, dovevano essere necessariamente più brave, top performer, come si dice nel linguaggio aziendale, mentre nel gruppo maschile, più numeroso, venivano tollerate molte più sbavature.

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Inoltre, nello sviluppo carriere, per gli uomini si scommetteva molto si più sul potenziale, mentre per le donne si richiedeva già una prestazione definita per poter passare ad una posizione superiore. Con questi elementi Patrizia poteva iniziare a progettare un percorso interno di consapevolezza delle deformazioni mentali agite per potervi porre rimedio. Un altro aspetto interessante che emerse dai focus group e dalle interviste era riferito alla gestione del tempo. In azienda era consuetudine consolidata per le persone di alto livello gerarchico fermarsi fino a molto tardi la sera. Era diventato quasi uno status symbol: i direttori e i dirigenti facevano tardi, confermandosi a vicenda la loro importanza relativa e gli onerosi carichi di lavoro che dovevano sostenere. Era questo un prezzo che le donne, anche single e senza figli, non parevano disposte a pagare. Patrizia pensò alle sue serate con gli amici, al cinema e alle mostre, seguite dall’aperitivo, e pensò: “Che abbiano ragione loro?”

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La gestione della diversità è un tema delicato, difficile e qualche volta scomodo. Nonostante questo i manager devono affrontarlo nel nome della sopravvivenza organizzativa. Di conseguenza, lo scopo del presente capitolo è quello di portare a una migliore comprensione dell’importanza di questo aspetto del comportamento organizzativo. Prima di tutto viene fornita una definizione di diversità. In seguito, si propongono gli argomenti a favore della diversità e vengono discusse le barriere e le sfide associate alla gestione della diversità. Il capitolo si conclude descrivendo le pratiche organizzative più efficaci in quest’ambito.

Definire la diversità Diversità: l’insieme delle differenze e somiglianze tra i singoli individui

La diversità rappresenta la molteplicità di differenze e somiglianze individuali che esistono fra le persone. Essa non riguarda solo l’età, la razza o il genere. Non riguarda il fatto che un individuo sia eterosessuale od omosessuale, oppure cattolico, ebreo, protestante o musulmano. La diversità, inoltre, non mette in contrapposizione i maschi bianchi rispetto a tutti gli altri gruppi di persone. Essa riguarda la molteplicità di caratteristiche che rendono ogni individuo unico. Questa sezione inizia l’itinerario attraverso la gestione della diversità, o diversity management, prendendo in considerazione in primo luogo le dimensioni chiave che la riguardano. Inoltre si confrontano le azioni positive e la gestione delle diversità, due strategie che vengono spesso associate, ma che non sono del tutto assimilabili.

I livelli della diversità Come le conchiglie sulla spiaggia, le persone possiedono una gran varietà di forme, dimensioni e colori; questa varietà rappresenta l’essenza della diversità. Lee Gardenswartz e Anita Rowe, esperti della materia, hanno identificato quattro livelli di diversità, che costituiscono uno schema per distinguere le modalità con cui le persone differiscono (figura 2-1). Considerati nel loro insieme, questi strati definiscono una singola identità personale e influenzano il modo in cui ciascuno vede il mondo. Nella figura 2-1 vediamo che la personalità è raffigurata al centro della ruota della diversità, perché rappresenta un gruppo di caratteristiche stabili collegate all’identità di una persona; le dimensioni che la compongono verranno discusse in seguito, nel Capitolo 5. Lo strato successivo è composto da una gamma di dimensioni interne; in gran parte queste ultime non sono sotto il controllo cosciente della persona, ma influenzano fortemente atteggiamenti, aspettative e considerazioni circa gli altri, e quindi, di conseguenza, il comportamento individuale. Per fare un esempio, ecco l’esperienza di una donna afroamericana, in vacanza in una località turistica: Mentre ero seduta vicino alla piscina un corpulento uomo bianco sulla cinquantina mi si è avvicinato e mi ha chiesto di poter avere degli altri asciugamani. Ho chiesto “Come prego?” E lui per risposta “Oh, non lavori qui”, senza una briciola di imbarazzo o di tono di scusa nella voce.1

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La gestione delle diversità: liberare il potenziale di ogni persona Figura 2-1 I quattro livelli della diversità

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*Le dimensioni interne ed esterne sono adattate da Loden e Rosener, Workforce America! (Homewood, IL: Business One Irwin, 1991).

Fonte: L. Gardenswartz e A. Rowe, Diverse Teams at Work: Capitalizing on the Power of Diversity (New York: McGrawHill, 1994), p. 33. © 1994. Riprodotto su autorizzazione di The McGrawHill Companies.

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ensioni organizzative Livello funzionale/ classificazione

ensioni esterne* Dim Localizzazione geografica Status manageriale

Stato civile

Condizione familiare Iscrizione al sindacato

ensioni interne * Dim Età

Abitudini personali

Genere

Razza

Personalità Aspetto

Preferenze sessuali

Gruppo etnico Esperienze di lavoro

Abilità fisica

Contenuto del lavoro/ ambito

Reddito

Divisione/ Passatempi dipartimento/ abituali unità/ gruppo

Religione

Istruzione Luogo di lavoro

Anzianità

Il comportamento di quest’uomo verso la donna è stato probabilmente influenzato dagli stereotipi riguardanti una o più delle dimensioni interne della diversità. La figura 2-1 mostra che il livello successivo della diversità è composto dalle dimensioni esterne, definite anche secondarie. Esse rappresentano le differenze individuali che possono essere controllate con maggiore successo. Gli esempi includono il luogo dove si è cresciuti e dove si vive, la scelta religiosa, l’essere sposati o meno, l’avere dei figli e le esperienze lavorative. Queste dimensioni esercitano anch’esse un’influenza significativa sulle percezioni, sui comportamenti e sugli atteggiamenti individuali. Possiamo prendere la religione come esempio. Negli Stati Uniti, negli ultimi 15 anni i contenziosi per discriminazione religiosa sono raddoppiati e le organizzazioni stanno dedicando un’attenzione crescente a questo aspetto. Le leggi statunitensi in materia di lavoro impongono alle organizzazioni di “agevolare ragionevolmente le pratiche religiose dei collaboratori, a meno che ciò non imponga un onere indebito. Per agevolazione

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ragionevole si intende qualsiasi adeguamento del contesto di lavoro che consenta alle persone di praticare la loro religione, per esempio orari flessibili, sostituzioni o cambi di turno volontari, riassegnazione delle mansioni o mobilità laterale ed eccezioni alle norme di cura dell’aspetto.”2 L’ultimo livello delle diversità concerne aspetti organizzativi quali l’anzianità aziendale, la qualifica professionale e il luogo di lavoro.

Azioni positive e gestione delle diversità La gestione efficace delle diversità impone alle organizzazioni di adottare un nuovo modo di pensare le differenze fra le persone: infatti, invece di lasciare che si sviluppino conflitti tra un gruppo e l’altro, bisogna riconoscere l’unicità del contributo che ogni collaboratore può fornire. Le aziende devono tentare di gestire efficacemente le diversità non solo perché è “socialmente accettabile”, ma perché contribuisce al raggiungimento degli obiettivi strategici. Per esempio, alcune aziende si focalizzano sull’assunzione e la promozione di collaboratori con estrazione diversa con lo scopo di commercializzare prodotti allettanti per una base di clienti più ampia ed eterogenea.3 In questa sezione verranno messe in luce le differenze tra le azioni positive e la gestione della diversità.

Discriminazione: avviene quando le decisioni riguardanti un individuo sono slegate dalle sue prestazioni lavorative

Azioni positive: interventi che mirano a raggiungere l’eguaglianza di opportunità in un’organizzazione

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Azioni positive Le azioni positive sono originate dalle leggi a tutela delle pari opportunità lavorative, mirate a vietare le discriminazioni incoraggiando le organizzazioni ad attuare forme attive di prevenzione. Si parla di discriminazione quando l’assunzione o la promozione di un individuo sono slegate dalle prestazioni: le organizzazioni non possono discriminare per razza, colore, religione, nazionalità, genere, età, disabilità mentali e fisiche o stato di gravidanza. Contrariamente all’approccio proattivo della normativa in materia di pari opportunità lavorative, le azioni positive sono un intervento consapevole del management il cui scopo è correggere un disequilibrio, un’ingiustizia, un errore o una discriminazione verificatisi in passato. Le azioni positive non legittimano le quote: queste possono solo essere imposte dalla legge o costituire una libera scelta organizzativa. In Italia sono state introdotte dalla legge 20 del 12 luglio 2011 e prevedono una quota crescente di donne negli organi di amministrazione e controllo. La legge cesserà di esistere nel 2022, una volta raggiunto lo scopo per cui è stata istituita. È inoltre importante notare che in nessuna circostanza le azioni positive richiedono alle aziende di assumere personale non qualificato o non adeguato alle posizioni. Anche se le azioni positive hanno creato buone opportunità per le donne e le minoranze, esse non sempre promuovono il substrato culturale necessario per gestire effettivamente la diversità. Alcune ricerche condotte negli Stati Uniti hanno messo in luce come nel senso comune si possa intravedere nelle azioni positive una “discriminazione contraria”, ad esempio se il supporto è fornito alle donne, verso gli uomini della stessa organizzazione. Si è, inoltre, scoperto che le azioni positive possono anche influenzare negativamente le donne e le minoranze che dovrebbero esserne tutelate: la ricerca ha dimostrato che le persone oggetto delle azioni positive si sono sentite stigmatizzate dal gruppo di appartenenza come se avessero raggiunto la posizione senza la qualifica o la competenza

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necessaria. In questa situazione esse hanno avuto una minore soddisfazione lavorativa e hanno sperimentato uno stress maggiore rispetto ai dipendenti selezionati esclusivamente sulla base del merito.4 In un altro studio si è messo in luce come le conseguenze negative per le donne fossero minori nel momento in cui il criterio del merito veniva incluso nelle decisioni di assunzione. In altre parole, le donne assunte sotto programmi di azioni positive si sono sentite meglio con loro stesse e hanno mostrato una performance più alta se convinte di essere state assunte per la loro competenza piuttosto che per il genere a cui appartengono.5 Gestione della diversità: cambiamento organizzativo che permette a ciascuna persona di esprimersi al massimo del proprio potenziale

Gestire la diversità La gestione della diversità implica mettere le persone nelle condizioni di fornire prestazioni pienamente adeguate al loro potenziale. Questa strategia si realizza intervenendo sulla cultura e le infrastrutture organizzative con l’obiettivo di mettere le persone in condizione di ottenere la maggior produttività possibile. Sodexo, operante nel settore della ristorazione con 380.000 dipendenti in 80 paesi, è un buon esempio di azienda che gestisce efficacemente le diversità: nel 2010 DiversityInc l’ha designata migliore azienda nella gestione della diversità sulla base di un sondaggio annuale articolato in 200 domande e condotto su 449 aziende.6 Ann Morrison, un’esperta del tema, ha condotto uno studio su 16 organizzazioni che hanno gestito con successo la diversità. I risultati della ricerca hanno messo in luce che le tre strategie chiave per il successo sono l’educazione e la formazione, il rinforzo di comportamenti desiderabili e l’opportunità per le persone di vivere esperienze diversificate. Queste strategie possono essere così descritte: La componente educativa della strategia ha due obiettivi: il primo è di preparare manager innovativi per incarichi che comportano responsabilità maggiori, il secondo è di aiutare i manager tradizionali a superare i loro pregiudizi nel pensare e nell’interagire con persone di sesso o etnia diversa. Il rinforzo di comportamenti desiderabili mette in evidenza l’importanza di obiettivi riguardanti la diversità e incoraggia il comportamento conseguente. La terza componente, l’opportunità di vivere esperienze diversificate, consente di elaborare strategie personali di gestione delle diversità aiutando i manager a conoscere e rispettare le peculiarità di ciascuno.7

Riassumendo, sia i consulenti che gli accademici sono d’accordo nel ritenere migliore la strategia organizzativa di gestione delle diversità piuttosto che la semplice valorizzazione o l’utilizzo delle azioni positive.

Gli argomenti a favore della gestione della diversità Le motivazioni che conducono alla scelta manageriale di gestione della diversità vanno al di là di quelle legali, sociali e morali. A queste importanti ragioni va aggiunta quella di natura economica, in quanto è stato dimostrato che le aziende che dimostrano una buona gestione della diversità hanno anche migliori risultati economici. Ne sono testimonianza le parole di William Weldon, Presidente e CEO di Johnson & Johnson:

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La diversità e l’inclusione sono parte della struttura delle nostra attività e sono essenziali per il nostro successo in tutto il mondo. I principi della diversità e dell’inclusione sono radicati nel Credo [i valori aziendali] e accrescono le nostre capacità di fornire prodotti e servizi per la salute e il benessere delle persone in tutto il mondo. Non possiamo permetterci di abbassare la guardia su questi temi critici in nessuna congiuntura economica.8

Molte aziende approvano e sposano questo punto di vista e la ricerca conferma la logica vincente di questa strategia: per esempio, uno studio condotto su 207 imprese operanti in 11 settori ha dimostrato che le performance finanziarie sono migliori quando il team di top management è eterogeneo e si trova nella stessa sede.9 Per raggiungere questo obiettivo è necessario che i collaboratori siano messi in condizione di utilizzare tutti i propri talenti, nonché la motivazione e l’impegno, e per fare ciò è essenziale creare un ambiente o una cultura che permetta a tutti di raggiungere la pienezza del loro potenziale. Si affronteranno ora le motivazioni che sorreggono la gestione della diversità; in seguito si passeranno in rassegna le implicazioni manageriali.

L’aumento della diversità nella forza lavoro Andamenti demografici: profilo statistico della popolazione adulta attiva

Soffitto di vetro: barriera invisibile che impedisce a donne e minoranze di accedere a posizioni manageriali di alto livello

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La comprensione degli andamenti demografici, ovvero i dati relativi alle caratteristiche e alla composizione della popolazione adulta attiva, è un aiuto indispensabile per costruire una politica di gestione delle risorse umane; essa permette ai manager di anticipare problemi relativi alla carenza o sovrabbondanza di determinate figure professionali. In Italia, per dare un’idea del fenomeno di invecchiamento a cui siamo sottoposti, la percentuale di persone oltre i 60 anni è passata dal 13,1% nel 1958 al 19,8% nel 1988, con una previsione del 28,9% nel 2018. Questi dati dimostrano che i manager del futuro dovranno porre particolare attenzione al tema dell’età, sia per la diversificazione generazionale presente nel contesto lavorativo, ma anche per l’allungamento progressivo dell’età della pensione. Si dovranno trovare strategie di motivazione di persone senior e modalità di convivenza tra molto giovani e persone mature. Questa sezione esplora le implicazioni manageriali di quattro caratteristiche della forza lavoro legate alla gestione della diversità: (1) l’introduzione della metafora del labirinto oltre a quella del soffitto di vetro per il personale femminile, (2) la percezione di discriminazione nei gruppi razziali, (3) la mancata corrispondenza fra il livello di istruzione e le esigenze occupazionali e (4) l’invecchiamento della forza lavoro e le sue conseguenze. Oltre il soffitto di vetro, il labirinto Coniata nel 1986 dai giornalisti del Wall Street Journal Carol Hymowitz e Timothy Schellhardt, l’espressione glass ceiling, o soffitto di vetro, indicava le barriere e gli ostacoli che impedivano alle donne di conquistare posizioni di livello più elevato, relegandole in mansioni di più basso profilo, prive di responsabilità, visibilità e potere. Questa discrepanza è ben rappresentata ogni anno dalla ricerca prodotta dall’organizzazione indipendente World Economic Forum, denominata Gender Gap, che mette in luce le differenze di opportunità tra uomini e donne nei diversi

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paesi. Ricerche più puntuali, inoltre, hanno evidenziato quasi ovunque l’esistenza di un pay gap, ovvero di una differenza salariale tra i generi pur nelle stesse posizioni organizzative. Le possibili cause di queste differenze sono molteplici:10 • le donne subiscono pratiche discriminatorie; • le donne dedicano più tempo alla cura della casa e alla famiglia; • le donne incontrano più ostacoli lungo il cammino verso posizioni di leadership e comando (per esempio, stereotipi negativi); • le donne escono periodicamente dalla forza lavoro per maternità o esigenze familiari, accumulando così esperienze lavorative più discontinue; • le donne dispongono di meno capitale sociale e di una rete di relazioni personali meno ampia; • le organizzazioni richiedono orari di lavoro più lunghi, viaggi e trasferimenti, e tali richieste entrano in conflitto con il ruolo domestico di molte donne sposate. Nel 2004 Carol Hymowitz, che aveva coniato la metafora del soffitto di vetro, scrisse un articolo per il Wall Street Journal nel quale affermava che le donne avevano sfondato la barriera invisibile negli Stati Uniti. Ciò indusse le ricercatrici Alice Eagly e Linda Carli a condurre un’attenta indagine sulla vita organizzativa al femminile; i risultati vennero presentati nel libro Through the Labyrinth, pubblicato nel 2007. Alla luce delle analisi effettuate su dati longitudinali di vario tipo, le due autrici si dichiararono d’accordo con Hymowitz. L’aggiornamento dei dati riportati nel libro di Eagly e Carli ci ha consentito di rilevare i seguenti risultati: nel 2010, le donne che rivestivano la posizione di CEO (12 e 26 fra le società delle classifiche Fortune 500 e Fortune 1000, rispettivamente) e le donne impegnate in occupazioni manageriali e nelle professioni erano aumentate rispetto agli anni ’80 e ’90.11 Secondo le statistiche, inoltre, le donne hanno compiuto grandi passi in avanti in termini di (1) formazione, superando gli uomini nelle lauree di primo e secondo livello, titoli professionali e dottorati dal 2006 al 2010; (2) presenza nei consigli di amministrazione di società della classifica Fortune 500, con un incremento del 6,1% dal 1995 al 2010; (3) posizioni di leadership negli istituti di formazione (nel 2010, le donne rappresentavano il 18,7% dei direttori di istituti scolastici di grado superiore e il 29,9% dei membri del consiglio); (4) incarichi presso corti federali (nel 2010, il 22% dei giudici di corte distrettuale e il 28% dei giudici di tribunali di circuito erano donne).12 Le conclusioni di Alice Eagly e Linda Carli sono: Le donne hanno compiuto notevoli progressi, ma hanno di fronte a sé un lungo cammino da percorrere per conquistare una rappresentanza paritaria nelle posizioni di leadership […] Le statistiche testimoniano un considerevole mutamento sociale e dimostrano che i percorsi professionali delle donne sono diventati di gran lunga più gratificanti che in passato. Gli uomini continuano a detenere maggiore autorità e a ricevere stipendi più alti, ma le donne stanno guadagnando terreno. Dato che alcune donne sono riuscite a conquistare gran parte dei ruoli di leadership più elitari, le barriere assolute appartengono ormai al passato.13

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Secondo le due autrici, le donne non sono più vittime, ma seguono un percorso di carriera che somiglia ad attraversare un labirinto, “un percorso complesso con passaggi interconnessi nel quale è difficile trovare la strada.”14 Eagly e Carli hanno scelto la metafora del labirinto perché ritengono che per le donne (in particolare se sposate e con figli) la strada verso il successo sia segnata da deviazioni e ostacoli, anziché essere diritta e semplice. I manager e le organizzazioni dovrebbero pertanto sviluppare politiche, procedure e programmi mirati ad aiutare le donne a trovare il cammino nel labirinto delle carriere. La percezione di discriminazione nei gruppi razziali Se storicamente gli Stati Uniti sono sempre stati un paese “bianco e nero”, la variazione percentuale per razza della popolazione statunitense tra il 2000 e il 2050 dimostra che non è più così. Come illustra la figura 2-2, si prevede che tra il 2000 e il 2050 asiatici e ispanici andranno incontro alla crescita più rilevante: entro il 2050 la popolazione asiatica triplicherà, toccando i 33 milioni, mentre gli ispanici aumenteranno del 118% arrivando a 102,6 milioni, cioè Figura 2-2 Variazione percentuale per razza della popolazione statunitense Fonte: G.C. Armas, “Almost Half of US Likely to Be Minorities by 2050,” Arizona Republic, 18 marzo 2004, p. A5. US Census Bureau, Table 1a, “Projected Population of the US by Race and Hispanic Origin: 2000-2050,” www.census.gov/ipc/www/ usinterimproj/.

Bianchi

Afroamericani

Asiatici

Ispanici

35% 30% 25% 20% 15% 10% 5% 0%

0 2000-2010

2010-2020

2020-2030

2030-2040

2040-2050

209.2 mi 50.4 22.6 73.1

210.3 mi 55.9 28.0 87.6

210.3 mi 61.4 33.4 102. 6

Popolazione (in milioni) Bianchi Afroamericani Asiatici Ispanici

201.1 mi 40.5 14.2 47.8

Fonte: US Census Bureau

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205.9 mi 45.4 18.0 59.8

Associated Press

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il 25% della popolazione. Alla luce di questi dati, secondo il Census Bureau nel 2050 le cosiddette “minoranze” rappresenteranno circa il 55% della forza lavoro. Le ricerche mettono in luce come l’avanzamento di carriera delle minoranze sia più lento di quello dei bianchi. Inoltre il numero di discriminazioni legate alla razza ritenute ragionevolmente tali dalla Commissione per le Pari Opportunità Lavorative degli Stati Uniti è aumentato da 294 nel 1995 a 1.061 nel 2008. Infine le persone appartenenti alle minoranze tendono ad avere un reddito inferiore rispetto ai bianchi. In aggiunta molti studi dimostrano che le persone appartenenti alle minoranze fanno esperienza di maggiori discriminazioni percepite, stress causato da atteggiamenti razzisti e meno supporto psicologico rispetto ai bianchi.15 L’esempio degli Stati Uniti, che è terra di migrazioni e melting pot di lungo corso, è paradigmatico di una situazione che si estende in tutti i paesi industrializzati. In Italia mancano statistiche approfondite, ma – ad esempio – in una recente ricerca è stato messo in luce che la presenza di stranieri nei consigli di amministrazione è inferiore a quella, già molto bassa, delle donne. La mancata corrispondenza fra il livello di istruzione e le esigenze occupazionali Negli Stati uniti, approssimativamente il 28% della forza lavoro ha una laurea e i laureati percepiscono uno stipendio significativamente più alto rispetto ai lavoratori meno qualificati.16 Tre tendenze indicano tuttavia che esiste una mancata corrispondenza tra il livello di istruzione e le capacità e conoscenze richieste nel mondo del lavoro. In primo luogo, studi recenti mostrano che i laureati evidenziano lacune nelle capacità di lavoro in gruppo, pensiero critico e ragionamento analitico, pur essendo dotati di competenze tecniche e funzionali. In secondo luogo, si registra una carenza di laureati in settori tecnici legati alla scienza, alla matematica e all’ingegneria. In terzo luogo, le organizzazioni riscontrano che i diplomati al primo impiego non possiedono le competenze di base necessarie per fornire prestazioni efficaci. Quest’ultima tendenza è in parte causata dal fatto che negli Stati Uniti la percentuale di diplomati è solo del 75% e circa 32 milioni di adulti sono funzionalmente analfabeti.17 La questione chiave per le organizzazioni statunitensi e di ogni altro paese che puntano a competere in un’economia globalizzata è se la popolazione possieda o meno le capacità necessarie per stimolare la crescita economica. I risultati di uno studio commissionato dal National Center on Education and the Economy evidenziano che gli Stati Uniti stanno perdendo terreno sotto questo profilo. Le rilevazioni sono state sintetizzate in un libro intitolato Tough Choices or Tough Times: The Report of the New Commission on the Skills of the American Workforce e gli autori hanno presentato la seguente conclusione: Durante gran parte del XX secolo, gli Stati Uniti hanno potuto vantare la forza lavoro più istruita al mondo. Oggi non è più così: nel corso degli ultimi 30 anni, molti paesi ci hanno superato nella percentuale di nuovi entranti nella forza lavoro dotati dell’equivalente di un diploma di scuola secondaria e molti altri sono sul punto di farlo. Trenta anni fa, gli Stati Uniti potevano vantare il 30% della popolazione mondiale di studenti universitari. Oggi il dato è sceso al 14% e continua a diminuire. I giovani degli altri paesi ricevono più istruzione di maggiore qualità: studenti e giovani americani occupano le posizioni dalla metà al fondo delle classifiche in tutti

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e tre gli studi comparativi continuativi sulle competenze matematiche e scientifiche e l’alfabetizzazione generale nelle nazioni industriali avanzate. Mentre la nostra posizione relativa nelle classifiche mondiali dell’istruzione ha evidenziato un lento declino, la struttura dell’economia globale ha continuato a evolversi. Ogni giorno, una quota crescente di lavoro viene digitalizzata: da radiografie utilizzate a fini diagnostici, canzoni, film, progetti architettonici a documenti tecnici e romanzi, il lavoro viene salvato su un supporto e inviato istantaneamente tramite Internet a un destinatario vicino o lontano che può servirsene in una molteplicità di modi diversi. Proprio per questo, i datori di lavoro in tutto il mondo hanno accesso a una forza lavoro composta da persone che non devono spostarsi per appartenere a gruppi di lavoro realmente globali. Proprio per questo, un numero in rapida crescita di lavoratori americani dotati di competenze di ogni livello compete direttamente con i lavoratori di ogni paese del mondo.18

Queste conclusioni sottolineano che la mancata corrispondenza fra il livello di istruzione e le qualifiche professionali determina implicazioni nel breve e nel lungo periodo tanto per le organizzazioni quanto per i paesi. È molto probabile che le aziende americane ricorrano all’outsourcing di mansioni tecniche in paesi come l’India e la Cina, assumano più immigrati per le posizioni di primo impiego, investano maggiormente sulla formazione dei dipendenti e propongano ai lavoratori più competenti piani di pensionamento graduali per incoraggiarli a mantenere il posto di lavoro. L’invecchiamento della forza lavoro La popolazione e la forza lavoro americane stanno invecchiando, così come avviene in tutti i paesi del mondo, soprattutto di quello sviluppato. L’Italia, in particolare, è dopo il Giappone il paese più longevo del mondo. Secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2050 il 33% della popolazione dei paesi sviluppati avrà più di sessant’anni e un individuo su tre sarà in pensione. Alla luce di queste statistiche, alcuni esperti hanno affermato che le crisi finanziarie globali degli anni 2009-2010 “sono nulla rispetto ai costi di una popolazione globale che invecchia”.19 L’invecchiamento della popolazione statunitense evidenzia un potenziale divario tra le competenze possedute e le competenze richieste. Con il pensionamento dei cosiddetti baby-boomer (i 78 milioni di nati tra il 1946 e il 1964) la forza lavoro statunitense perderà le competenze, le conoscenze, l’esperienza e le reti di relazioni di oltre un quarto dell’intera popolazione. Con tutta probabilità, questo scenario determinerà una carenza di competenze in settori tecnici in rapida evoluzione; alcune aziende preveggenti hanno già attuato programmi mirati a risolvere il problema del trasferimento delle conoscenze. Oltre ad affrontare le sfide associate all’invecchiamento della forza lavoro, i manager sono chiamati a gestire efficacemente la compresenza di quattro generazioni di lavoratori, con le conseguenti differenze sul piano dei valori, degli approcci e dei comportamenti, cui nel 2020 circa si affiancherà una quinta generazione. La tabella 2-1 presenta un riepilogo delle differenze tra cinque gruppi generazionali comunemente denominati tradizionalisti, baby-boomer, generazione X, generazione Y e generazione 2020. Prima di passare e esaminarle, è importante sottolineare che queste etichette e distinzioni sono generalizzazioni cui ricorriamo per semplicità di analisi. Esistono sempre eccezioni alle caratteristiche presentate nella tabella e tutte le conclusioni vanno interpretate con cautela.20

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Come si può notare, gli appartenenti alla generazione Y rappresentano il gruppo più numeroso, seguiti dai baby-boomer. Si tratta di un dato importante perché molti membri della generazione Y sono gestiti da baby-boomer, che presentano un insieme di caratteristiche personali molto diverse. Le caratteristiche personali, che saranno approfondite nel Capitolo 5, sono attributi fisici e mentali costanti che costituiscono l’identità dell’individuo. Caratteristiche differenti possono causare contrasti tra le persone: per esempio, è probabile che la competitività e lo stacanovismo tipici dei baby-boomer entrino in conflitto con la prospettiva dei diritti acquisiti e dell’equilibrio tra vita privata e lavoro dei membri della generazione Y. Come si vedrà nella sezione seguente, per gestire efficacemente le diversità, sia i manager che i dipendenti dovranno essere sensibili alle differenze generazionali evidenziate nella tabella. Tabella 2-1 Le differenze generazionali

Periodo di nascita

Tradizionalisti

Baby-boomer

Generazione X

Generazione Y

Generazione 2020

1925–1945

1946–1964

1965–1979

1980–2001

2002–

Popolazione attuale 38,6 milioni

78,3 milioni

62 milioni

92 milioni

23 milioni

Eventi storici principali

Grande Depressione, Seconda guerra mondiale, Guerra di Corea, Guerra fredda, espansione delle periferie

Assassinio di John Kennedy, Robert Kennedy e Martin Luther King, Guerra del Vietnam, Watergate, emancipazione femminile, sparatoria della Kent State, allunaggio dell’Apollo 11

MTV, epidemia di AIDS, Guerra del golfo, caduta del Muro di Berlino, attentato terroristico di Oklahoma City, crollo del mercato azionario del 1987, scandalo ClintonLewinsky

Attacchi terroristici dell’11 settembre, Google, massacro della Columbine High School, scandalo Enron e altri scandali aziendali, guerra in Iraq e Afganistan, uragano Katrina, crisi finanziaria del 2008, disoccupazione elevata

Social media, elezione di Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti, crisi finanziaria del 2008, disoccupazione elevata

Caratteristiche generali

Patriottismo, lealtà, disciplina, conformismo, solida etica del lavoro, rispetto per l’autorità

Stacanovismo, idealismo, etica del lavoro, competitività, materialismo, ricerca di gratificazioni personali

Autonomia, equilibrio vita privata/carriera, elasticità, cinismo, sfiducia verso le autorità, indipendenza, competenza tecnologica

Diritti acquisiti, coscienza civile, forte coinvolgimento nei rapporti genitori/ figli, alfabetizzazione digitale, apprezzamento della diversità, capacità di multitasking, equilibrio vita privata/carriera, competenza tecnologica

Capacità di multitasking, vita online, alfabetizzazione digitale, comunicazione rapida e virtuale

Invenzione simbolo

Fax

Computer

Telefono cellulare

Google e Facebook

Social media e applicazioni per smartphone

Fonte: Adattato da J.C. Meister e K. Willyerd, The 2020 Workplace (New York: Harper Collins, 2010), pp. 54-55; e R. Alsop, The Trophy Kids Grow Up (San Francisco: Jossey-Bass, 2008) p. 5.

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Concludiamo la nostra analisi delle differenze generazionali illustrando i risultati di due recenti meta-analisi. Nel primo studio, i ricercatori hanno indagato la relazione tra l’età e alcuni aspetti della prestazione lavorativa quali creatività, orientamento all’apprendimento, collaborazione, aggressività, insofferenza verso orari rigidi e assenteismo. Secondo i risultati, i lavoratori più anziani mostravano un comportamento più collaborativo e attento alla sicurezza, meno aggressività, abitudine al ritardo e assenteismo. È emerso che l’età è prevalentemente slegata da produttività, creatività e orientamento all’apprendimento.21 La seconda meta-analisi riassume le ricerche condotte in oltre 800 studi e ha evidenziato che l’età è positivamente legata alle attitudini rispetto ai compiti, ai colleghi, ai supervisori e all’organizzazione nel suo insieme.22 Questi dati suggeriscono che i dipendenti più anziani possono apportare ancora un prezioso contributo nelle organizzazioni.

Le implicazioni manageriali della diversità Per attrarre e trattenere le persone migliori, le aziende si devono attrezzare con politiche e programmi che soddisfino i bisogni di tutti. Questi programmi hanno l’obiettivo di rendere i consapevoli i manager degli stereotipi in agguato nella loro attività, e cercano di supportare le minoranze a trovare dei propri percorsi di sviluppo. Si tratta quindi di formazione, ma anche dell’offerta di servizi alla famiglia per aiutare nella gestione dei figli e nell’assistenza agli anziani. In molti casi si mettono in atto programmi di mentoring per le giovani donne o dedicati al trasferimento di conoscenze tra maturi e giovani in ingresso. Gestire la diversità di genere Sono necessarie misure specifiche per aiutare le donne ad attraversare il labirinto del successo professionale. Le organizzazioni possono contribuire assegnando incarichi di sviluppo che le preparino per future opportunità di promozione.23 Le donne possono perseguire i propri obiettivi di carriera seguendo sette consigli proposti da Alice Eagly e Linda Carli, le autrici del libro Through the Labyrinth.24 Primo, concentrarsi sull’acquisizione di ottime competenze e cercare mentori e sponsor (approfondiremo il tema del mentoring nel Capitolo 3); le ricerche dimostrano che gli uomini ottengono promozioni più di frequente rispetto alle donne perché hanno più probabilità di essere sponsorizzati dai superiori e da mentori informali.25 Secondo, creare relazioni per costruire il capitale sociale; come si è visto nel Capitolo 1, il capitale sociale rappresenta l’insieme delle relazioni professionali e personali dell’individuo. Terzo, cercare un equilibrio tra lavoro e vita privata delegando le mansioni domestiche e facendosi aiutare. Quarto, migliorare le capacità di negoziazione. Quinto, prendersi i propri meriti per i successi ottenuti, esattamente come gli uomini. Sesto, impegnarsi per instaurare un rapporto basato sul sostegno reciproco con il partner: alcune interviste con executive donne indicano che un partner collaborativo è un fattore essenziale per il successo nella carriera. Infine, sviluppare uno stile interpersonale che associ la risolutezza allo spirito di collaborazione.

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Gestire la diversità razziale Le organizzazioni sono chiamate a educare i dipendenti sugli stereotipi negativi riguardanti le diverse etnie soprattutto nella fase di selezione e nomina dei leader. Gli stereotipi negativi non solo impediscono a individui qualificati di ottenere avanzamenti di carriera, ma possono minare la loro fiducia nelle proprie capacità di leadership.26 David Thomas, un ricercatore dell’Università di Harvard, ha condotto uno studio triennale sulle pratiche di mentoring presso tre aziende statunitensi, una manifatturiera, una di elettronica e una di alta tecnologia. I risultati hanno messo in luce che le persone di colore di successo che avanzavano maggiormente nella carriera possedevano una rete di mentori e sponsor i quali consolidavano il loro sviluppo professionale. I risultati hanno inoltre dimostrato che le persone di colore dovrebbero essere affiancate in modo differente rispetto alle persone di razza bianca. L’autore ha raccomandato alle organizzazioni di provvedere una gamma di percorsi di carriera, non correlati alla razza, che conducano alle posizioni dirigenziali… Ottenere un tale sistema, comunque, richiede l’integrazione dei principi di pari opportunità, di sviluppo e di sostegno alla diversità nelle pratiche organizzative e nei sistemi operativi di gestione delle risorse umane. Un elemento importante del sistema dovrebbe essere l’identificazione di mentori potenziali, la loro formazione e il loro abbinamento con persone di colore ad alto potenziale.27

Gestire la diversità di istruzione Il divario tra le competenze necessarie alla imprese per raggiungere i propri risultati e la formazione scolastica sta crescendo. Questa tendenza determina due potenziali problemi per le organizzazioni. In primo luogo, si registrerà una carenza di lavoratori qualificati in ambito tecnico; per ovviare a questo problema, Lockheed Martin e Agilent Technologies offrono forme retribuite di apprendistato o tirocinio per attirare studenti di scuola superiore interessati alle scienze. Altre aziende come State Street, Fidelity e Cisco stanno invece tentando di colmare il divario tra le competenze possedute e le competenze richieste incoraggiando i dipendenti a prendere parte a progetti su base volontaria mirati a potenziare specifiche capacità.28 In secondo luogo, la sottoccupazione dei laureati minaccia di erodere la soddisfazione professionale e la motivazione. Poiché lavoratori con una solida preparazione di studi cercheranno impieghi commisurati alle loro qualificazioni e aspettative, l’assenteismo e il turnover sono destinati ad aumentare. Questo problema sottolinea il bisogno di una ridefinizione delle posizioni (si rimanda alla discussione di questo tema nel Capitolo 8). Inoltre le organizzazioni avranno la necessità di sviluppare programmi di previsione delle competenze realistici e di attuare rinforzi positivi (si rimanda al Capitolo 9) per ridurre l’assenteismo e il turnover del personale. Formazione on the job e interventi di alfabetizzazione saranno necessari per aiutare il crescente numero di coloro che abbandonano la scuola o sono analfabeti ad adeguarsi alle esigenze lavorative. Gestire la diversità generazionale Le organizzazioni possono trarre vantaggio dal capitale umano e sociale dei dipendenti più anziani implementando programmi che li incoraggino a continuare a lavorare e trasferire le proprie conoscenze agli altri. Per esempio, BMW ha riprogettato una linea di produzione presso uno stabilimento della bassa Baviera per aiutare i dipendenti più anziani a gestire più facilmente lavori pesanti

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dal punto di vista fisico e ridurre l’assenteismo: grazie a questi cambiamenti, la produttività è aumentata del 7% e l’assenteismo è diminuito.29 Affinché questa strategia funzioni, però, le organizzazioni dovranno incoraggiare i baby-boomer a rimanere nella forza lavoro anziché andare in pensione. Le sette iniziative seguenti possono contribuire a mantenere il coinvolgimento e l’impegno dei lavoratori più maturi.30 1. Assegnare incarichi sfidanti che possono fare la differenza per l’organizzazione. 2. Concedere ampia autonomia e libertà di azione nel completamento di un incarico. 3. Offrire pari accesso alla formazione e alle opportunità di apprendimento legate alle nuove tecnologie. 4. Offrire frequenti riconoscimenti per le capacità e l’esperienza acquisite nel corso degli anni. 5. Offrire opportunità di mentoring mediante le quali i lavoratori più anziani possono trasmettere le proprie conoscenze ai più giovani. 6. Assicurarsi che la supervisione sia rispettosa e di alta qualità. 7. Progettare un ambiente di lavoro stimolante e divertente. Poiché le differenze generazionali illustrate nella tabella 2-1 possono incidere sulla motivazione e la produttività dei collaboratori, occorre offrire formazione mirata a favorire la collaborazione con colleghi diversi. Per esempio, da interviste approfondite con 50 lavoratori di età superiore ai 50 anni è emerso che gli intervistati si sentivano esclusi da reti di comunicazione importanti da parte dei lavoratori più giovani e percepivano un mancato apprezzamento delle proprie esperienze e capacità. Uno degli intervistati ha commentato: “durante gli interventi dei colleghi più anziani in occasione delle riunioni, i più giovani sbadigliavano, evitavano di guardare chi aveva preso la parola, scarabocchiavano sui fogli e inviavano SMS sotto la scrivania”.31 Al contrario, alcuni lavoratori appartenenti alla generazione Y ritengono che i babyboomer vogliano ottenere riconoscimenti per la quantità di tempo che dedicano al lavoro anziché per la produttività. I membri della generazione X si sentono invece “intrappolati nel mezzo”. Michael, per esempio, afferma: “Gli executive della mia azienda hanno dagli 8 ai 12 anni più di me e non pensano di andare in pensione nel prossimo futuro. Mi sento bloccato nella mia posizione attuale e mi sono messo alle ricerca di altre opportunità di lavoro perché non ripongo molta fiducia nelle grandi aziende.”32 Come è evidente, le organizzazioni devono trovare le strategie per motivare e trattenere i membri delle generazione X, che potrebbero sentirsi intrappolati nelle gerarchie. I manager che appartengono alle generazioni dei tradizionalisti e dei baby-boomer sono chiamati a esaminare il proprio approccio alla gestione dei dipendenti delle generazioni X e Y, dotati di una solida competenza tecnologica. Per esempio, molto probabilmente questi lavoratori hanno l’abitudine di visitare i siti di social networking durante l’orario di lavoro in una sorta di “pausa caffè virtuale”; manager tradizionalisti e baby-boomer con tutta probabilità giudicano questa attività uno spreco di tempo e potrebbero attuare politiche mirate a impedirla. Secondo gli esperti, limitare l’accesso ai social network non è una strategia efficace nel lungo periodo se si vogliono motivare i lavoratori più giovani.33

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Infine, la potenziale futura carenza di lavoratori qualificati sottolinea la necessità per le aziende di reclutare individui appartenenti alla generazione Y: questi non solo rappresentano il gruppo più numeroso all’interno della forza lavoro (si rimanda alla tabella 2-1), ma possiedono le caratteristiche e le capacità necessarie in un’economia sempre più avanzata sul piano tecnologico. Le organizzazioni stanno affrontando la questione tentando di creare ambienti di lavoro che soddisfino i bisogni di questo gruppo. Per esempio, Growth Works Capital, Ernst & Young, Philip Morris USA, IBM e Bearing Point hanno promosso nuovi programmi di riconoscimento e interventi di progettazione delle mansioni mirati ad attirare e trattenere i lavoratori della generazione Y. Analogamente, Unilever ha creato la posizione di “architetto della consumerizzazione” per facilitare l’uso di tecnologie molto diffuse dopo aver appurato che i dipendenti della generazione Y erano insoddisfatti rispetto all’impiego delle nuove tecnologie in azienda.34

Effetti positivi e negativi della diversità negli ambienti di lavoro All’inizio di questo capitolo, abbiamo affermato che la gestione efficace delle diversità non è solo finalizzata ad attirare e trattenere i collaboratori migliori, ma incide anche sui risultati economici. Per quanto sia semplice trovare testimonianze di manager e casi reali di aziende a supporto di questa affermazione, occorre esaminarne la validità alla luce dei dati forniti dalla ricerca nell’ambito del comportamento organizzativo. Come vedremo a breve, le ricerche dimostrano che le diversità possono determinare effetti sia positivi che negativi sui risultati aziendali. Questa apparente contraddizione è generata dalle modalità di gestione organizzativa di due problematiche che esamineremo di seguito: quella della categorizzazione, o in group, e quella delle modalità di decisione all’interno di un’organizzazione. Teoria della categorizzazione sociale: l’affinità determina simpatia e attrazione

La teoria della categorizzazione sociale La teoria della categorizzazione sociale è stata definita nel modo seguente: Secondo la prospettiva della categorizzazione sociale, affinità e differenze rappresentano la base per la categorizzazione di sé e degli altri all’interno di gruppi, con la conseguente distinzione tra gruppo di appartenenza e uno o più gruppi di non appartenenza. Gli individui tendono a sviluppare empatia e fiducia verso i membri del gruppo di appartenenza, per i quali generalmente manifestano una preferenza rispetto ai membri dei gruppi di non appartenenza […] I membri di un gruppo di lavoro dimostrano attitudini più positive nei confronti del proprio gruppo e delle persone che ne fanno parte quando questi sono simili a loro, anziché diversi.35

Secondo la teoria della categorizzazione sociale, quindi, l’affinità determina simpatia e attrazione e favorisce una molteplicità di risultati positivi. Stando a questo approccio, maggiore è l’omogeneità all’interno di un gruppo di lavoro, maggiori saranno l’impegno dei membri e la coesione, minori i conflitti interpersonali. Un ampio corpus di ricerche conferma le considerazioni derivanti dal modello della categorizzazione sociale.36

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Secondo alcune ricerche, gli individui che si differenziavano per origine etnica o razziale dalle proprie unità di lavoro erano meno coinvolti psicologicamente nei confronti dell’organizzazione e meno soddisfatti della propria carriera.37 Altri studi hanno evidenziato che la diversità demografica è associata a una minore collaborazione tra i membri di un team e a impressioni più negative nei confronti delle persone con caratteristiche demografiche diverse.38 Infine, studi recenti hanno dimostrato che la diversità demografica è associata a livelli più alti di depressione, turnover e devianza (comportamenti che violano le norme e minacciano il benessere dell’organizzazione) dei dipendenti, e a profitti più bassi.39 In sintesi, secondo il modello della categorizzazione sociale l’omogeneità va preferita alla diversità per i suoi effetti sull’atteggiamento, il comportamento e le prestazioni in ambito lavorativo.

Teoria dell’informazione e del processo decisionale: la diversità conduce a processi e decisioni migliori

La teoria dell’informazione e del processo decisionale Il secondo approccio teorico, denominato teoria dell’informazione e del processo decisionale, trae le conclusioni contrarie suggerendo che i gruppi eterogenei evidenzino prestazioni migliori rispetto ai gruppi omogenei. La logica alla base di questa teoria è stata descritta come segue: I gruppi eterogenei hanno maggiori probabilità di possedere un ventaglio più ampio di conoscenze, capacità diverse e non ripetitive, e di contare su opinioni e prospettive diverse sul compito da svolgere. Questo non solo conferisce ai gruppi diversificati un insieme più ampio di risorse, ma potrebbe determinare anche altri effetti positivi.40

Questo approccio sottolinea tre effetti positivi della diversità all’interno dei gruppi di lavoro.41 In primo luogo, si ipotizza che i gruppi eterogenei siano in grado di gestire più efficacemente le prime fasi del problem solving perché esistono maggiori probabilità che attingano a esperienze diverse per ottenere una visione più globale di un problema. Per esempio, la diversità di genere e di appartenenza etnica può consentire ai gruppi di lavoro di comprendere meglio i bisogni e le prospettive di una base di clienti multiculturale. In secondo luogo, la diversità di prospettive può essere d’aiuto nella fase di brainstorming e ricerca di soluzioni innovative ai problemi. Infine, la diversità può contribuire ad accrescere i contatti di un gruppo o di un’unità di lavoro: l’ampiezza della rete consente di accedere a informazioni e competenze nuove, motivando le decisioni meglio che nei gruppi omogenei. I risultati delle ricerche confermano la validità di questo approccio. È stato riscontrato che le prestazioni dei team sono positivamente legate alla diversità di genere, etnia, età e formazione.42 Inoltre, si è notato che i gruppi eterogenei prendono decisioni migliori ed evidenziano una produttività più alta rispetto ai gruppi omogenei.43 Ricerche preliminari supportano l’idea che la diversità della forza lavoro promuova la creatività e l’innovazione; questo avviene attraverso la condivisione di idee e prospettive diverse. Rosabeth Moss-Kanter, esperta di management, è stata una delle prime ad analizzare questa relazione. I suoi risultati hanno indicato che le società innovative utilizzano in modo deliberato gruppi eterogenei per risolvere i problemi e impiegano più donne e persone di colore rispetto ad aziende meno innovative. Ha inoltre notato che le aziende innovative hanno migliori risultati nell’eliminare il razzismo, il sessismo e il classismo.44 Una recente rassegna delle ricerche sulla diversità negli ultimi quarant’anni ha supportato la conclusione raggiunta da Moss-

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Kanter rispetto al fatto che la diversità promuove la creatività e migliora il processo decisionale di gruppo.45

Faglia demografica: barriera ipotetica che divide un gruppo in sottogruppi sulla base di attributi demografici

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Conciliare gli effetti contrastanti di ambienti di lavoro diversificati L’esame della teoria della categorizzazione sociale e di quella dell’informazione e del processo decisionale ha mostrato che le diversità determinano effetti positivi ed effetti negativi. Il modello in figura 2-3 presenta una sintesi sottolineando tali effetti. In linea con la teoria della categorizzazione sociale, esiste una relazione negativa tra la diversità all’interno di un gruppo di lavoro e la qualità dei processi interpersonali e delle dinamiche di gruppo (percorso A), che determina esiti negativi perché la qualità dei processi interpersonali e delle dinamiche di gruppo è legata positivamente ai risultati (percorso C). Per esempio, le diversità di genere e di razza in un gruppo di lavoro favoriscono il conflitto interpersonale, che a sua volta determina minore soddisfazione lavorativa, turnover più alto e produttività più bassa. Ricerche recenti dimostrano che questa relazione negativa è più accentuata quando all’interno dei gruppi esistono faglie demografiche significative.46 Per faglia demografica si intende “una barriera ipotetica che divide il gruppo in sottogruppi sulla base di uno o più attributi”.47 Le faglie emergono quando i membri di un gruppo di lavoro possiedono caratteristiche demografiche diverse (per esempio genere, età, etnia) e il raggruppamento degli individui secondo faglie o caratteristiche demografiche salienti può generare processi interpersonali negativi. Al contrario, le ricerche riguardanti la teoria dell’informazione e del processo decisionale evidenziano che la diversità all’interno di un gruppo è associata positivamente ai processi importanti per il compito e al processo decisionale (percorso B), favorendo esiti positivi (percorso D). Secondo questo approccio, la diversità di genere e la diversità razziale determinano risultati positivi perché migliorano i processi legati al compito e la fase decisionale. Due studi hanno dimostrato che gli effetti positivi della diversità sono amplificati quando i gruppi di lavoro sono dotati di ampie vedute, più pronti al confronto e alla condivisione di informazioni e mostrano un comportamento più integrativo.48 Poiché la diversità all’interno dei gruppi di lavoro è associata a effetti positivi e negativi, dobbiamo considerare in che modo il management può ridurre i potenziali effetti negativi. Anzitutto, le organizzazioni possono ricorrere alla formazione per attenuare gli effetti della relazione negativa tra le diversità e i processi interpersonali e le dinamiche di gruppo (percorso A). Per esempio, la formazione può aiutare i dipendenti a comprendere le differenze demografiche e a sviluppare capacità interpersonali che favoriscono un comportamento di integrazione e collaborazione.49 Le attività di formazione possono vertere sulla gestione del conflitto, l’influenza interpersonale, il feedback, la comunicazione e la valorizzazione delle differenze. In secondo luogo, i manager possono cercare strategie per aiutare i dipendenti ad allentare le tensioni causate dal lavoro in gruppi eterogenei, per esempio creando gruppi di supporto. Infine, si possono adottare misure volte a ridurre gli effetti negativi degli stereotipi inconsci (che approfondiremo nel Capitolo 7) e ad accrescere il ricorso a obiettivi di gruppo nei team eterogenei. Offrire riconoscimenti per il raggiungimento di obiettivi di gruppo può incoraggiare i membri a concentrarsi sugli obiettivi comuni anziché sulle faglie demografiche, che non hanno nulla a che vedere con la prestazione.

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Figura 2-3 Un modello di processo della diversità

Un modello di processo della diversità

Dimensioni della diversità

Risultati

)

Livello manifesto • Età • Genere • Abilità fisiche • Etnia • Razza Livello profondo • Valori • Atteggiamenti • Credenze • Personalità

– (A

Processi interpersonali e dinamiche di gruppo

+(B

+(C

)

)

+(D

)

Atteggiamenti nell’ambiente di lavoro Comportamenti nell’ambiente di lavoro Prestazioni

Processo decisionale

Le barriere e le sfide alla gestione della diversità All’inizio di questo capitolo abbiamo notato come la diversità sia un argomento delicato, difficile e qualche volta scomodo; quindi non sorprende che le organizzazioni incontrino barriere significative nel momento in cui tentano di realizzare la gestione della diversità. L’elenco seguente presenta le barriere più comuni all’efficace implementazione di programmi per la gestione della diversità:50

Clima legato alla diversità: insieme delle percezioni relative alle caratteristiche formali e ai valori di un’organizzazione riguardanti la diversità

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1. Stereotipi e pregiudizi. Questa barriera si manifesta nella convinzione che le differenze siano un elemento di debolezza; ne deriva il timore che una maggior diversità nelle assunzioni significhi sacrificare la competenza e l’efficienza. 2. Etnocentrismo. La barriera dell’etnocentrismo consiste nel ritenere superiori o più appropriate le regole e le norme di una cultura (generalmente la propria) rispetto a quelle di un’altra. Questa barriera sarà discussa in modo dettagliato nel Capitolo 4. 3. Scarsa attenzione allo sviluppo delle carriere. Questa barriera è legata alla mancanza di opportunità per i collaboratori con alcune caratteristiche di diversità, che non si vedono assegnare compiti lavorativi che li qualificherebbero per posizione più elevate. 4. Clima impermeabile alla diversità. Per “clima” si intende l’insieme di percezioni e adesione individuale e collettiva del personale rispetto alle politiche, prassi e procedure organizzative formali e informali. Il clima legato alla diversità è una componente del clima organizzativo e si definisce come l’insieme delle “percezioni relative alle

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caratteristiche strutturali formali e ai valori informali dell’organizzazione riguardanti le diversità”51 riportate dai collaboratori. Il clima viene considerato positivo quando le persone riferiscono un trattamento equo nei confronti di tutti; il concetto di equità organizzativa sarà esaminato nel Capitolo 8. Recenti ricerche hanno dimostrato che un clima legato alle diversità positivo amplifica gli effetti benefici delle diversità, mentre un clima negativo li riduce.52 5. Ambiente di lavoro intollerante e ostile. Episodi di molestie sessuali e discriminazioni razziali o per età sono esempi comuni di un ambiente di lavoro ostile. Che siano le donne, gli uomini, gli individui più anziani o quelli con determinati orientamenti sessuali a subirne le conseguenze, gli ambienti di lavoro ostili sono avvilenti, non etici e si definiscono, giustamente, “inquinati”. È difficile che le persone lavorino al massimo delle proprie potenzialità quando si trovano in un ambiente ostile. È importante ricordare che l’ostilità è percettiva, quindi individui diversi riportano percezioni diverse di ciò che è “ostile”. Il processo di percezione sarà approfondito nel Capitolo 7. Occorre tenere presente che le molestie possono avvenire tramite email, SMS e social media. Uno studio recente su 220 dipendenti ha mostrato che i primi episodi di molestie sono avvenuti tramite email o telefono.53 I manager dovrebbero gestire questi casi esattamente come tutti gli altri tipi di molestie. 6. Mancanza di sagacia politica. I dipendenti diversi possono non essere promossi perché non conoscono le “regole del gioco” per muoversi in un’organizzazione. La ricerca rivela che le donne e le persone di colore sono spesso escluse dalle reti informali dell’organizzazione.54 7. Difficoltà nel bilanciare carriera e impegni familiari. Le donne assumono ancora la maggior parte delle responsabilità associate all’allevamento dei figli; questo rende più difficile a una donna lavorare la sera e il fine settimana o viaggiare frequentemente. Anche senza prendere in considerazione i figli, la gestione della casa in genere pesa maggiormente sulla donna. 8. Paura di “discriminazioni alla rovescia”. Alcuni dipendenti credono che la gestione della diversità si traduca in una forma di discriminazione alla rovescia. Questa opinione porta a una resistenza molto tenace, perché si è convinti che il guadagno di qualcuno si tradurrà in una perdita per qualcun altro. 9. Bassa priorità organizzativa. Questo elemento conduce a una resistenza insidiosa, che si manifesta sotto forma di rimostranze e atteggiamenti negativi. I collaboratori possono lamentarsi del tempo, dell’energia e delle risorse indirizzate alla diversità, mentre avrebbero potuto essere spese svolgendo il “vero lavoro”. 10. Necessità di ridefinire i sistemi organizzativi di valutazione e ricompensa. Questi sistemi devono rinforzare il bisogno di gestire efficacemente la diversità; ciò significa che la performance deve essere misurata in base a una nuova gamma di criteri. Alcuni probabilmente resisteranno a cambiamenti che possono avere effetti negativi sulle loro promozioni o ricompense. Per esempio, General Electric valuta la misura in cui i manager adottano un comportamento inclusivo nei confronti dei dipendenti dotati di un background diverso e ne tiene conto al momento di prendere decisioni sullo stipendio e la promozione.55

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11. Resistenza al cambiamento. Una diversità efficacemente gestita implica un significativo cambiamento organizzativo e personale. Come verrà discusso nel Capitolo 17, le persone per svariate ragioni tendono a resistere al cambiamento. In conclusione, la gestione della diversità è una componente critica del successo organizzativo.

Pratiche organizzative per la gestione della diversità Cosa fanno dunque le organizzazioni per gestire efficacemente la diversità? Per rispondere a questa domanda è necessario fornire un quadro teorico per categorizzare le iniziative organizzative. Ne sono stati sviluppati alcuni rilevanti, da ricercatori e professionisti. Uno, in particolare, è stato proposto da R. Roosevelt Thomas, Jr, un esperto di diversità, che ha identificato otto possibilità d’azione che possono essere usate per affrontare i problemi della diversità. La presente sezione ripercorre il quadro teorico sviluppato da Thomas per fornire una comprensione al tempo stesso ampia e specifica sull’efficace gestione della diversità. Thomas ha identificato otto risposte base per gestire la diversità. Dopo aver descritto ciascuna opzione di azione, discuteremo le reciproche relazioni.56 Opzione 1: includere/escludere Questa scelta è una derivazione dei programmi di azioni positive. Il suo scopo primario è incrementare o diminuire il numero di persone diverse a ogni livello dell’organizzazione. La catena di ristoranti Shoney fornisce l’esempio di un’azienda che ha tentato di includere i dipendenti diversi dopo una causa per discriminazione: l’azienda ha assunto afroamericani in qualità di supervisori di sala e direttori di divisione, ha aumentato il numero di locali concessi in franchising ad afroamericani e ha acquistato più beni e servizi da aziende di proprietà delle minoranze.57 Opzione 2: negare Le persone che utilizzano questa opzione negano che le differenze esistano. La negazione si può manifestare proclamando che tutte le decisioni sono indipendenti dalla razza, dal genere e dall’età, e che il successo è determinato solamente dal merito e dalla performance. Si consideri per esempio la compagnia assicurativa State Farm. “Nonostante fosse tradizione per gli agenti uomini e i loro manager regionali assumere collaboratori maschi, la State Farm ha evitato il cambiamento e negato ogni comportamento discriminatorio durante un’azione legale durata nove anni, che alla fine la società ha perso”.58 Opzione 3: assimilare La premessa di questa opzione è che tutte le persone, per quanto diverse, impareranno ad adattarsi o a diventare come il gruppo dominante; sono necessari solo del tempo e opportune azioni di rinforzo affinché le persone “vedano la luce”. Le organizzazioni inizialmente assimilano i dipendenti attraverso le pratiche di selezione e l’utilizzo di programmi di orientamento, il cui scopo è fornire ai dipendenti i valori dall’organizzazione unitamente a una gamma di procedure operative standard. I dipendenti sono incoraggiati a riferirsi ai manuali, ai regolamenti e alle procedure se

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sono incerti sul comportamento da tenere in una situazione specifica. Queste pratiche creano omogeneità fra i collaboratori. Opzione 4: nascondere Quando si utilizza questo approccio le differenze sono represse o scoraggiate. Ciò si ottiene costringendo o incentivando le persone ad abbandonare le lamentele rispetto ai problemi della diversità. Il vecchio detto “pagare il dovuto” è un altro modo frequente per promuovere lo status quo. Opzione 5: isolare In questo caso le persone diverse vengono messe da parte, in modo da non causare un cambiamento organizzativo. I manager possono isolare le persone diverse assegnandole a progetti speciali; gruppi di lavoro o interi reparti possono essere isolati creando entità funzionalmente indipendenti, spesso chiamate “silos”. I dipendenti della Shoney Inc. hanno riferito a un giornalista del Wall Street Journal le pratiche di isolamento usate in passato dalla società: I manager bianchi hanno riferito di come il signor Danner [il presidente precedente] avesse detto loro di licenziare i neri nel caso in cui fossero diventati troppo numerosi nei ristoranti dei quartieri bianchi; se si fossero rifiutati, essi stessi avrebbero perso il lavoro. Alcuni hanno inoltre affermato che, quando si prevedeva la visita del signor Danner nei ristoranti, ai dipendenti neri veniva assegnato il giorno di riposo; in un caso sono stati nascosti nel bagno. Altri hanno detto che le domande di lavoro di persone di colore venivano sistematicamente scartate.59

Opzione 6: tollerare La tolleranza implica il riconoscimento delle differenze ma non la loro valorizzazione o accettazione. Rappresenta un approccio del tipo “vivi e lascia vivere” che permette alle organizzazioni di pagare un tributo formale alla gestione della diversità. La tolleranza è diversa dall’isolamento in quanto permette di includere le persone diverse; comunque le diversità non sono realmente valorizzate o accettate nel momento in cui un’organizzazione utilizza questa opzione. Opzione 7: costruire relazioni Questo approccio è basato sulla premessa che delle buone relazioni possono superare le differenze; affronta il tema della diversità incoraggiando relazioni di qualità, caratterizzate dall’accettazione e dalla comprensione, fra gruppi differenti. Opzione 8: promuovere l’adattamento reciproco In questo caso, le persone hanno la volontà di adattare o cambiare le loro prospettive allo scopo di creare relazioni positive con gli altri. Questo implica che i collaboratori e il management devono avere la volontà di accettare le differenze e, cosa più importante, concordare che tutto e tutti possono cambiare. Conclusioni Sebbene le opzioni d’azione possano essere usate singolarmente o in combinazione tra loro, alcune sono chiaramente meglio di altre. Escludere, negare, assimilare, nascondere, isolare e tollerare sono le opzioni meno auspicabili; includere, costruire relazioni e promuovere l’adattamento reciproco sono le strategie migliori. Ciò detto, Thomas ci ricorda comunque che l’adattamento reciproco è l’unica strategia che

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promuova integralmente la filosofia di gestione della diversità. In chiusura di questa discussione, è importante notare che la scelta di come gestire al meglio la diversità è un processo dinamico determinato dal contesto. Ad esempio, alcune organizzazioni non sono pronte per l’adattamento reciproco; il meglio che si possa sperare, in questi casi, è l’inclusione delle persone diverse.Tony Hsieh non si limita a spendere belle parole su quanto siano importanti i suoi dipendenti: ripone fiducia in loro, li ascolta e li responsabilizza. Non sorprende che nel 2011 Zappos.com abbia conquistato il sesto posto nella classifica della rivista Fortune delle migliori imprese in cui lavorare in America.2 Hsieh ha creato quella che Jeffrey Pfeffer della Stanford University definisce un’organizzazione “orientata alle persone”. Dai risultati delle ricerche condotte su aziende sia negli Stati Uniti sia in Germania emerge chiaramente una forte connessione fra l’adozione delle seguenti sette pratiche incentrate sulle persone, profitti molto più alti e un turnover dei dipendenti significativamente più basso.

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Vi piacerebbe lavorare per Southwest Airlines? La Cultura Southwest Airlines permea ogni aspetto della nostra azienda: ne è l’essenza, il DNA, il passato, il presente e il futuro. Riveste una tale importanza che vorrei poterla illustrare più dettagliatamente. Spesso affermiamo che le altre compagnie aeree possono copiare il nostro piano strategico dall’inizio alla fine, ma Southwest si distingue dalle copie grazie alle Persone. E sarei pronto a scommettere che se un altro vettore aereo riuscisse in qualche modo a reclutare tutti i nostri fantastici Dipendenti, non riuscirebbe comunque a eguagliarci. Per quali motivi? Il nuovo datore di lavoro non avrebbe la Cultura Southwest, l’ingrediente segreto, se vogliamo definirlo così, della nostra organizzazione. Per molti di noi, lavorare in Southwest non è solo una vocazione, è una missione. La Cultura non è imposta da me né dagli altri Dirigenti; deriva piuttosto dalla personalità collettiva dei nostri Dipendenti. Ci sono voluti oltre trent’anni solo per elaborare alcune definizioni sulle quali fossimo tutti d’accordo, ora illustrate in quello che chiamiamo “Lo stile di vita Southwest”. Questo credo si articola in tre valori: uno Spirito guerriero che premia il coraggio, l’impegno e l’aspirazione a essere i migliori; un Cuore da servitore, che segue la regola d’oro e considera essenziale il rispetto per gli altri e, infine, un Atteggiamento gioioso, che

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comprende il DIVERTIMENTO, ma anche la passione e la voglia di fare festa. A gennaio abbiamo celebrato il diciottesimo anniversario della fondazione del Comitato della cultura aziendale, che si impegna a tutelare la nostra Cultura nel presente e nel futuro. Il Comitato evidenzia che la Cultura Southwest vive in tutti i Dipendenti, a prescindere dal ruolo, riconoscendo al tempo stesso quanto possa essere fragile. Ho avuto modo di confrontarmi con alcuni dei nostri Dipendenti arrivati da compagnie aeree e società che in passato si distinguevano per una cultura solida. In molti casi mi hanno testimoniato che piccole trascuratezze possono distruggere la cultura molto rapidamente. Le loro esperienze confermano ciò che ho sempre creduto: le Parole vuote rappresentano un enorme pericolo. È facile decantare la Cultura in articoli come questo; molto più difficile è esserne all’altezza ogni giorno. È per questo che i membri del Comitato fungono da esempi per tutti i nostri Dipendenti e dimostrano che la Cultura viene dal cuore, non da comunicazioni di servizio. Come è facile immaginare, il compito loro affidato è difficile ma siamo fortunati a poter contare sull’impegno di questi Guerrieri della Cultura che combattono ogni giorno l’indifferenza e l’autocompiacimento. Grazie al loro aiuto, la nostra Cultura continua a volare alto.1

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Il mondo del comportamento organizzativo

Questo articolo mette in luce tre considerazioni essenziali sulla cultura organizzativa. In primo luogo, la cultura può incidere sulla motivazione, la soddisfazione e il turnover dei dipendenti. Southwest è in grado di minimizzare il turnover e mantenere un’elevata soddisfazione del lavoro mediante una cultura positiva e orientata ai collaboratori. In secondo luogo, la cultura organizzativa può essere una fonte di vantaggio competitivo, come conferma uno studio recente su 194 negozi di vendita al dettaglio e di servizi. Come nel caso di Southwest Airlines, i risultati hanno evidenziato performance di mercato migliori per le imprese con una cultura caratterizzata da pari attenzione ai dipendenti e ai clienti.2 Infine, il management può influenzare la cultura organizzativa: Southwest usa il comitato per la cultura come strumento per plasmare e rafforzare i valori scelti dal gruppo dirigente. Questo capitolo permette di capire meglio come i manager possano trasformare la cultura organizzativa in un vantaggio competitivo. Prima di tutto discuteremo il ruolo del contesto nell’influenzare la cultura organizzativa, quindi passeremo a esaminare (1) le dinamiche della cultura organizzativa, (2) il processo di cambiamento culturale, (3) il processo di socializzazione all’interno di un’organizzazione e infine (4) la trasmissione della cultura organizzativa mediante il mentoring.

La cultura organizzativa: definizione e contesto Cultura organizzativa: valori e convinzioni condivise che sono alla base dell’identità di un’organizzazione

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La cultura organizzativa è “l’insieme di idee condivise, implicite e assunte all’interno di un gruppo, che determina il modo in cui il gruppo percepisce, valuta e reagisce all’ambiente esterno”.3 Questa definizione mette in luce tre caratteristiche importanti della cultura organizzativa. Innanzitutto, si trasmette ai nuovi collaboratori attraverso la socializzazione, argomento che affronteremo più avanti in questo capitolo; in secondo luogo, influenza il comportamento sul lavoro; infine, opera a diversi livelli. La figura 3-1 mostra uno schema concettuale utile ad analizzare l’impatto esercitato dalla cultura organizzativa sul comportamento. Sono anche indicati i collegamenti tra questo capitolo – che tratta la cultura, la socializzazione e il mentoring – e gli altri argomenti chiave del libro. Osservando la figura si nota come la cultura organizzativa sia determinata da quattro componenti fondamentali: i valori dei fondatori, il settore, la cultura nazionale e infine la visione e il comportamento del gruppo dirigente. L’impatto della cultura nazionale sul comportamento organizzativo è analizzato nel dettaglio nel Capitolo 4. A sua volta, la cultura influenza il tipo di struttura organizzativa che un’azienda adotta e un vasto insieme di pratiche, politiche e procedure messe in atto per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi. Queste caratteristiche influenzano a loro volta molti processi sociali e di gruppo. E infine, questa sequenza si riflette negli atteggiamenti e nei comportamenti dei collaboratori e in diverse manifestazioni organizzative. Nel complesso, la figura 3-1 rivela che la cultura organizzativa è una variabile di contesto che influenza il comportamento dell’individuo, del gruppo e dell’organizzazione nel suo insieme. È proprio per questo motivo che abbiamo scelto di soffermarci sulla cultura organizzativa nella parte iniziale del libro.

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Cultura organizzativa, socializzazione e mentoring

Antecedenti

• Valori del fondatore • Caratteristiche del settore e ambiente economico • Cultura nazionale (Cap. 4) • Visione e comportamento del gruppo dirigente (Cap. 16)

Cultura organizzativa • Manifestazioni osservabili • Valori dichiarati • Assunti di base

Processi sociali e di gruppo

Strutture e pratiche organizzative • Sistemi premianti (Cap. 9)

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• Socializzazione • Mentoring • Processi decisionali (Cap. 12) • Dinamiche di gruppo (Cap. 10) • Comunicazione (Cap. 14) • Influenza e empowerment (Cap. 15) • Leadership (Cap. 16)

Atteggiamenti e comportamento collettivo • Atteggiamenti nei confronti del lavoro (Cap. 6) • Soddisfazione del lavoro (Cap. 6) • Motivatione (Cap. 8)

Conseguenze a livello organizzativo • Efficacia (Cap. 17) • Stress (Cap. 17)

Figura 3-1 Uno schema concettuale per comprendere la cultura organizzativa Fonte: da C. Ostroff, A. Kinicki, e M. Tamkins,”Organizational Culture and Climate,” Handbook of Psychology, vol 12, a cura di W.C. Burman, D.R. Ilgen e R.J. Klimoski, pp. 565-93. Copyright © 2003. Riprodotto su autorizzazione della John Wiley & Sons.

Dinamiche della cultura organizzativa Inizieremo questa sezione parlando dei diversi livelli della cultura organizzativa, per capire meglio in che modo essa si consolidi e come si rifletta nelle azioni delle persone. Poi passeremo in rassegna le quattro funzioni della cultura organizzativa, i tipi di cultura organizzativa e le conseguenze ad essa associate.

I livelli della cultura organizzativa La figura 3-1 illustra i tre livelli fondamentali della cultura organizzativa: manifestazioni osservabili, valori dichiarati e assunti di base. Ogni livello differisce dagli altri in termini di visibilità e di resistenza al cambiamento; ognuno, inoltre, influenza il livello sottostante. Manifestazioni osservabili La cultura organizzativa è rappresentata, nel suo livello più visibile, dalle manifestazioni osservabili. Tra gli esempi possibili troviamo gli acronimi, il modo di vestire, i premi, i miti e le storie che riguardano l’azienda, i parcheggi riservati, l’arredamento e così via. Per esempio, la catena di hotel Ritz-Carlton ricorre alla narrazione di storie per rafforzare una cultura incentrata sul superamento delle aspettative dei clienti. Durante riunioni settimanali si raccontano le “storie di successo” di collaboratori che vanno al di là dei propri doveri, come riferite dai clienti stessi. Ciascun vincitore – come per esempio un addetto alla lavanderia che ha rovistato in un

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Il mondo del comportamento organizzativo

cassonetto per l’immondizia per recuperare il peluche di una piccola ospite – riceve in premio 100 dollari.4 Questo livello include anche i comportamenti esibiti dalle singole persone o dai gruppi. I 16 membri del team di progettazione di Google, per esempio, partecipano ogni giorno a uno “stand-up meeting”: “Tutti coloro che lavorano a un progetto si riuniscono e ricevono un rapido aggiornamento stando in piedi, per fare in modo che nessuno si metta troppo comodo e non si perda tempo.”5 Gli “stand-up meeting” sono una manifestazione osservabile dell’obiettivo di Google di impegnarsi al massimo nel lavoro e portare a termine i compiti tempestivamente. Le manifestazioni osservabili sono molto più facili da cambiare rispetto ad aspetti meno evidenti della cultura organizzativa.

Valori: convinzioni durature sui modi di agire e sulle loro conseguenze Valori dichiarati: valori stabiliti e consuetudini che l’organizzazione privilegia

Sostenibilità: capacità di raggiungere i propri obiettivi senza danneggiare le generazioni future

Valori praticati: valori e consuetudini che sono messi in atto dai collaboratori

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Valori dichiarati È possibile descrivere i valori attraverso cinque caratteristiche fondamentali. “I valori (1) sono concetti o convinzioni, (2) si riferiscono a comportamenti e conseguenze desiderate, (3) non dipendono dalle situazioni, (4) guidano nella scelta e nella valutazione dei comportamenti e degli eventi, e infine (5) sono in ordine di importanza relativa”.6 È importante distinguere tra i valori dichiarati e i valori praticati. I valori dichiarati sono le consuetudini e i valori esplicitati che sono privilegiati all’interno dell’organizzazione. Sono generalmente stabiliti dal fondatore di un’azienda di nuova creazione o di piccole dimensioni oppure, nel caso di imprese più grandi, dal gruppo dirigente. È interessante notare che molte aziende stanno sposando il valore della sostenibilità. La sostenibilità rappresenta “la capacità di un’azienda di realizzare profitti senza sacrificare le risorse dei dipendenti, della comunità e del pianeta”.7 Alcuni ritengono che la sostenibilità possa rappresentare una fonte di vantaggio competitivo per le organizzazioni; per esempio, la compagnia assicurativa Safeco e Microsoft hanno conseguito una significativa riduzione dei costi e un incremento della produttività sovvenzionando sistemi di trasporti che incentivano i dipendenti a lasciare a casa l’automobile. Poiché i valori dichiarati rappresentano le aspirazioni dell’azienda che sono comunicate in modo esplicito ai collaboratori, i manager sperano che tali valori influenzino direttamente il comportamento dei collaboratori. Purtroppo, però, tali aspirazioni non producono automaticamente i comportamenti voluti perché non sempre le persone passano dalle parole ai fatti. La British Petroleum (BP), per esempio, si è sempre presentata come una società che pone in primo piano la sicurezza; ciò nonostante, l’incendio scoppiato nel 2005 alla raffineria di Texas City (Texas) è costato la vita a 15 persone; nel 2006, una perdita in un oleodotto in Alaska ha causato la dispersione di oltre 750.000 litri di greggio nell’ambiente; nel 2010, il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon ha causato lo sversamento di oltre 750 milioni di litri di petrolio nel Golfo del Messico, secondo i dati del governo americano.8 I valori praticati, invece, sono l’insieme di valori e consuetudini che si riflettono o si traducono effettivamente nei comportamenti delle persone. Rappresentano i valori che i dipendenti attribuiscono a un’organizzazione sulla base delle loro osservazioni di quanto accade giorno per giorno. Howard Schultz, CEO di Starbucks, ha tentato in tutti i modi di mettere in pratica il valore di fornire prodotti di qualità e servizio eccellente per fronteggiare le difficoltà finanziarie incontrate dall’azienda nel 2009. In un’intervista del 2010 ha dichiarato: “Ho fatto chiudere le caffetterie per tre ore e mezza di forma-

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zione. Molti mi domandavano quanto sarebbe costato e gli azionisti mi chiamavano chiedendomi se non fossi uscito di senno. Ho sempre risposto che stavamo facendo la cosa giusta. Stavamo formando i nostri collaboratori perché avevamo dimenticato la nostra missione, cioè l’impegno assoluto e inequivocabile per la qualità.”9 È importante ridurre il divario esistente tra i valori dichiarati e quelli praticati, perché questi ultimi possono influenzare in modo rilevante gli atteggiamenti dei collaboratori e la performance dell’organizzazione. Secondo un sondaggio condotto dall’Ethics Resource Center, esistono maggiori probabilità che i dipendenti adottino un comportamento etico quando il gruppo dirigente rappresenta un buon esempio, mantiene le promesse e tiene fede agli impegni. Il risultato è confermato da un altro studio recente condotto su 500.000 lavoratori in oltre 85 paesi secondo il quale le organizzazioni sono dieci volte più soggette a comportamenti non etici quando sono dotate di una cultura etica debole.10 È evidente che, in fatto di comportamento etico, i manager devono passare dalle parole ai fatti. Assunti di base Gli assunti di base non sono osservabili e rappresentano il substrato della cultura organizzativa. Si tratta di valori organizzativi che sono divenuti così scontati nel tempo da trasformarsi in ipotesi implicite che guidano il comportamento organizzativo. La loro resistenza al cambiamento è dunque altissima. Se gli assunti di base sono molto radicati tra le persone, queste troveranno inconcepibile qualsiasi comportamento differente. Tutti sanno, ad esempio, che la Southwest Airlines opera in base a principi che danno molta importanza al benessere dei collaboratori e alla qualità del servizio offerto ai clienti. I collaboratori dell’azienda sarebbero sconvolti se vedessero i manager agire in modo da non rispettare i bisogni loro e dei clienti.

Adattamento persona-ambiente: grado di compatibilità tra un individuo e il suo ambiente di lavoro

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Che cosa dice la ricerca sui livelli della cultura? Il principale spunto di riflessione riguarda le conseguenze del cosiddetto adattamento persona-ambiente (PE fit in inglese). Per adattamento persona-ambiente si intende “la compatibilità tra un individuo e un ambiente di lavoro che si ottiene quando le rispettive caratteristiche si adattano bene le une alle altre.”11 I risultati di una meta-analisi condotta su oltre 170 studi e 40.000 lavoratori hanno dimostrato che gli individui riportano una maggiore soddisfazione del lavoro, manifestano un impegno più elevato nei confronti dell’organizzazione e meno intenzioni di cambiare lavoro quando le loro caratteristiche personali (capacità, abilità e personalità) e i loro valori (per esempio, integrità) corrispondono alle richieste del lavoro, ai valori organizzativi e ai valori del gruppo di lavoro.12 Questi dati sottolineano che l’adattamento persona-ambiente è importante per la carriera e le soddisfazioni professionali. Ma come determinare il proprio adattamento persona-ambiente prima di accettare un’offerta di lavoro oppure una promozione? Anzitutto occorre effettuare una valutazione dei propri punti di forza, punti di debolezza e valori; la stessa valutazione va poi operata per l’azienda o l’unità organizzativa ricercando informazioni online e dagli stessi dipendenti che vi lavorano. Le informazioni così ricavate servono per elaborare un insieme di domande da porre durante il colloquio per determinare il possibile livello di adattamento da parte nostra. Per esempio, se si attribuisce molta importanza all’impegno, sarebbe opportuno domandare ai reclutatori come vengono riconosciute le prestazioni; se dalla risposta emerge un legame debole tra

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la prestazione e i riconoscimenti, probabilmente il livello di adattamento personaambiente è basso e un’esperienza di lavoro presso l’azienda potrebbe non essere molto gratificante.

Quattro funzioni della cultura organizzativa Come mostrato nella figura 3-2, una cultura organizzativa realizza quattro funzioni. Per contestualizzare queste funzioni, proviamo a pensare come ognuna di esse si sia manifestata alla Southwest Airlines. Quest’azienda rappresenta un esempio didattico particolarmente utile, perché dagli inizi (nel 1971) ad oggi è cresciuta tanto da diventare il principale vettore negli Stati Uniti, con un bilancio in attivo per 38 anni consecutivi. Dal 1997 al 2000, Fortune ha collocato quest’azienda tra le prime cinque nella classifica delle migliori imprese in cui lavorare in America; a partire dal 2000, Southwest ha deciso di non essere più coinvolta nella classifica. Infine, nel 2010 Southwest si è aggiudicata il primo posto nella classifica delle 50 aziende più attente alla responsabilità sociale d’impresa.13 1. Dare alle persone un’identità organizzativa. La Southwest Airlines ha fama d’essere un posto divertente in cui lavorare, in cui la soddisfazione dei collaboratori e la fedeltà dei clienti sono più importanti dell’utile aziendale. Gary Kelly, CEO di Southwest, sottolinea l’importanza di questo punto osservando che “i nostri collaFigura 3-2 Quattro funzioni della cultura organizzativa Fonte: adattamenti dalla discussione in L. Smircich,”Concepts of Culture and Organizational Analysis,” Administrative Science Quarterly, settembre 1983, pp. 339-58. Riprodotto su autorizzazione della John Wiley & Sons, Limited.

Identità organizzativa

Mezzo per la costruzione dei significati

Cultura organizzativa

Impegno collettivo

Stabilità del sistema sociale

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boratori sono il punto di forza più importante dell’azienda e la fonte più stabile di vantaggio competitivo nel lungo periodo.”14 L’azienda dispone inoltre di un “fondo catastrofi”, costituito da contributi volontari e utilizzato per i collaboratori che si trovano in una situazione personale difficile. L’identità della Southwest, con un forte orientamento alle persone, è rinforzata dal fatto che si tratta di un datore di lavoro “di prima scelta”. Nel 2009, ad esempio, la Southwest ha ricevuto 90.043 curriculum e ha assunto 831 nuovi collaboratori. 2. Favorire l’impegno collettivo. La missione della Southwest Airlines “consiste nell’impegno per la migliore qualità del servizio al cliente, accompagnato da calore, cortesia, orgoglio individuale e spirito di gruppo”.15 Gli oltre 35.000 collaboratori della Southwest sono impegnati in questa missione. Dalle rilevazioni sulla clientela del Dipartimento del trasporto aereo statunitense, la Southwest è sin dal 1987 il vettore che ha registrato meno lamentele da parte dei clienti. 3. Promuovere la stabilità dell’ambiente sociale. La stabilità dell’ambiente sociale riflette la misura in cui l’ambiente di lavoro viene percepito come positivo e motivante, e l’efficacia con cui vengono gestiti il conflitto e il cambiamento. La Southwest è famosa per la predominante filosofia del divertimento: i festeggiamenti e le celebrazioni sono parte integrante dell’azienda. A ogni città in cui il vettore fa scalo, ad esempio, viene assegnato un budget per le feste. Per motivare i collaboratori, inoltre, l’azienda premia in molti modi la produttività e il servizio. Un clima positivo, dunque, grazie anche al più basso tasso di turnover del settore dei trasporti aerei, e all’impiego di 1164 coppie sposate. 4. Formare il comportamento aiutando le persone a dare un senso all’ambiente in cui lavorano. Questa funzione della cultura aiuta il collaboratore a capire le scelte aziendali e le modalità che l’organizzazione adotta per il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine. Sapendo, ad esempio, che il gruppo dirigente della Southwest agli inizi, nel 1971, considerava il trasporto via terra come principale concorrente, i collaboratori riescono a capire perché l’obiettivo primario della compagnia aerea consista nell’essere il miglior vettore a basso prezzo, ad alta frequenza, che opera sulle tratte brevi, e in tutti gli Stati Uniti. Capiscono di dover raggiungere livelli di performance eccezionali, come far manovra con un aereo in 20 minuti, perché devono tenere bassi i costi per poter competere con il trasporto con i pullman e con le automobili. A sua volta, l’azienda evidenzia l’importanza di ottenere i massimi livelli di servizio al cliente e le sue aspettative di prestazioni di alto livello usando premi basati sulla produttività e sistemi di condivisione degli utili. I collaboratori possiedono circa il 5% delle azioni della compagnia.

Tipi di culture organizzative I ricercatori di comportamento organizzativo hanno proposto tre modelli per descrivere i vari tipi di culture organizzative: l’inventario della cultura organizzativa, il modello dei valori competitivi (competing values framework, CVF, in inglese) e il profilo della cultura organizzativa. Questa sezione è dedicata al modello dei valori competitivi, perché si è dimostrato che è un approccio valido per la classificazione delle culture

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Modello dei valori competitivi: strumento per categorizzare le culture organizzative

Cultura di clan: cultura caratterizzata da focus interno ed enfasi sulla flessibilità

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organizzative ed è il più utilizzato. È stato inoltre riconosciuto come uno dei 40 modelli più importanti nello studio delle organizzazioni.16 Il modello dei valori competitivi è uno strumento pratico per comprendere, misurare e modificare la cultura organizzativa. È stato sviluppato da un team di ricercatori che si erano proposti di classificare modalità diverse di valutazione dell’efficacia organizzativa. La ricerca dimostrava che i parametri di misurazione dell’efficacia organizzativa variano lungo due dimensioni, o assi, fondamentali. Il primo misura quanto l’organizzazione focalizza la sua attenzione e i suoi sforzi sulle dinamiche interne e sui collaboratori oppure sull’ambiente esterno, sui clienti e sugli azionisti; il secondo riguarda quanto l’organizzazione privilegia la flessibilità e la discrezionalità oppure il controllo e la stabilità. La combinazione dei due assi consente di individuare quattro tipi di culture organizzative basate su valori diversi e criteri distinti per conseguire l’efficacia organizzativa. Il modello dei valori competitivi è riportato nella figura 3-3.17 La figura 3-3 illustra l’orientamento strategico associato a ciascun tipo di cultura organizzativa, i mezzi impiegati per attuarlo e i relativi fini e obiettivi. Prima di passare a un’analisi dettagliata, è importante sottolineare che le organizzazioni possono presentare caratteristiche associate a ciascun tipo di cultura organizzativa; premesso questo, un tipo di cultura tende a risultare dominante rispetto agli altri. Iniziamo il nostro esame dei tipi di cultura partendo dal quadrante in alto a sinistra del modello. La cultura di clan Caratterizzata da focus interno ed enfasi sulla flessibilità, anziché su stabilità e controllo, la cultura di clan dà vita a un’organizzazione di tipo familiare nella quale si raggiunge l’efficacia favorendo la collaborazione tra i dipendenti. Questo tipo di cultura è molto “orientata ai dipendenti” e mira a costruire la coesione mediante il consenso e la soddisfazione del lavoro e l’impegno attraverso il coinvolgimento dei collaboratori. Le organizzazioni con una cultura di clan investono considerevoli risorse nell’assunzione e nello sviluppo dei dipendenti e considerano i clienti come partner. Un buon esempio di azienda con una forte cultura di clan è Decagon Devices, basata a Pullman (Washington), una piccola impresa nella quale il gruppo dirigente cerca di mantenere un’atmosfera familiare. Tamsin Jolley, CEO di Decagon Devices, osserva: “Ci piace pensare che i neoassunti siano i nuovi membri della nostra famiglia”. L’azienda ha elaborato un piano di condivisione dei profitti che prevede la distribuzione del 20% degli utili lordi ai dipendenti su base trimestrale. Sono inoltre previste una serie di attività quotidiane mirate a riunire i collaboratori: ogni mercoledì, alcuni di loro portano dei pasti preparati a casa da offrire ai colleghi e si pranza tutti insieme. I manager colgono questa occasione per illustrare le novità riguardanti l’azienda, presentare i nuovi assunti e insegnare ai collaboratori a leggere i rendiconti finanziari. L’azienda promuove iniziative di socializzazione nell’ambiente di lavoro: in ufficio ci sono un tavolo da ping pong e una pista elettrica e le partite di calcetto durante le pause sono ormai una tradizione consolidata.18

L’azienda offre generosi benefit sanitari e organizza ogni anno picnic e feste per i collaboratori e le loro famiglie.

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Flessibilità e discrezionalità Cultura di clan

Focus interno e integrazione

Cultura adhocratica

Orientamento strategico: collaborare

Orientamento strategico: creare

Mezzi: coesione, partecipazione comunicazione e empowerment

Mezzi: adattabilità, creatività, agilità, prontezza

Fini: morale, sviluppo delle persone, coinvolgimento

Fini: innovazione, crescita, risultati innovativi

Cultura gerarchica

Cultura di mercato

Orientamento strategico: controllare

Orientamento strategico: competere

Mezzi: processi efficaci, coerenza, controllo dei processi, misurazione

Mezzi: focus sul cliente, produttività, miglioramento della competitività

Fini: efficienza, tempestività, regolarità del funzionamento

Fini: quota di mercato, redditività, raggiungimento degli obiettivi

Focus esterno e differenziazione

Stabilità e controllo

Figura 3-3 Modello dei valori competitivi Fonte: adattato da K.S. Cameron, R.E. Quinn, J. Degraff e A.V. Thakor, Competing Values Leadership (Northampton, MA: Edward Elgar, 2006), p. 32.

Cultura adhocratica: cultura caratterizzata da focus esterno ed enfasi sulla flessibilità

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La cultura adhocratica Con focus esterno ed enfasi sulla flessibilità, la cultura adhocratica favorisce la creazione di prodotti e servizi innovativi mediante l’adattabilità, la creatività e la rapidità nel rispondere ai cambiamenti del mercato. Le culture adhocratiche non si fondano sulla centralizzazione del potere e sulle relazioni di autorità tipiche delle culture di mercato e gerarchica, ma favoriscono l’empowerment dei dipendenti incoraggiandoli ad assumere rischi, coltivare il pensiero creativo e sperimentare nuove modalità di svolgimento dei compiti. Questo tipo di cultura è particolarmente adatto alle start-up, alle aziende che operano in settori in costante mutamento e a quelle operanti in settori maturi che puntano sull’innovazione per conseguire la crescita. Esaminiamo come queste caratteristiche culturali vengano rafforzate nell’azienda biofarmaceutica AstraZeneca. “AstraZeneca sta sperimentano nuove modalità di organizzazione della ricerca per migliorare la produttività. Gli scienziati restano responsabili dei farmaci candidati fino all’inizio delle sperimentazioni finali sull’uomo; questo nuovo modo di operare ha eliminato la consuetudine di passare i prodotti ad altri ricercatori nella prima fase di elaborazione come in una sorta di catena di montaggio.”19 Il gruppo indiano Tata, con oltre 90 società operative in più di 90 paesi, è un altro ottimo esempio di organizzazione dotata di una cultura adhocratica. “Resa famosa dalla Nano, la minicar a basso costo, Tata attribuisce una tale importanza all’innovazione da aver sviluppato un indice apposito per misurarla, il cosiddetto ‘Innometer’. L’indice misura obiettivi e

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successi nell’ambito della creatività rispetto a parametri nazionali o globali trasmettendo un ‘senso di urgenza’ ai collaboratori.”20 Intel e Google sono altri esempi di aziende che presentano caratteristiche culturali proprie dell’adhocrazia. Cultura di mercato: cultura caratterizzata da focus esterno ed enfasi sulla stabilità

La cultura di mercato La cultura di mercato si caratterizza per un forte focus esterno e un’enfasi sulla stabilità e il controllo. I propulsori delle organizzazioni dotate di questo tipo di cultura sono la competitività e l’obiettivo di conseguire risultati e raggiungere obiettivi. Poiché questo tipo di cultura è orientato all’ambiente esterno, i clienti e gli utili hanno la precedenza sullo sviluppo e la soddisfazione dei dipendenti. Obiettivo principale dei manager è ottenere produttività, utili e soddisfazione del cliente. Richard Branson, proprietario della compagnia aerea Virgin America, pensa che “i vettori statunitensi sono praticamente identici l’uno all’altro e i manager che li gestiscono non pensano affatto ai clienti. Il servizio aereo somiglia sempre più a un servizio di autobus”. Per soddisfare i bisogni dei clienti, il vettore di Branson dispone di una flotta di Airbus A319 e A320: oltre a essere più spaziosi, gli aeromobili sono dotati di dispositivi di intrattenimento a ogni poltrona, accesso a Internet Wi-Fi e una speciale illuminazione con 12 sfumature di rosa, lilla e blu.21 Il tempo dirà se questa cultura di mercato si tradurrà in utili sostenibili. Nelle culture di mercato, si richiede ai collaboratori di reagire rapidamente, lavorare con impegno e portare a termine i compiti in maniera efficace e tempestiva. Le organizzazioni dotate di questo tipo di cultura tendono a premiare i collaboratori che ottengono risultati. Byung Mo Ahn, presidente di Kia Motors, è un buon esempio di leader che desidera promuovere una cultura di mercato: nel febbraio del 2008 ha licenziato due alti dirigenti di Kia Motors America perché non avevano centrato gli obiettivi di vendite. Secondo i dipendenti nordamericani, Ahn ha creato un ambiente di lavoro caratterizzato da una forte aggressività e competitività e, secondo alcuni, militarista.22

Cultura gerarchica: cultura caratterizzata da focus interno ed enfasi sulla stabilità

La cultura gerarchica Il pilastro della cultura gerarchica è il controllo. Caratterizzata da un focus interno, che determina un ambiente di lavoro più formalizzato e strutturato, la cultura gerarchica pone enfasi sulla stabilità e sul controllo, anziché sulla flessibilità. Questo orientamento si traduce nello sviluppo di processi interni affidabili e parametri di misurazione e nell’implementazione di una molteplicità di meccanismi di controllo. È molto probabile che le organizzazioni dotate di questo tipo di cultura valutino l’efficacia mediante misure di efficienza, tempestività, qualità, sicurezza e affidabilità nella produzione ed erogazione di beni e servizi. Johnson & Johnson (J&J) è un buon esempio del perché alcune organizzazioni scelgano di abbracciare una cultura gerarchica. Nel 2010 gravi problemi di produzione hanno determinato il ritiro dal mercato statunitense del Tylenol, un analgesico, e di altri farmaci da banco. “Una relazione ispettiva della Food and Drug Administration del 30 aprile evidenzia casi di cattiva gestione dei materiali, documentazione superficiale e scarse indagini sui reclami dei clienti.” L’azienda ha stimato una perdita di 600 milioni di dollari nel 2010, oltre a ricevere un duro colpo alla propria reputazione. Per risolvere il problema, è stato creato un “team di qualità a livello aziendale e si sta procedendo a rinnovare gli stabilimenti produttivi”, offrendo parallelamente corsi di formazione ai dipendenti.23 Il tempo dirà se la scelta di una cultura gerarchica nelle attività produttive sarà sufficiente a risolvere i problemi riscontrati.

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I tipi di culture rappresentano valori in competizione È importante notare che alcuni tipi di culture riflettono valori fra loro opposti. Le culture in competizione si trovano nei quadranti opposti della figura 3-3: per esempio, la cultura di clan (quadrante in alto a sinistra) è rappresentata da valori che pongono enfasi sul focus interno e sulla flessibilità, mentre la cultura di mercato (quadrante in basso a destra) si contraddistingue per il focus esterno e l’attenzione alla stabilità e al controllo. Lo stesso conflitto è evidente tra la cultura adhocratica, che premia la flessibilità ed è dotata di un focus esterno, e la cultura gerarchica, che avvalora la stabilità e il controllo ed è dotata di un focus interno. Perché queste contraddizioni sono importanti? Lo sono perché il successo di un’organizzazione potrebbe dipendere dalla sua capacità di scegliere valori fondamentali associati a tipi di culture in competizione. Impresa difficile, ma non impossibile; 3M è un buon esempio in proposito, perché sta cercando di unire le caratteristiche della cultura adhocratica a quelle della cultura gerarchica. In linea con i valori della cultura adhocratica, nel 2009 3M ha lanciato 1000 nuovi prodotti e “distribuisce ogni anno ai propri scienziati i Genesis Grant, finanziamenti di ammontare fino a 100.000 dollari, da destinare alla ricerca. I fondi vengono assegnati dai colleghi e investiti in progetti sui quali ‘nessun dipendente assennato e tradizionalista’ punterebbe”, afferma Chris Holmes, vicepresidente di divisione. 3M ha anche coltivato una cultura gerarchica implementando tecniche di gestione della qualità mirate a ridurre sprechi e difetti e accrescere l’efficienza. Nonostante l’azienda abbia migliorato l’efficienza e registrato utili nel breve periodo, i profitti derivanti dai nuovi prodotti sono diminuiti e gli scienziati hanno puntato il dito contro le iniziative legate alla qualità, sostenendo che soffocavano l’innovazione. Come ha commentato un ingegnere, “è veramente difficile programmare le invenzioni”. Messo al corrente del conflitto culturale, il CEO George Buckley ha deciso di attenuarlo all’interno dei laboratori togliendo enfasi alle politiche e alle procedure gerarchiche e caldeggiando quelle legate all’adhocrazia. L’azienda continua a porre in primo piano la qualità e l’affidabilità nei suoi stabilimenti produttivi. Ad oggi i risultati indicano che la transizione è andata a buon fine: nel 2010 l’azienda ha centrato sia gli obiettivi di efficienza sia quelli legati ai profitti derivanti dai nuovi prodotti.24

Le conseguenze associate alla cultura organizzativa È opinione sia dei manager sia degli studiosi di matrice accademica che la cultura organizzativa possa determinare gli atteggiamenti dei dipendenti, l’efficacia e la performance di un’organizzazione. Al fine di verificare questa ipotesi, sono state messe in relazione diverse misure della cultura organizzativa con risultati individuali e organizzativi. Che cosa si è riscontrato? Di recente un team di ricercatori ha condotto una meta-analisi di 93 studi incentrati su oltre 1100 aziende. I risultati sono riportati nella figura 3-4.25 La figura mostra la forza della relazione tra otto conseguenze a livello organizzativo e le tipologie culturali del clan, dell’adhocrazia e del mercato. La cultura gerarchica è stata tralasciata per carenza di ricerche in merito. Un esame più attento della Figura 3-4 consente di trarre le seguenti cinque conclusioni:

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1. La cultura organizzativa è chiaramente correlata a misure di efficacia organizzativa, a conferma che può rappresentare una fonte di vantaggio competitivo. 2. I dipendenti sono più soddisfatti e mostrano un maggiore coinvolgimento verso le organizzazioni con una cultura di clan. Questi risultati suggeriscono che gli individui preferiscono lavorare in organizzazioni che avvalorano la flessibilità, anziché la stabilità e il controllo, e sono più attente a soddisfare i bisogni dei collaboratori anziché i desideri dei clienti e degli azionisti. 3. È possibile promuovere l’innovazione e la qualità sviluppando all’interno dell’organizzazione caratteristiche associate alle culture di clan, adhocratica e di mercato. 4. I risultati economici di un’organizzazione (per esempio, la crescita dei profitti e del fatturato) non sono fortemente correlati alla cultura organizzativa. Pertanto i manager non dovrebbero aspettarsi di migliorare le performance finanziarie solo modificando la cultura dell’organizzazione. 5. Le aziende dotate di una cultura di mercato tendono a ottenere conseguenze più positive a livello organizzativo. I manager dovrebbero valutare come rendere più orientata al mercato la cultura della propria organizzazione. I ricercatori hanno anche studiato l’importanza della cultura organizzativa nel caso di una fusione, scoprendo che un’alta percentuale di fallimenti nelle fusioni tra aziende è dovuta all’incompatibilità culturale. Dato il numero sempre maggiore di fusioni aziendali nel mondo, e considerando che esse falliscono 7 volte su 10, non mantenendo le promesse

Fonte: dati ottenuti da C.A. Hartnell, A.Y. Ou e A.J. Kinicki, “Organizational Culture and Organizational Effectiveness: A Meta-Analytic Investigation of the Competing Values Framework’s Theoretical Suppositions,” Journal of Applied Psychology, luglio 2011, pp 677-694.

Soddisfazione del lavoro Commitment verso l’organizzazione Innovazione soggettiva Variabli

Figura 3-4 Risultati correlati alla cultura organizzativa

Qualità dei prodotti e dei servizi Utili soggettivi Crescita soggettiva Utili oggettivi Crescita oggettiva Non significativa

Cultura di clan

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Debole Moderata Forza della relazione

Cultura adhocratica

Forte

Cultura di mercato

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economiche iniziali, sarebbe auspicabile che i manager delle aziende considerassero il ruolo della cultura organizzativa nella creazione di una nuova organizzazione.26 Nel loro insieme, questi risultati della ricerca evidenziano l’importanza della cultura organizzativa e sottolineano la necessità di conoscere meglio il processo di costruzione e di cambiamento della cultura di un’organizzazione. Essa, infatti, non nasce per caso: si forma e si definisce dalla combinazione e dall’integrazione di tutti coloro che vi lavorano. Una cultura resistente al cambiamento, ad esempio, può minare l’efficacia di qualsiasi tipo di cambiamento organizzativo. Modificare la cultura non è certo un compito facile; nel prossimo paragrafo cercheremo di fornire delle linee guida su come avviare un cambiamento culturale.

Il processo di cambiamento culturale

Visione: obiettivo a lungo termine che descrive “cosa” un’azienda vuole diventare

Prima di esaminare nel dettaglio le modalità attraverso le quali i manager possono modificare la cultura organizzativa, è importante ricordare quattro importanti considerazioni sul cambiamento culturale. La prima: i leader sono gli architetti e gli artefici della cultura organizzativa e la gestione della stessa è una delle funzioni di leadership più importanti.27 La seconda: il processo del cambiamento culturale inizia essenzialmente con l’individuazione dei tre livelli della cultura organizzativa precedentemente esaminati, cioè le manifestazioni osservabili, i valori dichiarati e gli assunti di base.28 La terza: è importante valutare in che misura la cultura adottata si allinea alla visione e al piano strategico prima di tentare di modificarne qualsiasi aspetto. Una visione rappresenta un obiettivo a lungo termine che descrive “cosa” un’organizzazione vuole diventare. Per esempio, la visione iniziale di Walt Disney per Disneyland era la seguente: Disneyland sarà un luna park, un’esposizione, un’area di svago, un centro ricreativo, un museo vivente e un monumento alla bellezza e alla magia. Conterrà tutti i successi, le gioie e le speranze del mondo in cui viviamo. Ci mostrerà e ci ricorderà come rendere queste meraviglie parte della nostra vita.29

Piano strategico: piano a lungo termine che delinea le azioni necessarie per raggiungere i risultati desiderati

Un piano strategico delinea gli obiettivi a lungo termine dell’organizzazione e le strategie necessarie per raggiungerli. Mark Fields, vicepresidente esecutivo di Ford Motor Company e presidente per le Americhe, è fermamente convinto che deve esistere un allineamento tra cultura, visione e piani strategici: “La cultura si nutre della strategia. Si può contare sul piano strategico più brillante al mondo, ma se la cultura non lo favorisce, resterà sulla carta.”30 Infine, nell’attuazione di un cambiamento culturale, è importate ricorrere a un approccio strutturato. Nel Capitolo 17 passeremo in rassegna svariati modelli con passi specifici da seguire per attuare qualsiasi tipo di cambiamento organizzativo. Passiamo ora a esaminare metodi e tecniche che i manager possono seguire per modificare la cultura organizzativa. Edgar Schein, un famoso studioso di comportamento organizzativo, sostiene che il radicamento di una cultura implica un processo di apprendimento. In altre parole, i componenti dell’organizzazione insegnano gli uni agli altri quali siano i valori di riferimento

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dell’azienda, le regole implicite, le aspettative e i comportamenti. Questo passaggio di conoscenze avviene attraverso uno o più dei seguenti percorsi:31 1. Affermazioni formali relative alla filosofia aziendale, la missione, la visione e i valori; materiali utilizzati nella ricerca, nella selezione e nella socializzazione del reclutamento persone. Sam Walton, il fondatore di Walmart, ha stabilito tre valori fondamentali che rappresentano il nocciolo della cultura organizzativa: (a) rispetto per l’individuo, (b) servizio ai clienti e (c) aspirazione all’eccellenza. 2. L’organizzazione dello spazio fisico, gli ambienti di lavoro e gli edifici. Novartis AG, basata a Basilea (Svizzera), ha progettato gli ambienti degli uffici in modo da favorire la collaborazione con “spazi di lavoro comuni, divani, illuminazione soffusa e macchinette per il caffè che facilitano il dialogo, la condivisione di idee e l’instaurazione di rapporti sociali”. L’azienda ha anche investito in computer portatili per i dipendenti, che sono così liberi di spostarsi dalla loro scrivania.32 3. Slogan, linguaggio, acronimi e modi di dire. Robert Mittelstaedt, preside della W.P. Carey School of Business della Arizona State University, promuove la sua visione di creare una delle migliori business school al mondo attraverso lo slogan “Top-of-mind business school” e incoraggia i dipendenti a impegnarsi in attività per promuovere la qualità e la reputazione dei programmi accademici. 4. Creazione esplicita di modelli a cui ispirarsi, percorsi di formazione, insegnamento e affiancamento da parte di manager e supervisori. Fluor Corporation, una delle principali società appaltatrici al mondo operante nel settore ingegneristico e del design, punta a una cultura etica per contrastare la corruzione nel settore edilizio. La società, che ricava all’estero oltre la metà del fatturato di 17 miliardi di dollari, sottopone tutti i dipendenti a sessioni di formazione online anticorruzione e offre corsi in presenza ai lavoratori specializzati, come gli operatori sul campo. I dirigenti promuovono una politica della porta aperta e una hotline per la denuncia di illeciti, penalizzando pesantemente le infrazioni.33 5. Premi, status symbol (ad esempio titoli) e criteri di promozione. Alla Triage Consulting Group, i dipendenti di pari livello di carriera percepiscono lo stesso stipendio, ma possono ricevere bonus per merito, una politica che consolida la cultura del successo. I bonus per merito vengono assegnati basandosi sul giudizio dei colleghi su chi abbia apportato il maggiore contributo al successo dell’azienda. Gli assegnatari dei bonus vengono presentati ufficialmente in occasione della riunione annuale “State of Triage”.34 6. Storie, leggende o miti riguardanti persone ed eventi fondamentali per l’azienda. Marriott ricorre alle storie per rafforzare la propria cultura. Ed Fuller, responsabile degli hotel in tutto il mondo per Marriott International, forma i collaboratori sulla correttezza nella gestione degli avanzamenti di carriera raccontando che lui stesso e un altro alto dirigente hanno iniziato la carriera come vigilante e cameriere.35 I manager possono creare storie motivanti prendendo spunto da fatti significativi associabili ai valori; un’ottima fonte di storie sono i clienti. Occorre ricordare che è importante raccontare episodi autentici perché potrebbero essere sottoposti a verifiche. 7. Attività, processi, risultati che i leader osservano, misurano e controllano. Quando Ron Sargent ha assunto il ruolo di CEO di Staples, si è posto l’obiettivo di accrescere il focus sul servizio ai clienti. Indagando per individuare i valori già seguiti

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dai collaboratori, ha rilevato che uno di questi era l’altruismo. Sargent ha quindi fatto leva su questo valore per sviluppare le capacità di servizio ai clienti, fornendo informazioni più approfondite sui prodotti ai collaboratori e assegnando bonus per le prestazioni di team. Inoltre, Sargent si reca spesso in visita nei negozi per dialogare direttamente con i dipendenti sulle preferenze dei clienti.36 8. Reazione dei leader di fronte a incidenti gravi per l’azienda e a crisi organizzative. Il nuovo CEO della BP Bob Dudley, nominato dopo l’incidente nel Golfo del Messico, ha reagito tempestivamente alle critiche secondo le quali la società attribuisce maggiore importanza ai profitti e all’efficienza che alla sicurezza. Ha inviato un promemoria a tutti i dipendenti comunicando che “la sicurezza sarà l’unico criterio per il riconoscimento delle prestazioni dei dipendenti durante il quarto trimestre”.37 Questa politica dovrà essere estesa al lungo termine se l’azienda punta a modificare gli assunti di base dei collaboratori. 9. Struttura organizzativa e gerarchia. Le strutture gerarchiche sono più orientate al controllo e all’autorità rispetto alle organizzazioni orizzontali. Molti dirigenti tendono a ridurre il numero di livelli all’interno della propria organizzazione nel tentativo di responsabilizzare i collaboratori e incrementare il loro impegno. Novartis è un chiaro esempio: la società ha modificato la struttura organizzativa per promuovere la creatività e la produttività associate alle culture adhocratica e di mercato. “I leader stanno ottenendo buoni risultati dai team transfunzionali di sviluppo del prodotto. Anche la rotazione delle mansioni e la formazione trasversale stanno facendo segnare buoni successi. La creazione di opportunità informali di networking può apparire banale, ma sono state riscontrate prove evidenti che le relazioni determinano un notevole impatto sulla produttività e la creatività.”38 10. Sistemi e procedure organizzative. Le aziende fanno un uso sempre più ampio di reti elettroniche per favorire la collaborazione tra i dipendenti e conseguire innovazione, qualità ed efficienza. Per esempio, Serena Software, una società californiana con 800 dipendenti in 14 paesi, ha incoraggiato i collaboratori a iscriversi a Facebook e servirsene per conoscere meglio i colleghi. Dow Chemical ha invece lanciato un social network interno per favorire i rapporti tra i dipendenti attuali e gli ex dipendenti.39 11. Obiettivi organizzativi e relativi criteri per la ricerca, la selezione, lo sviluppo, le promozioni, i licenziamenti e il pensionamento del personale. Zappos, al quindicesimo posto nella classifica Fortune delle migliori aziende per cui lavorare negli Stati Uniti nel 2009, investe molto tempo nella ricerca di nuovi dipendenti che si integrino bene nella sua cultura di clan.

Il processo di socializzazione organizzativa Socializzazione organizzativa: processo attraverso cui le persone apprendono i valori, le consuetudini e i comportamenti richiesti di un’organizzazione

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Si definisce socializzazione organizzativa “il processo tramite il quale un individuo apprende valori, consuetudini e comportamenti richiesti che gli permettono di essere parte integrante dell’organizzazione”.40 Come abbiamo già detto, la socializzazione organizzativa è un meccanismo fondamentale che le organizzazioni utilizzano per radicare le loro culture tra le persone. Riassumendo, la socializzazione organizzativa trasforma elementi esterni all’azienda in elementi perfettamente integrati, promuoven-

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do e sostenendo i valori e le convinzioni che stanno alla base dell’organizzazione. In questo paragrafo introduciamo un modello di socializzazione organizzativa a tre fasi.

Un modello di socializzazione organizzativa a tre fasi Il primo anno all’interno di un’organizzazione complessa può creare confusione in un individuo. C’è un avvicendarsi continuo di volti nuovi, si parla uno strano gergo, vi sono aspettative in conflitto, accadono eventi privi di connessione. Alcune organizzazioni trattano i nuovi arrivati in modo piuttosto casuale, del tipo “se sei capace nuota, altrimenti affoga pure”. Più propriamente, però, il processo di socializzazione è caratterizzato da una sequenza di fasi ben precise. Daniel Feldman, un ricercatore di comportamento organizzativo, ha proposto un modello di socializzazione organizzativa in tre fasi, che permette una comprensione più approfondita di questo fondamentale processo. Come si può vedere nella figura 3-5, le tre fasi sono (1) la socializzazione anticipatrice, (2) l’incontro e (3) il cambiamento e l’integrazione. A ogni fase si associano dei processi percettivi e sociali. Il modello di Feldman specifica anche i comportamenti e le emozioni che è possibile osservare per valutare la misura in cui un individuo si è integrato nell’azienda. Il completamento delle tre fasi del processo può richiedere poche settimane o anche un anno intero, a seconda delle diversità individuali e della complessità della situazione. Socializzazione anticipatrice: avviene prima che l’individuo entri a far parte di un’organizzazione, e include tutte le informazioni acquisite su carriere, occupazioni, professioni

Presentazione realistica del lavoro: spiega gli aspetti positivi e negativi di un posto di lavoro

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Fase 1: socializzazione anticipatrice La socializzazione anticipatrice ha luogo prima che l’individuo entri effettivamente a far parte dell’organizzazione. Rientrano in questo fenomeno tutte le informazioni che l’individuo ha acquisito su carriere, occupazioni, professioni e organizzazioni. Le informazioni che costruiscono la socializzazione anticipatrice provengono da diverse fonti, tra cui, una delle più significative, i dipendenti di un’organizzazione. Anche Internet e i social media sono fonti importanti di informazioni. PricewaterhouseCoopers(PwC), la più grande società di servizi professionali a livello mondiale, si avvale di svariate risorse web per attrarre potenziali dipendenti. “La strategia di identificazione precoce della PwC è supportata dal sito web pwc.tv, dalla rivista Feed Your Future (scaricabile alla pagina pwc.tv, racconta le vite e le carriere dei professionisti di PwC) e Leadership Adventure, programmi di apprendimento in presenza incentrati sul Comportamenti PwC.”41 Nella fase 1 vengono spesso formulate aspettative non realistiche sul tipo di lavoro, sullo stipendio e sulle promozioni; poiché gli individui con aspettative eccessive sono quelli che con maggiore probabilità abbandoneranno il lavoro in seguito, le organizzazioni utilizzano talvolta le cosiddette presentazioni realistiche del lavoro, che consistono nel dare al candidato un’immagine veritiera di quello che lo aspetterà, descrivendo sia gli aspetti positivi del posto di lavoro sia quelli negativi. Whirlpool, per esempio, utilizza il sito dedicato alle carriere per pubblicare commenti schietti dei dipendenti su come sia il lavoro in azienda.42 Queste presentazioni possono essere comunicate oralmente, sotto forma scritta, elettronica, di audiovisivo o durante un corso pratico. La ricerca conferma i benefici pratici derivanti dall’uso di queste “anteprime”: uno studio condotto su 40 di queste ha rivelato che erano correlate con un livello di performance più alto e minori attriti durante il processo di ricerca del personale. Da questa ricerca è

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Individuo esterno all’organizzazione Fasi

Processi sociali e percettivi • Previsione della realtà interna all’organizzazione e al nuovo lavoro • Previsione delle competenze e abilità richieste dall’organizzazione • Previsione della sensibilità dell’organizzazione verso necessità e valori del singolo

1. Socializzazione anticipatrice Apprendimento che avviene prima di entrare a far parte dell’organizzazione

• Gestione di conflitti tra stile di vita e lavoro • Gestione di conflitti di ruolo all’interno del gruppo di lavoro • Ricerca di chiarezza e di definizione del proprio ruolo • Familiarizzazione con dinamiche di lavoro e di gruppo

2. Incontro Valori, competenze e atteggiamenti iniziano a cambiare man mano che il neo-assunto scopre come è l’organizzazione in realtà

3. Cambiamento e integrazione Il collaboratore gestisce abilità e ruoli e si adatta a valori e norme del gruppo

Effetti sul comportamento • Esegue gli incarichi assegnati in base al proprio ruolo • Rimane nell’organizzazione • Apporta innovazioni e coopera in modo spontaneo

• Risoluzione di richieste concorrenti • Gestione competenze di obiettivi critici • Acquisizione di norme e valori di gruppo

Individuo inserito

Effetti sulle emozioni • È generalmente soddisfatto • È internamente motivato al lavoro • È fortemente coinvolto dal suo lavoro

Figura 3-5 Un modello di socializzazione organizzativai Fonte: adattamento da D.C. Feldman, “The Multiple Socialization of Organization Members,” Academy of Management Review, aprile 1981, pp. 309-18..

emerso inoltre che queste presentazioni contribuivano a diminuire le aspettative iniziali dei candidati all’assunzione, riducendo il livello di turnover tra coloro che poi erano effettivamente assunti.43 Incontro: gli individui capiscono com’è nella realtà l’organizzazione e rivedono le loro aspettative

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Fase 2: incontro Questa seconda fase inizia con la firma del contratto d’assunzione. La fase dell’incontro permette al dipendente di conoscere il vero aspetto dell’azienda. Si tratta di un periodo utile a riconciliare le aspettative non soddisfatte, in cui l’individuo

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Onboarding: programmi mirati ad aiutare i neo-assunti a integrarsi nel nuovo ambiente di lavoro Cambiamento e integrazione: al dipendente è richiesto di gestire compiti e ruoli e adattarsi a valori e consuetudini del proprio gruppo

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dovrebbe capire il nuovo ambiente di lavoro. Molte aziende ricorrono a una combinazione di orientamento e programmi di formazione per favorire il processo di socializzazione dei dipendenti durante la fase dell’incontro, tra cui l’onboarding. I programmi di onboarding aiutano i neo assunti a integrarsi e assimilarsi nel nuovo ambiente di lavoro familiarizzandoli con le norme, le procedure, la cultura e la politica aziendali e chiarendo le aspettative e le responsabilità legate al ruolo di lavoro.44 Fase 3: cambiamento e integrazione La fase di cambiamento e integrazione richiede all’individuo la capacità di gestire obiettivi e ruoli importanti e di adattarsi a valori e consuetudini del suo gruppo di lavoro. Ciò è possibile solo quando i dipendenti hanno una visione chiara del proprio ruolo (la chiarezza del ruolo è esaminata nel Capitolo 10) e sono efficacemente integrati nell’unità di lavoro. Per il successo della fase 3 è importante che i collaboratori abbiano ben chiaro come utilizzare i social media. È semplice cadere in errore quando non si conoscono le aspettative legate alla navigazione in rete, all’invio di SMS durante le riunioni o all’utilizzo delle attrezzature dell’azienda per messaggi privati. Gli esperti consigliano di illustrare le regole di base il primo giorno di lavoro, fare coaching dei dipendenti sulle norme e illustrare come le linee guida sono mutate nel tempo.45 Inoltre, organizzazioni come Schlumberger, una grande società

Tabella 3-1 Strategie di socializzazione Strategia

Descrizione

Collettiva vs. individuale

La socializzazione collettiva consiste nel riunire i neo-assunti e proporre al gruppo esperienze comuni, anziché lasciare che ciascuno viva un’esperienza isolata. La socializzazione formale prevede che il neo-assunto venga separato dagli altri membri dell’organizzazione per tutto il periodo di socializzazione; il contrario consiste nel non distinguere in modo chiaro il nuovo arrivato dai membri più esperti del gruppo. Le reclute dell’esercito, ad esempio, sono tenute a frequentare dei campi di addestramento specifici prima di lavorare a fianco dei veri soldati. La socializzazione sequenziale prevede una serie di passi successivi che culminano nel raggiungimento del ruolo assegnato, mentre il suo contrario sarebbe una progressione ambigua o dinamica. La socializzazione dei medici, ad esempio, prevede una sequenza obbligata che va dalla facoltà di medicina, all’internato, alla copertura di un incarico stabile in ospedale: solo a questo punto il medico apre uno studio per conto proprio. La socializzazione fissa stabilisce una tabella di marcia precisa per l’assunzione di un determinato incarico, mentre un processo variabile di socializzazione non prevede tempi rigidi. Gli studenti universitari americani rimangono in genere un anno come matricole (“freshmen”), per poi diventare “sophomore”, “junior” e infine “senior”. In un processo seriale il nuovo arrivato viene accompagnato nella socializzazione da un membro più anziano, mentre in un processo disgiuntivo non viene utilizzato alcun modello cui ispirarsi. L’investitura prevede l’affermazione dell’identità specifica e delle competenze del ruolo che il nuovo assunto dovrà ricoprire. La privazione esercitata sul neo-assunto è la negazione di se stesso e delle ricostruzione della propria identità all’interno dell’organizzazione. Durante l’addestramento di polizia, i cadetti devono indossare l’uniforme e avere sempre un aspetto perfetto: vengono chiamati “ufficiali” e viene loro detto che non sono più semplici cittadini, ma rappresentanti delle forze di polizia.

Formale vs. informale

Sequenziale vs. casuale

Fissa vs. variabile

Seriale vs. disgiuntiva Investitura vs. privazione

Fonte: descrizioni tratte da B.E. Ashforth, Role Transitions in Organizational Life: An Identity-Based Perspective (Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates, 2001), pp. 149-83.

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petrolifera multinazionale, utilizzano gli incentivi e le occasioni sociali per rafforzare i nuovi comportamenti attesi dai dipendenti. L’azienda sta gradualmente modificando la sua vecchia cultura sovietica dell’accusa. Luc Ollivier, un cinquantenne francese, è stato nominato responsabile delle operazioni regionali di Siberian Geophysical. Il suo obiettivo è premiare le prestazioni e, aspetto ancora più importante, eliminare sistematicamente gli errori anziché limitarsi a punire chi li ha commessi. Secondo Ollivier, i trivellatori veterani dell’azienda hanno grande esperienza, “ma non amano insegnare ai giovani”. Per questo motivo, sta tentando di instaurare rapporti migliori mediante grandi riunioni della durata di un giorno che si concludono con un giro di birre. Ollivier afferma che il ritmo del lavoro è aumentato di oltre il 30% negli ultimi due anni e gli utili delle trivellature di Siberian Geophysical hanno toccato i 250 milioni di dollari l’anno scorso [nel 2007], circa il doppio rispetto al 2006.46

Nella tabella 3-1 sono elencate una serie di strategie di socializzazione utilizzate dalle organizzazioni per aiutare i collaboratori a superare questa fase di adattamento. Riferendovi alla tabella, riuscite a identificare le strategie di socializzazione utilizzate dalla Schlumberger?

Radicare la cultura organizzativa attraverso il mentoring Mentoring: l’istituzione e il mantenimento di relazioni costruttive tra un mentore e un discepolo

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La parola mentore deriva dal nome di un personaggio dell’Odissea, l’uomo a cui Ulisse affidò il piccolo Telemaco prima di partire per la guerra di Troia. Il mentore, dunque, è una sorta di maestro o guida. Si definisce mentoring il processo di costruzione e mantenimento di relazioni intense e durature tra una o più persone che svolgono il ruolo di mentore (ossia offrono sostegno professionale e psicologico) e un giovane, spesso, ma non necessariamente, un neo-assunto in un’organizzazione (mentee).47 Il mentoring, qualora i mentori e i mentee lavorino all’interno della stessa organizzazione, può essere utile per radicarne la cultura, per due ragioni. Innanzitutto, il mentoring contribuisce a creare un senso di unità, promuovendo l’accettazione dei valori fondamentali dell’organizzazione a tutti i suoi livelli. In secondo luogo, l’aspetto di socializzazione proprio del mentoring favorisce anche il senso di appartenenza. Il mentoring non è importante solo come strategia per il radicamento della cultura organizzativa: dalle ricerche svolte emerge infatti che esso può influire in modo significativo sulla carriera del mentee. Una meta-analisi ha rivelato che i collaboratori seguiti da un mentore ricevevano un compenso più alto e più promozioni rispetto a quelli che non lo erano sati. Inoltre, i collaboratori seguiti da un mentore possiedono una maggiore conoscenza organizzativa, evidenziano prestazioni migliori e uno stipendio più alto con il passare del tempo.48 Ci occuperemo in questa sezione di come trarre vantaggio dal mentoring. Prima di tutto ne analizzeremo le funzioni, poi passeremo alle reti di sviluppo che ne costituiscono la base, per parlare infine delle implicazioni personali e organizzative.

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Funzioni del mentoring Kathy Kram, ricercatrice alla Boston University, ha intervistato in modo approfondito 18 coppie composte da un manager senior (mentore) e da un manager junior (mentee). Nel corso della sua ricerca la Kram ha identificato due tipologie di funzioni del processo di mentoring: le funzioni legate alla carriera e quelle psicosociali. Le cinque funzioni del mentoring legate alla carriera, che favoriscono lo sviluppo professionale del collaboratore, sono: la sponsorizzazione da parte di un superiore, l’esposizione e la visibilità, il sostegno, la protezione e l’assegnazione di obiettivi complessi. Le quattro funzioni psicosociali sono: l’esemplificazione di un modello di ruolo, l’accettazione e la conferma, la distribuzione di consigli utili, l’amicizia. Le funzioni psicosociali hanno contribuito a costruire le identità lavorative dei partecipanti e a migliorare le loro percezioni sulle proprie competenze.49

Network per lo sviluppo alla base del mentoring

Diversità delle relazioni di sviluppo: varietà di persone cui un individuo si rivolge per ricevere assistenza

Forza delle relazioni di sviluppo: qualità delle relazioni tra un individuo e le persone nella sua rete di sviluppo

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Un tempo si pensava che il mentoring fosse principalmente appannaggio di una singola persona, che era per l’appunto detta “mentore”. Ma attualmente la tecnologia in continuo cambiamento, le strutture organizzative e le dinamiche dei mercati richiedono agli individui di procurarsi informazioni e sostegno per la propria carriera da molte fonti diverse. Ora si considera il mentoring come un processo in cui i giovani ricercano una guida per il proprio sviluppo all’interno di un network di persone. Lo slogan di McKinsey & Company per gli associate è “Costruisci la tua McKinsey”: la società di consulenza incoraggia i dipendenti a identificare partner, colleghi e collaboratori con obiettivi e interessi simili, in modo da aiutarsi l’uno l’altro a sviluppare le competenze. Ogni associate è quindi responsabile dello sviluppo delle propria carriera e del mentoring dei colleghi. Come riconosciuto dall’approccio McKinsey, la diversità e la forza della rete di relazioni di ogni individuo sono funzionali all’ottenimento del sostegno di cui questi ha bisogno per gestire il proprio percorso professionale.50 In figura 3-6 sono rappresentate diverse tipologia di network di sostegno basate sull’integrazione di due caratteristiche: la diversità e la forza delle relazioni.51 La diversità delle relazioni di sviluppo riflette la varietà di persone all’interno di una struttura cui l’individuo si riferisce per ricevere assistenza. Ci sono due componenti associate alla diversità: (1) il numero di persone con cui l’individuo è connesso e (2) la varietà dei differenti sistemi sociali da cui derivano le sue relazioni (ad esempio l’azienda, la scuola, la famiglia, la comunità, le associazioni professionali e i gruppi religiosi). Come si può vedere nella figura 3-6, la diversità delle relazioni di sviluppo può variare da bassa (poche persone o sistemi sociali) ad alta (numerose persone o sistemi sociali). La forza delle relazioni di sviluppo riflette la qualità delle relazioni tra un individuo e le persone coinvolte nella sua rete di sviluppo. Ad esempio, legami forti indicano rapporti basati su interazioni frequenti, reciprocità e sentimenti positivi; i legami deboli, invece, sono associati a relazioni più superficiali. La diversità e l’intensità delle relazioni di sviluppo danno vita nel loro insieme a quattro tipologie di reti (vedi figura 3-6): ricettiva, tradizionale, imprenditoriale e opportunistica.

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Cultura organizzativa, socializzazione e mentoring Figura 3-6 Reti di sviluppo associate al processo di mentoring

Forza delle relazioni di sviluppo Legami deboli Legami forti

Diversità delle relazioni di sviluppo

Fonte: M. Higgins e K. Kram, “Reconceptualizing Mentoring at Work: A Developmental Network Perspective,” Academy of Management Review, April 2001, p. 270.

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M2

M2 Bassa M1

M1 P

P Tradizionale

Ricettiva M2

M1

M1

M2

Alta P

P M4

M3

M4

M3

Opportunistica

Imprenditoriale

Legenda: M, mentore; P, protegé

Una rete ricettiva si compone di pochi legami deboli derivanti da un unico sistema sociale, ad esempio quello del datore di lavoro o di un’associazione professionale. L’ovale che circonda M1 e M2 nella figura 3-6 indica appunto due attori provenienti dallo stesso sistema sociale. Una rete di tipo tradizionale, invece, contiene pochi legami forti tra un dipendente e degli attori appartenenti a uno stesso sistema sociale. La rete di tipo imprenditoriale è la tipologia più forte tra le reti di sviluppo, ed è composta da legami forti con numerosi attori (M1-M4) provenienti da sistemi sociali diversi. Infine, la rete di tipo opportunistico ha in genere legami deboli con numerosi attori provenienti da sistemi sociali differenti.

Implicazioni personali e organizzative Ci sono cinque implicazioni a livello personale da prendere in considerazione. Innanzitutto, è importante sviluppare un’ampia rete di sviluppo perché il numero e la qualità dei contatti possono incidere sul futuro successo professionale. In secondo luogo, la soddisfazione sul lavoro e il percorso di carriera sono facilmente influenzati dalla coerenza tra gli obiettivi di carriera che un individuo si pone e il tipo di rete per lo sviluppo di carriera che ha a disposizione. Ad esempio: chi si trova in un network di tipo imprenditoriale avrà maggiori opportunità di affrontare dei cambiamenti all’interno del proprio percorso professionale e di beneficiare di un apprendimento personalizzato rispetto a un

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collega che ha a disposizione una rete di tipo ricettivo, tradizionale od opportunistico. Se vi sembra una prospettiva interessante, dovreste cercare di aumentare la diversità e la forza delle vostre relazioni per lo sviluppo di carriera. Al contrario, è più probabile registrare bassi tassi di soddisfazione lavorativa nei casi in cui i collaboratori, trovandosi a disposizione reti di sviluppo di tipo ricettivo, aspirino a un avanzamento di carriera all’interno di organizzazioni a più livelli. Le reti di sviluppo di tipo ricettivo possono però rivelarsi soddisfacenti per persone che non aspirino a particolari avanzamenti di carriera.52 In terzo luogo, la volontà di un mentore di fornire assistenza professionale e psicosociale al suo mentee è legata alle capacità di quest’ultimo di costruire una solida relazione interpersonale.53 Le ricerche dimostrano che la qualità della relazione di mentoring può essere più elevata quando le parti coinvolte presentano valori e caratteristiche personali simili.54 È quindi necessario prendersi la responsabilità di migliorare le proprie competenze e abilità nel costruire la propria rete di sviluppo nonché i propri rapporti interpersonali se si desidera davvero un avanzamento di carriera. In quarto luogo, è importante servirsi efficacemente di strumenti per il networking come Twitter, LinkedIn e Facebook. Aziende come AT&T fanno un uso sempre più ampio degli strumenti online per favorire le relazioni di mentoring internazionali. Strumenti di questo tipo consentono non solo di ampliare la propria rete sociale, ma anche di accrescere la produttività. Infine, è opportuno mettere a punto un piano di mentoring che, secondo gli esperti, dovrebbe comprendere i seguenti elementi:55 • Identificare gli obiettivi del mentoring basandosi su quello che si desidera imparare e stabilire delle priorità. • Identificare individui competenti o esperti nelle aree in cui si vuole migliorare. Non sottovalutare i colleghi, che possono essere un’ottima fonte di conoscenze funzionali, tecniche e organizzative. • Stabilire il modo migliore per instaurare un rapporto con le persone individuate. • Stabilire che cosa offrire al mentore. Dato che il mentoring è un rapporto biunivoco, ci saranno più probabilità che gli altri siano disponibili se la relazione di mentoring può aiutarli a raggiungere i propri obiettivi di carriera. • Stabilire quando è tempo di cambiare. Le relazioni di mentoring non durano per sempre: se si ritiene che il mentore sia inefficace o causi più danni che benefici è opportuno cercarne un altro. Le ricerche condotte sull’argomento sostengono inoltre i benefici che il mentoring apporta all’organizzazione. Per esempio, esso migliora l’efficacia della comunicazione organizzativa. Entrando nel dettaglio, il mentoring aumenta la comunicazione sia verso l’alto sia verso il basso all’interno di un’organizzazione, oltre a costituire un meccanismo di modifica e sostegno della cultura organizzativa esistente. Benefici di questo tipo inducono un numero crescente di aziende a istituire programmi di mentoring formalizzati. Secondo un sondaggio, 6 aziende su 10 offrono già programmi di mentoring o coaching, mentre tra le restanti, 8 su 10 li stanno mettendo a punto.56

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Comportamento organizzativo nel mondo: management interculturale

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Quante delle vostre supposizioni sulle culture straniere sono errate? Sue, una formatrice americana esperta di gestione del tempo, è convinta che il segreto del successo dei suoi corsi di formazione stia nel preparare una presentazione PowerPoint ben pianificata e strutturata. Ricevuto l’incarico di tenere un corso presso la sede israeliana di un’azienda statunitense, Sue lavora diligentemente, crea nuove slide, amplia gli obiettivi e impara alcune parole in ebraico. È molto sorpresa al notare che alcuni partecipanti arrivano in ritardo o restano assorbiti in animate conversazioni, mentre altri non si presentano perché impegnati in una riunione urgente. Il suo stupore cresce quando, durante la presentazione, alcuni si dedicano a controllare le email e altri mettono in discussione la formulazione degli obiettivi, attentamente pianificati. Dopo un’ora di continue domande su ogni slide, animate discussioni e divagazioni in ebraico, Sue ha illustrato solo 7 slide su 60 e propone una pausa.

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Che cosa non ha funzionato? È stata la cultura a interferire… Nonostante le somiglianze superficiali, tra statunitensi e israeliani esistono importanti differenze nella percezione e nell’approccio all’apprendimento, alla comunicazione, al lavoro e alla professionalità. La realtà culturale è che gli israeliani hanno un’ottima capacità di gestire il cambiamento e improvvisare in contesti in rapido mutamento. Generalmente sono rilassati rispetto alla gestione del tempo e dei programmi e preferiscono la spontaneità, la flessibilità e il dibattito acceso ai programmi rigidi. Il multitasking e l’azione just-in-time, caratteristiche distintive della cultura israeliana, sono considerati pratici ed efficienti. Quando gli israeliani accolgono visitatori autorevoli con una raffica di domande difficili, manifestano interesse, non necessariamente un atteggiamento critico. In Israele di norma durante le conversazioni il tono di voce è alto e ci sono molte interruzioni, senza che ciò implichi una mancanza di rispetto per gli interlocutori.1

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Il mondo del comportamento organizzativo

La globalizzazione e l’economia globale sono ormai da tempo temi all’ordine del giorno e le differenze culturali, come quelle sperimentate da Sue durante il suo incarico in Israele, rappresentano una sfida crescente. Nell’economia globalizzata di oggi le capacità di interazione interculturale possono determinare successi e fallimenti. I segni e le conseguenze della globalizzazione economica saliti agli onori delle cronache negli ultimi anni sono molti e hanno toccato diversi argomenti: le controversie durante i vertici dell’Organizzazione mondiale del commercio, le polemiche accese sulla concorrenza sleale tra stati, lo sfruttamento della forza lavoro in alcuni paesi e le violazioni del diritto di proprietà intellettuale.2 Nel nuovo scenario economico, i manager globali capaci di destreggiarsi in culture diverse godono di un grande vantaggio. Secondo i risultati di una recente ricerca condotta dall’Harvard Business Review: Viaggiare e vivere all’estero sono da tempo considerate attività che arricchiscono l’individuo. Ciò che forse si tende a non considerare è che portano benefici anche alle aziende: secondo la nostra ricerca, gli individui che hanno vissuto esperienze internazionali o si identificano con più di una nazionalità presentano migliori capacità di problem solving e maggiore creatività. Inoltre, abbiamo riscontrato che le persone che hanno fatto esperienze all’estero hanno più probabilità di creare nuove attività e nuovi prodotti e di ricevere promozioni.3

Secondo un’altra indagine, imprese multinazionali statunitensi guidate da CEO con provata esperienza nell’ambito di incarichi all’estero riescono tendenzialmente a conseguire risultati migliori.4 Persino per le persone che rimarranno nel loro paese d’origine sarà difficile sfuggire all’economia globale e alle interazioni interculturali. Per esempio la Nestlé, la più grande azienda al mondo di prodotti alimentari, occupa presso il quartier generale di Vevey (Svizzera) collaboratori di 100 nazionalità diverse.5 I contatti interculturali sono particolarmente comuni in paesi come gli Stati Uniti, il Canada e il Brasile, culturalmente eterogenei perché abitati da popolazioni indigene e generazioni di migranti (vedi la tabella 4-1).6 I collaboratori che restano nel proprio paese d’origine svilupperanno rapporti internazionali lavorando per aziende a capitale straniero o trattando con fornitori, clienti e collaboratori stranieri7 o riceveranno un incarico all’estero inaspettato.8 L’economia globale è caratterizzata da una ricca mescolanza di opportunità, problemi e culture, ed è sicuramente giunto il momento di sviluppare delle adeguate competenze di gestione intercultuale. Scopo del presente capitolo è pertanto quello di aiutare a intraprendere tale direzione esaminando gli effetti della diversità di culture nell’impresa di oggi, sempre più internazionalizzata. Il capitolo si avvale dei contributi dell’antropologia culturale.9 In primo luogo proporremo un modello che illustra come la cultura sociale e la cultura aziendale (concetto analizzato nel Capitolo 3) concorrano a influenzare il comportamento sul lavoro. Si passerà poi a illustrare come sviluppare l’intelligenza culturale. In seguito verranno esaminati gli aspetti chiave della cultura di un gruppo sociale con il fine ultimo di accrescere la consapevolezza interculturale. Verranno poi passate in rassegna le ricadute operative della letteratura sulla gestione interculturale. Il capitolo

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Comportamento organizzativo nel mondo: management interculturale Tabella 4-1 La diversità delle radici culturali degli Stati Uniti. Se gli Stati Uniti, con 312 milioni di abitanti, venissero proporzionalmente ridotti a un villaggio di 100 abitanti, questi avrebbero la seguente origine:

Fonti: David J. Smith, If America Were a Village (Toronto: Kids Can Press, 2009); e Greg Toppo, “Counting to 100 in ‘America’,” USA Today, 3 settembre 2009, p. 7D.

Tedesca Irlandese Africana Inglese Messicana Italiana Polacca Francese Nativa americana Scozzese Olandese Norvegese Scozzese-irlandese Svedese Discendenza diversa

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15 persone 11 persone 9 persone 9 persone 7 persone 6 persone 3 persone 3 persone 3 persone 2 persone 2 persone 2 persone 1 persona 1 persona 26 persone

si concluderà esaminando le difficoltà, da un punto di vista soggettivo, di accettare un incarico all’estero e di evitare lo shock culturale.

Cultura e comportamento organizzativo Se foste un manager, come interpretereste i seguenti casi? • Un dirigente asiatico di una multinazionale, trasferito da Taiwan al Midwest degli Stati Uniti, risulta, agli occhi dei suoi pari, distaccato e autoritario. • Una banca della West Coast intraprende una campagna volta a incentivare una maggiore informalità da parte del personale nei confronti dei clienti, ma le cassiere filippine non vogliono cooperare. • Un dirigente di razza bianca critica il lavoro di un impiegato di colore; invece di ottenere una spiegazione il manager riceve in cambio silenzio e uno sguardo di sfida.10 Associando una tipologia di personalità ai comportamenti sopra descritti, tre sono le caratteristiche che emergono: rispettivamente arrogante, scortese e ostile. Queste sarebbero conclusioni logiche, ma probabilmente errate, essendo basate più su pregiudizi e stereotipi che su fatti concreti. Se tuttavia i comportamenti fossero attribuiti a differenze culturali si avrebbe la possibilità di giungere a interpretazioni più convincenti: “la cultura asiatica incoraggia uno stile manageriale più distaccato; i filippini associano un comportamento troppo cordiale nelle donne a qualcosa di sconveniente; le persone di colore, come gruppo, agiscono più cautamente, con una attenzione visiva maggiore rispetto ai bianchi”.11 In conclusione, non si possono trascurare importanti elementi culturali quando si cerca di comprendere e gestire il comportamento organizzativo.

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Parte I

Il mondo del comportamento organizzativo

La cultura di un gruppo sociale è complessa e multistratificata Cultura: convinzioni e valori di una comunità rispetto ai comportamenti, e consuetudini a supporto di tali valori.

Nel Capitolo 3 si è parlato di cultura organizzativa. Nel presente capitolo ci si concentrerà maggiormente sul concetto di cultura sociale. “La cultura consiste in un insieme di convinzioni e valori relativi a ciò che è auspicabile o meno all’interno di una comunità di persone e in una serie di consuetudini formali e informali che sostengono tali valori”.12 La cultura è costituita, dunque, sia da elementi prescrittivi (ciò che la gente dovrebbe fare), che da elementi descrittivi (ciò che effettivamente fa). Essa passa da una generazione all’altra attraverso la socializzazione nella famiglia, con gli amici, gli insegnanti e altre persone significative. L’apprendimento culturale viene consolidato per la maggior parte tramite l’osservazione e l’imitazione di modelli di comportamento osservati nella loro quotidianità o attraverso i mass media.13 È difficile cogliere appieno il significato del termine “cultura” perché si tratta di un concetto con diversi strati. Due esperti di management internazionale, l’olandese Fons Trompenaars e l’inglese Charles Hampden-Turner, hanno fornito una analogia istruttiva nella loro fondamentale opera Riding the Waves of Culture: La cultura è come una cipolla: è fatta a strati. Per comprenderla occorre sbucciarla, strato per strato. Su quello esterno si trovano i prodotti della cultura: ad esempio, i grattacieli torreggianti di Manhattan, veri pilastri del potere privato, tra cui scorrono strade congestionate. Tali elementi sono espressione di valori e norme sociali più profonde e invisibili: ad esempio valori quali la mobilità verticale, lo status, il successo materiale. Gli strati di valori e norme che si trovano nella parte più profonda della “cipolla” sono più difficili da identificare.14

Il modo migliore per “sbucciare la cipolla della cultura” è adottare un approccio proattivo ed entrare in contatto con persone di cultura diversa. Il CEO di IBM Samuel Palmisano esprime così il concetto: “Mi piace trascorrere del tempo in altre parti del mondo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove ho notato un incredibile ottimismo ed entusiasmo rispetto al futuro. Restando al quartier generale dell’azienda è impossibile conoscere culture e opportunità diverse.”15 Lo stesso discorso vale per gli studenti: recenti ricerche condotte su studenti universitari hanno dimostrato che le esperienze multiculturali accrescono la creatività.16 (Un buon motivo per prendere in considerazione le tante opportunità offerte dai programmi di scambio e studio all’estero!)

La cultura è una forza sottile ma pervasiva La cultura rimane generalmente al di sotto della soglia della consapevolezza perché implica assunti dati per scontati che influiscono sul modo di percepire, pensare, agire e sentire. L’antropologo culturale Edward T. Hall presenta la cosa nei seguenti termini: Dal momento che gran parte della cultura agisce al di fuori della nostra coscienza accade di frequente che noi non siamo consapevoli di ciò che sappiamo. Iniziamo a immagazzinare [… aspettative e assunti] fin dai primi mesi di vita. Inconsciamente impariamo che

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cosa osservare e che cosa tralasciare, come suddividere il tempo e lo spazio; impariamo a camminare, a parlare e a usare il nostro corpo; impariamo a comportarci come uomini o donne, a metterci in relazione con gli altri, a gestire le responsabilità, sia che l’esperienza sia vista nel suo complesso o in piccoli frammenti separati. E questo vale per tutti: i cinesi, i giapponesi o gli arabi sono tanto inconsapevoli dei loro assunti quanto lo siamo noi dei nostri. Ognuno di noi presuppone che facciano parte della natura umana; il nostro concetto di “mente” è in realtà cultura interiorizzata.17

In sintesi potremmo affermare: “ognuno è la propria cultura, e la cultura è ciascuno”. Questo tema è diventato così importante negli ultimi anni che molte aziende hanno assunto degli antropologi al fine di decifrare le radici culturali dei bisogni e delle preferenze del cliente come parte integrante delle proprie pratiche di marketing.18

Cultura sociale e cultura organizzativa: un modello Come si evince dalla figura 4-1, la cultura influenza il comportamento organizzativo in due modi: gli individui portano la cultura del proprio gruppo sociale di appartenenza sul posto di lavoro sotto forma di comportamenti e linguaggi; la cultura aziendale, un sottosistema della cultura sociale, influisce a sua volta sui valori e sull’etica degli individui, sui loro atteggiamenti, sugli assunti di base e le aspettative. La cultura di un gruppo sociale è influenzata dai diversi fattori ambientali elencati sul lato sinistro della figura 4-1. Inoltre, quando l’individuo si trova all’interno della sfera d’influenza dell’organizzazione è ulteriormente condizionato dalla cultura dell’organizzazione stessa. La reciproca influenza tra culture sociali e organizzative può dare luogo a dinamiche interessanti nelle aziende multinazionali. Ad esempio, nel caso di dipendenti francesi e americani che lavorano fianco a fianco nella struttura della General Electric di Waukesha, nel Wisconsin, il capo reparto Claude Benchimol è stato testimone di una sorta di shock culturale:

Cultura aziendale • Scenario economico/ tecnologico • Scenario politico/ legale • Background etnico • Religione

Cultura sociale • Usanze • Linguaggi

• Valori personali/etica • Atteggiamenti • Assunti di base • Aspettative

Comportamento organizzativo

Figura 4-1 Influenze culturali sul comportamento organizzativo

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Il mondo del comportamento organizzativo

I francesi si sorprendono del fatto che gli uffici si svuotino già alle 5 del pomeriggio; gli americani del fatto che i francesi non comincino a lavorare alle 8 del mattino. Benchimol reputa che i francesi siano più loquaci e franchi; che gli americani abbiano un maggior senso della gerarchia e siano meno propensi alla critica. La vicinanza con i francesi, tuttavia, li sta cambiando; Benchimol afferma: “C’è voluto un anno per capire che tutti abbiamo il diritto di dire ciò che non è di nostro gradimento, in modo da diventare più produttivi e lavorare meglio”.19

Si tratta della stessa azienda, della stessa cultura aziendale, eppure i colleghi francesi e americani della GE hanno un atteggiamento diverso nei confronti del tempo, del sistema gerarchico e della comunicazione. Questi comportamenti, che per ciascuno sono “naturali”, sono in realtà il risultato di culture sociali differenti. Quando si gestiscono le persone è necessario prendere in considerazione la cultura sociale del singolo, la cultura organizzativa e i diversi tipi di interazione tra le due dimensioni. L’orientamento culturale verso il miglioramento della qualità per i lavoratori americani, per esempio, differisce in modo sostanziale dallo schema culturale giapponese. “Diversamente dai giapponesi, i lavoratori americani non hanno alcun interesse a compiere piccoli miglioramenti graduali per l’incremento della qualità; loro desiderano la grande svolta, il sogno impossibile che improvvisamente si realizza. I lavoratori dei due paesi hanno quindi sistemi di motivazione diversi; nel primo caso sono soddisfatti di lavorare per piccoli passi, nel secondo bisogna chiedere loro il perseguimento di un grande balzo.”20

Sviluppare l’intelligenza culturale Quanto siete preparati a interagire efficacemente con persone di cultura diversa? Per rispondere a questa domanda, immaginate un continuum nel quale l’etnocentrismo rappresenta il livello minimo di preparazione, mentre l’intelligenza culturale corrisponde al livello massimo. Passiamo ora a esaminare questi due estremi con l’obiettivo di attenuare l’etnocentrismo e sviluppare l’intelligenza culturale.

Etnocentrismo: un ostacolo per le interazioni interculturali Etnocentrismo: convinzione che la cultura, la lingua e i comportamenti del proprio paese siano superiori

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L’etnocentrismo, ossia la convinzione che la cultura, la lingua e i comportamenti del proprio paese nativo siano superiori a tutti gli altri, affonda le sue radici negli albori della civiltà. Descritto per la prima volta nel 1906, nell’ambito dello studio scientifico del comportamento, come la tendenza dei gruppi a rifiutare elementi estranei,21 il termine etnocentrismo possiede oggi un significato più ampio. I segni dell’etnocentrismo sono diffusi in tutto il mondo; per esempio, Hiwa Assad, un ex guerrigliero curdo residente a Kirkuk, nella regione curda dell’Iraq settentrionale, afferma: “La gente di Kirkuk ha due volti […] Stanno seduti a discutere con te e sembrano angeli, dicono ‘Io non ho nemici e non odio la gente di religione e nazionalità diverse’. Ma non appena si riuniscono con la loro tribù si abbandonano all’astio e agli insulti.”22 L’etnocentrismo militante

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ha portato a mortali “pulizie etniche” in Bosnia e Kosovo, e a veri e propri genocidi in Ruanda, Burundi e nel Darfur. Di portata minore, ma pur sempre problematico, è l’etnocentrismo in ambito manageriale e organizzativo. Il problema può essere così definito: [I manager etnocentrici] preferiscono collocare i loro connazionali in posizioni chiave ovunque nel mondo, spesso assicurando loro uno stipendio superiore a quello che la posizione dovrebbe garantire. È questa la conseguenza del ritenere il proprio gruppo più intelligente, più capace o più affidabile. […] Spesso l’etnocentrismo non è tanto associabile al pregiudizio, quanto all’inesperienza o alla mancanza di conoscenza degli individui stranieri e delle situazioni inusuali. È questo un fatto che non deve stupire, dal momento che la maggior parte dei dirigenti è solita lavorare con persone inserite nel proprio ambiente di origine. Secondo quanto afferma un dirigente, “con i nostri manager, almeno capisco come mai commettano errori; con quelli stranieri non lo so mai con certezza. I manager stranieri potrebbero essere migliori, ma se non riesco a fidarmi di una persona dovrei forse assumerla semplicemente a testimonianza del fatto che siamo una multinazionale?”23

La ricerca indica come l’etnocentrismo abbia una influenza negativa sulle performance aziendali. Un’indagine condotta su 918 multinazionali con la casa madre situata negli Stati Uniti (272 aziende), in Giappone (309) e in Europa (337), ha portato alla conclusione che l’assunzione di personale etnicamente omogeneo, insieme a politiche non innovative di gestione delle risorse umane, ha determinato crescenti problemi, tra i quali difficoltà di reclutamento, alti livelli di turnover e azioni legali contro le politiche del personale adottate. Secondo questa ricerca, le aziende giapponesi risultano essere quelle meno orientate alla diversità, con le più diffuse pratiche etnocentriche e i maggiori problemi di gestione del personale internazionale.24 I manager attuali e futuri – e le persone più in generale – possono concretamente gestire il problema dell’etnocentrismo attraverso la formazione, una maggiore consapevolezza interculturale, l’esperienza internazionale e un cosciente sforzo volto a valorizzare la diversità culturale. Fareed Zakaria, un corrispondente della CNN nato in India, ha di recente lanciato questo appello sui rischi legati all’etnocentrismo: Gli statunitensi parlano poche lingue, conoscono superficialmente le altre culture e non sono affatto convinti che sia necessario cambiare questo stato di cose. Di rado si attengono a standard globali perché sono certi di essere i migliori e i più progrediti. Il risultato? Sono sempre più sospettosi rispetto alla nuova era globale. Si sta aprendo un divario crescente tra la classe cosmopolita e l’élite mondana degli affari e la maggior parte della popolazione; se non si farà nulla per colmarlo, rischia di distruggere il vantaggio competitivo e il futuro politico del paese.25

A ravvivare questo scenario piuttosto tetro, alcuni segnali positivi riguardanti gli studenti universitari: secondo i dati più recenti, nel 2009 gli studenti stranieri iscritti in università statunitensi erano 690.923 (con un ritorno economico di circa 20 miliardi di dollari), mentre gli studenti statunitensi iscritti in università estere erano 260.327.26

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L’intelligenza culturale è la soluzione ai paradossi culturali

Intelligenza culturale: capacità di interpretare correttamente situazioni interculturali ambigue

A questo punto è importante sottolineare che tutte le differenze culturali presentate in questo capitolo, e altrove in questo libro, devono essere intese come tendenze e tracce di riflessione piuttosto che in senso assoluto.27 Non appena si scivola nella trappola che porta a credere che tutti gli italiani siano fatti in un certo modo, o che tutti i coreani agiranno in una determinata maniera, generalizzazioni potenzialmente istruttive possono diventare sciocchi stereotipi. Due studiosi in possesso di un’ampia esperienza lavorativa all’estero suggeriscono quanto segue: “In qualità di insegnanti, ricercatori e manager inseriti in contesti interculturali, dobbiamo riconoscere che le nostre caratterizzazioni iniziali su altre culture sono congetture che necessitano di essere adattate con il progredire dell’esperienza”.28 Di conseguenza, essi sostengono, noi saremo meglio preparati a gestire gli inevitabili paradossi culturali; dove per paradosso è intesa l’esistenza, sempre e comunque, di eccezioni che confermano la regola, vale a dire individui che non si inseriscono nello schema culturale atteso. Un buon esempio è il capo della Canon: “secondo quelli che sarebbero i parametri standard dei CEO giapponesi, Fujio Mitarai della Canon Inc. rappresenta un’anomalia. Tanto per cominciare è rapido e direttivo – ben distante dai ‘costruttori di consenso’ che generalmente guidano l’industria giapponese”.29 È possibile riscontrare molti paradossi culturali in nazioni grandi e culturalmente variegate come Stati Uniti e Australia. È per questo motivo che occorre sviluppare l’intelligenza culturale, che possiamo definire come la capacità di interpretare correttamente situazioni interculturali ambigue; una capacità essenziale negli attuali ambienti di lavoro, culturalmente eterogenei.30 David C Thomas e Kerr Inkson, autori del libro Cultural Intelligence: Living and Working Globally, affermano che l’intelligenza culturale si articola in tre componenti. 1. Innanzitutto, l’individuo dotato di intelligenza culturale deve poter contare su un insieme di conoscenze sulla cultura e i principi fondamentali delle interazioni interculturali. Ciò significa che sa che cos’è la cultura, come cambia e come influenza il comportamento. 2. In secondo luogo, deve praticare la consapevolezza, cioè deve essere in grado di valutare con attenzione, riflessività e creatività gli elementi ricavabili dalle situazioni interculturali, nonché i propri sentimenti e le proprie conoscenze. 3. Infine, sulla base delle conoscenze e della consapevolezza, l’individuo dotato di intelligenza culturale sviluppa capacità di interazione interculturale e diventa in grado di gestire un ampio ventaglio di situazioni. Queste capacità comprendono la scelta del comportamento giusto da un ampio repertorio di comportamenti adeguati in una serie di situazioni interculturali diverse.31 Chi desidera sviluppare l’intelligenza culturale deve prima coltivare la propria intelligenza emotiva, esaminata in dettaglio nel Capitolo 5, e poi fare pratica in situazioni interculturali poco familiari.32 Come accade in ogni tipo di interazione umana, non esiste adeguato sostituto all’approfondita conoscenza personale delle persone con cui si tratta, all’ascolto e all’interesse autentico nei confronti degli altri. Immaginate quante opportunità di sviluppare l’intelligenza culturale possono cogliere gli studenti della IE Business School di Madrid, che offre un programma MBA d’eccellenza a livello internazionale:

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La classe dell’anno precedente, composta da 287 studenti, contava 55 nazionalità diverse. […] Il corpo studentesco della IE è uno dei più variegati al mondo. Rodrigo Sanchez Hidalgo, che ha portato a termine il programma a dicembre, ha lavorato con compagni provenienti da 15 paesi, tra cui El Salvador e il Kazakhstan. Per attirare un maggior numero di studenti internazionali, la scuola ha di recente aperto uffici per il marketing e le ammissioni a Singapore, Dubai, Berlino e Lisbona. Obiettivo? Formare laureati in grado di operare in un ambiente multiculturale. “Il nostro non è un melting pot in cui i partecipanti condividono una cultura comune,” afferma Santiago Iñiguez de Ozoño, il preside della scuola.33

Comprendere le differenze culturali La presente sezione analizza le modalità fondamentali adottate per descrivere e paragonare le culture. In primo luogo verranno messe a confronto le culture a struttura complessa e le culture lineari, e verranno presentate nove dimensioni culturali che danno forma al modello GLOBE. Si prenderanno infine in esame le differenze interculturali relative all’individualismo, al tempo, allo spazio e alla religione.

Culture a struttura complessa e culture lineari Culture a struttura complessa: culture che nella comunicazione e nella percezione dei significati si riferiscono a segnali deboli, situazionali e non verbali

Si tratta di una distinzione culturale utile e largamente applicabile (figura 4-2).34 I popoli appartenenti a culture a struttura complessa, o ad alto contesto – tra le quali sono comprese Cina, Corea, Giappone, Vietnam, Messico e le culture arabe – nella comunicazione e nella percezione dei significati si riferiscono a segnali deboli. Elementi non verbali, relativi alla posizione ufficiale di un individuo, al suo status o alle relazioni familiari, trasmettono messaggi più efficaci di quanto non facciano le parole. Come esempio, consideriamo l’esperienza di lavoro del pachistano Arif M. Naqvi a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti: Naqvi è un insider e conclude affari con alcune delle figure più influenti nella regione, tra cui Khalid bin Sultan, figlio del principe ereditario alla corona saudita Sultan. I suoi contatti e l’esperienza maturata sono essenziali per portare a casa i risultati; i rapporti sociali sono spesso più importanti del denaro in Medio Oriente […] Occorre una certa diplomazia per concludere un accordo, come quella usata da Naqvi con Aramex International, un corriere espresso. Fadi Ghandour, fondatore e CEO di Aramex, ricorda una serie di [lunghi] pranzi e cene con Naqvi nell’arco di diversi mesi.35

Culture lineari: culture che attribuiscono un alto valore alle parole scritte e pronunciate

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Le culture lineari: il valore delle regole scritte Nelle culture lineari, o a basso contesto, le parole, scritte e pronunciate, si assumono in buona parte il compito di trasmettere i significati condivisi. Le culture lineari includono la Germania, la Svizzera, i paesi scandinavi, il Nord America e la Gran Bretagna. Caratteristica della Germania, ad esempio, è il fatto di avere regole scritte e precise anche per i più piccoli dettagli della vita quotidiana.36 Nell’ambito di culture a struttura complessa si ha la tendenza a prendere accordi basandosi sulla parola di qualcuno o su di una stretta di mano, dopo un

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Araba

Greca

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Spagnola Italiana

Vietnamita Giapponese Coreana

Inglese Nordamericana Scandinava Svizzera

Cinese

Tedesca

Culture a struttura complessa ■ Per prima cosa va stabilito un certo grado di fiducia sociale ■ Si valorizzano le relazioni personali e la buona volontà ■ Si stabilisce un accordo sulla base della fiducia generale ■ Le negoziazioni sono lente e ritualistiche

Culture lineari ■ Prima di tutto gli affari ■ Si valorizzano l’esperienza e il risultato ■ Si prendono accordi sulla base di un contratto specifico e legalmente vincolante ■ Si portano avanti le negoziazioni nel modo più efficiente possibile

Figura 4-2 Confronto tra culture a struttura complessa e culture lineari Fonte: M. Munter, “Cross-Cultural Communication for Managers,” maggio-giugno 1993, Figura 3, p. 72. Copyright © 1993 by the Board of Trustees at Indiana University, Kelley School of Business.

periodo piuttosto lungo di conoscenza e di costruzione della fiducia reciproca. Americani e canadesi, provenienti da culture lineari, che affondano le proprie radici nell’Europa del nord, intendono invece la stretta di mano come un semplice segnale preliminare in vista della firma di un contratto formale, avente valore legale. Evitare scontri culturali Il fraintendimento e l’incapacità di comunicazione rappresentano un problema nelle relazioni commerciali internazionali quando le parti in causa provengono da culture agli estremi di questo spettro. Un professore messicano di materie aziendali ha fornito, di recente, un esempio istruttivo: Nel corso degli anni ho avuto modo di constatare come vi siano, tra una cultura e l’altra, diverse opinioni su cosa ci si aspetti da una relazione scritta. I manager statunitensi, per esempio, assumono un atteggiamento pragmatico, che arriva direttamente al punto, e vogliono che le relazioni siano concise e orientate verso l’azione; non hanno tempo di leggere prolisse spiegazioni: “solo i fatti, signori”. I manager dell’America Latina presentano di solito lunghe spiegazioni che vanno oltre i semplici fatti. […] A un mio amico, rappresentante, in America Latina, di un’azienda statunitense, è stato chiesto dal suo capo di fornire rapporti regolari sulle attività di vendita. Le relazioni da lui presentate erano lunghe, includevano dettagliate spiegazioni sul contesto nel quale si verificavano gli eventi e le relative interpretazioni. Il suo capo gli rispondeva regolarmente con messaggi molto brevi il cui senso era “lascia stare le sciocchezze e vieni al punto!”.37

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Situazioni imbarazzanti come questa possono essere evitate quando entrambe le parti coinvolte fanno un tentativo, in buona fede, per comprendersi e venirsi incontro. Qui di seguito sono riportati alcuni suggerimenti pratici. • Le persone, da entrambe le parti, devono essere adeguatamente formate in modo da modificare il proprio punto di vista e accettare i compromessi. • Un nuovo collaboratore deve essere accolto da un gruppo comprendente il suo superiore diretto, alcuni colleghi che ricoprono mansioni simili alle sue e un collega geograficamente vicino a lui. • Nel fornire spiegazioni di qualunque tipo si devono aggiungere le opportune informazioni di contesto, inclusi gli antefatti e le personalità coinvolte. • Non bisogna dare per scontato che il nuovo arrivato sia autonomo, è necessario fornire istruzioni esplicite non solo in merito agli obiettivi, ma anche ai processi necessari al loro raggiungimento. • I dipendenti provenienti da culture a struttura complessa devono imparare a porre domande anche al di fuori della funzione aziendale in cui operano. • I dipendenti stranieri devono compiere uno sforzo al fine di diventare più autonomi.38

Le nove dimensioni culturali del progetto GLOBE Il progetto GLOBE (Global Leadership and Organizational Behavior Effectivness) è nato da un’idea del professor Robert J. House, della University of Pennsylvania.39 Si tratta di un importante tentativo, in fase di svolgimento, volto a “elaborare una teoria, basata su dati empirici, che descriva, comprenda e predica l’impatto di specifiche variabili culturali sulla leadership, sui processi organizzativi e sulla loro efficacia”.40 A partire dal 1994, anno in cui il progetto GLOBE è stato lanciato a Calgary, in Canada, esso si è sviluppato nell’ambito di una rete di più di 150 studiosi provenienti da 62 paesi. I ricercatori coinvolti sono originari, per la maggior parte, dei paesi oggetto dello studio; la qual cosa aumenta la credibilità del progetto. Durante le prime due fasi dello studio in questione è stata compilata una lista di nove dimensioni culturali di base, supportata poi da dati statistici. Questionari basati su tali nove dimensioni sono stati distribuiti in tutto il mondo a migliaia di manager di diversi settori, dal credito all’alimentare alle telecomunicazioni, al fine di costruire un grande database. I risultati vengono pubblicati regolarmente. Il progetto, per raggiungere il proprio obiettivo principale, richiederà ancora molti anni; allo stato attuale, comunque, è stato messo a punto uno strumento efficace per meglio comprendere somiglianze e differenze interculturali. Le nove dimensioni culturali del progetto GLOBE sono le seguenti. •

Distanza dal potere: quanto dovrebbe essere diseguale la distribuzione del potere nella società e nelle organizzazioni? • Rifiuto dell’incertezza: fino a che punto gli individui dovrebbero affidarsi a norme e regole sociali per evitare l’incertezza e limitare l’imprevedibilità? • Collettivismo orientato all’istituzione: fino a che punto i leader dovrebbero incoraggiare e premiare la lealtà al gruppo rispetto al perseguimento degli obiettivi individuali?

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Collettivismo orientato al gruppo: quale grado di orgoglio e lealtà dovrebbero dimostrare i singoli individui nei confronti della loro famiglia od organizzazione di appartenenza? • Uguaglianza di genere: quale sforzo dovrebbe essere compiuto per minimizzare la discriminazione di genere e le disuguaglianze dei ruoli? • Assertività: fino che punto i singoli individui, nelle relazioni sociali, dovrebbero porsi in modo negoziale o dominante? • Orientamento verso il futuro: in che misura gli individui dovrebbero rimandare la gratificazione immediata, pianificando e investendo nel futuro? • Orientamento al risultato: quanto dovrebbero essere premiati i singoli per miglioramento ed eccellenza? • Orientamento alle persone: fino a che punto la società dovrebbe incoraggiare e premiare gli individui per essere cortesi, leali, amichevoli e generosi?41 E la vostra cultura? Fate una breve pausa e assegnate un punteggio da 1 a 10 (1 = poco o nulla, 10 = molto) alle vostre convinzioni rispetto alle nove dimensioni culturali del progetto GLOBE. In questo modo potrete comprendere meglio i concetti culturali alla base del progetto. Profili nazionali e implicazioni pratiche Come vengono valutati i differenti paesi nelle dimensioni culturali del progetto GLOBE? I dati raccolti da 18.000 manager, riassunti nella tabella 4-2, illustrano i vari profili. Una rapida visione d’insieme mostra una notevole diversità culturale in tutto il mondo; ma grazie alle nove dimensioni culturali Tabella 4-2 I paesi con il punteggio più alto e più basso nelle dimensioni culturali del progetto GLOBE Dimensione

Più alto

Più basso

Distanza dal potere

Marocco, Argentina, Tailandia, Spagna, Russia

Rifiuto dell’incertezza

Svizzera, Svezia, Germania – ex occidentale, Danimarca, Austria Svezia, Sud Corea, Giappone, Singapore, Danimarca Iran, India, Marocco, Cina, Egitto

Danimarca, Paesi Bassi, Sud Africa – persone di colore, Israele, Costa Rica Russia, Ungheria, Bolivia, Grecia, Venezuela

Collettivismo orientato all’istituzione Collettivismo orientato al gruppo Uguaglianza di genere Assertività Orientamento verso il futuro Orientamento al risultato Orientamento alle persone

Ungheria, Polonia, Slovenia, Danimarca, Svezia Germania – ex orientale, Austria, Grecia, Stati Uniti, Spagna Singapore, Svizzera, Paesi Bassi, Canada – di lingua inglese, Danimarca Singapore, Hong Kong, Nuova Zelanda, Taiwan, Stati Uniti Filippine, Irlanda, Malesia, Egitto, Indonesia

Grecia, Ungheria, Germania – ex orientale, Argentina, Italia Danimarca, Svezia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Finlandia Sud Corea, Egitto, Marocco, India, Cina Svezia, Nuova Zelanda, Svizzera, Giappone, Kuwait Russia, Argentina, Polonia, Italia, Kuwait Russia, Argentina, Grecia, Venezuela, Italia Germania – ex occidentale, Spagna, Francia, Singapore, Brasile

Fonte: adattamento da: “Cultural Acumen for the Global Manager: Lessons from Project GLOBE”, di M. Javidan e R.J. House; Organizational Dyamics, primavera 2001; pp. 289-305.

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del progetto GLOBE abbiamo una comprensione più precisa di come variano le culture. Un’analisi più approfondita ci permette di riconoscere i diversi modelli culturali, o i tratti peculiari delle varie nazioni. Il campione costituito dai manager statunitensi, per esempio, ha ottenuto un punteggio alto in merito all’assertività e all’orientamento al risultato; non a caso, gli americani sono generalmente percepiti come grintosi e diligenti. L’alto punteggio ottenuto dalla Svizzera per quanto riguarda il rifiuto dell’incertezza e l’orientamento verso il futuro aiuta a spiegare la lunga tradizione di neutralità politica di questo paese e il successo del suo settore bancario. Singapore è nota come un posto ideale per gli affari perché pulito e sicuro; inoltre i suoi abitanti possiedono una buona istruzione e una notevole disciplina sul lavoro. Tutto ciò non è sorprendente se si considera l’alto punteggio ottenuto nell’ambito del collettivismo orientato all’istituzione, dell’orientamento verso il futuro e dell’orientamento al risultato.42 Il basso punteggio ottenuto dalla Russia in merito all’orientamento verso il futuro e all’orientamento al risultato, invece, potrebbe preludere a una transizione più lenta di quanto sperato da un’economia a pianificazione centrale verso un’economia di mercato.

Individualismo e collettivismo

Cultura individualistica: enfatizza libertà e scelte individuali

Vi è mai capitato di sentirvi fortemente combattuti tra quanto da voi personalmente desiderato e quello che il gruppo, l’azienda o la società si attendono da voi? In caso affermativo, avete avuto il vostro primo impatto con un’importante distinzione culturale: quella tra individualismo e collettivismo. Tale differenziazione culturale, rappresentata da due delle nove dimensioni del progetto GLOBE, merita un’analisi più approfondita. Come ci si può facilmente attendere data la grande mole di studi sull’argomento, la contrapposizione individualismo-collettivismo è soggetta a numerose interpretazioni.43 Esaminiamo i concetti di base di questa distinzione con l’obiettivo di sviluppare una maggiore consapevolezza culturale. Le culture individualistiche, le “culture dell’io”, attribuiscono maggiore importanza alla libertà e alla scelta del singolo. Di conseguenza, tendono a sottolineare la responsabilità individuale rispetto a problemi e questioni di varia natura, un aspetto non di poco conto in una società che invecchia: Un forte sentimento di “solidarietà sociale”, come lo definisce [il professore della Johns Hopkins University Gerald F] Anderson, rende gli europei inclini alla generosità nei confronti dei più anziani e più disponibili ad aiutarli. “Pensano che quando invecchieranno, avranno a loro volta bisogno di aiuto,” afferma il professore. “L’atteggiamento statunitense è improntato a uno spiccato individualismo: saremo noi ad occuparci di noi stessi, non gli altri.”44

Cultura collettivistica: gli obiettivi individuali sono meno importanti degli obiettivi e degli interessi della comunità

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Questa differenza culturale ha trovato conferma in un recente sondaggio sulla qualità della vita dei cittadini anziani in 16 paesi industrializzati: i Paesi Bassi si sono classificati al primo posto, gli Stati Uniti al tredicesimo.45 Le culture collettivistiche, le “culture del noi”, attribuiscono un valore maggiore agli obiettivi condivisi, piuttosto che a quelli individuali. Nelle culture collettivistiche ci si attende che gli individui mettano in secondo piano i propri desideri e obiettivi per

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favorire quelli del gruppo sociale a cui appartengono. Un sondaggio, condotto su scala mondiale su 30.000 manager da Trompenaars e Hampden-Turner (che preferiscono il termine comunitarianismo a quello di collettivismo), ha rilevato il più alto grado di individualismo in Israele, Romania, Nigeria, Canada e Stati Uniti; i paesi con il più basso grado di individualismo, pertanto identificati come paesi a cultura collettivistica, sono Egitto, Nepal, Messico, India e Giappone; anche Brasile, Cina e Francia sono stati classificati tra i paesi a cultura collettivistica.46 Un fattore di successo In paesi culturalmente differenziati come gli Stati Uniti è naturalmente lecito aspettarsi di incontrare sia gli individualisti che i collettivisti. Immaginate, per esempio, la frustrazione di Dave Murphy, venditore di fondi comuni di investimento proveniente da Boston, che cercava invano di suscitare interesse negli indiani Navajo dell’Arizona relativamente all’utilità di risparmiare in vista della pensione. Dopo diversi incontri infruttuosi con gruppi di Navajo, un funzionario locale gli ha fornito la seguente prospettiva culturale: “Deve capire che in questo tipo di ambiente il denaro è percepito in maniera diversa; è fatto per essere speso. Se qualcuno ne possiede una certa quantità aiuta la propria famiglia”.47 (Dunque i Navajo, nelle dimensioni culturali del progetto GLOBE, otterrebbero un punteggio alto nel collettivismo orientato al gruppo e un punteggio basso nell’orientamento verso il futuro.) Per i Navajo tradizionali, cresciuti in una cultura collettivistica, il risparmio di denaro è visto come un inutile atto di egoismo. Di conseguenza nel proporre loro i fondi comuni si è messo l’accento sui benefici per la famiglia dei piani individuali di risparmio. Fedeltà a chi? L’esempio degli indiani Navajo fa emergere un aspetto molto importante delle culture collettivistiche: quale elemento della società è il riferimento predominante? Per il popolo Navajo la famiglia è il gruppo di riferimento fondamentale; tuttavia, come hanno osservato Trompenaars e Hampden-Turner, esistono importanti differenze anche tra le culture collettivistiche (o comunitarie): Per ogni società presa singolarmente è necessario individuare il gruppo con il quale gli individui si identificano maggiormente. Potrebbero avere la tendenza a identificarsi con il sindacato, la famiglia, l’azienda, la religione, con la loro professione, il gruppo nazionale o l’apparato dello stato. I francesi hanno la tendenza a identificarsi con la France, la famille, le cadre; i giapponesi con la loro azienda; nell’ex blocco orientale ci si identificava con il Partito Comunista; e in Irlanda con la Chiesa cattolica. Gli obiettivi comunitari possono essere positivi o negativi, dal punto di vista di un’azienda, a seconda della comunità coinvolta, del suo atteggiamento e della sua importanza nella vita dell’azienda.48

Tale osservazione giustifica la distinzione, fatta nell’ambito del progetto GLOBE, tra collettivismo orientato all’istituzione e collettivismo orientato al gruppo.

Percezione culturale del tempo Nelle culture nordeuropee e nordamericane il tempo viene percepito in maniera molto semplice: suddiviso in parti fisse, lineare, inesorabilmente volto al futuro, mai al passato.

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Tempo monocronico: orientamento a fare le cose una alla volta poiché il tempo è limitato, suddiviso in segmenti precisi e regolato da orari Tempo policronico: orientamento a fare più cose nello stesso momento poiché il tempo è flessibile e multidimensionale

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Gli americani, sempre a corto di tempo, credono nel consiglio di Benjamin Franklin secondo il quale “il tempo è denaro”: può essere impiegato, risparmiato o sprecato.49 Un ottimo esempio in tal senso è William P Lauder, CEO del gigante della cosmesi Esteé Lauder Companies, che in una recente intervista ha dichiarato: “Quando vedo delle persone perdere tempo, le richiamo immediatamente. Il tempo è la risorsa più preziosa e, quando passa, è perso per sempre.”50 L’opposto di Lauder è l’attore Johnny Depp che, secondo un cronista di Newsweek, “sembra un uomo che non ha mai avuto fretta nella sua vita. È in ritardo cronico per le interviste, talvolta di quattro o cinque ore, altre volte di giorni; questa volta si tratta solo di 50 minuti, da gentiluomo.”51 L’attore, originario del Kentucky, smentisce lo stereotipo secondo il quale gli americani si presentano agli appuntamenti con 10 minuti di anticipo. Tuttavia, quando nell’ambito del lavoro le culture coinvolte sono diverse, il tempo diventa una questione molto complessa. Immaginate la contrarietà di un uomo d’affari newyorchese lasciato in sala d’attesa per 45 minuti, per poi essere ammesso alla presenza di un funzionario di un governo latino americano che discute contemporaneamente con altre tre persone. L’uomo d’affari si sente offeso dalla mancanza di pronta e completa attenzione da parte del funzionario; questi si sente offeso dall’impazienza e apparente egocentrismo dell’altro. Si può meglio chiarire questo circolo vizioso di risentimenti tramite la distinzione tra tempo monocronico e tempo policronico. Il primo si rivela nell’uso del tempo pubblico, scandito da orari, preciso e ordinato, che identifica e addirittura caricaturizza gli abitanti dell’Europa settentrionale e del Nord America. Il secondo emerge nelle attività multiple e cicliche e nel coinvolgimento simultaneo con diverse persone tipico di varie culture mediterranee, latinoamericane e in particolar modo arabe.52

Le culture lineari, quale quella statunitense, hanno la tendenza a basarsi sul tempo monocronico, mentre quelle a struttura complessa, come quella costaricana, si basano tendenzialmente sul tempo policronico. Le persone facenti parte di culture policroniche vedono il tempo come qualcosa di flessibile, fluido e multidimensionale. Per esempio, immaginate di trovarvi in Qatar per concludere affari: I qatarioti continuano ad amare la vecchia tradizione del majilis, le riunioni serali durante le quali gli uomini (e solo gli uomini) sorseggiano il tè, fumano il narghilè e risolvono i problemi dell’umanità durante interminabili conversazioni. Grahame Maher, dirigente locale per Vodafone, ha dovuto diventare maestro in questa centenaria usanza prima di poter conquistare i locali. Afferma: “Ho imparato un modo di fare affari che in Occidente abbiamo dimenticato perché richiede troppo tempo.”53

Come è evidente, la globalizzazione economica ha prodotto pratiche di business globale monocroniche che determinano eccezioni nelle culture tradizionalmente policroniche. In Spagna, le guide turistiche avvisano i turisti che, per via della tradizionale siesta, negozi e uffici potrebbero essere chiusi per buona parte del pomeriggio. Tuttavia, almeno nelle città più importanti del paese, l’abitudine della siesta si sta perdendo per influenza della globalizzazione e dell’equilibrio tra vita personale e carriera. I datori di lavoro spagnoli

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hanno riconsiderato la prassi di permettere lunghe pause pomeridiane che causano il protrarsi della giornata di lavoro fino a tarda sera. La siesta può interrompere i contatti con altre aziende europee per buona parte dell’orario di lavoro. Inoltre, dal punto di vista dei dipendenti, nelle grandi città sta diventando sempre più difficoltoso rincasare per pranzo e la durata della giornata di lavoro inizia a rappresentare un problema.54

I manager devono ricordarsi di reimpostare i loro “orologi mentali” nel condurre trattative tra culture diverse.

Spazio interpersonale

Figura 4-3 La distanza interpersonale negli incontri d’affari varia da cultura a cultura

Pubblica Distanza interpersonale (in metri)

Prossemica: lo studio delle aspettative culturali in merito alla distanza interpersonale

L’antropologo Edward T. Hall ha rilevato un legame tra la cultura e la distanza interpersonale preferita: in particolare, ha osservato come gli individui appartenenti a culture a struttura complessa stiano a distanza ravvicinata quando sono coinvolti in una conversazione con qualcuno, mentre nelle culture lineari si preferisce uno spazio interpersonale nettamente superiore. Nello studio di quelle che sono le aspettative culturali in merito alla distanza interpersonale, Hall ha utilizzato il termine prossemica.55 In particolare, egli ha individuato quattro zone di distanza intersoggettiva, chiamate da alcuni “bolle di spazio personale”: le zone intima, personale, sociale e pubblica; le loro dimensioni, nonché alcune delle differenze culturali a esse relative, sono illustrate nella figura 4-3. Come illustrato nella figura, quando si parla di affari in Nord America la distanza mantenuta tra le persone coinvolte è di circa un metro e mezzo, ossia all’interno della zona personale; nelle culture latinoamericane e asiatiche la distanza in questione è di circa trenta centimetri, evidentemente alquanto spiacevole per americani e nordeuropei.

3,5

Sociale

1,5 Personale 0,5 Intima 0 Araba

Asiatica + Latino americana

Nord americana + Nord europea

Culture

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Alcuni arabi amano addirittura avvicinarsi ancora di più. Le differenze originate da valutazioni dello spazio personale diverse tra le varie culture possono essere estremamente fastidiose per chi non sia preparato. Hall fornisce la seguente spiegazione: Gli arabi hanno la tendenza a starti molto vicino e a respirarti addosso. Fa parte del coinvolgimento altamente sensoriale di una cultura a struttura complessa. […] L’americano che subisce tale comportamento non riesce a identificare tutte le origini del suo disagio, ma percepisce l’arabo come invadente. L’arabo si avvicina mentre l’americano indietreggia. L’arabo lo segue perché è in grado di interagire solo a determinate distanze. Una volta che l’americano impara che gli arabi gestiscono lo spazio diversamente e che il respirare sulle persone è una forma di comunicazione, la situazione può essere talvolta ridefinita e l’americano può rilassarsi.56

Gli asiatici e i mediorientali si stancano di rincorrere i loro ospiti appartenenti a culture lineari per mantenere quella che loro ritengono essere la distanza ideale durante una conversazione. D’altra parte, continuare tutta la sera a indietreggiare per mantenere a un’idonea distanza i partner coinvolti nella conversazione è a sua volta un’esperienza imbarazzante. La consapevolezza delle differenze culturali, nonché un abile adeguamento, sono elementi essenziali al fine di arrivare a trattative d’affari produttive in ambito interculturale.

Religione L’espressione della fede e l’adempimento di pratiche religiose possono avere importanti conseguenze sulle relazioni interculturali. Un’analisi completa delle diverse religioni va oltre lo scopo del presente lavoro;57 è tuttavia utile esaminare il rapporto tra l’affiliazione religioso e i valori legati al mondo del lavoro. Uno studio effettuato su 484 studenti di diverse nazioni presso un’università statunitense del Midwest ha messo in luce diversi approcci al lavoro, conseguenti alla fede religiosa. • Cattolica – Considerazione (“Attenzione a che i collaboratori siano presi sul serio, siano tenuti informati, e che si ricorra alle loro opinioni.”) • Protestante – Efficacia del datore di lavoro (“Desiderio di lavorare per un’impresa che sia efficiente, di successo e leader nella tecnologia.”) • Buddista – Responsabilità sociale (“Attenzione a che il datore di lavoro si senta responsabile del benessere della società.”) • Mussulmana – Continuità (“Desiderio di un ambiente stabile, con rapporti di lavoro di lunga durata, con poca incertezza.”) • Nessuna fede religiosa – Sfida professionale (“Interesse ad avere un lavoro che fornisca opportunità d’apprendimento e la possibilità di fare un uso appropriato delle proprie capacità.”)58 Non esistono quindi approcci al lavoro universali, dal punto di vista religioso. Questo ha portato i ricercatori a concludere che “i datori di lavoro farebbero bene a considerare l’impatto che le differenze religiose (e, più ampiamente, i fattori culturali) possono avere

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sui valori dei propri collaboratori”.59 Negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, la legge sulle pari opportunità d’impiego proibisce ai manager di attuare discriminazioni nelle scelte di assunzione in base alla religione di appartenenza.

Conseguenze operative delle ricerche sul management interculturale Management interculturale: disciplina dedicata a comprendere e gestire i comportamenti individuali in organizzazioni che coinvolgono culture diverse

Nancy Adler, studiosa di comportamento organizzativo in ambito internazionale presso l’università canadese McGill, ha proposto la seguente definizione: “il management interculturale (cross-cultural management) aiuta a comprendere il comportamento degli individui in organizzazioni operanti su scala mondiale e offre indicazioni utili a chi lavora per aziende aventi clienti e collaboratori appartenenti a molte culture diverse”.60 Storicamente, le ricerche di management interculturale si sono soffermate quasi esclusivamente sulle differenze tra una cultura e l’altra; preoccupato da confronti interculturali inappropriati, un ricercatore ha di recente definito questo approccio come “un paragone tra bacchette cinesi e forchette.”61 Mansour Javidan e Robert J House, ricercatori impegnati nel progetto GLOBE, suggeriscono di studiare anche le affinità tra di esse. Questi studiosi ritengono che seguire la traccia delle convergenze culturali sarà utile per capire meglio quanto le singole pratiche di management siano condivisibili da culture altre. “Sarà ad esempio più facile applicare teorie della leadership sviluppate negli Stati Uniti a manager britannici (altro gruppo di radice anglosassone), piuttosto che a manager di un paese arabo.”62 In questo paragrafo prenderemo in considerazione tre diversi filoni di ricerca relativi al management interculturale che offrono utili suggerimenti per i manager che operano nell’economia globalizzata.

Lo studio di Hofstede: le teorie di management statunitensi sono applicabili in altri paesi? La risposta sintetica a questa importante domanda è non molto, ed è il risultato di un importante studio condotto trent’anni fa dal ricercatore olandese Geert Hofstede. Il suo confronto interculturale tra 116.000 dipendenti IBM provenienti da 53 paesi nel mondo è incentrato su quattro dimensioni culturali: •

Distanza dal potere: qual è il grado di disuguaglianza atteso in determinate situazioni sociali? • Individualismo-collettivismo: quanto sono forti i legami sociali dell’individuo? • Mascolinità-femminilità: gli individui agiscono in base a tratti maschili, come la competitività e l’orientamento al risultato, o femminili, come la solidarietà e l’orientamento ai rapporti personali? • Rifiuto dell’incertezza: in che misura gli individui preferiscono situazioni strutturate? Gli Stati Uniti hanno riportato un punteggio relativamente basso nell’ambito della distanza dal potere e del rifiuto dell’incertezza, un punteggio molto alto nell’ambito dell’individualismo e moderatamente alto nell’ambito della mascolinità.63

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Alla luce delle significative variazioni riscontrate tra culture diverse, Hofstede ha tratto due importanti conclusioni: (1) le teorie e le prassi manageriali devono essere adattate alla cultura locale. Questo vale, in particolar modo, per le teorie di management nate in America (ad esempio la gerarchia dei bisogni di Maslow) e per le prassi manageriali giapponesi. Non esiste un modo migliore per gestire le persone e le organizzazioni.64 (2) Nell’ambito di un’economia globale, l’arroganza culturale è un lusso che gli individui, le imprese e le nazioni non si possono più permettere.

Lezioni di leadership dal progetto GLOBE Nella seconda fase del loro lavoro i ricercatori del progetto GLOBE si sono posti l’obiettivo di individuare l’esistenza di caratteristiche di leadership che fossero universalmente giudicate in modo positivo o negativo. Per fare questo hanno condotto una ricerca su 17.000 manager di medio livello appartenenti a 62 paesi/culture e a 951 organizzazioni diverse. I risultati della ricerca, sintetizzati nella tabella 4-3, determinano implicazioni importanti per i responsabili della formazione dei manager globali presenti e futuri.65 I leader carismatici, dotati di visione e della capacità di ispirare i collaboratori, sono generalmente considerati i migliori. Al contrario, i leader concentrati su se stessi e visti come individui solitari o pronti a cercare espedienti per salvare la faccia in genere non sono giudicati positivamente (si rimanda al Capitolo 16 per una trattazione più Tabella 4-3 Caratteristiche di leadership universalmente apprezzate o universalmente rifiutate in 62 paesi/culture Fonte: estratto e adattato da P.W. Dorfman, P.J. Hanges e F.C. Brodbeck, “Leadership and Cultural Variation: The Identification of Culturally Endorsed Leadership Profiles,” in Culture, Leadership, and Organizations: The GLOBE Study of 62 Societies, ed. R.J. House, P.J. Hanges, M. Javidan, P.W. Dorfman e V. Gupta (Thousand Oaks, CA: Sage, 2004), Tabelle 21.2 e 21.3, pp. 677-78.

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CARATTERISTICHE DI LEADERSHIP UNIVERSALMENTE APPREZZATE

CARATTERISTICHE DI LEADERSHIP UNIVERSALMENTE RIFIUTATE

Degno di fiducia Solitario Equo Asociale Onesto Non cooperativo Lungimirante Irritabile Pianificatore Poco chiaro Incoraggiante Egocentrico Positivo Spietato Dinamico Autoritario Motivante Creatore di fiducia Stimolante Affidabile Intelligente Determinato Buon negoziatore Capace di trovare soluzioni win-win ai problemi Amministratore competente Comunicativo Istruito Coordinatore Dotato di capacità di team building

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approfondita della leadership). I manager locali e stranieri che leggono questi risultati farebbero bene a impiegare un approccio contingente alla leadership dopo aver cercato di comprendere la popolazione e la cultura locali usando l’intelligenza culturale. David Whitman, da tempo CEO di Whirlpool, azienda produttrice di elettrodomestici, inquadra la sfida in questo modo: Il compito di guidare un’azienda globale è significativamente cambiato rispetto agli anni ’80 e ’90 e richiede un insieme del tutto nuovo di competenze. Le strutture burocratiche non funzionano più e bisogna escludere dal sistema gli individui autoritari. Occorre favorire e stimolare un ampio coinvolgimento all’interno dell’azienda. Soprattutto per le imprese operanti nel settore dei beni di consumo, è essenziale disporre di una forza lavoro eterogenea e di una leadership differenziata. Serve una forte leadership regionale ben radicata nella cultura locale: nel nostro caso, le attività in Nord America sono gestite da un nordamericano, mentre le attività in America Latina sono gestite da un latinoamericano.66

Lo stile di management varia di paese in paese I risultati di un ampio studio condotto di recente in 17 paesi confermano e sviluppano le conclusioni di Hofstede: le pratiche di management sono di fatto legate al paese e alla cultura. Lo studio ha coinvolto 5.922 imprese selezionate in maniera casuale con un numero di dipendenti da 100 a 5.000. Gli intervistatori hanno assegnato un punteggio da basso ad alto ai manager sulla base dell’impiego di 18 prassi di management efficaci. Secondo i ricercatori principali, Nicholas Bloom e John Van Reenen, le 18 prassi sono riconducibili a tre categorie: 1. Monitoraggio. Con quanta efficacia le aziende monitorano che cosa accade internamente e come usano il monitoraggio per il miglioramento continuo? 2. Obiettivi. Le imprese stabiliscono gli obiettivi giusti? Monitorano le conseguenze giuste? Implementano azioni efficaci in caso di mancato allineamento tra obiettivi e conseguenze? 3. Incentivi. Le aziende promuovono e premiano i collaboratori sulla base delle prestazioni e cercano di assumere e trattenere i dipendenti migliori?67 Le risposte fornite dai manager sono state raggruppate per paese al fine di individuare uno stile di management nazionale caratteristico. Tra i risultati più interessanti, si è riscontrato che: • La classifica dei paesi, dalla posizione più alta alla più bassa, rispetto alla qualità delle pratiche di management combinate è la seguente: Stati Uniti, Germania e Svezia (pari al secondo posto), Giappone, Canada, Francia, Italia, Gran Bretagna, Australia, Irlanda del Nord, Polonia, Irlanda, Portogallo, Brasile, India, Cina e Grecia. • Ciascuno dei 17 paesi esaminati evidenzia un mix distintivo di enfasi su “monitoraggio”, “obiettivi” e “incentivi”. Per un esempio, si rimanda ai profili dei cinque paesi ai primi posti della classifica riportati nella tabella 4-4.

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Tabella 4-4 I paesi con i punteggi di management complessivi più alti nel ricorso a pratiche di management diverse Fonte: adattamento dai dati citati in N. Bloom e J. Van Reenen, “Why Do Management Practices Differ Across Firms and Countries?” Journal of Economic Perspecitves, inverno 2010, Tabella 2, p. 210.

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Posizione nella classifica dei 17 paesi Monitoraggio Obiettivi Incentivi Stati Uniti Germania Svezia Giappone Canada

2 3 1 7 4

3 2 4 1 5

1 3 5 4 2

• Non esiste un singolo stile di management più efficace a livello mondiale. • Le imprese multinazionali sono meglio gestite delle imprese locali e rappresentano quindi un buon modello di ruolo e una fonte di buone pratiche di management. Questo studio consiglia ai manager di essere flessibili e adattare il proprio stile alle preferenze locali se lavorano in un paese diverso dal proprio. Per esempio, come indicato nella tabella 4-4, gli incentivi risultano molto efficaci negli Stati Uniti e in Canada ma meno in Svezia, dove il monitoraggio è dato per scontato. Gli obiettivi sono la pratica preferita in Giappone e in Germania. Un equilibrio adeguato alla cultura di attenzione al monitoraggio, agli obiettivi e agli incentivi consente di ottenere i risultati migliori e richiede una ricerca preliminare, una buona dose di intelligenza culturale e pazienza, piuttosto che fretta di imporre uno stile di management estraneo.

Come prepararsi per incarichi all’estero Con la crescente diffusione di imprese globali aumenteranno anche le opportunità di vivere e lavorare in paesi stranieri. Un esempio delle opportunità di trasferimenti e di esperienze tra culture diverse è dato dalla Siemens, gigante tedesco dell’elettronica e delle apparecchiature industriali con sede a Monaco. La Siemens ha 405.000 dipendenti in 190 paesi, di cui oltre 61.000 negli Stati Uniti.68 Imprese globali di questo tipo necessitano di collaboratori dinamici e con desiderio di crescere, che siano in grado di lavorare in culture diverse.69 Jack e Suzy Welch, scrivendo su BusinessWeek, hanno di recente proposto la seguente visione dello scenario dei prossimi 10 anni: “Esistono opportunità d’oro per i manager con esperienza e dotati dell’ambizione, dell’interesse e della mentalità globale necessari per lavorare all’estero per un certo periodo di tempo.”70 In questa ultima sezione cercheremo quindi di sottolineare gli elementi che possano aiutare a lavorare con successo in paesi stranieri perché gli incarichi all’estero possono aggiungere molto valore al curriculum nell’attuale economia globalizzata.

Perché gli americani falliscono negli incarichi all’estero? Espatriato: chiunque viva o lavori fuori dal proprio paese d’origine

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Con il termine espatriati indichiamo qui chiunque viva e/o lavori fuori dal suo paese di origine (mentre i rimpatriati sono coloro che vi ritornano dopo un periodo di lavoro all’estero). Da alcune ricerche risulta che i cittadini americani sono poco predisposti

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alla sfida della diversità culturale e inclini al fallimento negli incarichi internazionali. Due studiosi di management internazionale hanno fornito la seguente valutazione: Nel corso degli ultimi dieci anni abbiamo studiato gli espatriati presso circa 750 imprese statunitensi, europee e giapponesi. Abbiamo chiesto sia agli espatriati stessi che ai dirigenti che li avevano mandati all’estero di valutare le loro esperienze. Abbiamo, altresì, osservato cosa è accaduto dopo il rientro degli espatriati nel loro paese. […] I risultati della nostra ricerca sono stati, nell’insieme, preoccupanti: abbiamo appurato che tra il 10 e il 20% dei manager statunitensi mandati all’estero sono rientrati in anticipo a causa di insoddisfazione a livello professionale o difficoltà di adattamento nel paese straniero. Di quelli rimasti per il tempo previsto, quasi un terzo ha ottenuto risultati inferiori alle aspettative dei superiori; fatto ancor più preoccupante, un quarto di coloro che hanno portato a termine l’incarico, dopo essere rientrati nel loro paese hanno lasciato l’azienda, spesso andando a lavorare per la concorrenza, nel giro di un anno. Si tratta di un turnover doppio rispetto ai colleghi che sono rimasti in patria.71

Un’indagine più recente sui motivi del rientro anticipato degli espatriati ha evidenziato piccoli miglioramenti. Ciò nonostante, i problemi di adattamento personale e familiare (36,6%) e la nostalgia di casa (31%) sono emersi come i maggiori ostacoli per i manager americani impiegati all’estero.72 Un sondaggio che ha chiesto a 72 responsabili delle risorse umane presso imprese multinazionali di indicare il più significativo fattore di successo in un incarico all’estero ha fornito il seguente spunto di riflessione: “Il 35% circa degli intervistati ha indicato la capacità di adattamento culturale: pazienza, flessibilità e tolleranza nei confronti dei valori altrui.”73 Le imprese multinazionali statunitensi devono evidentemente supportare con una adeguata formazione i dipendenti destinati a incarichi in paesi stranieri, soprattutto alla luce degli elevati costi ad essi legati. Mosche bianche: donne nordamericane con incarichi all’estero In passato trovare una donna statunitense o canadese impegnata in incarichi all’estero era un fatto raro. Sebbene lentamente, le cose stanno cambiando: di seguito si elencano alcuni elementi in proposito. •

La percentuale delle donne nordamericane dipendenti di grandi imprese impegnate in incarichi all’estero è aumentata dal 3% all’inizio degli anni ’80 a poco meno del 15% in anni recenti. • I principali ostacoli nei confronti delle candidate per un trasferimento all’estero non sono tanto il pregiudizio verso di loro nel paese ospitante, quanto l’autosvalutazione delle candidate stesse e l’ipotesi da parte del vertice aziendale che le donne non saranno bene accette nel paese ospitante. • Le donne nordamericane espatriate sono viste, dai membri del paese ospitante, innanzi tutto come straniere e solo secondariamente come donne. • Le donne nordamericane conseguono un’elevata percentuale di successo nei loro incarichi all’estero.74 In considerazione della domanda crescente di manager globali, donne che si autoescludono e orientamenti manageriali basati sul pregiudizio sono decisamente controprodu-

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centi. Dal canto loro, le donne (o anche gli uomini) che desiderano assumere incarichi all’estero devono adottare un approccio proattivo sviluppando l’intelligenza culturale e candidandosi per svolgere incarichi all’estero.

Come evitare gli elementi critici di comportamento organizzativo negli incarichi all’estero Trovare la persona giusta per l’assegnazione di una posizione all’estero (spesso associata a una famiglia che fornisca adeguato supporto e sia disposta all’avventura) è un’operazione costosa, complessa e che richiede una grande quantità di tempo. In questa sede sarà sufficiente restringere l’area di nostro interesse ai fattori problematici di comportamento organizzativo più comuni nell’ambito degli incarichi all’estero. Osservando il ciclo rappresentato nella figura 4-4 si nota come il primo e l’ultimo stadio avvengano in patria, mentre i due stadi intermedi nel paese straniero. Ciascuno di questi stadi cela un punto nodale correlabile al comportamento organizzativo che deve essere individuato in anticipo e neutralizzato; pena un altro incarico all’estero fallito. Evitare aspettative irrealizzabili tramite una preparazione interculturale Le presentazioni realistiche del lavoro si sono dimostrate efficaci per fornire alle persone in attesa di un incarico all’estero le necessarie informazioni positive e negative, così da riportare a maggiore realismo aspettative eccessive; gli individui con aspettative realistiche hanno la tendenza a lasciare il posto di lavoro meno di frequente e a essere

Figura 4-4 Ciclo dell’incarico all’estero (con gli elementi critici di comportamento organizzativo)

Esperienze nel paese d’origine 1. Selezione e preparazione “Aspettative non realistiche”

Esperienze nel paese straniero 2. Arrivo e adattamento “Shock culturale”

Riassegnamento

4. Rientro nel proprio paese “Shock da rientro”

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3. Sistemazione e acculturazione “Mancanza di supporto”

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Formazione interculturale: percorsi formativi strutturati volti a fornire un sostegno nell’adattamento a una nuova cultura o a un nuovo paese

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più soddisfatti. Le presentazioni realistiche del lavoro devono essere accompagnate da una adeguata formazione interculturale. Per formazione interculturale si intende una serie di esperienze strutturate, orientate ad aiutare i collaboratori in partenza nell’adattamento a una cultura straniera. Negli Stati Uniti si nota una tendenza alla maggiore diffusione di questo tipo di formazione; tuttavia, ci sono ancora ampie possibilità di miglioramento sul piano quantitativo e qualitativo. Secondo gli esperti, pur essendo dispendiosa, la formazione interculturale costa meno del fallimento di un incarico all’estero. I programmi di formazione devono necessariamente cambiare in considerazione della tipologia di incarico e per il rigore con il quale si affrontano i contenuti. Naturalmente una formazione di qualità necessita di un tempo più lungo e di maggiori risorse. •

Incarichi a bassa complessità. La preparazione preventiva si limita a fornire materiale informativo, libri, lezioni, film, video e ricerche in Internet. • Incarichi a complessità media. La preparazione preveda un ruolo attivo dei partecipanti e va progettata attraverso lo studio di casi, role playing, simulazioni e una introduzione alla lingua del paese. • Incarichi a elevata complessità. Ai dipendenti in partenza viene fornita una formazione come nel caso precedente, più una buona conoscenza della lingua e un’esperienza sul campo nella cultura di loro interesse. Come esempio di quest’ultima categoria, la Pepsi manda “negli Stati Uniti circa 25 giovani manager stranieri ogni anno per un incarico annuale nei propri impianti di imbottigliamento”.75 Qual è l’approccio migliore? La ricerca fornisce interessanti spunti di riflessione. Uno studio riguardante espatriati statunitensi nella Corea del Sud ha portato i ricercatori a consigliare, come sistema ideale, la combinazione di una preparazione informativa preventiva e di una formazione attiva prima della partenza.76 Un altro studio recente condotto su 226 manager espatriati in Nigeria (di cui il 30% donne) e provenienti da Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania ha evidenziato la necessità di svolgere formazione interculturale prima della partenza e nel paese ospitante. Tra gli altri risultati significativi: • Esperienze all’estero precedenti favoriscono l’adattamento a una cultura straniera. • Tutti i tipi di formazione interculturale favoriscono l’adattamento, ma la formazione nel paese ospitante è la più efficace. • I collaboratori impiegati in mansioni tecniche hanno bisogno di meno formazione interculturale rispetto a coloro che detengono posizioni nel management, nel marketing e nelle relazioni pubbliche, caratterizzate da un grado elevato di contatti sociali. • La formazione esperienziale incentrata sulla cultura del paese ospitante, con partecipazione attiva in simulazioni di situazioni reali, favorisce l’adattamento in misura maggiore rispetto alle presentazioni sulla cultura fruite passivamente.77 A buon senso si può affermare che più l’addestramento interculturale è progettato con rigore più sarà efficace. Idealmente, al termine della formazione, i partecipanti dovrebbero aver sviluppato le nove competenze interculturali illustrate nella tabella 4-5.

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Comportamento organizzativo nel mondo: management interculturale Tabella 4-5 Competenze interculturali essenziali Fonte: estratto da Y. Yamazaki e D.C. Kayes, “An Experiential Approach to Cross-Cultural Learning: A Review and Integration of Competencies for Successful Expatriate Adaptation,” Academy of Management Learning and Education, dicembre 2004, Tabella 2, p. 372.

Insieme di competenze interculturali

Conoscenza o competenza necessaria

Costruire relazioni

Instaurare e mantenere rapporti con i membri della cultura ospitante Manifestare empatia per le differenze e sensibilità rispetto alle diversità Conoscere la storia culturale e le motivazioni alla base di determinate azioni e usanze culturali Riconoscere e interpretare i comportamenti impliciti, soprattutto i segnali non verbali Conoscere la lingua locale, i simboli e le altre forme di linguaggio verbale nonché la lingua scritta Comprendere le conseguenze volute e potenzialmente non volute delle azioni Gestire i dettagli di un lavoro, favorendo anche la coesione del gruppo Adottare prospettive diverse Comprendere l’umore, le emozioni e la personalità propri e altrui

Valutare le persone di cultura diversa Ascoltare e osservare Gestire le ambiguità Tradurre informazioni complesse Agire e prendere l’iniziativa Gestire gli altri Essere elastici e flessibili Gestire lo stress

Shock culturale: ansia e dubbi causati da un sovraccarico di situazioni e segnali sociali sconosciuti

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Evitare lo shock culturale Vi siete mai trovati in una situazione totalmente sconosciuta che vi ha portato a sentirvi disorientati e forse un po’ spaventati? In caso affermativo avete già un’idea di cosa si intenda per shock culturale. Lo shock culturale comporta, secondo gli antropologi, ansia e dubbi causati da un sovraccarico di situazioni e segnali sociali sconosciuti.78 Gli studenti iscritti al primo anno di università sperimentano spesso una variante dello shock culturale; un manager in trasferta all’estero può sentirsi disorientato da tutta una serie di immagini, suoni e comportamenti, da segnali stradali illeggibili, cibi dal sapore strano, o dal fatto di non riuscire a strappare una risata con una barzelletta solitamente infallibile. Lo shock culturale, per un manager espatriato che cerca di seguire in ogni minimo dettaglio una negoziazione d’affari, più che un inconveniente imbarazzante è un vero e proprio disastro! Così come la matricola confusa abbandona l’università e torna a casa, il manager che subisce uno shock culturale spesso, preso dal panico, chiede un rientro anticipato. La migliore difesa consiste in una completa preparazione interculturale che comprenda lo studio intensivo della lingua. la cui conoscenza consente di cogliere sottili ma importanti segnali culturali. Sostegno durante l’incarico all’estero Quando all’espatriato tutto appare come una novità, soprattutto durante i primi sei mesi, è necessario un appropriato sistema di sostegno.79 Sponsor del paese ospitante, assegnati ai singoli manager o alle famiglie, sono figure consigliate per la loro funzione, paragonabile a quella dei cani guida per ciechi, dove la cecità in questo caso è di natura culturale. In un paese straniero, dove la più semplice commissione può trasformarsi in un compito estremamente stancante, gli sponsor possono risolvere rapidamente i problemi perché conoscono il territorio, sia da un punto di vista culturale che geografico. I dipendenti della Honda in Ohio, per esempio, hanno apprezzato l’aiuto degli sponsor familiari durante la loro formazione in Giappone.

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Parte I

Il mondo del comportamento organizzativo

La Honda ha semplificato la vita degli espatriati statunitensi grazie alle mogli dei dipendenti giapponesi che avevano vissuto negli Stati Uniti, intervenute nella gestione di varie emergenze, per esempio quando la piccola Ashley, figlia di Diana Jett, ha avuto bisogno di medicare una ferita al mento con punti di sutura. Quando la figlia di Kim Smalley, senior manager della task force, ha avuto problemi di inserimento scolastico e aveva bisogno di una particolare custodia per la sua armonica, una volontaria giapponese ha passato la notte in bianco per realizzarla.80

Evitare lo shock da rientro Per quanto possa sembrare strano, molti manager espatriati, anche di successo, hanno incontrato la loro prima grande difficoltà una volta portato a termine un incarico all’estero. Come si spiega tale fenomeno? Il ritorno alla propria cultura di origine è un passaggio dato per scontato perché considerato un fatto di routine; l’essere riusciti ad adattarsi al modo di gestire la quotidianità in un altro paese per un periodo di tempo esteso, tuttavia, può porre la propria cultura e tutto ciò che ne fa parte sotto una luce nuova e bizzarra. Tre sono i settori che possono provocare un eventuale shock da rientro: il lavoro, le attività sociali e l’ambiente complessivo (la politica, il clima, i mezzi di trasporto e il cibo). Il ritorno di Ira Caplan a New York City fornisce un esempio di tale shock. Nel corso degli ultimi 12 anni, vivendo per lo più in Giappone, Caplan e sua moglie avevano trascorso le vacanze in crociera sul Nilo o facendo trekking in Nepal. Gli Stati Uniti che ricordavano erano quelli di dodici anni prima. Guardando il suo paese con occhi diversi, i prezzi lo lasciano allibito, il livello di criminalità lo spaventa; ma ciò che più di tutto lo turba riguarda quanto di sé stesso si è lasciato alle spalle. Alle prese con una sindrome da ritorno tanto snervante quanto quella della partenza, Caplan si sente spaesato, trascurato e sminuito […] In un ristorante italiano, affollatissimo all’ora di pranzo, quando il cameriere ha posato davanti a lui una ciotola di linguine; il signor Caplan non è riuscito a trattenersi dall’osservare: “In Asia abbiamo porzioni più ridotte e persone più minute”. Non riesce a smettere di pensare all’Asia. Ha trascorso anni portando avanti un’esperienza in un territorio di enorme importanza, e ora questo non sembra interessare a nessuno. Questa è New York!81

Casi di difficoltà di adattamento al lavoro precedente sono riscontrabili per molti espatriati di diverse nazionalità, nordeuropei, giapponesi e americani.82 Poco dopo essere stato rimpatriato, dopo dodici anni trascorsi all’estero, un manager di un’azienda statunitense ha affermato: “La cultura aziendale che conoscevo è stata completamente ribaltata: adesso abbiamo altri obiettivi strategici, altri strumenti e parole chiave diverse. Ho dovuto imparare un ‘linguaggio’ aziendale completamente nuovo.”83 La portata dello shock da rientro può essere contenuta attraverso un servizio di sostegno e consulenza ai dipendenti e con sponsor del paese d’origine. Il solo fatto di essere consapevoli di tale problema rappresenta, di per sé, un importante passo avanti verso una concreta presa di posizione in merito.84 La chiave verso la piena riuscita di un incarico all’estero sta, sostanzialmente, nel vederlo come parte integrante della carriera piuttosto che come un’avventura isolata.

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9

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II

Le differenze individuali Valori, atteggiamenti e soddisfazione lavorativa Percezioni e attribuzioni sociali I fondamenti della motivazione Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

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Le differenze individuali

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Un introverso può guidare Facebook verso il successo nel lungo periodo? Nel suo libro The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World (in italiano, Facebook. La storia. Mark Zuckerberg e la sfida di una nuova generazione, traduzione di Ilaria Katerinov, Milano, Hoepli, 2011), David Kirkpatrick fornisce un quadro interessante della personalità e del carattere del fondatore e CEO di Facebook. Quello che segue è un ritratto di Mark Zuckerberg come brillante studente universitario e genio dell’informatica destinato a diventare CEO di un gigante del web. All’inizio del 2011, gli oltre 500 milioni di utenti attivi di Facebook (di cui oltre il 70% al di fuori degli Stati Uniti) condividevano all’incirca 30 miliardi di contenuti al mese.1 Mark Zuckerberg era un ragazzo basso e magro, introverso e sensibile, con i riccioli castani e le lentiggini: dimostrava quindici anni, anziché i diciannove che aveva [ad Harvard]. La sua uniforme era costituita da jeans larghi, sandali di gomma – anche in inverno – e una t-shirt con qualche disegno o scritta ironica. Una maglietta che indossava spesso in quel periodo raffigurava una scimmietta,

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con la scritta “Code Monkey”. Con gli estranei appariva taciturno, ma era solo un’illusione: quando iniziava a parlare, era velenoso. Di solito restava in silenzio finché l’interlocutore non aveva finito di parlare. Ti fissava. Ti ascoltava nel più assoluto silenzio. Se trovava interessanti le parole dell’interlocutore alla fine diceva la sua e a quel punto era inarrestabile: un torrente di parole. Ma se lo annoiavi, se parlavi troppo o dicevi ovvietà, allora non ti considerava più, guardava oltre le tue spalle. Alla fine del tuo monologo mormorava: “Già!” poi cambiava argomento o si voltava dall’altra parte. Zuckerberg è un pensatore altamente intenzionale, razionale all’estremo. Con la sua grafia ordinata, meticolosa e minuscola, riempie quaderni con lunghe meditazioni. Alle ragazze piaceva il suo sorriso scanzonato, la sua baldanza, il senso dell’umorismo e l’irriverenza […]. Portava sempre stampata in faccia un’espressione soddisfatta che sembrava dire: “So il fatto mio”. Zuck, come lo chiamavano tutti, aveva l’aria di pensare che tutto sarebbe finito per il meglio, qualsiasi cosa avesse deciso di fare.2

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Parte II

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Dal punto di vista biologico, le persone presentano più somiglianze che differenze. Quanto siamo simili gli uni agli altri? [Le risposte si trovano nei] centomila miliardi di cellule di ciascun essere umano. Ogni cellula contiene il DNA sotto forma di 46 cromosomi, di cui 23 ereditati dal padre e 23 dalla madre. Le molecole di DNA sono composte da quattro basi (adenina, timina, citosina e guanina) associate a due a due in una struttura denominata a doppia elica, simile a una scala a chiocciola. Il Progetto Genoma Umano ha determinato la sequenza esatta delle cosiddette coppie di basi che formano il DNA e identificato circa 20.500 geni, pressappoco lo stesso numero riscontrato negli scimpanzè e nei cani. Dal punto di vista genetico, i 7 miliardi di abitanti della Terra sono identici l’uno all’altro per il 99,5%. La variazione tra i genomi individuali è solo di una coppia di basi ogni 5.000. Considerato che il genoma è costituito da 3 miliardi di coppie di basi, si tratta di una variazione minima eppure essenziale: ad essa sono infatti riconducibili tutte le caratteristiche che differenziano un individuo dall’altro, che siano l’altezza, il peso, il colore degli occhi e dei capelli, oppure ancora il rischio di malattie cardiovascolari e di tumori.3

La gestione delle differenze individuali – dettate dalla minima variazione genetica che rende ciascuno di noi un individuo unico al mondo – è una sfida continua per i manager. Per esempio, come vi esprimete nell’ambiente di lavoro? Siete intraprendenti come Mark Zuckerberg o pigri? Solitari o socievoli? Vi considerate padroni del vostro destino o vittime delle circostanze? Siete emotivi o mantenete la calma in ogni situazione? La

Figura 5-1 Una mappa per lo studio delle differenze individuali nel comportamento organizzativo

L’individuo unico Tratti di personalità Valori personali Atteggiamenti/intenzioni di comportamento

Forme di espressione di sé Capacità

Concetto di sé • Autostima • Auto-efficacia • Auto-osservazione • Identificazione organizzativa

Emozioni Soddisfazione lavorativa Definizione del successo

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vostra soddisfazione lavorativa è alle stelle o ai minimi storici? È grazie a differenze individuali di questo tipo che le aziende sono composte da un tessuto umano ricco e interessante; la stessa caratteristica rende però infinitamente complesso il compito del manager. In effetti, le ricerche empiriche dimostrano che “la variabilità tra le persone che lavorano è cospicua a tutti i livelli, ma aumenta in maniera notevole al crescere della complessità delle mansioni. Nella vendita di polizze assicurative sulla vita, ad esempio, la variabilità in termini di performance è circa sei volte maggiore rispetto a quella che si riscontra in un normale lavoro impiegatizio”.4 La crescente diversità delle risorse umane obbliga il manager a considerare in modo completamente nuovo le differenze individuali. I manager di oggi, quindi, anziché limitare la diversità, come succedeva in passato, devono imparare a capire meglio la diversità dei collaboratori e le differenze individuali, e ad adattarvisi.5 In questo capitolo e nel prossimo analizzeremo le differenze individuali rappresentate nella figura 5-1. Lo schema è una sorta di mappa che illustra i collegamenti tra il concetto di sé e l’espressione di sé. Questo capitolo tratta in particolare il concetto di sé, la personalità, le capacità e le emozioni. Nel Capitolo 6 si parlerà invece di valori, atteggiamenti e soddisfazione lavorativa. Tutti questi fattori, se presi nel loro insieme, costituiscono una base per accettare meglio ogni membro dell’organizzazione nella sua unicità di individuo.

Il concetto di sé

Concetto di sé: la percezione che una persona ha di sé stessa in quanto essere fisico, sociale, spirituale Cognizioni: la conoscenza, le opinioni, le convinzioni di un individuo

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Quando vi guardate allo specchio, ovviamente riconoscete l’immagine riflessa: vedete voi stessi.6 Secondo gli scienziati, questa è una capacità poco comune nel regno animale, che solo uomini, scimmie, delfini e elefanti possono vantare.7 Tuttavia, che cosa sapete esattamente della persona che vedete nello specchio? In una ricerca in cui è stato chiesto a un gruppo di persone tra i 16 e i 70 anni cosa avrebbero fatto di diverso potendo rivivere la propria vita, il 48% degli intervistati ha scelto “Entrare in contatto con me stesso”.8 Questa sezione è mirata ad aiutarvi a entrare in contatto in modo più profondo con voi stessi, per comprendervi e gestirvi meglio e per meglio comprendere e gestire gli altri nell’ambiente di lavoro. Come ha affermato l’ex CEO di General Electric Jack Welch, “per essere un buon capo bisogna stare bene con se stessi”.9 Il sociologo Viktor Gecas definisce il concetto di sé come “l’idea che l’individuo ha di sé stesso come essere fisico, sociale, spirituale e morale”.10 In questo modo, ci si riconosce come un essere umano distinto. Il concetto di sé non potrebbe esistere senza il pensiero; e questo ci porta a parlare del ruolo delle cognizioni. Esse rappresentano “qualsiasi conoscenza, opinione o convinzione sull’ambiente circostante, su sé stessi, sul proprio comportamento”.11 Tra tutte le tipologie di cognizioni, alcune sono particolarmente rilevanti per il comportamento organizzativo. Ci concentreremo ora su tre argomenti onnipresenti nelle discussioni sul concetto di sé tra gli studiosi del comportamento: autostima, auto-efficacia e auto-osservazione. Analizzeremo inoltre le implicazioni dell’identificazione organizzativa, in altre parole gli aspetti sociali del sé. Ognuno degli argomenti citati deve essere esaminato a fondo da chi vuole capire meglio e gestire in modo efficace sé stesso e gli altri.

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Parte II

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

L’autostima Autostima: la valutazione complessiva di un individuo su se stesso e sul proprio valore

L’autostima è l’opinione di un individuo sul proprio valore basata su una complessiva autovalutazione.12 I successi personali e i riconoscimenti tendono ad accrescere l’autostima, mentre i periodi prolungati di disoccupazione, i rapporti interpersonali difficili e persino le semplici “giornate storte” possono scalfirla.13 L’autostima si misura chiedendo agli intervistati di indicare se sono d’accordo o meno con affermazioni positive e negative. Ecco un esempio di affermazione positiva in un questionario generico sull’autostima: “So di essere una persona che vale, mi sento alla pari degli altri”.14 Ecco invece un esempio di affermazione negativa: “Non c’é molto di cui possa essere orgoglioso”.15 Gli individui che si dichiarano d’accordo con le affermazioni positive e in disaccordo con quelle negative hanno un alto livello di autostima, si considerano validi, capaci e degni di accettazione. Gli individui con bassi livelli di autostima si considerano in termini negativi, non hanno sensazioni positive su se stessi e sono bloccati nelle loro azioni dall’insicurezza; la ricerca ha dimostrato che tendono ad avere problemi di salute e rapporti sociali di bassa qualità, oltre a essere maggiormente esposti al rischio di depressione.16 L’autostima in altre culture Quali sono le implicazioni interculturali dell’autostima, concetto prettamente occidentale? Uno studio condotto su 13.118 studenti provenienti da 31 paesi ha rilevato una correlazione moderatamente positiva tra autostima e livello di soddisfazione generale. Il rapporto cresce nelle culture individualistiche (ad esempio in quella statunitense, canadese, neozelandese e olandese) rispetto alle culture collettivistiche (ad esempio quella coreana, keniota o giapponese). I ricercatori ne traggono la conclusione che le culture individualistiche insegnano alle persone a concentrarsi su sé stesse, mentre nelle culture collettivistiche le persone “vengono cresciute in modo che si adattino alla comunità e facciano il loro dovere. Quindi, per un individuo appartenente a una società collettivistica l’idea di sé stesso è meno rilevante nel determinare il livello di soddisfazione generale relativamente alla propria vita”.17 I manager che operano a livello globale devono ricordarsi di dare meno importanza all’autostima quando si trovano a lavorare all’interno di culture collettivistiche (“del noi”), mentre, al contrario, devono darne molta all’interno di culture individualistiche (“dell’io”).

L’auto-efficacia

Auto-efficacia: convinzione di una persona sulla propria capacità di raggiungere un risultato

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Una certa fiducia in sé stessi, che contribuisce al raggiungimento dei risultati, è essenziale negli attuali ambienti di lavoro, particolarmente esigenti. La fiducia in sé stessi supportata da risultati concreti richiede, oltre all’autostima, anche l’auto-efficacia.18 L’auto-efficacia è la convinzione che una persona ha sulle proprie possibilità di riuscire a portare a termine con successo un determinato compito. Uno studioso di comportamento organizzativo sostiene che “l’auto-efficacia deriva dall’acquisizione graduale, mediante l’esperienza, di complesse capacità cognitive, sociali, linguistiche e/o fisiche”.19 I modelli di ruolo possono aiutare gli individui a sviluppare l’auto-efficacia. La relazione tra auto-efficacia e performance è di tipo ciclico. I cicli di efficacia → performance possono sia salire a spirale verso il successo, sia scendere verso il fallimento.20 Gli studiosi hanno documentato l’esistenza di stretti legami tra grandi aspettative

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di auto-efficacia e il successo in compiti diversi, di tipo sia fisico che intellettuale, la riduzione dell’ansia, il controllo della dipendenza, la tolleranza al dolore, la guarigione da malattie, la mancanza di stress, l’assenza di mal di mare tra i marinai cadetti, l’esercizio fisico e l’apprendimento.21 Al contrario, le persone con basse aspettative di auto-efficacia tendono ad avere bassi tassi di successo. Sebbene il termine auto-efficacia faccia pensare a qualche strana alchimia mentale, in realtà essa opera in modo molto semplice, come si vedrà dal modello spiegato di seguito. Quali sono i meccanismi dell’auto-efficacia? La figura 5-2 illustra un modello base dell’auto-efficacia, che si fonda sulla ricerca dello psicologo Albert Bandura, dell’Università di Stanford. Esploriamo questo modello con un semplice esercizio. Immaginate di dover preparare e tenere una lezione di comportamento organizzativo di 10 minuti davanti a un gruppo di 50 studenti. Il tema è il funzionamento del modello sull’autoefficacia illustrato in figura 5-2. I calcoli sull’auto-efficacia che farete comprenderanno una valutazione cognitiva dell’interazione tra la vostra capacità percepita e le opportunità e gli ostacoli contingenti. Mentre vi preparate per la lezione, entreranno in gioco le quattro fonti dell’autoefficacia. Dal momento che le esperienze precedenti costituiscono, secondo Bandura, la fonte più incisiva, esse occupano il primo posto e nella figura sono connesse alle opinioni sull’auto-efficacia con una linea continua. La vostra auto-efficacia, insomma, aumenterebbe se aveste già riscosso successo in passato nel parlare in pubblico; in caso di insuccesso, l’esperienza negativa contribuirebbe a diminuire la vostra auto-efficacia. Se considerate i modelli comportamentali come una fonte di convinzioni sull’autoefficacia, sarete influenzati da quanto i vostri compagni di corso riescano efficacemente a parlare in pubblico. I successi degli altri tenderanno a darvi coraggio (o forse anche i loro fallimenti, se siete persone molto competitive e con un alto livello di autostima). Allo stesso modo, ogni atteggiamento di sostegno da parte dei compagni, convinti che farete un buon lavoro, aumenterà la vostra auto-efficacia. Altri fattori che potrebbero influire sulla fiducia in voi stessi sono di natura fisica ed emotiva; un attacco improvviso di laringite o di panico da palcoscenico potrebbero far crollare le vostre aspettative di auto-efficacia. La vostra valutazione cognitiva della situazione darà vita a una valutazione di auto-efficacia variabile, che determina un’alta o bassa aspettativa di successo. È importante sottolineare che le valutazioni sull’auto-efficacia non devono intendersi come affermazioni di uno sbruffone: tutt’altro, si tratta invece di convinzioni profonde basate sull’esperienza. Prendiamo ora in esame gli schemi comportamentali rappresentati in figura 5-2: possiamo vedere come vengono esternate le valutazioni di auto-efficacia. In breve: se avete un alto livello di auto-efficacia nei confronti del discorso da preparare, lavorerete di più, in modo più creativo e più a lungo rispetto ai compagni che hanno invece un basso livello di auto-efficacia, e i risultati verranno di conseguenza. Ci si prepara al successo o al fallimento impersonando le proprie aspettative di auto-efficacia. A loro volta, i risultati positivi o negativi ottenuti diventano un feedback per la base personale di esperienza. Implicazioni dell’auto-efficacia per i manager I risultati delle ricerche condotte sui luoghi di lavoro incoraggiano i manager ad alimentare l’auto-efficacia sia in sé stessi

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Parte II

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Fonti delle convinzioni sull’auto-efficacia

Feedback

Esperienze precedenti Alta “So che posso farcela”

Modelli di comportamento Convinzioni sull’auto-efficacia Persuasione che viene dagli altri

Valutazione dello stato fisico/ emotivo

Bassa “Penso di non farcela”

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Schemi comportamentali

• Essere ativo selezionare le migliori opportunità • Gestire la situazione, evitare o neutralizzare eventuali ostacoli • Stabilire degli obiettivi, definire i criteri • Pianificare, preparare, mettere in pratica • Provare con impegno perseverare • Risolvere i problemi in modo creativo • Trarre insegnamento dalle sconfitte • Visualizzare il successo. • Limitare lo stress

• Essere passivo • Evitare gli incarichi difficili • Avere aspirazioni limitate e impegnarsi poco • Concentrarsi sui propri difetti • Non provarci, metterci un impegno minimo • Lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi e abbandonare • Attribuire i fallimenti alla mancanza di capacità o alla sfortuna • Preoccuparsi, essere stressati, deprimersi • Trovare delle scuse per giustificare il fallimento

Risultati

Successo

Fallimento

Figura 5-2 Un modello che spiega come l’auto-efficacia possa portare al successo o al fallimento Fonte: adattamento dalla discussione in A Bandura,“Regulation of Cognitive Processes through Perceived Self-Efficacy” Developmental Psychology, settembre 1989, pp. 729-35; e R. Wood e A. Bandura,“Social Cognitive Theory of Organizational Management,” Academy of Management Review, luglio 1989, pp. 361-84.

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sia negli altri. In effetti, da una meta-analisi su 21.616 soggetti è emersa una rilevante correlazione positiva tra l’auto-efficacia e le prestazioni lavorative.22 Negli ambienti di lavoro, l’auto-efficacia può essere incrementata mediante politiche di assunzione attente, compiti sfidanti, formazione e coaching, determinazione di obiettivi, leadership supportiva e mentoring, nonché riconoscimenti per i progressi evidenziati.

L’auto-osservazione Confrontate queste due situazioni: 1. Mentre correte per arrivare in orario a un incontro di lavoro, un collega vi prende da parte e inizia a parlarvi di un problema personale. Volendo interrompere la conversazione, guardate l’ora, ma lui continua a parlare. Allora dite: “Ho una riunione importante, sono in ritardo”; non si ferma ancora. A questo punto vi girate e ve ne andate. La persona in questione continua a parlare, come se non avesse ricevuto nessuno dei segnali verbali e non verbali che gli avete inviato per chiudere la conversazione. 2. Stessa situazione. Questa volta, però, quando guardate l’ora, il vostro collega dice subito: “Oh, so che devi andare, scusami tanto. Parleremo più tardi”.

Auto-osservazione: la capacità di osservare il proprio comportamento autoespressivo, adattandolo alla situazione

Nella prima situazione, peraltro alquanto frequente, l’interlocutore era una persona “a basso livello di auto-osservazione”, mentre nel secondo caso il livello era alto. Tra i due individui emerge una differenza fondamentale nel comportamento auto-espressivo; si parla di auto-osservazione per indicare quanto una persona osservi il proprio comportamento auto-espressivo e quanto lo adatti alle diverse situazioni. Si ritiene che le persone con un alto livello di auto-osservazione regolino la loro presentazione espressiva in base all’immagine di sé che desiderano dare in pubblico, per cui sono molto reattivi a tutti i segnali sociali e interpersonali che indicano quanto la loro performance risulti adeguata alla situazione. Sembra invece che le persone con un basso livello di auto-osservazione manchino della capacità o della motivazione a regolare la propria auto-presentazione espressiva. I comportamenti espressivi di queste persone rifletterebbero invece in modo funzionale i loro stati interiori, sia quelli permanenti, sia quelli momentanei, ivi inclusi gli atteggiamenti, i sentimenti e le caratteristiche di ognuno.23

Nella vita organizzativa sono soggette a critiche entrambe le tipologie di persone. Gli individui con un alto livello di auto-osservazione vengono talvolta chiamati camaleonti, perché riescono velocemente ad adattare il loro modo di presentarsi a ciò che li circonda. Chi invece ha un basso livello di questa qualità viene spesso tacciato di insensibilità nei confronti degli altri, rimproverandogli di vivere in un mondo tutto suo. Una questione di misura L’auto-osservazione non è una caratteristica che può essere presente o assente: è una questione di misura, che si traduce nella collocazione in un punto alto o basso di una scala che misura gli schemi di espressione di sé. Consideriamo per esempio la seguente descrizione di una persona con un basso livello di

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

auto-osservazione: “Abbiamo una dipendente che trasforma ogni interazione (relativa al lavoro e non) in una conversazione che la riguarda. Al di là di questo, sa fare bene il suo lavoro, ma i colleghi iniziano a evitarla e a evitare i gruppi di cui fa parte. ‘Monopolizza anche l’ossigeno’ ha affermato un collega.”24 Quali sono le vostre tendenze di auto-osservazione? Conseguenze operative delle ricerche Da una meta-analisi condotta di recente su 23.191 soggetti di 136 campioni, è emerso che l’auto-osservazione è una caratteristica importante e utile quando si ha a che fare con le prestazioni lavorative e i leader emergenti.25 Gli studi empirici e l’esperienza pratica ci hanno condotto a definire alcune raccomandazioni: • Per tutti, con qualunque livello di auto-osservazione: diventate maggiormente consapevoli della vostra immagine e di come questa influenzi gli altri. • Per chi ha un alto livello di auto-osservazione: non esagerate trasformandovi da un buon camaleonte in un individuo che è percepito da molti come sleale, inaffidabile e falso. Non è possibile piacere a tutti. • Per chi ha un basso livello di auto-osservazione: è possibile piegarsi senza spezzarsi, quindi dovete cercare di essere un pochino più accomodanti, pur rimanendo fedeli ai vostri principi di base. Non esaurite l’atteggiamento positivo durante la comunicazione. Fate esercizio di lettura e di adattamento ai segnali non verbali da parte del pubblico in diverse situazioni. Se l’interlocutore appare annoiato o distratto, smettete di parlare, perché non vi sta davvero ascoltando.

L’identificazione organizzativa

Identificazione organizzativa: si verifica quando valori e norme organizzative diventano parte dell’identità di un individuo

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La linea che divide il sé dagli altri non è netta né precisa. In certi casi si verifica una sorta di confusione, ad esempio quando un collaboratore fa coincidere sé stesso con una specifica organizzazione, un processo psicologico detto identificazione organizzativa. Uno studioso di questo tema, emergente all’interno del comportamento organizzativo, sostiene che “l’identificazione organizzativa avviene quando una persona va a integrare all’interno della propria identità i principi relativi all’organizzazione”.26 L’identificazione organizzativa è un processo centrale all’interno della cultura e della socializzazione organizzativa (si veda la discussione in proposito nel Capitolo 3). I manager di oggi danno molta importanza alla missione, alla filosofia, ai valori dell’organizzazione, con l’intento esplicito di integrare l’azienda all’interno dell’identità di ciascun collaboratore. A rigor di logica, il dipendente che si identifica strettamente con l’organizzazione dovrebbe, essere più leale e impegnato e lavorare di più. Un caso estremo di identificazione organizzativa è quello dei dipendenti delle fabbriche Harley Davidson: tanto forte è il legame che molti di loro portano il logo dell’azienda tatuato sulla pelle. Lavorare alla Harley non è solo un lavoro, ma uno stile di vita (è difficile immaginare un dipendente con tatuato il logo della General Motors o della Burger King). Farsi tatuare il logo della propria azienda può sembrare un comportamento estremo, e anche un po’ ridicolo, ma ci sono profonde implicazioni etiche dietro a un’eccessiva

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identificazione con il proprio datore di lavoro. Quando i collaboratori sospendono il pensiero critico e perdono oggettività, può nascere un “groupthink” deleterio, e il conflitto costruttivo può venir meno (affronteremo il groupthink nel Capitolo 10, il conflitto funzionale nel Capitolo 13).

La personalità: concetti e controversie Personalità: insieme delle caratteristiche fisiche e mentali costanti che determinano l’identità di un individuo

Ogni individuo pensa e agisce in modo unico: c’è uno stile che lo contraddistingue, detto anche personalità. Si definisce personalità l’insieme delle caratteristiche fisiche e mentali stabili che formano l’identità di un individuo.27 Tali caratteristiche (o tratti), ivi compresi l’aspetto e il modo di pensare, agire e sentire, sono il prodotto dell’interazione tra influssi genetici e ambientali.28 In questo paragrafo introduciamo i cosiddetti “Big Five”, ossia le grandi dimensioni della personalità, esploriamo la personalità proattiva e indichiamo alcune cautele da seguire nell’indagare la personalità sul posto di lavoro.

I Big Five Decenni di ricerche hanno prodotto liste lunghissime e caotiche di dimensioni della personalità: uno studio recente ha identificato 1.710 aggettivi in inglese per descrivere gli aspetti della personalità.29 Fortunatamente, con l’ausilio della statistica si è giunti a identificare i cosiddetti Big Five,30 ossia cinque dimensioni maggiori: l’estroversione, l’amabilità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura a nuove esperienze (le descrizioni si trovano nella tabella 5-1). Esistono dei test standardizzati per indagare, sia in senso positivo che negativo, in ognuno dei Big Five. Se, ad esempio, una persona ha un punteggio negativo nell’estroversione, ci troveremo di fronte a un individuo introverso, che tende a essere timido e riservato. Chi invece ottiene un punteggio negativo nella stabilità emotiva sarà nervoso, teso, arrabbiato e impaurito (per la precisione, l’estremo negativo della scala che misura la stabilità emotiva viene etichettato come nevroticismo). Il punteggio che ognuno ottiene nei Big Five rivela un profilo personale unico e irripetibile, proprio come le impronte digitali. Il profilo della personalità di un individuo tende a risultare stabile nel tempo. Secondo le conclusioni di una recente meta-analisi,

Tabella 5-1 Le cinque dimensioni principali della personalità (Big Five) Dimensione

Caratteristiche di un individuo che registra un punteggio positivo in questa dimensione

1. 2. 3. 4. 5.

Aperto, loquace, socievole, assertivo Fiducioso, ben disposto, cooperativo, sensibile Affidabile, responsabile, orientato al successo, perseverante Rilassato, sicuro, tranquillo Intellettuale, fantasioso, curioso, mentalmente aperto

Estroversione Amabilità Coscienziosità Stabilità emotiva Apertura a nuove esperienze

Fonte: adattamento da M.R. Barrick e M.K. Mount, “Autonomy as a Moderator of the Relationships between the Big Five Personality Dimensions and Job Performance,” Journal of Applied Psychology, febbraio 1993, pp. 111-18

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“sia i profili normali sia i profili caratterizzati da disturbi della personalità sono molto stabili nell’arco della vita e i pazienti in terapia non evidenziano cambiamenti della personalità più rilevanti degli individui non in terapia.”31 Per coloro che sono interessati al comportamento nell’ambiente di lavoro è importante conoscere il collegamento esistente tra i Big Five e la performance lavorativa. Idealmente, il fatto che la correlazione tra le cinque grandi dimensioni della personalità e la performance sul lavoro sia stretta e forte risulterebbe utile per la selezione, formazione e valutazione del personale. Fornisce una valida indicazione in questo senso una meta-analisi di 117 ricerche su 23.994 soggetti impiegati in professioni diverse.32 Tra i Big Five, la coscienziosità ha registrato la più forte correlazione positiva con le prestazioni sul lavoro e durante la formazione. I ricercatori sostengono che “gli individui che mostrano caratteristiche associabili a un forte senso dell’obiettivo da raggiungere, al senso del dovere e alla tenacia, in genere rendono di più rispetto ai loro colleghi”.33 Studi recenti hanno fornito utili consigli pratici per aiutare i dipendenti coscienziosi a ottenere buone prestazioni: nello specifico, si è visto che essi preferiscono la leadership incentrata sugli obiettivi, per esempio i lavori altamente complessi, e necessitano di un feedback che ne favorisca l’apprendimento senza frustrarne i tentativi di raggiungere i risultati.34 Non sorprende che gli imprenditori evidenzino un’elevata coscienziosità.35 Un altro risultato interessante: l’estroversione presenta una correlazione positiva con lo sviluppo delle carriere, il livello salariale e la soddisfazione lavorativa. E, come ci si potrebbe aspettare, il nevroticismo (ossia una scarsa stabilità emotiva) è stato associato con un basso livello di soddisfazione legato alla carriera.36

La personalità proattiva

Personalità proattiva: persona portata all’azione, che dimostra iniziativa e persegue il cambiamento

Locus of control interno: attribuire i risultati alle proprie azioni

Locus of control esterno: attribuire i risultati a circostanze che esulano dal proprio controllo

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Come si evince da quanto detto sopra, chi ottiene un punteggio alto nella dimensione della coscienziosità è, probabilmente, un buon lavoratore. Thomas S. Bateman e J. Michael Crant hanno fatto un passo avanti in questo settore con la formulazione del concetto di personalità proattiva. I due studiosi definiscono e caratterizzano la personalità proattiva in questi termini: “una persona relativamente libera rispetto alle situazioni specifiche e che attua un cambiamento nell’ambiente. Le persone proattive identificano le opportunità e agiscono su di esse, dimostrano spirito di iniziativa, agiscono e perseverano sino a ottenere cambiamenti significativi”.37 Hanno quello che i ricercatori definiscono un locus of control interno, la convinzione di controllare gli eventi e le loro conseguenze.38 Una persona di questo tipo ha la tendenza ad attribuire alle proprie capacità i risultati positivi, ad esempio il superamento di un esame o un avanzamento di carriera. Allo stesso modo, si ritiene responsabile dei propri fallimenti, attribuendone la causa a mancanze personali: non aver passato un esame, ad esempio, per una persona di questo tipo dipenderebbe dal non aver studiato a sufficienza. Al contrario, gli individui che hanno un locus of control esterno tendono ad attribuire gli eventi a cause ambientali, come la fortuna o il destino.39 Analizzando le ricerche sull’argomento, Crant ha scoperto una correlazione positiva tra la personalità proattiva e il successo personale, di gruppo e dell’organizzazione di appartenenza.40

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Gli imprenditori di successo costituiscono un esempio di personalità proattiva. In generale, le persone dotate di personalità proattiva sono davvero da considerare un capitale umano, nell’accezione data nel Capitolo 1. Chi è intenzionato a progredire farebbe bene a coltivare lo spirito di iniziativa, le inclinazioni e la perseveranza tipici degli individui proattivi, e i manager dovrebbero aumentare questo tipo di persone tra i loro collaboratori.

È corretto utilizzare i test di personalità sul posto di lavoro? L’uso di test di personalità per decidere relativamente ad assunzioni, formazione e promozioni è molto comune. Esiste purtroppo il grave problema della somministrazione approssimativa dei test. Annie Murphy Paul, autrice del libro The Cult of Personality,41 spiega: Gli psicologi favorevoli all’uso di test di personalità, e talvolta le società che li elaborano, affermano spesso che esistono modalità ideali di impiego di questi test, per esempio chiedere a uno psicologo di condurre uno studio della mansione e mettere a punto o personalizzare un test specifico, somministrarlo ai candidati e mantenere la riservatezza sui risultati. A mio parere, però, in realtà si acquistano test standardizzati che vengono somministrati indiscriminatamente da persone prive di formazione e qualifiche adeguate senza poi curarsi di mantenere la riservatezza sui risultati. Nonostante si parli tanto di standard sull’utilizzo corretto [dei test di personalità], nel mondo reale non si fa che improvvisare.42

Altri potenziali problemi legati all’uso di test di personalità in ambito lavorativo sono la possibilità di fingere e il rischio di utilizzo discriminatorio. Una simulazione computerizzata ha dimostrato che è possibile simulare la coscienziosità, una dimensione essenziale dei Big Five.43 I suggerimenti pratici forniti nella tabella 5-2 possono aiutare i manager a evitare di incorrere in utilizzi scorretti o discriminatori dei test di personalità e psicologici per le assunzioni. I test delle competenze relative alla mansione e i colloqui comportamentali sono due buone alternative ai test di personalità. Passiamo ora a esaminare le capacità e l’intelligenza.

Capacità (intelligenza) e performance

Capacità: caratteristiche costanti che determinano la massima prestazione fisica o intellettuale di una persona Abilità: capacità specifiche nel manipolare oggetti

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Le diverse capacità e abilità che caratterizzano ciascun individuo sono di vitale importanza per una attenta gestione manageriale. Infatti i risultati perseguibili sono strettamente legati alle tipologie di persone che vengono impiegate per raggiungerli. Con capacità si intende una caratteristica generale e stabile di un individuo, responsabile della sua massima (non tipica) performance nello svolgimento di determinati compiti fisici o mentali. Una abilità, invece, è la specifica competenza di un individuo di manipolare fisicamente degli oggetti. Per capire la differenza tra le due, provate a immaginare di essere l’unico passeggero di un piccolo aereo in cui il pilota è svenuto. L’aereo scen-

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Tabella 5-2 Consigli e avvertimenti sull’utilizzo dei test di personalità negli ambienti di lavoro I consigli sotto elencati sono quelli che i ricercatori, gli autori dei test e le aziende che si occupano di valutazione del personale forniscono per giudicare la validità dei test attualmente in uso nella previsione della performance lavorativa. • Stabilisci tu l’obiettivo che ti poni. Se persegui l’abbinamento perfetto tra persona e lavoro, analizza quali sono gli aspetti della posizione che possono determinarlo. • Cerca un consulente esterno che ti aiuti a valutare se esiste o se è possibile elaborare un test per selezionare quali candidati siano più adatti alla posizione offerta. Rivolgiti a psicologi aziendali, associazioni di categoria oppure consulta uno dei siti Internet dedicati all’argomento. • Assicurati che ogni test adottato sia scientificamente provato per lo scopo che ti sei prefisso. Chi lo vende dovrebbe essere in grado di citare almeno una ricerca indipendente che provi la sussistenza di una correlazione del test con la performance lavorativa. • Chiedi al tuo fornitore di documentare la legalità del test acquistato: è corretto? è strettamente connesso al lavoro? Comporta qualche forma di discriminazione di tipo razziale o etnico? Viola il diritto alla privacy in base alle leggi vigenti? Il fornitore dovrebbe presentare una dichiarazione legale a garanzia che il test non discrimina alcuna fascia protetta; i datori di lavoro, da parte loro, hanno il diritto di sentire anche l’opinione dei propri legali a proposito. • Assicurati che tutti i membri dello staff che sottoporranno i test ai dipendenti o analizzeranno i risultati siano adeguatamente preparati a farlo e mantengano il segreto sui risultati. Usa i punteggi dei test di personalità in concomitanza ad altre valutazioni che ritieni fondamentali per il posto di lavoro – come capacità ed esperienza – per valutare in modo completo le qualità di ciascuna persona; applica gli stessi criteri a ciascun candidato.

Fonte: S. Bates, “Personality Counts,” HR Magazine, febbraio 2002, p. 34.

de in picchiata: impegno e capacità non basteranno per salvarvi, se non possedete le necessarie abilità pratiche, saper pilotare un aereo. Come si vede nella figura 5-3, una performance di successo (sia nel far atterrare un velivolo sia nell’esecuzione di qualsiasi altro compito) dipende da una combinazione di impegno, capacità e abilità. Tra le numerose abilità e competenze auspicabili nella vita organizzativa ci sono la comunicazione scritta e orale, l’iniziativa, la capacità di prendere decisioni e di risolvere problemi, la tolleranza, l’adattabilità e l’elasticità. Non bisogna dimenticare che le precauzioni che abbiamo auspicato nei confronti dei test di personalità sul lavoro vanno estese anche ai test di capacità, intelligenza e competenza. Nella presente sezione esploreremo l’intelligenza, alcune capacità cognitive specifiche e la controversa idee delle intelligenze multiple. Figura 5-3 La performance dipende dalla giusta combinazione di impegno, capacità e abilità pratiche

Capacità

Performance

Impegno

Abilità

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Intelligenza e capacità cognitive Intelligenza: capacità di elaborare un pensiero costruttivo, ragionare e risolvere problemi

Gli esperti non sono arrivati a una definizione univoca, ma si può dire che l’intelligenza rappresenta la capacità dell’individuo di pensare in modo costruttivo, ragionare e risolvere problemi.44 Nel passato si riteneva che l’intelligenza fosse una capacità innata che si tramandasse geneticamente da una generazione all’altra. La ricerca ha però dimostrato che l’intelligenza, così come la personalità e altri aspetti individuali, è funzione anche degli influssi ambientali e del contesto più generale.45 Più di recente sono state aggiunte anche altre concause, come i fattori organici: è stato infatti provato con sempre maggiore evidenza che esiste una connessione tra l’utilizzo di alcol e droga nelle donne in gravidanza e l’insorgere di problemi nello sviluppo intellettivo dei figli.46 Negli ultimi anni i ricercatori hanno ottenuto risultati interessanti relativamente all’intelligenza. Negli ultimi 70 anni si è osservato un aumento continuo e significativo dell’intelligenza media nelle nazioni sviluppate. Perché? Gli esperti, riuniti in una conferenza della American Psychological Association, hanno decretato che “una combinazione tra un miglior livello di istruzione, un miglioramento nello status socioeconomico e una società più complessa a livello tecnologico potrebbe essere la causa dell’aumento nei punteggi di QI”.47 Quindi, se qualche giovane pensa di essere più brillante dei suoi genitori o dei suoi insegnanti, nonostante questi lo critichino perché ignora tante cose importanti, probabilmente ha ragione! Due tipologie di capacità L’intelligenza umana è stata studiata con un approccio sostanzialmente empirico. Dall’esame delle correlazioni tra le misure delle capacità mentali e il comportamento, gli studiosi hanno isolato statisticamente le principali componenti dell’intelligenza. Utilizzando questa procedura, Charles Spearman, psicologo che ha avuto un ruolo pionieristico in questo tipo di studi, ha avanzato nel 1927 l’ipotesi che la performance cognitiva fosse determinata da due tipologie di capacità. La prima si può definire come una capacità mentale generale necessaria in tutti i compiti cognitivi. La seconda è caratteristica peculiare del compito in esame.48 Ad esempio, la capacità di un individuo di fare parole crociate è funzione delle sue generiche capacità mentali, ma anche della sua abilità specifica di percepire una struttura guardando delle parole complete solo in parte. Sette capacità mentali principali Nel corso degli anni molte sono state le ricerche che hanno cercato di approfondire ed espandere le idee di Spearman sulla relazione tra capacità cognitive e intelligenza. Uno psicologo è arrivato a compilare una lista di 120 capacità mentali diverse. La tabella 5-3 contiene la definizione delle sette più citate. Quattro di queste in particolare, secondo i ricercatori che si occupano di selezione del personale, sono valide per prevedere le performance dei potenziali candidati a un posto di lavoro: le capacità verbale, numerica, spaziale e di ragionamento induttivo.49

Siamo dotati di intelligenze multiple? Nel suo libro del 1983 Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences (in italiano, Formae mentis: saggio sulla pluralità dell’intelligenza, traduzione di Libero Sosio,

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Tabella 5-3 Capacità mentali che sottendono la performance Capacità

Descrizione

1. Comprensione verbale 2. Padronanza del vocabolario

Capacità di cogliere il significato delle parole e capire con prontezza ciò che si legge Capacità di pronunciare parole isolate che rispondano a specifici requisiti simbolici o strutturali (come, ad esempio, parole che inizino con la lettera b e contengano due vocali) Capacità di eseguire calcoli aritmetici, ad esempio l’addizione e la sottrazione, in modo veloce e preciso Essere in grado di percepire schemi spaziali e visualizzare la trasformazione di forme geometriche al variare della posizione o della forma Avere buona memoria per parole accoppiate, simboli, liste di numeri o altro genere di elementi associati Capacità di percepire figure, riconoscere somiglianze e differenze e portare a termine compiti che implicano una percezione visiva Capacità di trarre conclusioni generali partendo da elementi specifici

3. Numerica. 4. Spaziale 5. Di memoria 6. Velocità percettiva 7. Ragionamento induttivo

Fonte: adattamento da M.D. Dunnette, “Aptitudes,Abilities, and Skills,” in Handbook of Industrial and Organizational Psychology, a cura di M.D. Dunnette (Skokie, IL: RandMcNally, 1976), pp. 478-83.

Feltrinelli, Milano, 2010) il professore della Harvard Graduate School of Education Howard Gardner ha proposto un nuovo paradigma dell’intelligenza umana.50 Successivamente lo studioso ha identificato otto diverse forme di intelligenza, che ampliano enormemente il concetto di intelligenza così come è stato inteso per lungo tempo. La teoria delle intelligenze multiple di Gardner abbraccia non solo le capacità cognitive, ma anche le capacità e abilità sociali e fisiche: • • • • • • • •

Intelligenza linguistica: capacità di apprendere e usare le lingue in forma scritta e orale. Intelligenza logico-matematica: capacità legate al ragionamento deduttivo, all’analisi dei problemi e al calcolo matematico. Intelligenza musicale: capacità di apprezzare la musica, talento nel comporre e suonare uno o più strumenti. Intelligenza corporeo-cinestesica: capacità di usare la mente e il corpo per coordinare i movimenti. Intelligenza spaziale: capacità di riconoscere e utilizzare schemi di vario genere. Intelligenza interpersonale: capacità di entrare in sintonia con gli altri, comprenderli e collaborare efficacemente. Intelligenza intrapersonale: capacità di comprendere sé stessi e controllarsi. Intelligenza naturalistica: capacità di vivere in armonia con l’ambiente.51

Molti educatori e genitori hanno sposato la teoria delle intelligenze multiple perché spiega come mai un bambino possa riportare un punteggio basso nei test che misurano il QI pur essendo palesemente dotato di specifiche capacità (per esempio musicali, sportive o di relazione). Secondo i sostenitori, il concetto di intelligenze multiple sottolinea la necessità di aiutare i bambini a sviluppare le doti mentali e fisiche seguendo i propri ritmi. Inoltre, i testi standardizzati di misurazione del QI coprono solo i primi

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due tipi di intelligenza dell’elenco sopra riportato e un punteggio basso può diventare un peso per via di stereotipi e pregiudizi. Nel contempo, gran parte degli psicologi accademici e degli esperti in materia continuano a criticare il modello di Gardner perché troppo soggettivo e male integrato, preferendo il modello tradizionale di intelligenza come variabile unitaria misurabile mediante un solo test. Per quanto ci riguarda, siamo aperti alla teoria di Gardner, come testimonia l’attenzione che abbiamo dedicato alle intelligenze culturale ed emotiva.

Le emozioni nella vita organizzativa Nel mondo ideale delle teorie manageriali, i dipendenti perseguono gli obiettivi dell’azienda in modo logico e razionale. Il comportamento emotivo viene raramente considerato tra i fattori dell’equazione. La vita organizzativa di ogni giorno, d’altra parte, ci mostra l’importanza che le emozioni possono avere.52 Emozioni forti, come la collera e l’invidia, spesso riescono a far mettere da parte la logica e la razionalità sul lavoro. I manager stessi si servono della paura e di altre emozioni per motivare o intimidire. Talvolta possono manifestarsi anche tristezza e ansia. In quest’ultima sezione del capitolo ci occuperemo delle differenze individuali relativamente alle emozioni, passando in rassegna una tipologia di dieci emozioni positive e negative ed esplorando il concetto di intelligenza emotiva.

Emozioni positive ed emozioni negative Emozioni: reazioni umane complesse di fronte a successi e fallimenti personali; possono essere sentite interiormente e manifeste

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Richard S. Lazarus, autorevole studioso dell’argomento, definisce così le emozioni: “reazioni complesse, strutturate dell’organismo alla nostra situazione percepita nell’eterno sforzo di sopravvivere, prosperare e ottenere ciò che desideriamo”.53 La parola organismo è appropriata, perché le emozioni coinvolgono l’intera persona – dal punto di vista biologico, psicologico e sociale. Va notato che gli psicologi distinguono tra le emozioni provate e quelle manifeste.54 Una persona, ad esempio, può nutrire collera (emozione provata) di fronte a un collega scortese, ma evitare di rispondere con rabbia alle sue parole (emozione manifesta). Come diremo più avanti, nel Capitolo 17, le emozioni influiscono sia sull’insorgere dello stress, sia sul processo di adattamento a esso, e ai problemi biologici e psicologici collegati. L’effetto distruttivo del comportamento emotivo sulle relazioni sociali è fin troppo ovvio nella vita di tutti i giorni. D’altro canto, la ricerca ha dimostrato che gli individui tendono a instaurare forti legami sociali con le persone con cui hanno condiviso un’esperienza intensa dal punto di vista emotivo.55 Per esempio, è piuttosto comune che i sopravvissuti a eventi terribili come disastri naturali o incidenti aerei si riuniscano anni dopo. La definizione che Lazarus dà delle emozioni mette al centro gli obiettivi dell’individuo, ed è proprio in base agli obiettivi che si distinguono emozioni positive e negative. Alcune emozioni nascono da un fallimento o da una frustrazione nel raggiungimento di un obiettivo: Lazarus le chiama emozioni negative, perché incongruenti con l’obiettivo posto. Ad esempio: quali tra le sei emozioni negative della figura 5-4 provereste se dovesse andarvi male un esame? Il fatto di non passare l’esame sarebbe incongruente

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114 Figura 5-4 Emozioni positive e negative Fonte: adattamento da R.S. Lazarus, Emotion and Adaptation (New York: Oxford University Press, 1991), Capp. 6, 7.

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Emozioni negative (incoerenti con l’obiettivo)

Collera

Emozioni positive (coerenti con l’obiettivo)

Felicità/gioia

Paura/ ansia Orgoglio Colpa/vergogna

Tristezza

Amore/affetto

Invidia/ gelosia Disgusto

Sollievo

con il vostro obiettivo, ossia laurearvi. Se, invece, vi doveste laureare senza andare fuori corso e per giunta con la lode, quali tra le quattro emozioni positive del grafico provereste? In questo caso sarebbero emozioni positive, in quanto congruenti (o coerenti) con un importante obiettivo. È importante notare che gli obiettivi di una persona possono essere socialmente accettabili o meno. Di conseguenza, un’emozione positiva, come l’amore/l’affetto, può risultare indesiderabile se associata, ad esempio, alle molestie sessuali. In senso positivo, invece, un lieve senso di colpa, un po’ di ansia o di invidia possono determinare un maggior impegno. In fin dei conti, quindi, la natura distruttiva o costruttiva di un’emozione deve essere stabilita considerandone sia l’intensità sia il relativo obiettivo dell’individuo che la prova.

Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva È possibile affrontare la paura e altre emozioni in modo efficace maturando dal punto di vista emotivo attraverso lo sviluppo della propria intelligenza emotiva. Daniel Goleman, uno psicologo diventato giornalista, nel 1995 pubblicò un libro dal titolo Intelligenza emotiva, che fu causa di fermento nel mondo dell’accademia e del management. Sviluppando il concetto di intelligenza interpersonale elaborato da Howard Gardner, Goleman critica i tradizionali modelli per la misurazione dell’intelligenza (QI) perché sono troppo ristretti e non considerano la competenza interpersonale. L’elenco da lui redatto, molto più ampio, include “abilità come essere

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Tabella 5-4 Sviluppare la competenza personale e sociale attraverso l’intelligenza emotiva Competenza personale: queste capacità determinano come ciascuno gestisce sé stesso.

• •

Consapevolezza di sé Consapevolezza emotiva: saper leggere le proprie emozioni riconoscendone le conseguenze; saper decidere in base al proprio “sesto senso”. Autovalutazione accurata: conoscere i propri punti di forza e i propri limiti. Fiducia in sé stessi: avere consapevolezza del proprio valore e delle proprie capacità.

• • • • • •

Gestione di sé Autocontrollo emotivo: tenere sotto controllo le emozioni e gli impulsi distruttivi. Trasparenza: dimostrare onestà e affidabilità. Adattabilità: essere flessibili nell’adattarsi alle situazioni che cambiano e agli ostacoli incontrati. Risultati: sentire l’impulso a migliorare la performance per raggiungere standard interni di eccellenza. Iniziativa: avere prontezza d’azione e saper afferrare le opportunità. Ottimismo: vedere il lato positivo degli eventi.



Competenza sociale: queste capacità determinano il nostro modo di gestire le relazioni. • • •

Consapevolezza sociale Empatia: sentire le emozioni degli altri, capire il loro punto di vista e interessarsi dei loro problemi. Consapevolezza organizzativa: leggere le correnti, le reti decisionali e gli intrecci politici a livello organizzativo. Servizio: riconoscere e andare incontro alle necessità dei colleghi e dei clienti.

• • • • • • •

Gestione delle relazioni Leadership ispirata: guidare e motivare utilizzando una visione convincente. Influsso: utilizzare una gamma di strategie per persuadere. Aiuto alla crescita: sostenere le abilità degli altri guidandoli e fornendo un feedback adeguato. Catalizzare il cambiamento: avviare, gestire e guidare in una nuova direzione. Gestione del conflitto: saper risolvere i disaccordi. Costruzione di legami: coltivare e mantenere una rete di relazioni. Lavoro in gruppo e collaborazione: saper cooperare e costruire un gruppo di lavoro.

Fonte: D. Goleman, R. Boyatzis e A. McKee, Primal Leadership: Realizing the Power of Emotional Intelligence (Boston: Harvard Business School Press, 2002), p. 39.

Intelligenza emotiva: capacità di autogestirsi e di interagire con gli altri in modo maturo e costruttivo

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in grado di trovare in sé stessi la motivazione e perseverare nonostante le frustrazioni, frenare i propri impulsi e posporre le gratificazioni, tenere sotto controllo i cambiamenti d’umore e lo stress per evitare che impediscano di pensare; infine, saper creare empatia con le persone e saper sperare”.56 L’intelligenza emotiva, quindi, è la capacità di gestire sé stessi e le relazioni interpersonali in modo maturo e costruttivo. Alcuni la chiamano IE, altri QE, e comprende quattro componenti chiave: consapevolezza di sé, gestione di sé, consapevolezza sociale e gestione delle relazioni. Le prime due componenti costituiscono la competenza personale; le altre la competenza sociale (tabella 5-4). I ricercatori invitano alla cautela rispetto all’uso dell’intelligenza emotiva come strumento per la selezione e la valutazione dei collaboratori. Secondo alcuni studiosi di comportamento, i principali punti problematici sono la mancanza di coerenza a livello teorico e la scarsa validità dei parametri di misurazione: secondo le conclusioni, i punteggi che misurano l’IE non aggiungono molto alle dimensioni di base dei Big Five in merito alla previsione delle prestazioni lavorative.57 Ciò nonostante,

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

l’IE sembra rivestire una certa importanza per la crescita personale dei collaboratori e i programmi di sviluppo loro dedicati. L’insieme formato dalla personalità proattiva e dalle caratteristiche contenute nella Tabella 5-4 rappresenta un complesso programma di sviluppo personale per ciascuno.

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Valori, atteggiamenti e soddisfazione lavorativa

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Come conciliare i valori dichiarati con quelli praticati? “Io non ci casco, sai?”, l’ingegner Colombo sussurrò all’orecchio del suo vicino subito dopo lo scrosciante applauso che aveva fatto seguito alla parole di Della Pergola, l’Amministratore Delegato dell’impresa di costruzioni Liberty. Erano state parole di impatto emotivo perché Della Pergola era un grande oratore, ma purtroppo la veemenza la riservava più alle occasioni pubbliche che nel perseguire le modalità organizzative interne. Colombo era un vecchio dell’azienda, gli mancavano due anni alla pensione. Era rispettato da tutti come un grande lavoratore, poco incline a manovre di corridoio e a inseguire l’amicizia dei capi. “Ricordati – continuò verso il suo più giovane interlocutore – più ne parlano, di valori, e meno li praticano. Andassero nei cantieri a vedere deve finisce la loro catena di subappalto. Noi siamo sempre corretti, assumiamo le persone direttamente, ma poi lo scavo lo diamo fuori da eseguire, così come pezzi di costruzione. Non ci arrivano i bambini, questo no, ma quanti degli extracomunitari che vedi in giro saranno regolari?” La convention volgeva al termine e tutti si accalcavano a stringere la mano e a complimentarsi con l’Amministratore Delegato. Colombo sentiva frasi come

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“Una sferzata di moralità”, “Una svolta necessaria” e così via. Si allontanò lentamente, quando intravide sulla porta l’assistente di Della Pergola, quello che da sempre era il principale consigliere oltre che il suo braccio destro. “Bene – lo apostrofò Colombo – un bellissimo discorso. È già in programma, immagino, una riunione di attuazione di queste strategie? Penso vorrete delle relazioni precise di quanto accade nei cantieri, di come controllare gli appalti esterni ed evitare l’endemico mangia mangia che nella catena ciascuno attua. Io avrei un paio di idee in proposito”. Come Colombo sospettava l’assistente prese tempo, gli disse che sicuramente lo avrebbero cercato, anzi che nel prossimo futuro sarebbe certamente stata convocata una riunione come lui suggeriva. Colombo se ne andò borbottando tra sé: “Come io suggerisco? Allora non ci avete neanche pensato. Il discorso lo avrà scritto uno specialista, senza che nessuno si sia curato della reale fattibilità. Il bello che pensano che noi non ce ne accorgiamo, come se lavorassimo sulla luna. Meno male che mi mancano solo due anni, preferisco andare a giocare a bocce che partecipare a questi mega raduni, costosi e inutili.”

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Obiettivo del presente capitolo è proseguire la nostra analisi delle differenze individuali intrapresa nel Capitolo 5 per comprendere meglio in che modo i manager e le organizzazioni possono sfruttare le conoscenze sulle differenze individuali per attirare, motivare e trattenere collaboratori di talento. Analizzeremo l’influsso che valori e atteggiamenti esercitano su conseguenze importanti a livello organizzativo come la soddisfazione lavorativa, la performance, il turnover e i comportamenti controproducenti.

Valori personali Parlando di cultura organizzativa, nel Capitolo 3, abbiamo definito i valori come modalità di comportamento desiderate o punti di arrivo auspicati e ci siamo soffermati sui valori collettivi o condivisi; ora invece tratteremo i valori personali. I valori personali rappresentano essenzialmente tutto ciò che è significativo per noi nella vita e sono importanti nello studio del comportamento organizzativo perché influenzano il nostro comportamento in contesti diversi. Shalom Schwartz ha elaborato una teoria generale dei valori personali,1 che verrà descritta nel paragrafo che segue; successivamente si analizzeranno i conflitti di valori, esaminando infine un problema strettamente collegato, ossia l’equilibrio tra il lavoro e la vita privata.

La teoria dei valori di Schwartz Secondo Schwartz, i valori sono motivazionali perché “rappresentano obiettivi ampi che si applicano in contesti diversi nel tempo.”2 Per esempio, se attribuite importanza al successo, molto probabilmente lavorerete con impegno per ottenere una promozione lavorativa, e metterete in campo tutto il vostro spirito competitivo anche nello sport che praticate settimanalmente con gli amici. Inoltre, i valori sono relativamente stabili e possono influenzare il nostro comportamento senza che ne siamo consapevoli. Schwartz ha proposto 10 valori di base che guidano il comportamento e ha identificato i meccanismi motivazionali alla base di ciascun valore (tabella 6-1). È proprio per via di questi meccanismi motivazionali che i valori influenzano il comportamento. Per esempio, la tabella 6-1 illustra che il desiderio di potere sociale, autorità e ricchezza motiva gli individui che attribuiscono importanza al potere. Al contrario, il valore dell’essere accettati dal gruppo motiva comportamenti quali gentilezza, obbedienza, auto-disciplina e rispetto nei confronti dei genitori e degli anziani. Questi 10 valori non solo consentono di prevedere il comportamento, come proposto da Schwartz, ma sono anche validi in contesti culturali diversi.3 La figura 6-1 illustra le relazioni proposte tra i 10 valori. Il modello circolare mostra quali sono più strettamente correlati tra loro e quali sono in conflitto. In linea generale i valori adiacenti – per esempio l’indipendenza e l’universalismo – presentano una relazione positiva, mentre tra i valori distanti gli uni dagli altri – l’indipendenza e il potere – intercorre una relazione meno forte. Approfondendo la riflessione in questa direzione Schwartz ha ipotizzato che i valori in posizioni opposte nella figura 6-1 siano in conflitto: alcuni esempi sono il potere e l’universalismo, oppure l’orientamento al

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Tabella 6-1 Definizione dei valori e dei meccanismi motivazionali secondo la teoria di Schwartz VALORE

DEFINIZIONE E ORIENTAMENTI VALORIALI

Potere

Status sociale e prestigio, controllo o dominio sulle persone e sulle risorse (potere sociale, autorità, ricchezza) Successo personale attraverso la dimostrazione di competenze socialmente riconosciute (successo, capacità, ambizione, influenza) Piacere e gratificazione immediata (vita piacevole e divertente) Entusiasmo, amore per le novità e per le sfide (vita entusiasmante, varia e audace)

Successo Edonismo Orientamento al cambiamento Indipendenza Universalismo

Benevolenza Tradizione Conformità

Sicurezza

Pensiero e scelta indipendenti, spirito creativo, esplorazione (creatività, libertà, indipendenza, curiosità, scelta autonoma degli obiettivi) Comprensione, gratitudine, tolleranza e tutela del benessere di tutti gli individui e della natura (ampiezza di vedute, saggezza, giustizia sociale, uguaglianza, pace, bellezza, sintonia con la natura, protezione dell’ambiente) Protezione e cura del benessere delle persone con cui si è in stretto contatto (altruismo, onestà, indulgenza, lealtà, responsabilità) Rispetto, impegno e accettazione di usanze e idee della cultura o della religione tradizionali (umiltà, accettazione del proprio destino, devozione, rispetto per la tradizione, moderazione) Limitazione di azioni, inclinazioni e impulsi potenzialmente fastidiosi o dannosi per gli altri e contrari alle aspettative e norme sociali (gentilezza, obbedienza, auto-disciplina, rispetto verso i genitori e gli anziani) Armonia e stabilità della società, delle relazioni e dell’individuo (sicurezza della famiglia, sicurezza nazionale, ordine sociale, decenza, scambio di favori)

Fonte: Da Anat Bardi e Shalom H Schwartz, “Values and Behavior: Strength and Structure of Relations,” Personality & Social Psychology Bulletin, ottobre 2003, p 1208. Copyright © 2003 Sage Publications.

Figura 6-1 Le relazioni intercorrenti tra i valori di Schwartz Fonte: Anat Bardi e Shalom H Schwartz, “Values and Behavior: Strength and Structure of Relations,” Personality and Social Psychology Bulletin, ottobre 2003, p 1208. Copyright © 2003 Sage Publications.

Indipendenza

Orientamento al cambiamento

Universalismo

Benevolenza

Edonismo Conformità Tradizione

Successo

Potere

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Sicurezza

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cambiamento e la conformità/tradizione. Il desiderio di vivere una vita stimolante dedicandosi ad attività come il paracadutismo o l’arrampicata entrerebbe in conflitto con il proposito di vivere una vita moderata o tradizionale. La ricerca ha in parte confermato queste ipotesi.4

Conflitti di valori Vi sono tre tipologie di conflitti di valori collegabili agli atteggiamenti, alla soddisfazione lavorativa, al turnover, alla prestazione e ai comportamenti controproducenti individuali. Si possono classificare come conflitti di valori intrapersonali, interpersonali e tra individuo e azienda. In queste tre diverse tipologie, il conflitto ha origine rispettivamente dentro la persona, tra una persona e le altre e tra la persona e l’organizzazione. Conflitti di valori intrapersonali Dall’esame della teoria dei valori di Schwartz è emerso che gli individui possono vivere una condizione di conflitto interiore e stress quando i valori personali sono in contrasto tra loro. I lavoratori che desiderano condurre una vita equilibrata possono vivere una stressante condizione di conflitto quando, per esempio, attribuiscono importanza al “successo” e alla “tradizione”. Paul Wenske, ex reporter per il Kansas City Star, vive un conflitto di valori intrapersonale dopo essere stato costretto ad accettare una proposta di pensionamento dal suo datore di lavoro. Giornalista affermato e riconosciuto con trent’anni di esperienza, si identificava fortemente nel suo lavoro e in un’intervista al Wall Street Journal ha dichiarato: “Da un giorno all’altro, non sei più la persona che sei sempre stato. Ti guardi allo specchio e ti domandi chi sei.” Secondo i terapisti, questo tipo di conflitto di valori può essere attenuato “andando orgogliosi di caratteristiche personali immutabili a prescindere dalle situazioni come la virtù, l’integrità, l’onestà e la generosità. Si consiglia inoltre di dedicare più tempo ed energie ai rapporti con i familiari, gli amici e la comunità.”5 In genere, le persone sono più serene e meno stressate quando i loro valori personali sono allineati. Conflitti di valori interpersonali Questa tipologia di conflitti di valori è spesso alla base di scontri tra personalità diverse e può incidere negativamente sulla carriera. Consideriamo il caso di Jeffrey Johnson, che è stato licenziato dalla Tribune Company, proprietaria del Los Angeles Times, quando i suoi valori sono entrati in conflitto con quelli dei dirigenti. Costoro avevano chiesto a Johnson di migliorare le performance finanziarie del quotidiano tagliando i costi, cioè riducendo il personale. Il conflitto di valori è sorto perché Johnson puntava a risanare le finanze esplorando strategie innovative per generare nuove entrate, non ritenendo che i problemi del giornale potessero essere risolti licenziando i dipendenti.6 Questo esempio dimostra quanto sia importante valutare con attenzione pro e contro nella gestione dei conflitti di valori interpersonali con i superiori. Conflitti di valori tra individuo e organizzazione Come abbiamo visto nel Capitolo 3, le organizzazioni cercano attivamente di radicare determinati valori all’interno della loro cultura aziendale. Il conflitto può verificarsi quando i valori dichiarati e messi in atto dall’organizzazione entrano in collisione con i valori personali dei collaboratori.

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Nel Capitolo 3 abbiamo illustrato l’adattamento persona-ambiente, cioè la misura in cui le caratteristiche individuali sono coerenti con quelle dell’ambiente di lavoro.7 I conflitti di valori tra individuo e organizzazione sono importanti perché sono collegati a conseguenze positive a livello organizzativo come la soddisfazione, l’impegno e il successo professionale.8 Prima di accettare una proposta di lavoro, è importante quindi valutare con attenzione la coerenza tra la proposta e i propri valori individuali.

Conflitto tra lavoro e vita familiare Una complessa rete di fattori demografici ed economici rende l’equilibrio tra lavoro e vita privata una sfida per la maggior parte della popolazione. La sfida diventa più complessa durante fasi di recessione, caratterizzate da disoccupazione elevata. In questa sezione cercheremo di capire meglio il conflitto tra lavoro e famiglia introducendo un modello basato sui valori. Un modello di conflitto lavoro/famiglia basato sui valori Pamela L. Perrewé e Wayne A. Hochwarter hanno proposto il modello di conflitto lavoro/famiglia rappresentato nella figura 6-2. Sul lato sinistro sono indicati i valori generali di vita, che alimentano i valori collegati alla famiglia e al lavoro. I valori familiari includono le convinzioni durature sull’importanza della famiglia e su chi riveste i ruoli fondamentali al suo interno (ad esempio allevare i figli, mandare avanti la casa e guadagnare il denaro). I valori legati al lavoro si concentrano sull’importanza relativa del lavoro e degli obiettivi lavorativi nella vita di una persona. La similitudine di valori è legata al grado di consenso tra i membri della famiglia sui valori familiari. Se, ad esempio, una moglie intraprende un Figura 6-2 Un modello di conflitto lavoro/famiglia basato sui valori Fonte: Pamela L. Perrewé e Wayne A. Hochwarter,“Can We Really Have It All? The Attainment of Work and Family Values,” Current Directions in Psychological Science, febbraio 2001, p. 30. Pubblicato da Blackwell Publishers, Inc. © American Psychological Society.

Valori familiari

Similitudine di valori Valori generali di vita

Conflitto lavoro/ famiglia

Perseguimento dei valori

Soddisfazione lavorativa e nella vita

Congruenza di valori

Valori legati al lavoro

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lavoro nonostante il marito desideri essere l’unico in casa a guadagnare, la mancanza di similitudine tra i valori causa un conflitto lavoro/famiglia. La congruenza di valori, d’altra parte, implica l’accordo sui valori tra dipendente e datore di lavoro. Se, ad esempio, il datore di lavoro considera il fatto che un dipendente non parta per un viaggio d’affari per non perdere il compleanno del figlio come una slealtà nei confronti dell’azienda, la mancanza di congruenza di valori può scatenare un conflitto lavoro/famiglia. “Il conflitto lavoro/famiglia può assumere due forme: interferenza del lavoro con la famiglia e interferenza della famiglia con il lavoro”.9 Supponiamo, ad esempio, che due manager all’interno della stessa funzione abbiano le figlie che giocano nella medesima squadra di calcio. Uno dei due si perde una partita importante per partecipare a una riunione indetta all’ultimo minuto, l’altro salta la riunione per vedere la partita. Entrambi potrebbero andare incontro a un conflitto lavoro/famiglia, ma per ragioni totalmente diverse.10 Gli ultimi due riquadri a destra del modello, ossia il perseguimento dei valori e la soddisfazione nella vita, vanno di pari passo. La soddisfazione è tendenzialmente maggiore per chi vive secondo i propri valori, minore per chi non lo fa. In generale, il modello riflette il senso comune. Ora potremmo chiedere: come si posiziona la vostra vita in questo modello? Per molte persone confrontarsi attualmente con questo modello è fonte di difficoltà. Le politiche organizzative rispetto al conflitto lavoro-famiglia Le organizzazioni hanno implementato una molteplicità di programmi e servizi per la famiglia mirati ad aiutare i collaboratori a trovare un equilibrio tra lavoro e vita personale. Si tratta di contributi alla gestione familiare quali integrazioni sanitarie, contributi per asili nido o assistenza agli anziani, convenzioni con organizzazioni che forniscono diverse tipologie di servizi.

Atteggiamenti Non passa giorno senza che vengano diffusi i risultati di un ennesimo sondaggio sugli atteggiamenti. L’idea di fondo è quella di avere “il polso” dell’opinione pubblica, ossia di capire che cosa ne pensa la gente di un uomo politico, del terrorismo, della droga, della pressione fiscale e così via. Sul posto di lavoro, contemporaneamente, i manager propongono altri sondaggi tesi a monitorare questioni quali la soddisfazione lavorativa e il coinvolgimento del personale. Tutta questa enfasi nei confronti degli atteggiamenti si basa sulla presa di coscienza che essi influenzano in qualche modo il comportamento. Per esempio secondo alcune ricerche, gli anziani che manifestano un atteggiamento positivo rispetto all’invecchiamento hanno una memoria e un udito migliori e vivono più a lungo rispetto a quelli che manifestano un atteggiamento negativo.11 Diversi studi hanno rivelato che sul posto di lavoro gli atteggiamenti rispetto al lavoro erano legati positivamente alla performance e negativamente a indicatori quali pensieri di abbandono, tendenza ad arrivare in ritardo, assenteismo e turnover.12 In questa sezione analizzeremo le componenti degli atteggiamenti e la connessione esistente tra gli atteggiamenti e il comportamento.

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La natura degli atteggiamenti Atteggiamento: predisposizione acquisita nei confronti di qualcosa

Si definisce atteggiamento “una predisposizione acquisita a reagire in modo coerentemente favorevole o sfavorevole nei riguardi di qualcosa”.13 Consideriamo come esempio l’atteggiamento rispetto al gelato al cioccolato: è più probabile che decidiate di mangiare un cono al cioccolato se avete un atteggiamento positivo verso questo gusto, mentre molto probabilmente sceglierete un gusto diverso, per esempio la crema, se avete un atteggiamento positivo verso il gelato alla crema e neutrale o negativo verso il gelato al cioccolato. Esaminiamo ora un esempio legato al contesto lavorativo. Se avete un atteggiamento positivo rispetto al vostro lavoro (cioè il vostro lavoro vi piace) sarete più propensi a impegnarvi al massimo lavorando più duramente e più a lungo. Questi semplici esempi spiegano che gli atteggiamenti ci inducono ad agire in una determinata maniera in un contesto specifico: in altre parole, gli atteggiamenti agiscono sul comportamento a un livello diverso rispetto ai valori. Questi ultimi rappresentano infatti delle convinzioni di fondo che influiscono sul comportamento in ogni situazione, mentre gli atteggiamenti hanno a che fare solamente con il comportamento in determinate situazioni o nei confronti di alcune persone o cose. Valori e atteggiamenti sono generalmente coerenti, ma non sempre: un manager che attribuisce un grande valore all’aiuto del prossimo, ad esempio, potrebbe manifestare un atteggiamento negativo nei confronti di un collega scorretto, e dunque rifiutarsi di aiutarlo. Chiariamo la differenza tra atteggiamenti e valori prendendo in considerazione le tre componenti degli atteggiamenti: affettiva, cognitiva e comportamentale. È importante sottolineare che l’atteggiamento complessivo verso qualcuno o qualcosa è una funzione dell’influenza combinata di queste tre componenti.

Componente affettiva: i sentimenti o le emozioni che un individuo prova di fronte a una cosa o a una situazione

Componente affettiva La componente affettiva di un atteggiamento racchiude in sé i sentimenti o le emozioni che una persona prova nei confronti di una determinata cosa o situazione. Ad esempio: quali sono i vostri sentimenti nei confronti delle persone che parlano al cellulare al ristorante? Se provate fastidio o irritazione, state esprimendo un sentimento negativo nei confronti delle persone che si comportano così. Se, invece, provate indifferenza, la componente affettiva del vostro atteggiamento è neutrale.

Componente cognitiva: le convinzioni o le idee che un individuo ha su una cosa o una situazione Componente comportamentale: come un individuo intende comportarsi nei confronti di qualcuno o qualcosa

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Componente cognitiva Che cosa pensate delle persone che parlano al cellulare al ristorante? Ritenete che il loro comportamento sia poco rispettoso della privacy, produttivo, completamente accettabile o scortese? La risposta rappresenta la componente cognitiva del vostro atteggiamento nei confronti delle persone che si comportano in quel modo. La componente cognitiva di un atteggiamento riflette le convinzioni o le idee di una persona nei confronti di una determinata cosa o situazione. Componente comportamentale La componente comportamentale fa riferimento al modo in cui una persona intende reagire o si aspetta di agire nei confronti di qualcosa o qualcuno. Ad esempio: come reagireste se qualcuno seduto vicino a voi e al vostro commensale al ristorante parlasse al cellulare? In base alla teoria degli atteggiamenti, il comportamento di una persona in una situazione del genere è funzione delle tre componenti. Se il comportamento della persona che telefona non vi irrita (affettiva) o se pensate che l’uso del cellulare aiuti le persone a gestire la propria vita (cognitiva)

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e non avete intenzione di confrontarvi con quella persona (comportamentale), è poco probabile che le diciate qualcosa.14

Che cosa succede quando gli atteggiamenti collidono con la realtà? La dissonanza cognitiva

Dissonanza cognitiva: disagio psicologico provato quando gli atteggiamenti sono incoerenti con il comportamento

Che cosa accade quando un atteggiamento fortemente consolidato entra in conflitto con la realtà? Supponiamo che un individuo abbia il forte timore di contrarre l’AIDS, che ritiene si trasmetta attraverso il contatto con fluidi corporei infetti, tra cui il sangue. Durante la permanenza in un paese estero subisce un grave incidente; necessita di un’operazione chirurgica e trasfusioni con sangue (forse infetto) proveniente da una banca del sangue che applica controlli di qualità dubbi. Secondo voi, rifiuterebbe di sottoporsi alle trasfusioni per restare coerente con le sue convinzioni rispetto al contagio dell’AIDS? Secondo lo psicologo sociale Leon Festinger, questa situazione determinerebbe una dissonanza cognitiva. La dissonanza cognitiva rappresenta il disagio psicologico provato da un individuo quando i suoi atteggiamenti o le sue convinzioni sono incompatibili con il comportamento.15 Festinger ha ipotizzato che gli individui sono motivati a mantenere la coerenza tra atteggiamenti, credenze e comportamenti e che cercheranno di ridurre la “dissonanza” (cioè la tensione psicologica) attraverso uno dei seguenti metodi: 1. Modificare l’atteggiamento o il comportamento, oppure entrambi. Si tratta della soluzione più semplice. Ritornando all’esempio della trasfusione di sangue, tale soluzione consisterebbe in (a) convincersi che non si può contrarre l’AIDS attraverso il sangue e sottoporsi alla trasfusione, oppure (b) rifiutare la trasfusione. 2. Minimizzare la gravità di un comportamento incoerente. È una soluzione adottata con grande frequenza. Nel nostro esempio, l’individuo può minimizzare la convinzione che contrarrà la malattia accettando la trasfusione (fidandosi del medico che afferma che il sangue proveniente da quella banca del sangue viene regolarmente utilizzato). 3. Trovare elementi consonanti che bilancino gli elementi dissonanti. Questo approccio consiste nell’eliminare la dissonanza razionalizzandola. L’individuo può convincersi che deve accettare la trasfusione perché non ha alternative: dopo tutto, se non si sottoponesse all’operazione rischierebbe comunque la vita.

Quanto sono stabili gli atteggiamenti? Nel corso di un importante studio, i ricercatori hanno rilevato che gli atteggiamenti lavorativi degli intervistati (5000 maschi occupati di mezza età) rimanevano piuttosto stabili per un periodo pari a 5 anni; gli atteggiamenti positivi rimanevano tali, così come quelli negativi. Anche se le persone cambiavano lavoro o ruolo, tendevano comunque a mantenere gli atteggiamenti esternati in precedenza.16 Ricerche più recenti ipotizzano invece che questo studio avesse sopravvalutato il grado di stabilità degli atteggiamenti, essendosi limitato a esaminare un campione di persone di mezza età. Questa volta, la domanda che si sono posti i ricercatori è stata

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la seguente: come cambiano gli atteggiamenti nell’arco dell’età adulta? È emerso che gli atteggiamenti generali sono maggiormente suscettibili al cambiamento nella prima giovinezza e nella maturità rispetto al periodo di mezzo. Tre sono i fattori responsabili della stabilità che caratterizza la mezza età: (1) maggiore sicurezza personale; (2) percezione di avere competenze significative; (3) bisogno di atteggiamenti saldi. In questo modo è stata smentita l’idea mutuata dal senso comune secondo cui gli atteggiamenti generali diventerebbero più stabili con l’età. Le persone più anziane, così come le più giovani, cambiano effettivamente i propri atteggiamenti generali perché sono più aperte al cambiamento e meno sicure di sé.17 Il nostro background culturale e le esperienze che viviamo cambiano; di conseguenza cambiano anche gli atteggiamenti e i comportamenti. Le propensioni si traducono in comportamento attraverso le intenzioni comportamentali. Prendiamo ora in esame un modello che spiega tale processo.

Gli atteggiamenti influenzano il comportamento attraverso le intenzioni Sviluppando le teorie di Leon Festinger sulla dissonanza cognitiva, Icek Ajzen e Martin Fishbein hanno indagato più a fondo per comprendere la causa delle discrepanze tra gli atteggiamenti e il comportamento degli individui. Ajzen ha sviluppato e affinato un modello incentrato sulle intenzioni come collegamento chiave tra gli atteggiamenti e il comportamento pianificato. La sua teoria sul comportamento pianificato (figura 6-3) Figura 6-3 Teoria di Ajzen del comportamento pianificato Fonte: riprodotto da Organizational Behavior and Human Decision Processes, I. Aizen, “The Theory of Planned Behavior,” Figura 1, p. 182, Copyright 1991, su autorizzazione della Elsevier Science.

Atteggiamento nei confronti del comportamento

Norma soggettiva

Intenzione

Comportamento

Controllo comportamentale percepito

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mostra tre determinanti, separate ma interagenti, dell’intenzione individuale) di agire un certo comportamento. Ajzen ha spiegato in questo modo la natura e i ruoli delle tre determinanti dell’intenzione: La prima determinante è l’atteggiamento nei confronti del comportamento, e si riferisce alla misura in cui la persona esprime una valutazione favorevole o meno sul comportamento in questione. Il secondo elemento predittore è un fattore sociale denominato norma soggettiva; si riferisce alla pressione sociale percepita che spinge ad avere o meno un determinato comportamento. La terza causa dell’intenzione è il grado di controllo comportamentale percepito, ossia la facilità o la difficoltà nell’assumere un comportamento. Si ritiene che quest’ultima determinante rifletta sia le esperienze passate dell’individuo, sia impedimenti e ostacoli previsti.18

Atteggiamenti nei confronti del lavoro Atteggiamenti nei confronti del lavoro come l’impegno verso l’organizzazione, il coinvolgimento del personale e la soddisfazione lavorativa rivestono un’importanza duplice per i manager. Da un lato, rappresentano risultati importanti che i manager potrebbero voler incoraggiare. Dall’altro, sono sintomatici di altri potenziali problemi: per esempio, un basso livello di coinvolgimento o di soddisfazione lavorativa potrebbero essere il sintomo dell’intenzione di un collaboratore di licenziarsi. Pertanto è essenziale che i manager comprendano le cause e le conseguenze degli atteggiamenti nei confronti del lavoro. Qual è il vostro orientamento verso il lavoro? Lo ritenete una componente importante che vi sostiene nella costruzione della vostra identità e vi soddisfa, o è solo un mezzo per guadagnarsi dei soldi e pagare le bollette? È interessante notare come gli atteggiamenti nei confronti del lavoro siano cambiati in modo significativo nel corso della storia. Nell’antica Grecia, per esempio, il lavoro era svolto da persone ridotte in schiavitù, mentre oggi è considerato da molti una fonte di soddisfazione e piacere e si sta diffondendo sempre più la convinzione che debba essere divertente. Non tutti saranno d’accordo su questo fatto, ma organizzazioni come la Southwest Airlines l’hanno trasformato in un vantaggio competitivo strategico. Uno dei fattori fondamentali per essere assunti alla Southwest, infatti, è avere senso dell’umorismo e un atteggiamento generale positivo. Prendiamo in esame quanto conterebbe nel dare un’impronta ai collaboratori l’orientamento positivo nei confronti del lavoro di Bob Pyke, amministratore delegato alla Creative Training Techniques International, Inc: Non si tratta di scegliere tra divertirsi e lavorare, bensì di scegliere di lavorare divertendosi. Trovo estremamente deprimente che ci sia tanta gente che trascorre otto ore al giorno lavorando e le altre sedici a tentare di dimenticarsene. La definizione “se non è stupido e noioso allora non è lavoro” non vale più e va cambiata. Il lavoro dovrebbe essere sinonimo di passione, dovrebbe avere uno scopo e implicare coinvolgimento e partecipazione. I team a elevata performance che svolgono compiti complessi sanno anche come divertirsi. Hanno un atteggiamento che dimostra quanto apprezzino ciò che

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fanno e in che misura appartengano a un gruppo composito di individui impegnati in una missione comune, che hanno dei valori e una visione. E ognuno di loro non vede l’ora di dare un contributo al gruppo. Tenete conto che esisteranno sempre sia gli amanti del divertimento che chi lo depreca. Non è che questi ultimi siano contrari al divertimento; semplicemente ritengono che non sia una componente rilevante nel lavoro.19

Vi piacerebbe lavorare per Bob Pyke? Le persone esprimono molti atteggiamenti nei confronti di ciò che succede al lavoro, ma gli esperti di comportamento organizzativo si sono concentrati solo su alcuni di essi. In questa sezione esamineremo da vicino due tipi di atteggiamenti lavorativi, l’impegno nei confronti dell’azienda (commitment) e il coinvolgimento del personale (engagement), che hanno importanti implicazioni pratiche. La soddisfazione sul lavoro, l’atteggiamento lavorativo più studiato, sarà analizzato nella sezione successiva del capitolo.

L’impegno verso l’organizzazione

Impegno verso l’organizzazione: quanto un individuo si identifica con un’organizzazione e con i suoi obiettivi

Prima di esaminare un modello dell’impegno verso l’organizzazione è importante riflettere sul significato della parola impegno. Che cosa significa impegnarsi? Secondo il senso comune, l’impegno è la disponibilità a fare qualcosa per se stessi, per un altro individuo, per un gruppo oppure un’organizzazione. Formalmente, gli studiosi di comportamento organizzativo definiscono l’impegno come “una forza che vincola un individuo a un corso di azione importante per il raggiungimento di uno o più obiettivi.”20 Questa definizione sottolinea che l’impegno è associato al comportamento e può essere mirato a molteplici obiettivi o entità. Per esempio, un individuo può assumere un impegno rispetto al lavoro, alla famiglia, al compagno o alla compagna, a un credo religioso, agli amici, alla carriera, all’organizzazione o a una molteplicità di associazioni professionali. Concentriamo l’attenzione sull’applicazione dell’impegno verso un’organizzazione lavorativa. L’impegno verso l’organizzazione (organizational commitment) riflette quanto un individuo si identifica con l’organizzazione per cui lavora e si impegna per raggiungerne gli obiettivi. È questo un atteggiamento importante, perché individui impegnati esprimono una maggiore disponibilità a lavorare intensamente per raggiungere gli obiettivi aziendali e un maggiore desiderio di restare all’interno dell’organizzazione cui appartengono. La figura 6-4 presenta un modello di impegno verso l’organizzazione che ne identifica le cause e le conseguenze. Un modello dell’impegno verso l’organizzazione La figura 6-4 illustra che l’impegno verso l’organizzazione si articola in tre componenti distinte ma legate l’una all’altra: l’impegno affettivo, l’impegno normativo e l’impegno di continuità. John Meyer e Natalie Allen, due esperti in materia, definiscono queste componenti come segue: L’impegno affettivo (affective commitment) si riferisce all’attaccamento emotivo, all’identificazione e al coinvolgimento di un collaboratore nei confronti dell’organizzazione: le persone che manifestano un forte impegno affettivo restano all’interno dell’organizzazione perché desiderano farlo. L’impegno di continuità (continuance

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commitment) è legato alla consapevolezza dei costi associati alla decisione di lasciare l’organizzazione: i collaboratori il cui legame principale con l’organizzazione si basa sull’impegno di continuità restano perché lo necessitano. Infine, l’impegno normativo (normative commitment) riflette un senso di obbligo a continuare il rapporto di lavoro: i collaboratori che manifestano un forte impegno normativo sentono di dover restare all’interno dell’organizzazione.21

La figura 6-4 mostra inoltre che le tre componenti si associano determinando un effetto vincolante che esercita un’influenza su aspetti come il turnover e comportamenti lavorativi come la performance, l’assenteismo e la cittadinanza aziendale, che esamineremo nel prosieguo del capitolo. Ciascuna componente è influenzata da un insieme diverso di antecedenti (figura 6-4), termine che in questo contesto indica qualcosa che attiva una componente dell’impegno.

Antecedenti • Cultura organizzativa • Adattamento personaambiente • Tratti individuali • Comportamento del leader

Nor (ob ma bli g

(d A

Impegno verso l’organizzazione (forza vincolante)

o ttiv io) ffe ider es

Antecedenti • Cultura organizzativa • Socializzazione • Contratto psicologico

o tiv o)

Consequenze • Turnover • Comportamento sul posto di lavoro

C o n tinu i t à (co s ti/be ne fici)

Antecedenti • Mancanza di alternative • Investimenti

Figura 6-4 Un modello dell’impegno verso l’organizzazione Fonte: Adattamento da J P Meyer e L Herscovitch, “Commitment in the Workplace: Toward a General Model,” Human Resource Management Review, autunno 2001, p 317.

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Contratto psicologico: la percezione di un individuo rispetto a termini e condizioni di uno scambio reciproco con un’altra parte

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Per esempio, l’impegno affettivo è legato alla cultura organizzativa e all’adattamento persona-ambiente (analizzati nel Capitolo 3), a una molteplicità di tratti individuali come la personalità (esaminata nel Capitolo 5) e al comportamento del leader (che vedremo nel Capitolo 16).22 Poiché l’impegno di continuità riflette un bilancio dei costi e dei benefici associati alla decisione di lasciare l’organizzazione, gli antecedenti sono tutti quegli elementi che incidono su tale decisione, per esempio la carenza di alternative di lavoro/carriera e l’entità degli investimenti reali e psicologici che l’individuo ha effettuato in una determinata organizzazione o comunità. L’impegno di continuità sarà elevato se l’individuo non dispone di alternative, è attivamente coinvolto nel suo credo religioso, ha molti amici nella comunità, detiene azioni del capitale aziendale e necessita dell’assicurazione sanitaria per la sua famiglia composta da cinque persone. Infine, l’impegno normativo è influenzato dalla cultura organizzativa e dal processo di socializzazione, illustrati nel Capitolo 3, nonché dai cosiddetti contratti psicologici. Il contratto psicologico è la percezione di un individuo rispetto ai termini e condizioni di uno scambio reciproco con un’altra parte.23 Nel contesto organizzativo, il contratto psicologico è rappresentato dal bilancio di dare e avere, in termini personali e non giuridici, tra l’individuo e l’organizzazione.

Il coinvolgimento del personale

Coinvolgimento lavorativo: quanto un individuo è assorbito dal lavoro che fa

Il coinvolgimento del personale è una strategia relativamente nuova nel campo del comportamento organizzativo. Fu definita nel 1990 da William Kahn sulla base di due studi qualitativi condotti osservando lavoratori impiegati in un campo estivo e presso uno studio di architettura. Kahn ha definito il coinvolgimento del personale (employee engagement) come “il darsi dei membri dell’organizzazione al proprio ruolo; quando sono coinvolti, gli individui si spendono ed esprimono sé stessi sul piano fisico, cognitivo ed emotivo durante l’esecuzione dei propri compiti.”24 Il nocciolo di questa definizione è l’idea che i dipendenti coinvolti “diano il massimo” durante il lavoro. Altri studi di questa variabile dell’atteggiamento hanno dimostrato che si articola in quattro componenti: (1) sentimenti di urgenza, (2) sentimenti di concentrazione, (3) sentimenti di intensità e (4) sentimenti di entusiasmo.25 Se vi è capitato di provare questo tipo di sentimenti durante il lavoro o lo studio, vi sarà facile comprendere perché studiosi, manager e consulenti puntino a sfruttare il potere del coinvolgimento del personale. Le cause del coinvolgimento del personale Il coinvolgimento è determinato da una molteplicità di variabili, che possono essere raggruppate in due categorie: fattori personali e fattori legati all’ambiente di lavoro, o di contesto. Secondo molti studi, i fattori personali che influenzano il coinvolgimento sono la positività e l’ottimismo, la personalità proattiva, la coscienziosità, l’adattamento persona-ambiente e l’essere presenti o consapevoli (mindfulness).26 Quest’ultima caratteristica rappresenta la misura in cui un individuo è concentrato su ciò che accade in un dato momento, anziché distrarsi pensando a qualcos’altro. Esiste un ampio ventaglio di fattori contestuali che possono influire sul coinvolgimento del personale. Uno di questi è chiaramente legato alla cultura organizzativa: per esempio, probabilmente i collaboratori si sentiranno più coinvolti quando l’azienda è

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dotata di una cultura di clan (illustrata nel Capitolo 3), che attribuisce valore allo sviluppo dei dipendenti, al riconoscimento e alla fiducia tra management e personale.27 Anche la sicurezza del posto di lavoro e la sensazione di libertà di manifestare idee e proposte accrescono il coinvolgimento dei dipendenti.28 Il comportamento del leader, e in particolare la leadership trasformazionale (illustrata nel Capitolo 16), è un’altra variabile contestuale essenziale.29 Infine, il coinvolgimento del personale è maggiore quando i collaboratori si sentono appoggiati dal diretto supervisore e dall’azienda nel suo insieme e hanno una visione coerente con le strategie e gli obiettivi dell’organizzazione.30

La soddisfazione lavorativa Soddisfazione lavorativa: risposta affettiva o emotiva nei confronti del proprio lavoro

La soddisfazione lavorativa riflette essenzialmente la misura in cui un individuo apprezza il proprio lavoro. Per dare una definizione formale, la soddisfazione lavorativa è la risposta emotiva o affettiva di una persona nei confronti dei vari aspetti del lavoro. Questa definizione implica che non si tratta di un concetto univoco; una persona può essere relativamente soddisfatta di un aspetto del proprio lavoro e insoddisfatta per altri aspetti. Per esempio, un sondaggio recente su un campione di 11.000 persone ha rivelato che i membri della generazione Y erano più soddisfatti dei propri manager rispetto ai membri delle generazione X e ai baby boomer, mentre la soddisfazione lavorativa complessiva era più elevata per i baby boomer che per i membri delle generazioni X e Y.31 Alcuni ricercatori della Cornell University, ad esempio, hanno elaborato il Job Descriptive Index (JDI – indice di descrizione del lavoro) per valutare il grado di soddisfazione utilizzando queste dimensioni: lavoro, retribuzione, promozioni, rapporto con i colleghi e con i capi.32 Altri ricercatori, dell’Università del Minnesota, hanno invece concluso che sono 20 le dimensioni che sottendono la soddisfazione lavorativa. Gli studiosi sono ancora discordi sul numero esatto delle dimensioni che costituiscono la soddisfazione lavorativa, ma sono state individuate cinque cause predominanti che, a nostro parere, possono aiutare i manager a potenziare questo atteggiamento essenziale verso il lavoro. Passiamo dunque a esaminare le cause della soddisfazione lavorativa.

Le cause della soddisfazione lavorativa Esistono cinque tipi di modelli principali che descrivono la soddisfazione sul lavoro, e ognuno privilegia cause diverse. Rispettivamente: il soddisfacimento dei bisogni, le discrepanze, la realizzazione dei valori, l’equità e la componente genetica/di predisposizione. Entrando brevemente nel merito di ciascuno dei modelli potremo trarre interessanti spunti di riflessione sulla molteplicità di strategie utilizzabili per accrescere la soddisfazione lavorativa dei collaboratori. Soddisfacimento dei bisogni I modelli del primo tipo ipotizzano che la soddisfazione lavorativa sia legata a quanto le caratteristiche di un lavoro permettono all’individuo il soddisfacimento dei propri bisogni. Per esempio, la Society for Human Resource Management ha condotto un sondaggio su un campione di dipendenti chiedendo loro di identificare gli aspetti del lavoro importanti per la soddisfazione lavorativa personale.

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I quattro aspetti più citati sono stati la retribuzione, i benefit, la certezza del lavoro e l’equilibrio lavoro-famiglia, tutti direttamente legati alla capacità di soddisfare una molteplicità di bisogni di base.33 Si può ipotizzare che durante le fasi recessive la certezza del lavoro assuma un’importanza ancora maggiore. Nonostante i modelli di questo tipo abbiano suscitato controversie, la correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni e la soddisfazione lavorativa è ormai generalmente accettata.34

Aspettative realizzate: la misura in cui una persona riceve dal proprio lavoro ciò che si aspettava

Realizzazione dei valori: la misura in cui il lavoro permette la realizzazione dei valori di una persona

Discrepanze Questi modelli ipotizzano che la soddisfazione sia una conseguenza delle aspettative realizzate, ossia della differenza tra ciò che una persona si aspettava di ottenere con un lavoro, ad esempio una buona retribuzione e interessanti opportunità di promozione, e ciò che effettivamente riceve. Se le aspettative sono molto superiori a quanto ricevuto, la persona sarà insoddisfatta, mentre sarà soddisfatta se ottiene risultati uguali o superiori rispetto alle proprie aspettative. Realizzazione dei valori Secondo l’ipotesi della realizzazione dei valori, la soddisfazione è legata alla percezione che nel lavoro sia possibile perseguire importanti valori personali. In generale, la ricerca prova l’esistenza di una correlazione positiva tra la soddisfazione lavorativa e la realizzazione dei valori. È questa una importante indicazione per i manager, che possono quindi migliorare la soddisfazione dei propri collaboratori progettando un ambiente di lavoro coerente con i valori professati. Equità In questi modelli, la soddisfazione è funzione dell’equità percepita. La soddisfazione è il risultato della percezione che l’individuo ha del fatto che i risultati del suo lavoro, in relazione agli input ricevuti, siano equamente giudicati in relazione a quelli dei colleghi. Una meta-analisi che ha coinvolto 64.757 persone prova la validità di questo collegamento. È infatti emersa una correlazione positiva molto forte tra la percezione che il lavoratore ha di essere trattato in modo equo al lavoro e la sua soddisfazione generale.35 I manager sono quindi incoraggiati a controllare le proprie azioni in riferimento a quanto percepito dai collaboratori, e a interagire con loro per migliorare l’equità del proprio comportamento. Nel Capitolo 8 vedremo come conseguire questi risultati. Predisposizione personale Al di là delle situazioni oggettive, è possibile notare che alcune persone appaiono sempre soddisfatte, mentre altre sembrano sempre insoddisfatte. Il quinto dei modelli proposti cerca di spiegare questo fenomeno. Nello specifico, il modello di predisposizione si basa sulla convinzione che la soddisfazione sul lavoro sia in parte funzione di tratti personali. Di conseguenza, si ipotizza che differenze individuali stabili possano rivestire una importanza analoga alle caratteristiche dell’ambiente di lavoro nella spiegazione della soddisfazione individuale.

Implicazioni e conseguenze della soddisfazione lavorativa L’ambito di studi relativo alla soddisfazione e alle sue connessioni con altre variabili organizzative ha importanti implicazioni a livello manageriale. È impossibile pensare di rendere conto di tutti i risultati; prenderemo perciò in considerazione solo alcune delle variabili esaminate, selezionandole in relazione alla loro rilevanza a livello manageriale.

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La tabella 6-2 riassume i risultati relativi alla correlazione tra la soddisfazione lavorativa e le altre variabili considerate; può esservi una correlazione positiva o negativa e, in entrambi i casi, debole o forte. I casi di correlazione forte suggeriscono al manager spunti di progettazione organizzativa e di comportamenti per migliorare la soddisfazione lavorativa. Prendiamo ora in esame sette variabili particolarmente rilevanti. Motivazione Dalla meta-analisi di 9 studi su 1739 lavoratori è emersa un’importante correlazione positiva tra la motivazione e la soddisfazione lavorativa. Dal momento che il grado di soddisfazione nei confronti dei capi è direttamente proporzionale alla motivazione, i manager dovrebbero prendere in seria considerazione i propri comportamenti per capire quanto essi influenzino la soddisfazione dei collaboratori.36 Possono inoltre accrescere la motivazione dei dipendenti mediante varie strategie mirate a incrementare la soddisfazione lavorativa. Coinvolgimento lavorativo Il coinvolgimento lavorativo, una componente del coinvolgimento del personale, rappresenta il grado di coinvolgimento personale nel lavoro. Una meta-analisi che ha coinvolto 27.925 persone ha dimostrato che il coinvolgimento lavorativo è moderatamente correlato alla soddisfazione del lavoro.37 I manager dovrebbero spendersi per creare un ambiente di lavoro soddisfacente in modo da stimolare il coinvolgimento lavorativo dei collaboratori. Comportamenti di cittadinanza aziendale: comportamenti dei dipendenti che eccedono quanto formalmente richiesto dal proprio ruolo

Comportamento di cittadinanza aziendale I comportamenti di cittadinanza aziendale sono comportamenti messi in atto dai collaboratori che vanno al di là dei loro precisi doveri all’interno dell’azienda. Ad esempio “gesti come pronunciare affermazioni costruttive sul proprio reparto, esprimere interesse personale verso il lavoro degli altri, dare consigli mirati al miglioramento, guidare il personale neoassunto, dimostrare rispetto per lo spirito e le regole di pulizia dei locali, per le proprietà dell’azienda, essere puntuali e presenti oltre quanto richiesto”.38 Qualsiasi manager apprezzerebbe un dipendente che dimostra questo tipo di comportamenti. Da una meta-analisi di 21 studi

Tabella 6-2 Fattori correlati alla soddisfazione lavorativa Variabili collegate alla soddisfazione

Direzione della relazione

Forza della relazione

Motivazione Comportamento di cittadinanza aziendale Coinvolgimento lavorativo Impegno verso l’organizzazione Pensieri di abbandono Turnover Problemi cardiocircolatori Stress percepito Adesione ai sindacati Performance lavorativa Soddisfazione generale Salute mentale Soddisfazione del cliente

Positiva Positiva Positiva Positiva Negativa Negativa Negativa Negativa Negativa Positiva Positiva Positiva Positiva

Moderata Moderata Moderata Moderata Forte Moderata Moderata Forte Moderata Moderata Moderata Moderata Moderata

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diversi è emersa l’esistenza di una correlazione moderatamente positiva e significativa tra i comportamenti di cittadinanza aziendale e la soddisfazione lavorativa.39 Inoltre, due studi meta-analitici più ampi e recenti hanno rivelato che esiste una significativa correlazione tra i comportamenti di cittadinanza aziendale e una serie di conseguenze a livello individuale (risultati nelle valutazioni della prestazione, intenzioni di lasciare l’azienda, assenteismo e turnover) e risultati a livello organizzativo (produttività, efficienza, costi più bassi, soddisfazione del cliente, soddisfazione a livello di funzione aziendale e turnover).40 Questi dati sono importanti per due ordini di motivi. In primo luogo, i comportamenti di cittadinanza aziendale possono determinare impressioni positive sui colleghi e i capi e questo a sua volta può incidere sulla capacità di collaborare con gli altri, sulla valutazione della performance operata dai manager e sulla possibilità di ottenere promozioni. In secondo luogo, nel loro insieme i comportamenti di cittadinanza aziendale possono determinare importanti conseguenze a livello organizzativo. I manager dovrebbero essere incoraggiati a perseguire decisioni le più eque possibile nei riguardi dei collaboratori per stimolare i comportamenti di cittadinanza aziendale. L’argomento sarà approfondito nel Capitolo 8.

Pensieri di abbandono: pensieri e sentimenti sull’abbandonare il proprio posto di lavoro

Pensieri di abbandono del lavoro Alcune persone lasciano il lavoro impulsivamente o in un impeto di rabbia, ma la maggior parte lo fa dopo aver riflettuto e ponderato la scelta. I pensieri di abbandono, ossia i pensieri che portano alla decisione di lasciare il lavoro, riassumono elementi razionali e sentimenti. È quindi molto importante per un manager agire sulla soddisfazione lavorativa anche per tenere sotto controllo il turnover. Turnover Prima di discutere la relazione tra soddisfazione lavorativa e turnover, soffermiamoci a esaminare i pro e i contro del turnover. Il turnover può determinare risvolti positivi quando un dipendente che evidenzia performance mediocri lascia l’azienda o viene licenziato, consentendo ai manager di sostituirlo con un collaboratore migliore o di riallineare la spesa. Al contrario, la perdita di una persona di talento è negativa perché l’organizzazione perde un contributo prezioso.41 Molti sono i provvedimenti che un manager può adottare per ridurre il tasso di turnover, ma la gran parte mira all’aumento della soddisfazione lavorativa. Una meta-analisi di 67 studi condotti su un campione totale di 24.556 persone lo dimostra. La correlazione tra soddisfazione lavorativa e turnover dei dipendenti è negativa e moderatamente forte,42 quindi i manager dovrebbero tentare di ridurre il turnover incrementando la soddisfazione. Stress percepito Lo stress può avere effetti estremamente negativi sul comportamento organizzativo e sulla salute dell’individuo. Esiste una correlazione positiva tra stress e assenteismo, turnover, malattie cardiocircolatorie e infezioni virali. La tabella 6-2, basandosi su una meta-analisi di sette studi su un campione di 2659 persone, rivela che lo stress percepito ha una forte correlazione negativa con la soddisfazione lavorativa.43 È stato inoltre rilevato che lo stress percepito è negativamente associato al coinvolgimento del personale. Consigliamo ai manager di tentare di ridurre gli effetti negativi dello stress migliorando la soddisfazione e incoraggiando i collaboratori a distaccarsi completamente dal lavoro durante il tempo libero.44

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Performance lavorativa Uno dei temi più dibattuti nelle ricerche di comportamento organizzativo è la relazione tra soddisfazione e performance lavorativa, in quanto è difficile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto: è la soddisfazione a migliorare la performance o, viceversa, quando si ottiene un buon risultato si è più soddisfatti?45 Un gruppo di ricercatori ha tentato di porre fine alla controversia confrontando i dati relativi a 312 campioni su un totale di 54.417 individui.46 Due sono stati gli esiti più importanti di questo studio. Innanzitutto, è emersa una moderata correlazione positiva tra soddisfazione lavorativa e performance; si tratta di un risultato importante perché sostiene l’ipotesi che la soddisfazione del lavoratore sia un atteggiamento di fondamentale importanza, degno perciò di attenzione per i manager che tentano di migliorare il rendimento dei propri collaboratori. Secondo risultato: la correlazione tra soddisfazione lavorativa e performance è molto più complessa di quanto si potesse pensare. La questione non si riduce quindi a una semplice relazione diretta in cui la soddisfazione causa la performance o viceversa: i ricercatori sono invece convinti che entrambe le variabili si influenzino a vicenda e siano a loro volta influenzate da numerose differenze individuali e dalle caratteristiche ambientali del posto di lavoro.

I comportamenti controproducenti in ambito lavorativo

Comportamenti controproducenti in ambito lavorativo: comportamenti che hanno un impatto negativo sui lavoratori e l’organizzazione nel suo insieme

Nella nostra analisi della soddisfazione lavorativa, abbiamo notato che l’insoddisfazione può essere associata ad alcune tipologie di comportamento indesiderabile, come un basso coinvolgimento del personale e un turnover più elevato. Comportamenti di questo genere, assieme ad altri più sgradevoli, appartengono a una categoria denominata comportamenti controproducenti in ambito lavorativo (counterproductive work behavior, CWB), che hanno un impatto negativo su tutti gli attori aziendali. I comportamenti controproducenti comprendono il furto, i pettegolezzi, le “pugnalate alle spalle” ai colleghi, l’abuso di alcolici e l’uso di stupefacenti, la devastazione di proprietà aziendali, la violenza, lo svolgimento intenzionale di lavori errati o di cattiva qualità, l’uso personale della rete aziendale, la socializzazione eccessiva, l’abitudine ad arrivare in ritardo, il sabotaggio e le molestie sessuali.47

Maltrattamenti Gran parte delle forme di comportamento controproducente si concretizza in maltrattamenti di colleghi e subordinati o talvolta dei clienti; per esempio, i collaboratori possono compiere molestie, atti di bullismo o azioni palesemente inique. Purtroppo, un recente sondaggio Zogby ha indicato che oltre il 50% degli adulti statunitensi ha subito o è stato testimone di episodi di bullismo nell’ambiente di lavoro. Un altro sondaggio condotto su 12.000 persone provenienti da 24 paesi ha indicato che circa il 10% degli intervistati ha subito molestie sessuali o fisiche sul posto di lavoro.48 Gli abusi commessi dai supervisori sono particolarmente insidiosi perché, secondo quanto riferito dagli stessi collaboratori, sentendosi intimiditi, umiliati o sminuiti dai supervisori, essi sono più propensi a vendicarsi adottando un comportamento controproducente ai danni del supervisore e dei colleghi.49 Questo tipo di reazione è più probabile quando

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l’organizzazione non offre canali attraverso i quali i dipendenti possono segnalare il problema e cercare di risolverlo.

Le cause e la prevenzione dei comportamenti controproducenti Occorre conoscere le cause dei comportamenti controproducenti per prevenirli. Secondo uno studio che ha seguito per 23 anni i comportamenti sul lavoro di oltre 900 giovani adulti, la diagnosi di disturbi della condotta durante l’adolescenza era associata a comportamenti controproducenti in ambito lavorativo, mentre le condanne penali precedenti l’ingresso nella forza lavoro non lo erano.50 Anche i tratti della personalità e le condizioni di lavoro possono favorire l’insorgere di questi comportamenti.51 Questi risultati suggeriscono le seguenti implicazioni per i manager: • Le organizzazioni possono contenere i comportamenti controproducenti assumendo individui che mostrano una minore tendenza a manifestare questo tipo di comportamenti. • Le organizzazioni dovrebbero motivare i comportamenti desiderati, per esempio, progettando mansioni che favoriscono la soddisfazione e prevenendo gli abusi da parte dei supervisori. Uno studio condotto su 265 ristoranti ha riscontrato che i comportamenti negativi erano maggiori nei ristoranti dove i dipendenti avevano segnalato abusi da parte dei supervisori e i manager dovevano monitorare un numero maggiore di dipendenti.52 Di conseguenza, procedure di assunzione adeguate e programmi di sviluppo dei manager possono non solo rendere più piacevoli le vite dei dipendenti, ma anche migliorare le performance finanziarie. • Se un collaboratore assume comportamenti inaccettabili, l’organizzazione dovrebbe approntare una reazione tempestiva e adeguata, definendo quali comportamenti specifici sono inaccettabili e i requisiti dei comportamenti accettabili. Il Capitolo 9 presenta linee guida per fornire feedback efficaci.

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Percezioni e attribuzioni sociali

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Mostrarsi vulnerabili è un bene o un male? Un recente articolo pubblicato sulla rivista Bloomberg Businessweek ha passato in rassegna gli aspetti positivi del mostrarsi vulnerabili (cioè manifestare le proprie debolezze e i propri limiti) quando si pubblicizzano prodotti e servizi o quando si punta a creare team più efficaci. Secondo l’autore Patrick Lencioni, le organizzazioni e gli individui creano percezioni positive quando ammettono le proprie debolezze, nella misura in cui lo fanno con sincerità. “La vulnerabilità è spesso considerata debolezza, mentre in realtà è indice di forza. Le persone autenticamente aperte e trasparenti dimostrano di avere la fiducia e l’autostima necessarie per mostrarsi agli altri così come sono, con tutti i loro difetti. E hanno un non so che di incredibilmente affascinante”, afferma Lencioni. Lencioni ritiene inoltre che mostrare le proprie vulnerabilità ai colleghi può favorire il lavoro di squadra: “Quando i membri di un team si sentono liberi di ammettere i propri errori, chiedere aiuto e riconoscere

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le proprie debolezze, attenuano le dinamiche di contrasto e instaurano un legame di fiducia più prezioso di qualsiasi altro vantaggio strategico.” A supporto della sua opinione, Lencioni cita i casi di Domino’s Pizza e della squadra di football dei Chicago Bears. La pubblicità di Domino’s Pizza “si apre con dei clienti che descrivono la pizza Domino’s usando parole come ketchup e cartone. Poi il presidente dell’azienda Patrick Doyle spiega con un tono molto pragmatico che è importante prendere atto delle opinioni dei clienti e illustra le novità introdotte per migliorare il prodotto: una salsa più aromatica, con il 40% di erbe in più, un formaggio di migliore qualità e una crosta più croccante.” Analogamente, i Chicago Bears “hanno concluso una stagione fallimentare con una pubblicità a pagina intera nella quale ammettevano di aver fatto un tentativo mediocre di giocare a football da professionisti e ringraziavano i fan per il loro sostegno nonostante le pessime prestazioni”.1

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Il caso di apertura sottolinea un aspetto importante del processo di percezione: le persone non riportano le stesse impressioni dei messaggi pubblicitari, degli eventi, degli individui e di tutto ciò che rientra nella vita quotidiana. Il CEO di Domino’s Pizza evidentemente ritiene che descrivere il suo prodotto come “cartone” determinerà impressioni positive e incrementerà le vendite, mentre altri potrebbero non essere attirati da una descrizione del genere. Percezioni e impressioni sono influenzate dalle informazioni che riceviamo da quotidiani, riviste, televisione, radio, familiari e amici. Inoltre, utilizziamo tutte le informazioni immagazzinate nella nostra memoria per interpretare il mondo circostante; e queste interpretazioni, a loro volta, esercitano un’influenza sulle reazioni e le interazioni con gli altri. Gli esseri umani si sforzano continuamente di dare un senso a ciò da cui sono circondati, l’accumulo di conoscenza che ne deriva influenza il comportamento e aiuta ad affrontare i diversi problemi che si incontrano nella vita. Proviamo a pensare al processo di percezione che entra in gioco quando incontriamo una persona per la prima volta. La nostra attenzione è attratta dal suo aspetto fisico, dai modi, dai comportamenti e dalle reazioni a ciò che diciamo e facciamo. L’idea che ci costruiamo, in definitiva, si basa sulle nostre percezioni nei confronti dell’interazione sociale in corso. Questa persona, ad esempio, ha i capelli castani e gli occhi verdi, si rivela amichevole ed è appassionata di sport all’aria aperta. La conclusione può essere che la persona ci piace, quindi la invitiamo a un concerto, chiamandola con il nome che abbiamo immagazzinato nella nostra memoria. Questo processo reciproco di percezione, interpretazione e risposta comportamentale entra in gioco anche nell’ambiente lavorativo. Bernie Madoff, per esempio, ha fatto leva sul processo di percezione per orchestrare una truffa ai danni di ignari investitori, basata sul vecchio principio della “catena di Sant’Antonio”, per 50 miliardi di dollari. Madoff, descritto come “intraprendente, ricco e affascinante”, ha sfruttato il successo riscosso dalla sua società negli anni ’80 e ’90 per crearsi l’immagine di investitore capace: i suoi uffici “trasudavano successo” e le contrattazioni sembravano “molto redditizie e del tutto legittime”. Inoltre Madoff era impegnato nel sociale e rivestiva un ruolo attivo in organizzazioni di beneficenza. Nell’insieme questa immagine di sé lo ha aiutato ad attirare ricchi investitori e professionisti della finanza, sostenendo la percezione che stesse guidando una delle società di investimento più esclusive e di maggior successo al mondo. Purtroppo, si trattava di una recita, che ha convinto il pubblico per molto tempo a causa dell’immagine percepita.2 Il processo di percezione influenza molto di più delle impressioni che le persone colgono reciprocamente nelle loro interazioni. Per esempio, le aziende sfruttano le dinamiche percettive sia nella progettazione che nel marketing dei prodotti, mentre i candidati politici le usano per vincere le elezioni. L’Agenzia governativa statunitense per la sicurezza dei trasporti ha usato la ricerca sulla percezione per mettere a punto programmi di formazione per gli addetti alla sicurezza aeroportuale mirati a migliorarne le capacità di riconoscere oggetti potenzialmente pericolosi;3 in questo contesto, distorsioni ed errori nel processo di percezione possono determinare conseguenze catastrofiche! Con questi esempi, vogliamo sottolineare che il processo di percezione influenza una molteplicità di attività manageriali, processi organizzativi e aspetti legati alla qualità della vita.

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Iniziamo quindi il nostro viaggio all’interno dei processi di percezione e delle conseguenze che ne derivano analizzando: (1) la percezione, vista come un modello di elaborazione delle informazioni; (2) gli stereotipi; (3) la profezia che si autoavvera; (4) in che modo le attribuzioni causali sono utilizzate per interpretare il comportamento.

La percezione come modello di elaborazione delle informazioni Percezione: processo di interpretazione del proprio ambiente

La percezione è un processo cognitivo che ci permette di interpretare e capire ciò che ci circonda. Una delle funzioni principali di questo processo è il riconoscimento degli oggetti. Tanto gli uomini quanto gli altri animali, ad esempio, riconoscono gli oggetti familiari nei loro ambienti. Ciascuno di noi saprebbe riconoscere una foto del suo migliore amico, così come i cani e i gatti sanno riconoscere la loro ciotola o il giocattolo preferito. Anche il processo di lettura implica la capacità di distinguere degli schemi visuali che rappresentano le lettere dell’alfabeto e di riconnetterli in un significato. Affinché ci sia un’interazione significativa tra uomo e ambiente, è necessario saper riconoscere gli oggetti. L’obiettivo principale del comportamento organizzativo è però quello di studiare le persone e le loro interazioni; perciò ci concentreremo sulla percezione sociale, tralasciando la percezione degli oggetti. Lo studio del modo in cui le persone si percepiscono l’un l’altra è stato definito cognizione sociale e elaborazione sociale delle informazioni. La cognizione sociale, a differenza della percezione degli oggetti, si occupa delle modalità tramite le quali le persone danno un senso a se stesse e alle altre persone. Si concentra dunque su come normalmente pensiamo agli altri esseri umani, e su come pensiamo di pensare agli altri esseri umani. La ricerca sulla cognizione sociale cerca di andare oltre la psicologia ingenua; questo tipo di studi implica infatti un’analisi molto dettagliata di ciò che l’individuo pensa di se stesso e degli altri, analisi che si collega a teorie e metodi della psicologia cognitiva.4

Passiamo ora ad analizzare i processi fondamentali che stanno alla base della percezione.

Una sequenza a quattro fasi e un esempio operativo La percezione implica una sequenza di elaborazione dell’informazione a quattro fasi. La figura 7-1 mostra un modello base della percezione come elaborazione dell’informazione. Tre delle quattro fasi del modello – selezione attiva/comprensione, codificazione e semplificazione, immagazzinamento e conservazione – descrivono in che modo l’informazione specifica e gli stimoli ambientali vengono notati e registrati in memoria. L’ultima fase, recupero e reazione, implica la trasformazione delle rappresentazioni mentali in giudizi e decisioni reali. Leggendo i paragrafi che seguono, nei quali ci occuperemo delle quattro fasi della percezione, è opportuno tenere sempre sullo sfondo qualche esempio di vita quotidiana. Si può immaginare, ad esempio, di stare per fare l’iscrizione al corso di finanza; ci sono

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Fase 1 Selezione attiva/ comprensione

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Fase 2 Codificazione e semplificazione

Fase 4 Recupero e reazione

Fase 3 Immagazzinamento e conservazione

A Stimoli ambientali in competizione • Persone • Eventi • Oggetti

B C D E

Interpretazione e categorizzazione

A C F

Memoria

C

Giudizi e decisioni

F

Figura 7-1 Percezione: un modello di elaborazione delle informazioni

tre professori che tengono lo stesso corso, ma ognuno utilizza metodi di insegnamento e di verifica diversi. L’esperienza ha insegnato a preferire i buoni insegnanti che utilizzano il metodo dei casi e che chiedono una tesina per l’esame finale. In base al modello di elaborazione delle informazioni, probabilmente decidereste quale corso scegliere nel seguente modo.

Fase 1: selezione attiva/comprensione

Attenzione: essere coscienti di qualcosa o qualcuno

Nell’ambiente in cui vivono, le persone sono costantemente bombardate da stimoli fisici e sociali. Non disponendo della capacità intellettiva necessaria a comprendere tutte le informazioni in arrivo, percepiscono in modo selettivo dei sottoinsiemi di stimoli ambientali; ed è qui che entra in gioco la selezione attiva. L’attenzione è il processo per cui si diventa consapevoli di qualcuno o qualcosa. Essa può essere concentrata sia su informazioni provenienti dall’ambiente, sia su informazioni reperibili nella propria memoria. A proposito di quest’ultimo caso, se vi ritrovate a pensare a cose o fatti che non c’entrano niente mentre state leggendo questo libro, l’oggetto della vostra attenzione è situato nella memoria. La ricerca dimostra che le persone tendenzialmente riservano la propria attenzione agli stimoli rilevanti. Stimoli rilevanti Una cosa è rilevante quando emerge dal contesto. Un uomo di 150 chili che partecipa a una lezione di aerobica, ad esempio, è sicuramente rilevante, mentre non lo sarebbe a un incontro della National Football League Players’ Association. Spesso sono i bisogni e gli obiettivi della persona a rendere uno stimolo rilevante o meno. Per un autista con il veicolo in riserva, le insegne della Exxon o della Mobil saranno più rilevanti di quelle di McDonald’s o Burger King; se la stessa persona avesse una gran fame e il serbatoio pieno, sarebbe vero il contrario. Inoltre, la ricerca dimostra che le persone hanno la tendenza a prestare più attenzione alle informazioni negative che a quelle positive, atteggiamento che dà origine al cosiddetto bias negativo,5 e che permette di spiegare perché gli automobilisti rallentano per curiosare sul luogo di un incidente.

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Ritorniamo al nostro esempio Iniziate a cercare il professore “giusto” di finanza chiedendo informazioni ad amici che hanno frequentato i corsi di tutti e tre i docenti. O magari andate a parlare con i singoli professori per raccogliere informazioni ancora più rilevanti. Ritornando alla figura 7-1, tutte le informazioni che ottenete rappresentano gli stimoli ambientali in concorrenza tra loro rappresentati dalla linee A-F. Dal momento che vi interessano il metodo di insegnamento (ad esempio, la riga A nella figura), le modalità di valutazione (riga C) e le votazioni date in passato (riga F), le informazioni relative a queste aree risultano per voi particolarmente rilevanti. La figura 7-1 mostra che solo queste tre informazioni rilevanti vengono percepite, e si passa quindi alla seconda fase dell’elaborazione dell’informazione. Nel frattempo, gli stimoli concorrenti, rappresentati dalle righe B, D ed E, non attirano la vostra attenzione e non verranno più presi in considerazione.

Fase 2: codificazione e semplificazione

Categorie cognitive: archivi mentali per l’immagazzinamento delle informazioni

Schemi: immagini mentali di un evento o di un oggetto

Le informazioni raccolte non vengono immagazzinate in memoria nella loro forma originaria. C’è bisogno di una codifica; le informazioni grezze vengono interpretate o tradotte in rappresentazioni mentali. Per farlo, la persona che percepisce colloca ciascuna informazione all’interno di categorie cognitive. “Intendiamo con categoria un numero di oggetti considerati equivalenti. Le categorie sono di solito descritte da un nome, ad esempio cane oppure animale”.6 Le persone, gli eventi e gli oggetti sono interpretati e valutati tramite un confronto delle loro caratteristiche con le informazioni contenute all’interno di schemi. Schemi Uno schema rappresenta l’immagine o riassunto mentale che una persona si costruisce di un determinato evento o tipo di stimolo. Lo schema di un evento, per esempio andare a cena al ristorante, è detto script (copione). Lo schema nella vostra memoria di una cena al ristorante è probabilmente molto simile a quello riportato nella tabella 7-1. Per rendere gli schemi significativi sono necessarie delle etichette relative alle categorie cognitive. Nella vostra memoria sono immagazzinati schemi come “andare a cena al ristorante” o “automobili sportive” e ciascuno contiene delle informazioni. Per esempio, il vostro schema mentale “automobili sportive” contiene un veicolo di piccole dimensioni a due porte, magari di colore rosso? Se sì, tenderete a classificare tutti i veicoli piccoli, di colore rosso, a due porte come automobili sportive perché sono coerenti con il vostro schema mentale delle “automobili sportive”. Codifica dei risultati Il processo di codifica ci serve per interpretare e valutare l’ambiente in cui viviamo. Si tratta di un processo che può dar luogo a interpretazioni e valutazioni diverse della stessa persona o dello stesso evento. Le interpretazioni di ciò che vediamo sono diverse per quattro ragioni fondamentali. In primo luogo, ogni persona dispone, all’interno degli schemi usati per l’interpretazione, di informazioni diverse. Ad esempio, da una meta-analisi di 62 studi è emerso che le donne e gli uomini hanno opinioni diverse su quali comportamenti possano essere considerati molestie sessuali; il campione femminile ha definito molestie una

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142 Tabella 7-1 Schema di una cena al ristorante Fonte: da D Rumelhart, Introduction to Human Information Processing (New York: John Wiley & Sons, Inc., 1977. Ristampa autorizzata da John Wiley & Sons, Inc.).

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Schema: Ristorante Protagonisti: Clienti, direttrice di sala, cameriere, cuoco, cassiere Scena 1: Ingresso Il cliente entra nel ristorante Il cliente trova un posto a sedere Lo trova da solo È la direttrice di sala ad accompagnarlo al tavolo Chiede alla direttrice di sala un tavolo Lei gli indica il tavolo a cui può accomodarsi Scena 2: Ordinazioni Il cliente riceve un menu Lo legge Decide che cosa ordinare Il cameriere prende gli ordini Il cameriere vede il cliente Si avvicina al cliente Il cliente ordina Il cuoco cucina il pasto Scena 3: Consumazione Dopo un po’ il cameriere porta il cibo dal cuoco al cliente Il cliente mangia Scena 4: Uscita Il cliente chiede il conto al cameriere Il cameriere dà il conto al cliente Il cliente lascia una mancia L’entità della mancia dipende dalla qualità del servizio Il cliente paga il conto al cassiere Il cliente esce dal ristorante

gamma più vasta di comportamenti.7 In secondo luogo, i nostri stati d’animo e le emozioni possono influenzare la nostra attenzione e le valutazioni degli altri. Terza ragione, le persone tendono a usare per la codifica le categorie cognitive di uso più recente. Sarà più facile che il comportamento neutro di un docente venga valutato positivamente se ultimamente il pensiero è andato a categorie ed eventi positivi. E infine, quarto punto, anche le differenze individuali influiscono sulla codifica. Gli individui depressi o pessimisti, quindi, tenderanno a interpretare ciò che li circonda in modo più negativo rispetto alle persone ottimiste e allegre. Sostanzialmente, non dovrebbe sorprenderci che le persone valutino la stessa situazione in modo diverso. I ricercatori stanno cercando di identificare la miriade di fattori che possono influire sul processo di codifica. Ritorniamo al nostro esempio Dopo aver raccolto le informazioni relative ai tre docenti di finanza e ai loro metodi, passate a confrontarle con altri dettagli contenuti negli schemi. E questo vi porta a delineare una sensazione o una valutazione di come sarebbe

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frequentare un corso con ciascuno di loro. Subito dopo, le informazioni contenute nei percorsi A, C ed F della figura 7-1 vengono passate alla terza fase dell’elaborazione delle informazioni.

Fase 3: immagazzinamento e conservazione In questa fase avviene l’immagazzinamento delle informazioni nella memoria a lungo termine. Possiamo immaginare la memoria a lungo termine come un complesso di appartamenti costituito da unità separate ma collegate l’una all’altra; in ogni appartamento vivono persone diverse, che qualche volta interagiscono; il complesso, inoltre, ha varie dependance o sottoinsiemi (ad esempio le scale A, B, C). Analogamente, la memoria a lungo termine è composta da categorie separate ma interconnesse tra di loro; come i singoli appartamenti sono abitati da individui, le categorie contengono diversi tipi di informazioni; le informazioni si muovono tra queste categorie; infine, la memoria a lungo termine è composta da tre comparti che contengono le categorie di informazioni relative a eventi, materiale semantico e persone.8 Memoria degli eventi Questo compartimento è composto da categorie contenenti informazioni su eventi sia generici sia specifici. Si tratta di ricordi che descrivono sequenze appropriate di eventi in situazioni note, come ad esempio andare al ristorante (tabella 7-1), a un colloquio di lavoro, al negozio di alimentari o al cinema. Memoria semantica La memoria semantica fa riferimento a conoscenze generiche sul mondo; funziona quindi come un dizionario mentale dei concetti. Ogni concetto contiene una definizione (ad esempio, un buon leader) e le relative caratteristiche personali (estroverso), emotive (felice), fisiche (alto) e comportamentali (lavora sodo). Così come esistono degli schemi per gli eventi generici, allo stesso modo i concetti vengono immagazzinati nella memoria semantica sotto forma di schemi. Partendo da quanto abbiamo affermato sulla gestione della diversità nel Capitolo 2 e sul management interculturale nel Capitolo 4, non dovrebbe sorprendere l’esistenza di differenze culturali nel tipo di informazioni immagazzinate nella memoria semantica. Memoria personale Le categorie incluse in questo settore contengono informazioni sui singoli individui (ad esempio, il vostro professore di comportamento organizzativo) o su gruppi di persone (i professori). Le persone tendono a ricordare le informazioni riguardanti un individuo, un evento o un messaggio pubblicitario con caratteristiche simili a qualcosa che è già immagazzinato in memoria. Per esempio, aziende come Nutrisystem e Unilever fanno sempre più ricorso a persone “normali” anziché a personaggi famosi nelle loro pubblicità perché i consumatori non si identificano con le celebrità. Torniamo al nostro esempio Si avvicina il momento di scegliere un professore di finanza: gli schemi che riguardano ciascun docente sono ormai immagazzinati nelle tre categorie della memoria a lungo termine. Ognuno di questi schemi rimane a disposizione per un confronto o un recupero immediato.

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Fase 4: Recupero e reazione L’individuo recupera le informazioni dalla memoria quando giudica e decide. Infatti le decisioni e i giudizi si basano su deduzioni, interpretazioni e integrazioni delle informazioni conservate nella memoria a lungo termine, o sul recupero di giudizi di massima già fatti. Per concludere il nostro esempio, arriviamo al giorno dell’iscrizione: ora dovete scegliere definitivamente il vostro futuro docente di finanza. Dopo avere recuperato dalla memoria le impressioni basate sugli schemi che riguardano ciascun docente, ne scegliete uno in gamba, che utilizza il metodo dei casi e chiede un elaborato finale (riga C nella figura 7-1). Al contrario, potreste però anche scegliere l’insegnante semplicemente basandovi sulla decisione presa due settimane fa, prima di dare avvio al processo razionale di decisione.

Implicazioni manageriali La cognizione sociale rappresenta la finestra attraverso cui tutti noi osserviamo, interpretiamo e prepariamo le nostre reazioni a cose e persone. Un gran numero di attività manageriali, processi organizzativi e questioni concernenti la qualità della vita sono perciò influenzate dalla percezione. Analizziamo, ad esempio, le seguenti sette implicazioni.

Cognizione implicita: insieme di pensieri e credenze automaticamente e inconsapevolmente attivato dalla memoria

Assunzione Gli intervistatori scelgono chi assumere in base alle loro impressioni sulla corrispondenza tra il candidato e i requisiti percepiti necessari per un determinato posto di lavoro.9 Purtroppo però molte di queste decisioni vengono prese sulla base della cognizione implicita. Per cognizione implicita si intende l’insieme di pensieri e credenze automaticamente e inconsapevolmente attivato dalla memoria. La cognizione implicita induce le persone a prendere delle decisioni influenzate da particolari distorsioni (bias) senza rendersene conto.10 Questa tendenza è stata considerata una possibile spiegazione di presunti comportamenti discriminatori presso aziende come Walmart, FedEx, Johnson & Johnson e Cargill. Gli esperti consigliano due soluzioni per attenuare gli effetti della cognizione implicita.11 Anzitutto, si possono formare i manager per aiutarli a riconoscere e ridurre questo tipo di bias. Secondo i risultati di uno studio, la formazione ha migliorato l’abilità degli intervistatori nell’ottenere informazioni di alta qualità e connesse al lavoro, aiutandoli a rimanere concentrati sul colloquio. In questo studio, chi aveva ricevuto una formazione specifica emetteva giudizi più equi sui candidati rispetto ai colleghi non formati.12 In secondo luogo, il bias può essere ridotto effettuando colloqui strutturati, anziché non strutturati, e tenendo conto delle valutazioni di più intervistatori anziché di uno o due. Valutazione della performance Schemi impropri su cosa sia una performance buona o cattiva possono portare a valutare in modo errato la prestazione stessa, intaccando la motivazione, l’impegno e la fedeltà del lavoratore. Uno studio condotto su 166 addetti alla produzione, ad esempio, ha dimostrato come questi lavoratori avessero maggiore fiducia nei loro manager quando percepivano che il processo di valutazione della performance forniva valutazioni accurate.13 È quindi importante che i manager identifichino in modo

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il più possibile preciso le caratteristiche di comportamento e i risultati indicativi di una buona performance, prima di iniziare un ciclo di valutazione delle prestazioni. Queste caratteristiche possono servire come standard per la valutazione della performance dei dipendenti. Da una meta-analisi di 50 ricerche che hanno coinvolto 8341 individui, è emersa l’importanza di utilizzare misure oggettive e non soggettive nella valutazione della performance dei lavoratori. L’analisi rivela infatti che esiste solo una correlazione moderata tra misure oggettive e soggettive. Gli studiosi che se ne sono occupati hanno concluso che tali misure non sono intercambiabili.14 Si consiglia perciò ai manager di utilizzare misure oggettive per la valutazione della prestazione per quanto possibile, perché gli indicatori soggettivi possono essere influenzati da bias e quindi non accurati e pregiudiziali. Nei casi in cui non esistano misure oggettive adeguate alla valutazione della performance, però, i manager si troveranno costretti a utilizzare quelle soggettive. Inoltre, siccome la memoria relativa a particolari specifici della prestazione del collaboratore svanisce nel tempo, è necessario che il manager disponga di un metodo accurato per riportarli alla memoria. Le ricerche rivelano che è possibile insegnare a valutare in modo più accurato la performance.15 Leadership La ricerca dimostra che le valutazioni dei dipendenti sull’efficacia del leader vengono fortemente influenzate dagli schemi in base ai quali essi valutano la qualità del leader stesso. Se il capo assume atteggiamenti che rientrano nello schema del cattivo leader, gli riuscirà molto difficile imporsi ai collaboratori. Un gruppo di ricercatori ha esaminato i comportamenti contenuti nei nostri schemi riferiti a leader buoni o cattivi. In particolare, un buon leader dovrebbe comportarsi così: (1) assegnare compiti specifici ai membri del gruppo di lavoro; (2) fare i complimenti a chi li merita; (3) definire specifici obiettivi per il gruppo; (4) delegare le decisioni ai membri del team; (5) fare in modo che il gruppo lavori in squadra e (6) mantenere standard di performance definiti. Secondo un altro studio recente, sono percepiti come buoni leader coloro che trattano sempre equamente tutti i membri di un gruppo di lavoro.16 Comunicazione e influenza interpersonale Un manager dovrebbe tenere presente che la percezione sociale è un filtro che può distorcere la comunicazione, sia nell’ascolto che nella trasmissione. Poiché i messaggi scritti e orali vengono interpretati in base agli schemi elaborati nelle esperienze passate, la capacità di influenzare altre persone risente delle informazioni contenute negli schemi mentali riguardanti l’età, il sesso, l’etnia, l’aspetto, il modo di parlare, gli atteggiamenti, la personalità e altre caratteristiche individuali. È importante tenerne conto quando si cerca di esercitare un’influenza su altre persone o di affermare le proprie idee. Comportamenti controproducenti in ambito lavorativo Alcune ricerche hanno dimostrato che i dipendenti mettevano in atto comportamenti controproducenti in ambito lavorativo (analizzati nel Capitolo 6) quando percepivano di essere trattati in maniera iniqua. È molto importante che i manager trattino i collaboratori equamente, ricordando che la percezione di equità è nell’occhio di chi guarda. Il Capitolo 8 illustra in maggior dettaglio come garantire un trattamento equo a tutti i collaboratori.

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Benessere fisico e psicologico Il bias negativo può sfociare in problemi fisici e psicologici: nello specifico, le ricerche dimostrano che le percezioni di paura, pericolo e ansia sono associate all’insorgere di patologie, all’assenteismo e alle intenzioni di licenziarsi.17 Sarebbe bene per tutti cercare di evitare la tendenza a prestare troppa attenzione ai pensieri negativi: è molto più salutare lasciare che ci scivolino addosso. Design di pagine web Recentemente i ricercatori hanno iniziato a indagare su quali elementi catturino l’attenzione degli utenti sul web utilizzando sofisticati dispositivi di tracciamento oculare (eye tracking). I risultati di queste ricerche possono aiutare le organizzazioni a investire più efficacemente nel design di pagine web.

Stereotipi: percezioni relative a gruppi di persone Anche se spesso la bellezza è negli occhi di chi guarda, alcune conseguenze della percezione sono prevedibili. Un manager consapevole del processo percettivo e delle sue conseguenze gode di un vantaggio competitivo. La Walt Disney Company, ad esempio, utilizza le tendenze percettive per influenzare le reazioni dei visitatori alle code nei suoi parchi a tema. A Orlando, negli studi della Disney-MGM, mentre aspettano di entrare a vedere i Muppet i visitatori guardano videocassette della rana Kermit, proiettate su schermi televisivi. Nel Magic Kingdom, chi aspetta di entrare allo show degli Extraterrestri è intrattenuto da un robot parlante. Nella zona d’attesa di alcune attrazioni l’azienda mette a disposizione semplici giocattoli per intrattenere i più piccoli finché aspettano in coda con i genitori.18

L’esempio dimostra quanto focalizzare l’attenzione su qualcosa influenzi la percezione dell’attesa. Analogamente, un manager può usare la consapevolezza delle conseguenze percettive per interagire più efficacemente con i propri collaboratori. La tabella 7-2, ad esempio, descrive cinque errori percettivi molto diffusi. Questi errori spesso distorcono la valutazione dei candidati all’assunzione o della performance dei dipendenti, per cui i manager devono fare attenzione a non incorrervi. Questa sezione esamina una delle conseguenze più importanti e potenzialmente più pericolose correlate alla percezione della persona: la creazione di stereotipi. Analizzeremo dapprima il processo di formazione e di radicamento dello stereotipo, per poi indagare più a fondo gli stereotipi legati ai ruoli sessuali, all’età, alla razza e alla disabilità. Ci occuperemo infine della responsabilità dei manager nell’evitare i pregiudizi legati agli stereotipi stessi.

Formazione e radicamento dello stereotipo Stereotipo: insieme di convinzioni sulle caratteristiche di un gruppo

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“Lo stereotipo è l’insieme delle convinzioni di un individuo sulle caratteristiche o attributi di un gruppo.”19 Non sempre gli stereotipi sono negativi. Anche l’opinione comune secondo cui gli ingegneri sono forti in matematica, ad esempio, fa parte di uno

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Tabella 7-2 Errori percettivi comunemente riscontrati Errore percettivo

Descrizione

Esempio

Soluzione consigliata

Effetto alone

La persona che giudica si forma un’impressione generale su un oggetto e poi la utilizza per influenzare i suoi giudizi su quell’oggetto.

Valutare positivamente le caratteristiche didattiche di un docente, quali la capacità di motivare gli studenti, la competenza e le doti di comunicazione, solo perché ci piace la persona.

Il comportamento di un collaboratore tende a variare nelle diverse dimensioni della performance. Si consiglia di tenere una cartella o un diario per registrare esempi di prestazioni positive e negative nel corso dell’anno.

Indulgenza

Caratteristica personale che porta l’individuo a valutare le persone o gli oggetti altri da se stesso costantemente in un modo molto positivo.

Valutare bene un docente in tutte le dimensioni della performance, senza tenere in considerazione l’effettiva prestazione. Chi giudica in questo modo non ama pronunciare giudizi negativi sugli altri.

Non è molto utile fornire feedback positivi ma poco precisi ai collaboratori: è sempre meglio adottare un approccio equo e realistico nella valutazione.

Tendenza centrale

Tendenza a evitare qualsiasi giudizio di carattere estremo e a valutare persone e cose in modo medio o neutrale.

Valutare un docente nella media in tutte le dimensioni della performance, a prescindere dall’effettiva prestazione.

È normale fornire feedback con commenti positivi e negativi. L’uso di un diario della performance può essere utile per ricordare esempi di prestazioni dei collaboratori.

Effetto attualità

Tendenza a ricordare le informazioni più recenti. Se l’informazione più recente è negativa, la persona o l’oggetto vengono valutati negativamente.

Anche se un docente ha tenuto delle belle lezioni per 12 o 15 settimane di seguito, viene valutato negativamente per le scarse prestazioni dimostrate nelle ultime tre settimane.

È essenziale raccogliere esempi di prestazioni relativi all’intero periodo in esame. Si consiglia di tenere una cartella o un diario per registrare esempi di prestazioni nel corso di tutto l’anno.

Effetto contrasto

Tendenza a valutare persone e oggetti confrontandoli con le caratteristiche di persone e oggetti osservati di recente.

Valutare un docente come nella media perché si è confrontata la sua performance con tre dei migliori professori dell’università, di cui si stanno frequentando i corsi.

È importante valutare i collaboratori rispetto a uno standard anziché affidandosi al ricordo delle prestazioni del collaboratore migliore o peggiore che ha svolto una specifica mansione.

stereotipo. Gli stereotipi possono essere accurati o meno. È verosimile, in effetti, che gli ingegneri riescano meglio in matematica rispetto alla gente comune. In generale, le caratteristiche stereotipiche vengono utilizzate per differenziare un determinato gruppo di persone dagli altri.20 È importante ricordare che gli stereotipi sono una componente essenziale del processo di percezione e che ce ne serviamo per elaborare la grande quantità di informazioni dalle quali siamo bombardati ogni giorno. In questo senso, l’utilizzo degli stereotipi fa parte della fisiologia del processo di osservazione della realtà. Premesso questo, l’uso improprio di stereotipi può portare a decisioni sbagliate; ad esempio, può creare barriere per donne, persone di età avanzata, persone di etnia diversa dalla nostra e disabili, oltre a minare la lealtà e la soddisfazione lavorativa all’interno delle aziende.

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La creazione dello stereotipo avviene in quattro fasi. Inizia con la categorizzazione delle persone in gruppi in base a vari criteri, tra cui il genere, l’età, l’etnia e l’occupazione. Il passo successivo consiste nel presumere che tutte le persone appartenenti a una determinata categoria possiedano le stesse caratteristiche (ad esempio, che tutte le donne siano materne, che gli anziani siano più soggetti a incidenti sul lavoro, che tutti gli afro-americani siano bravi atleti, che tutti gli studiosi abbiano la testa tra le nuvole). Quindi, si creano delle aspettative e si interpreta il comportamento degli altri in base agli stereotipi. Nell’ultima fase, gli stereotipi vengono radicati (1) sopravvalutando la frequenza dei comportamenti stereotipici, (2) spiegando in modo non corretto i comportamenti corrispondenti alle aspettative e quelli non corrispondenti e (3) differenziando gli individui facenti parte di minoranze dagli altri.21 È difficile evitare che le persone usino gli stereotipi perché le quattro fasi descritte si rinforzano automaticamente. La buona notizia è che i ricercatori hanno identificato delle strategie per rompere la catena della stereotipizzazione. Le ricerche dimostrano che l’uso degli stereotipi è influenzato dalla quantità e dal tipo di informazioni di cui un individuo dispone e dalla sua motivazione nei confronti di una corretta elaborazione delle informazioni.22 Le persone sono meno predisposte a utilizzare stereotipi se si scontrano con informazioni rilevanti che con essi sono in netto contrasto. Se, ad esempio, un docente guida una Harley Davidson, va a lezione in pantaloni di pelle e ha un piercing sul naso, ci sono meno probabilità che gli vengano assegnate le caratteristiche dello stereotipo del “professore”. Un altro fattore che riduce la forza dello stereotipo è avere una motivazione per non incorrervi; in altre parole, si può dire che un’accurata elaborazione delle informazioni richieda uno sforzo mentale; la stereotipizzazione è una strategia meno faticosa, poiché non necessita il ripensamento di processi abitudinari. Passiamo ora ad analizzare i diversi tipi di stereotipi e alcuni metodi per ridurne l’effetto negativo.

Stereotipi legati ai ruoli sessuali Stereotipi legati ai ruoli sessuali: convinzioni sui ruoli maschili e femminili

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Gli stereotipi legati ai ruoli sessuali implicano la convinzione che tratti e abilità diverse rendano gli uomini o le donne più o meno adatti a svolgere determinati ruoli. È stato riscontrato che questi stereotipi influenzano le percezioni delle donne in veste di leader. Una sintesi recente di queste ricerche, per esempio, ha rivelato che (1) spesso le persone preferiscono capi di sesso maschile, (2) le donne faticano di più per essere percepite come leader efficaci (per esempio, le donne erano considerate più efficaci degli uomini solo quando l’organizzazione registrava un miglioramento dopo una crisi) e (3) le donne afro-americane risentono in misura maggiore degli stereotipi legati ai ruoli sessuali rispetto alle donne bianche e agli uomini in generale.23 Secondo i ricercatori, gli stereotipi legati ai ruoli sessuali sono legati alle aspettative rispetto ai generi che le persone usano senza esserne consapevoli. Ora, la domanda chiave che sorge è: questo tipo di stereotipi può influenzare le assunzioni, le valutazioni e le promozioni dei dipendenti? Una meta-analisi di 19 ricerche su un totale di 1842 individui non ha fatto emergere alcuna correlazione significativa tra genere del candidato e decisioni di assunzione.24 Un’ulteriore ricerca, confrontando i risultati di 24 studi sperimentali, ha rivelato che

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uomini e donne ottenevano una valutazione simile a parità di prestazioni; in altre parole, non è emerso alcun pregiudizio a favore dell’uomo. Tali studi sperimentali hanno trovato riscontro in una ricerca sul campo condotta tra professori maschi e femmine.25 Sfortunatamente, i risultati che si riferiscono alle promozioni non sono così positivi. Una ricerca su 682 dipendenti di una multinazionale inclusa nella lista delle 500 imprese di Fortune ha rivelato che il genere contava molto nella possibilità di promozione. È emerso che gli uomini ricevevano valutazioni più favorevoli a parità di altri fattori quali l’età, il grado di istruzione, la capacità organizzativa, il livello salariale e il tipo di lavoro.26 È stato inoltre riscontrato che i pregiudizi incidono maggiormente sulle donne impiegate in occupazioni non tradizionali.27

Stereotipi legati all’età Gli stereotipi legati all’età rinforzano le discriminazioni in virtù degli orientamenti negativi associati ad alcune fasi della vita. Esistono, ad esempio, stereotipi di vecchia data legati all’età, secondo i quali i lavoratori più anziani sono meno soddisfatti, non abbastanza coinvolti, meno motivati, impegnati e produttivi, e più propensi ad assentarsi dal lavoro rispetto ai colleghi più giovani. Si pensa, inoltre, che i dipendenti più anziani siano più esposti al rischio di incidenti sul lavoro. Come nel caso degli stereotipi legati al genere, anche questi sono basati più sulla fantasia che su fatti reali.28 Susan Rhodes ha cercato di determinare se gli stereotipi legati all’età corrispondessero alla realtà in base ai dati raccolti in 185 studi diversi; ha scoperto che la soddisfazione del lavoratore aumenta con il passare degli anni, e che lo stesso vale per il coinvolgimento, le motivazioni personali e l’impegno a livello organizzativo. Inoltre, non ha avuto conferma l’ipotesi che i lavoratori più anziani incorressero più spesso in incidenti.29 Relativamente alla performance, una meta-analisi su oltre 52.000 persone ha dimostrato che l’età non è correlata alla prestazione nelle mansioni, alla creatività e al risultato di apprendimento in percorsi formativi.30 Alcuni studiosi di comportamento organizzativo, però, ritengono che questo dato non rifletta la correlazione esistente nella realtà tra l’età e la prestazione. Per esempio, uno studio condotto su un campione di 24.210 persone ha dimostrato che l’età e l’esperienza sono elementi predittivi di una migliore prestazione in alcuni tipi di lavoro, più complessi rispetto ad altri.31 Un’altra ricerca condotta su un campione di 1000 medici di età compresa tra 25 e 92 anni e 600 adulti non medici ha rivelato che “una larga percentuale degli individui più vecchi ha fornito prestazioni uguali o migliori rispetto ai colleghi più giovani”.32 Che cosa succede nei fenomeni di turnover e assenteismo? Da una meta-analisi è emersa una correlazione negativa tra età e turnover,33 ossia: più un dipendente è anziano, meno è probabile che lasci l’azienda. Analogamente, un’altra meta-analisi ha rilevato una correlazione negativa tra età e assenteismo, sia volontario (una giornata al mare) che involontario (un giorno di malattia).34 Dai risultati delle due meta-analisi citate è chiaro che i manager dovrebbero concentrarsi maggiormente sul turnover e l’assenteismo dei giovani rispetto a quello dei più anziani.

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Stereotipi legati alla razza e all’etnia

Micro aggressioni: pensieri, atteggiamenti e sentimenti influenzati da bias esistenti a livello inconscio

Esistono diversi stereotipi legati alla razza. Per fare qualche esempio, comunemente si crede che gli afro-americani siano atletici e aggressivi, gli asiatici tranquilli, introversi, brillanti e orientati alle materie quantitative, gli ispanici attenti alla famiglia e religiosi, gli arabi tendenti all’ira. Gli stereotipi legati alla razza e all’etnia sono particolarmente problematici perché si attivano automaticamente e possono sfociare in quelle che i ricercatori definiscono micro aggressioni. Le micro aggressioni sono “pensieri, atteggiamenti e sentimenti influenzati da bias” che esistono a livello inconscio35 e possono esercitare un’influenza sul nostro comportamento, ripercuotendosi sulle persone di altre etnie. Consideriamo la seguente situazione: Due colleghi, un asiatico americano e un afro-americano, si imbarcano su un piccolo aereo. L’assistente di volo li invita a prendere posto dove preferiscono e i due occupano due poltrone adiacenti al corridoio nella parte anteriore dell’aereo in modo da poter conversare. All’ultimo momento, tre uomini bianchi salgono a bordo e occupano i posti di fronte a quelli scelti dai due colleghi. Poco prima del decollo, l’assistente di volo, che è bianca, chiede ai due la cortesia di occupare le poltrone poste sul retro del velivolo per bilanciare meglio il carico. Entrambi reagiscono con stizza, condividendo l’impressione che sia stato chiesto loro, simbolicamente, di “sedersi negli ultimi posti dell’autobus”. Quando comunicano queste sensazioni all’assistente di volo, quest’ultima nega l’accusa con indignazione, affermando che il suo unico obiettivo era garantire la sicurezza del volo e concedere loro un po’ di privacy.36

Pensate che il comportamento dell’assistente di volo fosse una micro aggressione o che i due colleghi fossero troppo sensibili? Gli stereotipi negativi legati alla razza e all’etnia sono evidenti in molti aspetti della vita quotidiana e organizzativa.37 Consideriamo l’esperienza di Eldrick (Tiger) Woods. Il campione del golf, di madre tailandese e padre afro-americano, è cresciuto in due culture diverse. Dopo essere diventato un golfista professionista nel 1996, Tiger ha vinto 95 tornei e collezionato più vittorie nella sua carriera di qualsiasi altro giocatore partecipante al PGA Tour. Vanta la media di punteggio in carriera più bassa e i guadagni più alti di qualsiasi altro golfista nella storia. È anche l’unico al mondo ad aver detenuto contemporaneamente il titolo dei quattro tornei principali.38 Purtroppo però Tiger è stato vittima di una serie di stereotipi e pregiudizi razziali. Consideriamo ora alcuni dati sugli stereotipi legati alla razza e all’etnia nel mondo delle organizzazioni. Dalla meta-analisi condotta sugli esiti dei colloqui di lavoro per un totale di 4169 afro-americani e 6307 bianchi è emerso che questi ultimi ricevevano giudizi migliori. Un altro studio, che ha preso in considerazione 2805 colloqui, ha rivelato l’esistenza di una preferenza tra membri della stessa razza negli ispanici e negli afro-americani, ma non nei bianchi; ciò significa che gli intervistatori ispanici o afro-americani valutavano più favorevolmente i candidati appartenenti alla loro stessa razza rispetto agli altri, mentre gli intervistatori bianchi non facevano questo tipo di preferenza.39 Le valutazioni relative alle prestazioni sono apparse non condizionate dalla razza in due studi che hanno analizzato campioni composti rispettivamente da 21.547 e 39.537

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Minaccia dello stereotipo: situazione in cui i membri di un gruppo sociale devono gestire la possibilità di essere giudicati o trattati secondo stereotipi

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coppie con valutatori e valutati afro-americani e bianchi, provenienti da varie parti degli Stati Uniti. Questi risultati hanno rivelato che né i manager afro-americani né i bianchi discriminavano i propri dipendenti in base alla razza.40 Dato il numero crescente di persone appartenenti a diversi gruppi etnici che entreranno nella forza lavoro nell’arco dei prossimi 10 anni (come abbiamo visto nel Capitolo 2), le organizzazioni dovrebbero dedicarsi allo sviluppo delle donne e dei dipendenti appartenenti alle minoranze, affinando nel contempo la sensibilità dei manager rispetto a falsi stereotipi legati alla razza e alla cosiddetta minaccia dello stereotipo. Per minaccia dello stereotipo “si intende la ‘situazione imbarazzante’ in cui i membri di un gruppo sociale (per esempio gli afro-americani, le donne) ‘devono gestire la possibilità di essere giudicati o trattati stereotipicamente, o di fare qualcosa che confermerebbe lo stereotipo’.”41 Secondo alcune ricerche, la minaccia dello stereotipo è associata a performance più basse per le donne e i non bianchi in compiti di valutazione: per esempio, afro-americani e donne evidenziavano prestazioni peggiori nei test accademici quando qualcosa li induceva a pensare alla razza o al genere. Il calo della prestazione era più marcato quando gli individui erano vittime di uno stereotipo legato alla razza o all’etnia.42 Questi risultati suggeriscono che per insegnanti e manager è importante evitare di attivare qualsiasi stereotipo legato alla razza, all’etnia o al genere (ad esempio rivolgendo domande dirette su questi aspetti) in occasione di momenti di valutazione, come esami accademici, test di impiego oppure test di ammissione all’università.

Stereotipi sulla disabilità Le persone disabili si trovano a dover combattere stereotipi negativi che influenzano le loro prospettive occupazionali, oltre a essere stigmatizzate in generale. Queste tendenze creano una molteplicità di problemi: per esempio, le persone disabili hanno più probabilità di rimanere disoccupate e di percepire uno stipendio inferiore rispetto alle persone normodotate.43 Inoltre, hanno una probabilità di vivere in povertà 2,5 volte maggiore rispetto alle persone non disabili.44 Le difficoltà sono ancora maggiori per le persone affette da gravi disturbi mentali.

Sfide manageriali e consigli utili La sfida più importante consiste nel ridurre l’influenza esercitata dagli stereotipi sul processo decisionale e sui processi interpersonali a livello organizzativo. A nostro parere, in primo luogo le organizzazioni devono informare il personale sul problema della stereotipizzazione mediante la formazione del personale. Possono essere utili anche dei corsi per dare ai manager gli strumenti necessari ad affrontare situazioni particolari, legate alla gestione di collaboratori con handicap. Il passo successivo consiste nell’impegnarsi ad ampio raggio per ridurre gli stereotipi nell’intera organizzazione di appartenenza. I ricercatori delle scienze sociali sono convinti che contatti interpersonali “di qualità” all’interno di gruppi misti siano il modo migliore per ridurre gli stereotipi, perché forniscono alle persone dati precisi sulle caratteristiche di altri gruppi di persone.

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Quindi le organizzazioni dovrebbero creare opportunità per i collaboratori di incontrarsi e lavorare insieme in gruppi di cooperazione a parità di status. Un altro consiglio per i manager è quello di identificare le differenze individuali (vedi Capitolo 5) che possono determinare il livello delle prestazioni. Ad esempio, come abbiamo già detto, la ricerca rivela che l’esperienza funziona meglio rispetto all’età come predittore della prestazione. La ricerca dimostra anche che i manager possono essere formati a utilizzare criteri validi nel corso della selezione dei candidati e della valutazione dei collaboratori.45 Eliminare le barriere alla promozione di donne, persone di colore e disabili è un’altra soluzione utile per diminuire i problemi legati alla stereotipizzazione. In conclusione, sono fondamentali la collaborazione e il sostegno dei massimi dirigenti per l’eliminazione delle pratiche organizzative che rinforzano le decisioni legate a stereotipizzazione e discriminazione. Le ricerche dimostrano che il sostegno del top management ha un ruolo essenziale per il successo dei cambiamenti a livello organizzativo.

Profezia che si autoavvera: l’effetto Pigmalione

Profezia che si autoavvera: le aspettative di un individuo ne determinano comportamento e prestazioni Effetto Galatea: le aspettative elevate di un individuo nei confronti di se stesso si traducono in prestazioni elevate

La profezia che si autoavvera affonda le sue radici nella mitologia greca. Il mito racconta di Pigmalione, scultore che, pur odiando le donne, si innamorò di una figura femminile che egli stesso aveva scolpito nell’avorio. La sua infatuazione per la statua era tale da spingerlo a pregare la dea Afrodite di portarla in vita. La dea udì la preghiera di Pigmalione, esaudì il suo desiderio e la statua prese vita. L’essenza della profezia che si autoavvera, o effetto Pigmalione, è che le aspettative elevate nei confronti di una persona determinano prestazioni elevate. Un’altra profezia che si autoavvera è il cosiddetto effetto Galatea, che si verifica quando le aspettative elevate di un individuo nei confronti di se stesso si traducono in prestazioni elevate. Il processo fondamentale alla base degli effetti Pigmalione e Galatea consiste nel fatto che le aspettative o le convinzioni delle persone, influendo sul loro comportamento e sulle loro prestazioni, possono diventare realtà. In altre parole, tutti noi ci sforziamo di convalidare le nostre percezioni della realtà, a prescindere dalla loro validità effettiva. La profezia che si autoavvera costituisce quindi un risultato percettivo importante, che è necessario comprendere meglio.

La ricerca e un modello esplicativo La prima dimostrazione empirica della profezia che si autoavvera è avvenuta in ambito accademico. Dopo aver fatto compilare a studenti dalla prima elementare alla prima media un falso test sul potenziale intellettivo, i ricercatori hanno segnalato agli insegnanti gli individui dotati di alte potenzialità di successo. In realtà, gli studenti erano stati assegnati in modo casuale ai gruppi “ad alto potenziale” e “di controllo” (cioè a potenziale normale). La ricerca ha rivelato che i piccoli definiti ad alto potenziale hanno ottenuto miglioramenti nei punteggi di QI e nelle capacità di lettura significativamente superiori rispetto ai bambini del gruppo di controllo.46 Gli insegnanti del primo gruppo

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Percezioni e attribuzioni sociali

Effetto Golem: diminuzione delle prestazioni causata dal basso livello delle aspettative da parte del leader

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hanno riscontrato risultati migliori perché le loro aspettative nei confronti degli studenti li portavano ad assegnare compiti più difficili e a gratificare di più i ragazzi. Gli studenti del secondo gruppo, invece, non hanno eccelso perché i docenti non si aspettavano da loro risultati di alto livello. La ricerca ha inoltre dimostrato che aumentando le aspettative di istruttori e manager nei confronti degli individui che svolgono molti compiti diversi è possibile ottenere migliori livelli di produttività. I risultati derivanti da una meta-analisi che ha coinvolto 2874 persone, impiegate in svariati settori e con ruoli diversi, hanno dimostrato che l’effetto Pigmalione era molto marcato.47 Questo implica la possibilità di ottenere livelli più alti di efficacia e produttività aumentando le aspettative dei manager nei confronti dei propri collaboratori. Inoltre, l’effetto Pigmalione sul miglioramento delle prestazioni risulta più marcato nei militari, tra le persone di sesso maschile e con basse aspettative nei confronti delle proprie performance. Ampliando questi risultati, uno studio recente ha confermato che i leader di sesso femminile sono in grado di sortire l’effetto Pigmalione sui subordinati di sesso maschile.48 Si tratta di un risultato molto importante data la crescente presenza femminile in ruoli manageriali (come abbiamo visto nel Capitolo 2). La figura 7-2 rappresenta un modello che integra la profezia che si autoavvera, l’effetto Galatea e il concetto di auto-efficacia (analizzato nel Capitolo 5). Il modello evidenzia che il processo della profezia che si autoavvera è innescato dalle aspettative di un manager nei confronti dei diretti collaboratori. Tali aspettative a loro volta esercitano un’influenza sul modello di leadership (legame 1). Le aspettative positive, infatti, generano una leadership positiva e di supporto, che induce i collaboratori a sviluppare aspettative più elevate nei confronti di se stessi (legame 2). L’effetto Galatea positivo generato dalle aspettative maggiori a sua volta motiva i collaboratori a impegnarsi di più (legame 3), e, infine, migliora la prestazione (legame 4) e le aspettative dei supervisori (legame 5). Una buona performance migliora anche l’auto-efficacia, che alimenta l’aspettativa stessa dei dipendenti nei confronti dei propri successi (legame 6). Questo modello ha trovato conferma nelle ricerche empiriche.49 I ricercatori hanno coniato il termine effetto Golem per definire la versione in negativo del processo di miglioramento della performance raffigurato nella figura 7-2. L’effetto Golem consiste in una caduta delle prestazioni derivante da bassi livelli di aspettative da parte dei leader.50 Vediamo come funziona. Poniamo che un collaboratore compia un errore, ad esempio perda degli appunti importanti durante una riunione, o consegni un rapporto con un giorno di ritardo. Il manager, di conseguenza, si chiede se questa persona possieda le caratteristiche necessarie per raggiungere risultati positivi all’interno dell’azienda. Questo dubbio lo porterà a osservare più attentamente la persona in questione, che ovviamente si accorgerà della situazione e inizierà a sentirsi sfiduciata. Il collaboratore sotto osservazione potrà quindi comportarsi in due modi: prima possibilità, potrà mettere in discussione le proprie competenze e il proprio giudizio. In questo caso diventerà più restio al rischio e diminuirà la quantità di idee e suggerimenti dati, per paura di un giudizio negativo da parte del manager. Questi, a sua volta, noterà tale comportamento e lo interpreterà come un esempio di poca iniziativa. Il lavoratore potrebbe al contrario prendersi maggiori responsabilità per dimostrare la propria competenza. Questo atteggiamento potrebbe però portarlo a fare qualche altro errore, rinforzando

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Figura 7-2 Modello della profezia che si autoavvera

Aspettativa del supervisore

Fonte: D. Eden,“Self-Fulfilling Prophecy as a Management Tool: Harnessing Pygmalion,” Academy of Management Review, gennaio 1984, p. 67. Riprodotto su autorizzazione.

1

5

Leadership

Performance

6

2

4

Motivazione

3

Aspettativa personale del collaboratore

così i sospetti del manager. Come si può notare il processo descritto costruisce una relazione distruttiva rinforzata da aspettative negative. Va ricordato dunque che la profezia che si autoavvera funziona in entrambe le direzioni. Nel prossimo paragrafo prenderemo in esame alcune idee per incrementare l’effetto Pigmalione e ridurre l’effetto Golem.

Sfruttare al meglio la profezia che si autoavvera È soprattutto grazie all’effetto Pigmalione che le aspettative manageriali influenzano significativamente il comportamento e la performance del collaboratore. I manager dovrebbero quindi incentivare tale effetto costruendo una struttura gerarchica che rinforzi le aspettative nei confronti di prestazioni positive in tutta l’organizzazione. Le aspettative dei lavoratori verso se stessi costituiscono il fondamento di una struttura di questo tipo. A loro volta, esse migliorano le aspettative esterne incoraggiando le persone a lavorare per il raggiungimento di un obiettivo comune. Questa forma di cooperazione incrementa la produttività a livello di gruppo e promuove il formarsi di aspettative positive sulle prestazioni all’interno del gruppo stesso. Alla Google, ad esempio, generalmente le giornate di lavoro dei dipendenti sono molto lunghe, specialmente quando i gruppi di lavoro devono rispettare i termini per il lancio di un nuovo prodotto. La Google ha fama di creare prodotti innovativi in tempi record, perciò le aspettative positive a livello di gruppo facilitano la creazione e il

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Percezioni e attribuzioni sociali

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rinforzo di una cultura organizzativa caratterizzata da alte aspettative di successo. Il processo descritto a sua volta spinge l’individuo a lavorare per l’azienda, e questo facilita la riduzione del turnover.51 Dal momento che le aspettative positive nei confronti di se stessi costituiscono il fondamento dell’esistenza di un effetto Pigmalione diffuso nell’intera organizzazione, proviamo a vedere in che modo i manager possano riuscire a creare aspettative positive sulle prestazioni. È un compito, questo, che può essere svolto utilizzando diverse combinazioni delle azioni elencate di seguito. 1. Riconoscere che ogni individuo può, potenzialmente, migliorare la propria performance. 2. Determinare i propri obiettivi di performance. 3. Dare riscontri positivi per lavori ben fatti. 4. Offrire feedback frequenti che comunicano fiducia nelle capacità dei collaboratori di portare a termine i compiti assegnati. 5. Offrire ai collaboratori la possibilità di gestire compiti e progetti sempre più complessi. 6. Comunicare usando la mimica facciale, l’intonazione della voce, il linguaggio del corpo e mediante commenti di incoraggiamento che lasciano trasparire aspettative elevate. 7. Fornire ai collaboratori gli input, le informazioni e le risorse di cui necessitano per raggiungere i loro obiettivi. 8. Presentare i neo-assunti sottolineando le loro potenzialità. 9. Incoraggiare i collaboratori a concentrarsi sul presente senza preoccuparsi di eventi negativi legati al passato. 10. Aiutare i collaboratori a padroneggiare perfettamente le proprie mansioni e le proprie abilità.52

Attribuzioni causali

Attribuzioni causali: motivazioni dedotte o sospettate di un comportamento

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La teoria dell’attribuzione si fonda sulla premessa che tutti noi cerchiamo di dedurre le possibili cause di un comportamento osservato. A torto o a ragione, noi formuliamo costantemente relazioni causa-effetto per spiegare il comportamento nostro e degli altri. È comune, infatti, sentir pronunciare affermazioni di tipo attributivo come: “Joe beve troppo perché non ha forza di volontà; io invece dopo il lavoro ho bisogno di bere un paio di birre perché sono sotto pressione”. Per dare una definizione formale, le attribuzioni causali sono cause sospette o dedotte di un determinato comportamento. Sebbene le attribuzioni causali che facciamo tendano a giustificare i nostri comportamenti, e siano quindi spesso sbagliate, è importante capire come avviene la formulazione di tali affermazioni, perché esse possono influenzare profondamente il comportamento organizzativo. Se, ad esempio, un supervisore attribuisce la causa di un compito svolto male allo scarso impegno del lavoratore, probabilmente lo rimprovererà. Se, invece, la mancanza venisse attribuita a una carenza di capacità, il supervisore potrebbe ritenere necessario un periodo di formazione per il collaboratore.

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

In senso generale, le persone formulano attribuzioni causali considerando gli eventi che precedono il comportamento osservato. In questo paragrafo analizzeremo il modello di attribuzione proposto da Harold Kelley, due importanti tendenze all’attribuzione e le implicazioni manageriali correlate.

Modello dell’attribuzione secondo Kelley

Fattori interni: caratteristiche personali che causano il comportamento Fattori esterni: caratteristiche ambientali che causano il comportamento

I modelli in uso dell’attribuzione, tra cui quello di Kelley, si basano sul lavoro pionieristico di Fritz Heider, il fondatore della teoria dell’attribuzione. Egli ipotizzò che il comportamento potesse essere attribuito o a fattori interni alla persona (ad esempio l’abilità) o a fattori esterni, insiti nell’ambiente (ad esempio un compito difficile, l’aiuto di terzi, la buona o la cattiva sorte). Questo modo di pensare corrisponde al concetto di locus of control interno ed esterno, di cui abbiamo parlato nel Capitolo 5. Basandosi sul lavoro di Heider, Kelley ha cercato di determinare i principali antecedenti delle attribuzioni localizzate internamente o esternamente agli individui. Ha ipotizzato che le persone effettuino attribuzioni causali dopo aver raccolto informazioni su tre dimensioni del comportamento: il consenso, la distinzione e la coerenza.53 Queste dimensioni variano indipendentemente, dando vita a diverse combinazioni e differenti attribuzioni. In figura 7-3 sono rappresentati alcuni grafici di performance che dimostrano il contrasto tra livelli alti e bassi di consenso, distinzione e coerenza. I grafici di cui sopra verranno ora utilizzati per sviluppare una conoscenza operativa delle tre dimensioni del modello di Kelley. 1. Il consenso implica un confronto tra il comportamento dell’individuo e quello dei suoi pari. Il livello di consenso è alto quando una persona si comporta come il resto del gruppo, basso quando si comporta diversamente. Come si può vedere nella figura 7-3, il consenso è alto quando le persone A, B, C, D ed E hanno livelli di prestazioni individuali simili. Nel grafico a sinistra, la performance della persona C è invece bassa in termini di consenso perché si distacca sensibilmente da quella di A, B, D ed E. 2. La distinzione si determina confrontando il comportamento di un individuo nello svolgimento di compiti diversi. Un alto livello di distinzione indica che l’individuo ha svolto un determinato compito in modo significativamente diverso rispetto ad altri compiti. Un basso livello di distinzione significa che la prestazione o qualità dell’individuo è stabile a prescindere dal compito svolto. La figura 7-3, grafico a destra, rivela che la prestazione del dipendente nel compito 4 è fortemente distintiva in quanto si discosta molto dalle sue prestazioni nei compiti 1, 2, 3 e 5. 3. La coerenza viene determinata in base al fatto che la prestazione di un individuo nello svolgimento di un determinato compito rimanga costante nel tempo. Un alto livello di coerenza implica che la persona svolge quel compito nello stesso modo di volta in volta. Se, invece, la prestazione varia nel tempo, si ha un basso livello di coerenza. Il picco negativo nella prestazione riportato nel grafico a sinistra della figura 7-3 indica un basso livello di coerenza; in questo caso, la prestazione del lavoratore nello svolgere un determinato compito è variata nel tempo.

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Percezioni e attribuzioni sociali

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Basso

Alto

A B C D E Persone

A B C D E Persone

Performance individuale

Performance individuale

Consenso

Distinzione Bassa Alta

1 2 3 4 5 Compiti

1 2 3 4 5 Compiti

Coerenza Performance individuale

7

Bassa

Alta

Tempo

Tempo

Figura 7-3 Grafici sulla performance che illustrano consenso, distinzione e coerenza Fonte: K.A. Brown, “Explaining Group Poor Performance: An Attributional Analysis,” Academy of Management Review, gennaio 1984, p. 56. Riprodotto su autorizzazione.

Dunque il consenso mette a confronto le persone, la distinzione i compiti, la coerenza la variazione nel tempo. La domanda che sorge a questo punto è: in che modo le nozioni concernenti queste tre dimensioni del comportamento portano a formare attribuzioni causali autoriferite (interne) o eteroriferite (esterne)? Kelley ha ipotizzato che le persone attribuiscano il comportamento a cause esterne (fattori ambientali) quando percepiscono un alto livello di consenso e di distinzione ma un basso livello di coerenza. Le attribuzioni interne (fattori personali), invece, vengono fatte tendenzialmente quando il comportamento osservato è caratterizzato da bassi livelli di consenso e distinzione, e alto livello di coerenza. Quindi, per esempio, quando tutti i collaboratori esibiscono prestazioni di cattiva qualità (alto consenso), oppure quando la prestazione di cattiva qualità si presenta solo con riferimento a un determinato compito (alta distinzione) o solo in un determinato periodo di tempo (bassa coerenza), il supervisore probabilmente la attribuirà a una fonte esterna, ad esempio le pressioni dei colleghi o la difficoltà eccessiva di un compito. La prestazione sarà invece attribuita alle caratteristiche personali del lavoratore (attribuzione interna) quando solamente l’individuo in questione fornisce una performance di cattivo livello (basso consenso), quando tale livello è riscontrabile in compiti diversi (bassa distinzione) e persiste nel tempo (alta coerenza). Esistono molte ricerche a sostegno di questo processo di attribuzione negli ambienti di lavoro.54

Tendenze attributive Gli studiosi hanno scoperto due tendenze attributive che distorcono l’interpretazione del comportamento osservato: il bias (deformazione) attributivo di base e il bias autofunzionale. Bias attributivo di base: ignorare i fattori ambientali che influenzano il comportamento

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Il bias attributivo di base Il bias attributivo di base riflette la tendenza ad attribuire il comportamento di una persona alle caratteristiche della persona stessa, anziché

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

a fattori situazionali. Questa tendenza fa in modo che l’osservatore ignori importanti forze ambientali, che spesso influenzano in modo significativo il comportamento. La ricerca ha inoltre rilevato un altro dato interessante: le persone di cultura occidentale sembrano essere più predisposte al bias attributivo di base rispetto agli individui di origine asiatica.55 Uno studio recente condotto su un campione di azionisti ha dimostrato che questi attribuivano il valore delle azioni più al comportamento del CEO che alle fluttuazioni del mercato.56 Bias auto-funzionale: attribuire alla propria responsabilità più i successi che i fallimenti

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Il bias auto-funzionale Il bias auto-funzionale rappresenta la tendenza a prendersi più facilmente la responsabilità di un successo che di un fallimento. Il bias auto-funzionale mostra che i collaboratori attribuiranno i propri successi a fattori interni (grandi capacità o duro lavoro), i propri fallimenti a fattori esterni non controllabili (compito difficile, sfortuna, colleghi poco cooperativi, capo insensibile). Questa tendenza si manifesta in tutti gli aspetti della vita. Per esempio, Bob Poznanovich era vicepresidente vendite e marketing per Zenith, ora LG Electronics, prima di essere licenziato per uso di stupefacenti. Ammette di aver speso fino a 1000 dollari al giorno in stupefacenti di cui faceva uso con altri collaboratori e clienti; spesso non si presentava al lavoro oppure arrivava in ritardo. Poznanovich attribuisce all’azienda le responsabilità della sua dipendenza, affermando che si sarebbe fatto aiutare se il management gli avesse fatto notare il suo comportamento sbagliato.57 Pat Murphy, ex allenatore capo della squadra di baseball della Arizona State University (ASU), fa ricadere sul management le responsabilità per la violazione delle norme NCAA riguardanti i contatti telefonici con possibili studenti/atleti da parte del suo dipartimento, sostenendo che non avesse formato adeguatamente il suo staff in merito alla compilazione dei registri telefonici. Dal canto suo, il management considera Murphy responsabile di non aver sottolineato l’importanza della compilazione dei registri telefonici, concludendo che “Murphy sembrava promuovere un programma di compliance ma in realtà era il primo a non applicare tutte le politiche ASU e forniva tabulati telefonici imprecisi e rappresentazioni falsate della realtà allo staff di compliance.”58 Molte sono state le ricerche che hanno investigato il bias auto-funzionale. Sono stati condotti due studi con lo scopo di verificare se gli alti dirigenti cadessero preda del bias auto-funzionale quando si accingevano a redigere l’annuale lettera di comunicazione ai propri azionisti. In base ai risultati, molti dirigenti negli Stati Uniti e a Singapore si prendevano il merito per l’andamento positivo dell’azienda, attribuendo invece ogni risultato negativo alle circostanze esterne.59 I risultati delle ricerche sul bias autofunzionale nel loro insieme, comunque, non possono essere considerati coerenti. Due sono gli schemi attributivi che emergono dalla ricerca empirica. Il primo rivela che gli individui elaborano attribuzioni del successo interne, come previsto dal bias autofunzionale; il fallimento, invece, viene attribuito sia internamente sia esternamente.60 Ciò significa che, al contrario di quanto previsto dalla teoria del bias autofunzionale, l’attribuzione del fallimento a cause esterne non avviene automaticamente. Ecco la conclusione di un gruppo di studiosi della materia: “Quando persone molto concentrate su se stesse percepiscono l’insuccesso come facilmente rimediabile, ne elaboreranno un’attribuzione interna; se, invece, la probabilità di un miglioramento appare minima, allora l’attribuzione sarà esterna.”61

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Percezioni e attribuzioni sociali

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Applicazioni e implicazioni manageriali I modelli attributivi possono essere utilizzati per spiegare come i manager gestiscono i collaboratori che forniscono prestazioni inadeguate. Una ricerca ha dimostrato che se un manager attribuiva la scarsa performance del collaboratore a un impegno insufficiente, dava feedback più immediati, frequenti e negativi. Una reazione di questo tipo era ancora più evidente qualora il successo del manager dipendesse dalla prestazione del collaboratore stesso. Un’altra ricerca ha indicato che i manager tendevano a trasferire i collaboratori, se ritenevano che la loro performance fosse inadeguata per mancanza di capacità. Gli stessi manager non prendevano invece decisioni immediate se la prestazione negativa era attribuibile a fattori esterni, che esulavano dal controllo dell’individuo.62 Le situazioni elencate comportano una serie di importantissime implicazioni a livello manageriale. In primo luogo, uomini e donne tendono ad attribuire le promozioni a cause diverse. I risultati di una recente ricerca condotta su un campione di 140.000 persone provenienti da 80 paesi ha dimostrato che uomini e donne attribuiscono a cause diverse la promozione a una posizione dirigenziale di alto livello. Secondo gli uomini, la promozione è motivata dall’impegno, mentre le donne ritengono che le promozioni si basino più sulla fortuna e sulla rete di conoscenze personali. Come evidenziato nel Capitolo 2, questi risultati, peraltro coerenti in paesi diversi, suggeriscono che il cammino delle donne verso il successo professionale somiglia più a un labirinto che a una traiettoria diritta. Si consiglia ai manager di aiutare le donne a sviluppare capitale sociale e di promuovere i collaboratori sulla base di parametri accuratamente misurati e legati alla mansione.63 In secondo luogo, il manager tende ad attribuire il comportamento a cause interne con frequenza eccessiva.64 Ciò può comportare valutazioni inesatte delle prestazioni, e di conseguenza ridurre la motivazione dei collaboratori. A nessuno, infatti, piace essere accusato per cause percepite come esterne al proprio controllo. Inoltre, dal momento che le reazioni dei manager di fronte alla performance dei propri collaboratori cambiano in base alle attribuzioni, ogni eventuale pregiudizio attributivo può dar vita a interventi manageriali sbagliati, ivi comprese promozioni, trasferimenti, licenziamenti e così via. Questo processo può indebolire le motivazioni e le prestazioni. Per evitare queste conseguenze negative, è utile che i manager seguano dei corsi di formazione sull’attribuzione. Nell’ambito di questi corsi possono essere spiegati i processi attributivi, insegnando ai manager come riconoscere ed evitare eventuali pregiudizi nell’attribuzione. Infine, le attribuzioni del lavoratore stesso sulla propria prestazione producono effetti rilevanti su motivazione, prestazioni e atteggiamenti personali come l’autostima. Se, ad esempio, una persona attribuisce il motivo del proprio fallimento a una mancanza di capacità, tenderà ad abbandonare il compito, elaborare aspettative minori nei confronti dei successi futuri, e vedrà decrescere la propria autostima. Fortunatamente, rieducando all’attribuzione si può riuscire a migliorare sia la motivazione sia la performance. Le ricerche dimostrano che è possibile insegnare ai collaboratori ad attribuire il fallimento a una mancanza di impegno anziché di capacità.65 Questo tipo di riallineamento attributivo prepara la strada per un incremento di motivazione e di prestazione. È inoltre molto importante ricordare le implicazioni del pregiudizio auto-funzionale. Se l’obiettivo del manager è quello di

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

portare i propri collaboratori ad accettare le responsabilità personali per il fallimento e, di conseguenza, modificare l’impegno e il comportamento, è essenziale che essi credano di poter migliorare la propria prestazione in futuro. Altrimenti, i collaboratori tenderanno ad attribuire il fallimento a cause esterne e a non apportare cambiamenti al proprio comportamento.

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I fondamenti della motivazione

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È giusto legare lo stipendio degli insegnanti al rendimento degli studenti? L’ex direttrice generale delle scuole di Washington DC Michelle Rhee ha tentato di ottenere un miglioramento delle performance degli insegnanti attraverso l’applicazione dei principi di diverse teorie motivazionali. In passato il 95% degli insegnanti operanti nel sistema scolastico di Washington DC riceveva una valutazione eccellente e nessuno veniva licenziato per performance mediocri; nel contempo, però, i punteggi riportati dagli studenti nei test di valutazione erano tra i più bassi del paese. Nel 2010 la Rhee ha licenziato 241 insegnanti, circa il 6% del corpo docente del sistema; altri 737 insegnanti hanno ricevuto una valutazione di efficacia minima del loro operato. La Rhee ha avviato questa piccola rivoluzione dopo aver messo a punto un diverso sistema di valutazione degli insegnanti e negoziato un nuovo accordo sulla retribuzione con la Washington Teachers Union (TWU), il sindacato di categoria. L’attuale sistema di valutazione è considerato uno dei più rigorosi negli Stati Uniti. Si basa su numerose ore di osservazione dell’operato dell’insegnante in aula e tiene conto del rendimento degli studenti […] I docenti ricevono cinque valutazioni annuali dai dirigenti scolastici e da insegnanti esperti su aspetti come l’elaborazione di piani didattici coerenti

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e il coinvolgimento degli studenti. Dopo una prima osservazione, ricevono una valutazione che segnala i punti deboli e viene loro offerto coaching per migliorarsi […] I docenti vengono classificati secondo quattro categorie: quest’anno il 16% rientrava nella categoria più alta, rispetto al 45% degli anni passati. Il 20% circa si è attestato nella categoria più bassa in classifica, rispetto al 4% degli anni scorsi.

In base al nuovo sistema di retribuzione, “i bravi insegnanti ricevono uno stipendio più alto (comprensivo di un aumento del 21,6% nel 2012 e possibilità di ricevere bonus per merito) mentre gli insegnanti meno bravi rischiano il licenziamento”. George Parker, presidente del WTU, ha reagito con indignazione ai licenziamenti, affermando che il sindacato avrebbe presentato ricorso e minacciando di formalizzare un’accusa contro il distretto scolastico per pratiche discriminatorie. Richard Whitmire, autore di The Bee Eater: Michelle Rhee Takes on the Nation’s Worst School District, ha riconosciuto che la Rhee doveva scegliere la linea dura per motivare i docenti perché “solo un terzo circa degli insegnanti di Washington DC era in grado di offrire” istruzione di alta qualità.1

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Parte II

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Motivazione: processi psicologici che originano e direzionano il comportamento orientato all’obiettivo Teorie della motivazione basate sui contenuti del lavoro: identificano fattori interni che influenzano la motivazione Teorie della motivazione incentrate sui processi: identificano i processi attraverso cui fattori interni e cognizioni influenzano la motivazione

Tabella 8-1 Sintesi delle teorie motivazionali

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Come vedremo in questo capitolo, la teoria dell’aspettativa si basa sul principio secondo il quale il compenso di un collaboratore dovrebbe essere legato alla qualità della performance. Secondo il concetto fondamentale soggiacente questa teoria, la motivazione dei collaboratori cresce quando vengono ricompensati con riconoscimenti che considerano preziosi, per esempio uno stipendio più alto. Nel caso illustrato in apertura, al contrario, il sindacato degli insegnanti di Washington DC contrastava il tentativo di Michelle Rhee di fare leva sulla teoria dell’aspettativa. Per quale motivo? Perché in realtà, come scopriremo in questo capitolo, i fattori che esercitano un’influenza sulla motivazione dei collaboratori sono numerosi e non si limitano all’assegnazione di ricompense. Vedremo che la motivazione è una funzione di diverse componenti, tra cui i bisogni individuali, la misura in cui un ambiente di lavoro è positivo e supportivo, la percezione di ricevere un trattamento equo, la creazione di un legame solido tra la performance e l’assegnazione di ricompense apprezzate, l’uso di misure accurate della prestazione e la determinazione di obiettivi specifici. Il termine motivazione deriva dal latino movere, che significa “muovere”. In questo contesto, la motivazione rappresenta “quei processi psicologici che provocano la nascita, la direzione e la persistenza di azioni volontarie dirette verso un obiettivo”.2 Le teorie proposte dagli studiosi per spiegare i fattori alla base della motivazione dei collaboratori possono essere ricondotte a due categorie generali: le teorie della motivazione basate sui contenuti del lavoro e le teorie della motivazione incentrate sui processi. Le teorie della motivazione basate sui contenuti del lavoro (content theories) si fondano sull’identificazione di fattori interni (come gli istinti, i bisogni, la soddisfazione e le caratteristiche del lavoro) che alimentano la motivazione dei collaboratori, e non tengono conto di come questa sia influenzata dall’interazione dinamica tra l’individuo e l’ambiente di lavoro. Questo limite ha portato all’elaborazione delle teorie della motivazione incentrate sui processi (process theories), che spiegano come fattori interni e cognizioni influenzano la motivazione dei collaboratori.3 Le teorie incentrate sui processi sono più dinamiche rispetto a quelle basate sui contenuti del lavoro. La tabella 8-1 mostra una panoramica delle teorie illustrate in questo capitolo. Conviene ricordare che, basandosi su insiemi differenti di ipotesi rispetto alle cause della motivazione, queste sette teorie offrono consigli diversi su come motivare i collaboratori. La trattazione di ciascuna teoria si conclude con una sintesi delle implicazioni manageriali, utile per aiutarvi a integrare i diversi approcci e applicarne le indicazioni. Dopo aver illustrato le principali teorie motivazionali, questo capitolo fornisce una rassegna dei metodi di job design utilizzati per motivare i collaboratori e si conclude con alcuni consigli per mettere in pratica le teorie motivazionali nell’ambiente di lavoro.

TEORIE DELLA MOTIVAZIONE BASATE SUI CONTENUTI DEL LAVORO

TEORIE DELLA MOTIVAZIONE INCENTRATE SUI PROCESSI

Teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow Teoria ERC di Alderfer Teoria dei bisogni di McClelland Teoria dei fattori duali di Herzberg

Teoria dell’equità di Adams Teoria dell’aspettativa di Vroom Teoria del goal setting

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La motivazione attraverso i contenuti del lavoro Bisogni: mancanze fisiologiche o psicologiche che causano un comportamento

Gran parte delle teorie motivazionali centrate sui contenuti del lavoro si basano sull’idea che la motivazione sia influenzata dai bisogni dei collaboratori. I bisogni sono esigenze fisiologiche o psicologiche che innescano un comportamento. Può trattarsi di necessità forti o deboli, che vengono influenzate da fattori ambientali, variando quindi nel tempo e nello spazio. Secondo la visione generale alla base delle teorie motivazionali fondate sui bisogni, gli individui sono motivati a perseguire il soddisfacimento di esigenze non soddisfatte. Passiamo ora a considerare quattro note teorie motivazionali basate su questa visione: la teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow, la teoria ERC di Alderfer, la teoria dei bisogni di McClelland e la teoria dei fattori duali di Herzberg.

La teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow Teoria della gerarchia dei bisogni: cinque bisogni primari (sopravvivenza, sicurezza, amore, stima, autorealizzazione) influenzano il comportamento

Nel 1943 lo psicologo Abraham Maslow pubblicava la sua ormai famosa teoria della gerarchia dei bisogni. Sebbene questa teoria si basasse sull’osservazione clinica di individui nevrotici, è stata utilizzata per spiegare il comportamento umano in generale. Maslow ipotizzava che la motivazione fosse funzione di cinque bisogni fondamentali, ossia: 1. Sopravvivenza. Bisogno di base. Include la disponibilità di cibo, aria e acqua sufficienti alla sopravvivenza. 2. Sicurezza. La necessità di essere protetti dal dolore psicologico e fisiologico. 3. Amore. Il desiderio di essere amati e riamare. Comprende il bisogno di affetto e appartenenza. 4. Stima. Bisogno di fama, prestigio e riconoscimento da parte degli altri. Include il bisogno di autostima e di forza. 5. Autorealizzazione. Desiderio di realizzarsi, di crescere al meglio delle proprie possibilità. Maslow sosteneva che queste cinque necessità fossero disposte in una gerarchia molto rigida, come si vede in figura 8-1. In altre parole, secondo lo studioso i bisogni umani si presentano in un ordine prevedibile. Di conseguenza, una volta che i bisogni fisiologici di una persona sono sufficientemente soddisfatti, emerge il bisogno di sicurezza, e così via risalendo lungo la scala dei bisogni, un passo alla volta. La soddisfazione di un bisogno attiva il bisogno successivo della gerarchia, e il processo continua finché non si arriva al bisogno di autorealizzazione.4 Anche se le ricerche non supportano esplicitamente questa teoria, vi sono due implicazioni manageriali fondamentali dell’ipotesi di Maslow sicuramente degne di nota. Innanzitutto, è importante che i manager si concentrino sul soddisfare i bisogni dei collaboratori legati all’autostima e all’autorealizzazione, perché la loro soddisfazione influenza in modo significativo i risultati e previene manifestazioni negative quali ansia, depressione e altri disturbi.5

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Figura 8-1 Gerarchia dei bisogni primari di Maslow

Autorealizzazione Stima Amore Sicurezza Fisiologici

In secondo luogo, un bisogno soddisfatto può perdere il suo potenziale motivazionale. I manager dovrebbero quindi fare attenzione a motivare le persone con programmi e proposte che tengano conto in modo attento dei bisogni emergenti. Molte aziende hanno reagito a questa raccomandazione offrendo ai propri dipendenti benefit mirati a soddisfarne i bisogni specifici.6

La teoria ERC di Alderfer

Teoria ERC: tre bisogni fondamentali (esistenza, relazione, crescita) influenzano il comportamento

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Verso la fine degli anni ‘60 Clayton Alderfer elaborò una teoria alternativa relativamente ai bisogni umani, che differisce da quella di Maslow in tre punti fondamentali. Innanzitutto, essa spiega il comportamento utilizzando un gruppo più ridotto di bisogni fondamentali, che, dal livello inferiore a quello superiore, possono essere definiti come bisogni esistenziali (E), ossia il desiderio di avere un benessere fisiologico e materiale; bisogni relazionali (R), il desiderio di intessere relazioni significative con persone importanti per l’individuo; bisogni di crescita (C), il desiderio di crescere come essere umano e di utilizzare le proprie capacità al massimo del proprio potenziale. Da qui la definizione di teoria ERC. Seconda differenza: la teoria ERC non presuppone che i bisogni siano correlati l’un l’altro in una scala gerarchica, come invece accadeva nella teoria di Maslow. Secondo Alderfer, infatti, più bisogni possono attivarsi contemporaneamente. Infine, la teoria ERC contiene una componente di frustrazione-regressione. Con questo si intende dire che la frustrazione dei bisogni di ordine superiore può influenzare il desiderio dei bisogni di ordine inferiore.7 Ad esempio, può succedere che dipendenti frustrati o insoddisfatti dalla qualità delle loro relazioni interpersonali al lavoro (bisogni di relazione) richiedano stipendi più elevati o benefit maggiori (bisogni di esistenza), regredendo al livello inferiore. Dalle ricerche che si sono occupate della teoria ERC emerge un sostegno non univoco nei confronti di alcune affermazioni fondamentali della teoria. Due sono, in ogni caso, le implicazioni manageriali fondamentali a essa associate. La prima ha a che fare con

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la frustrazione-regressione. I manager dovrebbero tenere conto del fatto che i collaboratori possono essere motivati a perseguire bisogni di livello inferiore perché frustrati nei bisogni di livello superiore. Ad esempio, la richiesta di aumenti di stipendio o di benefit può in realtà nascondere l’insofferenza verso un ambiente di lavoro soffocante. La seconda implicazione riguarda il fatto che la teoria ERC è coerente con la scoperta che le differenze culturali e individuali influenzano i bisogni soggettivi. Le persone sono motivate da bisogni diversi in momenti diversi della loro vita. Da ciò consegue che il management dovrebbe personalizzare i programmi di ricompensa in modo che essi corrispondano ai bisogni dei lavoratori, che variano nel tempo. Vediamo come gestisce questa raccomandazione Marc Albin, CEO di Albin Engineering Services. Per identificare a quali bisogni dei propri collaboratori rispondere, Albin usa un approccio non convenzionale. “In base alla mia esperienza di gestione del personale, ogni individuo è diverso dall’altro”, afferma Albin. “Alcune persone vogliono essere riconosciute per l’atteggiamento amichevole e per la capacità che hanno di creare relazioni nell’organizzazione. Altri desiderano che si riconosca la qualità del loro lavoro, altri ancora la quantità. Ad alcuni fa piacere ricevere un riconoscimento individuale, altri preferiscono che il plauso sia di gruppo.” Di conseguenza, alla fine di ogni sessione di orientamento con i dipendenti, Albin invia un’email ai neo-assunti chiedendo quali aspettative avessero nei confronti dell’azienda. “Mi aiuta a capire l’opinione che ognuno ha di sé e delle proprie capacità, e ne tengo nota in modo da dedicare a ciascuno un’attenzione speciale” racconta Albin. “Nessuno mi ha mai detto: mi basta avere un riconoscimento per qualsiasi cosa io faccia bene”.8

La teoria dei bisogni di McClelland David McClelland, noto psicologo, ha studiato la relazione esistente tra bisogni e comportamento sin dalla fine degli anni ’40. Sebbene sia più conosciuto per i suoi studi sul bisogno di realizzazione, egli si è occupato anche dei bisogni di affiliazione e di potere, che di seguito descriviamo separatamente. Bisogno di realizzazione: desiderio di ottenere qualcosa di difficile

Il bisogno di realizzazione Il bisogno di realizzazione (achievement) si può così descrivere: Ottenere qualcosa di difficile. Avere padronanza di un mestiere, saper manipolare o gestire oggetti fisici, coordinare persone o sviluppare idee. Fare questo in modo rapido e indipendente. Superare gli ostacoli e ottenere alti standard di prestazione. Superare i propri limiti. Confrontarsi con gli altri e sentirsi migliori. Incrementare il rispetto per se stessi utilizzando con successo le proprie doti naturali.9

Le persone orientate all’achievement hanno tre caratteristiche in comune: (1) preferiscono lavorare su compiti di difficoltà moderata; (2) amano le situazioni in cui la performance dipende dagli sforzi personali anziché da fattori esterni, come la fortuna, e (3) desiderano avere un feedback sui loro successi e insuccessi più intensamente rispetto alle altre persone. Un’analisi comparata sulla personalità “imprenditoriale”

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ha evidenziato che gli imprenditori hanno un maggiore bisogno di achievement in confronto ad altre persone.10 Bisogno di affiliazione: desiderio di trascorrere del tempo coltivando relazioni sociali e svolgendo attività

Il bisogno di affiliazione Le persone che hanno un accentuato bisogno di affiliazione dedicano più tempo al mantenimento delle relazioni sociali, alla vita di gruppo e alla ricerca di apprezzamento. Persone di questo tipo non sono completamento adatte a posizioni manageriali, perché tendono a evitare i conflitti, difficilmente riescono a prendere decisioni impopolari ed evitano di fornire feedback negativi.11

Bisogno di potere: desiderio di influenzare, guidare, insegnare o incoraggiare gli altri alla realizzazione

Il bisogno di potere Il bisogno di potere riflette il desiderio individuale di influenzare, guidare, insegnare o incoraggiare gli altri a realizzarsi. Le persone con un accentuato bisogno di potere amano lavorare e tengono in alta considerazione la disciplina e il rispetto per se stessi. Si tratta di un bisogno che esprime aspetti positivi e negativi. Il lato negativo del bisogno di potere è dato dalla prevalenza di una mentalità del tipo “se io vinco, tu perdi”. Viceversa, le persone con un orientamento positivo nei confronti del potere si concentrano sull’ottenimento di obiettivi di gruppo e sul fatto di aiutare i collaboratori a sentirsi competenti. Parleremo delle due facce del potere in modo più dettagliato nel Capitolo 13. Se è vero che un manager di successo deve saper influenzare positivamente gli altri, McClelland ipotizza che queste posizioni debbano essere ricoperte da persone in cui coesistano un alto bisogno di potere e un minore bisogno di affiliazione. Implicazioni manageriali Dal momento che è possibile formare un individuo adulto ad accrescere la propria motivazione all’achievement,12 ogni organizzazione dovrebbe prendere in considerazione i benefici di un programma interno mirato a tale scopo. È inoltre opportuno tenere in considerazione i bisogni individuali di achievement, di affiliazione e di potere nel corso della selezione, per assegnare al meglio le posizioni lavorative. Una ricerca, ad esempio, ha rivelato che il bisogno di achievement individuale influenza la scelta di lavorare in aziende diverse. Le persone caratterizzate da un bisogno accentuato di achievement sono più attratte dalle aziende in cui stipendi e remunerazioni siano commisurate alla prestazione rispetto a chi ha bassa motivazione all’achievement.13 Infine, è importante ricercare un equilibrio tra queste raccomandazioni e gli aspetti negativi di un bisogno accentuato di achievement. McClelland ha notato che gli individui caratterizzati da un elevato bisogno di achievement potrebbero essere disposti a “ingannare, imboccare scorciatoie ed escludere gli altri.” Ha inoltre sottolineato che alcuni “sono talmente concentrati sul rapido raggiungimento dell’obiettivo da non preoccuparsi troppo dei mezzi utilizzati per raggiungerlo.”14

La teoria dei fattori duali di Herzberg La teoria di Frederick Herzberg si basa su uno studio in cui il ricercatore intervistò 203 tra contabili e ingegneri, con l’obiettivo di determinare i fattori responsabili della soddisfazione e dell’insoddisfazione lavorativa.15 Herzberg rintracciò due gruppi distinti di fattori associati alla soddisfazione e all’insoddisfazione sul lavoro. La soddisfazione poteva essere associata più di frequente con l’achievement, il riconoscimento, le caratte-

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Fattori motivanti: caratteristiche del lavoro connesse alla soddisfazione lavorativa

Fattori igienici: caratteristiche del lavoro connesse all’insoddisfazione lavorativa

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ristiche del lavoro, la responsabilità e l’avanzamento di carriera. Ognuno di questi fattori è correlato alle conseguenze associate al contenuto del compito da svolgere. Herzberg li definì fattori motivanti, perché ognuno di essi risultava associato a un forte impegno e a buone prestazioni. Lo studioso ipotizzò che i fattori motivanti portassero la persona a passare da uno stadio di mancanza di soddisfazione a uno di soddisfazione (figura 8-2). La teoria di Herzberg perciò prevede che i manager possano riuscire a motivare i collaboratori inserendo dei fattori motivanti nel lavoro di ciascuno. Herzberg rilevò inoltre una correlazione tra l’insoddisfazione sul lavoro e fattori interni al contesto lavorativo o ambiente. Nello specifico, politiche aziendali e vincoli burocratici, supervisione tecnica, stipendi, relazioni interpersonali dell’individuo con il proprio superiore e condizioni lavorative risultano essere i fattori nominati più di frequente dai collaboratori che si dichiarano insoddisfatti dal lavoro. Herzberg ha definito questo secondo gruppo di elementi come fattori igienici. Ha inoltre ipotizzato che questi fattori non fossero di per sé motivanti. Per lo studioso, al più gli individui non sperimentano insoddisfazione lavorativa quando non hanno rimostranze sui fattori igienici (figura 8-2). Electronics Art, sviluppatore, editore e distributore di videogiochi a livello internazionale, applica strategie che contrastano con questo aspetto della teoria di Herzberg. Il management cerca di accrescere la soddisfazione del personale e ridurre il turnover creando fattori igienici positivi con iniziative che comprendono: (1) autorizzare i collaboratori a portare gli animali domestici al lavoro; (2) organizzare in sede eventi sportivi dedicati al basket, al calcio e al beachvolley durante la giornata di lavoro; (3) creare sale in cui i dipendenti possono giocare a ping pong, al biliardo e

Figura 8-2 Modello dei fattori motivanti e igienici di Herzberg

Fattori motivanti Non soddisfazione Lavori che non offrono realizzazione, riconoscimento, compiti stimolanti, responsabilità e avanzamenti di carriera.

Fonte: adattato in parte da D.A. Whitsett e E.K. Winslow, “An Analysis of Studies Critical of the Motivator-Hygiene Theory,” Personnel Psychology, inverno 1967, pp. 391-415.

Soddisfazione Lavori che offrono realizzazione, riconoscimento, compiti stimolanti, responsabilità e avanzamenti di carriera.

Fattori igienici Insoddisfazione Lavori con cattive politiche aziendali e amministrative, supervisione tecnica, stipendio, relazioni interpersonali con i superiori e condizioni lavorative.

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Non insoddisfazione Lavori con buone politiche aziendali e amministrative, supervisione tecnica, stipendio, relazioni interpersonali con i superiori e condizioni lavorative.

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con videogiochi; (4) istituire un centro dove i collaboratori possono prendere in prestito gratuitamente videogiochi, film, libri e riviste recenti e (5) offrire una palestra con lezioni di fitness di gruppo.16 La chiave per comprendere al meglio la teoria di Herzberg relativa ai fattori motivanti e igienici è riconoscere che per lo studioso la soddisfazione non è l’opposto dell’insoddisfazione. La mancanza dei fattori igienici conduce all’insoddisfazione, ma non necessariamente la loro presenza porta alla motivazione, così come i fattori motivanti non sempre arginano l’insoddisfazione.17 Herzberg sostiene quindi che il continuum insoddisfazione-soddisfazione contiene un punto zero centrale nel quale mancano entrambi questi fattori. Si potrebbe assumere come posizione zero quella di un membro dell’organizzazione che lavora in buone condizioni, con uno stipendio adeguato e un superiore accettabile, ma svolge un compito poco stimolante e ha scarse possibilità di avanzamento. Questa persona non sarà insoddisfatta (perché i fattori igienici sono positivi), ma nemmeno soddisfatta (per la carenza di fattori motivanti). La teoria di Herzberg ha dato vita a molte controversie, stimolando il progredire della ricerca sull’argomento.18 I risultati degli studi successivi non sempre confermano l’aspetto bi-fattoriale della teoria, né l’idea che i fattori igienici non siano legati alla soddisfazione lavorativa. La teoria ha comunque due implicazioni molto importanti. Anzitutto, i manager dovrebbero prestare attenzione sia ai fattori igienici che ai fattori motivanti, perché sono entrambi correlati alla soddisfazione lavorativa dei collaboratori. Lauren Dixon, CEO di Dixon Schawbl, segue esattamente questo approccio per mantenere la motivazione e la soddisfazione dei dipendenti: nel 2010 la Dixon Schawbl si è classificata come la migliore piccola azienda per la quale lavorare. In secondo luogo, il riconoscimento delle buone performance è essenziale, soprattutto durante le fasi economiche negative, quando è raro che si concedano aumenti di stipendio. È importante premiare i comportamenti e i risultati legati agli obiettivi dell’organizzazione.

Le teorie motivazionali incentrate sui processi Nella prima parte del capitolo abbiamo illustrato le teorie motivazionali incentrate sui contenuti del lavoro, basate su orientamenti individuali; ora cercheremo di fare un passo successivo spiegando i processi attraverso cui i fattori interni influenzano la motivazione. Questi processi sono di natura cognitiva, cioè si fondano sulla premessa secondo la quale la motivazione è una funzione delle percezioni, dei pensieri e delle credenze dei collaboratori. Passiamo ora a esaminare le tre principali teorie motivazionali incentrate sui processi cognitivi: la teoria dell’equità, la teoria dell’aspettativa e la teoria del goal setting.

La teoria motivazionale dell’equità di Adams Teoria dell’equità: sostiene che la motivazione sia funzione della imparzialità negli scambi sociali

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Per dare una definizione generica, la teoria dell’equità è un modello della motivazione secondo cui le persone negli scambi sociali o nelle relazioni del tipo dare-avere cercano l’imparzialità e la giustizia. Essendo una teoria motivazionale incentrata sui processi, la teoria dell’equità spiega come la motivazione degli individui ad agire in un certo modo

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sia alimentata da sentimenti di iniquità e mancanza di giustizia. Per esempio, i sostenitori di WikiLeaks hanno sferrato attacchi cibernetici contro i siti web di MasterCard e Visa perché ritengono che queste società abbiano ingiustamente tentato di ostacolare la divulgazione di rapporti diplomatici segretati del governo statunitense. Entrambi i siti web sono stati temporaneamente non disponibili a seguito di questi attacchi.19 Lo psicologo J. Stacey Adams è stato pioniere nell’applicazione del principio di equità sul posto di lavoro. Per capire la teoria motivazionale dell’equità di Adams è necessario conoscere le quattro componenti della relazione di scambio tra individuo e organizzazione.

La relazione di scambio tra individuo e organizzazione Adams indica due componenti primarie della relazione collaboratore-datore di lavoro, gli input e gli output. Gli input del collaboratore, per i quali questi si aspetta un’equa ricompensa, sono la formazione, le abilità, la creatività, l’anzianità, l’età, i tratti della personalità, lo sforzo e la presenza. Per quanto concerne gli output, invece, è l’organizzazione a fornirli sotto forma di stipendi, benefit e riconoscimenti, compiti sfidanti, sicurezza del lavoro, promozioni, status symbol e partecipazione in decisioni importanti.

Iniquità negativa e positiva Sul lavoro, le sensazioni di iniquità riguardano la misura in cui una persona ritiene di ricevere un trattamento adeguato che compensa i contributi forniti. Le persone fanno questo tipo di valutazioni confrontando l’equità percepita del loro scambio lavorativo con quella attribuita ad altri individui che per loro costituiscono un riferimento.20 Questo processo comparativo, che si basa su una norma di equità, generalmente assume forme variabili in personalità e nazioni diverse.21 Le persone tendono a confrontarsi con individui a cui sono legate personalmente (come gli amici) o con cui hanno qualcosa in comune (come coloro che fanno lo stesso lavoro o sono dello stesso sesso o hanno lo stesso titolo di studio) e non con persone differenti o lontane. Per esempio, gli autori di questo libro non confrontano i propri stipendi con quello dell’allenatore della squadra di football della Arizona State University, ma certamente li raffrontano a quelli di altri professori universitari. Sulla scorta di questa considerazione, apriamo una parentesi su un’interessante tendenza nell’ambito della professione legale. I grandi studi legali hanno adottato la prassi di concedere “stipendi astronomici agli avvocati di punta, in alcuni casi dieci volte superiori a quelli concessi ad altri, seguendo una strategia che sta aprendo un vero e proprio divario nella retribuzione e mettendo a dura prova il morale […] Sebbene il divario retributivo sia sempre esistito, in passato i partner che detenevano quote di proprietà ricevevano stipendi simili agli altri per favorire un approccio di squadra ed evitare possibili risentimenti.”22 La figura 8-3 illustra tre diverse tipologie di equità: equità, iniquità negativa e iniquità positiva. Presupponiamo che le due persone in ciascuna relazione di equità della figura 8-3 abbiano background equivalenti (istruzione, anzianità, e così via) e che svolgano compiti identici. L’unica differenza tra loro è la retribuzione. L’equità sussiste quando

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A. Situazione equa

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

B. Iniquità negativa

Se stesso

Se stesso

L’altro

L’altro

Risultati Input Risultati Input

Risultati Input Risultati Input

$2 = $ 2 all’ora 1 ora

$4 = $ 2 all’ora 2 ore

$2 = $ 2 all’ora 1 ora

$3 = $ 3 all’ora 1 ora

C. Iniquità positiva Se stesso

L’altro

Risultati Input Risultati Input

$3 = $ 3 all’ora 1 ora

$2 = $ 2 all’ora 1 ora

Figura 8-3 Iniquità positiva e negativa

Iniquità negativa: confronto nel quale un’altra persona riceve compensi migliori a parità di input Iniquità positiva: confronto nel quale un’altra persona riceve compensi peggiori a parità di input

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il rapporto tra gli output percepiti e gli input dell’individuo è pari al rapporto tra gli output e gli input di un collega rilevante (parte A nella figura 8-3). Dato che l’equità si basa sul confronto tra il rapporto tra output e input, l’iniquità non sarà necessariamente percepita solo perché qualcuno riceve ricompense superiori. Se i risultati migliori sono riferibili a input maggiori, può comunque esistere un senso di equità. Se invece, il termine di paragone riceve output migliori a parità di input, allora verrà percepita una iniquità negativa (parte B nella figura 8-3). D’altra parte, una persona proverà una iniquità positiva se il rapporto tra output e input nel proprio caso è superiore rispetto a quello di un collega rilevante (parte C nella figura 8-3). Aspetto interessante, un clima economico negativo può determinare sentimenti di iniquità positiva per i sopravvissuti alle operazioni di ridimensionamento del personale, che si sentono fortunati ad aver conservato il posto di lavoro. Ridurre l’iniquità I rapporti di equità possono essere cambiati cercando di variare gli output o gli input di un individuo. L’iniquità negativa, ad esempio, può essere eliminata

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chiedendo un aumento o una promozione (ossia, aumentando gli output) o riducendo gli input (quindi lavorando meno ore o mettendoci meno impegno). È anche importante notare che l’equità può essere ristabilita agendo sugli individui in senso comportamentale o cognitivo, oppure in entrambi i sensi. Una strategia cognitiva implica, ad esempio, la distorsione psicologica delle percezioni di una persona nei confronti del rapporto proprio e degli altri tra output e input (ad esempio, comprendendo che la persona di confronto ha più esperienza o lavora di più).23 È importante notare che le persone cercano l’equità anche in veste di consumatori, utilizzando in misura crescente i social media per presentare i propri reclami rispetto a situazioni di iniquità. Reclami di questo tipo possono diventare virali e determinare una visione negativa del marchio. Per contrastare questa tendenza, le organizzazioni hanno iniziato a monitorare i contenuti pubblicati online e a fornire risposte adeguate.24

Espandere il concetto di equità: la giustizia organizzativa

Giustizia distributiva: la giustizia percepita dal modo in cui le risorse e le ricompense vengono distribuite Giustizia procedurale: la giustizia percepita dal processo e dalle procedure utilizzate per prendere decisioni di allocazione delle risorse

Giustizia interazionale: la misura in cui le persone si sentono trattate in modo equo nell’applicazione delle procedure

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I ricercatori hanno iniziato dalla fine degli anni ’70 a espandere il ruolo della teoria dell’equità nella spiegazione degli atteggiamenti e dei comportamenti del collaboratore, cosa che ha portato alla creazione di un ambito di ricerca chiamato giustizia organizzativa. Quest’ultima riflette la misura in cui le persone percepiscono di essere trattate equamente sul lavoro. Ciò, a sua volta, porta a identificare tre diverse componenti della giustizia organizzativa: distributiva, procedurale e interazionale.25 La giustizia distributiva riflette l’equità percepita riguardo alla modalità con cui le risorse e le ricompense vengono distribuite o assegnate. La giustizia procedurale viene definita come l’equità percepita del processo e delle procedure usate nelle decisioni di allocazione delle risorse. La ricerca dimostra che le percezioni positive della giustizia distributiva e procedurale aumentano se si dà al collaboratore la possibilità di intervenire nelle decisioni che lo riguardano. La possibilità di dar “voce” ai collaboratori rappresenta la misura in cui coloro che sono coinvolti dall’esito di una decisione possono disporre di informazioni rilevanti sulle decisioni prese da altri, e corrisponde a chiedere ai collaboratori di contribuire al processo decisionale. L’ultima componente, la giustizia interazionale, riguarda la “qualità del trattamento interpersonale che le persone ricevono quando vengono applicate le procedure”.26 Questa forma di giustizia non si riferisce ai risultati o alle procedure associate al processo decisionale: essa si concentra invece sulla percezione che le persone hanno di essere trattate equamente o meno nell’applicazione delle decisioni. Un trattamento interpersonale per essere considerato equo richiede che il manager comunichi in modo limpido e sincero e tratti le persone con cortesia e rispetto. Sono molte le ricerche sulla giustizia organizzativa condotte negli ultimi 20 anni, ma esistono per fortuna quattro recenti meta-analisi che riassumono i risultati di oltre 200 ricerche.27 Sono emerse le seguenti tendenze generali: (1) la prestazione lavorativa è positivamente associata alla giustizia distributiva e procedurale, ma quest’ultima permetterebbe di prevedere meglio i risultati; (2) tutte e tre le forme di giustizia sono positivamente correlate con la soddisfazione lavorativa, il commitment, i comportamenti di cittadinanza organizzativa e la lealtà dei collaboratori; correlazioni negative invece si sono riscontrate con il desiderio di lasciare l’azienda da parte dei collaboratori e il

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tasso di turnover; (3) l’ingiustizia distributiva e quella procedurale sono state associate con emozioni negative come la rabbia; infine, tutte e tre le forme di giustizia sono negativamente associate a comportamenti aggressivi nell’ambiente di lavoro.28 Questi risultati suggeriscono ai manager una molteplicità di importanti indicazioni pratiche.

Implicazioni pratiche derivanti dalla teoria dell’equità La teoria dell’equità ha perlomeno sei importanti implicazioni pratiche. Innanzitutto, la ricerca enfatizza la necessità che il manager faccia attenzione alle percezioni dei propri collaboratori su cosa sia giusto ed equo. Non ha importanza quanto politiche, procedure e sistemi di ricompensa aziendali siano effettivamente obiettivi per il management: ciò che conta è la percezione del singolo collaboratore sull’equità di ciascuno di questi fattori. Uno studio condotto su un campione di 3000 lavoratori statunitensi ha evidenziato che il 39% ritiene di essere sottopagato e solo il 37% si sente apprezzato dal datore di lavoro.29 I manager dovrebbero quindi prendere qualsiasi decisione che riguardi assunzioni o promozioni in base al merito del dipendente e a informazioni pertinenti con il lavoro e dedicare maggiore attenzione e tempo all’assegnazione di riconoscimenti positivi per il comportamento e le prestazioni dei collaboratori. Inoltre, dato che le impressioni sulla giustizia sono influenzate dalla misura in cui i manager motivano le decisioni che prendono, questi ultimi dovrebbero spiegare, per quanto possibile, le loro motivazioni. In secondo luogo, i manager possono beneficiare dal coinvolgimento dei collaboratori nei processi decisionali che riguardano importanti risultati lavorativi. In generale, le percezioni dei collaboratori sulla giustizia procedurale sono migliori se essi hanno “voce” in capitolo nel processo decisionale. Si consiglia ai manager di chiedere ai collaboratori un’opinione in merito a cambiamenti organizzativi che possono determinare delle conseguenze sul loro operato. Terza considerazione, i collaboratori dovrebbero avere la possibilità di fare appello relativamente a decisioni che riguardano la loro situazione: tale opportunità incoraggia le percezioni di giustizia distributiva e procedurale. Quarta implicazione pratica, i manager possono promuovere la cooperazione e il lavoro di gruppo adottando un comportamento imparziale nei confronti dei membri del proprio team. Le ricerche rivelano che gli individui si preoccupano allo stesso modo dell’equità nella composizione dei gruppi e dei propri interessi personali.30 Quinta implicazione, le percezioni di giustizia dei dipendenti sono fortemente influenzate dal comportamento di leadership assunto dai manager (analizzeremo la leadership nel Capitolo 16). È dunque essenziale per i manager considerare le conseguenze sulla percezione di giustizia di decisioni, azioni e comunicati pubblici. Infine, i manager devono prestare attenzione al clima organizzativo relativamente alla giustizia. Si è riscontrato, ad esempio, che un clima di giustizia all’interno di un’organizzazione influenza in modo significativo il commitment e la soddisfazione lavorativa dei collaboratori.31 I ricercatori credono inoltre che un clima equo possa influire in modo significativo sulla qualità del servizio al consumatore; a sua volta, questa caratteristica si riflette sulla percezione che i clienti hanno del “giusto servizio” e sulla loro conseguente lealtà e soddisfazione.

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I manager possono dunque cercare di rispettare questi consigli monitorando le percezioni di equità e giustizia, tramite conversazioni informali, colloqui e indagini sugli atteggiamenti. I ricercatori hanno elaborato e convalidato molti metodi che possono essere utilizzati a tale scopo.

La teoria dell’aspettativa di Vroom Teoria dell’aspettativa: sostiene che le persone sono motivate ad assumere un comportamento che produce risultati ritenuti importanti

La teoria dell’aspettativa dice che le persone sono motivate a comportarsi in modi che producano combinazioni desiderate di risultati attesi. Parlando in termini generali, la teoria dell’aspettativa può essere utilizzata per prevedere il comportamento in ogni situazione in cui si debba compiere una scelta tra due o più alternative possibili. Può essere utilizzata, ad esempio, per prevedere se sia il caso di lasciare o di tenere un posto di lavoro; se esercitare uno sforzo minimo o notevole nell’esecuzione di un compito, se specializzarsi in management, informatica, contabilità, marketing, psicologia o comunicazione. Victor Vroom ha formulato un modello matematico della sua teoria dell’aspettativa nell’opera Work and Motivation, pubblicata nel 1964.32 La teoria di Vroom è stata così riassunta: “La forza di una tendenza a comportarsi in un determinato modo dipende dalla forza di una aspettativa che l’individuo nutre nei confronti di una data conseguenza (o risultato) e dal valore o attrattiva di tale conseguenza (o risultato) per chi compie l’atto.”33 La motivazione, secondo Vroom, si riassume nella decisione della quantità di sforzo da esercitare in una determinata situazione. Tale scelta si basa su una sequenza bifasica di aspettative (sforzo → prestazione e prestazione → risultato). Innanzitutto, la motivazione è influenzata dall’aspettativa da parte dell’individuo che un certo livello di sforzo produrrà il previsto obiettivo di prestazione. Se, ad esempio, non siete convinti che aumentare il tempo passato sui libri possa alzare in modo rilevante la vostra votazione finale, probabilmente non studierete più del solito. La motivazione è influenzata anche dalle possibilità percepite dal collaboratore di ottenere diversi risultati in seguito all’ottenimento dei propri obiettivi di prestazione. L’individuo è motivato, infine, anche dal valore che assegna ai risultati. Vroom ha utilizzato una equazione matematica per integrare i concetti esposti sinora in un modello che prevedesse la forza motivazionale. Ai nostri scopi è però sufficiente definire e spiegare i tre concetti chiave del modello di Vroom: aspettativa, strumentalità e valenza.

Aspettativa Aspettativa: convinzione che l’impegno porti a un determinato livello di prestazione

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Un’aspettativa, in base alla terminologia utilizzata da Vroom, rappresenta la convinzione dell’individuo per cui un determinato livello di sforzo comporterà un certo livello di prestazione. In altre parole, si tratta di un’aspettativa sforzo → prestazione. Le aspettative prendono la forma di probabilità soggettive. Come saprete dallo studio della statistica, le probabilità vanno da zero a uno. Un’aspettativa pari a zero indica che lo sforzo non esercita alcun impatto preventivo sulla prestazione.

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Supponiamo, ad esempio, che non abbiate memorizzato la disposizione delle lettere sulla tastiera. A prescindere dallo sforzo esercitato, la probabilità percepita di digitare 30 parole al minuto senza errori sarà probabilmente pari a zero. Un’aspettativa pari a 1 fa pensare che la prestazione dipenda totalmente dallo sforzo. Se avete deciso di memorizzare la disposizione delle lettere sulla tastiera e di fare esercizio un paio di ore al giorno per qualche settimana (impegno alto), dovreste essere in grado di digitare 30 parole al minuto senza errori. Se, invece, non avete memorizzato le lettere e avete semplicemente fatto pratica un’ora o due per settimana (sforzo basso), la probabilità di riuscire a digitare 30 parole al minuto senza errori è molto bassa (diciamo intorno al 20%). Ecco i fattori che influiscono sulle percezioni di aspettativa del collaboratore: 1. 2. 3. 4. 5. 6.

autostima; auto-efficacia (vedi l’analisi condotta nel Capitolo 5); successi già ottenuti in passato nello svolgimento dello stesso compito; assistenza da parte del superiore e dei subordinati; padronanza delle informazioni necessarie per portare a termine il compito; disponibilità di buoni materiali e attrezzature per lavorare.34

Strumentalità Strumentalità: percezione di causalità tra prestazione e risultato

La strumentalità è una percezione di consequenzialità tra prestazione e risultato. Rappresenta la convinzione da parte di una persona che un particolare risultato dipenda dal raggiungimento di uno specifico livello di prestazione. La prestazione è strumentale quando conduce a qualcos’altro. Per esempio, passare un esame è strumentale a laurearsi. La strumentalità varia da –1 a 1. Una strumentalità pari a 1 indica che l’ottenimento di un determinato risultato dipende totalmente dalla prestazione nello svolgimento di un compito. Se invece la strumentalità è pari a 0, non c’è relazione tra la prestazione e il risultato. Le aziende, ad esempio, nella stragrande maggioranza mettono in relazione il numero di giorni di vacanza all’anzianità di servizio e non alla prestazione sul lavoro. Una strumentalità pari a –1, infine, rivela che un’alta prestazione riduce la possibilità di ottenere un risultato mentre un basso livello di prestazione l’aumenta. Ad esempio, più tempo trascorrete a studiare per prendere 30 all’esame (alta prestazione), meno tempo avrete per divertirvi. Analogamente, diminuendo il tempo trascorso a studiare (bassa prestazione), aumenterà il tempo da poter dedicare alle attività ricreative.

Valenza Valenza: valore di una ricompensa o di un risultato

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Nel senso usato da Vroom, la valenza si riferisce al valore positivo o negativo che le persone assegnano ai risultati. La valenza riflette le nostre preferenze personali. Ad esempio, molti collaboratori assegnano valenza positiva al fatto di ricevere del denaro in più in riconoscimento dei propri meriti. Al contrario, lo stress lavorativo e il fatto di essere licenziati risulterebbero probabilmente come valenza negativa per molti individui. Nel modello delle aspettative di Vroom, i risultati si riferiscono a diverse conseguenze

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che dipendono dalla prestazione, come lo stipendio, le promozioni o i riconoscimenti. La valenza di un risultato dipende dalle necessità dell’individuo e si può misurare a scopi di ricerca con scale che variano da un valore negativo a uno positivo. Ad esempio la valenza di un individuo nei confronti di un maggiore riconoscimento può essere valutata su una scala che varia tra –2 (molto indesiderabile), 0 (neutro) e +2 (molto desiderabile).

La teoria dell’aspettativa in azione Si può utilizzare il modello motivazionale elaborato da Vroom per analizzare un piano motivazionale reale. Prendiamo, ad esempio, la seguente descrizione di un problema legato alle prestazioni, dalle parole di Frederick W Smith, fondatore e CEO della Federal Express Corporation: Avevamo un sacco di problemi a rispettare i tempi. Gli aerei atterravano e tutto il resto veniva posticipato. Abbiamo provato ogni tipo di meccanismo di controllo pensabile e immaginabile, ma non ce n’era uno che funzionasse. Alla fine è diventato ovvio che alla base di tutto stava un fatto: era nell’interesse dei collaboratori al terminal (quasi tutti studenti) tirar per le lunghe, perché fare più ore significava guadagnare di più. Allora cosa abbiamo fatto? Abbiamo assegnato a tutti un minimo garantito dicendo loro “Guarda, se finisci prima, vai pure a casa, e avrai avuto la meglio sul sistema”. Beh, il risultato è stato incredibile. Nel giro di 45 giorni eravamo in anticipo sulla tabella di marcia. E non credo nemmeno che da parte dei collaboratori si sia trattato di una reazione consapevole.35

Come ha fatto la Federal Express a indurre i suoi collaboratori addetti al carico a passare da uno sforzo minimo a uno sforzo elevato? In base al modello di Vroom, i lavoratori studenti esercitavano inizialmente un basso livello di sforzo perché erano pagati a ore e non a seconda del risultato. Era quindi nel loro interesse lavorare lentamente e accumulare più ore possibile. Dando loro la possibilità di andare a casa in anticipo una volta completati i compiti assegnati, la Federal Express ha incentivato uno sforzo maggiore da pare dei collaboratori. Questo nuovo accordo tra le parti comportava due risultati valutati positivamente: lo stipendio assicurato e la possibilità di andarsene prima. La motivazione a impegnarsi di più diventava maggiore rispetto a quella che spingeva a impegnarsi di meno. Giudicando dai risultati sorprendenti ottenuti dall’azienda, gli studenti lavoratori avevano sia elevate aspettative sforzo → prestazione, sia una strumentalità positiva prestazione → risultato. Inoltre, uno stipendio garantito e l’opportunità di andarsene in anticipo comportava evidentemente valenze estremamente positive per gli studenti lavoratori.

Ricerca sulla teoria dell’aspettativa e implicazioni a livello manageriale Molti ricercatori hanno sottoposto a verifica la teoria dell’aspettativa. A sostegno della teoria, un’analisi comparata condotta su 77 studi ha evidenziato che essa permette di prevedere in modo significativo la prestazione, lo sforzo, le intenzioni, le preferenze e

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Tabella 8-2 Implicazioni manageriali e organizzative della teoria dell’aspettativa Implicazioni per i manager

Implicazioni per le organizzazioni

Comprendere i risultati a cui i collaboratori danno valore.

Ricompensare le persone per le prestazioni desiderate e non tenere segrete le decisioni che riguardano le retribuzioni Progettare il lavoro in modo sfidante.

Identificare una buona prestazione cosicché i comportamenti appropriati possano essere premiati. Assicurarsi che i collaboratori possano raggiungere i livelli di prestazione previsti. Collegare i risultati desiderati a livelli di prestazione posti come obiettivo. Assicurarsi che le variazioni nei risultati siano di entità sufficiente a motivare uno sforzo impegnativo. Monitorare il sistema di ricompense, per evitare le iniquità.

Legare alcune ricompense a risultati di gruppo per incentivare il lavoro di team e la cooperazione. Ricompensare i manager che creano, controllano e mantengono aspettative, strumentalità, e risultati che portano a grandi sforzi e al raggiungimento degli obiettivi. Tenere sotto controllo il livello di motivazione dei collaboratori con interviste o questionari anonimi. Adattarsi alle differenze individuali rendendo flessibili i programmi motivazionali.

la scelta.36 In linea generale, l’idea che legare i riconoscimenti a obiettivi mirati eserciti un’influenza sul comportamento e sugli atteggiamenti gode di un ampio consenso.37 Nonostante tali risultati positivi, la teoria dell’aspettativa è stata criticata per molti motivi. Ad esempio, perché è difficile da sottoporre a verifica, e le misure utilizzate per testare l’aspettativa, la strumentalità e la valenza hanno una validità discutibile. In conclusione, comunque, la teoria dell’aspettativa ha importanti implicazioni pratiche per i manager dal punto di vista individuale e per le organizzazioni nel loro complesso (vedi tabella 8-2). I manager dovrebbero sostenere il legame tra sforzo e prestazione aiutando i collaboratori a raggiungere i loro obiettivi. Questo risultato si può ottenere fornendo loro supporto e coaching per migliorare la loro auto-efficacia. È inoltre importante che il manager influenzi le strumentalità del collaboratore e ne monitori le valenze nei confronti di diverse ricompense. In sintesi, non esiste una ricompensa migliore in senso assoluto: le differenze individuali e le teorie dei bisogni ci dicono che gli individui sono motivati da ricompense diverse. Per esempio, un’indagine recente su 1047 lavoratori operanti in diversi settori ha rivelato che gli incentivi non monetari come i complimenti, i riconoscimenti dei leader e i compiti di coordinamento dei progetti sono più efficaci nel motivare i dipendenti rispetto agli incentivi monetari.38 Questa considerazione è vera anche per voi? A nostro parere, alcune persone preferiscono i riconoscimenti non monetari, mentre altre prediligono gli incentivi monetari. I manager dovrebbero quindi legare la prestazione dei dipendenti a riconoscimenti ritenuti preziosi a prescindere dal tipo di ricompensa offerto per accrescere la motivazione.

La motivazione attraverso il goal setting A prescindere dalle personali propensioni, le persone di successo tendono ad avere una cosa in comune: la loro vita è orientata all’obiettivo. Consideriamo il caso di Mike Proulx: “Quando, negli anni ’60, Mike era un adolescente e imbustava prodotti alimentari, decise

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che sarebbe diventato presidente di Bashas. [Bashas è una catena di supermercati non quotata con oltre 150 punti vendita in Arizona] Da tre anni è questo il suo lavoro. […] ‘Quando avevo 18 anni ho stabilito una serie di obiettivi, prefissandomi che alla tale età sarei diventato direttore di negozio, poi manager di distretto, vicepresidente e infine presidente’, racconta Mike.”39 Come modello di processo della motivazione, la teoria del goal setting spiega come la semplice determinazione di obiettivi attivi un potente processo motivazionale che determina performance elevate e sostenute. La presente sezione indaga la teoria e le ricerche legate al goal setting, mentre le applicazioni pratiche sono trattate nel Capitolo 9.

Obiettivi: definizione e antecedenti Obiettivo: ciò che l’individuo tenta di realizzare

Edwin Locke, un’autorità nel campo della definizione degli obiettivi, ha dato insieme ai suoi collaboratori una definizione del termine obiettivo (goal): “ciò che un individuo sta tentando di realizzare; l’oggetto o scopo di un’azione”.40 L’impatto motivazionale degli obiettivi di prestazione e dei piani di ricompensa basati sul raggiungimento degli obiettivi è stato riconosciuto molti anni or sono. All’inizio del XX secolo, Frederick Taylor tentò di determinare scientificamente quanto lavoro di una certa qualità si possa assegnare a un individuo giornalmente, proponendo di basare l’assegnazione di bonus al raggiungimento di uno standard di risultato, come vedremo nella sezione successiva del presente capitolo. Più di recente, il goal setting è stato promosso grazie all’uso di una tecnica di management molto diffusa, chiamata management by objectives (MBO). L’applicazione dell’MBO è delineata nel Capitolo 9.

Come funziona il goal setting? Nonostante esista un’enorme mole di ricerche e di pratiche che si sono occupate del goal setting, le teorie sono sorprendentemente scarse. Locke e i suoi seguaci hanno elaborato però un modello interessante. In base a questo, la definizione degli obiettivi consta di quattro meccanismi motivazionali. Gli obiettivi focalizzano l’attenzione Gli obiettivi focalizzano l’attenzione e gli sforzi verso attività rilevanti per il raggiungimento degli obiettivi stessi, distogliendoli da quelle irrilevanti. Se, ad esempio, dovete consegnare una tesina tra pochi giorni, i vostri pensieri tenderanno a rimanere concentrati sul completamento di quel compito. In realtà, però, spesso lavoriamo al raggiungimento di più obiettivi e diventa essenziale assegnare le giuste priorità per distribuire efficacemente gli sforzi nel tempo.41 Gli obiettivi regolano lo sforzo Gli obiettivi non solo ci rendono percettivi in modo selettivo, ma ci motivano anche all’azione. Il termine stabilito dal docente per la consegna della tesina vi spronerebbe a completarla anziché uscire con gli amici, guardare la televisione o studiare per un altro corso. In generale, il livello di sforzo impiegato è proporzionale alla difficoltà dell’obiettivo.

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Gli obiettivi aumentano la tenacia Nel contesto della definizione degli obiettivi, la tenacia rappresenta lo sforzo impiegato per l’esecuzione di un compito sul lungo termine. Correre i 100 metri comporta uno sforzo, mentre correre la maratona comporta un notevole livello di determinazione. Le persone tenaci tendono a considerare gli ostacoli come sfide da superare, più che come motivi per non farcela. Un obiettivo difficile, se importante per un individuo, costituisce un costante promemoria a continuare a impegnarsi nella giusta direzione. Gli obiettivi incentivano lo sviluppo e l’applicazione di piani d’azione e strategie Se voi siete qui e il vostro obiettivo è da qualche parte là fuori, il problema che dovete affrontare è superare la distanza che vi separa. Per esempio, pensate alle sfide legate all’inizio di una nuova attività. Il vostro obiettivo è guadagnare profitti, ampliare l’attività o fare del mondo un posto migliore? Per raggiungerlo dovrete prendere molte decisioni e portare a termine numerosissimi compiti. Gli obiettivi possono aiutare, perché incoraggiano le persone a elaborare strategie e piani d’azione che possano metterli nelle condizioni di raggiungerli. Una serie di studi condotti in Sud Africa, Zimbabwe e Namibia ha riscontrato che le piccole aziende avevano più probabilità di crescere e ottenere successo se i proprietari si dedicavano ad attività di “pianificazione complessa e proattiva.”42

Implicazioni pratiche delle ricerche sul goal setting Le ricerche confermano in modo coerente il ruolo del goal setting come tecnica motivazionale. Definire degli obiettivi aumenta la prestazione individuale, di gruppo e organizzativa. Gli effetti positivi del goal setting sono stati riscontrati in altri sei paesi oltre agli Stati Uniti: l’Australia, il Canada, i Caraibi, l’Inghilterra, la Germania Occidentale e il Giappone. Il goal setting funziona dunque in culture diverse. Da un confronto tra i numerosi studi che si sono occupati negli ultimi decenni della definizione degli obiettivi sono emerse cinque riflessioni utili per i manager. Specificità dell’obiettivo: quantificabilità di un obiettivo

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1. Obiettivi specifici ed elevati stimolano una performance migliore. La specificità dell’obiettivo riguarda la sua quantificabilità. Ad esempio, l’obiettivo di vendere nove auto in un mese è più specifico del semplice “fare del proprio meglio”. 2. Il feedback amplifica gli effetti nel caso di obiettivi specifici e difficili. Il feedback gioca un ruolo fondamentale nelle nostre vite. Il feedback fa in modo che le persone capiscano se sono indirizzate al raggiungimento dei propri obiettivi o se sono fuori strada e devono reindirizzare i loro sforzi. L’approccio consigliato implica quindi obiettivi accompagnati da feedback. Gli obiettivi danno informazioni sugli standard di prestazione e sulle aspettative, così che l’individuo riesce a incanalare al meglio le proprie energie. A sua volta, il feedback fornisce le informazioni necessarie ad aggiustare la direzione, a calibrare lo sforzo e a elaborare delle strategie adatte alla realizzazione degli obiettivi. 3. Obiettivi sviluppati in maniera partecipativa, assegnati dall’alto e sviluppati autonomamente hanno la stessa efficacia. Manager e ricercatori sono estremamente interessati a identificare il modo migliore per definire gli obiettivi. Il quesito è: gli

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Piano d’azione: attività e compiti da portare a termine per raggiungere un obiettivo

Commitment nell’obiettivo: quantità di impegno e coinvolgimento dell’individuo nel raggiungimento di un obiettivo

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obiettivi vanno determinati insieme, vanno assegnati dall’alto o devono essere sviluppati dal collaboratore stesso? Da una rassegna delle ricerche sulla determinazione degli obiettivi è emerso che non esiste un approccio significativamente più efficace degli altri per incrementare la prestazione.43 I manager dovrebbero perciò utilizzare un approccio legato alla situazione contingente, scegliendo un metodo che si adatti volta per volta all’individuo e alle circostanze. 4. I piani d’azione facilitano il raggiungimento degli obiettivi. Un piano d’azione delinea le attività e i compiti da portare a termine per raggiungere un obiettivo. Può inoltre prevedere date associate al completamento di ciascun compito, risorse necessarie e ostacoli da superare. I piani d’azione possono essere utilizzati dai manager come strumento per discutere della performance con i collaboratori e dai dipendenti per monitorare i progressi compiuti verso il raggiungimento dell’obiettivo. Inoltre, i piani d’azione fungono da promemoria, ricordando su che cosa focalizzare le energie, e questa funzione determina comportamenti rilevanti per il raggiungimento dell’obiettivo e del successo, come è stato riscontrato. Nello specifico, la ricerca ha dimostrato che la determinazione di obiettivi e l’elaborazione di piani d’azione aiutava gli studenti universitari a migliorare il rendimento accademico.44 Infine, si consiglia ai manager di incoraggiare i dipendenti a sviluppare autonomamente i piani d’azione perché questo alimenta un maggiore impegno rispetto al raggiungimento degli obiettivi e suscita la sensazione di svolgere un lavoro significativo.45 5. Il livello di commitment e gli incentivi monetari influenzano i risultati del goal setting. Il livello di commitment nell’obiettivo rappresenta la misura in cui l’individuo è coinvolto personalmente nel raggiungimento dell’obiettivo stesso. In generale, ci si aspetta che un individuo persista nel tentativo di raggiungere un obiettivo quando ne è coinvolto. I ricercatori sono convinti che il livello di commitment moderi la relazione esistente tra la difficoltà dell’obiettivo stesso e la prestazione. Quindi obiettivi difficili implicano prestazioni migliori solo se i collaboratori sono coinvolti nei loro obiettivi. Si ipotizza invece che obiettivi difficili portino a prestazioni peggiori se le persone non sono coinvolte nel loro obiettivo. Il confronto di 21 studi condotti su 2360 persone conferma queste previsioni.46 È inoltre importante notare che la probabilità che un individuo sia coinvolto in obiettivi complessi è maggiore se ha un alto livello di auto-efficacia nei confronti della realizzazione dei propri obiettivi. Analogamente al goal setting, l’utilizzo di incentivi monetari per motivare i collaboratori non viene quasi mai messo in discussione. Purtroppo le ricerche più recenti hanno rilevato alcune conseguenze negative in situazioni in cui il raggiungimento dell’obiettivo è connesso agli incentivi individuali. Studi empirici hanno dimostrato che gli incentivi basati sugli obiettivi producono un maggior livello di commitment solo nel caso di obiettivi facili. È emersa una certa riluttanza a impegnarsi in obiettivi laboriosi a cui siano collegati incentivi monetari. Gli individui con un alto livello di commitment relativo all’obiettivo hanno tendenzialmente aiutato meno i propri colleghi nel momento in cui ricevevano incentivi basati sul raggiungimento di obiettivi individuali difficili. Venivano inoltre trascurati aspetti del lavoro non legati a obiettivi di performance.47 Infine, un recente sondaggio condotto su 277 dirigenti operanti in settori diversi ha rivelato che il 51% “ha fatto uno strappo alle regole” per raggiungere gli obiettivi.48

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Questi risultati suggeriscono che il cieco perseguimento degli obiettivi può favorire l’insorgere di comportamenti non etici. Quanto illustrato finora mette in luce alcuni dei rischi legati all’uso di incentivi basati sugli obiettivi, in particolare per i collaboratori che operano in mansioni complesse e interdipendenti, che richiedono cooperazione. I manager devono valutare i vantaggi, gli svantaggi e i dilemmi legati agli incentivi basati sugli obiettivi prima di farvi ricorso.

Motivare i collaboratori attraverso la riorganizzazione del lavoro

Riorganizzazione del lavoro: cambiare i contenuti o i processi di un lavoro per incrementare la soddisfazione e la performance

Ogni lavoro consiste essenzialmente nel completare dei compiti e la riorganizzazione del lavoro è mirata ad accrescere la motivazione dei collaboratori modificando il tipo di compiti che devono portare a termine nello svolgimento del loro lavoro. Il termine riorganizzazione del lavoro “si riferisce a qualsiasi insieme di attività che comportino la modifica di determinati compiti o sistemi di compiti interdipendenti allo scopo di migliorare la qualità del lavoro del collaboratore e quindi la sua produttività”.49 Storicamente, la riorganizzazione del lavoro si è caratterizzata per un approccio top-down, secondo il quale i manager modificavano i compiti dei dipendenti con l’obiettivo di accrescere la motivazione e la produttività; in altre parole, la riorganizzazione del lavoro era guidata dal management. Nell’arco degli ultimi dieci anni, questa prospettiva ha lasciato spazio a quelli che sono stati definiti approcci bottom-up, basati sull’idea che i collaboratori possano proattivamente modificare o riorganizzare il proprio lavoro e che tale processo alimenti la motivazione e l’impegno. Secondo gli approcci bottom-up, il processo di riorganizzazione del lavoro è guidato dai collaboratori, anziché dal manager. L’approccio più recente alla riorganizzazione del lavoro è un tentativo di fondere le due prospettive storiche ed è denominato “accordi personalizzati”. Secondo questa visione, la riorganizzazione del lavoro è un processo nel quale manager e collaboratori negoziano il tipo di compiti che dovranno essere svolti durante l’attività lavorativa. Il processo di riorganizzazione del lavoro è dunque gestito congiuntamente da collaboratori e manager. La presente sezione fornisce una panoramica di questi tre approcci concettualmente diversi alla riorganizzazione del lavoro.50 Una maggiore attenzione è dedicata alle tecniche e ai modelli top-down perché, essendo stati impiegati per un periodo di tempo più lungo, sono stati oggetto di un maggior numero di ricerche per valutarne l’efficacia.

Gli approcci top-down Secondo la premessa fondamentale alla base degli approcci top-down, il management è responsabile della creazione di combinazioni di compiti efficienti e significative per i collaboratori. In teoria, questi ultimi evidenzieranno prestazioni, soddisfazione lavorativa e coinvolgimento maggiori e un livello più basso di assenteismo e turnover se i manager svolgono correttamente questo compito. Consideriamo ora i cinque approcci top-down principali: lo scientific management, l’ampliamento delle mansioni, la rotazione del lavoro, l’arricchimento del lavoro e il modello basato sulle caratteristiche del lavoro.

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Scientific management: utilizzare la ricerca e la sperimentazione per trovare il modo più efficace di svolgere un compito

Ampliamento delle mansioni: aumentare la varietà di un lavoro

Rotazione del lavoro: spostare i collaboratori da un lavoro specializzato a un altro

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Scientific management Lo scientific management trae spunto dalla ricerca nel campo dell’ingegneria industriale ed è fortemente influenzato dall’opera di Frederick W. Taylor. Quest’ultimo, un ingegnere meccanico, elaborò i principi dello scientific management lavorando alla Midvale Steel Works e alla Bethlehem Steel, in Pennsylvania. Egli partì dall’osservare un basso livello di cooperazione tra manager e collaboratori, e scoprì che questi ultimi avevano bassi livelli di risultati perché impegnati a limitare deliberatamente la produzione, metodo che Taylor definì “da scansafatiche sistematico”. L’interesse dello studioso per lo scientific management nacque proprio dal suo desiderio di migliorare questo tipo di situazione. Lo scientific management è “quel tipo di management che ricerca modalità standard per condurre un’azienda derivate dall’osservazione precisa della realtà, e stabilite attraverso un processo sistematico di osservazione, sperimentazione e ragionamento”.51 L’approccio di Taylor si focalizzava sull’utilizzo di ricerca e sperimentazione per determinare il modo più efficiente per eseguire un determinato compito. L’applicazione dello scientific management implica cinque fasi: (1) sviluppo di metodi standardizzati per l’esecuzione dei compiti, ottenuti attraverso studi sulla velocità dei gesti e il movimento, (2) selezione attenta dei collaboratori dotati delle capacità adeguate al compito in questione, (3) addestramento dei collaboratori all’utilizzo di metodi e procedure standardizzate, (4) supporto al personale per ridurre le interruzioni e (5) offerta di incentivi legati alla prestazione.52 Un lavoro organizzato in base ai principi dello scientific management risulta altamente specializzato e standardizzato, perciò questo tipo di approccio mira a ottenere efficienza, flessibilità e produttività. Organizzare il lavoro in ottemperanza ai principi dello scientific management comporta aspetti sia positivi sia negativi. Conseguenze positive sono sicuramente l’incremento di efficienza e di produttività. D’altro canto, però, la ricerca rivela che l’impiego in occupazioni semplificate e ripetitive può causare nel collaboratore insoddisfazione, riduzione dell’equilibrio psichico, alti livelli di stress e poco senso di realizzazione e crescita personale.53 Questo tipo di conseguenze negative ha preparato il terreno ai quattro approcci top-down illustrati di seguito. Job enlargement Questa tecnica fu usata per la prima volta verso la fine degli anni ’40, in reazione alle lamentele dovute a lavori eccessivamente specializzati e noiosi. L’ampliamento delle mansioni (job enlargement) consiste nell’apportare maggiore varietà al lavoro, combinando mansioni specializzate di difficoltà simili. Alcuni definiscono quest’operazione sviluppo orizzontale del lavoro. I ricercatori raccomandano di utilizzare questo metodo nell’ambito di un più ampio approccio, composto da molteplici metodi motivazionali, perché di per sé non determina un effetto positivo significativo e duraturo sulla prestazione lavorativa.54 Job rotation Come nel caso dell’ampliamento delle mansioni, lo scopo di questa tecnica è quello di dare più varietà al lavoro. La rotazione del lavoro (job rotation) richiede che i collaboratori si spostino da una postazione specializzata a un’altra. Essi hanno quindi l’opportunità di svolgere due o più compiti diversi a rotazione, anziché svolgere sempre lo stesso. I manager sono convinti di riuscire, spostando i propri collaboratori da una postazione all’altra, a stimolare l’interesse e la motivazione personali, fornendo loro, nello stesso tempo, una prospettiva più ampia dell’organizzazione in

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cui operano. La Tata Consulting Services (TCS), per esempio, utilizza la rotazione del lavoro per favorire lo sviluppo dei collaboratori ed esporli a esperienze internazionali. La job rotation comporta anche altri vantaggi: la flessibilità del lavoratore aumenta e la programmazione risulta facilitata, perché ogni persona può svolgere compiti diversi. Le organizzazioni ricorrono alla rotazione del lavoro come strumento per assegnare ai collaboratori lavori a loro scelta. L’idea è che lasciando ai dipendenti la libertà di scegliere il proprio lavoro è possibile ottenere una riduzione del tunorver e una crescita della performance. Nonostante le esperienze positive di aziende come la TCS, non è possibile trarre conclusioni certe sull’uso della job rotation perché non ci sono ancora ricerche accurate che possano suffragare completamente tale visione.

Arricchimento del lavoro: creare realizzazione e riconoscimento, stimolare il lavoro, la responsabilità e gli avanzamenti di carriera

Motivazione intrinseca: motivazione causata da sensazioni interne positive

Dimensioni fondamentali del lavoro: caratteristiche del lavoro riscontrabili in quantità variabili in qualsiasi tipo di occupazione

Job enrichment Il job enrichment è l’applicazione pratica della teoria dei fattori duali, motivanti e igienici, elaborata da Frederick Herzberg già illustrata in questo capitolo. Specificamente, l’arricchimento del lavoro (job enrichment) consiste nella modificazione delle condizioni di lavoro in modo da dare la possibilità al collaboratore che lo svolge di realizzarsi e sperimentare riconoscimento, esecuzione di un compito stimolante, responsabilità e avanzamento di carriera. Tali caratteristiche sono incorporate in un determinato lavoro attraverso uno sviluppo verticale, che consiste nell’affidare maggiori responsabilità e autonomia al singolo. Intuit, per esempio, cerca di ottenere questo risultato “incoraggiando i collaboratori a prendersi settimanalmente quattro ore di ‘tempo non strutturato’ da dedicare ai propri progetti e a ‘idea jam’, durante i quali i team presentano nuove idee con l’obiettivo di ottenere premi”.55 Il modello basato sulle caratteristiche del lavoro Due ricercatori di comportamento organizzativo, Hackman e Oldham, hanno giocato un ruolo di primo piano nell’elaborazione dell’approccio fondato sulle caratteristiche del lavoro. I due hanno cercato di determinare in che modo si possa strutturare il lavoro per motivare intrinsecamente o internamente il personale. La motivazione intrinseca entra in gioco quando un individuo è “ben disposto nei confronti di un lavoro in conseguenza di positive sensazioni interne generate dal fare bene il proprio lavoro e non dipendenti da fattori esterni (come incentivi o approvazione del capo)”.56 La motivazione intrinseca è strettamente allineata al concetto di coinvolgimento del personale, esaminato nel Capitolo 6. Tali sensazioni positive danno vita a un ciclo di motivazione che si autoalimenta. Come si vede in figura 8-4, la motivazione lavorativa interna è determinata da tre stati psicologici, a loro volta favoriti dalla presenza di cinque dimensioni lavorative fondamentali. L’oggetto di questo approccio è la promozione di una elevata motivazione interna, che si realizza tramite un disegno organizzativo che possegga tutte e cinque le caratteristiche lavorative illustrate in figura 8-4; andiamo a esaminarle. In termini generali, si definiscono dimensioni fondamentali del lavoro le caratteristiche comuni riscontrabili in vari gradi in qualsiasi lavoro. Tre delle caratteristiche descritte nella figura 8-4 si combinano definendo il significato attribuito al proprio lavoro (ovvero la sensazione che il proprio lavoro sia importante): • Varietà delle abilità richieste. Misura quanto un lavoro richieda all’individuo di eseguire diversi compiti, per i quali è tenuto a utilizzare abilità e capacità diverse.

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Stati psicologici critici

Caratteristiche fondamentali del lavoro • Varietà delle abilità richieste • Identità del task • Significatività del task

• Significato attribuito al proprio lavoro • Responsabilità esperita sulle conseguenze del lavoro • Conoscenza dei risultati effettivi delle attività lavorative

• Autonomia • Feedback

Risultati

• Alta motivazione intrinseca nei confronti del lavoro • Alta soddisfazione legata allo sviluppo • Alta soddisfazione lavorativa generale • Alta efficienza lavorativa

Moderatori 1. Conoscenze e abilità 2. Forza del bisogno di crescita 3. Soddisfazioni provenienti dal contesto

Figura 8-4 Modello della caratteristiche del lavoro Fonte: J.R. Hackman e G.R. Oldham, Work Redesign, © 1980,Addison-Wesley Publishing Co., Reading, MA, p. 90. Riprodotto su autorizzazione.



Identità del task. Misura quanto un task sia eseguito in modo completo da un individuo. In altre parole, l’identità del task è alta se la persona lavora su un prodotto o progetto dall’inizio alla fine, vedendone il risultato tangibile. • Significatività del task. Misura quanto gli effetti di un lavoro si estendano sulla vita di altre persone all’interno o all’esterno dell’organizzazione. La responsabilità esperita (ovvero il fatto di sentire la responsabilità per i risultati del lavoro che si svolge) deriva da una caratteristica detta autonomia, che può essere così definita: •

Autonomia. Misura quanto il lavoro dia la possibilità a un individuo di sperimentare libertà, indipendenza e arbitrio, sia nella programmazione che nella scelta delle procedure da utilizzare per l’esecuzione del compito affidato.

Infine, la conoscenza dei risultati è data dalle caratteristiche del feedback, che si può definire come segue: •

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Feedback. Misura quanto un individuo riceva informazioni chiare e dirette sull’efficacia del compito che sta svolgendo.57

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Hackman e Oldham hanno riconosciuto che nessuno desidera un lavoro che contenga tutte e cinque le caratteristiche fondamentali a livello elevato, conclusione che i due studiosi hanno poi integrato nel modello, identificando i tre attributi che influenzano il modo in cui gli individui reagiscono al job enrichment. Questi attributi hanno a che fare con le conoscenze e le abilità di ciascuno, la forza del bisogno di crescita (che rappresenta il desiderio di crescere come individuo) e le soddisfazioni contestuali (vedi il riquadro “moderatori” di figura 8-4). Le soddisfazioni provenienti dal contesto rappresentano la misura in cui i collaboratori sono soddisfatti dai vari aspetti del loro lavoro, ad esempio la remunerazione, i colleghi e i superiori. La ricerca mette in luce tre implicazioni pratiche associate all’applicazione del modello basato sulle caratteristiche del lavoro. Anzitutto, i manager possono servirsi del modello per incrementare la soddisfazione lavorativa dei propri collaboratori. In secondo luogo, è possibile migliorare la motivazione intrinseca, il coinvolgimento nel lavoro e la performance e ridurre l’assenteismo e lo stress incrementando le caratteristiche fondamentali del lavoro. Infine, è molto probabile che i manager riscontrino un elevato miglioramento qualitativo della performance dopo un programma di riorganizzazione del lavoro.

Gli approcci bottom-up

Job crafting: comportamenti proattivi e flessibili mirati a modificare la natura del proprio lavoro

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Come suggerito dalla stessa espressione “bottom-up”, questo approccio alla riorganizzazione del lavoro, denominato job crafting, è gestito dai collaboratori anziché dai manager. Il job crafting è definito come “l’insieme delle modifiche fisiche e cognitive che gli individui apportano ai limiti tecnici e relazionali del proprio lavoro”.58 In questo modello i collaboratori sono considerati “gli artefici del lavoro”, perché hanno il compito di stabilirne e definirne i confini. In questo senso, tale approccio alla riorganizzazione del lavoro rappresenta un insieme di comportamenti proattivi e flessibili, mirati a modificare i compiti, i rapporti e le cognizioni associate al lavoro. La tabella 8-3 definisce e illustra le tre forme principali di job crafting. La prima consiste nel modificare i confini dei propri compiti, alterandone l’ampiezza o la natura, oppure ancora incrementando o diminuendo le attività. Questo è illustrato nell’esempio in cui gli ingegneri svolgono più attività di tipo relazionale per portare a termine i progetti. La seconda forma di job crafting riportata nella tabella 8-3 comporta la modifica dell’aspetto relazionale del lavoro: nello specifico, si può alterare la quantità e la qualità delle interazioni con gli altri nell’ambiente di lavoro, oppure si possono instaurare rapporti nuovi. Un esempio in tal senso può essere un dipendente ospedaliero addetto alla pulizie che interagisce con i pazienti, sentendo così di poter determinare un effetto sulle cure. Infine, il job crafting cognitivo implica una modifica della percezione e delle convinzioni circa i compiti e i rapporti umani associati al lavoro. Per esempio, un’infermiera può considerare la corretta gestione dell’archivio e dei documenti un aspetto essenziale di un servizio sanitario di alta qualità, non un compito che sottrae tempo alla cura dei pazienti. La colonna finale della tabella 8-3 delinea il potenziale impatto del job crafting sulla motivazione e le performance dei collaboratori. Come potete notare, il job crafting dovrebbe modificare la percezione del lavoro, generando attitudini più positive con

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I fondamenti della motivazione

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Tabella 8-3 Forme di job crafting FORMA

ESEMPIO

EFFETTO SUL SIGNIFICATO DEL LAVORO

Modificare il numero, l’ampiezza e il tipo dei compiti

Ingegneri che svolgono compiti relazionali nella gestione dei progetti

Modificare la qualità e/o la quantità delle interazioni con gli altri nel lavoro

Gli addetti alle pulizie negli ospedali si prendono cura dei pazienti e delle famiglie, integrandosi nel flusso di lavoro del reparto in cui operano

Modificare i confini cognitivi del compito

Gli infermieri si assumono la responsabilità della gestione delle informazioni e di altri compiti “insignificanti” che possono contribuire a fornire al paziente un trattamento più adeguato

Il lavoro è portato a termine più tempestivamente; gli ingegneri percepiscono un significato diverso del proprio lavoro, considerandosi i custodi o i propulsori dei progetti Gli addetti alle pulizie si percepiscono come un aiuto per i pazienti; vedono il lavoro del reparto come un insieme integrato del quale rappresentano una parte vitale Gli infermieri modificano il senso attribuito al proprio lavoro, sentendosi paladini dei pazienti oltre che fornitori di un servizio tecnico di alta qualità.

Fonte: A Wrzesniewski e J E Dutton, “Crafting a Job: Revisioning Employees As Active Crafters of Their Work,” Academy of Management Review, aprile 2001, p. 185.

conseguenti miglioramenti della motivazione, del coinvolgimento e delle prestazioni. Questa conclusione ha trovato conferma in svariate ricerche preliminari.59

Gli accordi personalizzati

Accordi personalizzati: le condizioni di impiego sono negoziate tra i collaboratori e i manager

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Quest’ultimo approccio alla riorganizzazione del lavoro rappresenta una via di mezzo tra i metodi top-down e bottom-up e tenta di superarne i limiti. Per esempio, gli approcci top-down sono vincolati dal fatto che i manager non riescono sempre a implementare cambiamenti ottimali nelle caratteristiche del lavoro di tutti i collaboratori. Analogamente, il job crafting è limitato dalla libertà conferita ai dipendenti di modificare il proprio lavoro. Gli accordi personalizzati (idiosyncratic deals o i-deals) rappresentano “le condizioni di impiego negoziate dai collaboratori, che possono assumere una molteplicità di forme, dall’orario flessibile allo sviluppo della carriera”.60 Da tempo i “collaboratori di punta” negoziano contratti o accordi di impiego particolari, ma le tendenze demografiche e l’evoluzione del lavoro hanno aperto tale opportunità a una fascia più ampia di lavoratori. Gli accordi personalizzati tendono a essere caratterizzati da flessibilità individuale, bisogni di sviluppo e aspetti legati ai compiti specifici. L’obiettivo di tali accordi è accrescere la motivazione e la produttività concedendo ai collaboratori la libertà di negoziare relazioni di impiego che ne soddisfino i bisogni e i valori. RSM McGladrey è un ottimo esempio in tal senso. L’azienda incoraggia e promuove l’applicazione di accordi personalizzati con i suoi 8000 dipendenti. Cardine del programma della RSM McGladrey è creare modalità di lavoro innovative e flessibili perché l’aziende ritiene che tale approccio all’organizzazione del lavoro alimenti il coinvolgimento, la soddisfazione, la produttività dei collaboratori nonché la soddisfazione dei clienti, riducendo al tempo stesso il turnover. Questa convinzione sembra confermata dai numerosi premi

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

conferiti all’azienda negli ultimi anni: nel 2009 è stata menzionata per la terza volta nella classifica delle 100 aziende migliori stilata da Working Mother, si è classificata quinta nella classifica Today 2010 delle 100 migliori aziende e nel 2009 è stata scelta da BusinessWeek come una delle migliori aziende in cui iniziare la carriera.61 Sebbene questo approccio alla riorganizzazione del lavoro sia troppo recente per aver generato una mole cospicua di ricerche, i riscontri preliminari sono positivi. Un recente studio condotto in ospedali statunitensi e tedeschi dimostra che gli accordi personalizzati sono associati a livelli più bassi di stress e maggiori opportunità di svolgere lavori significativi, determinando un maggiore coinvolgimento del personale.62 Per determinare in che misura questi risultati incoraggianti siano generalizzabili, occorre attendere i risultati di future ricerche.

Applicare le teorie motivazionali nell’ambiente di lavoro Abbiamo aperto questo capitolo notando che motivare i collaboratori è uno dei compiti essenziali di un buon manager. Premesso questo, i manager sono chiamati ad affrontare due sfide complesse nell’elaborazione di programmi motivazionali. Innanzitutto, dovendo gestire numerose attività contemporaneamente, molti manager talvolta si sentono spinti in direzioni diverse e impiegano troppo tempo nella gestione delle emergenze invece di concentrarsi proattivamente sui bisogni dei collaboratori. Questa situazione frustrante può incidere negativamente sulla soddisfazione lavorativa e la motivazione dei manager stessi. È tuttavia essenziale che i manager si dedichino a coltivare la motivazione dei collaboratori con un’attitudine positiva. A proposito di questo tema, Jack e Suzy Welch ritengono che “il capo non sta facendo bene il suo lavoro se non comunica a tutti i collaboratori quale sia la loro situazione con chiarezza e dovizia di dettagli” e che occorre assegnare “premi straordinari per performance straordinarie”.63 In secondo luogo, i manager devono conoscere metodi diversi dalle ricompense economiche per motivare i collaboratori. È importante ricorrere a un approccio più ampio e più integrato per motivare i collaboratori, tenendo conto dei modelli e delle teorie illustrate in questo capitolo nonché delle idee proposte nei capitoli precedenti. Le organizzazioni possono aiutare i manager offrendo loro formazione e coaching incentrati su come migliorare le proprie capacità di motivare i collaboratori.

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

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Quanto è importante conoscere il giudizio sulle proprie prestazioni? Ileana Buzzi non sapeva cosa pensare. Era stata convocata dall’Ufficio del Personale e non aveva assolutamente idea di quale potesse essere il motivo. Giovane ingegnere civile, Ileana era stata messa in staff alla direzione Grandi Opere di una società autostradale di grandi dimensioni. Per due anni dopo la laurea aveva lavorato in una piccola società di costruzioni, ma con poche possibilità di sviluppo. Era stato un suo compagno di corso, in partenza per un MBA in USA, a dirle che l’azienda cercava giovani volonterosi. Così aveva mandato il curriculum e tutto si era svolto in modo molto rapido. Ileana aveva un solo, grande problema: non sapeva mai esattamente cosa dovesse fare. La sua posizione era stata creata perché il suo capo, l’ingegner Giuliani, lamentava un eccessivo carico di lavoro avendo la sua posizione e un paio d’altre ad interim. Giuliani passava in ufficio come una scheggia, parlava velocemente, le dava qualche indicazione e poi spariva. Lei aveva iniziato a “inventarsi” il lavoro. Cercava di capire come potesse aiutare il suo capo, scriveva progetti che poi rapidamente concordava con lui, convocava riunioni di cui gli faceva dei brevissimi report. Il giorno dopo venne ricevuta dal responsabile della formazione che in poche parole le disse che, dati i suoi ottimi risultati, era stata scelta per essere inserita in un

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programma di sviluppo dei giovani talenti. Il progetto formativo era veramente interessante: si trattava di dedicare un weekend al mese per sei mesi in una famosa Business School, dove avrebbe trattato gli argomenti di cui si sentiva più carente: amministrazione, finanza, marketing. Alla fine del colloquio, e delle sue numerose domande, chiese come mai nessuno, nei due anni precedenti, le avesse mai fatto cenno della qualità delle sue prestazioni. Il responsabile della formazione parve cadere dalla nuvole: “Come, Giuliani non le ha mai restituito la scheda di valutazione delle prestazioni?” Così, in modo casuale, scoprì che esistevamo delle modalità di monitoraggio delle prestazioni individuali, molto schematiche, ma con alcuni feedback interessanti. Poi i singoli responsabili dovevano, in teoria, farsi carico dei colloqui di valutazione, spiegando le aree di sviluppo. “Come crede l’abbiamo scelta? Sapevamo che tutto stava procedendo al meglio e che le sue competenze necessitavano di un aggiornamento!”. Combattuta tra la gioia dell’opportunità che le veniva offerta e la constatazione desolata che qualche cosa nella sua organizzazione non funzionava a dovere, Ileana andò verso l’ufficio di Giuliani, per raccontagli le novità. Era sicura che lui non ne fosse a conoscenza o, nel caso lo avessero informato, se ne fosse già dimenticato.

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

A completamento dei contenuti illustrati nelle Parti I e II del libro, questo capitolo è incentrato su come migliorare la performance lavorativa individuale applicando quanto abbiamo appreso sulle differenze culturali e individuali, sulla percezione e sulla motivazione. Alcune aziende fanno un ottimo lavoro da questo punto di vista: una cultura premiante, realmente orientata ai collaboratori, crea una forza lavoro leale e motivata. Purtroppo la ricerca dimostra che gran parte dei manager si dedica poco a stimolare e coltivare la prestazione lavorativa. Uno studio avviato nel 1993 e tuttora in corso condotto da una società di consulenza su oltre 500 manager ha rilevato le seguenti conclusioni: Solo un manager su 100 fornisce ogni giorno a tutti i diretti collaboratori questi cinque elementi essenziali: 1. Requisiti di performance e procedure operative standardizzate relative ai compiti e alle responsabilità. 2. Parametri definiti, obiettivi misurabili e scadenze precise relative a tutti i compiti di cui il collaboratore è responsabile. 3. Monitoraggio, valutazione e documentazione precisa sulla performance lavorativa. 4. Feedback specifico sulle prestazioni con consigli per migliorare. 5. Ricompense e sanzioni equamente distribuite.1

Gestione delle prestazioni: ciclo continuo di miglioramento delle prestazioni lavorative mediante goal setting, feedback e coaching, ricompense e rinforzi positivi

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Questo tipo di situazione è stata denominata “under-management” dai ricercatori. Le conseguenze dell’under-management sono tutt’altro che positive: secondo la Society for Human Resource Management, “i risultati di una recente indagine rivelano che nel mondo solo un lavoratore su sette è pienamente coinvolto nel suo lavoro. Esiste un’enorme riserva largamente inutilizzata di potenziale performance lavorativa”.2 (Ricordate quanto illustrato a proposito del coinvolgimento del personale nei Capitoli 1 e 6). Un approccio completo per attingere a questo enorme potenziale è rappresentato dalla gestione delle prestazioni. La gestione delle prestazioni (performance management) è un sistema organizzativo mediante il quale i manager integrano le attività di goal setting, monitoraggio e valutazione, fornendo feedback e attività di coaching e premiando i dipendenti su base costante.3 Si tratta di un approccio in netto contrasto con la discutibile prassi delle valutazioni annuali della prestazione,4 un’esperienza generalmente poco soddisfacente per tutte le persone coinvolte.5 Il comportamento organizzativo può fornire preziosi spunti di riflessione su aspetti essenziali della gestione delle prestazioni come il goal setting, il feedback e il coaching, le ricompense e i rinforzi positivi. Come indicato in figura 9-1, le prestazioni lavorative necessitano di un sistema di supporto. Così come gli astronauti non potrebbero andare in missione nello spazio senza la protezione e il supporto di una navicella spaziale, le prestazioni lavorative non possono evidenziare buoni risultati in assenza di un sistema di supporto adeguato. Inoltre è necessario ricorrere alla formazione per colmare eventuali lacune nelle conoscenze lavorative.6 Anche fattori come la struttura organizzativa, la cultura, la progettazione delle mansioni e le prassi di supervisione possono agevolare oppure ostacolare la performance lavorativa. Al centro del modello rappresentato in figura 9-1 si possono osservare gli aspetti chiave del ciclo di miglioramento della prestazione che esamineremo in questo capitolo. È importante sottolineare che questo è un ciclo dinamico e continuo che richiede la supervisione strategica del top management e continue attenzioni.

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

Fattori situazionali

Ciclo di miglioramento della performance

Individuo • Tratti/caratteristiche personali • Capacità/abilità • Conoscenza del lavoro • Motivazione

Organizzazione/ Gruppo di lavoro/ Team

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Risultati attesi

Goal setting

Ricompense e rinforzi positivi

• Sforzo persistente • Apprendimento/ crescita personale • Miglioramento della performance lavorativa • Soddisfazione lavorativa Feedback e coaching

• Cultura organizzativa • Progettazione della mansione • Qualità della supervisione

Figura 9-1 Migliorare la performance lavorativa individuale: un processo continuo

Il goal setting

Visibilità: i dipendenti comprendono gli obiettivi strategici dell’organizzazione e sanno quali azioni intraprendere

A quanto pare, la gestione del goal setting negli ambienti di lavoro andrebbe radicalmente trasformata: secondo un sondaggio condotto dalla Franklin Covey su un campione di lavoratori statunitensi, il 56% “non comprende chiaramente gli obiettivi più importanti dell’organizzazione per la quale lavora” e un sorprendente 81% “non è provvisto di obiettivi ben definiti”.7 Se anche queste percentuali fossero dimezzate, lo scenario resterebbe comunque molto improduttivo. L’elemento mancante è quello che gli esperti in materia definiscono visibilità. I dipendenti dotati di una chiara visibilità (line of sight) comprendono gli obiettivi strategici dell’organizzazione e sanno quali azioni intraprendere, a livello individuale e come membri di un team.8 Un ottimo esempio in tal senso è rappresentato dalla Bloomberg LP, l’azienda fondata dal sindaco della città di New York Michael Bloomberg, che fornisce software e informazioni finanziarie e conta 9400 collaboratori: L’azienda segue una politica retributiva molto peculiare, legando il compenso dei dipendenti alla vendita di terminali o, più precisamente, alle installazioni in rete. Il concetto alla base di questo sistema è che tutti all’interno dell’azienda devono puntare verso un

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

unico obiettivo: vendere più Bloomberg. Per sottolinearlo, negli uffici sono installati grandi tabelloni elettronici che riportano i dati relativi a vendite e installazioni. Inoltre, le vendite sono annunciate da una scampanellata, o più di una, se è il caso.9

Per aiutarvi a comprendere pienamente le potenzialità del goal setting, in questa sezione tracciamo una distinzione tra due tipi di obiettivi, illustriamo il management by objectives e spieghiamo come gestire il processo di goal setting.

Due tipi di obiettivi Obiettivo di risultato delle prestazioni: mira al raggiungimento di uno specifico risultato Obiettivo di apprendimento: mira a sviluppare la creatività e le abilità

Gli esperti in materia di goal setting hanno tracciato un’interessante distinzione tra obiettivi di risultato delle prestazioni e obiettivi di apprendimento. Un obiettivo di risultato delle prestazioni è mirato al raggiungimento di uno specifico risultato finale, mentre un obiettivo di apprendimento è mirato a sviluppare la creatività e le abilità. Generalmente, nel tentativo di spronare i dipendenti a impegnarsi di più per il raggiungimento dei risultati, i manager pongono un’enfasi eccessiva sugli obiettivi del primo tipo, ignorando quelli del secondo tipo. Tuttavia, per i dipendenti privi delle abilità richieste, gli obiettivi di risultato delle prestazioni risultano frustranti più che motivanti; in caso di carenza di capacità, occorre mettere a punto un processo di sviluppo nel quale gli obiettivi di apprendimento risultano prioritari rispetto agli obiettivi di risultato delle prestazioni. I ricercatori Gerard Seijts e Gary Latham illustrano il concetto mediante un’analogia con il golf: Un obiettivo di risultato delle prestazioni spesso distoglie l’attenzione dall’apprendimento di strategie rilevanti per il compito. Nel golf, per esempio, ponendo come obiettivo per dei principianti un punteggio di 95, si potrebbe impedire loro di concentrarsi sull’apprendimento dello swing, dello spostamento del peso e dell’uso delle mazze giuste per totalizzare quel punteggio […] In sintesi, il golfista alle prime armi deve imparare a giocare prima di preoccuparsi di raggiungere un risultato ambizioso (per esempio, un punteggio di 95).10

Lo stesso discorso si applica alla carriera universitaria (e alla vita in genere). Dato che circa il 25% degli studenti statunitensi iscritti a corsi di laurea quadriennali abbandona gli studi, le capacità di goal setting devono essere curate con più attenzione. Uno studio recente condotto su un campione casuale di studenti che incontravano difficoltà nel percorso di studi ha dimostrato quanto sia importante insegnare come stabilire efficacemente obiettivi di apprendimento e obiettivi di risultato delle prestazioni e integrarli. Un tutorial online intensivo su come definire e raggiungere obiettivi personali ha determinato significativi miglioramenti del rendimento accademico dopo quattro mesi. I ricercatori hanno descritto sinteticamente il tutorial come “un intervento rapido, efficace e conveniente per studenti universitari in difficoltà”.11

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

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Il management by objectives

Management by objectives: sistema manageriale che implica la partecipazione nel processo decisionale, nella definizione degli obiettivi e nel feedback

L’impatto motivazionale degli obiettivi di prestazione e dei piani di ricompensa basati sul raggiungimento degli obiettivi è stato riconosciuto molti anni or sono. Oltre un secolo fa, Frederick Taylor tentò di determinare scientificamente quanto lavoro di una certa qualità si possa assegnare a un individuo giornalmente, proponendo di basare l’assegnazione di bonus al raggiungimento di uno standard di risultato specifico. A partire dagli anni ’50, il goal setting è stato promosso grazie all’uso di una tecnica di management molto diffusa, chiamata management by objectives (MBO). Il management by objectives è un sistema che implica la partecipazione nel processo decisionale, nella determinazione degli obiettivi e nel feedback sugli stessi.12 Il concetto chiave dell’MBO, cioè fare in modo che ciascun collaboratore “possieda” una parte dello sforzo collettivo, è evidente in questo consiglio offerto di recente dal dirigente della Google Paul Russell: Aiutate i vostri collaboratori a tracciare i loro obiettivi. Chiedete loro di applicare queste aspirazioni alle attività quotidiane. In questo modo, ne svilupperete il senso di affiliazione all’azienda e farete sentire loro che ne fanno parte. E si convinceranno che non devono andare via per soddisfare le ambizioni personali.13

Un’analisi comparata sui programmi di MBO ha dimostrato che la produttività é migliorata in 68 aziende su 70. Nello specifico, i risultati hanno rivelato un guadagno medio di produttività pari al 56% in corrispondenza di alti livelli di impegno da parte del management. Il guadagno medio si è aggirato invece intorno al 6% in caso di scarso impegno. Un’ulteriore analisi comparata condotta su 18 studi ha inoltre dimostrato che la soddisfazione del lavoratore è correlata in modo significativo all’impegno del management rispetto all’applicazione dell’MBO.14 Questi sorprendenti risultati sono ridimensionati dai problemi etici derivanti da una pressione estrema per il raggiungimento dei risultati, come nel caso della IndyMac Bancorp, una società di prestiti ipotecari salvata dal governo statunitense durante la crisi finanziaria del 2008. Secondo un investigatore, “i vertici esercitavano pressione affinché si accordassero quanti più prestiti possibile, ignorando le conseguenze”.15 I programmi di MBO validi sul piano etico uniscono obiettivi di apprendimento e obiettivi di risultato della prestazione legati a standard etici elevati.

Gestire il processo del goal setting Tre sono i passaggi fondamentali da seguire per applicare un piano di goal setting.16 Mancanze in uno dei passaggi non si compensano con impegno negli altri due. I tre passaggi devono quindi essere eseguiti in modo sistematico. Fase 1: definire gli obiettivi Che gli obiettivi siano imposti o, preferibilmente, stabiliti in maniera partecipativa attraverso un confronto aperto con il manager, dovrebbero essere “SMART”. SMART è un acronimo che sta per Specifico, Misurabile, Attuabile, orientato al Risultato e legato al Tempo. La tabella 9-1 contiene una serie di indicazioni per la definizione di obiettivi SMART. Ci sono inoltre due ulteriori consigli per

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Parte II

192 Tabella 9-1 Linee guida per la definizione di obiettivi SMART Fonte: A.J. Kinicki, Performance Management Systems (Superstition Mt., AZ: Kinicki and Associates Inc., 1992), pp. 2-9. Riprodotto su autorizzazione; tutti i diritti riservati.

Specifico

Misurabile

Attuabile

Orientato al risultato

Legato al tempo

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Gli obiettivi devono essere definiti in termini precisi e non vaghi. Ad esempio, un obiettivo che stabilisce 20 ore di formazione tecnica per ciascun collaboratore è più specifico di un obiettivo che impone al manager di inserire quante piú persone nei corsi di formazione. Quando è fattibile, l’obiettivo va quantificato. È necessario disporre di uno strumento di misurazione per valutare la misura in cui un obiettivo è raggiunto. Gli obiettivi devono quindi essere misurabili. È peraltro difficile considerare l’aspetto qualitativo dell’obiettivo quando si stabiliscono dei criteri di misurazione. Ad esempio, se l’obiettivo è quello di completare uno studio a livello manageriale dei metodi per incrementare la produttività, è necessario considerare come misurare la qualità dello sforzo. Gli obiettivi andrebbero definiti considerando la relazione tra quantità e qualità del risultato. Gli obiettivi dovrebbero essere realistici, complessi ma attuabili. Obiettivi impossibili riducono la motivazione, perché le persone non amano fallire. È necessario ricordare che ognuno ha un livello diverso di capacità e abilità. Gli obiettivi aziendali dovrebbero orientarsi ai risultati finali che sostengono la visione dell’organizzazione. A loro volta, gli obiettivi individuali dovrebbero sostenere direttamente il raggiungimento di obiettivi aziendali. Le attività facilitano il raggiungimento degli obiettivi e vengono descritte all’interno dei piani d’azione. Per focalizzare gli obiettivi sui risultati desiderati, gli obiettivi dovrebbero iniziare con la parola per, seguita da verbi come completare, acquisire, produrre, incrementare, e diminuire. Verbi come sviluppare, condurre, applicare, o monitorare implicano attività e non dovrebbero essere utilizzati all’interno di definizioni di obiettivi. Gli obiettivi contengono indicazioni specifiche riguardo al loro raggiungimento.

la Fase 1. Innanzitutto, di fronte a compiti complessi, i collaboratori devono ricevere formazione sulle tecniche di risoluzione dei problemi e sullo sviluppo di piani d’azione mirati al raggiungimento della prestazione. I piani d’azione permettono di specificare le strategie o tattiche che devono essere messe in atto per raggiungere un obiettivo. Per fare un esempio molto semplice, una persona potrebbe porsi l’obiettivo di perdere 5 chili in due mesi seguendo un piano d’azione che prevede camminare 30 minuti ogni giorno ed evitare dolci e snack in tarda serata. Seconda osservazione, potrebbe rendersi necessario stabilire obiettivi diversi per collaboratori che svolgono lo stesso incarico, per via delle differenze individuali. Per esempio, da uno studio condotto su 103 studenti di economia, è emerso che gli individui molto coscienziosi avevano una motivazione maggiore, un più alto livello di commitment nei confronti dell’obiettivo, e riuscivano a ottenere voti migliori rispetto ai colleghi meno coscienziosi.17 L’orientamento della persona nei confronti dell’obiettivo è una caratteristica individuale molto importante da tenere presente nella definizione degli obiettivi. Esistono tre tipologie di orientamento all’obiettivo: la tendenza all’obiettivo di apprendimento, la tendenza positiva all’obiettivo di prestazione e la tendenza negativa all’obiettivo di prestazione. Un gruppo di ricercatori ha così descritto le differenze e le implicazioni che esse comportano nella definizione degli obiettivi:

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

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Le persone con una marcata tendenza all’obiettivo di apprendimento considerano le abilità elementi flessibili e si sforzano non solo di raggiungere gli obiettivi contestuali, ma anche di sviluppare le capacità per lo svolgimento di compiti futuri. Le persone con una spiccata tendenza positiva all’obiettivo di prestazione tendono a concentrarsi sulla performance e cercano di dimostrare le proprie capacità ottenendo risultati migliori rispetto agli altri. Infine, gli individui che evidenziano una forte tendenza negativa all’obiettivo di prestazione si concentrano sulla performance nel tentativo di evitare i risultati negativi.18

Nonostante una serie di studi abbia dimostrato che le persone orientate all’apprendimento si pongono obiettivi più elevati, si impegnano di più, pianificano meglio e raggiungono migliori livelli di prestazione rispetto agli individui caratterizzati da una tendenza positiva o negativa all’obiettivo di prestazione, altre ricerche evidenziano un insieme di relazioni più complesso.19 La raccomandazione da ricordare è che gli orientamenti all’obiettivo sono importanti ed è bene tenere conto delle differenze individuali durante il processo di definizione degli obiettivi. Fase 2: promuovere il commitment nei confronti dell’obiettivo Ottenere il commitment è importante perché i collaboratori sono più motivati a perseguire obiettivi che ritengono ragionevoli, raggiungibili ed equi. È possibile aumentare il commitment nei confronti dell’obiettivo applicando le seguenti linee guida:

Scale di obiettivi: catene di obiettivi con difficoltà e sfide progressive

1. Spiegare perché l’organizzazione applica un programma completo di goal setting. 2. Creare una visibilità chiara illustrando gli obiettivi aziendali e collegando ad essi gli obiettivi individuali. Jeroen van der Veer, CEO di Royal Dutch Shell, consiglia: “Il compito dei leader è semplificare.”20 A suo parere, non dovrebbero occorrere più di due minuti per comunicare la direzione strategica dell’organizzazione. 3. Consentire ai collaboratori di partecipare alla definizione dei loro obiettivi e di elaborare autonomamente i piani d’azione. Incoraggiarli a porsi obiettivi sfidanti e ambiziosi. Gli obiettivi dovrebbero essere difficili ma non impossibili.21 4. Favorire la crescita personale chiedendo ai collaboratori di elaborare scale di obiettivi, cioè catene di obiettivi con difficoltà e sfide progressive. Recenti ricerche sulle scale di obiettivi illustrano la differenza sostanziale tra concentrarsi sugli obiettivi raggiunti oppure su quelli ancora da raggiungere. Nello specifico, concentrarsi sugli obiettivi della scala già raggiunti favorisce un senso di soddisfazione, mentre focalizzare l’attenzione sugli obiettivi da raggiungere motiva a un livello più alto di achievement. Le persone con un’accentuata propensione all’achievement sono brave a spostare strategicamente l’attenzione dai successi ottenuti (per trarne soddisfazione) alle sfide ancora da affrontare (per essere motivati a lavorare con più impegno).22 E voi avete una scala di obiettivi? Il vostro sguardo è orientato al passato o al futuro? Fase 3: fornire sostegno e feedback La fase 3 richiede che si aiutino i collaboratori a raggiungere i rispettivi obiettivi. Ecco alcune linee guida da seguire:

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Parte II

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• Garantire che ogni collaboratore abbia le abilità e le informazioni necessarie per raggiungere i propri obiettivi. Il concetto si riassume perfettamente nell’affermazione di due esperti di definizione degli obiettivi: “La motivazione non serve a niente senza la conoscenza”.23 Spesso è necessario un periodo di formazione per aiutare i collaboratori a raggiungere obiettivi difficili e costruire scale di obiettivi. • Badare alle percezioni dei collaboratori nei confronti delle aspettative impegno → prestazione, auto-efficacia percepita e preferenze rispetto alla ricompensa, e tenerle in debito conto. • Essere di sostegno ai collaboratori, conferire loro maggiore autonomia man mano che crescono e non utilizzare gli obiettivi come minaccia nei loro confronti. • Fornire feedback al momento giusto, che sia di tipo specifico (conoscenza dei risultati), per capire come stanno procedendo. • Fornire incentivi monetari e non monetari e premiare sia il raggiungimento degli obiettivi che i progressi significativi.24

Il feedback Il forte desiderio dei collaboratori di ricevere un feedback spesso non viene esaudito: secondo un sondaggio “il 43% dei lavoratori sente di non essere sufficientemente guidato nel miglioramento della performance”.25 Anche gli studenti orientati al risultato cercano un feedback.26 Dopo un esame difficile, ad esempio, uno studente desidera sapere due cose: come è andato e come sono andati gli altri. Il feedback dell’insegnante, permettendo allo studente di conoscere il proprio risultato sia in base a standard di confronto che in senso assoluto, gli dà la possibilità di adattare le proprie abitudini di studio in modo da raggiungere gli obiettivi desiderati. Analogamente, nelle aziende ben gestite un manager fa seguire alla definizione degli obiettivi un programma di feedback che fornisca una base razionale per eventuali adattamenti e miglioramenti. Vediamo, ad esempio, le osservazioni di Fred Smith, fondatore e amministratore delegato della Federal Express, azienda leader delle consegne veloci con un fatturato di oltre 35 miliardi di dollari e più di 247.000 dipendenti.27 L’esperienza vissuta tra i marines come comandante di compagnia durante la guerra in Vietnam ha forgiato il suo stile di comando. La mia filosofia di leadership è una sintesi dei principi insegnati dai marines e da tutte le organizzazioni negli ultimi 200 anni. Quando una persona entra da quella porta, vuole sapere: che cosa ti aspetti da me? Cosa ne ricavo io? Che cosa devo fare per andare avanti? A chi mi rivolgo per ottenere giustizia se vengo trattato in modo inadeguato? Tutti vogliono sapere se stanno lavorando bene e desiderano un feedback. Inoltre vogliono sapere che il loro contributo è importante per il raggiungimento del risultato. Se si utilizzano questi basilari principi di leadership e si risponde continuamente a questo tipo di domande, si riuscirà a gestire bene le persone.28 Feedback: informazione oggettiva sulla performance

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Nel senso in cui è utilizzato in questo contesto, il feedback rappresenta un’informazione oggettiva su una performance individuale o di gruppo. Affermazioni soggettive come “stai lavorando male”, “sei troppo pigro” o “apprezziamo molto il tuo impegno” non si qualificano come feedback oggettivi. Sono invece utilizzabili nei programmi di

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feedback oggettivo dati concreti come unità vendute, giorni di assenza, denaro risparmiato, progetti portati a termine, clienti soddisfatti e scarti di produzione. Christopher D. Lee, autore del libro Performance Conversations: An Alternative to Appraisals, chiarisce il concetto di feedback confrontandolo con la valutazione della prestazione: • Il feedback è lo scambio di informazioni sullo status e la qualità dei risultati del lavoro. Fornisce una mappa per il successo e viene impiegato per motivare, sostenere, guidare, correggere e regolare l’impegno nel lavoro e i risultati. Garantisce inoltre che il manager e i dipendenti siano in sintonia e concordino sugli standard e le aspettative legati al lavoro da svolgere. • Le valutazioni tradizionali, al contrario, scoraggiano la comunicazione bidirezionale e attribuiscono una valenza negativa al coinvolgimento dei collaboratori. I dipendenti sono scoraggiati dal partecipare alla verifica della prestazione e, nei casi in cui lo fanno, le loro risposte sono spesso considerate “confutazioni”. • Per evitare questo genere di situazioni, la gestione efficace delle prestazioni deve prevedere un sano grado di feedback e coinvolgimento dei collaboratori.29

Due funzioni del feedback Gli esperti dicono che il feedback ha due funzioni per chi lo riceve, una istruttiva e l’altra motivazionale. Il feedback è istruttivo se chiarisce i ruoli o se insegna un nuovo comportamento. È un caso che si verifica, ad esempio, quando si consiglia a un assistente contabile di registrare una certa somma come capitale e non come spesa. Il feedback, invece, funziona da motivatore quando si qualifica come ricompensa o promessa di ricompensa.30 Potrebbe fungere da ricompensa il fatto che il capo comunichi che un progetto difficile a cui si è lavorato è giunto a conclusione. Come emerge dalle ricerche, la funzione motivazionale del feedback può essere aumentata in modo significativo associando obiettivi complessi e specifici a specifici feedback sui risultati.31 Tenendo a mente le due funzioni del feedback, passiamo a esaminare il ruolo cruciale dei riceventi del feedback, alcune implicazioni pratiche della ricerca sul feedback, il feedback a 360 gradi e l’uso del feedback a fini di coaching.

I riceventi del feedback sono pronti, disponibili e capaci? La saggezza popolare sostiene che più feedback i membri di un’organizzazione ricevono, meglio è. Ne deriva la convinzione che il feedback funzioni da solo, e che i manager debbano semplicemente essere motivati a darlo. Da una meta-analisi su 23.663 casi, però, emerge che l’efficacia del feedback non è automatica. Di certo il suo influsso sulla performance si è rivelato in generale positivo, ma la performance è diminuita in oltre il 38% dei casi;32 inoltre, il feedback può essere distorto da fattori che nulla hanno a che vedere con il lavoro, come ad esempio l’appartenenza razziale. Alla Stanford University sono stati esaminati i feedback dati da ragazzi appartenenti a una razza sul contenuto (feedback soggettivo) e sulla tecnica di scrittura (feedback oggettivo) di tesine scritte

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da coetanei della stessa razza o di una razza diversa. Ne è emerso che gli studenti bianchi davano feedback soggettivi meno critici agli afro-americani rispetto a quelli che davano a colleghi bianchi. Tale pregiudizio razziale positivo scompariva nel feedback oggettivo.33 Questi risultati impongono una certa cautela a chi desideri migliorare la performance lavorativa utilizzando il feedback, in quanto il feedback soggettivo viene facilmente contaminato da fattori situazionali. Se, inoltre, si vuole far funzionare un feedback oggettivo come previsto, i manager devono comprendere l’interazione tra le persone che lo ricevono e l’ambiente in cui operano. Le caratteristiche del ricevente Caratteristiche della personalità, come l’autostima e l’auto-efficacia, possono aiutare od ostacolare la disposizione della persona nei confronti del feedback. Chi ha un basso livello di autostima e di auto-efficacia generalmente non cerca in modo attivo un feedback che, purtroppo, andrebbe quasi sicuramente ad aggravare le sue difficoltà. Anche bisogni e obiettivi influenzano l’apertura della persona al feedback. Da una ricerca di laboratorio è emerso che gli studenti giapponesi di psicologia che registravano un punteggio elevato relativamente al bisogno di realizzazione rispondevano in modo più favorevole al feedback rispetto ai colleghi con minori bisogni di realizzazione.34 Probabilmente lo stesso vale anche nelle culture occidentali. Ad esempio, è stato rilevato che 331 appartenenti al settore marketing di un’azienda di servizi pubblici statunitense cercavano un feedback su questioni importanti o di fronte a situazioni incerte. I collaboratori con una anzianità più elevata cercavano meno il feedback rispetto ai colleghi occupati da meno tempo.35 Inoltre, gli individui con alti livelli di auto-osservazione, i camaleonti di cui abbiamo parlato nel Capitolo 5, con molta probabilità sono più aperti al feedback perché è un mezzo che li aiuta ad adattare il proprio comportamento alla situazione. Abbiamo visto nel Capitolo 5 come per le persone con alto livello di auto-osservazione sia più facile instaurare una relazione con i propri mentori (che, tipicamente, danno loro un feedback).36 Le persone con un basso livello di auto-osservazione, invece, sono più sintonizzate con le proprie sensazioni interiori rispetto ai segnali provenienti dall’esterno. Qualcuno, ad esempio, ha osservato che parlare con Ted Turner, magnate dei media e fondatore della CNN, personaggio caratterizzato da un livello bassissimo di auto-osservazione, è come conversare con una radio. I ricercatori hanno iniziato a concentrarsi più direttamente sul desiderio del ricevente di avere un feedback, più che sulle caratteristiche personali, sui bisogni e sugli obiettivi dell’individuo. L’esperienza di ogni giorno ci insegna che non tutti vogliono davvero il feedback sulla performance che sembrerebbero cercare. Al ristorante, ad esempio, se il cameriere chiede “Tutto a posto?” quando presenta il conto, in genere non si aspetta certo una risposta dettagliata. Come il ricevente percepisce il feedback Il segno del feedback (termine utilizzato nell’ambito della ricerca) si riferisce al fatto che esso sia positivo o negativo. In termini generali, si tende a percepire e ricordare in modo più accurato un feedback positivo rispetto a uno negativo.37 Un feedback con segno negativo (ad esempio se ci viene comunicato che abbiamo ottenuto una performance al di sotto della media) può avere un impatto motivazionale positivo. In effetti, da uno studio è emerso che gli individui a cui era stato comunicato un risultato inferiore alla media in un test di creatività

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avevano in seguito surclassato coloro che erano stati invece indotti a credere di aver totalizzato punteggi superiori alla media. I soggetti di cui sopra avevano evidentemente considerato il feedback negativo come una sfida, e di conseguenza avevano stabilito e perseguito degli obiettivi più elevati. Chi aveva invece ricevuto un feedback positivo è apparso meno motivato a fare di meglio.38 Nonostante questi risultati, il feedback con segno negativo va gestito con attenzione, per evitare che insorgano reazioni come insicurezza e autodifesa. Il feedback negativo può danneggiare anche l’auto-efficacia, come si è scoperto in alcuni esperimenti su studenti di economia. I ricercatori hanno concluso che “per facilitare lo sviluppo di forti convinzioni di efficacia, i manager devono fare molta attenzione a come distribuiscono feedback negativi”. Una critica distruttiva da parte di un manager, che attribuisca la causa di una performance non adeguata a fattori interni, riduce sia le convinzioni relative all’auto-efficacia, sia gli obiettivi che i riceventi si pongono”.39 Come il ricevente valuta il feedback dal punto di vista cognitivo Nel momento in cui riceve un feedback, una persona valuta dal punto di vista cognitivo fattori come la precisione del giudizio, la credibilità della fonte, l’equità del sistema (ad esempio di valutazione della performance), le aspettative personali riguardanti il rapporto tra performance e ricompensa e la ragionevolezza degli standard applicati. Se un feedback non si giustifica in base a uno o più degli elementi citati, verrà rifiutato o tenuto in scarsa considerazione. Il peso dei fattori descritti dipende in larga misura dall’esperienza personale. Probabilmente, ad esempio, non si darà molto credito al feedback di una persona che tende a esagerare o a qualcuno che ha palesemente svolto male un compito. Alla luce del “gap di fiducia” descritto nel Capitolo 11, la credibilità manageriale è una questione etica di importanza fondamentale. Secondo gli autori del libro Credibility: How Leaders Gain and Lose It, Why People Demand It, “senza un solido fondamento di credibilità personale, un leader non può sperare che gli altri si associno alla sua visione aziendale”.40 Se un manager si è rivelato indegno di fiducia e non credibile, gli riuscirà molto difficile migliorare la performance lavorativa dei suoi collaboratori utilizzando il feedback. Se il feedback proviene da una fonte che mostra favoritismo o che si basa su standard di comportamento irragionevoli, allora apparirà sospetto.41 Inoltre, come prevede la teoria relativa al ruolo dell’aspettativa nella motivazione, il feedback, per influire sul comportamento desiderato, dovrebbe favorire il consolidamento di una elevata connessione tra sforzo e performance e tra performance e sistemi di ricompensa.

Consigli pratici derivanti dalla ricerca sul feedback Dall’analisi di decine di studi teorici sul feedback, tre ricercatori hanno stilato questo elenco di consigli pratici per i manager: •

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L’accettazione del feedback non deve essere data per scontata; vi possono essere mal interpretazioni o rifiuti. Questo avvertimento vale soprattutto in situazioni in cui convivono culture diverse.

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198 Tabella 9-2 Sei segnali che indicano problemi nel sistema di feedback di un’organizzazione Fonte: adattato da C. Bell e R. Zemke, “On-Target Feedback,” Training, giugno 1992, pp. 36-44.

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1. 2. 3. 4. 5.

Il feedback viene utilizzato per punire, mettere in imbarazzo o umiliare i collaboratori. I riceventi ritengono il feedback irrilevante per il lavoro che svolgono. Il feedback viene dato troppo tardi per sortire alcun effetto positivo. I riceventi pensano che il feedback faccia riferimento a questioni che non possono controllare. Le persone si lamentano di dover perdere troppo tempo nella raccolta e nella memorizzazione di dati relativi al feedback. 6. I riceventi si lamentano per l’eccessiva complessità e per l’incomprensibilità del feedback.

• • • • •

I manager possono migliorare la loro credibilità come fonte di feedback, sviluppando la loro competenza nel creare un clima di fiducia. Il feedback negativo viene tipicamente mal interpretato o rifiutato. Anche se talvolta il feedback può intaccare il senso di controllo e l’iniziativa dell’individuo, rimane troppo poco frequente nella maggior parte delle aziende. Il feedback va adattato al ricevente. Chi ottiene performance medie o inferiori alla media necessita di riconoscimenti estrinseci della performance, chi invece si caratterizza per alti livelli di performance risponde a feedback che migliorino l’idea della propria competenza e del proprio controllo.42

Altre ricerche recenti relative al feedback offrono i seguenti spunti: • I feedback sulla performance informatica comportano miglioramenti della performance più elevati se vengono inviati direttamente via rete e non attraverso un supervisore.43 • I riceventi percepiscono i feedback come più accurati se partecipano attivamente alle riunioni di definizione degli stessi, rispetto a quando li ricevono in modo passivo.44 • Le critiche distruttive causano tendenzialmente conflitti e riducono la motivazione.45 • Più una persona sale nella gerarchia di un’organizzazione, minori probabilità ha di ricevere feedback di qualità sulla sua performance lavorativa”.46 I manager che prenderanno in considerazione i consigli elencati e i segnali negativi contenuti nella tabella 9-2 riusciranno probabilmente a creare sistemi di feedback credibili ed efficaci. Il feedback di cui si è finora discusso è quello tradizionale, gerarchicamente orientato dall’alto verso il basso. Vediamo ora un interessante nuovo approccio al feedback sul posto di lavoro.

Feedback a 360 gradi Feedback a 360 gradi: confronto tra i feedback anonimi forniti dal superiore, dai subordinati, dai colleghi e le percezioni individuali

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Il feedback a 360 gradi contiene l’idea che l’individuo confronti la sua percezione soggettiva della performance con informazioni, generalmente anonime, fornite da manager, subordinati e colleghi di pari livello circa alcuni comportamenti specifici. In questo processo, talvolta detto anche feedback a circolo completo, possono venire coinvolti anche individui esterni all’azienda.47

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Una meta-analisi di 24 studi sul feedback a 360 gradi nei quali i riceventi ricevevano due o più valutazioni ha consentito ai ricercatori di trarre questa utile conclusione: È più probabile che si ottengano miglioramenti quando il feedback indica che il cambiamento è necessario, i riceventi hanno un orientamento positivo al feedback, percepiscono la necessità di cambiare il proprio comportamento, reagiscono positivamente, ritengono che il cambiamento sia fattibile, stabiliscono obiettivi adeguati per modificare il comportamento e prendono provvedimenti che si traducono in un miglioramento delle capacità e della prestazione.48

I risultati delle ricerche e l’esperienza personale ci inducono a favorire l’anonimato e scoraggiare ogni collegamento tra feedback a 360 gradi e decisioni concernenti aumenti retributivi e promozioni. Secondo un esperto in materia, il problema principale è la fiducia: La fiducia sta alla base dell’utilizzo di una forma di feedback a 360 gradi allo scopo di incrementare la produttività. La fiducia determina la misura in cui un individuo desidera contribuire al successo del suo datore di lavoro. Utilizzare il sistema in termini confidenziali, allo scopo di far crescere l’azienda, aumenta la fiducia; utilizzarlo invece per decidere in merito a stipendi o altre questioni relative al personale la mette in pericolo.49

Il feedback a 360 gradi ha certamente un ruolo nello sviluppo delle capacità manageriali, in special modo nelle organizzazioni odierne, che si basano sul lavoro di gruppo.

Come fornire feedback finalizzato al coaching e all’efficacia organizzativa I manager che si accingono a dare un feedback nell’ambito di un programma completo di gestione delle prestazioni devono tener presenti questi consigli: • Concentrare il feedback sulla performance, non sulla personalità. • Dare feedback specifici, legati a obiettivi di apprendimento e risultati delle prestazioni. • Incanalare il feedback verso aree di risultato importanti per l’organizzazione. • Dare feedback prima possibile. • Dare feedback positivi volti al miglioramento attraverso il coaching, non relativi al solo risultato finale. • Basare il feedback su informazioni accurate e credibili. • Collegare il feedback ad aspettative ben definite di miglioramento.50

Sistemi di ricompensa Le ricompense rappresentano una caratteristica organizzativa onnipresente e sempre al centro di controversie (pensate al dibattito in corso sulla remunerazione dei CEO,

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nell’ordine delle centinaia di migliaia di dollari).51 Ci sono persone che considerano il loro lavoro solo come una fonte di reddito, altre che invece ricavano grandi soddisfazioni dal lavoro e dalla compagnia dei colleghi. Secondo una recente indagine Gallup, il 55% dei lavoratori statunitensi “continuerebbe a lavorare anche se vincesse una lotteria con un jackpot intorno ai dieci milioni di dollari”.52 (Voi che cosa fareste?) Persino i volontari che regalano del tempo ad associazioni come la Croce Rossa ne ricavano una ricompensa sotto forma di riconoscimento sociale e di orgoglio derivante dall’aver donato il proprio tempo per fini non egoistici. L’argomento ricompensa include quindi non solo il compenso monetario, ma molto altro.53 In questa sezione analizzeremo le componenti chiave del sistema organizzativo delle ricompense, per fornire un background concettuale che permetta di discutere argomenti come la retribuzione legata alla performance e la retribuzione legata al lavoro di gruppo. Nonostante il sistema di ricompense sia estremamente variabile, è possibile identificare e mettere in collegamento tra loro alcune componenti comuni. Il modello di figura 9-2 si concentra su tre componenti principali: (1) tipologie di ricompensa, (2) regole di assegnazione, (3) risultati desiderati. Andiamo a vedere le singole componenti.

Tipologie di ricompensa Ricompense estrinseche: ricompense economiche, materiali o sociali che derivano dall’ambiente Ricompense intrinseche: ricompense autoassegnate o psicologiche

Figura 9-2 Un modello generale dei sistemi di ricompensa organizzativi

Definiamo ricompense estrinseche quelle economiche, materiali e sociali, perché derivano dall’ambiente. Le ricompense psicologiche sono invece definite come intrinseche perché assegnate dall’individuo a se stesso. Una persona che lavora per ottenere ricompense estrinseche, denaro o apprezzamento, si definisce estrinsecamente motivata. Una persona che invece trae piacere dal compito in sé, o è gratificata da una sensazione di competenza e di autodeterminazione, si dice intrinsecamente motivata.

Tipologie di ricompensa • Economica/ materiale (estrinseca) • Sociale (estrinseca) • Psicologica (intrinseca)

Risultati desiderati • Attrarre • Motivare • Sviluppare • Soddisfare • Trattenere

Criteri di distribuzione • Risultati • Comportamento • Altri fattori

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L’importanza relativa di ricompense intrinseche ed estrinseche dipende dalla cultura e dai gusti dell’individuo.54

Criteri di distribuzione delle ricompense Secondo l’opinione di un esperto di sistemi di ricompensa aziendale, esistono tre criteri generali per la distribuzione delle ricompense. • Performance: risultati. Risultati tangibili, a livello individuale, di gruppo o aziendale; la quantità e la qualità della performance. • Performance: azioni e comportamenti. Il lavoro di gruppo, la cooperazione, l’assunzione di rischi, la creatività. • Considerazioni slegate dalla performance. Per consuetudine o per contratto, vengono ricompensati: il tipo di lavoro, la natura del compito svolto, l’equità, l’anzianità, il livello all’interno della gerarchia e così via.55 Attualmente si preferiscono tendenzialmente i criteri legati alla performance, prescindendo da quelli a essa non collegati, quali l’anzianità. Un’altra tendenza è quella di ricorrere a molteplici criteri di distribuzione delle ricompense: Westinghouse Electric è un buon esempio recente: “Per mettere le truppe in carreggiata, i manager vengono valutati non solo sui profitti generati, ma anche sul numero di clienti con cui hanno parlato e il numero di proposte che hanno effettuato.”56

Risultati desiderati dal sistema di ricompense Come si vede dall’elenco della figura 9-2, un buon sistema di ricompense dovrebbe attirare persone di talento; una volta che sono entrate a far parte dell’organizzazione, è necessario continuare a motivarle e soddisfarle. Inoltre, un buon sistema di ricompense dovrebbe incentivare il personale a crescere e svilupparsi, e fare in modo che le persone dotate di talento non abbandonino il posto di lavoro. Un esempio perfetto è offerto dalla QuickTrip, basata a Tulsa: “I dipendenti vengono trattati così bene in questa catena di alimentari con apertura no stop – con stipendi, benefit e formazione – che restano per un lungo periodo di tempo. oltre 200 lavorano lì da più di 20 anni.”57

Le basi della motivazione e delle ricompense intrinseche Come si ricava dalla definizione precedente, le ricompense intrinseche sono concesse dall’individuo a se stesso. Questo però non esclude il management, al contrario: i manager possono adoperarsi per creare situazioni in cui i collaboratori si concederanno ricompense da cui trarranno motivazione intrinseca. Il modello della motivazione intrinseca di Kenneth Thomas fornisce indicazioni utili,58 associando elementi di riorganizzazione del lavoro (esaminata nel Capitolo 8), il concetto di empowerment (che vedremo nel Capitolo 15) e la teoria della valutazione cognitiva di Deci e Ryan.

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Secondo Deci e Ryan, affinché un compito sia intrinsecamente motivante, gli individui che lo svolgono devono soddisfare il proprio bisogno di autonomia e competenza.59 Thomas utilizza il concetto di blocchi portanti per dimostrare ai manager come costruire le condizioni giuste per le quattro ricompense intrinseche essenziali: il significato, la scelta, la competenza e il progresso (vedi figura 9-3). Esaminiamo le sfide che ciascun mattone pone al management. Migliorare il significato I manager migliorano il significato ispirando i propri collaboratori e modellando i comportamenti desiderati. La figura 9-3 mostra che i manager possono raggiungere lo scopo aiutando i collaboratori a identificare le proprie passioni sul lavoro e creando una visione organizzativa stimolante, che faccia presa sul personale. I risultati di un’indagine Gallup permettono di affermare che i collaboratori sono più impegnati e produttivi sul lavoro se percepiscono la connessione tra ciò che fanno e la vision organizzativa, legame che realizza un obiettivo comune a cui tendere.60 Alcuni lavori rivestono una tale importanza che di per sé sono portatori di un forte significato. Per esempio consideriamo questo lavoro, unico nel suo genere, presso la più grande centrale nucleare in territorio statunitense, nei pressi di Phoenix: Alle sei del mattino, Michelle Catts raggiunge il suo ufficio, oltrepassando guardie dotate di armi automatiche, macchine a raggi X ultrasensibili, cancelli elettronici e sensori che rilevano la presenza di esplosivi. Catts è una dei quattro ispettori scelti dalla Commissione di vigilanza per il nucleare impiegati presso lo stabilimento come sorveglianti pubblici incaricati di verificare che la Arizona Public Service Co rilevi i problemi prima che insorgano rischi per la sicurezza […] “il mio lavoro è garantire ogni giorno che questa centrale operi in condizioni di sicurezza” spiega la Catts. “Si tratta di un lavoro

Figura 9-3 Blocchi portanti della motivazione e delle ricompense intrinseche secondo Thomas

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Scelta: • Delega di autorità • Fiducia nei collaboratori • Non perseguimento di errori privi di intenzione • Obiettivi chiari • Informazione

Competenza: • Conoscenze • Feedback positivo • Riconoscimento delle capacità • Sfida • Standard elevati

Significato: • Ambiente non cinico • Passioni chiaramente identificate • Missione aziendale stimolante • Obiettivi delle attività coerenti • Attività complete

Miglioramento: • Clima collaborativo • Enfasi sui risultati raggiunti • Celebrazioni • Accesso ai clienti • Misurazione dei miglioramenti

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piuttosto importante. Alla fine della giornata, è bello sapere di essermi interrogata su questioni importanti.”61

Migliorare le possibilità di scelta I manager migliorano le possibilità di scelta responsabilizzando i collaboratori e delegando loro mansioni e compiti importanti. Di seguito le modalità seguite da Gail Evans, executive vice president della CNN di Atlanta. Gail Evans […] afferma che delegare è essenziale. Se non permetti ai tuoi collaboratori di gestire i loro progetti, metti a repentaglio la loro possibilità di progredire, perché non acquisiscono nuove abilità e non aggiungono obiettivi raggiunti al curriculum, e perdi tempo prezioso per fare il lavoro di qualcun altro.62

Migliorare la competenza I manager migliorano la competenza sostenendo e affiancando i propri collaboratori. La figura 9-3 fornisce molti esempi di come ciò possa essere messo in pratica. I manager devono innanzitutto assicurarsi che i propri collaboratori possiedano le conoscenze necessarie a svolgere bene il compito assegnato. Eventuali lacune possono essere colmate con un’adeguata formazione e con l’ausilio di mentori. Oltre a dare feedback positivi e riconoscimenti sinceri, è possibile anche assegnare compiti complessi che incentivino la motivazione intrinseca del collaboratore. Dare un maggiore senso di miglioramento I manager danno un senso di miglioramento monitorando e ricompensando. Douglas R Conant, CEO di Campbell Soup Company, è stato artefice di un notevole cambiamento ed è un buon modello di ruolo a questo proposito: Il cambiamento è stato catalizzato da innovazioni intelligenti e mirate a ridurre i costi e uno sforzo concentrato per rinvigorire la forza lavoro […] Conant non ha scosso una tranquilla azienda con 137 anni di storia usando l’arma dell’aggressività. Al contrario, assegna di buon grado il merito agli altri e declina le lodi. Non è arrogante. Nei suoi anni alla Campbell, ha inviato oltre 16.000 ringraziamenti scritti di suo pugno ai collaboratori, dal direttore finanziario alla receptionist del quartier generale, biglietti che spesso faceva trovare appesi in ufficio oppure sulla scrivania. “[Nel lavoro] siamo preparati ad andare alla ricerca di ciò che non va. Io voglio riconoscere ciò che va bene” afferma Conant.63

Focalizziamo ora l’attenzione sulle ricompense estrinseche, cioè il denaro, le opportunità o i riconoscimenti offerti dagli altri.

Perché le ricompense estrinseche non riescono a motivare? Nonostante l’enorme investimento di tempo e denaro dell’organizzazione per gestire i sistemi di ricompense, spesso non si ottiene l’impatto motivazionale desiderato. Un consulente di management ha elencato otto possibili spiegazioni: 1. Troppa enfasi sulle ricompense monetarie.

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2. Le ricompense mancano del cosiddetto “effetto apprezzamento”. 3. I benefit eccessivi diventano diritti. 4. Si ricompensano comportamenti controproducenti (ad esempio, “un’azienda che consegna pizze dava riconoscimenti a chi impiegava meno tempo a portare le pizze a destinazione, per poi scoprire che così facendo premiava una guida spericolata”).64 5. Si lascia troppo tempo tra la valutazione della performance e l’attuazione della ricompensa. 6. Ricompense troppo uniformi. 7. Utilizzo di ricompense una tantum con impatto motivazionale a breve termine. 8. Uso continuo di pratiche demotivanti come licenziamenti, tagli e compensi eccessivi agli alti livelli organizzativi.65 Problemi cronici come questi hanno accresciuto l’interesse nei confronti dell’elaborazione di pratiche di ricompensa e di retribuzione più efficaci. Nello spazio di questo capitolo non possiamo discutere tutte le moderne strategie retributive. Possiamo però analizzare un approccio generale per incrementare l’impatto motivazionale delle ricompense monetarie: la retribuzione basata sulla performance.

Retribuzione legata alla performance Retribuzione legata alla performance: incentivi economici legati ai risultati e alle realizzazioni dell’individuo

Retribuzione legata alla performance (pay for performance) è un’espressione comunemente usata per indicare gli incentivi monetari che associano almeno una piccola porzione dello stipendio direttamente a risultati e realizzazioni. Molti parlano semplicemente di incentivi, altri la definiscono retribuzione variabile. “L’80% delle aziende statunitensi offre programmi a larga base di retribuzione legata alla performance.”66 Il concetto generale che sottende questo schema retributivo (che include la retribuzione per merito, i bonus, le percentuali sul profitto, ma anche altro) è quello di dare ai collaboratori un incentivo perché lavorino di più o meglio. La retribuzione legata alla performance è qualcosa in più, una retribuzione straordinaria rispetto a stipendi e salari base. I sostenitori della retribuzione per incentivi affermano che ci sia bisogno di qualcosa in più, perché le retribuzioni orarie e i salari fissi riescono solo a motivare le persone a presentarsi al lavoro e a svolgere le proprie mansioni.67 La forma più semplice di retribuzione legata alla performance è il tradizionale cottimo, in cui al dipendente viene pagato un certo ammontare di denaro per ogni pezzo prodotto. 2500 artigiani che lavorano alla Longaberger, a Frazeburg, nell’Ohio, sono per esempio pagati per ogni prezioso cestino di legno che intrecciano. Complessivamente, ne realizzano 40.000 al giorno.68 Le commissioni sulle vendite rappresentano un altro esempio di retribuzione legata alla performance: in questo caso il venditore riceve una certa quantità di denaro per ogni unità venduta.69 L’economia odierna, fondata sui servizi, forza il management ad adattarsi in modo creativo e a superare i programmi basati sul numero di pezzi prodotti o sulle commissioni sulle vendite, per dare più enfasi alla qualità dei prodotti e servizi, all’interdipendenza, al lavoro di squadra. Pratiche correnti Dai premi immediati in contanti alla retribuzione basata sul lavoro di gruppo a quella legata alle competenze, le prassi di retribuzione attuali sono ancora

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in fase sperimentale. Rimane molto da imparare sia dalle ricerche che dalla sperimentazione. Nel contempo, la ricerca indica chiaramente che è impensabile adottare un approccio omogeneo alla retribuzione basata sugli incentivi. Risultati della ricerca Secondo l’opinione degli studiosi, confermata anche dai risultati della ricerca, la retribuzione basata sulla performance troppo spesso non riesce a ottenere un miglioramento della performance lavorativa. “Gli esperti affermano che circa la metà dei programmi di incentivi che hanno visto non funzionano a causa di una progettazione e di una gestione poco efficace”.70 Uno studio ha in effetti documentato l’effetto negativo che una retribuzione per incentivi ha sortito sulla performance di 150.000 manager di 500 aziende che versavano in difficoltà economiche.71 Una metaanalisi su 39 studi ha riscontrato una modesta correlazione positiva tra incentivi finanziari e quantità di performance, e impatto zero sulla qualità della performance.72 Altri ricercatori hanno rilevato un collegamento statisticamente debole tra bonus ai dirigenti pagati negli anni positivi e un successivo miglioramento della redditività aziendale.73 Da un’indagine condotta tra proprietari di piccole aziende è emerso inoltre che più della metà afferma che i propri piani di pagamento di commissioni non sono riusciti a motivare un impegno maggiore nei venditori.74 Mettere in connessione la retribuzione per merito data ai docenti con la performance degli studenti, un’idea molto sostenuta per una riforma della scuola, ha evidenziato risultati contrastanti.

Trarre il meglio da ricompense estrinseche e retribuzioni basate sulla performance Ecco un piano di lavoro basato su quanto appreso fino a questo punto, utile per massimizzare l’impatto motivazionale delle ricompense estrinseche. • Collegare encomi, riconoscimenti e premi non monetari a risultati specifici. • Rendere la retribuzione legata alla performance parte integrante della strategia aziendale (ad esempio, ponendo come obiettivo la ricerca del prodotto migliore nel settore di appartenenza, o della migliore qualità nel servizio). • Fondare la determinazione degli incentivi su dati di performance oggettivi. • Fare in modo che tutti i collaboratori partecipino allo sviluppo, all’applicazione e alla revisione delle formule di retribuzione basate sulla performance. • Incoraggiare una comunicazione bilaterale, per poter riconoscere quanto prima eventuali problemi legati al piano di incentivi. • Progettare i piani di retribuzione legata alla performance su strutture partecipative, come sistemi di raccolta delle opinioni o team per la risoluzione dei problemi. • Quando possibile, premiare il lavoro di gruppo e la collaborazione. • Coinvolgere attivamente nel piano supervisori e manager di secondo livello che potrebbero considerare la partecipazione del dipendente come una minaccia al loro concetto di autorità. • Se si assegnano bonus annuali in contanti, pagarli tutti insieme per massimizzarne l’impatto motivazionale.

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

• Fare un uso selettivo di incentivi non monetari innovativi per creare entusiasmo e interesse.75

Il rinforzo positivo Programmi di feedback e di ricompense estrinseche risultano troppo spesso inefficaci perché vengono amministrati un po’ a casaccio.76 Analizziamo ad esempio queste due situazioni: • Un giovane programmatore smette di mandare consigli creativi al proprio superiore via email, perché non riceve mai risposta. • In un ufficio la persona più abile nei maneggi politici riceve una promozione mentre i suoi colleghi, molto più capaci, se ne chiedono il motivo e spettegolano sull’ingiustizia del trattamento subito. Nel primo caso, il comportamento costruttivo del dipendente si è interrotto per mancanza di incoraggiamento. Nel secondo caso, invece, poco saggiamente è stato premiato un comportamento non costruttivo. Il feedback e le ricompense devono essere assegnate in modo molto più accurato. In questi casi la psicologia comportamentale può essere d’aiuto: nei lavori di Thorndike, Skinner e altri, è stata elaborata una tecnica di modificazione del comportamento, detta rinforzo positivo, che supporta il manager nell’ottenere la disciplina necessaria e gli effetti desiderati con il giusto feedback e le adeguate ricompense estrinseche.

La legge degli effetti di Thorndike

Legge dell’effetto: un comportamento che ha conseguenze positive si ripete, un comportamento con conseguenze negative scompare

Nei primi anni del ’900, Edward L. Thorndike osservò nei suoi studi sperimentali di psicologia che un gatto, posto in una piccola gabbia con una levetta nascosta per aprirla, si comportava in modo casuale e selvaggio. Una volta che era riuscito ad azionare casualmente la levetta e uscire, però, l’animale, se rimesso nella gabbia, andava direttamente verso la leva per scappare. Thorndike formulò così la sua famosa legge degli effetti, secondo cui il comportamento che implica conseguenze positive tende a essere oggetto di ripetizione, mentre il comportamento con conseguenze negative tende a scomparire.77 Un notevole cambiamento rispetto alla convinzione allora prevalente, secondo cui il comportamento sarebbe stato il prodotto di istinti innati.

Il modello di Skinner del condizionamento operativo Skinner ha ulteriormente sviluppato la conclusione tratta da Thorndike, secondo cui il comportamento sarebbe controllato dalle conseguenze che implica. L’opera di Skinner è stata definita comportamentismo, perché lo studioso si è occupato principalmente di comportamenti osservabili.78 In quanto comportamentista, Skinner era convinto che fosse perfettamente inutile spiegare il comportamento in termini di stati interiori non

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

Comportamento reattivo: termine usato da Skinner per definire i riflessi condizionati stimolo-risposta Comportamento operativo: termine usato da Skinner per definire il comportamento acquisito, determinato dalle conseguenze che produce

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osservabili, come bisogni, tendenze, atteggiamenti o processi mentali.79 Allo stesso modo, lo studioso teneva in scarsa considerazione il concetto di autodeterminazione. In The Behaviour of Organisms, Skinner traccia una distinzione importante tra due tipologie di comportamento: reattivo e operativo.80 Egli definisce comportamento reattivo tutti i riflessi condizionati, o le connessioni stimolo-risposta (S-R), ritenendo che questa categoria di comportamento descriva una piccola percentuale del comportamento nell’adulto. Piangere mentre si taglia della cipolla, o ritrarre la mano dal fornello acceso, sono esempi di comportamento reattivo.81 Skinner definisce invece comportamento operativo il comportamento appreso nell’atto di “operare sull’ambiente” per produrre le conseguenze desiderate. Alcuni parlano di modello risposta-stimolo (R-S). In anni di esperimenti controllati, eseguiti su piccioni all’interno delle cosiddette “scatole di Skinner”, lo studioso riuscì a elaborare una sofisticata tecnologia di controllo del comportamento, o condizionamento operativo. Ad esempio, insegnò ai piccioni come camminare disegnando un otto e come arrivare alla ciotola: ci riuscì usando il rinforzo, ossia dando cibo ai piccioni sottopeso (e quindi affamati) ogni volta che si avvicinavano ai comportamenti desiderati. Lo studio di Skinner ha dato vita al settore della modificazione del comportamento, e ha implicazioni significative per il comportamento organizzativo, perché molti comportamenti nelle organizzazioni possono ascriversi alla categoria operativa.82

Conseguenze contingenti In base alla teoria di Skinner, le conseguenze contingenti controllano il comportamento in quattro modi: attraverso il rinforzo, positivo e negativo, la punizione e l’estinzione. Il termine contingente allude al fatto che il collegamento tra il comportamento in esame e la conseguenza è sistematicamente del tipo se-allora. Facciamo l’esempio di una frase che le mamme dicono sempre: “Se non finisci il pranzo, non avrai il dessert” (figura 9-4). Per evitare di commettere errori banali nel riconoscimento delle conseguenze elencate, vediamo alcune definizioni formali. Rinforzo positivo: fare in modo che un comportamento si ripeta offrendo in cambio qualcosa di positivo

Il rinforzo positivo rafforza il comportamento Per rinforzo positivo si intende il processo di rafforzamento del comportamento ottenuto dall’offerta contingente di qualcosa che ha valenza positiva (è importante ricordare che un comportamento è rafforzato quando aumenta di frequenza, indebolito quando la frequenza diminuisce). Un ingegnere progettista che lavora fuori orario perché il capo ha lodato e riconosciuto il suo operato sta rispondendo al rinforzo positivo.

Rinforzo negativo: fare in modo che un comportamento si ripeta evitando una conseguenza negativa

Anche il rinforzo negativo rafforza il comportamento Per rinforzo negativo si intende il processo di rafforzamento del comportamento ottenuto dalla negazione contingente di qualcosa che ha valenza negativa. Un sergente dell’esercito, ad esempio, che smette di urlare quando la recluta esce dal letto, ha negativamente rinforzato quel determinato comportamento. Analogamente, portare le mani alle orecchie nel guardare un jumbo che decolla è un comportamento negativamente rinforzato dal sollievo dato dall’azione. Spesso si confonde il rinforzo negativo con la punizione. Le due strategie provocano però effetti opposti sul comportamento. Il rinforzo negativo, come dice

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Parte II

Figura 9-4 Conseguenze contingenti nel condizionamento operativo

Rapporto tra comportamento e conseguenza

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Il comportamento individuale nelle organizzazioni

Natura delle conseguenze

Presentazione contingente Rifiuto contingente

Positive o piacevoli

Negative o spiacevoli

Rinforzo positivo Risultati comportamentali: Il comportamento desiderato si presenta più spesso

Punizione Risultati comportamentali: Il comportamento desiderato si presenta con meno frequenza

Punizione (costo di reazione) Risultati comportamentali: Il comportamento desiderato si presenta con meno frequenza

Rinforzo negativo Risultati comportamentali: Il comportamento desiderato si presenta più spesso

(nessuna conseguenza contingente) Estinzione Risultati comportamentali: Il comportamento desiderato si presenta con meno frequenza

la stessa parola rinforzo, rafforza il comportamento perché fornisce sollievo da una situazione spiacevole. Punizione: fare in modo che un comportamento si verifichi più raramente rispondendo con una conseguenza negativa o negandone una positiva

La punizione indebolisce il comportamento La punizione è il processo di indebolimento del comportamento che si opera in una situazione concedendo qualcosa di spiacevole o negando qualcosa di positivo. Il primo tipo di punizione si verifica, ad esempio, qualora un manager assegni al dipendente che arriva in ritardo un compito ingrato. Se invece il manager decurta lo stipendio del ritardatario, allora si verifica il secondo tipo di punizione, detta “costo di reazione”. Un altro esempio di questa seconda tipologia sono le multe. Il commesso di negozio, che deve rispondere di ogni ammanco di cassa dal proprio portafoglio, è sottoposto alla legge della punizione per costo di reazione. Si tratta di una punizione che può e deve suscitare interrogativi di tipo etico.83

Estinzione: fare in modo che un comportamento si verifichi con minor frequenza ignorandolo o evitando di rinforzarlo

Anche l’estinzione indebolisce il comportamento L’estinzione provoca l’indebolimento del comportamento, che si verifica quando esso viene ignorato o quando ci si assicura che non venga rinforzato. Liberarsi dell’ex fidanzato rifiutandosi di rispondere alle sue telefonate è una strategia di estinzione. Immaginate che cosa succederebbe alle vostre piante se smetteste di innaffiarle: ecco una metafora che ben descrive l’estinzione. Come una pianta senz’acqua, così un comportamento, privato di un rinforzo almeno occasionale, alla fin fine muore. Sia la punizione che l’estinzione, pur essendo procedimenti totalmente diversi, comportano uno stesso effetto di indebolimento sul comportamento.

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

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Programmi di rinforzo Come abbiamo detto, le conseguenze contingenti costituiscono un fattore determinante del comportamento futuro. La programmazione delle conseguenze comportamentali può essere ancora più importante. Dopo anni di noiosi esperimenti di laboratorio su piccioni, eseguiti in ambienti altamente controllati, Skinner e colleghi hanno scoperto che le risposte a programmi di rinforzo strutturati diversamente sono diverse.84 Alcune delle conclusioni tratte da questi studi potrebbero essere generalizzate a rinforzo negativo, punizione ed estinzione, ma quando si elabora un programma di rinforzo è preferibile pensare solo a rinforzi positivi.

Rinforzo continuo: rinforzare ogni singola azione del comportamento

Rinforzo intermittente: rinforzare solo alcune azioni del comportamento

Rinforzo continuo Ogni singola azione che rientri nel comportamento desiderato è oggetto di rinforzo se viene applicato un programma di rinforzo continuo. Se il vostro iPhone funziona bene, ad esempio, sarete rinforzati dall’immagine che compare sul display e dal suono che emette ogni volta che lo accendete. Se l’iPhone si guasta, succederà quello che succede sempre con i programmi di rinforzo continuo: il comportamento che vi porta ad accenderlo si estinguerà in fretta. Rinforzo intermittente A differenza di quello continuo, il rinforzo intermittente implica il rinforzo solo di alcune azioni del comportamento desiderato, non di tutte. Esistono quattro sottogruppi di programmi a rinforzo intermittente: programmi a proporzione fissa o variabile, programmi a intervallo fisso o variabile. Nei programmi a proporzione, il rinforzo dipende dal numero di risposte date. Il rinforzo a intervallo si basa invece sul passare del tempo. Ecco alcuni esempi tipici di ciascuna tipologia di rinforzo intermittente: 1. Proporzione fissa: stipendio a cottimo; bonus dipendente dalla vendita di un numero prefissato di unità. 2. Proporzione variabile: slot machine, che pagano dopo un numero variabile di giocate; lotterie, che pagano dopo l’acquisto di un numero variabile di biglietti. 3. Intervallo fisso: stipendio orario; salario annuale pagato su base fissa. 4. Intervallo variabile: lode e complimenti da parte del supervisore fatti a intervalli casuali, in risposta a un lavoro ben svolto. La criticità della programmazione Il tipo di programma di rinforzo scelto può influenzare il comportamento molto più della qualità del rinforzo stesso. Nonostante tale affermazione derivi dallo studio del comportamento dei piccioni, esistono delle ricerche condotte in contesti di lavoro che la confermano. Prendiamo in esame, ad esempio, uno studio condotto su 12 cacciatori di castori, ingaggiati da una ditta di legname per evitare che i roditori mangiassero le giovani piante appena messe a dimora.85 I cacciatori sono stati divisi in due gruppi, a ognuno dei quali veniva applicato settimanalmente uno dei due piani di bonus previsti. Il primo programma prevedeva una paga oraria di 7 dollari con un bonus di 1 dollaro per ogni castoro catturato. Tecnicamente, in questo caso si applicava un programma di rinforzo continuo. Il secondo programma prevedeva la stessa paga oraria di 7 dollari, più una possibilità su quattro

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

(determinata dai dadi) di ricevere 4 dollari per ogni castoro intrappolato. In questo caso si può parlare di un programma a proporzione variabile. Alla lunga, entrambi i sistemi davano una media retributiva pari a 1 dollaro per castoro. Sorprendentemente, però, i cacciatori si sono dimostrati più produttivi, in una misura pari al 58%, se sottoposti allo schema variabile, nonostante il fatto che la paga media alla fine delle 12 settimane di caccia sia stata praticamente uguale nei due gruppi. Le organizzazioni in genere si basano sul programma più debole In genere, i programmi di rinforzo a proporzione variabile e a intervalli variabili determinano un comportamento più resistente all’estinzione. Come potrebbe confermare qualsiasi scommettitore, un programma variabile contiene la promessa di rinforzo dopo la prossima reazione coerente con l’obiettivo. Ecco una dimostrazione della potenza del rinforzo a proporzione variabile: si tratta di un piccolo episodio accaduto in un casinò di Laughlin, in Nevada. Un’anziana donna con le stampelle sta giocando alla slot machine quando inavvertitamente lascia la manopola della macchinetta da gioco e cade a terra. “Aiuto!”, è il suo fievole grido. Solo la donna che sta giocando nella slot machine accanto interrompe il gioco per qualche secondo per tentare di rialzarla, mentre tutti gli altri incalliti giocatori continuano a inserire monetine nelle loro slot machine. A questo punto arriva un uomo della sicurezza, che calma la donna e la porta via. “Grazie”, risponde l’anziana signora con riconoscenza. “Ma non dimenticarti i soldi che ho vinto”.86

Un’organizzazione che non adotta almeno in parte un programma di rinforzo variabile avrà meno possibilità di riuscire a incentivare un simile attaccamento al lavoro. Un buon esempio in questo senso è Zappos, azienda retail online con sede a Las Vegas, dove “qualsiasi collaboratore può assegnare un bonus di 50 dollari a qualsiasi collega per un lavoro ben fatto”.87 Purtroppo, oggigiorno di regola nei posti di lavoro lo schema applicato più di frequente è quello che si basa sul tempo, come ad esempio gli stipendi su base annua e oraria, che fanno riferimento al programma più debole di rinforzo (intervallo fisso). Di fatto, secondo il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, “il 59% dei lavoratori americani sono retribuiti a ore”.88 Se uno stipendio fisso è sempre allettante, non suscita l’“effetto sorpresa”, un qualcosa che somiglia a tirare fuori un full durante una partita di poker. I manager creativi sanno come sfruttare il potere del rinforzo variabile. Per esempio, Ami Dar, fondatore e direttore di idealist.org, sceglie un giorno dell’anno e ne fa un Sun Day. Aspetta che le previsioni segnalino l’arrivo di una giornata di sole, con cielo terso e venticello fresco, per comunicare ai collaboratori che gli uffici saranno chiusi e invitarli a trascorrere un po’ di tempo all’aria aperta. Alcuni si lasciano prendere dal panico al pensiero di dover posticipare riunioni o di non poter controllare costantemente la posta elettronica, ma Ami … [dice] che ritornano al lavoro il giorno dopo con … un nuovo slancio. Una delle chiavi del successo dei cosiddetti Sun Day? L’effetto sorpresa. Il Sun Day scuote i collaboratori dalla routine ed è un’esperienza gratificante per i sensi. Inoltre, li fa sentire doppiamente apprezzati, come non accade quando il riconoscimento è atteso.89

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Migliorare la performance: obiettivi, feedback, ricompense e rinforzi

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Modellare il comportamento

Modellazione: rinforzare le approssimazioni che si avvicinano sempre più al comportamento richiesto

Tabella 9-3 Dieci consigli pratici per la modellazione del comportamento lavorativo Fonte: adattamento da A.T. Hollingsworth e D. Tanquay Hoyer,“How Supervisors Can Shape Behavior,” Personnel Journal, maggio 1985, pp. 86, 88.

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Vi siete mai chiesti come fanno gli istruttori dei parchi marini a fare in modo che i delfini saltino, che le orche si facciano cavalcare e che le foche giochino con la palla? I risultati sembrano opera di magia. In realtà tutto ciò è reso possibile da un processo di apprendimento molto semplice, denominato modellazione del comportamento. Le orche, ad esempio, pesano due tonnellate e hanno un grande appetito: per loro una bacinella di pesce rappresenta un rinforzo molto efficace. Quindi, se un istruttore vuole cavalcare l’animale, non farà altro che rinforzarne ogni singolo comportamento che porti all’obiettivo: l’orca verrà rinforzata con qualche pesce se si avvicina all’istruttore, poi se si fa toccare, se si fa mettere una bardatura sul naso, se si fa cavalcare e infine se nuota con l’istruttore a cavalcioni. In effetti, l’istruttore innalza sistematicamente la richiesta comportamentale che porterà al rinforzo.90 La modellazione è definita quindi come il processo che porta a rinforzare le approssimazioni che si avvicinano sempre più al comportamento desiderato. Il processo funziona benissimo anche con le persone, specialmente all’interno di programmi di formazione e qualità che implicano un miglioramento continuo. Per un manager la lode, il riconoscimento, un feedback costruttivo e credibile non costano molto più che qualche minuto del suo tempo. Se utilizzate in associazione a un programma di modellazione del comportamento, queste azioni possono però incentivare efficacemente dei miglioramenti nella performance lavorativa. Il segreto per riuscire a modellare efficacemente un comportamento sta nella capacità di ricondurre un complesso obiettivo comportamentale a piccoli semplici passi, per poi rinforzare ogni minimo miglioramento, con fiducia e pazienza. La Continental Airlines, ad esempio,

1. Prefigurare il processo di cambiamento del comportamento I comportamenti cambiano per gradi, non all’improvviso. 2. Dare una definizione specifica dei nuovi modelli di comportamento. Definire i propri obiettivi in termini espliciti e in piccole quantità, affinché il concetto venga ben recepito. 3. Dare feedback sulla performance dell’individuo. Valutare la performance di una persona una volta all’anno non è sufficiente. 4. Rinforzare il comportamento prima possibile. 5. Usare rinforzi validi. Le ricompense per essere efficaci devono avere un certo valore per il collaboratore, non per il manager. 6. Utilizzare un programma di rinforzo continuo. Ogni nuovo comportamento deve essere rinforzato ogni volta che si verifica e questo rinforzo deve continuare finché il comportamento in questione diventa abituale. 7. Utilizzare un programma di rinforzo variabile di mantenimento. Anche quando il comportamento è diventato abituale, c’è ancora bisogno di ricompensarlo, anche se non necessariamente ogni volta che si verifica. 8. Ricompensare il lavoro di gruppo, non la competizione. Gli obiettivi e le ricompense di gruppo costituiscono un modo per incoraggiare la cooperazione in situazioni nelle quali il lavoro e la performance sono interdipendenti. 9. Fare in modo che le ricompense corrispondano sempre a una performance. 10. Non dare mai una performance per scontata. Anche la migliore delle performance, se non ricompensata, si deteriora nel tempo.

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Parte II

Il comportamento individuale nelle organizzazioni

ha utilizzato un programma di bonus per migliorare il suo standard di arrivi in orario, risalendo la classifica del settore. All’inizio veniva promesso un bonus pari a 65 dollari al mese, a condizione che la Continental si classificasse tra le prime cinque compagnie. Ora ci vuole un secondo o un terzo posto per guadagnare quei 65 dollari, mentre la prima posizione significherebbe 100 dollari di bonus.91 (La tabella 9-3 riporta alcuni consigli utili per modellare i comportamenti).

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I gruppi e i processi sociali

Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13

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III

Dinamiche di gruppo Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci Processi decisionali individuali e di gruppo Gestione del conflitto e negoziazione

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Dinamiche di gruppo

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Quanto sono utili i gruppi informali? Inutile, ogni volta aveva l’impressione di perdere tempo. Mauro Baliani si era avvicinato al gruppo di direttori risorse umane con molte speranze. Aveva ottenuto da poco la posizione che ricopriva e si sentiva molto inadeguato al ruolo. Così aveva deciso di aderire agli incontri serali proposti dalla associazione “Innovazione nella gestione”, ma ogni volta usciva con la sensazione di non avere imparato niente. La riunione era impostata male, senza un univoco filo conduttore e tutti sembravano essere intorno al tavolo per raccontare i propri successi aziendali o dichiarare magnifiche intenzioni: dal punto di vista operativo, poco o nulla. Ne parlò con Carla De Carolis, una sua vecchia amica, da più tempo in una posizione analoga, e lei gli consigliò un gruppo di discussione su un social network del settore. Iniziò a iscriversi e vide con piacere che venivano poste delle questioni molto pratiche, di quelle che a lui servivano. I più esperti rispondevano senza troppi fronzoli e le informazioni erano preziose.

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Un giorno un famoso consulente iniziò a rispondere ai quesiti facendo riferimento a possibili proposte di iniziative che lui e la sua azienda avrebbero potuto fare: immediatamente il moderatore del gruppo fece presente le regole – una discussione tra pari, senza nessuna concessione al marketing individuale – e la cosa cessò. Mauro apprezzò molto questa direttiva, che non aveva colto nella sua adesione iniziale, ma chi gli parve utile per distinguere le situazioni di elaborazione da quelle di “vendita”. Dopo qualche tempo, in relazione alla sua crescita professionale, le domande che venivano poste gli interessavano sempre meno e, dal canto suo, si sentiva di avere poco da offrire. Si collegava con sempre minor frequenza e alla fine lasciò il gruppo; provava una certa tristezza, ma – si sa – anche le migliori esperienze hanno una fine.

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Parte III

I gruppi e i processi sociali

Per definizione le organizzazioni sono insiemi di persone che interagiscono costantemente per raggiungere risultati superiori a quelli ottenibili dai singoli. La ricerca fornisce prove sostanziali sull’importanza delle abilità sociali sia per il successo individuale che per quello organizzativo. Quanto sono sviluppate le vostre abilità sociali? In che cosa dovete migliorarvi? In questo capitolo cominceremo dando una definizione del termine gruppo per passare poi a esaminare le varie tipologie, le funzioni dei suoi membri, gli scambi sociali sul posto di lavoro e il processo di crescita di un gruppo. Passeremo quindi a esaminare i ruoli e le regole del gruppo, che sono le basi delle dinamiche di gruppo; seguirà un’analisi degli effetti della struttura del gruppo e delle caratteristiche dei suoi membri sui risultati prodotti dal gruppo stesso. Verranno discussi, infine, tre seri fattori di minaccia all’efficacia del gruppo. (Il presente capitolo servirà da punto di partenza per la discussione di concetti come “team” e “lavoro in team”, trattati nel capitolo seguente.)

I gruppi nell’epoca dei social media

Gruppo: due o più persone che interagiscono liberamente, condividono norme e obiettivi e hanno un’identità comune

Nel mondo d’oggi si incontrano spesso momenti di gruppo;1 gli studenti formano spesso team insieme ai loro compagni di classe per lavori di gruppo; i genitori sono membri dei consigli di classe delle scuole dei figli; i manager sono coinvolti nei comitati per la pianificazione dei prodotti e nelle task force per la produttività. Le organizzazioni efficaci non funzionano affatto senza l’ausilio di gruppi e team ma, come l’esperienza personale dimostra, lo sforzo di lavorare in gruppo può far emergere tanto il meglio quanto il peggio delle persone. Una riunione della funzione marketing, dove più persone danno libero sfogo alle loro idee e proposte per il perfezionamento di una nuova campagna pubblicitaria creativa, può portare a risultati che vanno oltre le capacità dei singoli collaboratori. D’altra parte, nelle aziende i comitati sono diventati il tipico oggetto di battute derisorie, perché sono troppo spesso affetti da mancanza di direzione e da conflitti. I manager devono poter comprendere a fondo i gruppi e i processi di gruppo, sia per essere in grado di evitare gli errori, sia per sfruttarne le potenzialità. Inoltre, la già vasta e sempre crescente presenza di Internet e delle moderne tecnologie di comunicazione – caratterizzate da reti peculiari di rapporti sociali formali e informali – rappresenta una sfida importante per i manager orientati al successo. Sebbene esistano altre definizioni, da un punto di vista sociologico un gruppo è formato da due o più persone che interagiscono liberamente condividendo norme e obiettivi collettivi e avendo un’identità comune.2 La figura 10-1 mostra come i quattro criteri che caratterizzano tale definizione si combinino fra loro formando un insieme concettuale. Edgar Schein, psicologo delle organizzazioni, ha fornito una spiegazione più chiara di questo concetto distinguendo in modo accurato gruppo, folla e organizzazione: La dimensione del gruppo è dunque limitata dalle possibilità di interazione e consapevolezza reciproca. Un semplice aggregato di persone non può essere definito nei termini di “gruppo” perché le persone non interagiscono e non si percepiscono come parte di un gruppo, nonostante siano consapevoli della reciproca presenza, come può avvenire nel caso di una folla a un angolo di strada intenta ad assistere a qualche avvenimento. Un

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Dinamiche di gruppo

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Figura 12-1 Quattro criteri sociologici per definire un gruppo

Identità comune 4

1 Due o più individui che interagiscono liberamente

Norme collettive 2

3 Obiettivi collettivi

intero reparto, un sindacato o un’organizzazione, sebbene pensino a loro stessi in termini di “noi”, non possono comunque essere considerati un gruppo perché generalmente non tutti interagiscono e non tutti si conoscono. Viceversa team di lavoro, comitati, unità organizzative e varie altre forme di associazione tra membri dell’organizzazione, risponderebbero alla definizione di gruppo sopra riportata.3

Gruppi formali e informali Gruppo formale: gruppo formato da un’organizzazione Gruppo informale: gruppo formato da amici o da persone con interessi comuni

Gli individui si riuniscono in gruppi, o vi vengono assegnati, per vari scopi. Un gruppo si definisce formale se è formato da un manager al fine di aiutare l’organizzazione a perseguire i suoi obiettivi. I gruppi formali sono tipicamente classificati come gruppi di lavoro, team di progetto, comitati, commissioni o task force. Si parla di gruppo informale quando gli scopi principali per riunirsi sono l’amicizia o gli interessi comuni. I gruppi formali e informali possono talvolta sovrapporsi nell’ambiente di lavoro, ad esempio nelle aziende a conduzione familiare e per la prassi assai diffusa di assumere persone di fiducia quali parenti e amici.4

Funzioni dei gruppi formali Secondo i ricercatori i gruppi formali soddisfano due funzioni basilari: quella organizzativa e quella individuale. Le varie funzioni sono elencate nella tabella 10-1. In qualunque momento è possibile riscontrare, nei gruppi formali, combinazioni complesse di tali funzioni.

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Parte III

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I gruppi e i processi sociali

Tabella 10-1 I gruppi formali soddisfano funzioni organizzative e individuali Funzioni organizzative

Funzioni individuali

1. Portare a termini risultati complessi e interdipendenti 2. 3. 4. 5. 6.

1. Soddisfare l’esigenza di affiliazione dell’individuo che vanno oltre le capacità degli individui Generare idee e soluzioni originali o creative. 2. Sviluppare, migliorare e confermare all’individuo la fiducia in se stesso e il senso di identità Coordinare attività interfunzionali. 3. Dare un’opportunità di provare e condividere le proprie percezioni della realtà sociale. Fornire un meccanismo di problem-solving per problemi 4. Ridurre le ansie e le sensazioni di insicurezza e impotenza complessi che richiedono varie informazioni e valutazioni Mettere in atto decisioni complesse 5. Fornire un meccanismo di problem-solving per problemi di carattere personale e interpersonale Curare la socializzazione e formare i nuovi arrivati

Fonte: adattato da E.H. Schein, Organizational Psychology, 3a edizione (Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, 1980), pp. 149-151).

Considerate, ad esempio, l’esperienza dei nuovi dipendenti americani della Mazda che, prima dell’apertura dello stabilimento a Flat Rock, in Michigan, hanno lavorato per un mese in Giappone: Dopo un mese di formazione secondo i metodi della Mazda, battendo i loro nuovi colleghi giapponesi a softball, e sperimentando i vari locali della zona, gli americani si sono entusiasmati. […] Un manager responsabile della manutenzione ha addirittura vagamente elogiato la pratica giapponese della ginnastica di gruppo che si tiene ogni mattina prima del lavoro: “Non pensavo che fare ginnastica ogni mattina mi sarebbe piaciuto, ma in un certo senso è stato così.”5

Mentre la Mazda perseguiva le proprie funzioni organizzative (lavoro di squadra interdipendente, creatività, coordinamento, problem-solving e formazione), i lavoratori americani hanno tratto beneficio dalle funzioni individuali dei gruppi formali, che includevano l’affiliazione con nuovi amici, una valorizzazione della fiducia in se stessi, l’esposizione alla realtà sociale giapponese e la diminuzione dell’ansia derivata dal lavorare per un’azienda straniera. La Mazda, in breve, ha creato un mix gestibile che, tramite la formazione dei nuovi dipendenti americani in Giappone, combina funzioni di gruppo individuali e organizzative.

L’era dei social media ha sfumato i confini tra formale e informale Le relazioni sociali sono complesse, vive e in continuo movimento; è difficile tracciare confini netti, soprattutto in una realtà dominata dai social media e dalle interazioni in tempo reale. In questo contesto ci si interroga su quanto sia utile che gruppi formali e informali si sovrappongano. Alcuni manager sono convinti che l’amicizia personale renda i team più produttivi, altri ritengono che le “aggregazioni informali” rappresentino un ostacolo per la produttività. Un recente sondaggio condotto su un campione di lavoratori dai 18 anni in su ha evidenziato i principali vantaggi e svantaggi determinati dai

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rapporti di amicizia nell’ambiente di lavoro. I lati positivi sono un ambiente di lavoro più incoraggiante (secondo il 70% degli intervistati) e più lavoro in team (69%), quelli negativi il pettegolezzo (44%) e i favoritismi (37%).6 I manager sono chiamati a trovare un giusto equilibrio, tenendo conto della maturità e degli obiettivi delle persone coinvolte. La rivoluzione dei social media Per lungo tempo, il termine networking indicava semplicemente lo sviluppo di un insieme di relazioni personali e professionali e la cura dei contatti. Con l’avvento di email, blog e siti come Facebook, LinkedIn, YouTube e Twitter, il networking ha assunto una portata molto più ampia e globale, giocando persino un ruolo essenziale nella rivoluzione egiziana attraverso Facebook e Twitter.7 Perché accontentarsi di un insieme statico di contatti quando si possono instaurare interazioni istantanee, complete e significative con migliaia di persone? La rivista PC propone questa utile definizione di sito di social networking (social networking site, SNS): Un sito web che rappresenta una comunità virtuale per le persone interessate a un particolare tema o desiderose di “trascorrere del tempo” assieme. I membri creano il proprio “profilo” online con dati biografici, immagini, preferenze e qualsiasi altra informazione decidano di pubblicare. Comunicano con gli altri utenti a voce, tramite chat e messaggi istantanei, videoconferenze e blog e generalmente hanno la possibilità di interagire con i contatti di altri membri.8

I membri di un sito di social networking possono anche non conoscersi personalmente. L’utenza è eterogenea, con una netta prevalenza dei più giovani; secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 75% degli utenti di Internet di età compresa tra i 18 e i 24 anni e il 30% di coloro che hanno tra i 35 e i 44 anni possiede un profilo su almeno un sito di social networking.9 È giusto che i manager siano amici dei collaboratori? Un annoso problema legato alle dinamiche di gruppo e amplificato dai social media è quello dei rapporti di amicizia manager-collaboratore. Nella loro rubrica di consigli incentrati sul mondo degli affari, Jack e Suzy Welch offrono questa utile prospettiva: Non dovete necessariamente diventare amici dei collaboratori, almeno fintanto che condividete con loro gli stessi valori per l’azienda. Se siete legati da un rapporto di amicizia, tanto meglio: lavorare con persone che vi piacciono per 8-10 ore al giorno rende tutto più divertente. Premesso questo, ricordate che le amicizie capo-subordinati possono vivere o morire per via di un solo fattore: l’onestà, totale e costante. La schiettezza è indispensabile in qualsiasi rapporto di lavoro, ma diventa particolarmente vitale quando entra in gioco anche un aspetto sociale. Dovete evitare che il vostro apprezzamento per la personalità di un collaboratore equivalga a un apprezzamento automatico delle sue prestazioni. Questo può capitare, ma le valutazioni della prestazione devono rappresentare momenti di conversazione distinti e separati – almeno quattro volte all’anno – durante i quali vi sedete a tavolino, mettete da parte gli aneddoti della grigliata dello scorso fine settimana e parlate di aspettative e prestazioni effettive.10

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Per seguire questo consiglio, occorre una buona dose di intelligenza emotiva e sociale.

Il processo di sviluppo dei gruppi I gruppi e i team passano attraverso un processo di sviluppo simile a quello di qualunque situazione presenti un “ciclo di vita” (le persone, le organizzazioni, i prodotti). Se da una parte tra gli studiosi c’è un generale accordo sul fatto che il processo di sviluppo dei gruppi si articoli in stadi identificabili, dall’altra non c’è accordo sull’esatto numero, la sequenza, la durata e la natura di tali stadi.11 Un modello spesso citato è quello proposto nel 1965 da Bruce W. Tuckman, uno psicologo della formazione. Inizialmente il suo modello comprendeva quattro stadi (forming, storming, norming e performing). Il modello suddiviso in cinque fasi, illustrato nella figura 10-2, si è evoluto quando Tuckman e uno studente di dottorato hanno aggiunto, nel 1977, la voce “adjourning”.12 È però necessario un avvertimento; analogamente, in un certo qual modo, alla teoria di Maslow sulla gerarchia dei bisogni, la teoria di Tuckman è stata ripetuta e insegnata così spesso e così a lungo da essere considerata da molti come una realtà documentata, e non come una semplice teoria. Anche oggi è importante ricordare l’avvertimento dello stesso Tuckman, il quale precisa che il modello di sviluppo dei gruppi è stato ricavato più da sessioni di terapia di gruppo che non da esperienze di vita di tutti i giorni. Ciò nonostante molti, nell’ambito del comportamento organizzativo, apprezzano questo modello perché è facile da ricordare e compatibile col buon senso.

Le cinque fasi Esaminiamo brevemente ogni singola fase del modello di Tuckman. Da notare, nella figura 10-2, come le persone, quando decidono di unirsi a un gruppo e partecipare alle sue attività, rinuncino a una parte della loro indipendenza. Le varie fasi, inoltre, non sono tutte caratterizzate dalla medesima durata o intensità; la fase dello storming, ad esempio, potrebbe essere pressoché inesistente o terribilmente lunga, a seconda di quanto chiaro sia l’obiettivo da perseguire e del livello di impegno e maturità dei membri del gruppo. Potete mettere in pratica questo processo associando le varie fasi alla vostra esperienza personale con gruppi di lavoro, comitati, squadre sportive, associazioni di carattere sociale o religioso, oppure con lavori di gruppo svolti in classe. Alcuni avvenimenti di gruppo che all’epoca hanno suscitato la vostra sorpresa potrebbero ora avere senso o essere visti come inevitabili aspetti di un processo di sviluppo naturale. Fase 1: forming Durante la fase 1, di “rottura del ghiaccio”, i membri del gruppo tendono a mostrarsi incerti e ansiosi in merito a fattori quali il proprio ruolo, la responsabilità della supervisione e gli obiettivi del gruppo. Secondo un nuovo studio, contatti precedenti tra i membri del gruppo possono creare attriti.13 La fiducia reciproca è bassa e molti si mostrano titubanti in attesa di vedere chi assumerà il controllo della situazione e come. Se il leader formale (ad esempio un supervisore) non mostra con decisione la sua autorità, un altro leader prenderà il suo posto per soddisfare il bisogno di leadership e controllo del gruppo. Solitamente i leader confondono questo periodo di “luna

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Performing

Adjourning

Ritorno all’indipendenza

Norming

Storming Dipendenza/ interdipendenza

Forming

Indipendenza

“Qual è il mio “Che cosa si ruolo?” aspettano gli altri da me?”

Problemi individuali

“Come mi inserisco?”

Problemi di gruppo

“Perché siamo “Perché stiamo qui?” litigando su chi debba avere il controllo della situazione e su chi debba fare cosa?”

“Come posso rivestire al meglio il mio ruolo?”

“Che cosa accadrà dopo?”

“Siamo in grado “Possiamo aiutare “Possiamo essere d’accordo di svolgere il lavoro i partecipanti a sui ruoli e in modo adeguato?” lasciare il gruppo? sul lavoro come team?”

Figura 10-2 Le cinque fasi della teoria di Tuckman sullo sviluppo dei gruppi

di miele” con un mandato di controllo permanente; l’insorgere di problemi successivi, tuttavia, può rendere necessario un cambiamento di leadership. Il team building, che esamineremo nel capitolo successivo, può aiutare i nuovi gruppi a partire con il piede giusto. Fase 2: storming Si tratta di un periodo di prova; i membri del gruppo, nel cercare di stabilire come si inseriscono nella struttura di potere, mettono alla prova le politiche e gli assunti del leader. Si vengono a creare dei sottogruppi e con essi forme sotterranee di ribellione, come la procrastinazione. Molti gruppi si bloccano alla fase 2 perché le politiche di potere sfociano in scontri aperti.14 Fase 3: norming I gruppi riescono generalmente a superare la fase 2 poiché un certo numero di partecipanti, diversi dal leader, sfidano il gruppo a risolvere i conflitti di potere al fine di procedere nel perseguimento dell’obiettivo. I problemi di autorità e

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Coesione di gruppo: senso di “collettività” che unisce i membri del gruppo

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potere vengono risolti tramite discussioni controllate e concrete. Si percepisce un forte spirito di squadra perché ogni membro ritiene di aver trovato il ruolo a lui più adatto. La coesione di gruppo, definita come il senso di “collettività” che unisce i partecipanti al gruppo, è il più importante sottoprodotto della fase 3.15 Fase 4: performing Durante questa fase, di fondamentale importanza, l’attività si concentra sulla risoluzione del problema oggetto dell’attività di gruppo. In qualità di membri di un gruppo maturo, i partecipanti portano a termine il loro compito senza ostacolare gli altri. L’atmosfera è di aperta comunicazione, solida cooperazione e intenso aiuto reciproco. Coerenza e impegno personale nel perseguimento degli obiettivi comuni aiutano il gruppo a raggiungere risultati più consistenti di quelli di un singolo individuo che opera da solo. Stando a quanto dice una coppia di esperti di sviluppo dei gruppi, la struttura del gruppo può diventare flessibile e adeguarsi a quelle che sono le esigenze della situazione senza creare problemi ai suoi membri. Il grado di importanza può spostarsi da un membro all’altro a seconda di chi possiede le capacità o il grado di esperienza necessari per lo svolgimento del compito o dell’attività del gruppo. I sottogruppi possono occuparsi di problemi speciali o di problemi secondari senza minacciare l’autorità o la coesione del resto del gruppo.16

Fase 5: adjourning Il lavoro è concluso; è il momento di passare ad altro. Dopo essersi impegnati duramente per andare d’accordo e portare a termine un compito, molti membri provano un grave senso di perdita; il ritorno all’autonomia può essere facilitato da rituali che festeggiano “la fine” e “un nuovo inizio”. Le feste, l’assegnazione di premi, le cerimonie di laurea o i finti funerali possono essere la chiosa adeguata a un progetto di gruppo di una certa importanza. I leader, al fine di preparare tutti a futuri incarichi di gruppo, devono mettere in risalto gli insegnamenti utili tratti in merito alle dinamiche di gruppo.

Sviluppo dei gruppi: studi e indicazioni pratiche Un crescente numero di studi sullo sviluppo dei gruppi fornisce ai manager alcune indicazioni pratiche. Estensione del modello di Tuckman: decadenza del gruppo Un interessante studio condotto su 10 team per lo sviluppo di software, che comprendevano dai 5 ai 16 membri, ha dato una maggiore rilevanza pratica al modello di Tuckman.17 Diversamente dai gruppi di laboratorio, coinvolti per un breve periodo di tempo nel lavoro di gruppo, le squadre di ingegneri del software esaminate lavoravano su progetti che duravano anche anni. I ricercatori, pertanto, hanno scoperto un processo di sviluppo dei gruppi più articolato rispetto alle cinque fasi. In realtà, una volta raggiunta la fase di performing di Tuckman, i ricercatori hanno rilevato che spesso si verifica la decadenza del gruppo. In linea con la terminologia adottata da Tuckman, le tre fasi caratterizzanti la decadenza del gruppo sono state definite come “de-norming”, “de-storming” e “de-forming”. Tali fasi aggiuntive si sviluppano come segue:

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De-norming. Man mano che il progetto prende forma gli standard di comportamento incominciano, in modo naturale, a venir meno; i membri del gruppo si spostano in direzioni diverse a seconda dei loro interessi e delle loro aspettative. • De-storming. Questa fase della decadenza del gruppo si sviluppa nel modo esattamente opposto alla fase di storming; se in quest’ultima i disaccordi e i conflitti emergono in maniera alquanto improvvisa, durante la fase opposta il senso latente di malcontento emerge lentamente. La resistenza individuale aumenta e la coesione diminuisce. • De-forming. Il gruppo di lavoro letteralmente si disgrega, mentre i sottogruppi si scontrano per assumere il controllo. Le parti del progetto che non sono reclamate dai singoli o dai sottogruppi sono abbandonate. “I membri del gruppo cominciano a isolarsi tra di loro e rispetto ai loro leader. Il valore della performance subisce un rapido declino perché il lavoro, nella sua completezza, non viene svolto, e i membri del gruppo non sono interessati a quello che accadrà al di là dei confini che si sono autoimposti.”18 La principale lezione di management che emerge da questo studio è che i leader del gruppo non dovrebbero farsi prendere dall’entusiasmo una volta raggiunta la fase di performing. Stando a quanto i ricercatori affermano: “La fase di performing è molto rischiosa e non è una fase di equilibrio stabile”.19 La prima linea di difesa è la consapevolezza; è inoltre necessario compiere passi costruttivi che rafforzino le norme e la coesione e che riconfermino l’obiettivo comune, anche nel caso in cui i membri stiano agendo nel modo migliore possibile. Feedback Un altro studio piuttosto importante è quello condotto da una coppia di psicologi olandesi. Sono partiti dall’ipotesi che, durante il processo di sviluppo dei gruppi, il feedback interpersonale mutasse sistematicamente. “L’unità considerata come feedback era un messaggio verbale che un partecipante rivolgeva a un altro, nel quale veniva indicato un particolare aspetto del comportamento.”20 Dopo aver raccolto e suddiviso in categorie 1600 esempi di feedback tratti da quattro diversi gruppi, ognuno formato da otto elementi, i ricercatori hanno tratto le seguenti conclusioni: • Il feedback interpersonale aumenta man mano che il gruppo si sviluppa nelle fasi successive. • Nel corso dello sviluppo del gruppo il feedback interpersonale diventa più specifico. • Con lo sviluppo del gruppo il feedback positivo aumenta e quello negativo diminuisce. • Nel corso dello sviluppo del gruppo aumenta la credibilità del feedback tra pari.21 Tali scoperte sono molto importanti per i manager; il contenuto e la modalità del feedback interpersonale tra membri di un gruppo di lavoro o di un comitato possono essere usati come criteri per stabilire se il gruppo si sta sviluppando in maniera adeguata. L’inizio della fase 2 (storming), ad esempio, verrà segnalato da un sostanziale aumento di feedback negativo. Si può poi tentare di generare, tra i membri, un feedback specifico e positivo, affinché lo sviluppo del gruppo non subisca un arresto. A questo proposito può risultare utile il modello di feedback discusso nel Capitolo 9.

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Scadenze Sia le ricerche condotte sul campo che gli studi in laboratorio hanno dato esiti incerti rispetto al ruolo delle scadenze come forze distruttive sia per lo sviluppo del gruppo che per le relazioni tra i gruppi. Le implicazioni pratiche di tali risultati sono state riassunte dai ricercatori come segue: Scadenze incerte o tendenti a slittare in avanti sono una cosa naturale per molte organizzazioni. Unità organizzative e gruppi interdipendenti possono vicendevolmente farsi aspettare, possono all’improvviso anticipare o posticipare le scadenze, o possono crearne di nuove, appositamente fissate prima del termine utile, al fine di controllare flussi di lavoro irregolari. La presente ricerca suggerisce che le conseguenze di tale incertezza potrebbero portare a qualcosa di peggio dello stress, del tempo sprecato, degli straordinari e dei conflitti tra gruppi. La sincronia tra le aspettative dei diversi partecipanti in merito alle scadenze può influire criticamente sulle capacità dei gruppi di concludere con successo le varie fasi del loro lavoro.22

La gestione di un gruppo efficiente, pertanto, implica non solo un chiarimento dei compiti e degli obiettivi, ma anche dei programmi e delle scadenze. Quando i membri del gruppo percepiscono adeguatamente l’importanza delle scadenze, l’andamento del lavoro e la tempestività con cui si conducono i lavori interdipendenti tendono a migliorare. Stili di leadership Esperti di leadership sostengono, in parte in contrasto con le affermazioni precedenti, che nel corso del suo sviluppo il gruppo necessita di diversi stili di leadership. In generale è stato provato che il comportamento di leadership attivo, aggressivo, direttivo, strutturato e orientato al compito sembra mostrare risultati favorevoli all’inizio della storia del gruppo. Pare tuttavia che tali comportamenti, se mantenuti durante tutto il corso della vita del gruppo, abbiano un effetto negativo sulla coesione e sulla qualità del lavoro. Viceversa, un comportamento di leadership volto al sostegno, democratico, decentralizzato e partecipativo sembra spiegare un funzionamento mediocre del gruppo nelle prime fasi del suo sviluppo. Tuttavia, sembra che tali comportamenti, se mantenuti durante tutta la vita del gruppo, determinino maggiore produttività, soddisfazione e creatività.23

In sostanza si consiglia ai manager, nel corso dello sviluppo del gruppo, di muoversi da uno stile di leadership direttivo e strutturato a uno partecipativo e orientato al sostegno.24

Ruoli e norme: basi sociali per il comportamento organizzativo e di gruppo I gruppi di lavoro trasformano gli individui in membri attivi di un’organizzazione tramite sottili ma potenti forze sociali.25 Tali forze, di fatto, trasformano un “io” in “noi”. L’influenza del gruppo inserisce gli individui nella trama sociale dell’organizzazione comunicando aspettative di ruolo e norme e dando loro forza cogente. Se vogliamo gestire il comportamento organizzativo e di gruppo dobbiamo dunque capire i ruoli e le norme.

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Ruoli: comportamenti previsti per una data posizione

Sono passati quattro secoli da quando William Shakespeare ha scritto per il suo personaggio Jaques, nel II atto di Come vi piace, le battute indimenticabili che seguono: “il mondo è tutto un palcoscenico / sul quale tutti noi, uomini e donne / siam solo attori, con le nostre uscite / e con le nostre entrate; ove ciascuno, / per il tempo che gli è stato assegnato, / recita molte parti”. Questa interessante idea delle persone viste come attori di una rappresentazione universale è riemersa tra i sociologi degli anni ’20, che hanno sviluppato una complessa teoria sulla interazione umana basata sui ruoli. Secondo uno studioso di comportamento organizzativo, “i ruoli si definiscono come una serie di comportamenti che la gente si aspetta da chi occupa una determinata posizione”.26 La teoria dei ruoli tenta di spiegare come tali aspettative sociali influiscano sul comportamento delle persone che lavorano. La presente sezione esaminerà la teoria dei ruoli analizzando gli episodi di ruolo e definendo i concetti di sovraccarico, conflitto e ambiguità di ruolo. Episodi di ruolo Un episodio di ruolo, come mostrato nella figura 10-3, può essere descritto come lo scatto di un’istantanea che ferma un momento di interazione in corso tra due persone. In ciascun episodio di ruolo vi è una persona che crea il ruolo e un’altra che ha il compito di metterlo in pratica. In un contesto sociale più ampio colui che crea il ruolo può simultaneamente essere anche colui che lo interpreta. Ai fini dell’analisi sociale è tuttavia più istruttivo analizzare gli episodi di ruolo separati. Gli episodi di ruolo cominciano con la percezione, da parte di colui che crea il ruolo, dei requisiti comportamentali importanti per il gruppo o per l’organizzazione. Tali requisiti sono il modello su cui valutare con attenzione l’effettivo comportamento della persona chiamata a interpretare il ruolo. A quest’ultima vengono poi inviati messaggi verbali e comportamentali affinché adegui il suo modo di agire alle aspettative. Una meta-analisi dei risultati di 160 studi che hanno coinvolto 77.954 lavoratori ha confermato che la pressione positiva e negativa dei pari esercita una forte influenza sulla

Disegno del ruolo • Percezione organizzativa/ requisiti richiesti dal gruppo • Valutazione comparativa di – Aspettative di ruolo per chi deve interpretare il ruolo – Comportamento di chi interpreta il ruolo

Modellazione del ruolo Comunicazione di approvazione o esigenza di cambiamento

Persona che interpreta il ruolo • Aspettative di ruolo percepite • Sperimentazione di sovraccarichi, conflitti e ambiguità di ruolo • Reazioni costruttive/distruttive

Feedback Figura 10-3 Un episodio di ruolo Fonte: adattato da R.L. Kohn, D.M. Wolfe, R.P. Quinn, e J.D. Snoek, Organizational Stress: Studies in Role Conflict and Ambiguity (Malabar, FL: Robert E Krieger Publishing, 1964), p. 26.

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prestazione nel ruolo.27 Osservate come Westinghouse ha usato il metodo del bastone e della carota per comunicare le aspettative del ruolo: La carota è data da un piano che […] ha ricompensato 134 manager con stock option su 764.000 azioni dell’azienda per aver incrementato i risultati finanziari. Il bastone è dato dalle riunioni trimestrali nelle quali i manager vengono valutati in base a quanto le loro operazioni contribuiscono all’utile per azione. [Il presidente del consiglio di amministrazione], dai toni pacati, non rimprovera; si limita semplicemente a rappresentare graficamente in verde i risultati dei manager che hanno raggiunto i loro obiettivi e in rosso chi invece è rimasto indietro. La pressione da parte degli altri membri fa il resto. La vergogna, come afferma un dirigente, “è uno strumento molto potente”.28

Aspetto molto interessante, in un recente sondaggio condotto in ambienti di lavoro solo il 10% e il 31% degli intervistati si dicevano rispettivamente molto d’accordo e d’accordo con la seguente affermazione: “All’interno della mia organizzazione, le persone devono dare conto del raggiungimento della performance”.29 Dedicando maggiori energie alla comunicazione e all’esplicitazione delle aspettative di ruolo si può migliorare significativamente la produttività nell’ambiente organizzativo. Chi dovrà interpretare il ruolo può percepire in maniera accurata o imprecisa le aspettative comunicate e il modello di comportamento. Si sperimentano, in seguito, varie combinazioni di sovraccarico di ruolo, conflitto di ruolo e ambiguità di ruolo (questi concetti verranno definiti e discussi di seguito). La persona che deve interpretare il ruolo può reagire in modo costruttivo, impegnandosi, per esempio, nella risoluzione di un problema, o in modo distruttivo, a causa della tensione, dello stress e della pressione subita.

Sovraccarico di ruolo: le aspettative altrui superano le capacità della persona

Conflitto di ruolo: le aspettative altrui sono contrastanti o incoerenti

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Sovraccarico di ruolo Secondo Edgar Schein, psicologo delle organizzazioni, un sovraccarico di ruolo si verifica quando “l’insieme delle aspettative di coloro che hanno creato il ruolo nei confronti di chi dovrà interpretarlo supera le sue effettive capacità”.30 Gli studenti che tentano di seguire un corso regolare di studi e mantenere una vita sociale dignitosa pur lavorando 30 o più ore a settimana, conoscono molto bene le conseguenze del sovraccarico di ruolo. Quando l’individuo prova a svolgere sempre più compiti, avendo sempre meno tempo a disposizione, lo stress aumenta, l’efficacia personale subisce un calo e anche la salute può risentirne. Conflitti di ruolo Vi siete mai sentiti lacerati dalle aspettative contrastanti di chi vi circonda? In caso affermativo siete stati vittime di un conflitto di ruolo. Un conflitto di ruolo si verifica quando “diversi soggetti che contornano il ruolo in questione hanno aspettative diverse nei confronti della persona che lo interpreta”. I lavoratori, come discusso nel Capitolo 6, si trovano spesso in conflitto tra le esigenze del lavoro e quelle della famiglia; le donne devono affrontare conflitti di ruolo tra lavoro e famiglia maggiori rispetto agli uomini, perché rivestono tuttora un ruolo di responsabilità maggiore, sia per quanto riguarda i doveri della vita domestica, sia in merito alla cura dei figli e degli anziani.

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227 In media le mogli si fanno carico del doppio dei lavori domestici rispetto ai mariti, l’equivalente di due giornate di compiti supplementari alla settimana. Anche quando l’uomo è disoccupato, la donna gestisce gran parte del carico di lavoro domestico e lo stesso accade per la cura dei figli. Se entrambi i genitori lavorano, le donne trascorrono il 400% di tempo in più con i bambini.31

I single vivono il loro conflitto di ruolo tra lavoro e tempo libero. I conflitti di ruolo emergono anche quando valori interiorizzati, standard etici o modelli personali si scontrano con le aspettative di altri. Un manager che normalmente si attiene all’etica, ad esempio, potrebbe ricevere da un superiore l’ordine di presentare una relazione sul controllo di qualità “non troppo corrispondente al vero” al fine di rispettare un’importante scadenza. Il conflitto di ruolo che ne risulta costringe il manager a scegliere tra un comportamento leale, ma contro l’etica, e uno conforme all’etica, ma sleale. Difficili scelte etiche come questa sono causa di inquietudine personale, conflitto interpersonale e persino di dimissioni. Gli esperti, di conseguenza, affermano che le business school dovrebbero impegnarsi maggiormente nell’inserire l’etica tra i temi fondamentali dei loro corsi.

Ambiguità di ruolo: le aspettative altrui sono ignote

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Ambiguità di ruolo Coloro che si trovano ad affrontare un conflitto di ruolo possono avere problemi nell’adeguarsi alle esigenze richieste da questo ma, per lo meno, sanno che cosa ci si aspetta da loro. La stessa cosa non vale per l’ambiguità di ruolo, che si viene a creare quando “coloro che creano il ruolo non riescono a comunicare al destinatario ciò che si aspettano da lui oppure le informazioni necessarie per mettere in pratica il ruolo, o perché non dispongono di tali informazioni o perché, deliberatamente, non le comunicano”.32 In breve, le persone sperimentano l’ambiguità di ruolo quando non sanno come ci si aspetta che agiscano. I nuovi arrivati in un’impresa si lamentano spesso in merito a descrizioni poco chiare del lavoro da svolgere e criteri di promozione troppo vaghi. Stando alla teoria dei ruoli, un’ambiguità di ruolo prolungata può incrementare l’insoddisfazione sul lavoro, minare la fiducia in se stessi e danneggiare la prestazione lavorativa. L’ambiguità di ruolo, come è ovvio, varia a seconda delle realtà culturali; in uno studio condotto su 21 nazioni è emerso che le persone appartenenti a culture individualistiche avevano un grado di ambiguità di ruolo più alto rispetto a quelle appartenenti a culture collettivistiche.33 Le persone appartenenti a culture collettivistiche, in altre parole, avevano un’idea più chiara di ciò che gli altri si aspettavano da loro. Tali culture si assicurano che ciascuno sappia quale posto occupare nella società. Le persone appartenenti a culture individualistiche, come gli Stati Uniti, possono apprezzare una maggiore discrezionalità individuale, ma, di conseguenza, uno scarso riscontro da parte di terzi determina chiaramente una maggiore ambiguità di ruolo. Come precedentemente accennato le conseguenze derivate dal ruolo si sviluppano in una qualche combinazione tra loro e di solito vanno a danneggiare l’individuo e l’organizzazione. Una ricerca condotta in Israele ha rilevato, per l’appunto, come persone coinvolte in un conflitto di ruolo unito a un’ambiguità di ruolo abbiano avuto una prestazione lavorativa meno efficace.34

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Norme

Norme: comportamenti condivisi, opinioni, sensazioni o azioni che guidano il comportamento organizzativo

Le norme sono molto più complete dei ruoli; se da una parte i ruoli implicano un determinato comportamento per determinate posizioni, dall’altra le norme aiutano i membri dell’organizzazione a stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è positivo e cosa è negativo. Secondo quanto affermato da un gruppo accreditato di consulenti manageriali: “una norma indica un comportamento, un atteggiamento, un’opinione o un’azione – condivisa da due o più persone – che fa da guida al loro comportamento”.35 Sebbene le norme siano notoriamente non scritte e raramente discusse apertamente, influiscono notevolmente sul gruppo e sul comportamento organizzativo. La PepsiCo Inc., ad esempio, ha sviluppato una regola in base alla quale la competitività aziendale è paragonata alla cura della forma fisica. Secondo quanto osservato La magrezza e l’agilità sono qualità tipiche dell’azienda. Quando i giovani rampanti manager della Pepsi si prendono una pausa dall’ufficio vanno spesso direttamente nel centro sportivo dell’azienda o a fare una corsa attorno alle sculture situate al di fuori del centro direzionale della PepsiCo a New York.36

Ostracismo: rifiuto da parte degli altri membri del gruppo

Alla PepsiCo e in altre aziende i membri del gruppo accolgono e sostengono positivamente chi aderisce alle norme in uso. Ciò nonostante gli anticonformisti vanno incontro a critiche e addirittura a ostracismo o rifiuto da parte dei membri del gruppo. Chiunque abbia sperimentato di essere stato punito col silenzio da parte degli amici sa perfettamente quale arma potente possa essere l’ostracismo.37 Le norme possono essere poste nella giusta prospettiva cercando di capirne lo sviluppo e il motivo per cui sono applicate. Come si sviluppano le norme Gli esperti affermano che, quando il gruppo o l’organizzazione stabiliscono cosa è necessario fare per essere efficaci, le norme si sviluppano in maniera informale. In generale le norme si sviluppano in diverse combinazioni dei modi qui di seguito riportati: 1. Affermazioni esplicite dei capi o dei colleghi. Il leader di un gruppo, ad esempio, potrebbe stabilire norme esplicite che vietino il consumo di bevande alcoliche nella pausa pranzo. 2. Avvenimenti critici nella storia del gruppo. Talvolta si verifica, nella storia del gruppo, un avvenimento critico che stabilisce un precedente importante. Ad esempio un nuovo assunto portatore di competenze rilevanti può voler decidere di lavorare altrove perché un membro del gruppo ha detto troppe cose negative in merito all’organizzazione. Si potrebbe pertanto sviluppare una norma contro tale comportamento “sgradevole”. 3. Supremazia. Il primo tipo di comportamento emergente in un gruppo spesso determina le aspettative del gruppo stesso. Se la prima riunione è caratterizzata da un tipo di interazione alquanto formale tra capi e collaboratori, il gruppo si aspetterà che le riunioni successive si svolgeranno allo stesso modo. 4. Comportamenti passati applicati a situazioni presenti. L’applicazione di comportamenti verificatisi in precedenti situazioni può aumentare la prevedibilità dei comportamenti dei membri del gruppo in situazioni nuove e facilitare l’esecuzione

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229 del compito. Gli studenti e i professori, ad esempio, portano con sé, da una classe all’altra, un buona dose di aspettative.38

Vi proponiamo ora di pensare per qualche istante alle norme attualmente vigenti nel vostro corso. Elencatele su un foglio di carta. Queste norme vi sono d’aiuto o di ostacolo nella vostra capacità di apprendimento? Le norme possono influire sulla prestazione sia positivamente che negativamente. Perché le norme vengono applicate? Le norme tendono a essere applicate dai membri del gruppo quando • aiutano la sopravvivenza del gruppo o dell’organizzazione; • chiariscono o semplificano le aspettative sul comportamento; • aiutano gli individui a evitare situazioni imbarazzanti; • chiariscono quali sono i valori fondamentali e/o l’identità del gruppo e dell’organizzazione.39 Esempi pratici delle quattro suddette situazioni sono presentati nella tabella 10-2.

Risultati della ricerca e implicazioni per i manager Sebbene la validità degli strumenti utilizzati per misurare il conflitto di ruolo e l’ambiguità di ruolo sia contestabile,40 due meta-analisi distinte hanno indicato che il conflitto di ruolo e l’ambiguità di ruolo incidevano negativamente sui collaboratori. In particolare il conflitto di ruolo e l’ambiguità di ruolo sono state associate all’insoddisfazione profes-

Tabella 10-2 Quattro ragioni per l’applicazione delle norme Norma

Motivazione dell’applicazione

Esempio

“Far apparire bene il nostro reparto agli occhi del top management”

Sopravvivenza del gruppo/dell’organizzazione

“Il successo sorride a coloro che lavorano duramente e non creano difficoltà”

Chiarimento delle aspettative comportamentali

“Lavora per il successo del tuo team, non per il tuo”

Evitare l’imbarazzo

“Il servizio alla clientela è la nostra priorità assoluta”

Chiarimento dei valori centrali/identità

Dopo aver difeso energicamente il ruolo fondamentale del dipartimento risorse umane, nel corso di una riunione di divisione, un esperto dello staff ha ricevuto i complimenti del capo. Un senior manager chiama in disparte un giovane collega e lo esorta a mostrarsi più paziente nei confronti dei collaboratori che hanno opinioni diverse dalla sua. Il membro di un team di progetto viene preso in giro dai suoi colleghi per aver dominato la discussione durante una relazione al manager sull’andamento dei lavori. Viene organizzata una festa a sorpresa venerdì pomeriggio per due agenti di vendita, per aver ricevuto, da un’associazione industriale, un prestigioso riconoscimento per il servizio alla clientela.

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sionale, a tensione e ansia, alla mancanza di commitment organizzativo, all’intenzione di abbandonare il lavoro e, in forma minore, a una prestazione lavorativa scadente.41 I risultati delle meta-analisi non hanno costituito una grande sorpresa per i manager; generalmente, date le associazioni negative riportate, diventa conseguenza logica, per il management, ridurre sia il conflitto che l’ambiguità di ruolo. A questo scopo i manager possono ricorrere al feedback, a regole e procedure formali, a una leadership direttiva, a obiettivi specifici dal punto di vista comportamentale (difficili) e alla partecipazione. I manager, al fine di ridurre il conflitto e l’ambiguità di ruolo, possono altresì ricorrere all’intervento di un mentore, processo discusso nel Capitolo 3. Per quanto riguarda le norme, una serie recente di studi di laboratorio, che ha visto coinvolti 1504 studenti universitari, presenta importanti implicazioni per i programmi che riguardano la diversità sul posto di lavoro. I soggetti appartenenti a gruppi dove vigeva la norma di manifestare pregiudizi, legittimare la discriminazione e reagire ridendo a scherzi ostili, tendevano ad assumere tali spiacevoli comportamenti. Al contrario, i soggetti messi a confronto con gruppi caratterizzati da regole socialmente più accettabili, hanno dato segno di disapprovazione nei confronti di una condotta pregiudiziale e discriminatoria.42 Quindi, ancora una volta, la mamma aveva ragione quanto ci diceva di non frequentare “cattive compagnie”. I manager che desiderano costruire solidi programmi di diversità devono valorizzare modelli di ruolo e norme di gruppo adeguate. È necessario individuare ed eliminare i modelli di ruolo negativi e le pratiche antisociali.

Struttura e composizione del gruppo I gruppi di lavoro di varie dimensioni sono formati da individui aventi capacità e motivazioni diverse.43 Essi, inoltre, rivestono ruoli diversi sia in mansioni a loro assegnate, sia su base volontaria. Non è un caso che alcuni gruppi di lavoro siano più produttivi di altri, né che alcuni comitati siano molto uniti mentre altri si trovano in aperto conflitto. Nella presente sezione prenderemo in esame tre importanti aspetti della struttura e composizione del gruppo: (1) ruoli funzionali dei membri del gruppo, (2) dimensione del gruppo e (3) composizione di genere. Ciascuno di questi aspetti può, alternativamente, a seconda di come viene gestito, valorizzare o ostacolare l’efficacia del gruppo.

Ruoli funzionali rivestiti dai membri del gruppo Come illustrato nella tabella 10-3, se un gruppo di lavoro è chiamato a portare a termine una qualunque mansione devono essere ricoperti sia i ruoli di mantenimento sia quelli orientati al compito.44 Ruoli orientati al compito: comportamenti del gruppo orientati verso il compito da svolgere Ruoli di mantenimento: comportamenti del gruppo volti alla costruzione di rapporti

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Ruoli orientati al compito e ruoli di mantenimento I ruoli orientati al compito permettono al gruppo di lavoro di definire, chiarire e perseguire un obiettivo comune. I ruoli di mantenimento, invece, favoriscono i rapporti interpersonali costruttivi e volti al sostegno. I ruoli orientati al compito, in breve, mantengono il gruppo in carreggiata mentre i ruoli di mantenimento lo tengono unito. Abbiamo a che fare con un ruolo orientati al compito quando un membro di un progetto si alza durante una riunione di

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Tabella 10-3 Ruoli funzionali interpretati dai membri del gruppo

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Ruoli orientati al compito

Descrizione

Iniziatore Ricercatore/portatore di informazioni Ricercatore/portatore di opinioni Elaboratore

Suggerisce nuovi obiettivi o idee Chiarisce i problemi chiave

Coordinatore Guida Valutatore Stimolatore Tecnico procedurale Segretario

Chiarisce i valori pertinenti Promuove una maggiore comprensione mediante esempi o esplorazione di implicazioni Riunisce idee e suggerimenti Aiuta il gruppo a non perdere di vista l’obiettivo finale. Testa i risultati del gruppo usando diversi criteri come la logica e la praticità Incita il gruppo ad andare avanti o a raggiungere risultati ulteriori. Esegue doveri di routine (es. distribuzione di nuovi materiali o riorganizzazione dei posti a sedere) Esercita la funzione di “memoria di gruppo” documentando le discussioni e i risultati.

Ruoli di mantenimento

Descrizione

Sostenitore

Sostiene la solidarietà di gruppo accettando ed elogiando i vari punti di vista Media i conflitti tramite riconciliazione o senso dell’umorismo Aiuta a risolvere i conflitti andando incontro agli altri a metà strada Incoraggia tutti i membri del gruppo a partecipare Valuta la qualità dei processi del gruppo Registra e commenta le dinamiche/i processi di gruppo Funge da ascoltatore passivo

Armonizzatore Mediatore Custode Definitore di standard Commentatore Seguace

Fonte: adattato dalla discussione in K.D. Benne e P. Sheats, “Functional Roles of Group Members”, Journal of Social Issues, primavera 1948, pp. 41-49.

aggiornamento e dice: “Qual è il vero problema qui? Non mi sembra che si stia arrivando da nessuna parte”. Quando un altro dice: “Ascoltiamo chi non è d’accordo su questo progetto” abbiamo a che fare con un ruolo di mantenimento. È importante sottolineare che ciascuno dei diversi ruoli può essere rivestito in diverse combinazioni e sequenze dai leader del gruppo o da uno qualsiasi dei partecipanti. Checklist per i manager I ruoli di mantenimento e orientati al compito elencati nella tabella 12-3 possono servire da checklist per i manager che desiderano assicurare un adeguato sviluppo di un gruppo. A ruoli come quello del coordinatore, del valutatore e del custode, non sempre ricoperti al momento necessario, possono provvedere in modo adeguato il leader ufficiale o altri membri assegnati. I ruoli orientati al compito di iniziatore, di guida e di stimolo sono particolarmente importanti perché diretti verso l’obiettivo. Ricerche in merito alla messa a punto di obiettivi (goal setting) di gruppo confermano la forte motivazione derivata dallo stabilire traguardi ambiziosi. Analogamente a quanto visto per il goal setting individuale (argomento trattato nel Capitolo 9), obiettivi difficili, ma raggiungibili, sono associati a risultati di gruppo migliori.45 Sempre in modo analogo alla teoria e alla ricerca sul goal setting individuale, gli obiettivi

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di gruppo risultano più efficaci se i partecipanti li comprendono e si impegnano, sia a livello individuale che collettivo, a portarli a termine. A questo proposito risultano molto utili le figure di iniziatore, di guida e di stimolo. I manager in ambito internazionale devono mostrarsi sensibili nei confronti delle differenze culturali legate all’importanza dei ruoli di compito e di mantenimento. In Giappone, ad esempio, la tradizione culturale richiede maggior enfasi sui ruoli di mantenimento, specialmente per i ruoli di armonizzatore e di mediatore. L’educazione prevede che durante una riunione, o in classe, non ci si metta in evidenza o non si sia litigiosi. Se due o più membri scoprono di avere opinioni diverse – cosa che si spera sia casuale – ci si aggiorna al fine di trovare maggiori informazioni e impegnarsi per trovare una posizione accettata all’unanimità. I giapponesi non impongono le loro opinioni personali mediante argomentazioni fondate, logica esatta, o ricompense e minacce; non esitano, altresì, ad andare contro le loro convinzioni se questo può impedire di intaccare i rapporti interpersonali. (Perdere significa vincere.)46

Dimensioni del gruppo Quando si può dire che un gruppo è troppo numeroso? La risposta a questa domanda, apparentemente semplice, ha interessato i manager e gli accademici per anni. Secondo la saggezza popolare “due teste sono meglio di una”, ma “troppi galli che cantano non fanno mai far giorno”. Sondaggi recenti condotti su campioni di lavoratori indicano che i gruppi di lavoro formati da tre persone risultano i preferiti (54%), seguiti da gruppi con quattro o più membri (27%) e da gruppi di due persone (9%).47 Dove dovrebbe dunque porre il limite un manager nella formazione di un comitato? Quando ha raggiunto i 3 membri? 5 o 6? 10 o più di 10? Al fine di individuare la dimensione ideale del gruppo, i ricercatori hanno adottato due approcci diversi: l’utilizzo di modelli matematici e le simulazioni effettuate in laboratorio. Riesaminiamo brevemente le prove empiriche partendo da questi due approcci. Approccio dei modelli matematici Tale approccio implica l’elaborazione di un modello matematico attorno a determinati risultati auspicati dall’azione di gruppo, come ad esempio la qualità della decisione. A causa di assunti e tecniche statistiche divergenti, i risultati di tale ricerca sono inconcludenti. Stime statistiche relative alla dimensione ottimale del gruppo indicano un risultato compreso tra 3 e 13.48 Approccio delle simulazioni in laboratorio Tale filone di studi si basa sul presupposto che il comportamento di gruppo deve essere osservato, personalmente, in ambienti controllati di laboratorio. Uno studio di laboratorio condotto dall’autorevole ricercatore australiano Philip Yetton e dal suo collega Preston Bottger, fornisce utili osservazioni in merito alla dimensione e al risultato del gruppo.49 Un totale di 555 soggetti (330 manager e 225 laureati in economia aziendale, 20% dei quali donne) sono stati suddivisi in gruppi di lavoro aventi da 2 a 6 membri. Le squadre hanno svolto l’esercizio di sopravvivenza sulla luna elaborato dalla NASA (tale esercizio consiste nel mettere in graduatoria 15 pezzi di attrezzatura che permetterebbero all’equipaggio di una navicella spaziale sulla

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luna di sopravvivere in un viaggio di 200 miglia tra un atterraggio di emergenza e la base di partenza).50 Dopo aver analizzato il rapporto tra la dimensione del gruppo e la sua prestazione, Yetton e Bottger sono giunti alle seguenti conclusioni: Sarebbe difficile, almeno per quanto riguarda la qualità della decisione, giustificare l’esistenza di gruppi formati da più di cinque elementi. […] Naturalmente, al fine di soddisfare necessità diverse dalla qualità della decisione, le organizzazioni potrebbero utilizzare gruppi formati da molti più elementi.51

Studi di laboratorio più recenti che analizzano la produttività dell’attività di brainstorming di gruppi di varie dimensioni (dai 2 ai 12 elementi), coinvolti in interazioni a tu per tu oppure mediate dal computer, si sono rivelati molto utili. Nella consueta sessione di brainstorming a tu per tu, la produttività, in termini di idee generate, non è aumentata con l’aumento della dimensione del gruppo. Nel momento in cui le idee sono state digitate su computer in rete, invece, la produttività del brainstorming è aumentata al crescere della dimensione del gruppo.52 Questi risultati suggeriscono che le reti informatiche possono realmente portare a un miglioramento della produttività mediante l’uso delle moderne tecnologie informatiche. Suggerimenti per i manager All’interno di uno schema concettuale che prevede che il management debba adattarsi alle situazioni non esistono regole rigide in merito alla dimensione del gruppo; questa varia a seconda dell’obiettivo che il manager stabilisce per il gruppo. Se l’obiettivo principale è una decisione di alta qualità, il numero adeguato dei membri del gruppo in questione sarà compreso tra tre e cinque. Se, invece, l’obiettivo è quello di generare idee creative, incoraggiare la partecipazione, aiutare nuovi membri a socializzare, impegnarsi nella formazione o comunicare delle politiche, allora un gruppo composto da più di cinque membri sarà giustificato. Ma persino in questo ambito di sviluppo i ricercatori hanno trovato dei limiti nella dimensione del gruppo. In base ai risultati di una meta-analisi, gli effetti positivi di attività legate alla formazione di team diminuivano con l’aumento della dimensione del gruppo.53 È inoltre necessario che i manager siano consapevoli dei cambiamenti qualitativi determinati dall’aumento della dimensione del gruppo. Da una meta-analisi, comprensiva di otto studi, sono emersi i seguenti rapporti: con l’aumentare della dimensione del gruppo si è registrata una tendenza dei leader a diventare più direttivi e una lieve diminuzione della soddisfazione dei membri.54 Si consigliano gruppi formati da un numero di membri dispari (tre, cinque, sette) nel caso in cui la decisione da prendere possa essere determinata da una votazione a maggioranza. Votazioni con un risultato di parità sono troppo spesso causa di ostacolo nell’efficacia di gruppi formati da un numero pari di membri.

Uomini e donne che lavorano insieme in un gruppo Come messo in evidenza nel Capitolo 2, negli ultimi decenni è notevolmente aumentata la quantità di donne all’interno della forza lavoro. Tale cambiamento demografico ha

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influenzato gli atteggiamenti. Per esempio, nella relazione circa uno studio longitudinale condotto su dirigenti statunitensi, i ricercatori hanno osservato che: Uomini e donne […] danno risposte simili all’affermazione “Sarei a mio agio lavorando per una donna”. Gran parte delle donne continua a rispondere affermativamente, sebbene si sia registrato un lieve calo dopo il 1985. Per quanto riguarda gli uomini, il 71% afferma che si sentirebbe a proprio agio. Il dato ha evidenziato un notevole incremento rispetto al 1965 (27%) e al 1985 (47%).55

Dato l’incremento nel numero dei comitati e dei team composti da uomini e donne, ci si può aspettare una serie di intense ripercussioni sulle dinamiche di gruppo. Osserviamo ora cosa hanno scoperto i ricercatori riguardo al modo in cui influisce la composizione di genere all’interno del gruppo e a cosa possono fare in merito i manager. La difficile battaglia delle donne nei gruppi di lavoro misti Studi di laboratorio e ricerche sul campo disegnano un quadro difficile per le donne che fanno parte di gruppi di lavoro misti. Al fine di compiere i passi giusti verso un miglioramento della situazione è necessario che sia gli uomini, sia le donne siano a conoscenza di tali dinamiche di gruppo, spesso sottili, ma molto potenti. Ecco un esempio tratto da un recente studio sul legame tra la forza della stretta di mano e la valutazione nei colloqui di lavoro. Secondo le conclusioni dei ricercatori: Abbiamo dimostrato che le donne compensano gli effetti di strette di mano più deboli, dato che in media non ricevono valutazioni più basse nei colloqui, e potrebbero di fatto trarre più vantaggi degli uomini presentandosi con una stretta di mano forte e completa.56

Ovviamente, occorre tenere conto del contesto culturale di questo studio (condotto su un campione di studenti universitari statunitensi). Le norme che regolano le strette di mano variano infatti di cultura in cultura. In uno studio di laboratorio condotto su gruppi di sei persone è stato individuato un chiaro esempio di disuguaglianza di genere nel modo in cui i membri del gruppo si interrompevano mentre parlavano. Gli uomini interrompevano le donne decisamente più spesso di quanto non facessero con gli altri uomini; le donne, con una tendenza all’interruzione meno frequente e meno efficace degli uomini, interrompevano uomini e donne in egual misura.57 Un altro studio di laboratorio condotto su studenti universitari canadesi ha rilevato che “uomini e donne evidenziano una tendenza maggiore all’interruzione nei gruppi a prevalenza maschile”.58 Una ricerca condotta sul campo, che ha preso in esame, in Olanda, un team misto di polizia e uno di infermieri, ha rilevato, nelle dinamiche di gruppo, un altro elemento di svantaggio per le donne. La scelta di queste due particolari professioni è risultata molto utile ai fini della ricerca perché il primo gruppo era caratterizzato da una prevalenza maschile mentre il secondo da una prevalenza femminile. Con l’inserimento delle donne nelle squadre di polizia, dove gli uomini costituiscono la maggioranza, e l’aumento delle opportunità di impiego per gli uomini nel mondo infermieristico, prevalentemente femminile, chi si trova ad affrontare la maggiore resistenza? Secondo i risultati della

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ricerca sono le donne poliziotto. Con l’aumento della rappresentanza della minoranza di genere nei gruppi di lavoro (sia che si trattasse di poliziotte o di infermieri) sono stati osservati i seguenti cambiamenti: L’atteggiamento della maggioranza maschile cambia e da neutrale si fa resistente, mentre l’atteggiamento della maggioranza femminile cambia da favorevole a neutrale. In altri termini, gli uomini mostrano la ferma intenzione di voler mantenere il proprio campo per sé, mentre le donne continuano a dimostrarsi disposte a condividere il proprio campo con gli uomini.59

I manager, ancora una volta, si trovano ad affrontare la sfida che li porta a opporsi a tendenze discriminatorie nelle dinamiche di gruppo. Il problema delle molestie sessuali Secondo un’indagine di settore condotta da uno studio legale di New York specializzato in controversie di lavoro, il problema delle molestie sessuali è lungi dall’essere risolto: Il 63% dei [234] intervistati ha riferito di aver dovuto gestire una denuncia per molestie sessuali presso la propria azienda. Il dato è superiore rispetto al 57% registrato nel 2003, ma fortunatamente è molto più basso rispetto al 95% riscontrato nel 1995.60

A dipingere un quadro ancora più fosco della situazione, uno studio sul campo su cinque organizzazioni ha rilevato che le molestie sessuali si accompagnano alla discriminazione etnica. Secondo i ricercatori, “le donne subiscono più molestie sessuali rispetto agli uomini, gli appartenenti alle minoranze subiscono più discriminazioni etniche rispetto ai bianchi e le donne appartenenti alle minoranze subiscono più molestie rispetto agli uomini, agli uomini appartenenti alle minoranze e alle donne bianche”.61 Le donne appartenenti alle minoranze sono più esposte a questo genere di problema. Le molestie nell’ambiente di lavoro sono persistenti perché radicate nei comportamenti violenti generalizzati tra adolescenti (sia in interazioni faccia a faccia che in interazioni virtuali).62 Da un punto di vista del comportamento organizzativo il problema delle molestie sessuali è complesso e sfaccettato. Da una recente meta-analisi di 62 studi risulta, ad esempio, che le donne, diversamente dagli uomini, percepiscono come molestia sessuale una serie più ampia di comportamenti (tabella 10-4). Donne e uomini si sono trovati d’accordo nel definire come molestie proposte e coercizioni sessuali, ma non si sono trovati d’accordo in merito ad altri aspetti presenti in un ambiente di lavoro ostile.63 Azione manageriale costruttiva Uomini e donne sono in grado di lavorare bene in gruppo e questo accade spesso. Un sondaggio condotto su 387 dipendenti statali statunitensi uomini ha cercato di determinare in che modo essi siano stati influenzati dall’incremento numerico delle collaboratrici donne. I ricercatori hanno concluso che “in molte circostanze, comprese interazioni promiscue nei gruppi di lavoro, il contatto frequente porta a rapporti sociali di cooperazione e sostegno”.64 Più di recente, uno studio sul campo condotto su 1158 ufficiali dell’Aeronautica militare statunitense suddivisi in gruppi misti per un programma di sviluppo di cinque settimane ha evidenziato

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Tabella 10-4 Categorie di comportamento delle molestie sessuali Categoria Atteggiamenti impersonali

Descrizione

Comportamenti che denotano atteggiamenti denigratori in merito a uomini o donne in generale Atteggiamenti denigratoriComportamenti diretti a un obiettivo che personali denotano atteggiamenti denigratori nei confronti del genere della vittima Pressione in merito a un Insistente richiesta di un appuntamento appuntamento indesiderato dopo il rifiuto della persona a cui è stata fatta la richiesta Richieste a sfondo sessuale Richieste esplicite di incontri sessuali Contatto fisico di natura Comportamento per cui il molestatore sessuale esercita sulla vittima un contatto di natura sessuale Contatto fisico non di natura Comportamento per cui il molestatore sessuale esercita sulla vittima un contatto fisico di natura non sessuale Coercizione sessuale Richieste o costrizioni di incontri di natura sessuale che diventano conditio sine qua non per un impiego o promozione

Esempi di comportamento Gesti osceni senza un preciso obiettivo Battute a sfondo sessuale Telefonate oscene Minimizzazione della competenza della vittima Insistenti richieste di uscire insieme dopo il lavoro o la scuola Proposta di una relazione Abbraccio Bacio Abbraccio in segno di congratulazioni

Minaccia di punizione se non viene elargito il favore sessuale richiesto Corruzione sessuale

Fonte: M. Rotundo, D. Nguyen, e P.R. Sackett,.“A Meta-Analytic Review of Gender Differences in Perceptions of Sexual Harassment,” Journal of Applied Psychology, ottobre 2001, Article 914-922, copyright © 2001 by the American Psychological Association. Ristampato per concessione.

che “una presenza femminile leggermente maggiore all’interno dei gruppi contribuiva a potenziare le capacità di risoluzione dei problemi del team”.65 I manager, tuttavia, devono intraprendere un cammino positivo che assicuri che il documentato aumento delle relazioni sentimentali tra colleghi sul posto di lavoro non solleciti comportamenti affini alle molestie sessuali. Sia che riguardino donne o uomini, le molestie sessuali sono avvilenti, vanno contro l’etica e sono propriamente definite “inquinamento dell’ambiente di lavoro”. La Commissione per le Pari Opportunità Lavorative, inoltre, considera i dipendenti responsabili di un comportamento ritenuto sessualmente molesto perseguibili a livello legale. Un esperto sull’argomento fornisce la seguente spiegazione: Che cos’è esattamente la molestia sessuale? La Equal Employment Opportunity Commission dice che avance, richieste di favori sessuali e qualsiasi altra condotta verbale o fisica di natura sessuale, costituiscono molestie nel momento in cui diventano conditio sine qua non all’impiego, quando la sottomissione o il rifiuto di tali avance vanno a incidere su decisioni di carattere professionale, oppure quando tale condotta crea, sul posto di lavoro, un’atmosfera intimidatoria, ostile o offensiva. Tali direttive della commissione, che interpretano il VII Titolo dello Statuto dei Diritti Civili del 1964, affermano inoltre che i datori di lavoro sono responsabili per le azioni dei loro supervisori e agenti nonché per le azioni di altri collaboratori se il datore di lavoro in questione è o dovrebbe essere al corrente della molestia sessuale.66

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Aspetto molto importante, non essere a conoscenza di episodi di molestie sessuali all’interno dell’organizzazione non è una linea di difesa valida per i datori di lavoro. Oltre a evitare contenziosi legali istituendo e applicando politiche mirate a sradicare discriminazioni e molestie, i manager devono adottare un approccio proattivo. Si raccomanda caldamente di organizzare workshop sulla diversità che illustrino anche come identificare ed evitare le molestie sessuali.67

Minacce all’efficacia del gruppo Anche quando i manager formano e organizzano con cura i gruppi di lavoro, le dinamiche di gruppo possono sempre andare fuori controllo. La conoscenza dei tre principali fattori di minaccia all’efficacia del gruppo, ovvero l’effetto Asch, il groupthink e l’inerzia sociale, possono aiutare i manager a prendere le misure preventive adeguate. Dal momento che i primi due problemi sono legati al conformismo è opportuna una breve premessa. Senza conformarsi alle norme, alle aspettative di ruolo, alle politiche, alle regole, i gruppi di lavoro concluderebbero ben poco. D’altra parte, le scadenze, gli impegni e gli standard di qualità del servizio/prodotto devono essere stabiliti e rispettati se si vuole che l’organizzazione sopravviva. Il conformismo però è un’arma a doppio taglio: il conformismo puro e semplice o eccessivo può opprimere il pensiero critico, ultima linea di difesa contro una condotta non etica. Resoconti quasi giornalieri dai mass media riguardanti misfatti aziendali, insider trading, scarico illegale di rifiuti pericolosi e altre pratiche scorrette, rendono assolutamente necessaria, da parte dei manager futuri, una comprensione delle meccaniche del conformismo.68

L’effetto Asch Circa sessant’anni fa lo psicologo sociale Solomon Asch ha condotto una serie di esperimenti di laboratorio che hanno fatto emergere un aspetto negativo delle dinamiche di gruppo.69 Facendolo sembrare un “test di percezione”, Asch ha chiesto a gruppi, formati da un numero di studenti volontari del college compreso tra sette e nove, di guardare 12 coppie di carte come quelle mostrate nella figura 10-4. Lo scopo era quello di individuare quale linea fosse della stessa lunghezza di quella indicata come linea standard. A ciascuno studente è stato chiesto di comunicare la sua risposta al gruppo. Data l’evidente differenza tra le linee da paragonare, si sarebbe dovuta riscontrare una risposta unanime nel corso dei 12 giri di carte, ma non è stato così. Solo uno Di ogni gruppo, tutti i partecipanti tranne uno erano complici di Asch, e selezionavano sistematicamente la linea sbagliata durante sette dei giri di carte compiuti (gli altri cinque erano giri di controllo). L’ultimo individuo era l’inconsapevole vittima dell’inganno. La pressione del gruppo consisteva nel fare in modo che l’elemento “ingenuo” del gruppo fosse tra gli ultimi a comunicare la sua scelta. Sono stati esaminati trentuno soggetti; la domanda che Asch si poneva era: quanto spesso un soggetto “ingenuo” si sarebbe conformato a un’opinione della maggioranza chiaramente sbagliata? Solo il 20% dei soggetti presi in esame da Asch si è rivelato completamente

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238 Figura 10-4 L’esperimento di Asch

Carta con la linea di riferimento

Carta con le linee da paragonare

1

Effetto Asch: cedere a una opposizione unanime ma scorretta

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2

3

indipendente; l’80% ha ceduto alla pressione dell’opinione del gruppo almeno una volta! Il 58% si è arreso alla “maggioranza immorale” almeno due volte. In questo modo è stato documentato l’effetto Asch: la distorsione del giudizio individuale per mezzo di un’opposizione unanime ma scorretta. Una prospettiva manageriale L’esperimento di Asch è stato più volte ripetuto portando a risultati contrastanti; sono stati osservati gradi sia alti che bassi di conformismo in situazioni diverse e in relazione a soggetti diversi. Ripetizioni di tale esperimento in Giappone e Kuwait hanno dimostrato che l’effetto Asch non riguarda unicamente gli Stati Uniti.70 Una meta-analisi del 1996 su 133 esperimenti “alla Asch” condotti in 17 paesi ha rivelato, dagli anni ’50, un declino del conformismo nei soggetti statunitensi. A livello internazionale, i paesi collettivistici, nei quali il gruppo prevale sul singolo, hanno raggiunto livelli più alti di conformismo rispetto ai paesi individualistici.71 Il punto rilevante, comunque, non è tanto quello di dimostrare la portata dell’effetto Asch in una data situazione o cultura, ma piuttosto quello di fare in modo che i manager, impegnati a sostegno di una condotta corretta, si preoccupino della sua esistenza. Per Jeffrey Skilling, l’ex CEO della Enron, l’effetto Asch andava invece sostenuto e curato. Considerate il clima organizzativo orientato alla cieca obbedienza che egli aveva creato: Skilling stava riempiendo il quartier generale con le sue truppe. I neoassunti parlavano di un processo di socializzazione chiamato “Enronizzazione”. Tempo per la famiglia? Qualità della vita? Da dimenticare. Chi non abbracciava la cultura dello sgomitare a tutti i costi “non ce la faceva”. Veniva considerato “merce danneggiata” o “relitto”, passibile di licenziamento durante dolorosi incontri annuali noti come sessioni di “pubblico ludibrio”. La cultura era diventata paranoica: ex agenti della CIA e dell’FBI venivano assunti per rafforzare la sicurezza. Usando programmi “spia” individuavano chiunque avesse mandato un’email a un potenziale concorrente. Gli “spettri”, come venivano chiamati gli ex agenti, erano noti per le loro intromissioni negli uffici e per le confische dei computer.72

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Persino casi isolati di conformismo hanno seriamente minacciato l’efficacia e l’integrità dei gruppi di lavoro e delle organizzazioni. Il conflitto e l’assertività funzionali, discussi nei Capitoli 13 e 14, possono aiutare le persone ad avere una reazione adeguata, nel momento in cui si trovano di fronte a una maggioranza immorale. Ulteriori guide e supporti sono forniti dai codici etici che fanno riferimento a specifiche procedure.

Groupthink Perché mai il Presidente Lyndon B. Johnson e il suo gruppo di intelligenti consiglieri alla Casa Bianca hanno preso decisioni tanto poco intelligenti da determinare l’escalation della guerra in Vietnam? Tali fatali decisioni sono state prese nonostante la presenza di evidenti segnali di allarme, compresa una resistenza più forte del previsto da parte dei vietnamiti del Nord e un’evidente disapprovazione sia all’interno del paese sia all’estero. L’analisi sistematica dei processi decisionali sottesi alla guerra in Vietnam e ad altri disastri di politica estera statunitense ha spinto Irving Janis, dell’Università di Yale, a coniare il termine groputhink (letteralmente “pensiero di gruppo”). Se ignorano passivamente il pericolo, è molto facile che i manager moderni, proprio come lo staff del Presidente Johnson, rimangano vittime del groupthink. Groupthink: tendenza a non prendere in considerazione azioni alternative che si verifica in un gruppo coeso

Definizione e sintomi del groupthink Janis definisce il groupthink come un “modo di pensare adottato dalle persone profondamente coinvolte in un gruppo coeso quando lo sforzo dei membri per raggiungere l’unanimità supera la loro motivazione a valutare realisticamente azioni alternative”.73 Aggiunge inoltre che “il groupthink fa riferimento a un deterioramento dell’efficienza mentale, della valutazione della realtà e del giudizio morale risultante da pressioni esercitate dal gruppo”.74 Diversamente dai soggetti presi in esame da Asch, che non si conoscevano tra di loro, i membri dei gruppi vittime del groupthink sono in un rapporto di amicizia, molto uniti e coesi. I sintomi del groupthink, elencati nella figura 10-5, si sviluppano nel tipo di clima imperante in passato nelle sale del consiglio di amministrazione delle aziende statunitensi, dove troppo spesso i membri si piegavano alle decisioni sbagliate di CEO molto determinati. Lo scenario è cambiato positivamente in misura significativa. Ricerca e prevenzione del groupthink Studi di laboratorio condotti su studenti di college confermano alcune parti del concetto definito da Janis; più precisamente è emerso che: • gruppi caratterizzati da coesione moderata prendono decisioni migliori rispetto a gruppi caratterizzati da un alto o da un basso grado di coesione; • gruppi dall’alta coesione, se vittime del groupthink, prendono le decisioni peggiori nonostante l’alto grado di sicurezza in tali decisioni.75 Janis ritiene che, quando si ha a che fare con il groupthink, prevenire sia meglio che curare. Raccomanda pertanto le seguenti misure preventive.

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Sintomi del groupthink 1. Invulnerabilità: illusione che alimenta eccessivo ottimismo e propensione al rischio 2. Moralità scadente: credenza che incoraggia il gruppo a ignorare le implicazioni etiche 3. Razionalizzazione: sottovalutazione sistematica dei segnali negativi 4. Visione stereotipata degli esterni al gruppo: porta a sottovalutare gli oppositori 5. Autocensura: reprime il dibattito critico 6. Sovrastima del grado di consenso: silenzio assenso 7. Pressione sui membri: viene messa in dubbio la lealtà dei dissenzienti 8. Presenza di filtri alle informazioni: tutori delle opinioni collettive

I gruppi e i processi sociali

Difetti della decisione di gruppo 1. Poche alternative 2. Nessun riesame delle alternative preferite 3. Nessun riesame delle alternative escluse 4. Rifiuto dell’opinione di esperti 5. Selezione preconcetta di nuove informazioni 6. Nessun piano contingente

Figura 10-5 Sintomi del groupthink che portano a un processo decisionale insoddisfacente Fonti: sintomi adattati da I.L. Janis, Groupthink, 2nd ed (Boston: Houghton Mifflin, 1982) pp. 174-75. Difetti adattati da G. Moorhead.“Groupthink: Hypothesis in Need of Testing,” Group & Organization Studies, dicembre 1982, p. 434. Copyright © 1982 Sage Publications. Ristampa per concessione della Sage Publications, Inc.

1. A ogni membro del gruppo dovrebbe essere assegnato il ruolo di valutatore critico. Tale ruolo implica l’attiva esternazione di obiezioni e dubbi. 2. I top manager non dovrebbero ricorrere a comitati per approvare a scatola chiusa decisioni che sono già state prese. 3. Gruppi diversi con leader diversi dovrebbero esaminare gli stessi problemi. 4. Bisognerebbe ricorrere a dibattiti tra sottogruppi ed esperti esterni per introdurre nuove prospettive. 5. Nella discussione delle alternative più importanti bisognerebbe assegnare a qualcuno il ruolo di avvocato del diavolo. La persona scelta tenterà di scoprire qualsiasi immaginabile fattore negativo. 6. Una volta raggiunto un accordo, ciascun membro dovrebbe essere incoraggiato a riesaminare la sua posizione nel caso vi fossero dei punti deboli.76 Tali misure anti-groupthink possono aiutare i gruppi coesi a produrre raccomandazioni e decisioni sensate.77 Evitare il groupthink è un’ottima argomentazione a favore della diversità, non solo di razza e di genere, ma anche di età, bagaglio di esperienze, religione, istruzione e visione del mondo.

Inerzia sociale La performance del gruppo è minore, uguale o maggiore della somma dei membri che lo compongono? Tre persone, ad esempio, lavorando insieme, possono raggiungere un

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Dinamiche di gruppo

Inerzia sociale: diminuzione dello sforzo individuale in concomitanza con l’aumento della dimensione del gruppo

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risultato inferiore, uguale o maggiore di quello che raggiungerebbero se lavorassero separatamente? Uno studio interessante, condotto più di cinquant’anni fa da un ingegnere agrario francese di nome Ringelmann, ha concluso che il risultato raggiunto sarebbe inferiore.78 In un esercizio di tiro alla fune pare che Ringelmann abbia scoperto che tre persone che tiravano insieme raggiungevano una forza pari a solo due volte e mezza quella media individuale. Otto tiratori raggiungevano una forza pari a meno di quattro volte quella individuale. Questa tendenza dello sforzo individuale a diminuire con l’incremento della dimensione del gruppo è stata definita inerzia sociale.79 Analizziamo brevemente tale minaccia all’efficacia e sinergia del gruppo, per cercare di evitarla. Teoria e ricerca sull’inerzia sociale Tra le spiegazioni teoriche addotte per questo effetto vi sono (1) l’equità di sforzo (“Tutti perdono tempo in sciocchezze, perché non dovrei farlo anch’io?”), (2) la perdita di responsabilità personale (“Sono perso tra la folla, che importa, dunque?”), (3) la perdita di motivazione dovuta alla condivisione dei premi (“Perché mai dovrei lavorare più degli altri se alla fine riceviamo tutti lo stesso premio?”) e (4) la perdita di coordinamento data dal coinvolgimento di più persone nello stesso compito (“Ci intralciamo a vicenda”). Ricerche di laboratorio hanno raffinato tali teorie individuando fattori situazionali che hanno moderato l’effetto dell’inerzia sociale. Essa si è verificata quando: • il compito da svolgere è stato percepito come non importante, semplice o non interessante;80 • membri del gruppo hanno pensato che il loro risultato individuale non fosse identificabile;81 • membri del gruppo si aspettavano scarso impegno da parte dei loro colleghi.82 L’inerzia sociale, tuttavia, non si è verificato quando i membri del gruppo, in due studi di laboratorio, si aspettavano di essere valutati.83 I ricercatori indicano, inoltre, che gli “individualisti” dotati di fiducia in se stessi hanno una maggiore tendenza all’inerzia rispetto ai “collettivisti” orientati al gruppo. Gli individualisti, tuttavia, possono essere resi più cooperativi mantenendo il gruppo di dimensioni ridotte e rendendo ciascun membro personalmente responsabile per i risultati ottenuti.84 Uno studio recente ha rilevato una diminuzione dell’inerzia sociale grazie al ricorso a una combinazione ibrida di ricompense individuali e di gruppo.85

Ozio telematico: l’uso di Internet per attività non legate al lavoro

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Implicazioni pratiche nell’era di Internet Questi risultati dimostrano come l’inerzia sociale non sia un aspetto inevitabile del lavoro di gruppo. I manager possono controllare questo fattore di minaccia all’efficacia del gruppo assicurandosi che il compito sia stimolante e sia considerato importante. È altresì utile che i membri del gruppo siano personalmente responsabili per parti definite del lavoro di gruppo. Ciò nonostante, l’inerzia sociale è un “bersaglio mobile” e impone di applicare contromisure innovative nell’era di Internet. Gli ambienti di lavoro digitali sono infatti un terreno fertile per l’amplificarsi del fenomeno. L’ozio telematico (cyberloafing), cioè l’uso di Internet per attività non legate al lavoro quali comunicare con gli amici tramite email e social media, navigare in Internet, effettuare acquisti online o intrattenersi con i videogiochi, è piuttosto diffuso.

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Parte III

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I team virtuali, che analizzeremo nel capitolo seguente, hanno allentato la tradizionale supervisione amministrativa sui collaboratori.86 La tabella 10-5 elenca una serie di problemi e soluzioni per i manager che cercano di contrastare l’inerzia sociale negli ambienti di lavoro interconnessi. Tabella 10-5 Pigrizia nell’era di Internet: problemi e soluzioni

PROBLEMA

SOLUZIONI

Ozio telematico • Navigare in Internet durante l’orario di lavoro per attività di svago, tra cui shopping, gestione di attività online, invio di email private, aggiornamento del profilo sui social network ecc.

• Monitoraggio ragionevole dell’uso dei computer da parte dei collaboratori • Politiche di uso di Internet, dei social media e della posta elettronica • Elaborazione di norme sull’uso appropriato di Internet da parte dei collaboratori

Mancanza di impegno nei team virtuali/lavoro intellettuale • Abbassamento dei livelli di impegno perché è difficile osservare e identificare l’impatto del singolo sulla prestazione complessiva • Dedicarsi ad attività di routine non orientate al risultato • Ambiguità nella relazione tra sforzo e prestazione

• Sottolineare la responsabilità individuale e reciproca nel raggiungimento degli obiettivi del team al momento di stabilire norme e ricompense • Garantire la presenza dei meccanismi adeguati per palesare e risolvere i conflitti all’interno del team • Proporre sia obiettivi di apprendimento che obiettivi di prestazione

Fonte: estratto dalla Tabella 1 in R.E. Kidwell, “Loafing in the 21st Century: Enhanced Opportunities – and Remedies – for Withholding Job Effort in the New Workplace,” Business Horizons, novembre-dicembre 2010, pp. 543-52.

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Perché un servizio clienti eccellente somiglia a uno sport di squadra? Il direttore delle risorse umane di Wynn Resort, Arte Nathan, e il proprietario, Steve Wynn, prendono molto sul serio l’alchimia dei team. Una storia ormai leggendaria all’interno dell’organizzazione è un’esperienza vissuta da Wynn assieme alla sua famiglia soggiornando al Four Seasons durante una vacanza a Parigi. Avevano consumato la colazione in camera e la figlia di Wynn aveva mangiato solo metà del croissant ordinato, lasciando da parte la metà restante per consumarla durante la giornata. Di ritorno da una passeggiata alla scoperta della capitale francese, la bambina voleva mangiare la metà restante del croissant, che però era sparita, portata via dagli addetti alle pulizie. La figlia di Wynn era delusa. Il personale aveva dato per scontato che quel mezzo croissant andasse buttato via. Ma era andata davvero così?

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Un led del telefono della stanza lampeggiava: era un messaggio dalla reception. Gli addetti alle pulizie avevano portato via il croissant ipotizzando che chi lo aveva conservato ne avrebbe preferito uno fresco. La reception aveva quindi contattato la cucina chiedendo di tenere da parte un croissant e il servizio in camera era stato informato che, su richiesta, avrebbe dovuto consegnarlo immediatamente. “Perché questa storia è così importante?” si domanda Nathan. “Il livello di lavoro di squadra e comunicazioni tra dipartimenti diversi è sorprendente. Tutti i partecipanti avevano ben chiaro il risultato, cioè la soddisfazione dell’ospite. E ciascuno ha accettato il suo ruolo nel rendere indimenticabile l’esperienza del cliente.”1

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Parte III

I gruppi e i processi sociali

Di primo acchito, la storia narrata nel caso di apertura sembra quasi irrilevante: d’altronde si trattava di un semplice croissant. Provate tuttavia a considerarla un’analogia al mondo dello sport, nel quale spesso è il gioco di squadra a fare la differenza; nell’economia attuale dei servizi, in molti casi un fattore decisivo per il successo è poter contare su collaboratori orientati al cliente e capaci di lavorare in team. Steve Wynn auspica che i suoi dipendenti facciano squadra per offrire agli ospiti un livello di soddisfazione pari a quello che ha sperimentato al Four Seasons di Parigi con la sua famiglia. Il concetto di capitale sociale, illustrato nel Capitolo 1, assume un significato molto concreto se pensiamo ai team e al lavoro in team.

Il presente capitolo si concentrerà su come utilizzare al meglio il promettente potenziale del lavoro di gruppi e team. (1) Individueremo i diversi tipi di team di lavoro, (2) analizzeremo i fattori decisivi per il successo o il fallimento del team, (3) discuteremo elementi essenziali dell’efficacia del lavoro di gruppo, come la fiducia, (4) esploreremo le più recenti applicazioni del concetto di team, tra cui i team virtuali e i team auto-gestiti, e (5) esamineremo le tecniche di team building e la leadership dei team.

Team di lavoro: tipi, efficacia e difficoltà

Team: numero ridotto di persone aventi capacità complementari che si ritengono reciprocamente responsabili per scopo, obiettivi e approccio comuni

Jon R. Katzenbach e Douglas K. Smith, consulenti manageriali della McKinsey & Company, ritengono che sia sbagliato utilizzare i termini gruppo e team come se fossero equivalenti. Dopo aver esaminato diversi tipi di team – da quelli sportivi a quelli aziendali e militari – sono arrivati alla conclusione che i team di successo tendono a brillare di luce propria. Katzenbach e Smith definiscono un team come “un numero limitato di persone aventi capacità complementari, impegnate per uno scopo comune, per il raggiungimento degli obiettivi e che condividono un approccio similare”.2 In relazione alla teoria dello sviluppo del gruppo di Tuckman, trattata nel Capitolo 10 (forming, storming, norming, performing e adjourning) i team sono gruppi di lavoro maturati fino alla fase performing (ma che non sono precipitati nella decadenza). A causa dei conflitti legati al potere e all’autorità e ai rapporti interpersonali instabili, molti gruppi di lavoro non arrivano mai a qualificarsi come un vero e proprio team.3 Katzenbach e Smith hanno spiegato tale differenza in questo modo: “L’essenza di un team è l’impegno comune; senza questo i gruppi lavorano come individui; con esso diventano una potente unità di performance collettiva” (tabella 11-1).4

Per un ottimo esempio del processo di trasformazione di un gruppo di individui in un team, vediamo come Skip Holtz ha creato una squadra di football vincente alla East Carolina University. Holtz, che è passato alla University of South Florida, ha lanciato un segnale forte quando ha incontrato per la prima volta il suo nuovo team al campus di Greenville (North Carolina): La prima cosa che fece fu togliere i nomi dei giocatori dalle magliette. “Andai via al termine del primo incontro con la netta sensazione di avere a che fare con una squadra molto egoista, concentrata su se stessa,” dice Holtz. “Non erano in molti a parlare di obiettivi e di una visione d’insieme. Bisognava cambiare la cultura e gli atteggiamenti, e cambiarli in fretta.”

Nel 2004 Zack Slate, difensore esterno della prima linea difensiva, era una matricola e ricorda bene quel primo incontro:

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Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci Tabella 11-1 L’evoluzione di un team

Fonte: riassunto e adattamento di J.R. Katzenbach e D.K. Smith, The Wisdom of Teams: Creating the High-Performance Organization (New York; HarperBusiness, 1999), p. 214.

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Un gruppo di lavoro diventa un team quando 1. La leadership diventa attività condivisa. 2. La responsabilità, da strettamente individuale, diventa sia individuale che collettiva. 3. Il gruppo sviluppa un proprio scopo o una missione. 4. Il problem-solving diventa uno stile di vita, non un’attività part-time. 5. L’efficacia viene misurata dai risultati e dai prodotti collettivi del gruppo.

“Tanti ragazzi della squadra erano divisi in tanti modi. Non c’era un senso del team” afferma Slate. “L’allenatore Holtz iniziò a crearlo dal nulla con disciplina e precisione.”5

Quando Katzenbach e Smith, nella loro definizione, fanno riferimento a “un numero limitato di persone”, parlano di un team formato da un numero di elementi compreso tra 2 e 25. Hanno scoperto che i team efficaci sono formati solitamente da meno di 10 membri.

Una tipologia generale dei team di lavoro I team di lavoro sono creati per vari scopi e affrontano, pertanto, sfide diverse. I manager riescono ad affrontare più efficacemente tali sfide quando capiscono quali differenze caratterizzano i team. Un modo utile per rendere le cose più chiare è quello di considerare una tipologia di team di lavoro elaborata da Eric Sundstrom e i suoi colleghi.6 Quattro tipi generici elencati nella tabella 11-2 sono (1) supporto, (2) produzione, (3) progetto e (4) azione. Ciascuna di tali etichette identifica uno scopo di base. I team di supporto, ad esempio, si occupano generalmente di dare consigli in merito a decisioni manageriali. Raramente sono responsabili per la decisione finale. I team di produzione e azione, invece, attuano le decisioni manageriali.

Quattro variabili chiave, indicate nella tabella 11-2, si occupano di specializzazione tecnica, coordinamento, cicli di lavoro e risultati. Il livello di specializzazione tecnica è basso quando il team punta sull’esperienza generale e sulla capacità di problem-solving dei suoi membri; è invece alto quando è richiesto ai membri del team di applicare capacità tecniche acquisite nel corso degli studi o durante una formazione avanzata. Il grado di coordinamento con altri team di lavoro è determinato dalla rispettiva indipendenza (basso coordinamento) o interdipendenza (alto coordinamento) del team. Per cicli di lavoro si intende il tempo necessario ai team per portare a termine le missioni. I vari risultati elencati nella tabella 11-2 hanno lo scopo di illustrare gli impatti sulla vita reale.7 Team di supporto I team di supporto sono creati per ampliare la base informativa per le decisioni manageriali. Dispongono tendenzialmente di un basso grado di specializzazione tecnica; anche il grado di coordinamento è basso, perché tali team lavorano perlopiù indipendentemente. Comitati organizzati per una determinata occasione (ad esempio, i comitati annuali per la festa di Natale) sono caratterizzati da cicli vitali più brevi rispetto a quelli di comitati permanenti (ad esempio, il comitato interno per la discussione delle lamentele del personale).

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Tabella 11-2 Quattro tipi generici di team di lavoro e i relativi risultati Tipi ed esempi

Supporto Comitati Gruppi, consigli di revisione Circoli di qualità Gruppi di coinvolgimento di collaboratori Comitato consultivo

Grado di specializzazione tecnica

Grado di coordinamento con le altre unità di lavoro

Cicli lavorativi

Risultati tipici

Basso

Basso

I cicli lavorativi possono essere brevi o lunghi; la durata di un ciclo può essere pari a quella della vita del team

Decisioni Selezioni Suggerimenti Proposte Consigli

Alto

I cicli di lavoro generalmente ripetuti o a processo continuo; i cicli possono spesso essere più brevi della vita del team

Cibo, prodotti chimici Componenti Assemblati Vendite al dettaglio Assistenza ai clienti Riparazioni delle attrezzature

Alto

Basso (per le unità tradizionali); alto (per le unità interfunzionali)

I cicli lavorativi si differenziano generalmente per ogni nuovo progetto; la durata di un ciclo può essere pari a quella della vita del team

Piani, progetti Indagini Presentazioni Prototipi Relazioni, scoperte

Alto

Alto

Episodi brevi di performance, spesso ripetuti in base a nuove condizioni, che richiedono un’ampia preparazione o una formazione

Missioni di combattimento Spedizioni Contratti, cause legali Concerti Operazioni chirurgiche Competizioni Assistenza in casi di estrema emergenza

Produzione Team di assemblaggio Basso Gruppi di produzione Team minerari Equipaggio di assistenza sugli aerei Gruppi di elaborazione dei dati Equipaggio di mantenimento Progetto Gruppi di ricerca Team di pianificazione Team di architetti Team di ingegneri Team di sviluppo Team speciali Azione Squadre sportive Gruppi di intrattenimento Spedizioni Team di negoziazione Team di chirurghi Equipaggi di piloti e pattuglie Team di poliziotti e vigili del fuoco

Fonte: estratto e adattato da E. Sundstrom, K.P. De Meuse, “Work Teams,”American Psychologist, febbraio 1990, p. 125.

Team di produzione Questo secondo tipo di team è responsabile dello svolgimento di operazioni quotidiane. Una formazione minima per lavori di routine spiega il basso grado di specializzazione tecnica; il grado di coordinamento è invece tipicamente alto poiché il lavoro passa da un team all’altro. Le squadre di manutenzione ferroviaria, ad esempio, devono essere costantemente aggiornate dalle squadre addette ai treni in merito alle riparazioni necessarie; tali squadre, a loro volta, devono sapere esattamente dove stanno lavorando le squadre addette alla manutenzione.

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Team di progetto L’esecuzione di progetti richiede una predisposizione creativa al problem-solving che spesso implica l’applicazione di conoscenze specializzate. Dato che i progetti sono finalizzati al raggiungimento di un risultato specifico (ad esempio, sviluppare un nuovo vaccino, realizzare un film o costruire un grattacielo), il fattore tempo è essenziale e il team può sciogliersi dopo il completamento del progetto. Attualmente, nell’ambito dello sviluppo dei prodotti, si tende a ricorrere a team interfunzionali che associano specialisti in produzione, marketing e finanza provenienti da tutto il mondo. Consideriamo l’esempio del laptop ThinkPad X300 Lenovo: Come gran parte degli altri ThinkPad, anche questo è nato negli Stati Uniti. I pianificatori, i leader di progetto e alcuni dei designer si trovano in North Carolina, mentre il lavoro di design e ingegneria è svolto da un team di Yamato, in Giappone. La produzione e l’acquisto avvengono invece a Shenzhen, in Cina.8

Un team di progetto specializzato in tecnologia come questo richiede un alto grado di coordinamento e pratiche di comunicazione efficaci. Team di azione Quest’ultimo tipo di team trova la sua esemplificazione migliore in una squadra di baseball; un alto grado di specializzazione si combina a un alto grado di coordinamento. Nove atleti, allenati intensamente, giocano nelle specifiche posizioni di difesa. Un buon gioco di difesa non è tuttavia sufficiente, in quanto è necessario anche un efficace attacco. Anche il coordinamento tra l’allenatore, i giocatori alle basi, i capo base e la zona di riscaldamento deve essere preciso. La stessa cosa vale, per citare altri esempi, per gli equipaggi aerei, per le squadre di vigili del fuoco, per le unità chirurgiche, per le spedizioni di scalatori, per i gruppi rock, per i team addetti alla negoziazione di contratti di lavoro e per i corpi speciali di polizia. Una sfida unica, per i team d’azione, consiste nel dare prova, su richiesta, di un’eccellente prestazione.9 Queste quattro tipologie di team di lavoro non sono statiche, ma dinamiche e mutevoli; alcune si evolvono da una tipologia all’altra, altre rappresentano una combinazione di tipologie. Consideriamo, ad esempio, il lavoro svolto da un team della General Foods: “L’azienda ha lanciato una linea di dessert pronti da consumare, riunendo un team formato da nove persone che avevano la libertà di agire come se fossero degli imprenditori alle prese con il lancio del loro business.”10 Questo tipo particolare di team era una combinazione tra un team di supporto e uno di progetto. Il team della General Foods, in altre parole, ha svolto tutto il lavoro tranne quello di produrre da sola il prodotto in questione (compito affidato al team di produzione).

Efficacia dei team di lavoro L’efficacia di un team di atleti sta semplicemente nel fatto di vincere o perdere. Le cose sono però più complicate quando si tratta di team di lavoro nelle organizzazioni di oggi.11 La figura 11-1 elenca due criteri di efficacia per i team di lavoro: la prestazione e la vitalità. Concettualmente, il primo è molto semplice da comprendere: il team ha portato a termine il compito? Il secondo criterio è più sottile e spesso viene ignorato o sottova-

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Parte III

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Figura 11-1 Efficacia dei team di lavoro Fonti: adattato in parte da E. Sundstrom, K.P. DeMeuse e D. Futrell, “Work Teams,” American Psychologist, febbraio 1990, pp. 120-33; e da C.A. Beatty e B.A. Barker Scott, Building Smart Teams: A Roadmap to High Performance (Thousand Oaks, CA: Sage, 2004), pp. 5-8.

Vitalità del team: i membri del team sono soddisfatti e vogliono offrire il loro contributo

Organizzazione orientata ai team Team di lavoro • Individui con competenze di lavoro di team • Efficace lavoro di team

Criteri di efficacia del team 1. Performance Il risultato del team corrisponde alle aspettative degli utenti 2. Vitalità Membri soddisfatti della esperienza di team Membri disposti a continuare a contribuire allo sforzo del team

lutato, causando però un danno per l’organizzazione nel lungo periodo. La vitalità del team è definita come la soddisfazione dei membri del team e il loro desiderio costante di offrire il proprio contributo. I singoli individui traggono vantaggi o svantaggi dalla loro partecipazione agli sforzi comuni? Un team di lavoro non si può dire realmente efficace se porta a termine il suo compito ma si auto-distrugge nel corso del processo, oppure arriva a logorare le persone. Come indicato in figura 11-1, i team di lavoro necessitano di un sistema di supporto per essere efficaci: devono quindi essere appoggiati da un’organizzazione orientata ai team. La possibilità dei team di essere efficienti è molto più elevata se sono assistiti e aiutati dall’organizzazione. L’obiettivo del team deve essere in armonia con la strategia dell’organizzazione, e parimenti la sua partecipazione e autonomia richiedono una cultura organizzativa che valorizzi tali processi. I membri hanno, inoltre, bisogno di strumenti tecnologici appropriati, una programmazione ragionevole e adeguata formazione. Il lavoro di gruppo deve essere consolidato dal sistema di ricompense dell’organizzazione,12 cosa che non avviene se le remunerazioni e i bonus sono legati esclusivamente al risultato individuale. Per un esempio positivo, vediamo che cosa è accaduto alla Cisco Systems, azienda produttrice di dispositivi per Internet: [Il CEO John] Chambers […] ha fatto del lavoro di team una componente essenziale dei piani bonus dei dirigenti, legando il 30% dei bonus [annuali] a quanto collaborano reciprocamente. “Così facendo, si tende a formalizzare la discussione su come aiutarsi a vicenda” afferma Sue Bostrom, a capo del gruppo di consulenza Internet della Cisco.13

I membri necessitano di competenze di lavoro di team Due buoni punti di partenza per dare vita a un team efficace sono creare team nell’ambiente di lavoro e incoraggiare i collaboratori a dimostrarsi buoni membri del team. Nell’attuale contesto economico,

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Tabella 11-3 Quanto sono sviluppate le vostre competenze di lavoro di team?

Orientare il team verso una situazione di problem solving Guidare il team verso una visione comune della situazione o del problema. Identificare gli elementi importanti di una situazione problematica. Ricercare dati rilevanti legati alla situazione o al problema.

Fonte: da G. Chen, L.M. Donahue e R.I. Klimoski, “Training Undergraduates to Work in Organizational Teams,” Academy of Management Learning and Education, marzo 2004, App. A, p. 40.

Organizzare e gestire la prestazione del team Aiutare il team a stabilire obiettivi collettivi specifici, sfidanti e accettati. Monitorare, valutare e fornire feedback sulla prestazione del team. Identificare strategie alternative oppure stabilire una nuova allocazione delle risorse in risposta ai risultati del feedback. Favorire un ambiente di team positivo Contribuire a creare e rafforzare norme di tolleranza, rispetto ed eccellenza. Riconoscere e lodare l’impegno degli altri membri, aiutarli e sostenerli. Mettere in pratica un modello del comportamento auspicato all’interno di un team. Promuovere e gestire il conflitto di team Incoraggiare i conflitti auspicabili e scoraggiare quelli indesiderati. Riconoscere la tipologia e la causa dei conflitti affrontati dal team e mettere in atto una strategia risolutiva adeguata. Impiegare strategie di negoziazione “win-win” per risolvere i conflitti di team. Proporre adeguatamente la propria prospettiva Difendere preferenze esplicite, sostenere un particolare punto di vista e resistere alla pressione senza cambiare posizione per un’alternativa non suffragata da argomentazioni logiche o basate sulla conoscenza. Modificare la propria posizione quando altri membri del team avanzano argomentazioni valide. Difendere la propria posizione con fare cortese e amichevole.

tuttavia, questo non basta.14 Jeff Zucker, presidente di NBC Universal Television Group, spiega: La sfida più complessa è fare in modo che il nuovo team massimizzi il nostro potenziale e aderisca a una sola cultura. Abbiamo collaboratori dotati di una forte personalità ed estremamente bravi nel proprio lavoro. Vorrei che ciascuno di loro si sentisse il migliore, ma riuscisse a lavorare in team insieme con gli altri.15

In sintesi, poiché il gruppo di leadership non si era amalgamato in un vero team, come definito in precedenza, la leadership del gruppo da parte di Zucker doveva accertarsi che i suoi collaboratori fossero dotati delle competenze di lavoro di team illustrate nella tabella 11-3. Le abilità e le competenze di lavoro di team devono essere insegnate e mostrate mediante modelli di ruolo. Tra le caratteristiche illustrate nella tabella 11-3, particolare importanza assumono le capacità di problem soving del gruppo, di mentoring e di gestione del conflitto. Quali sono le caratteristiche di un team di lavoro efficace? Purtroppo i termini team e lavoro di team vengono impiegati in maniera piuttosto casuale. Numerosi gruppi di lavoro sono denominati team, pur non presentando affatto le caratteristiche proprie di un team. Il vero lavoro di team necessita di uno sforzo collettivo concertato (vedi tabella 11-4) e richiede tolleranza, esercizio e apprendimento tramite esperimenti ed errori.16 Utilizzando come guida la tabella 11-4, avete mai vissuto l’esperienza del vero lavoro in team?

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Tabella 11-4 Caratteristiche di un team efficace 1. Scopo chiaro 2. 3. 4. 5. 6.

7.

8.

9.

10. 11.

12.

La visione, la missione, l’obiettivo o compito del team è stato definito e accettato da ciascun membro. Esiste un piano d’azione Informalità L’atmosfera è tendenzialmente informale, gradevole e rilassata. Non si notano tensioni palesi o segni di noia. Partecipazione La discussione è accesa e tutti sono invitati a partecipare. Ascolto I membri ricorrono a efficaci tecniche di ascolto come il porre domande, parafrasare e riassumere al fine di trovare nuove idee. Disaccordo civile Vi è disaccordo, ma il team è a proprio agio e non da segno di voler evitare, appianare o eliminare il conflitto. Decisioni consensuali Per le decisioni importanti l’obiettivo è rilevante, ma non necessariamente un accordo unanime raggiunto tramite la discussione aperta delle idee di ciascuno membro, l’elusione di una votazione formale o i facili compromessi. Comunicazione aperta I membri del team si sentono liberi di esprimere i loro pareri sui compiti da svolgere nonché sull’operato del gruppo. Esistono pochi obiettivi occulti. La comunicazione ha luogo al di fuori delle riunioni Ruoli chiari Vi sono chiare aspettative sui ruoli ricoperti da ciascun membro del gruppo. Quando si agisce e assegnazione le assegnazioni sono chiare, accettate e portate a termine. Vi è un’equa distribuzione del lavoro dei compiti tra i membri del team Leadership condivisa Mentre il team dispone di un leader formale, le funzioni di leadership variano da un momento all’altro a seconda delle circostanze, delle necessità del gruppo e dalle capacità dei membri. Il leader formale assume il comportamento appropriato e aiuta a stabilire norme positive Relazioni esterne Il team trascorre del tempo sviluppando relazioni chiave con elementi esterni al team, mobilitando risorse e costruendo credibilità con importanti attori in altre parti dell’organizzazione Diversità di stile Il team è caratterizzato da una vasta gamma di tipi di teamplayer inclusi i membri che pongono l’attenzione al compito, all’obiettivo, al processo e a domande che riguardano il funzionamento del team Auto-valutazione Con scadenza periodica il team si ferma a esaminare la qualità del suo funzionamento e quali elementi potrebbero interferire con la sua efficacia

Fonte: G.M. Parker, Team Players and Teamwork: The New Competitive Business Strategy (San Francisco: Jossey-Bss, 1990), tabella 2, p. 33. Copyright © 1990 Jossey-Bass Inc. Ristampa per concessione di John Wiley & Sons, Inc.

Perché i team di lavoro falliscono? Coloro che sostengono un approccio di management incentrato sul team ne danno un’immagine ottimistica e positiva; ciononostante ci sono degli aspetti negativi.17 Pur non esistendo dati statistici che lo provano, può accadere, e accade spesso, che i team falliscano. Chiunque consideri l’uso di strutture di team sul posto di lavoro ha bisogno di uno schema di quelli che sono i possibili vantaggi e limiti. Frequenti errori di gestione dei team Stando a quanto riportato al centro della figura 11-2, ciò che principalmente minaccia l’efficacia di un team sono le aspettative irrealistiche che portano alla frustrazione che, a sua volta, induce le persone ad abbandonare il team. Sia i manager che i membri dei team possono esserne vittime. Sul lato sinistro della figura 11-2 è riportata una lista di frequenti errori manageriali, che implicano generalmente la scarsa capacità di creare un ambiente di supporto per il team e per il lavoro di gruppo.

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Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci Figura 11-2 Perché i team falliscono

Fonti: adattamento della discussione tratta da S.R. Rayner, “Team Traps: What They Are, How to Avoid Them,” National Productivity Review, estate 1996, pp. 101-15; L. Holpp e R. Phillips, “When is a Team Its Own Worst Enemy?”, Training, settembre 1995, pp. 71-82; B. Richardson, “Why Work Team Flop – and What Can Be Done about It,” National Productivity Review, inverno 1994/1995, pp. 9-13; e C.O. Longenecker e M. Neubert, “Barriers and Gateways to Management Cooperatione and Teamowrk,” Business Horizons, settembre-ottobre 2000, pp. 37-44.

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Errori tipici del management • I team non riescono a superare strategie deboli e scadenti pratiche aziendali • Ambiente ostile per il team (cultura del comando e del controllo; piani di ricompense individuali e competitivi; resistenza al management) • Team usati come ultima moda, nessun impegno a lungo termine • Lezioni non trasmesse da un team all’altro (limitata sperimentazione con i team) • Compiti assegnati vaghi o contrastanti • Formazione sulle capacità di team inadeguata • Selezione scadente Aspettative irrealizzabili dei membri che sfociano • Mancanza di fiducia in frustrazione Tipici problemi sperimentati dai membri del team • Il team tenta di portare a termine troppe cose in troppo poco tempo • Conflitti sulle differenze degli stili lavorativi personali (e/o conflitti personali) • Troppa importanza data ai risultati, rispetto ai processi e alle dinamiche di gruppo • Ostacoli imprevisti portano a rinunciare • Resistenza a voler agire in modo diverso • Mediocri abilità interpersonali (comunicazione aggressiva piuttosto che assertiva, conflitto distruttivo, negoziazione del tipo win-lose) • Scarsa alchimia interpersonale (i solitari, i dominatori, gli esperti autonominatisi non si adattano a una dinamica di team) • Mancanza di fiducia

Problemi dei membri del team La parte in basso a destra della figura 11-2 elenca i problemi più frequenti che i membri dei team si trovano ad affrontare. Contrariamente a quanto dicono i critici della Teoria X a proposito della mancanza di motivazione e di creatività utili al lavoro di gruppo vero e proprio, è fattore comune nei team intraprendere troppe cose troppo velocemente ed estenuarsi troppo per raggiungere al più presto i risultati. Importanti dinamiche di gruppo e capacità individuali si perdono nella corsa al risultato. Le aspettative degli individui, di conseguenza, devono essere considerate realizzabili sia da parte del management sia dei membri stessi del team. I team, inoltre, devono essere scoraggiati dall’abbandonare la loro posizione, quando incorrono in un ostacolo imprevisto. Il fallimento fa parte del processo di apprendimento dei team come pure nella vita reale. Una formazione completa sulle capacità interpersonali può prevenire molti problemi tipici del lavoro di gruppo.

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Lavoro di team efficace tramite cooperazione, fiducia e coesione Con l’aumento della pressione competitiva gli esperti sostengono che il successo organizzativo dipenderà, in forma sempre più frequente, dal lavoro di gruppo piuttosto che da quello di individui eccellenti. Non vi è luogo a miglior sostegno di tale affermazione che gli ospedali; immaginate voi stessi, o un vostro caro, coinvolti in questa terribile situazione: Una donna di 67 anni è stata ricoverata all’ospedale a causa di un aneurisma cerebrale – un indebolimento dei vasi sanguigni nel cervello. I medici l’hanno visitata e poi mandata nella sua stanza. Il giorno successivo la donna è stata spostata, tra tutti quelli possibili, nel reparto di cardiologia, dove un medico le ha messo un catetere nel cuore, prima che qualcuno si accorgesse che si trattava della paziente sbagliata. La procedura è stata interrotta e la paziente è guarita.18

Dopo aver esaminato il caso citato i ricercatori hanno constatato la necessità di una migliore comunicazione e un più efficace lavoro di gruppo. Che il contesto sia un ospedale o un’azienda, i tre fondamentali elementi del lavoro di team sono la cooperazione, la fiducia e la coesione. Esaminiamo in che modo ciascuno di essi contribuisce all’efficacia del lavoro di team.

Cooperazione Si parla di individui cooperativi quando i loro sforzi sono sistematicamente integrati al fine di realizzare un comune obiettivo.19 Più gli individui sono integrati più alto sarà il grado di cooperazione. Cooperazione vs competizione La maggior parte dei manager sostiene che “la concorrenza fa emergere il meglio delle persone”. Da un punto di vista economico la sopravvivenza del business dipende dal superamento della concorrenza; da un punto di vista interpersonale, invece, la critica sostiene che sia stato dato troppo valore alla competizione a scapito della cooperazione.20 Sandra Dawson, esperta di cambiamento organizzativo e docente di management all’Università di Cambridge, ha di recente proposto queste interessanti riflessioni: Sono una strenua sostenitrice della collaborazione … [Dico sempre ai miei studenti] “non avete bisogno di lezioni sulla competizione: sarete competitivi come chiunque altro, perché siete qui e sapete bene dove volete arrivare. Non sono altrettanto sicura rispetto alla vostra capacità di collaborare, che potrebbe risultare il fattore decisivo di differenziazione nel contesto economico globalizzato del futuro.” Ho notato che le donne sono più propense a riconoscere l’importanza della collaborazione, mentre gli uomini si dimostrano più restii. Probabilmente gli uomini fanno più fatica a guardare oltre se stessi e le persone simili a loro. Devono vedere valore nell’“Altro”, che per definizione avrà interessi e modi di pensare diversi.

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Insegniamo ai ragazzi la collaborazione dimostrandone l’efficacia in situazioni concrete [attraverso progetti di gruppo con aziende locali] … I gruppi devono rispettare scadenze molto strette e possono riuscirci solo se ciascuno contribuisce tirando fuori il meglio di sé e non si consente a uno dei membri di dominare da nessun punto di vista.21

Sostegno della ricerca alla cooperazione Sulla base di una meta-analisi comprensiva di 122 studi che includono un’ampia varietà di argomenti e situazioni, un gruppo di ricercatori ha tratto le conclusioni che seguono. 1. La cooperazione è superiore alla competizione nel promuovere il raggiungimento dei risultati e la produttività. 2. La cooperazione è superiore agli sforzi individualistici nel promuovere il raggiungimento dei risultati e la produttività. 3. La cooperazione senza la competizione tra gruppi favorisce una migliore capacità di raggiungere i risultati e una maggiore produttività rispetto alla cooperazione unita alla concorrenza tra gruppi.22 Considerate la dimensione e la diversità della base di tale ricerca, i risultati appoggiano fortemente la cooperazione nelle organizzazioni moderne; è possibile incoraggiarla tramite sistemi di ricompensa che rafforzino il lavoro di gruppo oltre che il risultato del singolo individuo. È interessante notare come la cooperazione possa essere incoraggiata molto semplicemente abbattendo delle barriere o non costruendole per niente. Uno studio recente condotto su 229 manager e professionisti provenienti da otto piccole imprese si è rilevato molto utile: I ricercatori hanno osservato gli effetti degli uffici privati, di quelli condivisi e degli scomparti a cubicoli sulla produttività, e sono rimasti inizialmente sorpresi del fatto che la più alta performance fosse correlata con la configurazione dell’ufficio aperto, pensato per un team di piccole dimensioni (con scrivanie distribuite in ordine sparso su una piccola area senza pareti divisorie). Essi hanno inoltre appurato come tale configurazione dell’ufficio fosse in particolar modo preferita dai collaboratori più giovani, i quali sostengono che gli uffici aperti danno loro maggiori opportunità di comunicare con i colleghi e di apprendere dalle persone più anziane e con maggiore esperienza.23

Vi è una tendenza, tra gli architetti e i pianificatori urbanistici, a progettare e costruire strutture che favoriscono l’interazione spontanea, la cooperazione e il lavoro di gruppo.

Fiducia La fiducia, nel mondo aziendale, non ha incontrato momenti favorevoli: anni di sprechi di denaro pubblico, disoccupazione elevata, crisi finanziaria, bonus gonfiati per dirigenti,

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scandali aziendali e promesse non mantenute hanno reso, a ragione, molti collaboratori, piuttosto cinici nel riporre fiducia nelle parole e nell’operato del management.24 D’altra parte, “in uno studio condotto dalla MasterWorks, Annandale, in Virginia, su 500 uomini d’azienda, il 95% ha dichiarato che ciò che principalmente determina la decisione di abbandonare o no il posto di lavoro è l’avere un rapporto di fiducia con il proprio manager.”25 Occorre, chiaramente, agire in modo attivo per chiudere l’enorme divario di fiducia, soprattutto tra i collaboratori e il top management. Nella presente sezione esamineremo il concetto di fiducia e presenteremo sei linee guida per costruirla nella pratica. Fiducia: credito reciproco alle intenzioni e ai comportamenti altrui

Un salto cognitivo La fiducia si definisce come il credito reciproco nelle intenzioni e nel comportamento altrui.26 L’aspetto di reciprocità della fiducia (dare e avere) è essenziale: abbiamo la tendenza, in altre parole, a dare ciò che riceviamo, quindi la fiducia genera fiducia; la sfiducia genera sfiducia. Studiando le misure specifiche adottate dalla 3M per costruire la fiducia tra i 75.000 dipendenti dislocati in 200 paesi, alcuni esperti in gestione delle risorse umano hanno di recente osservato: La fiducia, che è tutto nei rapporti, è la convinzione che l’altro farà la cosa più giusta per noi anche se non siamo in grado di confermarlo. La fiducia permette agli individui legati da un rapporto di assumere dei rischi perché entrambi ritengono che l’altro agirà solo dopo aver considerato le conseguenze delle sue azioni sul rapporto. La fiducia è l’elemento che incoraggia i collaboratori a profondere tutte le loro energie e tutto il loro impegno nel lavoro.27

Propensione alla fiducia: aspetto della personalità che implica la generale disposizione della persona a riporre fiducia negli altri

La fiducia può anche essere molto fragile, come ci ricorda il noto giornalista economico Harvey Mackay: “occorrono anni per costruire la fiducia, basta un secondo per distruggerla.”28 Appropriatamente, una nuova linea di ricerca nell’ambito del management è incentrata proprio sulla ricostruzione della fiducia, organizzativa e interpersonale.29 Un modello di fiducia organizzativa include un aspetto della personalità chiamato propensione alla fiducia. Gli ideatori di tale modello forniscono la seguente spiegazione: Questa propensione può essere intesa come la generica disponibilità a fidarsi degli altri, che determinerà il grado di fiducia nei confronti di una persona prima di poter avere su di lei alcune informazioni. Persone caratterizzate da esperienze di sviluppo, tipi di personalità e background culturali diversi mostrano un differente grado di propensione alla fiducia. […] Un esempio di caso estremo, a questo proposito, è dato da quella che comunemente è definita fiducia cieca. Alcuni hanno la tendenza a riporre ripetutamente la loro fiducia in situazioni nelle quali, la maggior parte delle persone non ne riporrebbe alcuna. Altri, al contrario, non sono disposti a fidarsi nella maggior parte delle situazioni, anche quando le circostanze suggerirebbero un comportamento opposto.30

La fiducia implica “un ‘salto’ cognitivo oltre le aspettative che la ragione e l’esperienza da sole garantirebbero”31 (figura 11-3). Supponiamo, ad esempio, che una persona che partecipa a un progetto di gruppo si impegni a fondo sulla base del presupposto che anche i suoi compagni si comportino nello stesso modo; l’assunto sul quale basa la sua

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Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci Figura 11-3 La fiducia interpersonale implica un salto cognitivo

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Salto cognitivo Fede nelle buone intenzioni altrui. Assunto che gli altri si comporteranno come noi desideriamo Conoscenza personale dell’affidabilità e integrità altrui

Sfiducia

Fiducia

fiducia è un salto cognitivo che va oltre la sua effettiva esperienza con i suoi compagni. Quando ti fidi di qualcuno credi nelle sue buone intenzioni. Porre la propria fiducia in qualcuno, tuttavia, implica il rischio che questa sia tradita. Manager all’avanguardia reputano che i vantaggi della fiducia tra le persone siano superiori al rischio di vedere tradita tale fiducia. Michael Powell, ad esempio, fondatore più di 25 anni fa della catena di librerie omonime, ha costruito la sua impresa basandosi sui principi della gestione “a libro aperto”, sull’empowerment e la fiducia. La propensione di Powell alla fiducia è stata messa a dura prova nel momento in cui uno dei suoi collaboratori ha rubato più di 60.000 dollari durante l’acquisizione di libri di seconda mano. Dopo aver introdotto alcun sistemi di controllo della contabilità, la propensione alla fiducia di Powell è rimasta intatta. Ecco quanto ha osservato: L’accaduto ha determinato una svolta per me e il mio staff, portandoci a eliminare qualunque forma di ingenuità che abbiamo potuto avere in merito a un atto criminoso. Non solo ci siamo resi conto che il furto può verificarsi, ma che si verificherà. Gestire questa questione ci ha costretto, allo stesso tempo, a rivedere i nostri valori e la nostra filosofia manageriale. Riteniamo che le imprese moderne cerchino uno staff flessibile e con pieni poteri e questo implichi che tale staff dovrà spesso gestire merci di valore e denaro. Riteniamo inoltre che nella maggior parte dei casi le persone non abuseranno della fiducia in loro riposta se collocate in una posizione con il giusto livello di controlli e responsabilità.32

Come costruire la fiducia Fernando Bartolomé, professore e consulente aziendale, propone le seguenti sei linee guida per costruire e conservare la fiducia: 1. Comunicazione. Tenere aggiornati i membri dei team e i collaboratori spiegando loro le politiche e le decisioni e fornendo un adeguato feedback. Essere franchi nel discutere i problemi e i limiti di un individuo. Dire la verità. 2. Sostegno. Mostrare disponibilità e apertura, fornire aiuto, consiglio e sostegno alle idee dei membri del team. 3. Rispetto. La delega, sotto forma di una reale autorità decisionale, rappresenta la più importante espressione di rispetto manageriale. L’ascolto attivo delle idee altrui si

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piazza secondo a breve distanza (l’empowerment, che analizzeremo nel Capitolo 15, non è possibile senza fiducia). 4. Lealtà. Riconoscere con rapidità i meriti dei collaboratori. Assicurarsi che tutti gli apprezzamenti e le valutazioni delle prestazioni siano obiettivi e imparziali. 5. Prevedibilità. Come accennato in precedenza, si deve essere coerenti e prevedibili nelle proprie azioni quotidiane. Mantenere sia le promesse fatte sia quelle implicite. 6. Competenza. Valorizzare la credibilità dimostrando buone competenze nel business, capacità tecnica e professionalità.33

Credibilità: effetto di integrità, intenti, capacità e risultati

La fiducia bisogna guadagnarsela, non si può pretendere, ed è strettamente legata alla credibilità, cioè allo “sviluppo dell’integrità, degli intenti, delle capacità e dei risultati che rendono credibili ai propri occhi e agli occhi degli altri”.34 Quanto siete credibili e affidabili? E quanto lo sono coloro che vi circondano nella vita privata e professionale?

Coesione Coesione: un senso di unione che aiuta il gruppo a restare unito

La coesione è un processo attraverso il quale “emerge un senso di “pluralità’ che supera le differenze e le motivazioni individuali”.35 I membri di un gruppo coeso restano uniti e sono riluttanti ad abbandonarlo, in quanto: (1) apprezzano la reciproca compagnia, oppure (2) hanno bisogno uno dell’altro per perseguire un obiettivo comune. I sociologi, di conseguenza, hanno individuato due tipi di coesione: la coesione socio emotiva e la coesione strumentale.36

Coesione socioemotiva: senso di unione basato sulla soddisfazione emotiva

Coesione socio-emotiva e strumentale La coesione socio-emotiva è un senso di unione che si sviluppa quando gli individui traggono soddisfazione emotiva dalla partecipazione nell’attività di gruppo. In linea con questa affermazione, recenti ricerche dimostrano che la condivisione di esperienze emotivamente intense (per esempio, la temuta visita dal dentista) tendono a favorire la creazione di legami tra gli individui.37 Le discussioni più generiche sulla coesione di gruppo si limitano a questo tipo. Se, però, consideriamo le cose dal punto di vista della realizzazione dei compiti dei team e dei gruppi, non possiamo permetterci di ignorare la coesione strumentale. Per coesione strumentale si intende un senso di unione che si sviluppa quando i membri dei gruppi sono legati da reciproca dipendenza perché ritengono di non poter essere in grado di perseguire l’obiettivo del gruppo operando da soli. Una sensazione di pluralità è strumentale nel raggiungimento dell’obiettivo comune. I sostenitori del team partono, generalmente, dal presupposto che entrambi i tipi di coesione sono essenziali ai fini di un lavoro di gruppo produttivo. Ma è proprio vero? Una meta-analisi non ha trovato collegamenti significativi tra la coesione e la qualità delle decisioni di gruppo. Comunque i risultati hanno sostenuto l’ipotesi proposta da Janis secondo la quale gruppi coesi e con forte leadership tendono a soffrire di groupthink: i gruppi i cui membri mostravano un grande apprezzamento reciproco tendevano a generare decisioni di qualità peggiore.38

Coesione strumentale: senso di unione basato sulla dipendenza reciproca necessaria al raggiungimento dell’obiettivo

Trarre effetti positivi dalla coesione del gruppo La ricerca afferma che la coesione di gruppo non è un’arma segreta per migliorare la performance del gruppo o del team.

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Tabella 11-5 Passi che i manager devono fare per aumentare i due tipi di coesione di gruppo

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Coesione socio-emotiva Mantenere gruppi di dimensioni ridotte. Impegnarsi a favore di un’immagine pubblica di un certo livello al fine di aumentare lo status e il prestigio di appartenere al team. Favorire l’interazione e la cooperazione. Valorizzare gli interessi e le caratteristiche comuni dei membri. Far presente le minacce ambientali (es. i risultati dei concorrenti) al fine di mobilitare il gruppo. Coesione strumentale Aggiornare e chiarire con regolarità l’obiettivo/gli obiettivi del gruppo. Fornire a ciascun membro del gruppo un ruolo concreto nell’azione del team. Incanalare le doti speciali di ciascun membro verso l’obiettivo/gli obiettivi comuni. Riconoscere e avvalorare equamente i contributi di ciascun membro. Ricordare spesso ai membri del gruppo che hanno bisogno l’uno dell’altro per portare a termine il compito assegnato.

Il trucco sta nel mantenere i gruppi di lavoro di piccole dimensioni, assicurarsi che gli standard di performance e gli obiettivi siano chiari e accettati, registrare in anticipo alcuni successi e seguire i suggerimenti riportati nella tabella 11-5. Un esempio valido, a questo proposito, ci è dato dall’impianto radar elettronico militare, altamente automatizzato della Westinghouse, situato a College Station, in Texas. Paragonato con i suoi equivalenti di una fabbrica tradizionale di Baltimora, ciascuno dei 500 dipendenti negli impianti texani fornisce, per ciascuna unità, una produzione otto volte superiore e alla metà dei costi. Il segreto, afferma la Westinghouse, non sono le macchine ma le persone: i collaboratori lavorano in team composti da un numero compreso tra gli 8 e i 12 elementi. I membri escogitano soluzioni ai problemi; i team valutano quotidianamente la misura in cui la performance del singolo sia paragonabile con quella di altri membri e come la performance dei team sia paragonabile con quella dell’impianto. Joseph L. Johnson, esperto di robotica, ritiene che si tratti di un notevole cambiamento dal lavoro che in precedenza portava a dover stare ore in fabbrica e dove si trattava solo di “mettere insieme il salario”. Qui la pressione dei tuoi colleghi “fa in modo che il lavoro sia fatto effettivamente”.39 Team di lavoro che si auto-selezionano (ovvero team nei quali gli individui scelgono i propri compagni) e eventi sociali fuori dall’orario d’ufficio possono stimolare la coesione socio-emotiva,40 che però deve essere bilanciata con la coesione strumentale. Questa ultima può essere incoraggiata assicurandosi che il gruppo riconosca e apprezzi il contributo vitale di ciascun membro all’obiettivo del gruppo. Oltre a stabilire un equilibrio tra i due tipi di coesione, i manager devono ricordare che la teoria e la ricerca nell’ambito del groupthink mettono in guardia di fronte a un grado di coesione troppo alto.

Team virtuali e team auto-gestiti Oggigiorno, sul posto di lavoro, è possibile riscontrare ogni sorta di approccio interessante sui team e sul lavoro di gruppo. Nel tentativo di raggiungere una maggiore

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Parte III

258 Tabella 11-6 Differenze di base tra i team virtuali e i team auto-gestiti

Tipo di team (tabella 11-2) Tipo di empowerment (figura 15-2) Membri Base di appartenenza Rapporto con la struttura organizzativa Grado di comunicazione faccia a faccia

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Team virtuali

Team auto-gestiti

Consiglio o progetto (solitamente progetto) Consultazione, partecipazione o delega Manager e specialisti tecnici Assegnata (talvolta volontaria) Parallelo o integrato

Produzione, progetto o azione

Tendente a zero

Varia a seconda dell’uso delle tecnologie informatiche

Delega Produzione/servizio, specialisti tecnici Assegnata Integrato

flessibilità e prontezza di risposta, le organizzazioni stanno portando avanti diverse sperimentazioni, incoraggiate anche dalle nuove tecnologie informatiche. La presente sezione descrive due tipi diversi di approccio con tali strutture: i team virtuali e i team auto-gestiti. Abbiamo selezionato questi particolari tipi di team per tre ragioni: (1) hanno nomi facilmente riconoscibili, (2) sono, almeno parzialmente, supportati da ricerche, (3) implicano diversi livelli di empowerment: basso, medio, alto (si veda in proposito la figura 15-2). I due tipi di team, come si può notare nella tabella 11-6, sono ben delineati, ma non sono unici nel loro genere. Esistono infatti degli elementi comuni. I team virtuali gestiti mediante reti informatiche, ad esempio, possono essere formati da membri volontari o meno, e possono sia essere auto-gestiti sia non esserlo. Un’altra caratteristica comune riguarda la quinta variabile indicata nella tabella 11-6, in altre parole il rapporto con la struttura organizzativa. I team sono definiti strutture parallele perché esistono al di fuori dei normali canali di autorità e comunicazione.41 I team auto-gestiti, d’altro canto, sono integrati nella struttura organizzativa di base. I team virtuali, a questo proposito, variano, sebbene abbiano la tendenza a somigliarsi perché composti da specialisti (ingegneri, contabili, operatori di mercato ecc.) che si riuniscono in progetti a termine. Tenendo presenti tali distinzioni di base esaminiamo i team virtuali e i team auto-gestiti.

Team virtuali I team virtuali sono un prodotto dei tempi moderni; il loro nome deriva da simulazioni al computer della realtà virtuale dove “le cose ti appaiono quasi come se fossero vere”. Grazie a tecnologie informatiche in evoluzione come Internet mobile, la posta elettronica, i social media, l’instant messaging, le videoconferenze e i “groupware”, è possibile far parte di un team di lavoro senza essere effettivamente presenti.42 I team tradizionali si incontrano in un luogo specifico: e le persone sono presenti fisicamente oppure assenti. I team virtuali, invece, sono convocati elettronicamente e i membri partecipano stando in luoghi e in organizzazioni diverse, persino con fusi orari differenti.

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Team virtuali: la tecnologia informatica permette ai membri del gruppo di portare avanti le attività da diverse postazioni

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Essendosi sviluppati di recente, non esiste una definizione comunemente condivisa di team virtuale. La nostra definizione operativa descrive un team virtuale come un gruppo di lavoro composto da membri geograficamente distanti che porta avanti il business avvalendosi dei moderni strumenti di tecnologia informatica. I sostenitori affermano che i team virtuali sono molto flessibili ed efficienti perché guidati dalle informazioni e dalle capacità dei loro membri e non dal tempo e dalla localizzazione. Persone che hanno le capacità e le informazioni necessarie possono partecipare indipendentemente dal luogo o dal momento in cui svolgono il loro lavoro. i team virtuali sono una realtà molto familiare per le generazioni cresciute utilizzando Internet e i social media. Per quanto riguarda gli aspetti negativi, la mancanza di un’interazione faccia a faccia può determinare un indebolimento della fiducia, della comunicazione e del senso di responsabilità. In un sondaggio che ha chiesto a 1.465 lavoratori se la percezione della qualità del lavoro varia a seconda che questo sia stato svolto remotamente oppure in ufficio, il 55% ha risposto affermativamente e il 45% negativamente.43 Può risultare molto difficoltoso svolgere il ruolo di leadership e management a distanza. Billie Williamson, partner Ernst&Young responsabile della diversità aziendale, ha gestito team virtuali per oltre 10 anni e offre un interessante punto di vista: La gestione virtuale presenta numerosi vantaggi: semplifica il coordinamento di programmi diversi, consente di convocare riunioni con breve preavviso, contribuisce a ridurre le spese di viaggio, permettendo una maggiore sostenibilità ambientale e minimizzando i tempi morti. Favorisce inoltre la creazione di team più eterogenei, dotati di un bagaglio di esperienza e conoscenze più ampio. L’aspetto più importante che i manager devono ricordare è che il successo di un team, che sia virtuale o meno, dipende dalle persone: la tecnologia può accorciare le distanze, ma è il manager a doversi assicurare che i rapporti siano vitali, che ogni membro del team venga apprezzato e che la produttività sia alta.44

Suggerimenti della ricerca Com’è facile aspettarsi da un campo nuovo e non ancora ben definito, i risultati forniti dalla ricerca sono, a oggi, piuttosto scarni. Ecco quanto abbiamo finora appreso da studi recenti sui gruppi mediati dal computer: • Gruppi virtuali formati tramite Internet seguono un processo di sviluppo del gruppo simile a quello di gruppi non virtuali45 (ricordate la discussione in merito al modello di Tuckman del Capitolo 10). • Le stanze di chat in Internet creano maggiore lavoro e approdano a decisioni più limitate rispetto agli incontri faccia a faccia e alle teleconferenze.46 • Un utilizzo efficace del groupware (software che facilita l’interazione tra membri virtuali del gruppo) richiede formazione ed esperienza pratica.47 • Una leadership ispiratrice, durante i brainstorming elettronici dei gruppi, ha un effetto positivo sulla creatività.48 • La gestione del conflitto è particolarmente difficoltosa per i team virtuali asincroni, (ovvero quelli non presenti in tempo reale), che non hanno l’opportunità di interagire faccia a faccia.49 • Se almeno un membro del team lavora remotamente “il gruppo è motivato a una maggiore disciplina nel coordinamento e nella comunicazione, il che si traduce in

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un’esperienza migliore e più produttiva per tutti [ …] Se tuttavia il singolo viene affiancato da un collega, il team ne soffre.”50 Ciò accade perché la coppia tende a coalizzarsi, troppo spesso in contrapposizione al “quartier generale”. Considerazioni pratiche Sebbene i team virtuali siano alquanto popolari, non costituiscono una soluzione generale. Possono, infatti, determinare, per coloro non particolarmente esperti di tecnologia informatica, un consistente passo indietro. I manager che li utilizzano sono d’accordo su un punto: un espressivo contatto visivo, specialmente durante le prime fasi di sviluppo del gruppo, è assolutamente essenziale. I membri di gruppi virtuali devono poter associare delle “facce” ai nomi e ai messaggi elettronici. Un’interazione faccia a faccia periodica non solo stimola un legame sociale tra i membri del team virtuale, ma facilita la risoluzione dei conflitti. Inoltre, sono indispensabili alcuni elementi tradizionali come il sostegno del top management, una formazione pratica, una missione chiara e obiettivi specifici da perseguire, una leadership efficace e la pianificazione dei tempi, delle attività e delle scadenze (consigli pratici aggiuntivi sono elencati nella tabella 11-7).

Team auto-gestiti

Team auto-gestiti: gruppi di collaboratori aventi la supervisione gestionale del proprio lavoro

Vi siete mai trovati a pensare di poter ottenere un risultato sul lavoro migliore del vostro capo? Bene, se la tendenza verso team di lavoro auto-gestiti continua a crescere come previsto potreste avere occasione di dimostrarlo. Per esempio, “Allo stabilimento produttivo della General Mills a Lodi, in California, i team […] programmano, utilizzano e mantengono i macchinari così efficacemente che la fabbrica va avanti senza la necessità di manager presenti durante il turno di notte.”51 Generalmente i manager sono presenti e fungono da formatori o facilitatori. I team auto-gestiti assumono una molteplicità di forme diverse nell’attuale contesto economico, con un grado di autonomia variabile. I team auto-gestiti si definiscono come gruppi di lavoratori ai quali viene affidata la supervisione gestionale del loro ambito di attività. La supervisione gestionale implica la delega di attività come la pianificazione, la tempistica, il monitoraggio e la selezione del personale. Tali compiti sono generalmente affidati ai manager; i collaboratori, in breve, nell’ambito di questi peculiari gruppi di lavoro agiscono come supervisori di se stessi. La gestione delle responsabilità è curata indirettamente da manager e leader esterni. Secondo uno studio condotto su un’azienda dotata di 300 team auto-gestiti, 66 “consiglieri di team” sfruttavano le quattro strategie di influenza indiretta seguenti: 1. Creare relazioni: comprendere la struttura di potere dell’organizzazione, costruire la fiducia, mostrare interesse per i singoli membri del team. 2. Fare scouting: cercare informazioni all’esterno, diagnosticare i problemi del lavoro in team, facilitare la risoluzione dei problemi del gruppo. 3. Persuadere: acquisire supporto e risorse esterne, influenzare il team a essere più efficace e perseguire gli obiettivi organizzativi. 4. Favorire l’empowerment: delegare l’autorità decisionale, facilitare il processo decisionale del team, fare coaching.52

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Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci Tabella 11-7 Creare e gestire un team virtuale

Fonte: da R. Kreitner e C. Cassidt, Management, XII ed. (Mason, OH: South-Western Cengage Learning, 2012). Tabella 13.3. Copyright © 2009 SouthWestern, appartenente a Cengage Learning. Riproduzione autorizzata. www.cengage.com/ permission.

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Formare il team Sviluppare una dichiarazione della missione del team, assieme ad aspettative e norme del lavoro in team, obiettivi e scadenze. Reclutare membri con capacità complementari ed esperienze eterogenee, dotati della capacità e della volontà di contribuire. Ottenere uno sponsor di alto livello che sostenga il progetto. Per favorire la socializzazione e la corretta gestione della dispersione geografica, rendere disponibili per ciascun membro del team informazioni biografiche e profilo delle competenze, contatti e “fuso orario”. Preparare il team Accertarsi che tutti i membri del team abbiano a disposizione una connessione a banda larga e siano in grado di utilizzare le tecnologie per il lavoro in team virtuale (p. es., email, chat, videochiamate, riunioni online e programmi di collaborazione come WebEx, videoconferenze). Garantire la compatibilità di hardware e software. Assicurarsi che tutti i membri del team siano in grado di gestire il lavoro in team sincrono (interazione simultanea) e asincrono (interazione non simultanea). Fare in modo che i singoli si facciano carico degli obiettivi del team, delle scadenze e dei compiti individuali. Costruire il lavoro in team e la fiducia Coinvolgere tutti i membri del team (durante le riunioni e in generale). Organizzare periodicamente incontri faccia a faccia, esercizi di team building e attività di svago. Promuovere la collaborazione tra i membri del team nello svolgimento dei compiti intermedi. Istituire un sistema di segnalazione tempestiva dei conflitti (p.es., riunioni dedicate a far emergere i malumori). Motivare e guidare il team Servirsi di un tabellone per segnalare i progressi del team verso il raggiungimento degli obiettivi. Festeggiare i successi del team in occasioni virtuali e faccia a faccia. Aprire tutte le riunioni virtuali lodando i membri del team e offrendo riconoscimenti per i loro contributi. Informare i manager di linea dei membri del team dei successi e dei progressi compiuti.

I team auto-gestiti sono altrimenti definiti come gruppi di lavoro semi-autonomi, gruppi di lavoro autonomi e super-team. Resistenza manageriale Dietro la denominazione apparentemente semplice di team auto-gestito si nasconde un significato molto complesso. Con il termine auto-gestito non si intende semplicemente che i lavoratori sono lasciati liberi di gestire il loro lavoro: un’organizzazione pronta ad accettare i team auto-gestiti dovrà essere pronta a cambiare radicalmente la sua filosofia gestionale, la sua struttura, le pratiche di selezione e di formazione del personale e i sistemi di remunerazione. Inoltre le tradizionali nozioni di autorità e controllo manageriale vengono capovolte. Non a caso molti manager si oppongono fermamente all’affidare le redini del potere a persone che loro vedono come subordinati, in quanto vedono i team auto-gestiti come una minaccia alla loro sicurezza professionale

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Il team building e la leadership dei team Per trasformare un gruppo di lavoro in un vero team occorrono attività di team building creative ed efficaci sul piano dei costi e un insieme particolare di capacità di leadership. Analizziamole nel dettaglio.

Team building Team building: apprendimento sperimentale volto a un migliore funzionamento interno dei gruppi

Team building è un’espressione generica per definire tutta una serie di tecniche volte al miglioramento del funzionamento interno dei gruppi di lavoro. I workshop sul team building, sia che siano condotti da formatori interni all’azienda o da consulenti esterni, puntano a una maggiore cooperazione, una migliore comunicazione e un minore conflitto disfunzionale. Memorizzazioni ripetitive e lezioni/discussioni sono sconsigliate dagli esperti di team building, che preferiscono un apprendimento attivo rispetto a uno passivo. Viene in particolar modo valorizzato il modo in cui i gruppi svolgono il lavoro e non tanto il lavoro in sé. Tecniche di apprendimento sperimentale come gli esercizi sulla fiducia interpersonale, le sessioni di giochi di ruolo sulla gestione dei conflitti, le attività creative e i giochi competitivi sono alquanto comuni. Le attività all’aperto possono rappresentare un piacevole stacco dalla routine dell’ufficio o della fabbrica. Un esempio estremo in tal senso è il seguente: “Ogni anno la Seagate Technology spende 2 milioni di dollari per consentire a 200 collaboratori di trascorrere una settimana a fare hiking, canoa e raid tra le montagne della Nuova Zelanda.”53 Secondo i rappresentanti dell’azienda si tratta di denaro ben speso; tuttavia, specie durante le fasi di profonda recessione economica, molti considerano poco etica la spesa di somme consistenti di denaro per organizzare bizzarre attività fuori sede. Attività di team building meno costose, per esempio contribuire a costruire una casa con l’organizzazione non profit Habitat for Humanity, possono risultare efficaci e al tempo stesso socialmente responsabili.54 Jeffrey Katzenberg, CEO di DreamWorks Animation SKG, preferisce fare team building festeggiando: “La prima di un film, l’uscita di un DVD o l’assegnazione di un premio sono traguardi festeggiati alla grande.”55 In rete si trova una molteplicità di risorse gratuite, come per esempio il sito www. businessballs.com, che possono fornire interessanti spunti per elaborare attività di team building tenendo sotto controllo i costi. L’aspetto importante da ricordare è che senza obiettivi chiari, capacità di leadership, attenzione al dettaglio e applicazione dei contenuti appresi al lavoro, le sessioni di team building in azienda e fuori possono rivelarsi una costosa delusione.56 L’obiettivo del team building: team ad alta performance Il team building permette ai membri di affrontare problemi simulati o reali. I risultati vengono poi esaminati dal gruppo al fine di stabilire quali processi devono essere migliorati. L’apprendimento deriva dal riconoscere e dal parlare delle dinamiche di gruppo mancanti; può ad esempio essersi verificato un occultamento di informazioni fondamentali da parte di un sottogruppo nei confronti di un altro che ha poi determinato un ostacolo al progresso

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Sviluppare e guidare team di lavoro efficaci

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del lavoro. Nel caso di team interculturali, divenuti una situazione comune nell’attuale economia globale, il team building è più importante che mai.57 Un sondaggio della Wilson Learning Corporation, condotto su scala nazionale su membri di team provenienti da molte organizzazioni, fornisce un utile modello o punto di riferimento su ciò che ci si aspetterebbe dai team. La domanda posta dai ricercatori era semplice: “Che cosa si intende per team ad alta performance?”58 Agli intervistati è stato chiesto di descrivere le loro esperienze più importanti avute nei team di lavoro. L’analisi dei risultati ottenuti ha delineato, per i team ad alta performance, le seguenti otto caratteristiche: 1. Leadership partecipativa. Creare un’interdipendenza attraverso l’empowerment, la concessione di libertà e il servizio nei confronti degli altri. 2. Responsabilità condivisa. Creare un ambiente nel quale tutti i membri del team, in merito alla performance dell’unità operativa, si sentono responsabili tanto quanto i manager. 3. Allineamento al proposito. Avere un senso di proposito comune sul motivo per cui i team esistono e sulla funzione che ricoprono. 4. Alta comunicazione. Creare un clima di fiducia e di aperta e onesta comunicazione. 5. Focalizzazione sul futuro. Vedere nel cambiamento un’opportunità di crescita. 6. Focalizzazione sul compito. Tenere riunioni focalizzate sui risultati. 7. Talenti creativi. Applicare i talenti e le creatività individuali. 8. Risposta rapida. Identificare e agire in base alle opportunità.59 Le otto caratteristiche sopra riportate, in effetti, racchiudono molte delle attuali idee più avanzate sul management, tra le quali la partecipazione, l’empowerment, l’etica di servizio, lo sviluppo e la responsabilità individuali, l’auto-gestione, la fiducia, l’ascolto attivo e la creazione di una visione comune. Occorrono, comunque, pazienza e disciplina; stando a quanto afferma un manager competente di team di lavoro, “per la formazione di team ad alta performance possono essere necessari dai tre ai cinque anni”.60 Valutare l’efficacia del team building I manager devono essere in grado di valutare l’efficacia delle attività di team building organizzate. Il modello di valutazione più impiegato tra i formatori aziendali è stato sviluppato nel 1959 da Donald L Kirkpatrick, docente presso la University of Wisconsin. Il suo modello di valutazione a quattro livelli, dal più superficiale al più completo, comprende: 1. Reazione: che cosa pensano dell’attività i partecipanti? 2. Apprendimento: l’esperienza ha contribuito ad accrescere le conoscenze e migliorare le capacità? 3. Comportamento: il comportamento sul lavoro dei partecipanti è migliorato a seguito dell’attività? 4. Risultati: i partecipanti hanno successivamente ottenuto risultati migliori misurabili?61 Purtroppo troppo spesso i manager si accontentano di condurre un rapido sondaggio tra i partecipanti (con domande del tipo: L’attività è stata piacevole? Ne è valsa la pena?).

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Una valutazione adeguata richiede invece un approccio più completo. Tony Hsieh, CEO del rivenditore online Zappos, ha intrapreso la giusta direzione decidendo di interrogare i manager responsabili del team building: [Hsieh] rivolge precise domande ai manager che portano i team a cena fuori oppure a fare una camminata in montagna e invariabilmente sente parlare di comunicazione, maggiore fiducia e amicizie. “Allora domando, ‘Secondo te, di quanto è aumentata l’efficienza del team?’” riferisce Hsieh. “La misura varia dal 20 al 100%.”62

La leadership dei team L’esperienza pratica e un crescente corpus di ricerche dimostrano che guidare un team non è esattamente come guidare singoli individui.63 Occorre una leadership versatile. La differenza è simile a quella esistente tra guidare un esercizio di gruppo in un’aula piena ed esaminare un problema con un singolo studente dopo una lezione, due situazioni che si caratterizzano per dinamiche relazionali molto diverse. Come anticipazione alla trattazione completa della leadership nel Capitolo 16, in questa sezione conclusiva concentriamo l’attenzione sulla capacità di guidare singoli individui e team. Linda A Hill, docente presso la Harvard Business School, ha inquadrato come segue la sfida che si pone ai nuovi manager: Il nuovo manager deve comprendere come gestire il potere di un team. Limitarsi a concentrare l’attenzione sulle relazioni uno a uno con i membri può minare questo processo. […] Molti manager non riconoscono, né tantomeno affrontano, le loro responsabilità nel team building, concependo il loro ruolo di gestione delle persone come la costruzione di rapporti quanto più efficaci possibile con i singoli e assimilando erroneamente la gestione del team alla gestione degli individui che ne fanno parte. Si concentrano principalmente sulle performance individuali, dedicando ben poca attenzione alla cultura e alle prestazione del team. Non si servono quasi mai di riunioni di gruppo per identificare e risolvere i problemi. Passano troppo tempo con un gruppo limitato di subordinati che considerano affidabili, spesso coloro che si mostrano più disponibili. I nuovi manager tendono a gestire tutte le questioni, anche quelle che si ripercuotono sull’intero team, su base uno a uno. Questo approccio li induce a prendere decisioni basandosi su informazioni limitate.64

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Perché i vertici di Google hanno adottato il processo decisionale di gruppo? Ogni lunedì pomeriggio un gruppo di dirigenti della Google si riunisce nella sala del consiglio di amministrazione: “L’iniziativa della riunione settimanale, denominata Execute, è stata lanciata l’estate scorsa con uno scopo preciso: riunire nella stessa stanza i leader dei variegati gruppi di prodotto della Google, dotati di poteri quasi illimitati, e armonizzare i loro disparati progetti.” Sono i cofondatori della società Sergey Brin e Larry Page, che di recente ha assunto il ruolo di CEO, e l’ex CEO Eric Schmidt a guidare gli incontri, cui partecipano Andy Rubin, vicepresidente di Android, Salar Kamangar, vicepresidente di YouTube, e Vic Gundotra, vicepresidente dell’unità ingegneristica per i social network. Come lo stesso Page ha riferito a un giornalista di Bloomberg Businessweek, l’obiettivo dell’iniziativa è “riunire i leader di prodotto e discutere di tutti i punti di integrazione [ ] Ogni volta che l’azienda cresce, dobbiamo assicurarci che tutte le attività procedano in modo tale da consentirci di mantenere rapidità, ritmo e passione.”

Nel corso degli anni, il processo decisionale del gigante di Mountain View ha dato vita a una grande varietà di prodotti innovativi, come Gmail e Android, per non parlare del celeberrimo motore di ricerca. In tempi più

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recente l’azienda ha incassato qualche fallimento, come Google Buzz, una sorta di clone di Twitter, e Google Wave, un servizio di collaborazione online. “Page non attribuisce esplicitamente la responsabilità di questi passi falsi alla gestione poco coesa né alla famosa troika al vertice dell’azienda, ma ammette: ‘Paghiamo un prezzo [per il processo decisionale condiviso] in termini di rapidità e difficoltà a individuare i responsabili dei progetti’.” Page è convinto di poter contribuire ad accrescere la rapidità delle operazioni in qualità di CEO. Osservatori esterni e non hanno notato che Larry Page si discosta dal profilo tradizionale del CEO; è un introverso, non ama parlare in pubblico né tenere sotto stretto controllo le attività giornaliere. Questo è uno dei motivi per i quali l’azienda ha lanciato l’iniziativa delle riunioni settimanali: i partecipanti diventeranno portavoce dell’organizzazione in tutto il mondo. “Page dichiara che uno dei suoi obiettivi è diffondere in tutta l’azienda lo stile di leadership risoluto dimostrato da questi leader nei rispettivi gruppi di prodotto e applicarlo alle decisioni importanti.” Page mira ad accrescere la rapidità del processo decisionale e delle innovazioni e ritiene che le riunioni Executive settimanali siano uno degli strumenti principali per raggiungere l’obiettivo.1

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Sarà il tempo a dire se l’approccio della Google al processo decisionale determinerà buoni risultati nel lungo periodo. Ogni giorno tutti noi prendiamo molte decisioni, dalle più banali alle più importanti, che influenzano in misura significativa le nostre vite e possono rivelarsi talvolta giuste, talvolta sbagliate. Nel contesto organizzativo, il processo decisionale è una delle responsabilità primarie dei manager e la qualità delle decisioni può determinare conseguenze importanti. Scopo di questo capitolo è aiutarvi a comprendere a fondo le dinamiche del processo decisionale per migliorare la qualità delle decisioni che prendete individualmente e in gruppo. Il capitolo si concentrerà (1) sui modelli decisionali, (2) sui bias decisionali, (3) sul processo decisionale basato sull’evidenza, (4) sulle dinamiche del processo decisionale, (5) sul processo decisionale di gruppo e (6) sulla creatività.

Modelli decisionali Processo decisionale: identificazione e scelta tra soluzioni che portano al risultato finale desiderato

Il processo decisionale comporta l’individuazione e la scelta tra soluzioni alternative per giungere a una situazione auspicata. Al momento di prendere una decisione, si possono scegliere due approcci generali, privilegiando un modello razionale oppure svariati modelli non razionali. Passiamo a esaminare le dinamiche di ciascuno di essi iniziando con il modello razionale del processo decisionale.

Il modello razionale Modello razionale: approccio logico del processo decisionale articolato in quattro fasi

In fase decisionale, il modello razionale propone al manager una sequenza razionale articolata in quattro fasi (vedi la figura 12-1). Secondo questo modello, i manager sono completamente oggettivi e dispongono di tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione. A dispetto delle critiche che lo considerano non realizzabile, il modello razionale è istruttivo perché suddivide in modo analitico il processo decisionale fornendo una solida base concettuale ai modelli più innovativi.2 Prendiamo ora in esame ciascuno dei singoli punti.

Problema: divario tra una situazione reale e una auspicata

Fase 1: identificare il problema o l’opportunità e confrontare la situazione effettiva con quella desiderata Si parla di problema quando la situazione effettiva in cui ci si

Fase 1

Fase 2

Fase 3

Fase 4

Identificare il problema o l’opportunità

Generare soluzioni alternative

Vagliare le alternative e scegliere una soluzione

Implementare la soluzione scelta e valutarla

Figura 12-1 Le quattro fasi del processo decisionale razionale

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Opportunità: situazione nella quale si potrebbero raggiungere risultati superiori alle aspettative

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trova e quella desiderata non coincidono. I manager non sono mai a corto di problemi: reclami dei clienti, turnover dei collaboratori, nuovi prodotti della concorrenza, difficoltà nella produzione e così via. I manager devono prendere decisioni anche relativamente alle opportunità che si presentano. Un’opportunità è una situazione nella quale si possono intraprendere azioni che potrebbero determinare risultati superiori agli obiettivi e alle aspettative. Che ci si trovi di fronte a un problema oppure a un’opportunità, l’obiettivo resta il medesimo: apportare dei miglioramenti per modificare la situazione dallo stato effettivo a quello auspicato. A questo scopo, occorre diagnosticare le cause del problema. Fase 2: generare una molteplicità di soluzioni, dalle più scontate alle più creative Dopo aver individuato un problema e le sue cause, il passo logico successivo consiste nel trovare soluzioni alternative. Analizzeremo successivamente diverse tecniche di problem solving di gruppo che possono risultare utili durante questa fase. Uno studio condotto su 400 decisioni strategiche ha evidenziato che i principali ostacoli incontrati dai manager durante questa fase sono tre: (1) giudizi affrettati, (2) scelta di idee o soluzioni immediatamente disponibili e (3) allocazione inefficace delle risorse destinate a studiare soluzioni alternative. Si consiglia di affrontare il processo decisionale con calma, valutando un insieme ampio di alternative e investendo tempo nello studio di un ventaglio più esteso di possibili soluzioni.3 Fase 3: vagliare le alternative e scegliere una soluzione etica, fattibile ed efficace In questa fase bisogna vagliare le alternative tenendo conto di molteplici criteri. Oltre a esaminare i costi e la qualità, bisogna porsi anche altre domande: (1) La decisione è etica? (Se non lo è, meglio scartarla subito.) (2) La decisione è fattibile? (Si tratta di capire se vi è il tempo necessario, se i costi sono accessibili, se si dispone delle risorse tecnologiche richieste e così via.) (3) La decisione eliminerà il problema risolvendone le cause? Fase 4: implementare e valutare la soluzione scelta Una volta scelta la soluzione, bisogna metterla in pratica. Una volta messa in pratica la soluzione, la fase di valutazione serve a fornire una stima della sua efficacia. Se la soluzione è efficace dovrebbe ridurre la differenza tra la situazione effettiva, causa del problema, e quella desiderata. Se il divario non scompare significa che l’implementazione non ha avuto successo, per cui è possibile individuare una delle due seguenti cause: o il problema non era stato identificato correttamente, oppure la soluzione non era appropriata. Nel caso in cui sia stata l’implementazione a non aver avuto successo, il manager può tornare al primo stadio del processo, ovvero all’identificazione del problema. Se invece è il problema a non essere stato individuato correttamente, il manager potrebbe considerare di attuare una delle soluzioni precedentemente individuate ma non sperimentate. Questo processo può andare avanti fino a quando tutte le soluzioni possibili sono state attuate o fino a quando il problema non cambia. Sintesi del modello razionale Il modello razionale è prescrittivo perché delinea il processo logico che i manager dovrebbero seguire nel prendere decisioni e, in quanto tale, si basa sul presupposto che il manager, nella fase decisionale, tenda all’ottimizzazione.

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268 Ottimizzazione: scelta della migliore soluzione possibile

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L’ottimizzazione comporta la risoluzione dei problemi tramite la scelta della migliore delle soluzioni possibili e si basa su un insieme di presupposti altamente auspicabili, cioè: disporre di informazioni complete, non lasciarsi influenzare da fattori emotivi durante il processo decisionale, valutare con attenzione e onestà tutte le alternative, avere a disposizione tempo e risorse abbondanti, essere circondati da collaboratori disposti a implementare e sostenere le decisioni. L’esperienza pratica, naturalmente, ci suggerisce che tali presupposti sono irrealistici. Come è stato osservato da Herbert Simon, studioso che nel 1978 ha ricevuto il Premio Nobel per l’Economia proprio per il suo lavoro sui processi decisionali, “i presupposti della razionalità assoluta sono contrari alla realtà. Non è solo una questione di approssimazione, ma non descrivono neanche lontanamente i processi che gli esseri umani mettono in atto per prendere decisioni nell’ambito di situazioni complesse”.4 Premesso questo, cercare di seguire un processo razionale nel modo più realistico possibile determina tre benefici: • È possibile migliorare la qualità delle decisioni, nel senso che rappresenteranno la soluzione più logica alla luce di tutte le conoscenze e competenze a disposizione. • Il ragionamento alla base delle decisioni risulta trasparente e sottoponibile ad analisi. • Se reso pubblico, il modello razionale scoraggia il decisore dall’agire sulla base di motivazioni non limpide (per esempio con l’obiettivo di ottenere tornaconti personali oppure di evitare impacci burocratici).5

I modelli decisionali non razionali Modelli non razionali: cercano di descrivere ciò che di fatto avviene nei processi decisionali

Razionalità limitata: limitazioni che vincolano il processo di decisione razionale

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Contrariamente al modello razionale, incentrato su come sarebbe opportuno affrontare il processo decisionale, i modelli non razionali rappresentano un tentativo di descrivere ciò che di fatto avviene e si basano sui seguenti presupposti: il processo decisionale è caratterizzato dall’incertezza, i decisori non dispongono di informazioni complete ed è difficile prendere decisioni ottimali. Due modelli decisionali non razionali sono il modello normativo di Herbert Simon e il modello garbage can (letteralmente “del contenitore dei rifiuti”). Il modello normativo di Simon Herbert Simon ha proposto questo modello per tentare di identificare il processo che i manager effettivamente adottano quando prendono delle decisioni e si basa sulla razionalità limitata del decisore. La razionalità limitata si riferisce al fatto che coloro che prendono le decisioni sono “limitati” o ostacolati da una serie di vincoli. Tali restrizioni comprendono qualunque caratteristica personale o risorsa interna ed esterna che limiti il processo decisionale razionale. Alcuni esempi di caratteristiche personali sono la limitata capacità della mente umana, la personalità (dai risultati di una meta-analisi, che riassume 150 studi, è emerso che negli uomini è presente una maggiore propensione al rischio rispetto a quella riscontrata nelle donne)6 e i vincoli temporali. Esempi di risorse interne sono il capitale umano e sociale dell’organizzazione, le risorse finanziarie, la tecnologia, gli impianti di produzione e i macchinari, nonché i processi e i sistemi interni. Le risorse esterne comprendono fattori che l’organizzazione non può controllare diret-

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Satisficing: optare per una soluzione che rispetti uno standard minimo di soddisfazione

tamente, come i livelli di occupazione nella comunità, la disponibilità di capitali e i vincoli legislativi.7 Le limitazioni imposte dalla realtà diminuiscono il numero di informazioni in possesso dei decisori, portando a un processo decisorio non ottimale, ma comunque soddisfacente. Il processo di satisficing (adozione di un’alternativa soddisfacente) consiste nell’optare per la prima soluzione che incontra i criteri minimi stabiliti come accettabili dal decisore. Questa opzione risolve i problemi producendo soluzioni che siano soddisfacenti invece che ottimizzanti. Un buon esempio in tal senso è dato dalla scelta della stazione radiofonica da ascoltare in macchina: non si può ottimizzare la scelta perché è impossibile ascoltare tutte le stazioni contemporaneamente; si smette pertanto di cercare una volta trovata una stazione che trasmetta della musica passabile. Un recente sondaggio condotto negli Stati Uniti dal Business Performance Management Forum conferma la diffusione del satisficing nella pratica: solo il 26% degli intervistati ha riferito che la propria azienda dispone di processi decisionali formalizzati e chiari, segnalando che tra le cause più frequenti dell’inefficacia del processo decisionale figurano: • • • •

Modello garbage can: il processo decisionale organizzativo è descritto come accidentale

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processi e pratiche mal definiti; scarsa chiarezza della visione, della missione e degli obiettivi dell’azienda; riluttanza dei leader ad assumersi responsabilità; carenza di informazioni affidabili e tempestive.8

Il modello garbage can Come il modello normativo di Simon, questo approccio è nato dall’inefficacia del modello razionale nel descrivere come si svolge in realtà il processo decisionale. Si basa sull’idea che il processo decisionale organizzativo sia sciatto e accidentale, in netto contrasto con l’ipotesi di fondo del modello razionale, secondo la quale i decisori seguono una serie sequenziale di fasi che inizia con un problema e termina con una soluzione. Secondo il modello garbage can, le decisioni sono il risultato di un’interazione complessa tra quattro flussi indipendenti di eventi: problemi, soluzioni, attori del processo e opportunità di scelta.9 Le interazioni sono casuali, da qui la denominazione: la decisione è un “contenitore dei rifiuti” in cui tutti gli elementi si dispongono in modo fortuito. Proprio come il mescolarsi casuale dei rifiuti, questo modello ipotizza che il processo decisionale non segua una serie ordinata di fasi; al contrario, soluzioni allettanti possono essere abbinate a qualsiasi problema insorga in un determinato momento. Analogamente, alcuni individui ricevono certi incarichi semplicemente perché sono meno oberati di lavoro. Il modello del contenitore dei rifiuti presenta quattro implicazioni pratiche. In primo luogo, è un modello più evidente in settori basati sulle innovazioni scientifiche, come per esempio l’industria farmaceutica;10 i manager che operano in questi settori devono avere una maggiore consapevolezza del potenziale del processo decisionale casuale. In secondo luogo, numerose decisioni vengono prese per sbaglio oppure perché si presenta un’opportunità significativa; per esempio, i manager della Campbell Soup Company dovevano trovare il modo per ottenere maggiore visibilità nei supermercati e hanno deciso di creare un nuovo sistema di scaffalatura che faceva scorrere automaticamente i barattoli di minestra quando ne veniva estratto uno. La decisione si è rivelata un successo: i consumi sono aumentati, accrescendo i profitti dell’azienda e dei supermercati, che

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hanno potuto così ridurre anche i costi di ricostituzione delle scorte.11 Terza implicazione, spesso i partecipanti prendono decisioni influenzati da fattori politici; è dunque importante considerare le conseguenze politiche delle decisioni (la politica all’interno delle organizzazioni è esaminata nel Capitolo 15). Infine, esistono maggiori probabilità che si risolvano i problemi importanti rispetto a quello secondari, perché hanno una maggiore rilevanza per i partecipanti.12

Integrare il modello razionale e i modelli non razionali Basandosi sull’idea che le decisioni sono plasmate dalle caratteristiche dei problemi e dei decisori, i consulenti David Snowden e Mary Boone hanno proposto un approccio meno casuale del modello del contenitore dei rifiuti, che tuttavia tiene conto delle sfide poste alle organizzazioni odierne. Essenzialmente i due consulenti integrano il modello razionale ai modelli non razionali identificando quattro tipi di contesti decisionali e un metodo efficace per prendere una decisione in ciascuno di essi.13 1. In un contesto semplice e stabile i rapporti causa-effetto sono chiaramente identificabili ed è possibile concordare la scelta migliore. Tale contesto richiede l’applicazione del modello razionale, secondo il quale il decisore raccoglie informazioni, le classifica e risponde in modo convenzionale. 2. In un contesto complicato, esiste un chiaro rapporto causa-effetto, che tuttavia potrebbe non essere evidente per tutti, e le soluzioni efficaci potrebbero risultare più di una. Anche in questo caso si può applicare il modello razionale, indagando quali siano le opzioni e analizzandole. 3. In un contesto complesso, la risposta giusta è solo una, ma le incognite sono così numerose che i decisori non riescono a identificare i rapporti causa-effetto. È dunque consigliabile sperimentare, testare opzioni diverse e considerare i possibili scenari ricercando nel contempo una soluzione creativa. 4. In un contesto caotico, i rapporti causa-effetto mutano così rapidamente da impedire l’individuazione di un modello. I decisori sono chiamati a mettere ordine e poi a ricercare aree nelle quali è possibile identificare dei modelli, in modo da gestire gli aspetti di un problema. In una situazione di questo genere, può essere utile ricorrere all’intuito e al processo decisionale basato sull’evidenza, che esamineremo nel prosieguo del capitolo.14

I bias decisionali

Euristiche: regole empiriche o scorciatoie utilizzate per ridurre le esigenze di elaborazione dell’informazione

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Durante il processo decisionale gli individui possono commettere una molteplicità di errori sistematici, generalmente associati a una serie di bias che possono emergere quando si ricorre alle euristiche. Le euristiche consistono in una serie di regole pratiche o accorgimenti utilizzati per ridurre la necessità di elaborazione delle informazioni.15 Si utilizzano in modo automatico, senza esserne realmente consapevoli, al fine di ridurre l’incertezza insita nel processo decisionale. Tali accorgimenti sono frutto di una conoscenza acquisita in seguito a passate esperienze; aiutano, pertanto, i decisori

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a valutare i problemi che si presentano. Le euristiche possono, tuttavia, anche causare errori sistematici che vanno a intaccare la qualità delle decisioni, in particolare quando esistono vincoli legati al tempo, come accade ai medici responsabili dell’assistenza sanitaria primaria. Per esempio, uno studio recente sui casi di terapie sbagliate ha dimostrato che nel 40% dei casi il problema era causato da errori diagnostici, derivanti in parte dalle euristiche. Il ricorso alle euristiche presenta aspetti positivi e negativi. In questa sezione esamineremo otto bias che influenzano il processo decisionale: (1) l’euristica della disponibilità, (2) l’euristica della rappresentatività, (3) il bias di conferma, (4) il bias di ancoraggio, (5) l’overconfidence bias (ovvero una distorsione causata dall’eccesso di fiducia), (6) il bias retrospettivo, (7) il framing bias e (8) l’escalation of commitment bias (o errore legato all’intensificazione dell’impegno). Conoscere questi bias può aiutare a evitarli. 1. Euristica della disponibilità Descrive la tendenza del decisore a basare le sue decisioni su una serie di informazioni già presenti nella sua memoria. Tali informazioni sono più accessibili se si riferiscono a un evento accaduto in un passato recente, se hanno importanza rilevante (ad esempio un disastro aereo) e quando rievocano forti emozioni (ad esempio uno studente di liceo che spara contro altri studenti). Questo tipo di euristica porta, con facilità, ad attribuire una probabilità troppo alta al verificarsi di eventi rari quali un disastro aereo o una sparatoria in un liceo. L’euristica della disponibilità è in parte anche responsabile del cosiddetto “effetto attualità” di cui si è discusso nel Capitolo 7: è più probabile, ad esempio, che un manager dia una valutazione positiva del lavoro del proprio collaboratore, se quest’ultimo ha dimostrato una grande efficienza nel corso degli ultimi mesi. 2. Euristica della rappresentatività Viene adottata quando si valuta la probabilità che un evento si verifichi basandosi sulle impressioni legate ad avvenimenti simili. Un manager, ad esempio, potrebbe assumere il laureato di una particolare università sulla base del fatto che tre studenti, provenienti dalla medesima università, assunti in precedenza, non hanno deluso le aspettative dell’azienda. In questo caso, il criterio del “tipo di università frequentato” viene adottato per semplificare la complessa elaborazione dell’informazione tipica dei colloqui di lavoro. Questo espediente, tuttavia, può portare a una decisione errata. Allo stesso modo, un individuo può pensare di arrivare a padroneggiare, in breve tempo, un nuovo pacchetto software basandosi sulla facilità di apprendimento di un tipo diverso di software. Non è detto che una valutazione del genere sia precisa; può anche darsi, infatti, che sia necessario più tempo per imparare a padroneggiare il nuovo software perché questo richiede l’apprendimento di un nuovo linguaggio di programmazione. 3. Bias di conferma Si articola in due componenti: la prima è decidere inconsciamente di fare qualcosa prima di accertarsi che la decisione sia quella giusta, per esempio acquistare un tipo particolare di palmare. Questo determina direttamente la seconda componente, cioè la ricerca di informazioni a conferma della decisione presa ignorando le informazioni contrarie.

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4. Bias di ancoraggio Come rispondereste alle due domande seguenti: (1) La popolazione dell’Iraq è maggiore di 40 milioni di abitanti? (2) Secondo voi, qual è la popolazione dell’Iraq? La vostra risposta alla seconda domanda è stata influenza dal numero citato nella prima? In questo caso, siete stati influenzati dal bias di ancoraggio, che si verifica quando i decisori sono influenzati dalle prime informazioni ricevute, anche se sono irrilevanti. Questa distorsione emerge perché informazioni, impressioni, dati, feedback e stereotipi delle fasi iniziali influenzano valutazioni e decisioni successive. 5. Overconfidence bias È legato alla tendenza a essere eccessivamente ottimisti nelle proprie stime e previsioni, ed è particolarmente forte quando si deve rispondere a domande di difficoltà da moderata a elevata, anziché a domande semplici. Immaginate i problemi che questo bias può causare a un manager vendite chiamato a elaborare previsioni sulle vendite per l’anno successivo. La ricerca dimostra che l’eccesso di ottimismo influenza in misura significativa la decisione degli imprenditori di avviare e perseguire nuove attività.16 6. Bias retrospettivo Immaginate di trovarvi nella seguente situazione: state seguendo un corso di comportamento organizzativo con lezione il martedì e il giovedì e il docente è solito proporre test senza preavviso ogni settimana. È lunedì sera e dovete decidere se studiare per un possibile test oppure guardare la televisione; due compagni di corso hanno deciso di non studiare, convinti che il giorno successivo non ci sarà il test. Il giorno successivo, durante la lezione il professore propone un test di valutazione e voi reagite dicendo ai vostri amici: “Lo sapevo! Perché vi ho dato ascolto?” Il bias retrospettivo si verifica quando la conoscenza di un risultato influenza le convinzioni sulla capacità di prevedere quel risultato. Solitamente siamo soggetti a questa distorsione quando riesaminiamo le decisioni e tentiamo di ricostruire il processo che ci ha portato a prenderle. 7. Framing bias Questo bias è legato al modo in cui sono poste le domande. Consideriamo la seguente situazione: gli Stati Uniti si preparano ad affrontare un’epidemia di una rara malattia asiatica che secondo le previsioni causerà 600 decessi. Sono stati messi a punto due programmi alternativi per contrastare l’epidemia. Ipotizziamo che le stime scientifiche esatte dei risultati dei due programmi siano le seguenti: Programma A: l’adozione del programma A consente di salvare 200 persone. Programma B: se viene adottato il programma B, c’è una probabilità pari a un terzo di salvare 600 persone e una probabilità pari a due terzi di non salvare nessuno. Quale dei due programmi scegliereste?17 Le ricerche dimostrano che gran parte delle persone sceglie il programma A, anche se in realtà determina lo stesso risultato del programma B. Questo è dovuto al framing bias, cioè la tendenza a considerare i rischi relativi ai guadagni (nel nostro esempio, salvare vite umane) diversamente dai rischi relativi alle perdite. Per evitare di cadere in questa distorsione, è consigliabile cercare una formulazione alternativa delle domande. 8. Escalation of commitment bias Il concetto di intensificazione dell’impegno (escalation of commitment) si riferisce alla tendenza a perseverare in decisioni inefficaci

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anche quando è improbabile che la situazione negativa che si è venuta a creare possa essere ribaltata. Esempi nella vita privata riguardano i casi in cui si spende altro denaro in un’auto già vecchia o fuori uso oppure si tenta di salvare un rapporto interpersonale distruttivo che dura da dieci anni. I ricercatori suggeriscono diversi modi per ridurre gli effetti dell’escalation of commitment: • Stabilire degli obiettivi minimi di performance e fare in modo che i decisori paragonino il loro risultato con questi obiettivi. • Durante lo svolgimento di un progetto, far ruotare regolarmente i manager che detengono posizioni chiave. • Incoraggiare i decisori a diminuire il loro coinvolgimento psicologico nel progetto. • Mettere al corrente i decisori relativamente ai costi necessari per il proseguimento di un progetto.18

Il processo decisionale basato sull’evidenza

Processo decisionale basato sull’evidenza: uso scrupoloso dei dati e delle evidenze migliori a disposizione durante il processo decisionale

L’interesse verso il concetto di processo decisionale basato sull’evidenza nasce da due fattori: il primo è l’obiettivo di evitare i bias decisionali esaminati nella sezione precedente, il secondo è la ricerca condotta sulla medicina basata sull’evidenza. Il dottor David Sackett definisce la medicina basata sull’evidenza come “l’uso coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze disponibili nel processo decisionale riguardante le cure da somministrare ai singoli pazienti”. Ricercatori e medici studiano la medicina basata sull’evidenza perché, secondo i risultati delle ricerche, solo il 15% delle decisioni dei medici si basano sulle evidenze e questo approccio potrebbe contribuire a determinare l’uso più efficiente delle risorse sanitarie.19 Gli studiosi di comportamento organizzativo hanno adottato questo modello per applicarlo al contesto del processo decisionale manageriale. Molto semplicemente, il processo decisionale basato sull’evidenza (evidence-based decision making, EBDM) consiste nell’uso scrupoloso dei dati e delle evidenze migliori a disposizione durante il processo decisionale manageriale. Analizzeremo questo nuovo approccio alla fase decisionale presentando un modello ed esaminando un insieme di principi per l’implementazione che possono aiutare le organizzazioni ad applicarlo. Concluderemo analizzando i motivi per i quali può essere difficile seguire il processo decisionale basato sull’evidenza. Lo studio di questi concetti può contribuire a ridurre la vulnerabilità ai bias decisionali.

Un modello di processo decisionale basato sull’evidenza La figura 12-2 illustra un modello del processo decisionale basato sull’evidenza articolato in cinque fasi.20 Come potete notare, la fase iniziale del processo consiste nella raccolta di dati ed evidenze interni ed esterni sul problema da affrontare; tali informazioni vengono successivamente integrate ai punti di vista degli stakeholder (ad esempio collaboratori, azionisti e clienti) e a considerazione etiche. Tutto considerato, il processo illustrato in figura 12-2 aiuta i manager a valutare i fatti con obiettività ed evitare l’influenza dei

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Fase 1

Fase 2

Fase 3

Fase 4

Fase 5

Identificare il problema o l’opportunità

Raccogliere evidenze e dati interni circa il problema da affrontare, valutandone la rilevanza e la validità

Raccogliere evidenze esterne circa il problema dalle ricerche pubblicate

Raccogliere i punti di vista degli stakeholder interessati dalla decisione e considerare le implicazioni etiche

Integrare tutti i dati, valutarli criticamente e prendere una decisione

Figura 12-2 Modello del processo decisionale basato sull’evidenza Fonte: tratto da R.B. Briner, D. Denyer e D.M. Rousseau, “Evidence-Based Management: Concept Cleanup Time?” Academy of Management Perspectives, novembre 2009, pp. 19-32.

bias individuali nel prendere le decisioni. L’uso di dati rilevanti e affidabili provenienti da fonti diverse è chiaramente mirato a rendere il contesto decisionale più esplicito, critico, sistematico e basato sui fatti. È importante sottolineare che all’interno del processo rappresentato in figura 12-2 le evidenze vengono utilizzate con tre finalità: per prendere una decisione, per influenzare una decisione e per sostenerla.21 “L’evidenza viene impiegata per prendere una decisione quando questa è una conseguenza diretta dell’evidenza.” Per esempio, se desiderate acquistare una determinata automobile usata (una Toyota Prius) in base al prezzo e al colore (rosso), ricercherete informazioni online e consulterete gli annunci di vendita per poi scegliere la Prius rossa con il costo più basso. “L’evidenza viene impiegata per influenzare una decisione quando il processo decisionale associa dati obiettivi e input qualitativi come l’intuito e la negoziazione con gli stakeholder.” Per esempio, nei casi di assunzione di neolaureati, i dati obiettivi tratti dalle esperienze dei candidati, dalla formazione e dall’appartenenza ad associazioni studentesche rappresenterebbero input rilevanti ai fini del processo decisionale. A questi si associano le impressioni soggettive riportate durante i colloqui e la consultazione delle referenze. Entrambi questi usi dell’evidenza sono chiaramente positivi e vanno incoraggiati. Lo stesso non si può dire dell’uso dell’evidenza per sostenere una decisione. “L’evidenza viene impiegata per sostenere una decisione ogniqualvolta viene raccolta o modificata al solo fine di legittimare una decisione già presa.” Quest’ultima applicazione dell’evidenza determina effetti positivi e negativi. Per quanto riguarda i primi, le evidenze costruite possono essere utilizzate per convincere soggetti esterni che l’organizzazione sta perseguendo una linea d’azione sana in risposta a un contesto decisionale complesso e ambiguo, creando un clima di fiducia e una predisposizione positiva sulle reazioni organizzative agli eventi esterni. Per quanto concerne gli effetti negativi, questa pratica può ostacolare l’offerta di input e il coinvolgimento dei collaboratori, inducendoli a credere che il management ha intenzione di ignorare l’evidenza e agire a propria discrezione. Le lezioni da ricordare in merito all’uso dell’evidenza

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per sostenere una decisione sono due: la prima, questa pratica non va sempre evitata; la seconda, proprio perché determina effetti positivi e negativi, il management deve valutarla attentamente nei casi in cui “potrebbe” essere opportuno ignorare le evidenze contrarie e proseguire lungo il percorso scelto.

Sette principi per l’implementazione Jeffrey Pfeffer e Robert Sutton, docenti a Stanford, hanno studiato a lungo il management basato sull’evidenza e propongono sette principi per l’implementazione che possono aiutare le organizzazioni a integrare il processo decisionale basato sull’evidenza nella propria cultura.22 Considerare l’organizzazione un prototipo incompiuto Essenzialmente, questo principio consiste nel favorire una mentalità secondo la quale l’organizzazione è un prototipo incompiuto che potrebbe essere rotto o da riparare, evitando così la convinzione arrogante e supponente secondo la quale nulla deve mutare al suo interno. Bando alle chiacchiere, attenzione ai fatti La DaVita, una società che gestisce 600 centri per la dialisi, usa questo slogan per rafforzare una cultura di sostegno al processo decisionale basato sull’evidenza. L’organizzazione misura e monitora regolarmente l’efficacia dei centri per la dialisi e il benessere dei pazienti e premia l’eccellenza. Guardare se stessi e l’organizzazione con gli occhi di un esterno Numerosi manager sono carichi di ottimismo e hanno una visione distorta del proprio talento e delle possibilità di raggiungere il successo. Questo li induce a sottovalutare i rischi, cadendo nell’escalation of commitment bias. “Un amico, un mentore o un consigliere senza peli sulla lingua possono aiutare a valutare evidenze migliori e agire di conseguenza,” suggeriscono Pfeffer e Sutton. Il management basato sull’evidenza non è prerogativa dell’alta dirigenza Le ricerche dimostrano che le organizzazioni migliori sono quelle in cui tutti i collaboratori, e non solo i top manager, applicano il processo decisionale basato sull’evidenza.23 Pfeffer e Sutton incoraggiano i manager a “trattare i dipendenti come se una componente importante del loro lavoro fosse inventare, trovare, testare e implementare le idee migliori.” Ciò implica che i dipendenti devono ricevere la formazione e le risorse necessarie per applicare il processo decisionale basato sull’evidenza. Bisogna sapersi vendere “Purtroppo idee nuove ed entusiasmanti catturano l’attenzione anche quando sono peggiori rispetto alle vecchie” affermano Pfeffer e Sutton. “Belle storie e casi di studio interessanti vendono meglio rispetto a dati dettagliati, rigorosi e francamente noiosi, a prescindere da quanto siano errate le storie e quanto siano esatti i dati.” Questo significa che per ‘vendere’ il processo decisionale basato sull’evidenza bisogna saper fare ricorso anche a storie e casi accattivanti.

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Fermarsi è meglio che andare avanti facendo le cose sbagliate Poiché può accadere che i collaboratori vengano spinti a mettere in atto azioni che sanno essere inefficaci, potrebbero trovarsi nelle condizioni di adottare quello che Pfeffer e Sutton definiscono “comportamento ostruzionistico basato sull’evidenza”, per esempio ignorare le richieste ricevute e ritardare l’azione. Occorre molta cautela nell’applicazione di questo principio. La migliore domanda diagnostica: che cosa accade quando si sbaglia? “L’insuccesso ferisce, è imbarazzante e tutti ne faremmo volentieri a meno” affermano i due professori. “Eppure senza l’errore non si apprende [...] Se si esamina la gestione dei sistemi più efficaci al mondo, si nota che quando qualcosa non va, gli individui affrontano la realtà, comprendono che cosa non ha funzionato e perché e se ne servono per migliorare il sistema.”

Perché è difficile adottare il processo decisionale basato sull’evidenza? Nonostante la valenza del processo decisionale basato sull’evidenza sia lampante, può risultare difficile avvalersi delle evidenze migliori in fase decisionale per sette ordini di ragioni: (1) le evidenze sono troppe; (2) le evidenze di buona qualità sono insufficienti; (3) le evidenze non sono pertinenti; (4) altri soggetti tentano di portare fuori strada il decisore; (5) il decisore inganna se stesso; (6) gli effetti collaterali hanno maggior peso del rimedio e (7) le fandonie alla fine sono sempre più convincenti.24

Dinamiche del processo decisionale Il processo decisionale è un po’ scienza e un po’ arte. Nella presente sezione prenderemo in esame innanzitutto gli stili decisionali, che riguardano la componente “scientifica” del processo e sono importanti perché influiscono sul processo decisionale dei singoli. Analizzeremo anche la componente “artistica” illustrando il ruolo dell’intuizione nel processo decisionale. La comprensione di tali dinamiche può aiutare i manager a prendere decisioni migliori.

Stili decisionali Stile decisionale: la combinazione del modo in cui un individuo percepisce le informazioni e vi risponde

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La presente sezione si concentra sul modo in cui lo stile decisionale del singolo influisce sul suo processo decisionale. Lo stile decisionale riflette la combinazione del modo in cui il singolo percepisce e comprende gli stimoli e in cui sceglie di rispondere a tale informazione.25 Un gruppo di ricercatori ha elaborato un modello di stili decisionali partendo dal principio che questi varino in base a due diverse dimensioni: l’orientamento al valore e la tolleranza nei confronti dell’ambiguità.26 L’orientamento al valore mette in evidenza quanto un individuo nel momento in cui prende una decisione si concentra sulle questioni tecniche e sul compito piuttosto che sulle questioni personali e sociali. Alcuni, per esempio, sul lavoro sono molto concentrati sulla mansione da svolgere, non

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prestando particolare attenzione alle questioni personali, mentre altri si comportano in maniera opposta. La seconda dimensione riguarda la tolleranza della persona verso l’ambiguità. Tale dimensione indica quanto l’individuo sente una forte necessità di strutturare e controllare la sua vita. Alcuni sentono il bisogno di avere una vita molto strutturata (bassa tolleranza per l’ambiguità) e considerano le situazioni ambigue stressanti e psicologicamente scomode. Altri, al contrario, non sentono un particolare bisogno di strutturare la loro vita e riescono ad avere successo in situazioni di incertezza (alta tolleranza per l’ambiguità). Le situazioni ambigue possono addirittura trasmettere energia a chi ha un alto grado di tolleranza per l’ambiguità. La combinazione delle due dimensioni dà origine a quattro stili decisionali: direttivo, analitico, concettuale e comportamentale (figura 12-3). Direttivo Chi è caratterizzato da uno stile direttivo ha una bassa tolleranza per l’ambiguità e, al momento di prendere una decisione, è maggiormente orientato al compito e alle questioni tecniche; nell’affrontare la soluzione di un problema è efficiente, logico, pratico e sistematico. Chi possiede questo stile è orientato all’azione, è deciso e preferisce concentrarsi sui fatti. Nel perseguire rapidità e risultati, tuttavia, tali individui tendono a essere autocratici, a esercitare il potere e il controllo e a focalizzarsi sul breve termine. Aspetto interessante, lo stile direttivo sembra il più adeguato per i controllori del traffico aereo. Ecco che cosa ha raccontato Paul Rinaldi del suo stile decisionale a un giornalista della rivista Fortune.

Figura 12-3 Stili nei processi decisionali Fonte: basato sulla discussione in A.J. Rowe e R.O. Mason, Managing with Style: A Guide to Understanding, Assessing, and Improving Decision Making (San Francisco: Jossey-Bass, 1987), pp. 1-17

Tolleranza verso l’ambiguità

Non si tratta tanto di analizzare, quanto di prendere una decisione rapida e sostenerla. Si deve agire in questo modo con la consapevolezza che alcune decisioni risulteranno sbagliate e si dovrà fare in modo che siano giuste. Non si può tornare indietro. Occorre tenere sempre conto della velocità dell’aeromobile, delle sue caratteristiche, della velocità variometrica e della rapidità con la quale potrà reagire alle istruzioni. Un controllore del traffico aereo reperisce e analizza queste informazioni in mezzo secondo, augurandosi che tutto vada per il verso giusto; se non accade, si passa al piano B […] Tra chi svolge

Alta Analitico

Concettuale

Direttivo

Comportamentale

Bassa Orientamento al compito e agli aspetti tecnici

Orientamento alle persone e agli aspetti sociali

Orientamento al valore

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la mia professione, sono in pochi ad arrivare alla pensione. È un lavoro usurante. Non possiamo permetterci di commettere errori.27

Analitico Questo stile è caratterizzato da una tolleranza verso l’ambiguità assai maggiore nonché dalla tendenza all’analisi della situazione estremamente (persino troppo) approfondita. Chi adotta tale stile preferisce, diversamente da coloro che sono direttivi, valutare più informazioni e alternative. Gli analitici sono decisori attenti, che impiegano più tempo, ma che mostrano una buona reazione di fronte a situazioni incerte. Spesso possono essere autocratici. Zhang Gaungming è un ottimo esempio di decisore analitico: “Da mesi Zhang Gaungming è concentratissimo sull’acquisto di un’automobile nuova. Ha trascorso ore sfogliando riviste cinesi specializzate, visitando siti Internet alla ricerca di informazioni su svariati modelli e recandosi in decine di concessionari in tutta Pechino. Ha infine deciso di acquistare una berlina Volkswagen Bora o Hyundai Sonata ma, dato che la concorrenza feroce sta costringendo i concessionari a ridurre notevolmente i prezzi, non sa ancora se acquistare subito o aspettare.”28 Concettuale Gli individui caratterizzati da questo stile possiedono un alto grado di tolleranza verso l’ambiguità e tendono a concentrarsi sugli aspetti personali e sociali di una situazione lavorativa. Pongono la risoluzione del problema in una prospettiva più ampia, e preferiscono valutare molte opzioni e possibilità future. I concettuali sono lungimiranti e, per ottenere maggiori informazioni, si affidano all’intuizione e ai confronti verbali con altri. Sono disposti a correre rischi e abili a trovare soluzioni creative ai problemi. Per quanto riguarda gli aspetti negativi, questo tipo di stile può favorire, nel processo decisionale, un approccio idealistico e poco incisivo. Howard Stringer, il primo CEO della Sony Corporation nato all’estero, esemplifica le caratteristiche del decisore concettuale. Howard Stringer si divide tra stili di management e culture diverse, è questo il suo dilemma. Afferma di riconoscere il rischio di rimanere indietro rispetto ai rapidi cambiamenti che attraversano il settore dell’elettronica, ma sostiene che esiste anche il rischio di muoversi troppo aggressivamente. “Non voglio modificare la cultura della Sony al punto da renderla irriconoscibile rispetto alla visione del fondatore” dice […] Stringer, che ha 65 anni e ha mantenuto il team dirigenziale trovato al suo arrivo in azienda. Cerca di persuadere con gentilezza i manager a collaborare gli uni con gli altri e li ha invitati a riflettere su nuove strategie di sviluppo dei prodotti.29

Comportamentale Rispetto agli altri, lo stile comportamentale è maggiormente orientato verso le persone; chi si affida a tale stile ha un buon rapporto di lavoro con i colleghi e apprezza le interazioni sociali durante le quali avviene un aperto scambio di opinioni. Il tipo comportamentale è una persona che dà sostegno, accetta suggerimenti, dimostra cordialità e preferisce l’informazione verbale a quella scritta. Pur non rifiutando di partecipare alle riunioni, le persone caratterizzate da questo stile tendono a evitare il conflitto e a essere maggiormente orientate verso i bisogni degli altri. Ciò può portare queste persone ad avere un approccio poco convinto durante il

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processo decisionale, a dover affrontare il problema di dire di no ad altri e a trovarsi in difficoltà al momento di prendere una decisione sgradevole. Ricerche e implicazioni pratiche La ricerca in questo campo dimostra che sono davvero pochi gli individui che, nei propri processi decisionali, sono caratterizzati da un solo stile dominante. Emerge altresì che gli stili decisionali variano a seconda del lavoro preso in considerazione, della posizione che si occupa e del paese in cui ci si trova.30 Quattro sono i modi in cui si può utilizzare la teoria sugli stili decisionali: la conoscenza degli stili vi aiuta, innanzitutto, a capire voi stessi; essere consapevoli del vostro stile vi sarà utile per individuare, in qualità di decisori, i vostri punti di forza e di debolezza; sarete inoltre facilitati nella possibilità di un miglioramento personale. La consapevolezza dell’esistenza di tali stili, in secondo luogo, può accrescere la vostra capacità di esercitare influenza sugli altri. Se, per esempio, avete a che fare con una persona analitica, dovete essere in grado di fornire, a sostegno delle vostre idee, quante più informazioni possibili; questo tipo di approccio tenderà a non incontrare invece il favore di una persona direttiva. In terzo luogo, la conoscenza degli stili vi rende consapevoli di come i singoli individui, partendo dalle stesse informazioni, approdino a decisioni diverse usando un gran numero di strategie decisionali. I diversi stili rappresentano, sul posto di lavoro, una possibile fonte di conflitto interpersonale (tale argomento verrà diffusamente trattato nel Capitolo 13). Infine, è bene comunque concludere ricordando che non esiste uno stile decisionale migliore degli altri e valido per tutte le situazioni. È decisamente vantaggioso adottare un approccio contingente, scegliendo lo stile più adeguato alla situazione. Per esempio, se il contesto richiede una decisione rapida, lo stile direttivo potrebbe risultare il migliore; al contrario, un approccio comportamentale può essere più adeguato quando si prendono decisioni che incidono sul benessere dei collaboratori. Attualmente non è possibile fornire indicazioni più dettagliate perché non è stata ancora sviluppata una teoria contingente completa che illustra in quali circostanze adottare i diversi stili decisionali.

L’intuizione nel processo decisionale

Intuizione: un giudizio che affiora spontaneamente, senza un’esplicita consapevolezza dei suoi fondamenti

Nel suo libro How We Decide (in italiano, Come decidiamo, trad. di Susanna Bourlot, Codice, Torino, 2009), Jonah Lehrer sostiene che molti individui usano efficacemente l’intuizione in fase decisionale.31 L’intuizione si definisce come un giudizio, un’idea o una decisione che “affiora spontaneamente, senza un’esplicita consapevolezza degli spunti che l’abbiano generata e senza un’esplicita valutazione della loro validità”.32 Le ricerche dimostrano che tutti gli individui sono dotati di intuizione e che la tendenza a fidarsi delle intuizioni non è correlata al genere.33 È dunque importante comprendere quali siano le fonti dell’intuizione e sviluppare le proprie capacità intuitive perché queste possono risultare importanti quanto l’analisi razionale in molti contesti decisionali. Consideriamo i seguenti esempi: Ignorando i suggerimenti dei consulenti, Ray Kroc acquistò dai fratelli McDonald il marchio McDonald’s: “Non amo rischiare e non avevo a disposizione grandi risorse finanziarie, ma l’istinto mi spingeva a portare avanti l’operazione.” Incurante del parere

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280 Figura 12-4 Un modello duale dell’intuizione Fonti: basato in parte su D. Kahneman e G. Klein, “Conditions for Intuitive Expertise,” American Psychologist, settembre 2009, pp. 515-26; E. Sadler-Smith e E. Shefy, “The Intuitive Executive: Understanding and Applying ‘Gut Feel’ in Decision-Making,” Academy of Management Executive, novembre 2004, pp. 76-91; e C.C. Miller e R.D. Ireland, “Intuition in Strategic Decision Making: Friend or Foe in the FastPaced 21st Century,” Academy of Management Executive, febbraio 2005, pp. 19-30.

Competenza • Conoscenza tacita ed esplicita

Intuizione olistica Processi intuitivi • Automatici, involontari e spontanei • Controllati, volontari e forzati

Sensazioni

I gruppi e i processi sociali

Esperienza automatica

degli scettici e della carenza di ricerche di mercato a supporto, l’ex presidente della Chrysler Bob Lutz fece diventare realtà la Dodge Viper. “Era una sensazione inconscia, viscerale. E sentivo che era la scelta giusta.” Senza curarsi del fatto che 24 editori avevano rifiutato il libro e la sua stessa casa editrice si opponeva, Eleanor Friede puntò su “un piccolo libro da poco” intitolato Il gabbiano Jonathan Livingstone: “Sentivo che quella storia semplice raccontava delle verità che l’avrebbero resa un classico internazionale.”34

Purtroppo l’intuizione non induce sempre a prendere decisioni vincenti come quelle di Ray Kroc ed Eleanor Friede. Per approfondire le conoscenze sul ruolo dell’intuizione nel processo decisionale, nella presente sezione esamineremo un modello dell’intuizione, analizzando i pro e i contro dell’intuizione in fase decisionale. Un modello dell’intuizione La figura 12-4 presenta un modello dell’intuizione. Partendo da destra, il modello dimostra che esistono due tipi di intuizione: 1. Un’intuizione olistica rappresenta una valutazione basato sull’integrazione inconscia di informazioni immagazzinate nella memoria. Gli individui che ricorrono a questa forma di intuizione potrebbero non essere in grado di spiegare perché desiderano prendere una determinata decisione, se non perché “sembra la scelta giusta”. 2. Le esperienze automatiche rappresentano una scelta basata su situazioni familiari e l’applicazione parzialmente inconscia di informazioni apprese in precedenze e legate a queste situazioni. Per esempio, quando si hanno anni di esperienza nella guida, si reagisce a una molteplicità di situazioni senza analizzarle coscientemente. Tornando alla figura 12-4, come potete notare, l’intuizione è data da due processi distinti, l’uno automatico, involontario e spontaneo, l’altro controllato, volontario e forzato. Le ricerche dimostrano che i due processi possono influenzare l’intuizione agendo separatamente oppure insieme.35 Per esempio, nel rispondere alle domande di riepilogo sui contenuti di un capitolo di un manuale di studio, è possibile che

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nella vostra mente affiori automaticamente una risposta basata sul ricordo di ciò che avete letto (un processo automatico). Pensandoci su (processo controllato), potreste decidere che il vostro primo pensiero è errato e che è necessario tornare a rileggere alcuni contenuti per approdare a una risposta diversa. Ciò a sua volta potrebbe indurvi a richiamare altre idee, e così i due processi continuerebbero. I processi intuitivi sono influenzati da due fattori: le competenze e le sensazioni (vedi figura 12-4). Le competenze sono date dalla combinazione delle conoscenze esplicite (cioè informazioni esprimibili verbalmente senza sforzo) e delle conoscenze tacite individuali (cioè informazioni acquisite attraverso l’esperienza e difficili da esprimere e formalizzare) in relazione a un oggetto, una persona, una situazione oppure un’opportunità decisionale. Questa fonte di intuizione si sviluppa con l’età e l’esperienza. La componente delle sensazioni riflette l’effetto soggiacente automatico sollecitato da un oggetto, una persona, una situazione oppure un’opportunità decisionale. La reazione intuitiva si basa sull’interazione tra le competenze e le sensazioni individuali in una determinata situazione. I pro e i contro dell’intuizione in fase decisionale Tra gli aspetti positivi, l’intuizione può velocizzare il processo decisionale,36 rivelandosi un prezioso aiuto nel mondo odierno, complesso e soggetto a costanti mutamenti. Può inoltre rivelarsi molto pratica quando le risorse e il tempo a disposizione sono limitati. Per esempio, le intuizioni basate su profonde conoscenze e preparazione attiva puntellano le decisioni rapide e complesse nel contesto di un’unità ospedaliera di pronto soccorso. Ricordando il suo lavoro come direttrice di un pronto soccorso, Kathleen Gallo afferma, “Se l’arrivo di un elicottero con a bordo un’intera famiglia vittima di un incidente automobilistico può sembrare una crisi e può di fatto esserlo per la famiglia, non lo è per il personale sanitario [ ], che è pronto ad affrontare la situazione.”37 Per quanto concerne gli aspetti negativi, l’intuizione è soggetta agli stessi bias che possono influenzare il processo decisionale razionale, in particolare le euristiche della disponibilità e della rappresentatività, il bias di ancoraggio, l’overconfidence bias, e il bias retrospettivo.38 Inoltre, il decisore potrebbe faticare a convincere gli altri che la sua decisione intuitiva sia sensata, con il rischio che una buona idea venga ignorata. Quali conclusioni possiamo dunque trarre rispetto al ricorso all’intuizione in fase decisionale? A nostro parere, l’intuizione e la razionalità sono complementari e i manager dovrebbero tentare di fare leva su entrambe. Vi incoraggiamo quindi a usare l’intuizione in fase decisionale e a sviluppare la vostra consapevolezza intuitiva applicando le linee guida illustrate nella tabella 12-1.

Processi decisionali di gruppo I gruppi (comitati, task force, team di progetto o collegi di esperti che effettuano congiuntamente una valutazione) ricoprono spesso un ruolo chiave nell’ambito del processo decisionale. ATA Engineering Inc., per esempio, adotta il processo decisionale di gruppo: I colloqui di assunzione di nuovi collaboratori prevedono il coinvolgimento di almeno 8-10 dipendenti; se uno di loro si oppone all’assunzione, è possibile che il candidato non

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Parte III

282 Tabella 12-1 Linee guida per sviluppare la consapevolezza intuitiva Fonte: da E. Sadler-Smith e E. Shefy, “The Intuitive Executive: Understanding and Applying ‘Gut Feel’ in Decision-Making,” Academy of Management Executive, novembre 2004, p. 88.

I gruppi e i processi sociali

CONSIGLIO

DESCRIZIONE

1. Aprite il cassetto

In che misura avete delle intuizioni, vi fidate delle vostre sensazioni, fate affidamento su valutazioni intuitive, ignorate le impressioni, fate affidamento celatamente sul vostro istinto? Istinto, idea e intuizione non sono sinonimi: esercitatevi a distinguere tra istinti, idee e intuizioni. Cercate di ottenere feedback sui vostri giudizi intuitivi; sviluppate fiducia rispetto al vostro istinto e create un ambiente di apprendimento che vi consenta di sviluppare una migliore consapevolezza intuitiva. Create dei parametri di valutazione delle vostre intuizioni e fatevi un’idea della misura in cui sono affidabili. Domandatevi come migliorare i vostri giudizio intuitivi. Usate le immagini anziché le parole: cercate di visualizzare letteralmente potenziali scenari futuri tenendo conto delle vostre sensazioni. Mettete alla prova le vostre valutazioni intuitive, ponete obiezioni e create argomentazioni contrarie per testare la solidità del vostro istinto quando viene messo in discussione. Raggiungete lo stato interiore nel quale la vostra mente intuitiva è libera di elaborare; catturate le intuizioni creative e prendetene nota prima che siano censurate dall’analisi razionale.

2. Non fate confusione tra le “I” 3. Cercate feedback di qualità

4. Valutate l’efficacia del vostro intuito

5. Usate le immagini

6. Fate l’avvocato del diavolo

7. Catturate le intuizioni e avvaloratele

riceva alcuna proposta, a meno che la persona in questione non cambi parere. Talvolta anche le decisioni aziendali più importanti vengono prese dai lavoratori. Quando il canone di affitto della sede aziendale è aumentato, per esempio, l’ATA ha istituito un comitato di dipendenti incaricato di esaminare il problema. Il comitato ha deciso di restare, dopo aver constatato che la sede era comoda per la maggioranza dei dipendenti.39

Due teste, o più, sono davvero meglio di una, come sostiene la ATA? Tutti i collaboratori desiderano dare il loro contributo durante il processo decisionale? Fino a che punto i manager li coinvolgono nella fase decisionale? Quali tecniche utilizzano i gruppi per migliorare il loro modo di prendere le decisioni? Gli incontri a tu per tu sono più efficaci delle decisioni prese mediante l’utilizzo di sistemi informatici? La presente sezione fornirà le informazioni necessarie per rispondere a queste domande. Gli argomenti trattati saranno: (1) il coinvolgimento del gruppo nel processo decisionale, (2) vantaggi e svantaggi del processo decisionale supportato dal gruppo e (3) le tecniche di problem-solving di gruppo.

Il gruppo nei processi decisionali I gruppi sono in grado di contribuire a ciascuna fase del processo decisionale, sia che decidano di incontrarsi, sia che si affidino ad altri metodi tecnologicamente più avan-

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zati per collegarsi a distanza. È importante, tuttavia, al fine di massimizzare il valore del processo decisionale di gruppo, creare un ambiente nel quale i singoli membri si sentano a loro agio e liberi di esprimere le loro opinioni. La ricerca ha chiarito come i manager possano creare un simile ambiente. Un gruppo di ricercatori ha condotto due studi per stabilire quanto la capacità di innovazione di un gruppo fosse legata al dissenso della minoranza, intesa come la libertà percepita dai membri del gruppo di dissentire dalle opinioni degli altri membri, e al livello di partecipazione al processo decisionale. I risultati delle due ricerche hanno dimostrato che i gruppi più innovativi possedevano, in larga misura, sia il dissenso della minoranza, sia la partecipazione al processo decisionale.40 Una possibile strategia è favorire un dibattito più prolifico tra i membri del gruppo durante le riunioni. Le ricerche dimostrano che tale strategia presenta anche effetti positivi collaterali: la discussione di gruppo accresce la soddisfazione lavorativa e la performance dei membri.41 Un altro suggerimento è quello di sollecitare punti di vista divergenti da parte dei membri del gruppo e non penalizzare gli elementi del gruppo che esprimono un’opinione diversa da quella della maggioranza.

Vantaggi e svantaggi del processo decisionale di gruppo Il coinvolgimento dei gruppi nel processo decisionale presenta vantaggi e svantaggi (tabella 12-2). Per quanto riguarda gli aspetti positivi, i gruppi possono comprendere un più ampio insieme di conoscenze, offrono punti di vista più eterogenei, creano una maggiore comprensione dei problemi, aumentano la probabilità che una decisione venga accettata, costituiscono infine un ambito di formazione per i collaboratori privi di esperienza. Tali vantaggi devono però essere bilanciati dagli svantaggi elencati nella tabella 12-2. A questo scopo i manager devono stabilire fino a che punto i vantaggi e gli svantaggi riguardano la situazione decisionale specifica. Per decidere se un gruppo debba essere coinvolto in un processo decisionale, infine, si possono utilizzare i tre criteri di seguito riportati. 1. Se informazioni aggiuntive possono contribuire a migliorare la qualità della decisione, allora i manager devono coinvolgere gli individui in grado di fornire tali informazioni. 2. Se l’accettazione è importante, i manager devono coinvolgere gli individui la cui approvazione e il cui impegno sono importanti. 3. Se la partecipazione favorisce la crescita delle persone, i manager devono coinvolgere coloro la cui crescita è particolarmente importante.42 Performance individuale vs performance di gruppo Prima di consigliare il coinvolgimento dei gruppi nel processo decisionale è importante riuscire a capire se essi siano in grado di produrre un risultato migliore rispetto agli individui presi singolarmente. Dopo aver riesaminato gli studi prodotti nel corso di 61 anni, un esperto di processi decisionali è giunto alla conclusione che “il risultato del gruppo, solitamente, è stato qualitativamente e quantitativamente superiore rispetto a quello dell’individuo medio”.43 Sebbene anche studi successivi, in merito a processi decisionali di piccoli gruppi, ab-

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284 Tabella 12-2 Vantaggi e svantaggi del processo decisionale di gruppo Fonte: R. Kreitner, Management, 8° ed. (Boston; Houghton Miffln, 2001), p. 243.

I gruppi e i processi sociali

Vantaggi

Svantaggi

1. Maggiori conoscenze. Nel prendere una decisione o affrontare un problema, un gruppo può fornire molte più informazioni e mettere a disposizione una gamma di esperienze più vasta rispetto a quanto non possa fare un individuo che agisce da solo. 2. Prospettive differenti. Gli individui con esperienze e interessi diversi aiutano il gruppo a osservare le situazioni e i problemi da prospettive diverse.

1. Pressione sociale. Il voler evitare i conflitti e la pressione al conformismo potrebbero reprimere la creatività dei singoli collaboratori.

3. Maggiore comprensione. Chi sperimenta personalmente la reciprocità delle discussioni di gruppo in merito ad azioni alternative tende a comprendere le ragioni che hanno portato alla decisione finale. 4. Maggiore accettazione. Chi gioca un ruolo attivo nell’ambito del processo decisionale di gruppo e nell’ambito del problemsolving ha la tendenza a vedere i risultati finali come “nostri” piuttosto che come “loro”. 5. Luogo di formazione. I partecipanti a una decisione di gruppo con meno esperienza imparano a gestire le dinamiche del gruppo tramite un coinvolgimento attivo e concreto.

2. Supremazia di una piccola, ma accesa minoranza. Talvolta la qualità della decisione si riduce quando il gruppo cede di fronte a coloro che prevaricano gli altri con interventi più lunghi e accesi. 3. Scambio di voti. Scambi di natura politica possono soppiantare un approccio equilibrato se i progetti o gli interessi di una persona sono in gioco.

4. Spostamento dell’obiettivo. Talvolta considerazioni secondarie come il voler prevalere in una discussione, il voler dimostrare il proprio punto di vista o il voler rispondere all’avversario, distolgono dal compito primario di prendere una valida decisione o di risolvere un problema. 5. Groupthink. Talvolta, nel generare e valutare azioni alternative, gruppi uniti fanno prevalere il desiderio di unanimità su un giudizio sensato (il concetto di groupthink viene trattato nel Capitolo 12).

biano sostenuto, in linea generale, tale affermazione, prima di coinvolgere i gruppi nel processo decisionale bisogna considerare cinque importanti risultati: 1. In alcuni casi i gruppi sono stati meno efficienti dei singoli individui. I vincoli temporali sono un fattore molto importante quando si deve stabilire se coinvolgere un gruppo nel processo decisionale. 2. I gruppi, rispetto ai singoli individui, hanno dimostrato una maggiore sicurezza dei loro giudizi e delle loro scelte. Dal momento che la sicurezza che un gruppo sente di avere non può andare a sostituire la qualità della decisione presa dal gruppo stesso, tale eccesso di sicurezza può favorire il groupthink (concetto trattato diffusamente nel Capitolo 10) e la resistenza a considerare soluzioni alternative proposte da individui esterni al gruppo. 3. I gruppi tendono a prendere decisioni più moderate. Sembra che la necessità di raggiungere il consenso o il compromesso induca a prendere decisioni meno estreme.44 4. L’accuratezza del processo decisionale è stata maggiore quando (a) i gruppi coinvolti conoscevano molto bene gli argomenti da trattare e (b) i leader dei gruppi possedevano la capacità di valutare efficacemente le opinioni e i giudizi dei membri del gruppo. I gruppi devono dare maggior valore ai giudizi importanti e accurati

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dei membri che ne fanno parte e nel contempo minimizzare quelli non importanti o meno accurati.45 5. La composizione di un gruppo influisce sui suoi processi decisionali e, alla fine, sul risultato. È più probabile, ad esempio, che gruppi composti da persone che si conoscono bene prendano decisioni migliori quando è necessario condividere molte informazioni personali. Gruppi composti da persone meno intimamente legate, invece, dovrebbero raggiungere un risultato migliore rispetto a un gruppo di amici se le informazioni rilevanti sono note a tutti.46 Studi ulteriori suggeriscono che i manager, nello stabilire se includere o meno altre persone nel processo decisionale, dovrebbero adottare, a seconda delle circostanze, metodi diversi. Consideriamo ora tali circostanze. Raccomandazioni pratiche legate alle situazioni Se si tratta di decisioni che si ripresentano spesso, come ad esempio la promozione di un collaboratore o la concessione di un prestito, è bene coinvolgere il gruppo per la sua tendenza a prendere decisioni più coerenti rispetto ai singoli individui. Nel caso in cui vi siano vincoli temporali stringenti, lasciate che sia l’individuo più competente, e non il gruppo, a prendere la decisione. Di fronte a minacce ambientali quali pressioni temporali e potenziali gravi effetti determinati dalla decisione presa, i gruppi tendono a ricorrere a una quantità ridotta di informazioni e a un numero minore di canali di comunicazione. Tale comportamento aumenta la probabilità di approdare alla decisione sbagliata. Alla luce di queste conclusioni è importante, nel caso di compiti difficili, che i manager ricordino la necessità di definire strumenti adeguati per potenziare l’efficacia della comunicazione, considerando quanto la qualità di quest’ultima influisce sulla produttività del gruppo.

Tecniche per il problem-solving di gruppo Consenso: situazione in cui tutti i membri di un gruppo sostengono una decisione

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Il coinvolgimento di gruppi nel processo decisionale richiede generalmente che questi raggiungano un consenso al proprio interno. Il consenso, secondo un esperto di processi decisionali, “si raggiunge quando tutti i membri del gruppo possono dire di essere d’accordo con la decisione presa, oppure quando non sono stati in grado di convincere gli altri del loro punto di vista. In ultima analisi, tutti sono d’accordo nel sostenere l’esito finale”.47 Tale definizione indica che il consenso non deve essere necessariamente unanime, perché i membri del gruppo, pur non essendo ancora d’accordo sulla decisione finale, possono comunque volere impegnarsi perché questa abbia successo. È possibile che i gruppi, nel tentativo di raggiungere una decisione unanime, incontrino degli ostacoli sul loro cammino; essi, per esempio, potrebbero non sviluppare tutte le alternative importanti ai fini di risolvere un problema a causa dell’atteggiamento dominante e intimidatorio che un individuo assume nei confronti di altri membri del gruppo. Ciò può avvenire apertamente o subdolamente: membri che, ad esempio, possiedono potere e autorità, indipendentemente dal loro modo di rapportarsi agli altri, possono intimidire con la sola presenza in una stanza. Anche la timidezza può frenare la produzione di alternative; persone timide o ansiose potrebbero non portare il loro contributo per imbarazzo o mancanza di fiducia in se stessi. Accontentarsi di un’alternativa

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soddisfacente può costituire un altro ostacolo verso l’efficacia di un processo decisionale di gruppo. Come precedentemente osservato, i gruppi optano per un’alternativa soddisfacente a causa del tempo limitato, della scarsa informazione o dell’incapacità di gestire molte informazioni. Un esperto di management ha fornito alcuni suggerimenti su come agire per raggiungere con successo un consenso: i gruppi dovrebbero ascoltare attivamente, coinvolgendo quante più persone possibile, scoprire le ragioni sottese a ogni discussione ed esaminare a fondo i fatti. Allo stesso tempo i gruppi non dovrebbero ricorrere a meccanismi di scambio politico (sosterrò la tua decisione perché tu, l’ultima volta, hai sostenuto la mia), mettere ai voti le questioni controverse o mostrarsi d’accordo solo per evitare conflitti.48 Utilizzare il voto per prendere una decisione non è consigliabile perché potrebbe portare a una divisione del gruppo in vincitori e vinti. Al fine di ridurre questi ostacoli, gli esperti del processo decisionale hanno sviluppato tre tecniche di problem-solving di gruppo: brainstorming, nominal group e tecnica Delphi. La conoscenza di tali tecniche può aiutare i manager di oggi e di domani ad avviare più efficacemente un processo decisionale di gruppo. L’avvento di decisioni prese tramite il supporto del computer, inoltre, permette ai manager di utilizzare le tecniche descritte per risolvere problemi di natura complessa anche con gruppi numerosi. Brainstorming: processo volto a generare una grande quantità di idee

Brainstorming Il brainstorming è una tecnica sviluppata da A.F. Osborn, un manager del settore pubblicitario, per migliorare la creatività;49 viene utilizzata per aiutare i gruppi nella generazione di molteplici idee e alternative volte a risolvere i problemi. Quando il brainstorming è messo in pratica, un gruppo viene convocato per valutare il problema all’ordine del giorno; ai vari partecipanti viene quindi chiesto di generare in silenzio idee/alternative volte a risolvere il problema. All’esposizione ad alta voce e disordinata delle idee si preferisce la generazione silenziosa perché sfocia in una quantità maggiore di contributi originali. I gruppi tendono a concentrarsi su un numero più limitato di idee e a restare bloccati su una singola proposta quando, prima della condivisione delle proposte, l’elaborazione di alternative avviene a voce alta.50 In seguito si chiede che le idee/alternative generate vengano esposte per iscritto. Potrebbe essere preferibile la raccolta anonima delle idee generate dal brainstorming; i risultati delle ricerche hanno dimostrato che porta a idee più controverse e decisamente meno ridondanti.51 Infine il gruppo si riunisce in un secondo momento per valutare le varie alternative. Durante il brainstorming è opportuno che i manager si attengano a sette regole:52 1. Sospendere il giudizio. Non criticare le idee generate durante la prima fase del brainstorming. Bisognerebbe evitare osservazioni come: “non abbiamo mai agito in quel modo”, “non funzionerà”, “ci costa troppo,” e “il capo non sarà mai d’accordo”. 2. Costruire sulle idee degli altri. Incoraggiare i partecipanti a sviluppare le idee degli altri usando “e” al posto di “ma”. 3. Incoraggiare idee bizzarre. Favorire il pensiero libero da preconcetti: tanto più le idee sono stravaganti o irriverenti, tanto meglio. 4. Dare importanza alla quantità più che alla qualità. I partecipanti devono cercare di generare e scrivere quante più idee possibili. Sottolineando l’importanza della quantità, gli individui sono incoraggiati ad andare oltre le loro idee preferite. 5. Curare l’aspetto visivo. Usare penne di colore diverso per scrivere su lavagne a fogli mobili o cartelloni da appendere alle pareti.

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6. Restare concentrati sul tema. Un facilitatore può guidare la discussione ed evitare divagazioni. 7. Parlare uno per volta. La regola di base è che non si interrompono gli altri, non si scartano le idee altrui e si tiene sempre un atteggiamento rispettoso e cortese. È utile infine ricordare che tale tecnica è efficace per la generazione di nuove idee/ alternative e la ricerca dimostra che si possono affinare le capacità di brainstorming dei collaboratori attraverso la formazione. Il brainstorming però non è adatto al fine di valutare le alternative o di selezionare le soluzioni appropriate. Tecnica del nominal group: processo mediante il quale si generano idee e si valutano le soluzioni

Tecnica Delphi: processo durante il quale un gruppo di esperti geograficamente distanti genera idee

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Tecnica del nominal group La tecnica del nominal group serve ad aiutare i gruppi a generare idee, valutare e selezionare le varie alternative; è un incontro strutturato di gruppo che si mette in pratica nel modo seguente.53 Un gruppo viene convocato per discutere un particolare problema o argomento; una volta focalizzato il tema gli individui iniziano con una silenziosa esposizione scritta delle loro idee. Procedendo in cerchio, ciascuno sceglie dalla propria lista una delle idee e la propone; tutte le idee vengono scritte su una lavagna, senza che, a questo punto del processo, vengano ancora discusse. Solo una volta completato l’elenco incomincia la discussione di gruppo. Chiunque può criticare o difendere qualunque idea elencata; nel corso di questa fase vengono forniti chiarimenti e si raggiunge o meno un accordo in merito all’idea discussa. Per agevolare la discussione si può ricorrere al “metodo dei 30 secondi”: ciascun membro del gruppo ha l’opportunità, per un massimo di 30 secondi, di parlare a favore o contro qualunque idea presa in considerazione. In alternativa, i gruppi possono elaborare una matrice sforzo/benefici, identificando l’impegno e i costi dell’implementazione di ciascuna idea e raffrontandoli ai potenziali benefici. Alla fine i membri del gruppo esprimono, in segreto, le loro preferenze. Il capogruppo, in seguito, somma i voti per stabilire la scelta del gruppo. Prima di giungere alla decisione finale, il gruppo può anche decidere di discutere le idee che hanno ottenuto il punteggio più alto e procedere a una seconda votazione. La tecnica del nominal group riduce le difficoltà nell’ambito di un processo decisionale di gruppo (1) separando la fase di brainstorming da quella della valutazione; (2) favorendo una partecipazione equilibrata tra i membri del gruppo; (3) includendo sistemi di votazione al fine di raggiungere un accordo. Questa tecnica è stata usata con successo per prendere decisioni in situazioni molto diverse e si è riscontrato che genera più idee rispetto a una sessione standard di brainstorming.54 Tecnica Delphi Questo metodo di problem-solving è stato in origine sviluppato dalla Rand Corporation per effettuare previsioni tecnologiche.55 Attualmente viene usato come strumento di pianificazione multifunzionale. La tecnica Delphi è un processo applicato alla comunicazione di gruppo durante il quale esperti, anche geograficamente distanti, generano idee o esprimono giudizi in forma anonima. Diversamente dalla tecnica del nominal group, caratterizzata da una discussione faccia a faccia tra i membri del gruppo, in questo caso le idee degli esperti vengono raccolte mediante questionari o attraverso la comunicazione via Internet. Il manager dà inizio a tale processo identificando innanzitutto il problema che si vuole affrontare; per esempio, potrebbe trattarsi di valutare le future preferenze della clientela

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o le conseguenze della localizzazione di un impianto in una determinata regione del paese. In seguito vengono selezionati i partecipanti e viene formulato un questionario, che viene inviato loro e poi rispedito al manager (attualmente, molto spesso tali questionari vengono inviati tramite e-mail). Il manager riassume le risposte e le rispedisce ai partecipanti; a questo punto viene loro chiesto (1) di riesaminare le proprie risposte, (2) di assegnare priorità agli argomenti considerati e (3) di restituire, entro il periodo di tempo specificato, il questionario. Questo ciclo si ripete fino a quando il manager non ha ottenuto le informazioni necessarie. La tecnica Delphi risulta utile quando non è possibile organizzare un incontro a tu per tu, quando disaccordi e divergenze di opinioni possono compromettere la comunicazione, quando alcuni individui potrebbero esercitare un forte predominio nella discussione e quando il groupthink è un risultato probabile del processo decisionale di gruppo.56 Processo decisionale assistito dal computer La crescente globalizzazione delle organizzazioni, associata al progresso delle tecnologie dell’informazione, ha determinato lo sviluppo di sistemi per il processo decisionale assistito dal computer. Due sono le modalità generali di utilizzo. In primo luogo, numerose organizzazioni per migliorare il processo decisionale usano una molteplicità di strumenti informatici, hardware e software, che consentono ai manager di ottenere rapidamente una maggiore quantità di informazioni da collaboratori, clienti e fornitori in tutto il mondo. Per esempio, Best Buy, Google, GE, Intel e Microsoft ricorrono a reti intranet per ottenere input dai collaboratori; Best Buy e Google hanno rilevato che tali sistemi sono utili per elaborare stime della domanda di nuovi prodotti e servizi.57 Anche la Walmart ha adottato sistemi computerizzati per migliorare il processo decisionale; per esempio, i punti vendita ricorrono a un nuovo sistema computerizzato per stabilire la turnazione dei circa 1,3 milioni di collaboratori. Il sistema determina il numero di dipendenti necessario per ciascun punto vendita in base all’affluenza dei clienti in determinate fasce orarie.58 È stato inoltre comprovato che tali sistemi migliorano l’elaborazione delle informazioni e il processo decisionale dei team virtuali, che abbiamo analizzato nel Capitolo 11. La seconda applicazione generica del processo decisionale assistito dal computer è legata alla gestione delle riunioni. Esistono due sistemi di processo decisionale assistito dal computer: quello guidato da un moderatore e quello guidato dal gruppo. Nel primo i partecipanti sono chiamati a rispondere a domande prestabilite indicando la loro risposta su tastiere elettroniche; questo sistema viene spesso usato in trasmissioni televisive. Nel giro di pochi secondi il computer ordina le risposte dei partecipanti in una tabella. Le riunioni guidate dal gruppo sono condotte con uno dei due metodi seguenti. Primo metodo: i manager, per raccogliere informazioni o valutare le idee riguardo a una decisione da prendere, possono ricorrere ai sistemi di posta elettronica o a Internet. Un secondo metodo di conduzione delle riunioni di gruppo assistite dal computer si svolge nell’ambito di strutture specializzate dotate di postazioni di lavoro collegate fra loro. I partecipanti, invece di parlare, digitano sulla tastiera i loro input: idee, commenti, reazioni o valutazioni. I dati immessi appaiono simultaneamente su un grande schermo proiettato davanti a loro che permette così la visione a tutti i partecipanti. Tale procedimento riduce gli ostacoli che portano al raggiungimento del consenso perché l’input è anonimo, ciascun membro riceve un’opportunità per dare il suo contribuito e

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nessuno può prevaricare durante il processo. La ricerca ha dimostrato che il processo decisionale assistito dal computer ha prodotto idee quantitativamente e qualitativamente superiori rispetto a quelle prodotte utilizzando il brainstorming o la tecnica del nominal group, sia nel caso di piccoli che di grandi gruppi.59 In conclusione, prevediamo che il ricorso al processo decisionale assistito dal computer aumenterà in futuro, anche perché questi sistemi si prestano bene alla vita organizzativa moderna e al nutrito gruppo di membri delle generazioni X e Y che sta entrando nella forza lavoro.

Creatività Data l’attuale necessità di prendere decisioni rapidamente, sta diventando sempre più importante la capacità di un’organizzazione di stimolare la creatività e l’innovazione dei suoi collaboratori. In alcune aziende si ritiene addirittura che la creatività e l’innovazione siano le chiavi del successo. Rispetto all’argomento del presente capitolo, la creatività entra in gioco in tutte le quattro fasi del processo decisionale razionale e ogniqualvolta un individuo oppure un gruppo si trovano a dover risolvere un problema, a prendere una decisione oppure a creare qualcosa di nuovo. La creatività è particolarmente importante anche durante le sessioni di brainstorming. Al fine di comprendere più approfonditamente la gestione di tale processo creativo cominceremo dalla definizione del concetto di creatività, mettendo in evidenza le caratteristiche individuali e contestuali ad essa associate; passeremo poi in rassegna le fasi sottostanti al processo creativo.

Definizione e caratteristiche individuali associate alla creatività Creatività: processo volto allo sviluppo di qualcosa di unico e nuovo

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Nonostante siano state proposte varie altre definizioni, la creatività viene qui definita come il processo mediante il quale si ricorre all’immaginazione e alle proprie abilità per lo sviluppo di qualcosa di nuovo e unico: un prodotto, un oggetto, un processo o un pensiero.60 La creatività può portare tanto a risultati molto semplici, come l’ideazione di un nuovo posto dove appendere le chiavi della macchina, quanto a operazioni complesse, come la creazione di un microcomputer tascabile. Questa definizione mette in evidenza tre tipologie generali di creatività. Si può creare qualcosa di nuovo (creazione), si può combinare o sintetizzare qualcosa (sintesi), si possono migliorare o modificare le cose (modifica). Il comportamento creativo individuale subisce l’influenza diretta di una serie di singole caratteristiche della persona. La creatività richiede motivazione; le persone, in altri termini, prendono una decisione indipendentemente dall’intenzione di voler applicare le loro conoscenze e abilità per creare nuove idee, cose o prodotti. Oltre alla motivazione, un’altra caratteristica tipica delle persone creative è di agire al di fuori degli schemi comuni. Sono individui fortemente motivati che trascorrono gran parte del tempo sviluppando sia una conoscenza tacita sia una conoscenza esplicita riguardo la loro sfera di interesse o la loro occupazione. Diversamente da quanto si è soliti credere, le persone creative non sono necessariamente geni o personaggi introversi; non sono

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neppure degli adattatori, intesi come “coloro che [ ] preferiscono risolvere le difficoltà e prendere decisioni cercando di avere il minor impatto possibile con i presupposti, le procedure e i valori dell’organizzazione”.61 I creativi, al contrario, sono insoddisfatti dello status quo. Cercano nuove ed entusiasmanti soluzioni ai problemi e tendono a essere curiosi.62 La ricerca dimostra inoltre che uomini e donne non possiedono livelli diversi di creatività, e che vi sono molte caratteristiche della personalità associate alla creatività.63 Tali caratteristiche comprendono, tra le altre, quelle mostrate nella tabella 12-3. L’argomento diventa più concreto se si considera l’esempio che segue. La storia dei post-it fornisce un esempio adeguato su come le caratteristiche individuali mostrate nella tabella 12-3 favoriscano il comportamento creativo. I post-it sono un prodotto che frutta alla 3M 200 milioni di dollari all’anno: L’idea è venuta ad Art Fry, un dipendente della 3M che aveva l’abitudine di segnare con pezzetti di carta gli inni da cantare nel coro della chiesa. Questi segnalibri, però, continuavano a scivolare fuori dal libro dei canti; Fry pensò pertanto a un foglio di carta dotato di una parte adesiva sul retro che potesse rimanere attaccato per tutto il tempo necessario, ma che si potesse anche staccare facilmente. Trovò quello che stava cercando nel laboratorio della 3M, e così nacquero i post-it. Fry intuì il potenziale di mercato della sua invenzione, ma altri no. Le indagini di mercato diedero risultati negativi; i maggiori distributori di materiale da ufficio si mostrarono scettici. Fry pertanto cominciò a diffondere il prodotto regalandone dei campioni ai manager della 3M e alle loro segretarie. Una volta che li ebbero sperimentati di persona si convinsero definitivamente.64

Tabella 12-3 Caratteristiche individuali associate alla creatività Fonti: basato sulla discussione in T. Brown, “Thinking,” Harvard Business Review, giugno 2008, pp. 85-92; e R.J. Sternberg e R.I. Lubart, “Investing in Creativity,” American Psychologist, luglio 1996, pp. 677-88.

Capacità intellettuali • Capacità di vedere i problemi da altre prospettive e di sfuggire ai limiti del pensiero convenzionale. • Capacità di riconoscere quali idee è opportuno portare avanti o meno. • Capacità di persuadere e influenzare gli altri. Conoscenza tacita (implicita) ed esplicita (in merito a un particolare settore, un’occupazione, un argomento, un prodotto, un servizio ecc.) Stile di pensiero • Preferenza verso nuovi modi di pensare scelti personalmente. Aspetti personali • Propensione al superamento degli ostacoli. • Propensione ad assumere rischi ragionevoli. • Propensione a tollerare l’ambiguità. • Auto-efficacia. • Apertura all’esperienza e coscienziosità. Motivazione intrinseca al compito

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Si noti come Fry abbia dovuto esercitare la sua influenza su altri per convincerli a sperimentare la sua idea. La tabella 12-3 mostra che le persone creative possiedono la capacità di convincere e influenzare gli altri.

Le caratteristiche del contesto associate alla creatività Nel Capitolo 1 abbiamo notato che il contesto può influenzare il nostro comportamento, e tale considerazione è certamente vera in relazione alla creatività. Ritornando all’esame della cultura organizzativa condotto nel Capitolo 3, le ricerche hanno rilevato che le organizzazioni dotate di una cultura adhocratica tendono a essere più innovative.65 Questi risultati suggeriscono che potrebbe essere auspicabile ispirarsi alle prassi adottate dalla Google, consentendo maggiore flessibilità, assunzione di rischio e sperimentazione nell’ambiente di lavoro con l’obiettivo di incentivare la creatività dei collaboratori. La creatività è inoltre associata ai vincoli temporali e al livello di stress caratteristici dell’ambiente. A smentire la convinzione che le persone siano più creative quando sono in crisi o sotto forte pressione, si è notato che stretti vincoli temporali soffocano la creatività, così come lo stress. La creatività tocca i livelli massimi quando i collaboratori subiscono uno stress moderato.66 Infine, i leader possono fare molto per accrescere la creatività mostrando interesse per i collaboratori e riservando a tutti un trattamento equo (ricordate la teoria dell’equità illustrata nel Capitolo 8).67

Le fasi del processo creativo I ricercatori non dispongono di certezze sul funzionamento della creatività; tuttavia sappiamo che essa implica “associazioni remote” tra eventi, idee e informazioni, non legate tra loro, presenti nella memoria (Capitolo 7), o oggetti concreti. Consideriamo in che modo il dottor William Foege, durante il suo incarico presso i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie negli Stati Uniti, ha coordinato il programma per sradicare il vaiolo in Nigeria. Foege si rese conto che la fornitura di vaccino a sua disposizione non era sufficiente per l’intera popolazione; osservando che la gente si riuniva nei mercati, mirò la sua campagna di vaccinazione agli individui che frequentavano le aree più affollate, anche se erano solo di passaggio. Così facendo, Foege (attualmente senior fellow del Carter Center e della Bill and Melinda Gates Foundation) creò un modello per le future campagne di vaccinazione che contrasta efficacemente la diffusione dei virus.68 Il concetto di “associazione remota” delinea idee come il legame individuato da Foege tra i comportamenti di acquisto e la diffusione di un virus; non spiega però come Foege abbia creato tale associazione. I ricercatori hanno individuato cinque fasi del processo creativo: la preparazione, la concentrazione, l’incubazione, l’illuminazione e la verifica. Passiamo ora a esaminare queste fasi. La fase di preparazione indica che la creatività ha origine da una base di conoscenza. Secondo gli esperti la creatività comprende una convergenza tra conoscenza tacita e conoscenza esplicita.

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Durante la fase di concentrazione l’individuo si focalizza sul problema oggetto della discussione. Nel contesto lavorativo, spesso le idee creative nascono da problemi, incongruenze e fallimenti legati al lavoro; premesso questo, le ricerche dimostrano che concentrarsi eccessivamente sulla ricerca di soluzioni creative può di fatto inibire la creatività. Per esempio, il fantasticare è stato collegato alla creatività, mentre altre ricerche hanno dimostrato che “curiosare navigando in Internet” accresce la creatività.69 Concedetevi delle distrazioni durante la ricerca di soluzioni creative perché questo può migliorare la fase successiva del processo, cioè quella dell’incubazione. L’incubazione avviene a livello inconscio; nel corso di questa fase la persona è impegnata nelle proprie attività quotidiane e, nel frattempo, rimugina sulle informazioni in proprio possesso compiendo associazioni remote. Tali associazioni conducono alla fase dell’illuminazione. L’ultima fase è quella della verifica, che consiste nel rivedere l’intero processo, controllare, apportare modifiche o sperimentare l’idea scaturita dal processo. Esaminiamo ora le fasi della creatività per capire come mai le organizzazioni giapponesi propongono e portano a termine un numero di idee superiore rispetto alle imprese americane. Nell’affrontare il problema un esperto in materia ha incontrato e intervistato approfonditamente i dipendenti di cinque fra le più importanti aziende giapponesi. L’esperto ha osservato come queste ultime abbiano creato un’infrastruttura manageriale volta a promuovere e rafforzare la creatività. Ai dipendenti è stato chiesto, sin dal primo giorno di impiego, di indicare la presenza di problemi (insoddisfazioni). Tali elementi, a loro volta, sono stati definiti “uova d’oro” per sottolineare l’importanza di questo processo. Le organizzazioni prese in esame hanno, altresì, promosso le fasi di incubazione, illuminazione e verifica tramite il lavoro di squadra e la creazione di incentivi. Alcune aziende, per esempio, hanno raffigurato tali “uova d’oro” su poster giganti appesi nei luoghi di lavoro; i collaboratori sono stati poi incoraggiati a interagire per portare a termine le fasi finali del processo creativo. Sono stati assegnati dei premi in denaro per ogni suggerimento che superasse tutte le cinque fasi del processo.70 Questa ricerca sottolinea la conclusione secondo la quale la creatività può essere valorizzata da una gestione concreta del processo creativo e dalla creazione di un ambiente di lavoro positivo e di supporto.

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Gestione del conflitto e negoziazione

Quanto conta l’emotività nella gestione dei conflitti? L’ingegner Fazi sapeva che parte del suo lavoro consisteva nel cercare di mantenere un buon clima nel suo team, ma a volte era preso dallo sconforto. In particolare, in quel momento, stava scorrendo una mail che, a suo parere, non andava scritta. Sospirò pensando a quanti malintesi avrebbe evitato una normale telefonata. Nel caso specifico il coordinatore di un cantiere aveva scritto a Silva, responsabile degli acquisti, mettendo ovviamente in copia una decina di altre persone. Come più volte sollecitato ricordo che le valvole di regolazione del progetto veneto, dovranno essere in cantiere entro e non oltre 10 giorni. Sarà mio personale impegno chiedere che i costi dell’eventuale fermo cantiere vengano addebitati alle funzioni che non sanno fare gioco di squadra!

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Ovviamente le risposta era stata scritta quasi in simultanea, segno che Silva non si era fermato neanche un istante a riflettere e aveva scritto immediatamente: Ricevo l’ultimatum a cui mi preme rispondere che le valvole saranno in cantiere quando il fornitore verrà pagato dall’amministrazione che non ha ancora sbloccato una vecchia e consistente fattura e che il sottoscritto su questo processo non ha alcun potere. Richiamo inoltre il fatto che i “giochi di squadra” si fanno insieme e non addossando le colpe agli altri.

Fazi mise in calendario una riunione tra gli interessati, chiamando anche il responsabile dei pagamenti, sapendo che avrebbe passato la prima mezz’ora a calmare gli animi e successivamente, forse, a occuparsi della valvole incriminate.

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I gruppi e i processi sociali

La ricerca di un sano equilibrio tra l’eccesso e la totale assenza di conflitto è una sfida costante nel contesto organizzativo. In questo capitolo, dopo aver discusso una visione aggiornata del concetto di conflitto e i tre principali tipi di conflitto esistenti, impareremo a gestirlo, sia in qualità di persone direttamente coinvolte, sia come parti terze; successivamente verrà presa in esame la negoziazione; concluderemo descrivendo un approccio contingente alla gestione del conflitto e alla negoziazione.

Conflitto: una prospettiva moderna Non fatevi trarre in inganno. Il conflitto è un aspetto inevitabile della vita organizzativa. Di seguito riportiamo le tendenze principali che contribuiscono a rendere il conflitto organizzativo inevitabile. • Cambiamento costante. • Una maggiore diversità nel personale. • Presenza di più gruppi (virtuali e autogestiti). • Diminuzione della comunicazione faccia a faccia (maggiore interazione virtuale). • Un’economia globale con un incremento di rapporti interculturali. Dean Tjosvold, della Lingnan University di Hong Kong, fa notare che “il cambiamento genera conflitto e il conflitto genera cambiamento”,1 e ci sfida a migliorare proponendo il seguente punto di vista globale: Imparare a gestire il conflitto rappresenta un investimento serio nel processo di miglioramento che noi, le nostre famiglie e le nostre organizzazioni intraprendiamo nel trarre vantaggio dal cambiamento. Una buona gestione dei conflitti non ci protegge dal cambiamento, né ci permette di ottenere sempre il massimo dei successi, né di ottenere tutto quello che vogliamo. Tuttavia, ci aiuta a restare in contatto con nuovi sviluppi e a creare soluzioni adeguate contro minacce nascenti o in favore di nuove opportunità. Numerosi fatti, dagli elevati tassi di divorzio ai casi di abuso sessuale o fisico a danno di bambini, dalle fusioni aziendali andate in fumo alle sanguinose violenze etniche, sembrano indicare che non possediamo le capacità di far fronte ai nostri conflitti globali, organizzativi e interpersonali.2

Conflitto: una parte percepisce che i propri interessi sono ostacolati o influenzati negativamente da un’altra parte

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Ma una risposta la dobbiamo pur dare. Come sottolineato nel presente capitolo, gli strumenti e le soluzioni ci sono, se solo ci impegniamo nello sviluppo delle capacità e della volontà di utilizzarli con perseveranza. La scelta spetta a noi: essere attivi gestori del conflitto o lasciare che sia il conflitto a gestire noi. Un approfondito studio della letteratura sull’argomento ha portato alla seguente definizione universalmente condivisa: “il conflitto è quel processo per cui una parte percepisce che i propri interessi sono ostacolati o influenzati negativamente da un’altra parte”.3 L’uso del verbo percepire, in questo caso, ci ricorda come le origini del conflitto possano essere reali o immaginate; il conflitto che ne consegue è lo stesso. Nel corso del tempo il conflitto può rafforzarsi o indebolirsi. “Il processo conflittuale si manifesta in un determinato contesto; in qualunque momento avvenga, sia esso in crescita o

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meno, le parti in causa o le parti terze possono tentare, in qualche modo, di gestirlo.”4 Ne consegue che i manager attuali e futuri devono necessariamente capire le dinamiche del conflitto e sapere come gestirlo in modo efficace (sia che siano direttamente o indirettamente coinvolti).

Il linguaggio del conflitto: metafore e significati Quello del conflitto è un argomento complesso per diverse ragioni;5 prima fra tutte vi è il fatto inequivocabile che il conflitto implica spesso un consistente bagaglio emotivo. Il timore di perdere o la paura del cambiamento determinano, nell’ambito di un conflitto, una rapida impennata emozionale. I conflitti, inoltre, variano molto in ampiezza. Essi hanno sia attori direttamente coinvolti che osservatori; alcuni di questi ultimi possono dimostrarsi interessati e attivi, altri disinteressati e passivi. Il termine conflitto, di conseguenza, a seconda delle circostanze e del coinvolgimento del singolo, può assumere un gran numero di significati. Considerate, ad esempio, le seguenti tre metafore e le espressioni a esse legate, usate sul posto di lavoro: • Conflitto come guerra: “Quell’idea l’abbiamo uccisa noi.” • Conflitto come opportunità: “Che cosa è necessario per superare il disaccordo?” • Conflitto come viaggio: “Vediamo di cercare un punto di incontro e di imparare tutti qualcosa di utile.”6 Chiunque concepisca il conflitto come una guerra tenterà di vincere a tutti i costi e di annientare il nemico. Viceversa, coloro che vedono il conflitto come un’opportunità o un viaggio avranno la tendenza a essere più positivi, più aperti e costruttivi. Purtroppo, in un mondo dominato da ostilità, un pensiero bellicoso, distruttivo e combattivo ha troppo spesso il sopravvento. I conflitti sul posto di lavoro, comunque, non sono una guerra. Nella gestione dei conflitti all’interno delle organizzazioni, pertanto, dovremmo cercare di basarci non tanto sulla metafora e sul linguaggio della guerra, quanto su quelle dell’opportunità e del viaggio. In situazioni conflittuali è necessario monitorare con cura la scelta delle parole. Spiegando le tre metafore, gli esperti di conflitto Cloke e Goldsmith hanno fornito il commento che segue, utile per dare al presente capitolo il giusto equilibrio: Il conflitto vi da l’opportunità di approfondire il vostro grado di empatia e intimità nei confronti dei vostri avversari. La vostra rabbia trasformerà “l’altro” in un demone o un furfante stereotipato. Un atteggiamento difensivo, parimenti, vi impedirà di comunicare apertamente con il vostro oppositore o di ascoltare attentamente ciò che dice. D’altro canto, una volta che incomincerete a dialogare con quella persona, farete rinascere il lato umano della sua personalità e riuscirete, di rimando, a esprimere il vostro. Inoltre, se gestirete i conflitti con integrità, essi vi porteranno a una crescita della consapevolezza e a un miglioramento di voi stessi. La rabbia incontrollata, un atteggiamento difensivo e la vergogna vanno a minare tali possibilità. Tutti si sentono meglio una volta risolti i problemi e trovata una soluzione, e si sentono peggio quando soccombono o falliscono nel risolverli. L’amara verità è che le vittorie rabbiose portano a una sconfitta

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a lungo termine. Gli sconfitti si ritirano, si sentono traditi e perduti, e conserveranno tale sentimento per il conflitto successivo. Il conflitto può essere visto semplicemente come un modo per imparare qualcosa di più in merito a ciò che non funziona e a come risolvere il problema. L’utilità della soluzione dipende da quanto profonda sia la vostra comprensione del problema. Questo è legato alla vostra capacità di ascoltare, che dipende, a sua volta, dall’arresto del ciclo di escalation e dalla ricerca di opportunità e di miglioramenti.7

Per farla breve, una situazione “win-win” (in cui si lavora per la vittoria di entrambi) è migliore di una situazione “win-lose” (in cui uno dei due deve soccombere), sia nell’ambito di un conflitto che di una negoziazione.

Il continuum dei conflitti Nel corso del XX secolo, le idee legate alla gestione del conflitto sono passate attraverso un’interessante evoluzione; all’inizio del secolo, esperti di scientific management come Taylor ritenevano che tutti i conflitti, in definitiva, costituissero una minaccia per l’autorità manageriale e che pertanto dovessero essere evitati o risolti celermente. In seguito, i sostenitori delle relazioni umane hanno riconosciuto l’inevitabilità del conflitto e suggerito ai manager di imparare a convivere con esso. Il fattore più importante, tuttavia, è sempre stato legato, laddove possibile, alla risoluzione del conflitto. A partire dagli anni ’70, gli studiosi di comportamento organizzativo si sono resi conto che il conflitto, a seconda della sua natura e intensità, portava a risultati sia negativi che positivi. Tale prospettiva ha introdotto l’idea rivoluzionaria secondo la quale le organizzazioni potessero soffrire del fatto di avere troppo pochi conflitti. La figura 13-1 illustra il rapporto tra l’intensità del conflitto e i risultati. Gruppi di lavoro, uffici o organizzazioni aventi a che fare con una quantità troppo ridotta di conflitti hanno la tendenza a essere afflitti da apatia, mancanza di creatività, indecisione e scadenze non rispettate. Un conflitto eccessivo, tuttavia, può minare la

Figura 13-1 Relazione tra l’intensità del conflitto e i risultati

Risultati

Fonte: L.D. Brown, Managing Conflict of Organizational Interfaces, (Reading; MA, Addison-Wesley Publishing, 1986), figura 1.1, p. 8 © 1986, Addison-Wesley Publishing Co. Riprodotto su autorizzazione.

Positivi

Neutrali

Negativi

Conflitto troppo basso Bassa

Conflitto adeguato

Conflitto troppo elevato

Moderata

Alta

Intensità

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performance organizzativa a causa di lotte politiche interne, insoddisfazioni, mancanza di lavoro di squadra e turnover. Il bullismo nell’ambiente di lavoro, subito da un terzo degli intervistati in un recente sondaggio,8 è certamente classificabile come conflitto patologico; anche l’aggressività e la violenza sul posto di lavoro possono essere manifestazioni di un conflitto eccessivo.9 Tipologie e livelli adeguati di conflitto, invece, forniscono le giuste energie per muoversi in direzioni costruttive.

Conflitto funzionale e conflitto patologico Conflitto funzionale: conflitto che promuove gli interessi dell’organizzazione Conflitto patologico: conflitto che minaccia gli interessi dell’organizzazione

La distinzione tra conflitto funzionale e conflitto patologico è in relazione a quanto gli interessi dell’organizzazione vengano o meno soddisfatti. Stando a quanto afferma un esperto di conflitto Alcuni [tipi di conflitto] sostengono gli obiettivi dell’organizzazione e migliorano la performance; possono quindi essere interpretati come forme di conflitto costruttive, funzionali e fisiologiche. Vi sono, invece, forme di conflitto che ostacolano la performance organizzativa; esse sono definite patologiche o distruttive. Non sono auspicabili e i manager dovrebbero fare di tutto per evitarle.10

Il conflitto funzionale viene anche comunemente definito costruttivo o cooperativo. In relazione a quanto abbiamo affermato in precedenza rispetto al linguaggio del conflitto, coloro che hanno un atteggiamento funzionale adottano un approccio win-win per risolvere i problemi e trovare un terreno comune. L’esperto in psicologia organizzativa Kerry Sulkowicz traccia una distinzione importante tra aggressività e assertività in questa osservazione sul conflitto funzionale. I migliori CEO con i quali mi capita di lavorare sanno come fare pressione, dire di no, iniziare e vincere una battaglia quando è necessario. Addio lavoro in team? In realtà, la collaborazione e il confronto non si escludono a vicenda. Esiste l’aggressività – un meccanismo di sopravvivenza di base – e poi esiste l’assertività, la cugina più mansueta e socialmente accettabile, che può essere impiegata efficacemente anche tra persone che lavorano “nello stesso schieramento”. La necessità di essere assertivi emerge di continuo: è fondamentale nelle negoziazioni contrattuali, nella bocciatura di un lavoro svolto male, nella critica di una strategia, nel licenziamento (o nella difesa) di un collaboratore. Eppure alcuni farebbero di tutto pur di evitare il confronto […] Piuttosto stranamente, il segreto è essere empatici con la persona con cui ci si confronta. A tal fine, conviene addurre dati utili anziché impressioni, offrire alternative assieme alle obiezioni e limitare i commenti al peccato, non al peccatore. L’antagonista non vorrà più sentire ragioni dopo essersi sentito attaccato sul piano personale. È fondamentale evitare i moralismi. E gongolare dopo essere riusciti a prevalere. I vincitori meschini non piacciono a nessuno.11

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Antecedenti del conflitto Alcune situazioni generano più conflitti di altre. Conoscendo gli antecedenti del conflitto, i manager saranno maggiormente in grado di anticiparlo e di agire nel caso in cui esso diventi patologico. Ecco alcune tra le situazioni che tendono a creare conflitti, funzionali o patologici. • Personalità o sistemi di valori incompatibili. • Confini di ruolo poco chiari o sovrapposti. • Competizione per risorse limitate. • Competizione tra diversi sottosistemi organizzativi. • Comunicazione inadeguata. • Attività interdipendenti (esempio: una persona non può portare a termine ciò che le è stato assegnato fino a quando tutti non hanno completato la loro parte). • Complessità organizzativa (il conflitto tende ad aumentare con l’aumento dei livelli gerarchici e con una maggiore specializzazione delle attività). • Politiche, standard o regole irragionevoli o poco chiare. • Scadenze irragionevoli o esagerate pressioni sui tempi. • Processi decisionali collettivi (più elevato è il numero delle persone che prendono parte a un processo decisionale, più alta è l’eventualità che si venga a creare un conflitto). • Processo decisionale basato sul consenso. • Aspettative non realizzate (i collaboratori aventi aspettative non realizzabili in merito a incarichi di lavoro, stipendi o promozioni hanno una maggiore propensione al conflitto). • Conflitti rimasti irrisolti o sospesi.12 I manager proattivi sono coloro che tengono conto di queste situazioni e che prendono adeguati provvedimenti.

Soluzioni auspicabili dei conflitti Nell’ambito delle organizzazioni la gestione del conflitto è qualcosa di più del perseguimento di un accordo. Il conflitto deve essere non solo eliminato, ma risolto in modo funzionale all’organizzazione. Per arrivare a questo risultato è necessario allargare la visuale. Il modello del conflitto cooperativo di Tjosvold suggerisce di perseguire tre risultati: 1. Accordo. Ma a quale costo? Gli accordi equi e leali sono i migliori; infatti un accordo che lascia a una delle parti una sensazione di sconfitta tenderà ad alimentare rancore e un conseguente ulteriore conflitto. 2. Rapporti più solidi. Buoni accordi permettono alle parti in conflitto di costruire legami basati su buona volontà e fiducia, che potranno essere utilizzati in seguito. Inoltre le parti in causa che hanno costruito una buona fiducia reciproca possono arrivare più rapidamente a un accordo.

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3. Apprendimento. Un conflitto funzionale può creare una maggiore consapevolezza di sé e un problem-solving di tipo creativo. Come per ogni pratica manageriale, anche la gestione del conflitto si apprende principalmente praticandola. La conoscenza dei concetti e delle tecniche presentate nel presente capitolo costituisce un primo passo necessario, ma non può sostituire la pratica concreta. In un mondo pieno di conflitti esistono opportunità infinite per esercitarsi in questa attività.13

Tipologie di conflitto Alcuni antecedenti del conflitto, messi in evidenza nel paragrafo precedente, necessitano di un approfondimento. La presente sezione esaminerà la natura e le implicazioni organizzative di tre tipi principali di conflitto: il conflitto di personalità, il conflitto fra gruppi e il conflitto interculturale. La discussione relativa a ciascun tipo di conflitto include alcune tecniche e suggerimenti pratici.

Conflitto di personalità Nel corso dell’esposizione relativa alla diversità, nel Capitolo 2, abbiamo toccato l’argomento della personalità, che è stato poi ripreso discutendo il modello dei Big Five nel Capitolo 5. Sintetizzando, la personalità è l’insieme di tratti e caratteristiche stabili che creano una identità specifica e unica. Come sottolineano alcuni esperti in materia: Ciascuno di noi possiede un modo unico di interagire con gli altri. Il fatto di essere visti come affascinanti, irritanti, ordinari, avvicinabili o intimidatori, dipende in parte dalla nostra personalità o da quello che altri potrebbero descrivere come il nostro stile.14

Conflitto di personalità: contrasto interpersonale basato su personali antipatie, disaccordi o modi di essere differenti

Dati gli infiniti modi in cui i tratti della personalità possono combinarsi tra loro, diventa evidente come mai i conflitti di personalità siano praticamente inevitabili. Il conflitto di personalità si definisce come un contrasto interpersonale basato su personali antipatie, disaccordi e/o modi di essere differenti. Intolleranza sul posto di lavoro: i germi del conflitto di personalità In parte simili al dolore fisico, i conflitti di personalità cronici cominciano spesso con irritazioni apparentemente insignificanti. Due ricercatori di comportamento organizzativo mettono in guardia rispetto al problema e alle sue conseguenze: L’intolleranza, o la mancanza di rispetto reciproco tra i collaboratori, è costosa per le organizzazioni in modo sottile e pervasivo. Sebbene i comportamenti intolleranti siano piuttosto comuni, numerose organizzazioni non li riconoscono e poche ne comprendono gli effetti dannosi; gran parte dei manager e dei dirigenti non sono ben preparati a gestirli. Nell’arco degli ultimi otto anni, indagando sul fenomeno attraverso interviste, focus group, questionari, esperimenti e forum con dirigenti, con il coinvolgimento di oltre 2.400 persone negli Stati Uniti e in Canada, abbiamo riscontrato che l’intolleranza induce le vittime, i testimoni e altre parti interessate ad agire in maniera tale da erodere i valori

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organizzativi e impoverire le risorse dell’organizzazione. L’intolleranza nell’ambiente di lavoro riduce l’impegno, la produttività, le prestazioni e il tempo dedicato al lavoro dai collaboratori. Se non si cerca di arginare l’intolleranza, la soddisfazione lavorativa e la lealtà nei confronti dell’organizzazione non potranno che diminuire. Alcuni lavoratori abbandonano l’impiego esclusivamente per via dell’impatto di questa sottile forma di devianza.15

I circoli viziosi di intolleranza devono essere evitati o prevenuti coltivando una cultura organizzativa che attribuisca un alto valore al rispetto per le persone. Ciò implica che manager e leader siano modelli di cortesia e attenzione. Altresì utile è uno spirito di positiva collaborazione che si contrapponga a uno basato su atteggiamenti negativi e aggressività. Alcune organizzazioni hanno adottato corsi di correttezza sul posto di lavoro; più specificamente, un feedback costruttivo o modelli di comportamento appropriato possono contenere comportamenti irritanti evitando che precipitino in un vero e proprio conflitto di personalità (o peggio).16 Gestione dei conflitti di personalità I conflitti di personalità, per i manager, sono un potenziale campo minato. Vediamo di inquadrare il problema: i tratti della personalità, per definizione, sono stabili e resistenti al cambiamento. Secondo quanto riportato nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders della American Psychiatric Association, inoltre, esistono 410 tipi di disordine psicologico possibili, che si possono manifestare anche sul luogo di lavoro.17 In questa situazione si sommano anche fattori legali; infatti i collaboratori statunitensi che soffrono di disturbi psicologici, come la depressione, o di fattori di alterazione dell’umore, come l’alcolismo, sono protetti dall’American with Disbilities Act.18 Questo accade anche in altri paesi che dispongono di leggi simili. Anche le molestie sessuali e altre forme di discriminazione possono nascere da conflitti di personalità. Infine queste tipologie di conflitto possono generare violenza e aggressività sul posto di lavoro. Tradizionalmente i manager si sono confrontati con i conflitti di personalità ignorandoli oppure trasferendo una delle persone coinvolte. Alla luce delle implicazioni legali sopra riportate, entrambe le opzioni si prestano a denunce per discriminazione. La tabella 13-1 fornisce suggerimenti pratici per i manager e per tutte le persone coinvolte o colpite da conflitti di personalità. Successivamente verranno discusse le tecniche di gestione dei conflitti patologici e le tecniche alternative di risoluzione dei conflitti.

Conflitto tra gruppi I conflitti tra gruppi di lavoro, team e sottosistemi organizzativi rappresentano una comune minaccia alla competitività dell’organizzazione. Quando Michael Volkema, a metà degli anni ‘90, è diventato amministratore delegato della Herman Miller, ad esempio, si è trovato di fronte lo scenario di un’azienda concentrata verso l’interno, con funzioni in conflitto tra loro per questioni di budget. Da allora Volkema ha tenuto sotto controllo il conflitto tra gruppi cercando di dare maggior enfasi alla collaborazione e orientando l’attenzione di ciascun collaboratore verso l’esterno, cioè verso il cliente.19

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Tabella 14-1 Come gestire i conflitti di personalità Suggerimenti per gestire conflitti di personalità tra pari • Comunicare direttamente con l’altra persona al fine di risolvere il conflitto percepito (valorizzare il problem-solving gli obiettivi comuni piuttosto che elementi legati alla personalità) • Evitare di coinvolgere i colleghi nel conflitto • Se un conflitto patologico persiste cercare aiuto nei diretti supervisori, o presso gli esperti in risorse umane

Suggerimenti per spettatori di conflitti di personalità • Nel caso di conflitti di personalità che riguardano qualcun altro non prendere le parti di nessuno • Suggerire alle parti coinvolte di ririsolvere i problemi in modo costruttivo e positivo • Se il conflitto patologico persiste riferire il problema al diretto supervisore delle parti in causa

Suggerimenti per manager aventi collaboratori che soffrono di conflitti di personalità • Condurre indagini e documentare il conflitto • Se è il caso farsi parte attiva (ad esempio fornire feedback o formazione comportamentale) • Se necessario tentare una risoluzione informale del conflitto • In caso di conflitti difficili fare riferimento a specialisti in risorse umane o consulenti interni all’azienda per tentare di risolverli formalmente o tramite provvedimenti di altra natura

Nota: tutti i collaboratori devono conoscere e seguire le politiche dell’azienda in merito a diversità, discriminazione e molestie sessuali.

È evidente che i manager che comprendono i meccanismi del conflitto tra gruppi sono maggiormente preparati ad affrontare tale tipo di sfida. In-group thinking: i germi del conflitto tra gruppi Come discusso nei capitoli precedenti, la coesione – intesa come senso di “pluralità” che tiene uniti i gruppi – può essere un fattore positivo o negativo. Un certo grado di coesione può trasformare un gruppo di individui in una squadra efficiente. Un grado troppo elevato di coesione, invece, può dare adito al cosiddetto in-group thinking (pensare in gruppo), per il quale il desiderio di non creare disaccordi ha la meglio sul senso critico. Uno studio sulle dinamiche interne al gruppo, condotto da esperti dell’argomento, ha rivelato l’esistenza di tutta una serie di cambiamenti legati a un incremento della coesione di gruppo. In dettaglio: •

Le persone all’interno del gruppo si considerano un insieme di individui unici, mentre considerano stereotipicamente i membri di altri gruppi “tutti uguali fra loro”. • Le persone all’interno del gruppo si considerano positive e moralmente corrette, mentre considerano negativi e immorali i membri di altri gruppi. • Le persone all’interno del gruppo vedono gli elementi esterni come una minaccia. • Le persone all’interno del gruppo portano all’estremo le differenze tra il loro gruppo e gli altri. Tale comportamento comporta, notoriamente, una distorta percezione della realtà.20 Un gruppo di tifosi fanatici, che non riescono proprio a immaginare la ragione per cui qualcuno dovrebbe tifare per la squadra rivale, rappresentano un esempio di in-group thinking. Questo modello di comportamento, inoltre, rappresenta una forma di etnocentrismo, individuata nel Capitolo 4 come barriera interculturale. L’in-group thinking rappresenta, nella vita organizzativa, un fattore che quasi sicuramente prepara un conflitto. I manager non lo possono eliminare, ma certamente, quando si trovano a dover gestire conflitti tra gruppi, non devono ignorarlo.

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Lezioni dalla ricerca per la gestione dei conflitti tra gruppi I sociologi, per ridurre i conflitti tra gruppi, hanno più volte suggerito il contatto reciproco. L’ipotesi del contatto può essere così descritta: maggiore è il grado di interazione tra i membri di gruppi diversi, minore sarà il numero di conflitti tra gruppi che essi sperimenteranno. Chi è interessato a un miglioramento dei rapporti razziali o internazionali tra i manager, incoraggerà tipicamente l’interazione tra un gruppo e l’altro. Si spera che qualsiasi tipo di interazione, che non abbia conflitti recenti, ridurrà la tendenza alla stereotipizzazione e combatterà l’in-group thinking. I risultati delle ricerche non sono univoci. Una meta-analisi di 515 studi diversi ha avvalorato l’ipotesi del contatto, riscontrando un’associazione tra la maggiore interazione tra gruppi diversi e minori pregiudizi.21 D’altro canto, uno studio condotto su 83 dipendenti di centri sanitari (l’83% dei quali erano donne) di un’università statunitense del Midwest, ad esempio, ha indagato sulla natura specifica dei rapporti tra gruppi ed è giunto alla seguente conclusione: Il numero delle relazioni negative era significativamente correlato con le elevate percezioni di conflitti tra gruppi. Sembra, pertanto, che le relazioni negative abbiano un’importanza che va ben oltre qualsiasi possibile effetto positivo relativamente alla creazione di legami amichevoli tra i gruppi.22

Come documentato da numerosi studi, legami di amicizia tra gruppi sono ancora cosa auspicabile;23 essi sono tuttavia sopraffatti da interazioni negative tra i gruppi. La priorità assoluta per i manager aventi a che fare con conflitti tra i gruppi è pertanto quella di identificare ed estirpare specifici legami negativi tra i gruppi. Un conflitto di personalità, ad esempio, potrebbe, da solo, intaccare l’intera esperienza tra i gruppi. La stessa cosa vale per un collaboratore che diffonde opinioni o voci negative in merito a Figura 14-2 Un modello aggiornato di sviluppo dei contatti per minimizzare i conflitti tra gruppi

Interventi suggeriti:

Il livello di conflitto tra gruppi percepito tende ad aumentare quando: • Il conflitto all’interno del gruppo è alto. • Le interazioni tra gruppi, (o tra i membri di quei gruppi), sono negative. • L’influenza di pettegolezzi da parte di terzi su altri gruppi è negativa.

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• Lavorare per eliminare interazioni negative specifiche tra i gruppi (e i singoli membri). • Proporre la formazione sul team building al fine di ridurre il conflitto tra i gruppi e preparare i collaboratori per un lavoro di gruppo interfunzionale. • Incoraggiare le amicizie personali e i buoni rapporti d’affari tra i gruppi e i reparti. • Sostenere atteggiamenti positivi nei confronti di membri di altri gruppi (empatia, compassione, comprensione). • Evitare o neutralizzare pettegolezzi negativi tra i gruppi e i reparti.

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un altro gruppo. Il modello di contatto, riportato nella figura 13-2, si basa su questi e altri risultati di studi recenti, che comportano ad esempio la necessità di sostenere atteggiamenti positivi nei confronti di altri gruppi. Si noti, inoltre, che se si vuole minimizzare il conflitto, è necessario agire all’interno del gruppo evitando la diffusione di pettegolezzi negativi da parte di terzi, pettegolezzi che costituiscono una vera e propria minaccia.24

Conflitti interculturali Le relazioni con persone appartenenti a culture diverse sono cosa comune nella nostra economia globale dove le fusioni, le società miste e le alleanze sono all’ordine del giorno.25 In queste situazioni, dati i diversi presupposti in merito al modo di pensare e agire, l’eventualità di un conflitto interculturale è tanto immediata quanto di vasta portata.26 Il successo o il fallimento, nella conduzione di affari tra realtà culturali diverse, dipendono spesso dal fatto di evitare o minimizzare un conflitto reale o presunto. Considerate, ad esempio, l’equivoco interculturale di seguito riportato: I messicani danno grande importanza a “salvare la faccia” durante un conflitto, e hanno quindi la tendenza ad aspettarsi che qualunque situazione si verifichi nel corso di negoziazioni venga minimizzata o tenuta segreta. L’atteggiamento predominante [negli Stati Uniti] è invece quello di gestire il conflitto direttamente e pubblicamente, al fine di evitare lo sviluppo di risentimenti a livello personale.27

Non è necessario, e forse sarebbe impossibile, stabilire chi abbia ragione e chi torto; viceversa, ciascuno deve comprendere quanto sia utile superare le differenze culturali al fine di portare a termine con successo una transazione economica. La consapevolezza delle dimensioni interculturali del progetto GLOBE, di cui si è trattato nel Capitolo 4, rappresenta un importante punto di partenza. È inoltre necessario identificare e neutralizzare gli stereotipi; è possibile altresì moderare il conflitto interculturale ricorrendo a consulenti internazionali e costruendo solide relazioni interculturali. Consulenti internazionali In risposta a una crescente domanda, l’esercito dei consulenti manageriali specializzati in rapporti interculturali assume dimensioni sempre più cospicue. La competenza e le tariffe, come è ovvio che sia, sono tra le più varie. Un consulente interculturale, accuratamente selezionato, può risultare, tuttavia, molto utile. Osservate l’esempio seguente: Quando l’impresa di elettronica Canon ha progettato di fondare, tramite la sua sezione olandese, una filiale a Dubai, si è rivolta al consulente Sahid Mirza di Glocom, che si trovava sul posto, perché scoprisse come le due culture avrebbero potuto lavorare insieme. Mirza ha distribuito dei test sotto forma di questionari ottenendo un certo responso. “I risultati mi hanno alquanto sorpreso” spiega. “Abbiamo notato che, a livello generale, le differenze erano sostanzialmente poche. Molti uomini d’affari arabi provenivano da ex colonie inglesi, pertanto avevano una visione della conduzione degli affari molto simile a quella olandese.” Per quanto riguarda, invece, il comportamento, è stato riscontrato un vero e proprio conflitto. “Gli olandesi sono molto franchi e diretti nel loro modo di

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esprimersi e ciò risulta molto offensivo per la sensibilità araba.” […] Il risultato della ricerca di Mirza è che la Canon ha fondato una filiale a Dubai, ma si è prima preoccupata di formare professionalmente alla comunicazione interculturale sia i manager olandesi che quelli arabi.28

I consulenti possono inoltre aiutare a distinguere eventuali conflitti tra gruppi o di personalità da conflitti radicati nella differenza tra culture nazionali. È infine importante sottolineare che sebbene abbiamo considerato queste tre tipologie di conflitto separatamente, nella comunicazione interpersonale quotidiana esse si riscontrano in un insieme complesso e confuso. Costruire relazioni interculturali per evitare conflitti patologici Lo studio, condotto da Rosalie L. Tung su 409 espatriati da multinazionali canadesi e statunitensi, citato nel Capitolo 4, è molto istruttivo.29 La sua inchiesta ha cercato di individuare i fattori di successo per gli espatriati (il 14% dei quali erano donne), che lavoravano in 51 diversi paesi in tutto il mondo. Nove metodi specifici per facilitare l’interazione con gli abitanti del paese ospitante, classificati dagli intervistati dai più utili ai meno utili, sono elencati nella tabella 13-2. Al primo posto troviamo una buona capacità di ascolto, seguita da sensibilità verso gli altri e dalla collaborazione, che va preferita alla competizione. È interessante notare come i manager statunitensi siano culturalmente caratterizzati da qualità opposte: mediocri ascoltatori, schietti a tal punto da sfiorare l’insensibilità e eccessivamente competitivi. Alcuni manager dovrebbero aggiungere il fattore consapevolezza e gestione di sé alla lista dei metodi necessari alla minimizzazione del conflitto interculturale.30

Gestire i conflitti Come abbiamo potuto notare il conflitto ha molti aspetti e rappresenta una costante sfida per i manager responsabili del raggiungimento di obiettivi organizzativi. Ci concentreremo ora sulla gestione attiva sia del conflitto funzionale che di quello patologico. Discuteremo su come stimolare i conflitto funzionali, su come gestire quelli patologici

Tabella 13-2 Modi di costruire relazioni interculturali Fonte: adattato da R.L. Tung, “American Expatriates Abroad: From Neophytes to Cosmopolitans,” Journal of World Business, estate 1998, tabella 6, p. 136.

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Comportamento

Classifica

Siate buoni ascoltatori Siate sensibili ai bisogni degli altri Siate collaborativi piuttosto che iper-competitivi Sostenete una leadership inclusiva (partecipativa) Cercate di accomodare piuttosto che prevalere Costruite relazioni tramite conversazioni Siate comprensivi Evitate il conflitto valorizzando l’armonia Prendetevi cura degli altri (agite sullo sviluppo e fate da mentore)

1 2 2 3 4 5 6 7 8

pari merito

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e su come le terze parti possano contribuire alla soluzione di un conflitto. Verranno, inoltre, esaminati i contributi delle ricerche a questo tema.

Stimolare i conflitti funzionali

Conflitto programmato: incoraggia opinioni diverse prescindendo dai sentimenti personali del management

Avvocato del diavolo: assegnare a qualcuno il ruolo di critico

Metodo dialettico: sviluppare un dibattito tra punti di vista opposti per una migliore comprensione del problema

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I comitati e i gruppi che devono prendere decisioni, talvolta, si perdono nei dettagli e nelle procedure tanto da non raggiungere nessun risultato sostanziale. Un conflitto funzionale tenuto adeguatamente sotto controllo potrebbe riaccendere nuovamente lo spirito creativo. I manager dispongono, in sostanza, di due possibilità: possono soffiare sul fuoco di un conflitto sviluppatosi in modo spontaneo, ma questa tattica può trasformarsi in un approccio lento e poco sicuro; oppure possono ricorrere al conflitto programmato,31 definito dagli esperti in materia come “un conflitto che suscita opinioni diverse a prescindere dai personali sentimenti dei manager”.32 Il trucco sta nel fare in modo che chiunque partecipi alla discussione debba difendere o criticare le idee basandosi su fatti rilevanti e non su preferenze personali e interessi politici. Per arrivare a questo è necessaria una disciplinata interpretazione dei ruoli. Due tecniche di conflitto programmato di comprovato successo sono quella dell’avvocato del diavolo e quella del metodo dialettico, che esaminiamo successivamente. L’avvocato del diavolo Tale tecnica prende il nome da una pratica attuata nella Chiesa Cattolica. Quando davanti al Collegio dei Cardinali veniva presentato un candidato alla santità era essenziale assicurarsi che avesse condotto una vita esemplare. Di conseguenza a un individuo veniva assegnato il ruolo di avvocato del diavolo, avente il compito di scoprire e rendere noti tutti i possibili elementi che potessero costituire un fattore d’ostacolo verso la canonizzazione. Similmente, ricorrere all’avvocato del diavolo nelle odierne organizzazioni significa assegnare a qualcuno il ruolo di critico.33 Nel Capitolo 10, come si ricorderà, Irving Janis raccomandava il ricorso al ruolo di avvocato del diavolo per evitare il problema del groupthink. Si noti come, nella parte sinistra della figura 13-3, l’introduzione dell’avvocato del diavolo possa alterare un processo decisionale altrimenti lineare. Questo approccio al conflitto programmato è volto a stimolare senso critico e una forte adesione ai dati di fatto.34 È consigliabile alternarsi nel ruolo di avvocato del diavolo per evitare che una sola persona o un gruppo si crei una reputazione esclusivamente negativa. Rivestire periodicamente questo ruolo, inoltre, costituisce un buon addestramento per lo sviluppo di abilità comunicative e analitiche, e di intelligenza emotiva. Metodo dialettico Come per quello dell’avvocato del diavolo, il metodo dialettico è una pratica nota da tempo. Tale approccio particolare al conflitto programmato risale all’antica Grecia. Platone e i suoi seguaci tentavano di sintetizzare le verità esplorandone le posizioni opposte (chiamate tesi e antitesi). Ancora oggi nei processi, negli Stati Uniti e altrove, per provare colpevolezza o innocenza, si utilizza il confronto di punti di vista diametralmente opposti. Parimenti, il metodo dialettico odierno chiama i anager a sostenere, prima di prendere una decisione, un dibattito strutturato basato su punti di vista opposti.35 Il 3° e 4° passaggio nella parte destra della figura 13-3 isolano l’approccio dialettico dal processo decisionale.

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306 Figura 13-3 Tecniche per stimolare un conflitto funzionale: avvocato del diavolo e metodo dialettico Fonte: R.A. Cosier e C.R. Schwenk, “Agreement and Thinking Alike: Ingredients for Poor Decisions,” Academy of Management Executive, febbraio 1990, pp. 72-73.

I gruppi e i processi sociali

Itinerario decisionale basato sul metodo dell’avvocato del diavolo

Metodo decisionale dialettico

1 Si crea un itinerario per l’azione.

1 Si crea un itinerario per l’azione.

2 Un avvocato del diavolo (che può essere sia un individuo che un gruppo) ha il compito di criticare la proposta.

2 Vengono identificati i presupposti sottesi alla proposta.

3 La critica viene presentata ai decisori chiave.

3 Viene prodotta una controproposta basata su presupposti diversi.

4 Si riunisce qualunque forma di informazione aggiuntiva rilevante nella discussione.

4 I portavoce di ciascuna posizione presentano e discutono i valori delle loro proposte di fronte ai decisori chiave.

5 Si prende la decisione necessaria ad adottare, modificare o abbandonare il corso d’azione proposto.

5 Viene presa la decisione per l’adozione di una o l’altra posizione, oppure, per esempio: un compromesso.

6 La decisione viene monitorata.

6 La decisione viene monitorata.

Lo svantaggio maggiore del metodo dialettico è che lo stimolo a vincere nella disputa potrebbe offuscare il problema in discussione. Tale metodo, di conseguenza, richiede una formazione più puntuale rispetto a quello dell’avvocato del diavolo. L’efficacia dei due metodi paragonata in uno studio di laboratorio ha portato a una situazione di parità. Confrontati con gruppi orientati al consenso, i gruppi che hanno adottato il metodo dell’avvocato del diavolo e quello dialettico sono giunti a decisioni di qualità migliore, pressoché nella stessa misura.36 Secondo una ricerca più recente, tuttavia, gruppi che sono ricorsi al metodo dell’avvocato del diavolo hanno prodotto risultati più efficaci

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e fornito soluzioni migliori di quanto non abbiano fatto gruppi che hanno adottato il metodo dialettico.37 Alla luce dell’eterogeneità dei risultati di ricerca i manager possono scegliere con libertà quale dei diversi metodi adottare al fine di risvegliare discussioni arenate in un punto morto. La preferenza personale e l’esperienza nell’interpretazione di ruoli possono essere considerate, a tutti gli effetti, fattori decisivi nella scelta di un approccio rispetto all’altro. È comunque importante, laddove necessario, stimolare attivamente un conflitto funzionale, vale a dire, ad esempio, quando il rischio del conformismo o del groupthink è molto alto. Joseph M. Tucci, amministratore delegato della EMC di cui abbiamo parlato in precedenza, incoraggia il conflitto funzionale creando un clima orientato a sostenere il dissenso: Leader abili lasciano sempre spazio al dibattito e all’espressione di opinioni diverse. La squadra deve essere in armonia; ma prima di prendere qualsiasi decisione occorre che vi sia una discussione: la leadership non è un diritto, bisogna guadagnarsela sul campo. Ogni azienda necessita di una sana paranoia. Spetta al leader il compito di tenerla accesa, di creare tensione all’interno del sistema.38

Quanto affermato è coerente con i risultati di alcuni studi sperimentali che hanno rilevato un legame positivo tra il grado di dissenso della minoranza e l’innovazione nel gruppo, ma solo dove si fosse ricorsi a un processo decisionale partecipativo.39

Stili alternativi per la gestione del conflitto patologico

Figura 13-4 Cinque stili per la gestione dei conflitti Fonte: M.A. Rahim, “A Strategy for Managing Conflict in Complex Organizations,” Human Relations, gennaio 1985, p. 84. Riprodotto su autorizzazione della Plenum Publishing.

Preoccupazione per gli altri

Le persone tendono a gestire i conflitti negativi ricorrendo a modelli definibili come stili. Nel corso degli anni diversi stili di conflitto sono stati raggruppati in categorie. Secondo il modello di Afzalur Rahim, studioso della materia, è possibile tracciare cinque diverse tipologie di stili di gestione del conflitto, che possono essere inseriti in una griglia bidimensionale. Sull’asse orizzontale della griglia troviamo un grado alto o basso di preoccupazione per sé, mentre sull’asse verticale troviamo un grado alto o basso di preoccupazione per gli altri (figura 13-4). La combinazione di tali variabili

Alta

Integrante

Premuroso Favorevole al compromesso

Bassa

Dominante

Propenso a evitare il conflitto

Alta

Bassa Preoccupazione per sé

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produce cinque diversi stili di gestione del conflitto: integrante, premuroso, dominante, propenso a evitare il conflitto e favorevole al compromesso.40 Non esiste uno stile migliore di altri; ciascuno di essi è fatto di punti di forza e limiti ed è più efficace in alcune situazioni piuttosto che in altre. Integrante Persone caratterizzate da questo stile confrontano i contenuti e collaborano nell’identificazione del problema, generando e soppesando soluzioni alternative, e, infine, arrivano a identificare una soluzione.41 Tale stile è appropriato nel caso di questioni complesse generate da malintesi e nella risoluzione di conflitti radicati in sistemi di valori contrapposti. Il principale punto di forza di questo stile consiste nelle soluzioni di lunga durata che esso determina, legate ad aver affrontato i veri problemi sottesi piuttosto che i semplici sintomi apparenti. L’elemento di debolezza principale è legato ai tempi lunghi che esso richiede. Premuroso “Una persona premurosa mette in secondo piano le sue preoccupazioni in favore di quelle dell’altra parte.”42 Tale stile, spesso definito come quello dell’appianatore, implica la minimizzazione delle differenze e la valorizzazione dei punti in comune. Esso può essere considerato una strategia adeguata per la gestione del conflitto nel caso in cui sia eventualmente possibile ottenere qualcosa in cambio; è, d’altro canto, inadeguata nel caso di problemi più complessi e gravi. Il suo punto di forza principale sta nella valorizzazione della collaborazione;43 il punto debole è che spesso arriva a una soluzione temporanea. Dominante Un alto grado di preoccupazione per sé contro un basso di grado di preoccupazione per gli altri favorisce tattiche del tipo “io vinco, tu perdi”. I bisogni dell’altra parte vengono ampiamente ignorati. Tale stile viene spesso chiamato coercitivo, perché si basa sull’autorità formale che costringe all’obbedienza. Lo stile dominante è adeguato quando è necessario attuare una soluzione impopolare, il problema passa in secondo piano, la scadenza è vicina oppure incombe una crisi. Non è adeguato nell’ambito di un clima aperto e partecipativo; il suo punto di forza è la rapidità, la principale debolezza sta nel fatto di essere spesso causa di risentimento. È interessante notare come il Centro Nazionale per le Donne in Polizia citi la diffusione di questo stile come una delle ragioni a favore di un maggior inserimento di personale femminile, in quanto più orientato a capacità comunicative e di negoziazione diverse.44 Propenso a evitare il conflitto Questo stile può determinare sia un allontanamento dal problema, sia un’attiva sospensione del problema in questione. Questo tipo di approccio è adeguato nel caso di questioni di scarso rilievo o in cui i costi del confronto si bilanciano con i vantaggi che potrebbero derivare dalla risoluzione del conflitto. Non è adeguato nel caso di problemi difficili o con tendenza al peggioramento. Il punto di forza consiste nel far guadagnare tempo in situazioni ambigue o ancora in evoluzione. La debolezza sta nel procurare una soluzione temporanea che non affronta il reale problema soggiacente. Favorevole al compromesso Si tratta di un approccio che comporta un dare-e-ricevere, caratterizzato da un moderato grado di preoccupazione per sé e per gli altri. Un com-

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promesso è appropriato nel caso in cui le parti mirino a obiettivi opposti o dispongano dello stesso grado di potere. Non si tratta, invece, di una scelta adeguata nel caso in cui porti a un’azione inconcludente (ad esempio il fallimento nel rispetto di importanti scadenze). Il principale punto di forza di tale tattica di carattere democratico è data dal fatto di non generare perdenti, ma anch’essa porta a una soluzione temporanea che può soffocare un problem solving di carattere creativo.

Intervento da parte di terzi In un mondo perfetto le persone cercherebbero di evitare il conflitto e gestirebbero quelli in corso in modo diretto e con positività, ma questo è appunto un sogno. Nelle dinamiche politiche delle organizzazioni possiamo trovarci nel ruolo di involontari (e spesso impreparati) terze parti nel conflitto di altri. Perciò è importante conoscere le dinamiche della triangolazione nel conflitto e alcune tecniche alternative di risoluzione, argomento principale di questa sezione del capitolo.

Triangolazione del conflitto: parti in conflitto tra loro coinvolgono una terza persona invece di gestire la situazione attraverso un confronto reciproco

Risoluzione alternativa del conflitto: evitare costose azioni legali risolvendo i conflitti in modo informale o con l’intervento di mediatori e arbitri

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Triangolazione del conflitto Immaginate questa situazione: nel bel mezzo di una giornata piena di impegni venite interrotti dalla vostra vicina di ufficio, che inizia a parlarvi dei suoi problemi con un collega dal carattere particolarmente difficile, chiedendovi di aiutarla a risolvere la faccenda. Ecco un classico esempio di triangolazione del conflitto, che “si viene a creare quando due persone hanno un problema e, invece di risolverlo parlando direttamente tra loro, una delle due coinvolge una terza persona”.45 Come vedremo nel capitolo 15, quando parleremo di politiche organizzative, i collaboratori hanno la tendenza a formare coalizioni politiche quando il potere ha una valenza numerica. Nelle moderne organizzazioni si tratta di una situazione molto comune, spesso deleteria. Il problema è: come comportarsi in questi casi? Stando a quanto affermano gli esperti in materia, chi si trova coinvolto in una triangolazione del conflitto ha a sua disposizione una vasta gamma di scelte. La figura 13-5 ci mostra come una risposta, in questi casi, possa sfociare in un conflitto funzionale o patologico. Le opzioni preferite, la numero 1 e la 2, chiamate detriangolazione, implicano che la terza parte incanali l’energia dei contendenti/litiganti positivamente in un confronto reciproco. È importante che la parte terza, nelle opzioni 1 e 2, eviti di prendere le parti di una delle due coalizioni. Le opzioni comprese tra la 3 e la 8 possono far scivolare verso un’ulteriore controproducente triangolazione. Le implicazioni politiche ed etiche, inoltre, si moltiplicano quando si adottano l’opzione 3 o le successive. Risoluzione alternativa del conflitto I conflitti tra colleghi, tra collaboratori e datori di lavoro e tra le aziende, si trascinano troppo spesso in estenuanti battaglie in tribunale. Negli ultimi anni ha guadagnato considerevole popolarità un approccio definito come risoluzione alternativa del conflitto.46 Gli show televisivi, diffusi un po’ in tutto il mondo, che imitano lo stile dei tribunali popolari operanti al di fuori del formale sistema giudiziario, fanno in effetti parte di quella tendenza, definita da uno scrittore con l’espressione “giustizia fai da te”.47 Secondo una coppia di avvocati canadesi del lavoro, la risoluzione alternativa del conflitto “ricorre non tanto ai tradizionali approcci antagonistici (quali un processo decisionale unilaterale o una causa giudiziaria), quanto

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310 Figura 13-5 Opzioni di intervento per le parti terze nella gestione del conflitto Fonte: la lista delle opzioni è tratta da P. Ruzich,“Triangles: Tools for Untangling Interpersonal Messes,” HR Magazine, luglio 1999, p. 134.

Detriangolazione (meno politica; basso rischio di un conflitto patologico)

Maggiore triangolazione (più politica; alto rischio di un conflitto patologico)

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1. Dirottare le lamentele incoraggiando chi le esprime a trovare modi per esporre, in modo costruttivo il problema al destinatario. Non assumere il ruolo di ambasciatore. 2. Agevolare un incontro tra i due litiganti perché discutano del problema in modo diretto e costruttivo. 3. Trasmettere, parola per parola, quanto affermato dal mittente includendo nel messaggio il suo nome, e suggerire al destinatario modi costruttivi per discutere della faccenda con il mittente. 4. Trasmettere parola per parola quanto affermato dal mittente, evitando però di rivelarne il nome. 5. Attenuare il messaggio da trasmettere al fine di proteggere il mittente. 6. Aggiungere commenti personali al messaggio da trasmettere al fine di proteggere il mittente. 7. Non fare nulla. I litiganti coinvolgeranno qualcun altro. 8. Non fare nulla e diffondere la voce. Sarete voi a creare triangoli con altre parti.

a metodi di uso più familiare e più rapido”.48 Le tecniche legate a tale approccio, di seguito riportate, rappresentano una serie di passi in successione utili alle parti terze per aiutare la risoluzione dei conflitti organizzativi.49 Sono messe in ordine dalla più semplice e meno dispendiosa a quella più difficile e onerosa. Sono sempre di più le organizzazioni che applicano politiche formali di risoluzione alternativa delle controversie che implicano una sequenza stabilita di varie combinazioni di tali tecniche: • Facilitazione. Una terza parte, di solito un manager, insiste formalmente affinché le parti in causa discutano direttamente della questione in maniera positiva e costruttiva. Come accennato in precedenza questa tecnica può essere intesa come una forma di detriangolazione. • Conciliazione. Una terza parte, che si mantiene in una posizione di neutralità, si presta come filo conduttore di comunicazione informale tra le parti in causa. Tale tecnica vale nel caso in cui le due parti coinvolte si rifiutino di incontrarsi faccia a faccia. L’obiettivo immediato è quello di stabilire una comunicazione diretta puntando al fine ultimo di trovare punti di incontro comuni e una soluzione costruttiva. • Supervisione da parte dei pari. Un gruppo di colleghi di fiducia, scelti per la loro obiettività, ascoltano, durante un incontro confidenziale e informale, entrambe le parti in causa. A seconda della politica di risoluzione alternativa del conflitto, qualunque decisione presa dal gruppo di revisione potrebbe non essere vincolante. La scelta dei membri del gruppo di pari viene fatta spesso girare tra i collaboratori. • Ombudsman (“difensore civico”). Figura che lavora nell’organizzazione, gode di grande rispetto e fiducia da parte dei collaboratori, ascolta i motivi di risentimento in forma confidenziale e cerca di trovare una soluzione. Tale approccio, di uso più

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comune in Europa piuttosto che in Nord America, permette all’individuo di ricevere un aiuto senza dover dipendere dalla formale catena di gerarchie. • Mediazione. “Il mediatore – una terza parte addestrata e neutrale – aiuta attivamente le due parti in causa nell’esplorazione di soluzioni innovative del conflitto. Sebbene le aziende dispongano di mediatori interni opportunamente addestrati alle tecniche di risoluzione alternativa, molte ricorrono anche a mediatori esterni che non hanno legami con la compagnia.”50 Diversamente da un arbitro, un mediatore non fornisce una decisione da prendere; spetta ai due litiganti il raggiungimento di una decisione reciprocamente accettabile. • Arbitrato. Le parti in causa dichiarano in anticipo di voler accettare la decisione neutrale di un arbitro presa nell’ambito di un ambiente simile a un tribunale formale, spesso completata dalla presentazione di prove e testimonianze. La partecipazione a tale forma di risoluzione alternativa del conflitto può essere volontaria o obbligatoria, sempre in base alle strategie aziendali o ai contratti sindacali.51 Le affermazioni sono confidenziali; le decisioni si basano su elementi giuridici. Gli arbitri addestrati, provenienti di solito da agenzie esterne come la American Arbitration Association, sono esperti legali e hanno esperienza di gestione di casi simili.52

Lezioni pratiche dalla ricerca sui conflitti Studi di laboratorio, che hanno avuto come oggetto studenti di college, hanno dato, in merito al conflitto organizzativo, i seguenti risultati: • Persone con uno spiccato bisogno di affiliazione tendevano a utilizzare uno stile appianatore (premuroso) evitandone uno coercitivo (dominante).53 I tratti della personalità, pertanto, influiscono sul modo in cui le persone gestiscono il conflitto. • Un disaccordo espresso in modo arrogante e degradante ha prodotto una quantità considerevolmente maggiore di effetti negativi rispetto a uno espresso in modo ragionevole.54 In altre parole, le modalità di espressione del disaccordo sono molto importanti nelle situazioni di conflitto. • Minacce e punizioni da parte di una delle persone coinvolte nel disaccordo tendevano a determinare un’intensificazione delle minacce e delle punizioni da parte dell’altra.55 In sintesi, l’aggressione genera aggressione. • Con l’intensificazione del conflitto si è verificato un calo della soddisfazione nel gruppo. Uno stile integrativo della gestione del conflitto ha portato a una maggiore soddisfazione del gruppo di quanto non abbia fatto uno stile che tende a evitare il problema.56 • Aziende aventi politiche di arbitraggio vincolanti o obbligatorie sono state viste meno favorevolmente rispetto ad aziende che non ricorrevano a tali strategie.57 A quanto pare politiche di arbitraggio obbligatorie o vincolanti rappresentano un fastidio per persone che non amano l’idea di dover essere costretti a fare qualcosa. Studi mirati coinvolgenti manager e organizzazioni reali hanno portato alle seguenti conclusioni:

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• Sia i conflitti all’interno dei sottosistemi organizzativi che quelli tra sottosistemi diminuiscono all’aumentare della difficoltà degli obiettivi e della chiarezza con cui sono comunicati. Di conseguenza obiettivi chiari e stimolanti possono diminuire la conflittualità. • Alti livelli di conflitto tendono a erodere la soddisfazione professionale e la motivazione intrinseca al lavoro.58 • Donne e uomini che occupano la stessa posizione a livello manageriale tendevano a gestire il conflitto in modo simile; quindi non vi sono differenze rilevanti in relazione al genere.59 • Nel caso di una scuola pubblica, è stato notato che il conflitto tendeva a spostarsi in parti diverse dell’organizzazione.60 I manager, pertanto, devono essere consapevoli del fatto che il conflitto spesso ha origine in un’area o in un livello dell’organizzazione per mostrarsi poi da qualche altra parte. Se si desidera raggiungere un miglioramento duraturo è necessario risalire alle origini reali del conflitto. • Manager giapponesi, tedeschi e americani, provenienti dagli stessi contesti di conflitto, hanno optato per tecniche risolutive differenti. I manager tedeschi e giapponesi non condividevano l’entusiasmo degli americani nell’integrare gli interessi di tutte le parti. I giapponesi, per avere delle direttive, tendevano a fare riferimento ai propri manager, mentre i tedeschi si sono mostrati maggiormente legati a regole e procedure. Nella risoluzione di un conflitto interculturale non esiste un approccio migliore di altri. Le preferenze culturalmente specifiche devono essere prese in considerazione prima di avviare un processo di risoluzione del conflitto che comporti persone provenienti da culture diverse.61

Negoziazione Negoziazione: processo di dare-e-avere in atto tra parti interdipendenti coinvolte in un conflitto

Formalmente la negoziazione è definita come un processo decisionale di dare-e-avere che coinvolge parti interdipendenti caratterizzate da preferenze diverse.62 Gli esempi più comuni includono le negoziazioni tra lavoratori e imprese riguardanti i salari, gli orari e le condizioni di lavoro, o le negoziazioni tra fornitori e clienti riguardano i prezzi, i tempi di consegna e i termini di pagamento. Anche i team autogestiti con lavori non chiaramente suddivisi e sovrapposizioni di ruoli devono cercare accordi al proprio interno. Da queste considerazioni consegue che oggi più che mai le capacità di negoziazione siano molto importanti.63 In un recente sondaggio condotto su 3.600 professionisti assunti in 18 paesi, solo il 52% ha risposto affermativamente alla domanda: “Avete mai chiesto o negoziato un aumento di stipendio?”64

Due tipi di negoziazione Gli esperti in materia distinguono due tipi di negoziazione – quella distributiva e quella integrativa. Per capirne le differenze è necessario rivedere il tradizionale modo di pensare:

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Una negoziazione distributiva comporta una sorta di “torta fissa” dalla quale qualcuno trae porzioni maggiori a spese dell’altro. Contrattare sul prezzo di un tappetino a un bazar è un esempio di negoziazione distributiva. Nella maggior parte dei conflitti, tuttavia, vi è più di un argomento da discutere e ciascuna parte attribuisce a essi un valore diverso. I risultati a disposizione non sono quindi una torta fissa da dividere tra tutte le parti in causa. Si può scoprire un accordo migliore per entrambe le parti di quanto non sarebbe stato quello raggiunto passando attraverso una negoziazione distributiva. In questo caso si tratta di negoziazione integrativa. Le parti coinvolte in una negoziazione, tuttavia, non considerano vantaggiose tali soluzioni perché ciascuna di esse presuppone che i suoi interessi siano direttamente in conflitto con quelli dell’altra parte. “Ciò che è positivo per l’altra parte è sicuramente negativo per noi” è una prospettiva purtroppo diffusa tra la maggior parte delle persone. Questo è il tipo di impostazione mentale definito come “mito della torta fissa”.65

La negoziazione distributiva implica il tradizionale pensiero “win-lose”. La negoziazione integrativa richiede una strategia progressiva “win-win”.66 In uno studio di laboratorio relativo a negoziazioni per joint venture, i team formati alle tattiche integrative, diversamente da quelli privi di formazione, hanno ottenuto risultati migliori in entrambe le situazioni.67 I negoziatori nord americani sono generalmente troppo orientati a breve termine e non sanno costruire rapporti duraturi come i negoziatori asiatici, latino americani o medio orientali.68 La negoziazione che crea valore aggiunto, illustrata in figura 13-6, è un approccio integrativo che può contribuire a superare questi ostacoli.

Insidie di carattere etico nella negoziazione Il successo di una negoziazione integrativa, così come il valore aggiunto della negoziazione, dipende in gran parte dalla qualità delle informazioni scambiate.69 Dichiarare il falso, nascondere elementi chiave o impegnarsi nelle altre tattiche, potenzialmente non etiche, elencate nella tabella 13-3, può minare la fiducia e la buona volontà, entrambi fattori fondamentali nelle negoziazioni “win-win”.70 Essere a conoscenza di tali “sporchi trucchi” può aiutare i negoziatori in buona fede a non farsi ingannare o manipolare.71 Le tattiche di negoziazione non etiche dovrebbero essere esplicitate nei codici etici delle organizzazioni.

Gestione del conflitto e negoziazione: un approccio contingente Esistono tre principi che guidano il modo in cui un conflitto organizzativo dovrebbe essere gestito. Innanzitutto è inevitabile che esistano diversi tipi di conflitto, perché le cause sono molteplici. In secondo luogo, l’assenza di conflitti può essere tanto controproducente quanto una loro eccessiva presenza. In terzo luogo, non esistono modalità in assoluto migliori di altre per affrontare o risolvere i conflitti; di conseguenza gli esperti raccomandano un approccio contingente, ossia adeguato alle circostanze specifiche. È necessario per la gestione dei conflitti conoscere e monitorare gli antecedenti e le con-

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Insieme

Separatamente Passo 1: chiarimento degli interessi • Identificare i bisogni tangibili e non tangibili

• Discutere i rispettivi bisogni • Trovare punti in comune per la negoziazione

Passo 2: identificazione delle opzioni • Identificare gli elementi di valore (per esempio proprietà, denaro, comportamento, diritti, rischi)

• Creare un mercato del valore discutendo sui rispettivi elementi di valore

Passo 3: progettazione di pacchetti di accordi alternativi • Mescolare e abbinare gli elementi di valore nelle varie combinazioni possibili • Pensare in termini di accordi multipli

• Identificare e scambiare soluzioni differenti

Passo 4: selezione di un accordo . • Analizzare i pacchetti proposti dall’altra parte

• Discutere e selezionare tra i pacchetti attuabili • Pensare in termini di accordo creativo

Passo 5: accordo perfetto • Discutere le questione irrisolte • Sviluppare un accordo per iscritto • Costruire rapporti per negoziazioni future

Figura 13-6 Un approccio integrativo: negoziazione a valore aggiunto Fonte: adattato da K. Albrecht e S. Albrecht, “Added Value Negotiation,” Training, aprile 1993, pp. 26-29.

seguenze che essi possono avere. Inoltre, se si riscontra una palese scarsità di conflitti, situazione accompagnata spesso da una certa apatia o mancanza di creatività, è necessario stimolare dei conflitti funzionali. Si può fare questo alimentando adeguati antecedenti al conflitto o programmarne uno ricorrendo a tecniche come quella dell’avvocato del diavolo e del metodo dialettico. Quando invece il conflitto diventa patologico, è necessario attuare uno stile di gestione del conflitto appropriato. Una formazione molto realistica, che implichi l’utilizzo di role playing, può permettere ai manager di sperimentare stili di gestione del conflitto alternativi. I manager possono evitare di essere troppo coinvolti nel conflitto cercando di applicare quattro suggerimenti scaturiti da ricerche recenti: (1) stabilire obiettivi stimolanti e chiari, (2) esprimere il proprio disaccordo in modo costruttivo e ragionevole, (3) non lasciarsi coinvolgere in triangolazioni del conflitto e (4) rifiutarsi di essere trascinati

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Tabella 13-3 Tattiche di negoziazione discutibili/eticamente controverse Tattica

Descrizione/chiarimento/ambito

Menzogne

Le argomentazioni per le menzogne possono includere limiti, alternative, l’intento del negoziatore, l’autorità a contrattare, altri impegni, l’accettazione delle offerte degli oppositori, pressioni sui tempi e sulle risorse disponibili. Tra gli elementi che possono essere “gonfiati” sono inclusi il valore dei risultati di un individuo rispetto alla controparte, le alternative personali del negoziatore, i costi delle rinunce o di quanto si sia disposti a cedere, questioni importanti, e le qualità dei prodotti e dei servizi Azioni e affermazioni possono includere promesse o minacce, richieste iniziali eccessive, riferimenti di fatti poco accurati o la richiesta non desiderata di concessioni. Il negoziatore, in questo caso, può eliminare alcune alternative proposte dall’avversario, incolparlo per azioni da lui commesse, ricorrere ad affermazioni personali demonizzatrici nei suoi confronti o indebolirne le alleanze. Tale tattica implica la costruzione delle proprie risorse compresa una cerchia di esperti, di supporti finanziari e di alleanze. Include altresì l’esposizione, all’avversario o parte terza, di una serie di ragionamenti persuasivi (per esempio: il pubblico, i mass media) o il conseguimento di incarichi per una determinata posizione. Include un rivelamento parziale di fatti, non rivelare fatti nascosti, non correggere fraintendimenti o ignoranza degli avversari e tenere nascosta la propria posizione o circostanze rilevanti. Informazioni ottenute dagli avversari possono essere usate per sfruttare le loro debolezze, limitare le loro alternative, avanzare richieste nei loro confronti o indebolire le loro alleanze. Implica l’accettazione di offerte inizialmente rifiutate, cambiare richieste, rimangiarsi la promessa di offerte fatte e avanzare minacce in merito a promesse non fatte. Include, altresì, il manifestarsi di un comportamento diverso da quello previsto. Tali azioni o affermazioni possono semplicemente consistere in un’eccessiva distribuzione di informazioni all’avversario, porre molte domande, eludere le risposte, o occultare aspetti rilevanti. Possono anche essere più sofisticate come simulare debolezza in una particolare area, in modo che l’avversario si concentri su di essa, ignorando altri aspetti rilevanti.. Implica la richiesta all’avversario di fare concessioni che risultino un guadagno del negoziatore e una perdita uguale o maggiore dell’avversario. Implica inoltre la conversione della situazione da una basata su un modello “win-win” a una “win-lose”.

Esagerazioni

Raggiri Indebolimento dell’avversario Consolidamento della propria posizione Omissione Sfruttamento dell’informazione Cambiamento di opinione Distrazione

Massimizzazione

Fonte: H.J. Reitz, J.A. Wall, Jr, e M.S. Love, “Ethics in Negotiation: Oil and Water or Good Lubrication?” Business Horizons, maggio-giugno 1998, p. 6. Ristampa dietro concessione. Copyright © 1998 by the Board of Trustees at Indiana University, Kelley School of Business.

in spirali emotive nelle quali l’aggressività non contenuta potrebbe generare ulteriore aggressività. L’intervento di terzi diventa necessario qualora le parti in causa non siano in grado di impegnarsi in una risoluzione del conflitto o in una negoziazione integrativa. Quest’ultima è, per lo più, appropriata se attuata in conflitti tra gruppi o tra organizzazioni. Il segreto è fare in modo che le parti coinvolte abbandonino uno schema di pensiero prefissato e aspettative basate sulla vittoria di una parte e la sconfitta dell’altra. Inoltre, il fondatore e direttore dell’Harvard International Negotiation Program Daniel Shapiro consiglia ai negoziatori di non rifuggire dalle emozioni perché la razionalità, pur importante, non basta. Occorre tenere in debito conto i seguenti aspetti emotivi essenziali della negoziazione: • Apprezzamento: riconoscere reciprocamente il valore di pensieri, sentimenti e azioni.

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Parte III

I gruppi e i processi sociali

• Affiliazione: trattarsi vicendevolmente come colleghi, non come avversari da tenere a debita distanza. • Autonomia: rispettare la reciproca libertà di prendere decisioni importanti. • Status: riconoscere la reputazione dell’altra persona, invece di considerarla inferiore. • Ruolo: definire ruoli e attività in maniera gratificante.72 Buoni consigli da applicare in ogni contesto della vita quotidiana!

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I processi organizzativi

Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17

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IV

Comunicazione organizzativa nell’era digitale Influenza, empowerment e manovre politiche Leadership Gestione del cambiamento e dello stress

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I social network sono una perdita di tempo? Qualche anno fa sono stato invitato a interessarmi al mondo dei social media dal responsabile marketing che, dimostrando grande acume, si era reso conto della trasformazione culturale in atto. Best Buy ha 180.000 dipendenti, per la maggior parte ventiquattrenni o anche più giovani, motivo per cui molti di loro avevano un profilo su MySpace e altri siti analoghi. Quando ho domandato al responsabile marketing come controllare il fenomeno, la sua risposta è stata: non è possibile controllarlo, bisogna gestirlo! Ben presto ho iniziato a chattare con i collaboratori e i clienti su Facebook ogni sera alle 22.00. A volte mi riusciva difficile vincere la timidezza, perché qualsiasi commento pubblicassi poteva potenzialmente rendermi vulnerabile. L’aspetto più difficile da gestire era però un altro: dopo la mia decisione di dedicare del tempo a questa attività, tutti hanno iniziato a dire la loro senza alcuna ritrosia. L’anno scorso, poi, per un certo periodo il mio account Twitter è stato preso di mira da un hacker e in uno dei miei tweet in sostanza comunicavo a tutti che negli ultimi tempi me la spassavo parecchio a letto. Mi sono sentito violentato, ma non ho perso entusiasmo. Durante questo percorso, ho anche imparato delle lezioni importanti. Bastano 5 o 10 minuti online

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per capire bene e subito qual è l’aria che tira nei nostri negozi. Quando mi imbatto in qualcuno che ha un problema, mi viene spontaneo cercare di risolverlo in prima persona; in una occasione l’ho fatto e sono stato inondato da numerose altre richieste d’aiuto. Il mio lavoro però è un altro. Con oltre 1,5 miliardi di interazioni con i clienti previste, abbiamo messo a punto processi efficaci per essere d’aiuto alla nostra clientela. La cosa migliore che posso fare è quindi indirizzare i clienti a tali risorse, e lo stesso vale per i dipendenti. Ora nel mio ufficio campeggia un grande monitor che riporta tutte le attività in cui figura il nostro nome. Devo sapere che cosa si dice là fuori; non rispondo a tutto, ma sono io a scrivere i miei post pubblicati su Facebook e i miei tweet, nessuno è incaricato di farlo per me. Sono io il responsabile di quello che dico online e mi aspetto che i collaboratori adottino lo stesso approccio. L’unica linea guida che abbiamo fornito è agire nel rispetto dei valori individuali. Ci si può buttare nel mondo dei social media e sentirsi molto a proprio agio nel caos che lo contraddistingue. Abbiamo superato il punto critico. Bisogna essere presenti laddove sono tutti gli altri.1

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Moltiplicando le occasioni di contatto tra gli individui, le moderne tecnologie dell’informazione stanno determinando trasformazioni senza precedenti nel nostro stile di vita. L’esperienza del CEO di Best Buy Brian Dunn consente di farsi un’idea di che cosa sta accadendo nell’ambiente di lavoro. Poiché vivere in un mondo connesso digitalmente 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 determina conseguenze impreviste, positive e negative, è importante comprendere il processo comunicativo soggiacente e il mutare delle dinamiche della comunicazione di pari passo con l’innovazione tecnologica. Consideriamo, per esempio, gli effetti a catena in ambito organizzativo di questo recente utilizzo di Internet mobile: Medtronic, azienda produttrice di dispositivi medici, ha distribuito alla forza vendite oltre 5000 iPad. Il giorno stesso in cui l’innovativo tablet è stato lanciato sul mercato, Medtronic ne ha acquistati dieci e, dopo aver caricato informazioni sui prodotti, li ha posizionati nel suo stand durante un convegno di cardiologia, rubando la scena alla concorrenza. “Ci siamo resi conto subito che dotare la forza vendite degli strumenti giusti ha un importante valore commerciale” afferma il chief information officer di Medtronic Mike Hedges.2

Lo studio della comunicazione assume un’enorme importanza perché tutte le funzioni e attività manageriali implicano qualche forma di comunicazione diretta o indiretta. Sia che pianifichino e organizzino, o che dirigano e guidino, i manager si trovano a comunicare con altri o tramite altre persone. Ciò implica che le capacità comunicative di ciascuno incidono sull’efficacia personale e organizzativa.3 Per esempio, uno studio ha rilevato che il 70% degli “incidenti ospedalieri prevenibili” è causato da una comunicazione carente tra i membri del personale, soprattutto durante il passaggio di consegne.4 Un sondaggio condotto sui dipendenti di 336 organizzazioni ha invece rivelato che il 66% degli intervistati non conosce o non comprende la missione e la strategia dell’organizzazione per la quale lavora e, di conseguenza, si sente meno coinvolto nel proprio lavoro. Questo tipo di problema comunicativo incide negativamente sulla produttività e la qualità del prodotto, arrecando costi del lavoro e turnover più alti.5 Come avrete modo di constatare nel corso del presente capitolo, il modo migliore per comunicare dipende dalle circostanze. Si capirà meglio in che modo i manager riescano sia a migliorare le loro doti comunicative che a ideare programmi di comunicazione più efficaci. Parleremo di (1) le dimensioni di base del processo comunicativo, con particolare riferimento a un modello del processo percettivo, alle barriere a una comunicazione efficace e all’impatto dei social media; (2) la comunicazione interpersonale; (3) la comunicazione organizzativa; (4) la comunicazione nell’era delle tecnologie digitali dell’informazione.

Dimensioni di base del processo comunicativo e impatto dei social media Comunicazione: scambio interpersonale di informazioni e significati

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La comunicazione è definita come “lo scambio di informazioni tra un mittente e un destinatario e la deduzione (percezione) del significato tra le parti coinvolte”.6 I manager che comprendono tale processo sono in grado di analizzare i loro sistemi di comuni-

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cazione nonché di ideare programmi di comunicazione che rispecchino le esigenze dell’organizzazione. La presente sezione riesamina un modello del processo percettivo della comunicazione, passa in rassegna le barriere a una comunicazione efficace e indaga su come i social media stanno modificando la comunicazione.

Un modello di processo percettivo della comunicazione

Modello percettivo della comunicazione: processo nel quale i destinatari si creano il proprio personale significato

Il processo comunicativo è stato descritto, storicamente, mediante un modello “di flusso”. Secondo tale modello tradizionale la comunicazione viene rappresentata come una tubazione nella quale le informazioni e i loro significati si trasmettono da una persona all’altra. Oggi, tuttavia, gli esperti di comunicazione criticano il modello di flusso perché non realistico; tale modello, per esempio, parte dall’assunto che la comunicazione trasmetta, da un individuo all’altro, significati voluti; se ciò fosse vero non esisterebbero fraintendimenti nella comunicazione e non esisterebbe il problema di non essere capiti. Potremmo semplicemente dire o scrivere ciò che vogliamo e presumere che chi ascolta o legge capisca accuratamente ciò che intendiamo comunicare. Come tutti ben sappiamo, comunicare non è così semplice o scontato; la comunicazione è piena di malintesi. Alla luce di tali fatti, i ricercatori hanno iniziato a esaminare la comunicazione come una forma di elaborazione sociale dell’informazione (ricordate, a tal proposito, quanto riportato nel Capitolo 7), durante la quale i destinatari interpretano i messaggi tramite un’informazione elaborata razionalmente. Tale modo di intendere la comunicazione ha portato allo sviluppo di un modello percettivo della comunicazione che descrive quest’ultima come un processo nel quale i destinatari creano, nella loro mente, un significato. Esaminiamo brevemente gli elementi del modello di processo percettivo integrandoli con un esempio. Mittente, messaggio e destinatario Il mittente è l’individuo che desidera comunicare delle informazioni, cioè il messaggio, mentre il destinatario è l’individuo, il gruppo o l’organizzazione cui il messaggio è rivolto. Codifica La codifica consiste nel tradurre un pensiero mentale in un codice o in un linguaggio che può essere capito da altri e costituisce le fondamenta del messaggio. Per esempio, se una docente desidera assegnare un compito ai suoi studenti, deve riflettere su quali informazioni intende comunicare, codificarle in un discorso scritto o parlato e selezionare un mezzo per condividere il messaggio. La scelta delle parole è molto importante: pensate che in inglese, per esempio, esistono oltre 1 milione di parole.7 La scelta di un mezzo di comunicazione I manager possono avvalersi di una varietà di mezzi per comunicare. Tra quelli possibili abbiamo le conversazioni faccia a faccia, le telefonate, la posta elettronica, i messaggi in segreteria telefonica e gli SMS, le videoconferenze, le lettere o i promemoria scritti, le fotografie o i disegni, le riunioni faccia a faccia o virtuali, le bacheche, i dati informatici, le interazioni attraverso i social media, i diagrammi o i grafici. La scelta dei mezzi appropriati dipende da molti fattori, inclusa la natura del messaggio, l’obbiettivo prefissato, il tipo di pubblico e quanto è vicino, l’orizzonte temporale per la diffusione del messaggio, le preferenze e le capacità individuali.

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Tutti i mezzi di comunicazione presentano vantaggi e svantaggi. Le conversazioni faccia a faccia, per esempio, sono utili per la comunicazione di questioni importanti e delicate, che richiedono un feedback e un’interazione intensa. Le telefonate sono comode, rapide e private, ma mancano di informazione non verbale. Sebbene scrivere promemoria o lettere porti via del tempo, rappresenta un mezzo efficace qualora sia difficile incontrarsi con l’altra persona, quando la formalità e un documento scritto siano fattori importanti e quando non sia necessario ricorrere a una interazione faccia a faccia per assicurarsi una maggiore comprensione. Sulla scelta dei mezzi di comunicazione parleremo più approfonditamente nel corso del capitolo. Decodifica e costruzione del significato La decodifica è il processo che avviene quando il destinatario riceve il messaggio, lo interpreta e gli attribuisce un significato. Tornando al nostro esempio, gli studenti decodificano il messaggio ricevuto dalla docente. Diversamente dal presupposto del modello di flusso, in base al quale il significato viene trasmesso direttamente dal mittente, il modello percettivo si basa sulla convinzione che sia il destinatario a elaborare nella sua mente il significato di un messaggio. Consideriamo l’esperienza interculturale di un giornalista del Wall Street Journal incaricato di svolgere un incarico in Cina. Qualche settimana fa ero nella sede asiatica del Journal, in ascensore con una collega cinese. Quando le ho sorriso e l’ho salutata, mi ha detto: “Sei ingrassato”. Avrei potuto stupirmi ma almeno altri tre colleghi cinesi mi hanno detto che sono grasso. Forse dovrei mangiare meno gnocchi di maiale. In Cina, un commento così personale da parte di un collega non è necessariamente un insulto. Probabilmente è solo una dimostrazione di cordialità.8

L’esempio mette in luce che la decodifica e la creazione del significato sono influenzate da norme e valori culturali. Feedback Quante volte, quando siete al telefono, avete l’impressione che la comunicazione si sia interrotta? Generalmente lo scambio di battute è pressappoco questo: “Sei ancora lì? Mi senti?” L’altro risponde: “Sì, ma ti sento a tratti.” Questo è un esempio di feedback: il mittente ottiene una reazione di qualche tipo dal destinatario. Disturbo Il disturbo rappresenta qualunque cosa vada a interferire con la trasmissione e la comprensione del messaggio e può influenzare qualsiasi fase del processo comunicativo. Questa definizione ampia del disturbo include fattori come difficoltà nel parlare o accenti particolari, linee telefoniche mal funzionanti, grafie illeggibili, fotocopie poco chiare, statistiche imprecise, menzogne, rumori di sottofondo, udito o vista scarsi e la distanza fisica tra mittente e destinatario. La figura 14-1 mostra un esempio di modello di processo percettivo della comunicazione. Notate la natura ciclica dello scambio di significati: il mittente diventa destinatario e così via.

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Figura 14-1 Il processo di comunicazione

Incontriamoci in biblioteca per studiare insieme

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2. Il messaggio viene trasmesso attraverso un mezzo (per esempio, SMS)

Quale biblioteca? Quale delle due materie che seguiamo insieme pensavi di studiare?

Disturbo (interferenze di qualsiasi tipo)

1. Il mittente codifica un messaggio e seleziona un mezzo di comunicazione (per esempio il telefono cellulare)

4. Il destinatario invia un feedback attraverso un mezzo (per esempio, SMS)

3. Il destinatario decodifica il messaggio e ritiene opportuno fornire un feedback

Barriere a una comunicazione efficace Le componenti essenziali di un processo comunicativo efficace sono due: il mittente deve comunicare con precisione il messaggio desiderato, altrimenti è improbabile che sarà compreso, e il destinatario deve percepire e interpretare il messaggio con altrettanta precisione. Qualsiasi elemento che si frapponga alla trasmissione e ricezione corretta di un messaggio rappresenta una barriera a una comunicazione efficace. Alcune barriere fanno parte del processo di comunicazione stesso (vedi tabella 14-1). La comunicazione non può andare a buon fine nel caso in cui una fase qualsiasi del processo venga disturbata o interrotta. In linea più generale, le barriere che possono ostacolare il processo comunicativo sono tre: (1) barriere personali, (2) barriere fisiche e (3) barriere semantiche. Tabella 14-1 Potenziali barriere alla comunicazione legate al processo comunicativo • Barriera del mittente (per esempio, dimenticare o avere timore di inviare un messaggio, posticipare l’invio di un messaggio difficile). • Barriera della codifica (per esempio, capacità linguistiche mediocri, scelte lessicali inadeguate, pronuncia incomprensibile). • Barriera del mezzo (per esempio, trasmissione difettosa, batteria scarica su dispositivi wireless, linea occupata, rumori di sottofondo, guasto della rete informatica). • Barriera della decodifica (per esempio, capacità linguistiche mediocri, segnali contrastanti da messaggi verbali e non verbali, incapacità di comprendere battute di spirito, espressioni gergali e termini tecnici). • Barriera del ricevente (per esempio, mancata ricezione del messaggio, non disponibilità a ricevere il messaggio, forte reazione emotiva al messaggio). • Barriera del feedback (per esempio, inespressività, mancanza di una risposta scritta o orale, segnali contrastanti da messaggi verbali e non verbali).

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Barriere personali Vi è mai capitato di comunicare con qualcuno e provare un tale senso di smarrimento da domandarvi se dipenda da voi oppure dal vostro interlocutore? Le barriere personali sono rappresentate da attributi individuali che possono ostacolare la comunicazione. Esaminiamo di seguito nove barriere personali piuttosto comuni che possono determinare una cattiva comunicazione. 1. Capacità individuali di comunicare efficacemente. Alcuni individui sono più bravi a comunicare rispetto ad altri. Magari conoscono una o più lingue straniere,9 sono dotati di capacità espressive e di ascolto e sanno usare la gestualità per determinare un impatto maggiore. Inoltre, scelgono il lessico adeguato ai destinatari, possiedono buone capacità di scrittura per comunicare i concetti in forma concisa e chiara e sono dotati delle capacità sociali necessarie per mettere a proprio agio gli altri. Coloro che non possiedono tali capacità possono coltivarle e potenziarle attraverso la pratica.10 2. Variazioni nel modo in cui le informazioni vengono elaborate e interpretate. Siete cresciuti in campagna o in città? Avete frequentato le scuole pubbliche o le scuole private? Siete stati stimolati dai vostri genitori a contribuire alle faccende domestiche oppure a praticare sport? Siete cresciuti in un ambiente tranquillo o litigioso? I fattori cui fanno riferimento queste domande sono importanti perché contribuiscono a plasmare gli schemi di riferimento e le esperienze cui ciascun individuo ricorre per interpretare il mondo. Come abbiamo visto nel Capitolo 7, gli individui dedicano un’attenzione selettiva alla molteplicità di stimoli che ricevono a seconda del proprio schema di riferimento individuale. Tali differenze possono quindi incidere sull’interpretazione di ciò che vediamo e sentiamo. 3. Variazioni nel livello di fiducia interpersonale. Nel Capitolo 11 abbiamo visto in che misura la fiducia influenza i rapporti interpersonali. È più probabile che una comunicazione venga alterata quando non vi è fiducia reciproca fra le persone.11 Una carenza di fiducia può indurre ad adottare un atteggiamento difensivo e a mettere in discussione i contenuti comunicati, distogliendo l’attenzione dal messaggio. 4. Stereotipi e pregiudizi. Nel Capitolo 7 abbiamo visto che i pregiudizi sono convinzioni semplicistiche riguardo determinati gruppi di persone; potenzialmente distorcono la comunicazione perché possono indurre gli individui a percepire male o filtrare le informazioni.12 È importante conoscere gli stereotipi cui si è soggetti ed essere consapevoli del loro effetto inconscio sui messaggi inviati agli altri e sull’interpretazione dei messaggi ricevuti. 5. Ego ipertrofico. Per orgoglio, eccessiva sicurezza di sé, consapevolezza di avere migliori capacità o arroganza, il nostro ego può rappresentare una notevole barriera alla comunicazione. Un ego troppo sviluppato può essere causa di battaglie politiche, guerre territoriali, corse per il potere, per il prestigio e per le risorse. L’ego determina il modo in cui le persone si trattano reciprocamente, nonché la nostra apertura a subire l’influenza di altri. Se vi è mai capitato di essere messi in ridicolo oppure di subire atti di bullismo in pubblico, probabilmente sapete bene in che misura i sentimenti legati all’ego possono incidere sulla comunicazione. 6. Scarse capacità di ascolto. Quante volte durante una lezione un vostro compagno di corso ha posto una domanda cui era già stata data risposta? Oppure, quante volte vi è capitato di incontrare una persona con un basso livello di auto-osservazione (vedi Capitolo 5) che parla solo di sé e mostra ben poco interesse nei vostri confronti?

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Se l’interlocutore non ascolta, è molto difficile che la comunicazione sia efficace. Esamineremo le capacità di ascolto nel prosieguo del capitolo. 7. Naturale tendenza a valutare o giudicare il messaggio di un mittente. Immaginate il possibile scambio di battute con un amico dopo essere stati al cinema insieme: “Ti è piaciuto il film?”; “Molto, è il film più bello dell’anno!”; “Lo penso anch’io”, oppure: “Mah, io mi sono addormentato tre volte…”. Scopo di questo esempio è dimostrare che, come evidenziato dal rinomato psicologo Carl Rogers, tutti abbiamo una naturale tendenza a valutare i messaggi secondo il nostro punto di vista o schema di riferimento, soprattutto quando siamo molto coinvolti nell’argomento.13 8. Incapacità di ascoltare comprendendo. L’ascolto volto a comprendere si ha quando il destinatario è in grado “di capire l’idea espressa e l’atteggiamento partendo dal punto di vista dell’altro, di percepire che cosa significhi per lui, di acquisire la sua cornice, il suo schema di riferimento in merito a ciò di cui parla”.14 Cercate sempre di ascoltare comprendendo perché, così facendo, adotterete un approccio meno difensivo e potrete migliorare le vostre capacità di comprendere accuratamente i messaggi. 9. Comunicazione non verbale. Il processo comunicativo acquista in efficacia quando le espressioni del viso e la gestualità sono coerenti con lo scopo del messaggio. Aspetto interessante, spesso le persone non sono consapevoli dei messaggi non verbali che comunicano. Approfondiremo questo importante aspetto della comunicazione nel seguito del capitolo. Barriere fisiche: rumori, vincoli temporali e spaziali, e non solo Immaginate di parlare al telefono cellulare mentre vi trovate in una zona molto trafficata e siete circondati da persone che parlano ad alta voce. In questa situazione emergono diverse barriere fisiche alla comunicazione, tra cui figurano anche le eventuali differenze di fuso orario, la qualità della linea telefonica, la distanza dagli interlocutori o i guasti alla rete informatica. La disposizione degli uffici può rappresentare un’altra barriera fisica, motivo per cui un numero crescente di organizzazioni si affida a esperti in grado di progettare spazi che favoriscano la libera interazione e, all’occorrenza, la privacy.

Semantica: lo studio delle parole e del loro significato

Gergo: linguaggio, acronimi e terminologia specifici di una professione, un gruppo o un’azienda

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Barriere semantiche: quando le parole contano Se il vostro capo dice “Dobbiamo completare subito questo progetto”, che cosa intende comunicarvi? Il “noi” implicito nella sua affermazione si riferisce solo a voi, a voi e ai vostri colleghi oppure a voi, ai vostri colleghi e a se stesso? “Subito” significa oggi, domani o la settimana prossima? Questi sono esempi di barriere semantiche. La semantica è lo studio delle parole e del loro significato. Le barriere semantiche emergono più spesso nell’economia globalizzata odierna, data la crescente diversità della forza lavoro e il ricorso sempre più comune all’outsourcing di alcune mansioni all’estero. Il gergo e i termini in voga rappresentano un’altra tipologia di barriera semantica. Il gergo è dato dal linguaggio, gli acronimi e la terminologia specifici di una professione, un gruppo o un’azienda. In una società tecnologicamente avanzata e a corto di tempo come quella attuale, si tende a ricorrere agli acronimi sempre più spesso (per esempio, “Contattami ASAP”, dove ASAP sta per “as soon as possible”, prima possibile). Si assiste spesso anche all’uso di parole inflazionate che diventano una forma di eufemismo nella lingua scritta e parlata (per esempio, se un

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economista afferma “In fin dei conti, ciò che emerge è una carenza di visione da parte dell’esecutivo” intende dire “Il governo non sa come gestire la politica economica”). Parole o espressioni che per voi appartengono alla lingua comune potrebbero risultare oscure a persone esterne o non specialisti. Se vogliamo farci capire, dobbiamo scegliere bene le parole e adeguare i nostri messaggi alla situazione e agli schemi di riferimento del destinatario.15

L’impatto dei social media sulla comunicazione Come abbiamo visto nel Capitolo 10, social media come Facebook, Twitter, YouTube e LinkedIn stanno sfumando i confini tra gruppi formali e informali negli ambienti di lavoro. In termini più generali, i social media stanno significativamente alterando la comunicazione organizzativa e la vita lavorativa nel suo insieme. Per esempio, “circa il 28% degli studenti universitari ha in mente di cercare lavoro usando LinkedIn, con un notevole incremento rispetto al 5% [del 2010] … Gli studenti scoprono tutto sui potenziali datori di lavoro visitandone i siti web, ricevendo gli aggiornamenti su Facebook e Twitter e visionando i profili LinkedIn”.16 Due importanti conseguenze associate ai social media, alimentati da contenuti generati dall’utente, sono: (1) accesso personale immediato a informazioni provenienti da tutto il mondo e non filtrate e (2) empowerment dal basso verso l’alto. Implicazioni manageriali I manager non possono permettersi di ignorare o sottovalutare la rapidità e il potenziale di empowerment dal basso verso l’alto dei social media se non vogliono essere colti impreparati dalle correnti contrarie interne ed esterne. I contenuti dei social media interni possono racchiudere tempestivi campanelli d’allarme rispetto a problemi legati al morale dei dipendenti o alla gestione delle risorse umane come molestie sessuali, fuga di informazioni privilegiate, abuso di Internet e dei social media, decadenza etica e rancori. Il monitoraggio dei social media esterni può essere utile invece per aggiornarsi sui reclami e le reazioni dei consumatori, sulle minacce concorrenziali emergenti e sui potenziali insuccessi nella gestione legale o delle relazioni pubbliche. Data l’importanza, nel seguito del capitolo ci soffermeremo sulle politiche organizzative in merito all’uso dei social media.

Comunicazione interpersonale

Competenza comunicativa: capacità di ricorrere in modo efficace a comportamenti comunicativi in un determinato contesto

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Nell’ambito di un’organizzazione, la qualità della comunicazione interpersonale è più importante che mai. Secondo i ricercatori, le persone dotate di buone doti comunicative hanno aiutato gruppi a prendere decisioni più innovative e sono state promosse con più frequenza rispetto agli altri.17 La competenza comunicativa può essere definita come la capacità di comunicare efficacemente in situazioni specifiche. La business etiquette, ad esempio, è una componente di tale competenza comunicativa.18 La competenza comunicativa si articola in una molteplicità di capacità e abilità comunicative; in questa sede concentreremo la nostra attenzione su cinque in particolare, che si possono controllare: l’assertività, l’aggressività e la non assertività, la

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comunicazione non verbale e l’ascolto attivo. Concluderemo la sezione esaminando le differenze di genere nella comunicazione.

Assertività, aggressività e non assertività La tabella 14-2 descrive gli stili di comunicazione assertivo, aggressivo e non assertivo, identificando i relativi modelli di comportamento verbale e non verbale. Spesso capita che ci venga chiesto di fare qualcosa che non vorremmo. Immaginate che un compagno di corso vi chieda di lasciargli copiare il compito, oppure che qualcuno cerchi di convincervi ad acquistare un prodotto che non vi serve. In entrambi i casi, l’obiettivo di comunicazione è dire di no in maniera assertiva. Di seguito, trovate una serie di consigli per imparare a dire no. • Non sentitevi obbligati a dare una risposta immediata; chiedete del tempo per pensarci. • Siate onesti e prendete la parola dicendo no. È più semplice restare fermi nella propria posizione quando si dice subito esplicitamente di no. • Usate comportamenti non verbali assertivi per sottolineare le vostre parole. Per esempio, scuotete la testa in segno di diniego o guardare dritto negli occhi il vostro interlocutore mentre dite no, senza però mostrare uno sguardo fisso e truce. • Usate comportamenti verbali assertivi. Dite no con un tono di voce fermo e diretto. Iniziate le frasi con “Io” quando è necessaria maggiore enfasi, per esempio “Io non Tabella 14-2 Stili di comunicazione Stili di comunicazione

Descrizione

Modello di comportamento non verbale

Modello di comportamento verbale

Assertivo

Fa pressione senza attaccare; permette agli altri di influenzare il risultato finale; espressivo e volto all’auto-valorizzazione senza essere invadenti.

Linguaggio diretto e non ambiguo. Nessun tipo di attribuzione o valutazione nei confronti del comportamento altrui. Uso di affermazioni caratterizzate dall’uso dell’“ïo”e affermazioni volte a incentivare la collaborazione caratterizzate dall’utilizzo del “noi”.

Aggressivo

Approfitta degli altri; espressivo e volto all’auto-valutazione a danno di altri.

Non assertivo

Incoraggia gli altri ad approfittarsi di noi; inibito; abnegante.

Buon contatto visivo. Postura comoda ma sicura. Voce potente, stabile e alta. Espressione facciale adeguata al tipo di messaggio che si vuole trasmettere. Tono adeguatamente serio. Interruzioni mirate al fine di assicurarsi della comprensione dei messaggi. Contatto visivo irato. Tendenza a sporgersi eccessivamente verso l’interlocutore. Gesti minacciosi (dita puntate, pugno chiuso). Voce alta. Interruzioni frequenti. Scarso contatto visivo; sguardo rivolto verso il basso; postura scomposta; continuo spostamento del peso; continua torsione delle mani; voce debole e lamentosa.

Uso di turpiloquio e parole offensive. Attribuzioni e valutazioni nei confronti del comportamento altrui. Termini sessisti o razzisti. Minacce esplicite e mortificazioni. Parole che qualificano o specificano (“forse”, “una specie”) Riempitivi (“eh”, “sa …”, “beh”) Confutazioni (“non è poi così importante”, “non sono sicuro”)

Fonte: adattato in parte da J.A. Waters, “Managerial Assertiveness,” Business Horizons, settembre-ottobre 1982, pp. 24-29.

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trovo affatto giusto che tu copi il mio lavoro, dato che invece di venire a lezione te ne stai a letto.”19 Dire no non è sbagliato. Ricordate: più acconsentite alle richieste degli altri, meno tempo avrete a disposizione per voi stessi. L’incapacità di dire no può portare a sensi di colpa, collera, risentimento e potenziali fallimenti.

La comunicazione non verbale Comunicazione non verbale: messaggi trasmessi al di là della parola scritta o parlata

Si dice comunicazione non verbale “qualsiasi tipo di messaggio, inviato o ricevuto, privo di parola scritta o detta a voce […] include fattori quali il tempo, lo spazio, la distanza che separa gli interlocutori, l’uso dei colori, l’abbigliamento, il modo di camminare, di stare in piedi, la propria posizione, la disposizione dei posti a sedere, l’ubicazione dell’ufficio e l’arredamento”.20 Stando alle percentuali forniteci dagli esperti di comunicazione, è possibile interpretare circa il 65% delle conversazioni tramite la comunicazione non verbale,21 per cui è importante assicurarsi che i segnali non verbali siano coerenti con il tipo di messaggio verbale che si intende trasmettere. La mancanza di coerenza crea disturbo e dà adito a incomprensioni a livello comunicativo.22 Data la prevalenza della comunicazione non verbale e il notevole impatto sul comportamento organizzativo (che include, tra le altre cose, la percezione da parte degli altri, le decisioni in merito alle assunzioni, gli atteggiamenti professionali sul lavoro e il turnover), è importante che i manager acquisiscano concreta consapevolezza dei segnali non verbali che inviano e ricevono. Il noto giornalista di settore Harvey Mackay ci ricorda che “le parole sussurrano, il linguaggio non verbale urla”.23 Il linguaggio del corpo e i gesti Movimenti del corpo quali la tendenza a sporgersi in avanti o indietro, e gesti come quello di puntare le dita, sono fonte di informazioni non verbali che possono sia migliorare sia peggiorare un funzionale processo comunicativo. Posizioni del corpo aperte, quali la tendenza a sporgersi verso l’interlocutore, comunicano immediatezza, termine usato per esprimere apertura, calore, vicinanza e predisposizione alla comunicazione. Un atteggiamento difensivo viene trasmesso da gesti quali le braccia conserte, le mani incrociate e le gambe accavallate. Judith Hall, studiosa di comunicazione, ha condotto una meta-analisi riguardante le differenze di genere nei modi di muoversi e nei tipi di gesti usati; i risultati hanno mostrato come le donne facciano cenni col capo e muovano le mani più frequentemente di quanto non facciano gli uomini; lo sporgersi in avanti, gli ampi spostamenti del corpo, i movimenti di gambe e piedi, invece, sono stati maggiormente rilevati tra gli uomini che tra le donne.24 Sebbene l’interpretazione dei movimenti del corpo e dei gesti sia tanto facile quanto divertente, è importante ricordare che l’analisi del linguaggio del corpo facilmente dà adito a interpretazioni sbagliate e che dipende in gran parte dal contesto. I gesti delle mani possono essere particolarmente problematici in contesti interculturali. Per esempio, il pollice verso l’alto esibito con un sorriso dal Presidente Obama in occasione del G20 del 2009 a Londra può essere interpretato come “ok!” negli Stati Uniti e in Cina,

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come “numero 1” in Francia, “numero 5” in Giappone o come un gesto offensivo in Australia e numerosi altri paesi.25 Il contatto Il contatto fisico è un altro tipo di indizio non verbale molto potente: di solito si tende ad avere un contatto fisico con le persone che piacciono. Una meta-analisi, volta a mettere in evidenza le differenze di genere in merito a tale argomento, ha rivelato che le donne, durante una conversazione, tendono a cercare, rispetto agli uomini, un maggiore contatto fisico.26 È interessante notare, tuttavia, come l’interpretazione del contatto fisico, da parte di uomini e donne, sia diversa. Forse, tenendo conto di tali differenze di percezione, è possibile ridurre le lamentele riguardanti le molestie sessuali. Inoltre, le norme relative al contatto variano in modo significativo da una cultura all’altra. Considerate l’esempio di due ragazzi che camminano nel campus tenendosi per mano; un comportamento del genere, in Medio Oriente, sarebbe alquanto comune per ragazzi legati da un rapporto di amicizia o che nutrono un forte rispetto reciproco; negli Stati Uniti o in Canada, invece, lo stesso comportamento è assai inusuale. L’espressione del viso Le espressioni facciali forniscono un notevole numero di informazioni. A Kansas City, ad esempio, sorridere durante una riunione di lavoro è una tipica espressione di calore, felicità o amicizia, mentre un’espressione corrucciata è segno di insoddisfazione o rabbia. Queste interpretazioni sono riferibili a gruppi interculturali diversi? Molto sinteticamente, la risposta è no. Una sintesi di importanti studi ha rivelato che il legame tra espressioni del viso ed emozioni effettivamente varia da cultura a cultura.27 Fare un ampio sorriso mostrando i denti, ad esempio, non comunica in tutti i paesi il medesimo stato d’animo. Ancora una volta, occorre fare attenzione nell’interpretazione e nell’uso delle espressioni facciali dei diversi gruppi di collaboratori e quando si opera in contesti interculturali. Il contatto visivo Il contatto visivo rappresenta un forte segnale non verbale che, nella comunicazione, svolge quattro funzioni. Innanzitutto il contatto visivo, segnalando l’inizio e la fine della conversazione, regola il flusso della comunicazione. Si ha la tendenza a spostare lo sguardo dalle altre persone quando si inizia a parlare e a guardarle quando si è finito. In secondo luogo, uno sguardo intenso (che si oppone a uno fisso e truce), facilita e monitorizza il feedback perché esprime interesse e attenzione. In terzo luogo, il contatto visivo trasmette un sentimento. Si tende, infatti, a evitarlo quando si comunicano notizie spiacevoli o un feedback negativo. Lo sguardo, in ultimo, è legato al rapporto tra gli interlocutori. Come per il linguaggio del corpo e le espressioni del viso, le abitudini relativa al contatto visivo cambiano a seconda delle culture. Agli occidentali, fin dalla tenera età, viene insegnato a guardare i genitori negli occhi quando viene rivolta loro la parola. A molte persone di cultura asiatica, sudamericana o africana, al contrario, viene insegnato di evitare il contatto visivo con un genitore o superiore in segno di obbedienza e sottomissione.28 Ancora una volta i manager, nell’uso del contatto visivo con i diversi collaboratori, devono mostrarsi sensibili ai diversi tipi di orientamenti culturali. Suggerimenti pratici Data la loro importanza nello sviluppo di un rapporto interpersonale positivo, è importante disporre di buone doti comunicative non verbali. Al fine

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di migliorare le proprie doti comunicative non verbali, un esperto di comunicazione fornisce i seguenti consigli:29 Azioni non verbali positive che favoriscono la comunicazione • • • • • •

Mantenere il contatto visivo. Fare di tanto in tanto cenni con la testa in segno di approvazione. Sorridere e mostrare interesse. Sporgersi verso l’interlocutore. Parlare con moderazione usando un tono rassicurante e tranquillo. Controllare le espressioni facciali.

Azioni da evitare • Leccarsi le labbra e giocherellare con capelli e barba. • Distogliere lo sguardo o girare le spalle all’interlocutore. • Chiudere gli occhi e mostrare espressioni facciali disinteressate, per esempio sbadigliando. • Muoversi eccessivamente nella sedia o battere il piede. • Usare un tono sgradevole della voce e parlare troppo velocemente o troppo lentamente. • Mangiarsi le unghie, stuzzicarsi i denti o sistemarsi di continuo gli occhiali.

Questi consigli sono adeguati alla cultura nordamericana e potrebbero non essere integralmente applicabili in altri contesti culturali.

Ascolto attivo

Ascolto: decodifica e interpretazione attiva dei messaggi verbali

Alcuni esperti di comunicazione sostengono che l’ascolto sia la capacità comunicativa fondamentale per gli addetti alle vendite o al servizio alla clientela e per il management. È stata notata una correlazione positiva tra l’efficacia dell’ascolto e la soddisfazione del cliente, a fronte di una correlazione negativa con l’intenzione, da parte del collaboratore, di abbandonare il posto di lavoro. Un’altra causa primaria di insoddisfazione dei collaboratori è stata individuata nello scarso grado di comunicazione tra collaboratori e management.30 Essere dotati all’ascolto è particolarmente importante per tutti noi perché trascorriamo molto tempo ad ascoltare gli altri. Ascoltare un messaggio comporta uno sforzo maggiore del semplice udirlo. L’udito è solo la componente fisica dell’ascolto. L’ascolto è quel processo che comporta una decodifica e un’interpretazione attiva dei messaggi verbali; richiede un’attenzione mentale e una rielaborazione dell’informazione; la stessa cosa non vale per il semplice udito. Alla luce di tali distinzioni, prenderemo in esame gli stili di ascolto e alcuni consigli pratici per diventare un ascoltatore migliore. Stili di ascolto Secondo gli esperti in comunicazione, ciascun individuo adotta uno stile di ascolto preferenziale; alcuni tendono a evidenziare uno stile dominante, men-

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tre altri presentano una combinazione di due o tre stili. Gli stili di ascolto principali sono cinque: che mostra apprezzamento, empatico, olistico, in grado di distinguere e valutativo.31 Un ascoltatore che adotta lo stile che mostra apprezzamento tende ad ascoltare con uno stato d’animo rilassato, prediligendo informazioni piacevoli, divertenti o ispiratrici, e a non essere in sintonia con interlocutori con scarso senso dell’umorismo e verve. L’ascoltatore empatico interpreta i messaggi prestando attenzione alle emozioni e al linguaggio del corpo dell’interlocutore, nonché al mezzo di comunicazione, e tende ad astenersi dal giudizio. L’ascoltatore olistico attribuisce significato al messaggio ordinando pensieri e azioni specifici e integrando le informazioni così ricavate con l’analisi delle relazioni tra le idee; predilige le presentazioni logiche e senza interruzioni. L’ascoltatore in grado di distinguere tenta di comprendere il messaggio principale e di individuarne i punti più rilevanti; in genere prende appunti e predilige le presentazioni logiche. Infine, l’ascoltatore valutativo ascolta analiticamente e formula argomentazioni e smentite a ciò che viene affermato; tende ad accettare o bocciare i messaggi a seconda delle sue opinioni, pone numerose domande e può mostrare la tendenza a interrompere l’interlocutore. È possibile migliorare le capacità di ascolto acquistando consapevolezza dell’efficacia dei diversi stili di ascolto a seconda del contesto, in modo da adeguare il proprio stile alla situazione specifica. Per esempio, se si ascolta un confronto tra candidati politici, potrebbe essere opportuno adottare uno stile olistico e in grado di distinguere, mentre se si assiste a una presentazione vendite potrebbe essere più adeguato uno stile valutativo. Diventare un ascoltatore migliore Un ascolto efficace è una capacità da apprendere, che richiede sforzo e motivazione. Occorrono energia e forte motivazione per poter veramente ascoltare gli altri. Sfortunatamente, pare che non vi siano ricompense per chi ascolta, ma solo conseguenze negative per chi non lo fa. Pensate, ad esempio, alla volta in cui qualcuno non ha prestato attenzione a quanto stavate dicendo, guardando l’orologio o dedicandosi ad altro come scrivere qualcosa al computer. Come vi siete sentiti? Probabilmente mortificati, non importanti od offesi. Tali sensazioni, di rimando, possono minare la qualità del rapporto interpersonale nonché alimentare l’insoddisfazione professionale, diminuire la produttività e peggiorare il servizio alla clientela. L’ascolto è una dote importante che può essere migliorata evitando i 10 comportamenti tipici del cattivo ascoltatore e coltivando le 10 abitudini del buon ascolto (tabella 14-3). Secondo un esperto di comunicazione, possiamo migliorare le nostre capacità di ascolto applicando i seguenti consigli:32 • • •

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Prestate attenzione a ciò che viene detto, non a quello che desiderate dire successivamente. Lasciate che l’interlocutore concluda il suo discorso prima di prendere la parola. Ripetete quello che è stato detto per dare all’interlocutore la possibilità di chiarire il messaggio.

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Tabella 14-3 Chiavi per un ascolto efficace Chiavi per un ascolto efficace

Il cattivo ascoltatore

Il buon ascoltatore

1. Tenere a freno la velocità del pensiero

Tende a distrarsi

2. Ascoltare le idee 3. Trovare un’area di interesse comune 4. Giudicare il contenuto, non la trasmissione del messaggio

Ascolta i fatti concreti Elimina gli oratori o gli argomenti noiosi Elimina gli oratori monotoni

Non si distrae, riassume mentalmente ciò che dice l’oratore, soppesa i fatti e ascolta i messaggi tra le righe Ascolta le idee centrali o generali Ascolta qualunque possibile informazione utile Prima di esprimere giudizi valuta il contenuto ascoltando il messaggio

5. Mantenere l’equilibrio

Manifesta troppa emotività

6. Lavorare alla propria capacità di ascolto 7. Non distrarsi 8. Ascoltare quanto viene detto 9. Sfidare sé stessi

10. Utilizzare materiale, lucidi o altri supporti visivi

o si infervora per qualcosa che è stato detto dall’oratore intervenendo nel discorso Non investe energia nell’ascolto Si distrae facilmente Si chiude in sé stesso o nega ogni informazione non favorevole Mostra resistenza all’ascolto di presentazioni di argomenti difficili Non prende appunti e non presta attenzione al materiale distribuito

per intero Trattiene ogni giudizio fino a quando la comprensione non sia completa

Presta all’oratore completa attenzione Combatte le distrazioni e si concentra sull’oratore Ascolta ogni tipo di informazione, sia quelle favorevoli, sia quelle non favorevoli Si concentra su presentazioni difficili come esercizio mentale Prende appunti come richiesto e ricorre al materiale distribuito per una maggiore comprensione della relazione

Fonti: tratto da N. Skinner, “Communication Skills,” Selling Power, luglio-agosto 1999, pp. 32-34; e da G. Manning, K. Curtis e S. McMillen, Building the Human Side of Work Community (Cincinnati: Thomson Executive Press, 1996), pp. 127-54.

Stili linguistici e genere

Stile linguistico: schema linguistico tipico di una persona

È risaputo che uomini e donne comunicano in modo diverso. Tali differenze possono creare problemi di comprensione che vanno a minare la produttività e la comunicazione interpersonale. Le differenze nella comunicazione basate sul genere sono in parte dovute a stili linguistici generalmente diffusi tra le donne e tra gli uomini. Deborah Tannen, esperta di comunicazione, fornisce la seguente definizione di stile linguistico: Lo stile linguistico si riferisce allo schema di comunicazione tipico di un soggetto. Implica elementi quali l’essere diretto o indiretto, il procedere a un ritmo giusto e fare delle pause, la scelta delle parole e l’uso di elementi come battute spiritose, figure retoriche, aneddoti, domande e scuse. Lo stile linguistico, in altre parole, consiste in una serie di segnali culturalmente acquisiti che ci permettono non solo di comunicare ciò che vogliamo esprimere, ma anche di interpretare ciò che altri vogliono dire e valutarci reciprocamente come individui.33

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Lo stile linguistico non solo ci aiuta a spiegare le differenze di comunicazione tra uomini e donne, ma influenza anche la percezione che noi abbiamo del grado di fiducia, di competenza e di capacità altrui. Un maggiore incremento della consapevolezza degli stili linguistici può, pertanto, migliorare l’accuratezza comunicativa e la competenza in termini di comunicazione. Differenze di genere nella comunicazione La ricerca dimostra che uomini e donne comunicano in modo diverso in una serie di modi.34 La tabella 14-4 illustra 10 diversi tipi di schemi di comunicazione che variano tra uomini e donne. In merito alle tendenze identificate dalla suddetta tabella esistono due importanti questioni da considerare: gli andamenti indicati non possono, innanzitutto, essere generalizzati per tutti gli uomini e tutte le donne; può darsi, infatti, che alcuni uomini siano meno inclini a vantarsi delle loro conquiste, e alcune donne possono non voler condividere i loro meriti. Il fatto è che ci sono sempre eccezioni che confermano la regola. Il vostro stile linguistico, in secondo luogo, influenza le percezioni che altri hanno sul vostro grado di sicurezza, competenza e autorità. Tali giudizi potrebbero, di rimando, influire sui vostri futuri incarichi professionali e, di conseguenza, su un’eventuale promozione. Considerate, ad esempio, gli stili linguistici mostrati da Greg e Mindy. Greg minimizza qualsiasi incertezza egli abbia in merito a determinate questioni e fa poche domande; si comporta così quando non è sicuro dell’argomento oggetto di discussione. Mindy, invece, tende a fare molte domande. Alcuni potrebbero ritenere Greg più competemte di Mindy, perché mostra una sicurezza maggiore e si comporta come se capisse ciò di cui si parla.

Tabella 14-4 Differenze di comunicazione tra uomini e donne 1. Gli uomini, in pubblico, tendono a non chiedere informazioni che metterebbero in luce la loro mancanza di conoscenza. 2. In fase decisionale le donne tendono a minimizzare la loro certezza; gli uomini a minimizzare i loro dubbi. 3. Le donne tendono a chiedere scusa anche quando non hanno fatto nulla di sbagliato. Gli uomini tendono a evitare di chiedere scusa perché sarebbe sintomo di debolezza o concessione. 4. Le donne tendono ad assumersi la colpa come mezzo per alleggerire una situazione delicata. Gli uomini tendono a ignorare il rimprovero e a metterlo da parte. 5. Le donne tendono a esporre delle critiche cercando di attenuarle in modo positivo. Gli uomini tendono a esporre una critica in modo molto diretto. 6. Le donne tendono a inserire, nel corso della conversazione, ringraziamenti non necessari e non richiesti. Gli uomini evitano, in generale, i ringraziamenti, visti come segno di debolezza. 7. Le donne tendono a chiedere, al fine di cercare approvazione “che cosa ne pensi?”. Gli uomini spesso interpretano tale domanda come indice di incompetenze e mancanza di fiducia in se stessi. 8. Le donne tendono a dare indicazioni in modo indiretto; tale tecnica potrebbe essere percepita dagli uomini come confusa, poco chiara o manipolativa. 9. Gli uomini tendono a usurpare le idee proposte da donne millantandole come proprie. Le donne tendono a permettere tale modo di agire per prendere posto senza suscitare proteste. 10. Le donne usano una tono di voce più delicato per incoraggiare persuasione e appoggio. Gli uomini usano un tono di voce più alto per attirare l’attenzione e mantenere il controllo.

Fonte: tratto da D.M. Smith, Women at Work: Leadership for the Next Century (Upper Saddle River, NJ: Prentice Hall, 2000), pp. 26-32.

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Flessibilità di genere: uso temporaneo di comportamenti di comunicazione tipici dell’altro sesso

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Verso una maggiore efficacia dello stile linguistico L’autrice Judith Tingley suggerisce che donne e uomini dovrebbero apprendere la flessibilità di genere. La flessibilità di genere implica l’uso temporaneo di comportamenti comunicativi tipici dell’altro genere al fine di incrementare la possibilità di esercitare un’influenza.35 Deborah Tannen, al contrario, sostiene che ciascuno debba diventare consapevole del funzionamento degli stili linguistici e del modo in cui essi influiscono sulle nostre percezioni e giudizi, in quanto reputa che aiutino ad assicurare che persone con conoscenze o idee valide vengano ascoltate. Si consideri come le differenze linguistiche basate sulle differenze di genere influiscono su chi viene ascoltato a una riunione: Coloro che sono abituati a parlare ad alta voce nei gruppi, che non hanno esigenze particolari di silenzio prima di alzare la mano, o che sono a loro agio nell’esporre le proprie idee senza aspettare di essere riconosciuti, hanno molte più probabilità di essere ascoltati nel corso di una riunione. Coloro, invece, che non parlano fino a quando l’oratore precedente non ha terminato, che aspettano di essere ammessi alla conversazione e che tendono a collegare i loro commenti a quelli di altri, se la caveranno bene durante una riunione nella quale tutti seguono le medesime regole, ma si troveranno in difficoltà in riunioni con persone caratterizzate da stili di comunicazione simili al primo schema descritto. Considerata la socializzazione tipica di ragazzi e ragazze, gli uomini tenderanno ad aver appreso il primo stile, mentre le donne il secondo, portando a riunioni più congeniali per gli uomini che per le donne.36

La conoscenza di tali differenze linguistiche può servire ai manager per scoprire metodi che assicurino che le idee di tutti vengano ascoltate e che vengano attribuiti i giusti meriti sia durante che al di fuori delle riunioni. È altresì utile considerare i punti di forza e i limiti organizzativi del vostro stile linguistico. Potreste considerare l’ipotesi di modificare una caratteristica linguistica che vada a scapito della percezione altrui in merito al vostro grado di sicurezza, di competenza e di autorità.

Comunicazione organizzativa Adottare la prospettiva della comunicazione organizzativa può essere una buona strategia per identificare i fattori che contribuiscono a determinare l’efficacia o l’inefficacia del management. La nostra analisi è incentrata sul “chi” e sul “come” del processo di comunicazione. Per esempio, qualsiasi atto comunicativo inizia con l’identificazione di chi sarà il destinatario del messaggio: negli ambienti di lavoro, si può comunicare verso l’alto con il superiore, verso il basso con i diretti subordinati, orizzontalmente con i colleghi ed esternamente con clienti e fornitori. Esamineremo il “chi” della comunicazione organizzativa passando in rassegna svariati canali di comunicazione formali e informali. Successivamente, approfondiremo le nostre conoscenze sul “come” della comunicazione presentando un modello contingente per la scelta del mezzo adeguato. Vedremo che l’efficacia comunicativa è determinata da un’adeguata corrispondenza tra il contenuto del messaggio e il mezzo impiegato per comunicarlo.

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I canali formali per la comunicazione verso l’alto, verso il basso, orizzontale ed esterna Canali di comunicazione formali: seguono la linea gerarchica o la struttura organizzativa

I canali di comunicazione formali seguono la linea gerarchica o la struttura organizzativa. I messaggi comunicati attraverso i canali formali sono considerati ufficiali e vengono trasmessi lungo una o più delle tre direzioni seguenti: (1) verticale, verso l’alto o verso il basso, (2) orizzontale e (3) esterna. La comunicazione verticale verso l’alto e verso il basso La comunicazione verticale è il flusso di informazioni tra individui che occupano livelli organizzativi diversi. • La comunicazione verso l’alto consiste nel comunicare con qualcuno che occupa una posizione superiore nella scala gerarchica organizzativa. I collaboratori possono comunicare verso l’alto questioni che riguardano loro stessi, problemi con i colleghi, prassi e politiche organizzative che non comprendono o non condividono, successi e fallimenti. Una comunicazione verso l’alto dinamica favorisce l’equità organizzativa e la condotta etica, la motivazione intrinseca e l’empowerment (tema che approfondiremo nel capitolo successivo). La comunicazione verso l’alto assume inoltre particolare rilevanza nelle politiche organizzative mirate ad accrescere la produttività e migliorare il servizio ai clienti. I dipendenti che lavorano in prima linea spesso sanno per esperienza come è meglio agire per portare a termine un compito; purtroppo però sono in molti a non condividere le informazioni autocensurandosi. Secondo i risultati di recenti ricerche: Sorprendentemente, il motivo che più comunemente induce a non condividere determinate informazioni è la sensazione che siano irrilevanti, non il timore di ricevere un rimprovero. In parte perché i collaboratori talvolta dicono la propria, i capi spesso non sono consapevoli dell’autocensura dei loro dipendenti e immaginano di sentir dire ciò che è importante quando in realtà trovano solo il silenzio […] Collaboratori con le bocche cucite e capi inconsapevoli possono decretare la morte delle critiche costruttive, oltre che della verità nuda e cruda, e possono ostacolare l’emergere di buone idee all’interno dell’organizzazione.37

I manager non devono quindi limitarsi ad ascoltare i collaboratori, ma devono agire sulla base degli input ricevuti per essere leader credibili e fugare le remore dei dipendenti a esprimersi. Tra le strategie mirate a incoraggiare la comunicazione verso l’alto vanno ricordate le indagini di opinione, i sistemi per proporre suggerimenti, le procedure formali di reclamo, le politiche della porta aperta, le chiacchierate informali, l’interazione tramite email e social media, i colloqui di uscita e le riunioni caratterizzate da dibattito e scambio di idee aperti.38 Porre domande a risposta aperta astenendosi dal giudizio è un’altra buona strategia per stimolare una comunicazione verso l’alto proficua. • La comunicazione verso il basso si verifica quando qualcuno che occupa un livello organizzativo alto comunica informazioni o messaggi a chi occupa una posizione più bassa nella scala gerarchica. I manager forniscono cinque tipi di informazione

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tramite una comunicazione discendente verso i livelli più bassi dell’organizzazione: strategie/obiettivi, istruzioni sulle mansioni, ragioni delle mansioni, pratiche e procedure organizzative e feedback sulla performance. I risultati dei sondaggi indicano la necessità di migliorare la comunicazione verso il basso. Secondo un sondaggio condotto su 1.198 lavoratori, la causa principale delle frustrazioni in ambito lavorativo era “scarsa comunicazione da parte del senior management sull’attività lavorativa”.39 In un altro sondaggio,il 70% di 1.006 dipendenti ha risposto no alla seguente domanda: “Il management ha spiegato ai dipendenti come l’attuale congiuntura economica può incidere sull’azienda?”40 La comunicazione orizzontale tra unità di lavoro e al loro interno La comunicazione orizzontale è la comunicazione tra colleghi e unità di lavoro diverse, essenzialmente finalizzata al coordinamento. Gli scambi orizzontali consentono ai collaboratori di condividere informazioni e migliori prassi, coordinare le attività e i programmi di lavoro, risolvere problemi, fornire consigli e coaching e superare conflitti. Gli strumenti che favoriscono la comunicazione orizzontale sono le riunioni di progetto, i comitati, le attività di team building (ricordate quanto illustrato nel Capitolo 11), le occasioni di socialità e le strutture a matrice. I possibili ostacoli alla comunicazione orizzontale sono tre: (1) la specializzazione, che induce gli individui a lavorare da soli; (2) l’accendersi della competizione, che incide negativamente sulla condivisione di informazioni e (3) una cultura organizzativa che non favorisce la collaborazione e la cooperazione. La comunicazione esterna La comunicazione esterna è un flusso bidirezionale di informazioni tra i collaboratori e una molteplicità di stakeholder esterni all’organizzazione, tra cui clienti, fornitori, azionisti/proprietà, sindacati, funzionari pubblici, membri della comunità locale, e non solo. Numerose organizzazioni istituiscono unità a sé stanti, per esempio dedite alla cura delle pubbliche relazioni, per coordinare le comunicazioni esterne. Per proteggere le strategie competitive, i segreti commerciali e l’integrità degli accordi di non divulgazione, i collaboratori devono essere ben informati in merito a quanto non devono comunicare all’esterno in tutti i contesti, dalle conversazioni informali ai blog ai tweet.41

I canali di comunicazione informali Canali di comunicazione informali: non seguono la scala gerarchica, aggirano le linee di autorità

I canali di comunicazione informali non seguono la scala gerarchica, aggirando i livelli di management e le linee di autorità. Due canali informali comunemente usati sono le voci di corridoio e il management by walking around.

Voci di corridoio: sistema di comunicazione non ufficiale dell’organizzazione informale

Le voci di corridoio Le voci di corridoio rappresentano il sistema di comunicazione non ufficiale dell’organizzazione informale e possono essere diffuse attraverso tutti i mezzi di comunicazione. Per esempio, un collaboratore può condividere un pettegolezzo tramite email, durante conversazioni faccia a faccia, con un SMS o un tweet, attraverso una telefonata oppure un messaggio in segreteria telefonica. Sebbene le voci di corridoio possano consistere in una fonte di pettegolezzi non esatti, possono avere una funzione

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Individui di collegamento: coloro che trasmettono costantemente informazioni ad altri attraverso le voci di corridoio

Talpe organizzative: coloro che utilizzano le voci di corridoio per mettere in evidenza il loro potere e status

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in maniera positiva favorendo i cambiamenti organizzativi, contribuendo a radicare la cultura aziendale, accrescendo la coesione del gruppo e raccogliendo feedback da parte dei lavoratori e dei clienti. Coloro che hanno l’abitudine di trasmettere informazioni tramite voci di corridoio sono definiti individui di collegamento o “pettegoli”. Recenti ricerche sulle reti sociali aziendali hanno indotto a formulare la seguente valutazione positiva: I collaboratori che condividevano più voci di corridoio comprendevano meglio il contesto sociale ed erano considerati più influenti dai colleghi […] Il pettegolezzo può essere molto utile agli individui nelle organizzazioni, soprattutto quando il flusso di informazioni provenienti dall’alto si arresta, come spesso accade in fase di crisi o di cambiamento. Se sono in pochi a sapere che cosa sta realmente accadendo, il pettegolezzo diventa il modo per divulgare le informazioni a tutti gli altri […] Se è vero che il pettegolezzo può accrescere il livello di paura in un’organizzazione, le ricerche dimostrano che in realtà in genere determina il risultato opposto. Condividendo i pettegolezzi, si instaura un rapporto personale che rappresenta un sostegno sociale ed emotivo. Inoltre, il pettegolezzo è fonte di preziose informazioni su una rete – chi è opportunista, chi prepotente, chi per niente collaborativo – e fornisce uno strumento per censurare coloro che non seguono le norme del gruppo.42

Un po’ di pettegolezzo può anche fungere da sano sfogo emotivo, soprattutto in congiunture incerte. Manager efficaci controllano lo stimolo dei gruppi di lavoro mediante una regolare comunicazione con i collegamenti conosciuti. In opposizione agli individui di collegamento vi sono le talpe organizzative, che usano le voci di corridoio per uno scopo differente. Ottengono informazioni, spesso negative, al fine di valorizzare il proprio potere e il proprio status. Agiscono in questo modo relazionando, in segreto, a manager influenti, quanto reputano di aver sentito in merito a difficoltà, conflitti o fallimenti di altri collaboratori. Tale comportamento permette alla talpa di sviare l’attenzione da se stesso e di apparire più competente di altri. Il management dovrebbe cercare di creare un ambiente aperto, dove regna la fiducia, che scoraggi tali comportamenti perché le talpe rovinano il lavoro di squadra, creano conflitti e minano la produttività. Nel corso degli anni, la ricerca ha messo in luce i seguenti aspetti delle voci di corridoio: (1) si tratta di un canale più rapido di quelli formali; (2) è per il 75% più attendibile; (3) le persone vi fanno affidamento quando si sentono insicure, minacciate o poste di fronte a cambiamenti organizzativi; infine, (4) il pettegolezzo non è una forma di comunicazione isolata, ma è integrato in tutte le comunicazioni organizzative dotate di senso.43 I manager tendono ad averne una visione negativa; quando a 250 dirigenti del settore pubblicitario è stato chiesto in un recente sondaggio di valutare se il pettegolezzo sortisce un effetto positivo o negativo nell’ambiente di lavoro, il 63% ha risposto “negativo”. 44 La fondamentale raccomandazione manageriale è di monitorare e influenzare tale fonte piuttosto che cercare di controllarla. I manager possono adottare un approccio positivo promuovendo energicamente la comunicazione verso l’alto, nelle modalità illustrate in precedenza. Le moderne tecnologie dell’informazione consentono di adottare il seguente approccio proattivo al monitoraggio delle voci di corridoio:

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E se manager e dipendenti potessero ascoltare contemporaneamente tutti i pettegolezzi e le sessioni di brainstorming che si verificano nei corridoi dell’ufficio? È questa l’idea, in forma digitale, alla base del WaterCooler della Hewlett Packard, un nuovo strumento realizzato dai laboratori di ricerca interni che indicizza quello che i dipendenti scrivono nei blog interni ed esterni. I dipendenti possono decidere di essere esclusi dall’indicizzazione ma molti – circa 11.000 alla HP – hanno lasciato che i loro commenti su qualsiasi argomento, dalle anteprime sull’iPhone alle ipotesi sul piano di riorganizzazione dell’azienda, venissero aggregati sul sito. Gli utenti possono cliccare su un link “spirito dei tempi” per visualizzare gli argomenti più caldi della settimana.45

Il management by walking around Il management by walking around (MBWA) richiede ai manager di camminare letteralmente per gli uffici e intrattenere conversazioni informali con i collaboratori di tutte le unità e di tutti i livelli.46 È un modo efficace per comunicare perché i collaboratori preferiscono ottenere le informazioni direttamente dal proprio manager. Linda Dulye, esperta in comunicazione, ha constatato che i dipendenti “lo preferiscono alle email, ai siti Internet e alle reti intranet, oltre che alle riunioni plenarie e al pettegolezzo … Il canale più efficace per i collaboratori è la ‘passeggiata’ informale in ufficio, veder arrivare il manager alla loro scrivania per chiacchierare”.47 La Dulye offre i seguenti consigli per un MBWA efficace: 1. Dedicare una certa quantità di tempo al MBWA ogni settimana. 2. Lasciare in ufficio il telefono cellulare. È importante mantenere l’attenzione sulle persone con le quali si sta parlando ed evitare distrazioni. 3. Esercitare l’ascolto attivo e non pensare che il lavoro possa essere l’unico argomento di conversazione. I collaboratori potrebbero preferire intrattenersi in una conversazione più libera. 4. Deve trattarsi di una conversazione bidirezionale; è opportuno mostrare interesse per i timori e i problemi dell’interlocutore. 5. Portare con sé un bloc notes per annotare le faccende che devono essere approfondite. Evitare grafici e tabelle formali: l’obiettivo è intrattenere una conversazione informale. 6. Ringraziare l’interlocutore per il suo tempo e il feedback.48

La scelta del mezzo di comunicazione: una prospettiva contingente Nella presente sezione ci concentriamo sull’analisi del “come” del processo comunicativo e, nello specifico, esaminiamo come i manager possono scegliere il mezzo migliore per comunicare attraverso canali formali e informali. I manager di oggi possono scegliere tra un amplissimo ventaglio di mezzi di comunicazione (telefono, email, segreteria telefonica, telefono cellulare, posta ordinaria, SMS, video, blog e altri social media). Secondo le ricerche, fortunatamente i manager possono contribuire a ridurre il sovraccarico di informazioni e a migliorare l’efficacia della comunicazione operando una scelta più oculata del mezzo di comunicazione. Usando un mezzo non adeguato le decisioni manageriali potrebbero basarsi su informazioni

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imprecise, messaggi importanti potrebbero non arrivare al pubblico desiderato, e ciò potrebbe rendere i collaboratori insoddisfatti e improduttivi. La scelta del mezzo di comunicazione è una componente chiave nell’efficacia della comunicazione. Nella sezione che segue prenderemo in esame un modello contingente progettato per aiutare i manager a selezionare i mezzi di comunicazione in maniera sistematica ed efficace. La selezione dei mezzi, nel presente modello, si basa sull’interazione tra la ricchezza del mezzo di comunicazione e la complessità del problema/ della situazione oggetto di discussione. Ricchezza del mezzo di comunicazione Ecco una definizione fornita da Daft e Lengel, due stimati studiosi dell’organizzazione: La ricchezza si definisce come la potenziale capacità dei dati di contenere informazioni. Se la comunicazione di un singolo dato, ad esempio un ammiccamento, fornisce un elemento importante per la comprensione di una situazione, allora l’informazione sarà considerata ricca. Se il dato fornisce poca comprensione l’informazione sarà considerata non ricca.49 Ricchezza dell’informazione: capacità dei dati di contenere informazione

La ricchezza del mezzo di comunicazione, dunque, è la capacità di un dato mezzo di trasmettere le informazioni e favorire la comprensione. I mezzi di comunicazione possono essere più o meno ricchi o poveri. La ricchezza del mezzo di comunicazione si basa su quattro fattori: (1) il feedback (che può essere molto veloce o molto lento), (2) il canale (che va dalla combinazione di caratteristiche audio-visive di una video-conferenza ai limitati aspetti visivi di una relazione al computer), (3) il tipo visivo di comunicazione (va dal personale all’impersonale), (4) la fonte linguistica (va dal linguaggio del corpo e dal discorso, che fanno parte di una conversazione faccia a faccia, alle cifre contenute in un report finanziario). La conversazione bidirezionale faccia a faccia è la forma di comunicazione più ricca; fornisce un feedback immediato e permette di osservare molteplici segnali linguistici come quelli del linguaggio del corpo e del tono della voce. Le video e teleconferenze, nonostante il loro elevato grado di ricchezza, non forniscono tante informazioni quante quelle della conversazione faccia a faccia. Sulla parte opposta della scala, le newsletter e i report finanziari sono, al contrario, mezzi di comunicazione con un basso grado di ricchezza, perché il feedback è molto lento, implicano un’informazione visiva solo limitata e l’informazione fornita è impersonale. Le email e i messaggi sui social media hanno un grado di ricchezza variabile, basso se sono rivolti a un pubblico ampio, alto se uniscono informazioni video e testuali di carattere personale che favoriscono un feedback conversazionale rapido.50 Complessità del problema/della situazione manageriale I manager affrontano problemi e situazioni la cui complessità può essere bassa o alta. Situazioni caratterizzate da un basso grado di complessità fanno parte della routine, sono prevedibili e vengono gestite tramite procedure oggettive o standard. Un esempio di basso grado di complessità è dato dal calcolo dello stipendio di un collaboratore. Situazioni ad alto grado di complessità, come la riorganizzazione dell’azienda, sono ambigue, imprevedibili, difficili da analizzare e spesso cariche di componente emotiva. I manager impiegano una quantità di tempo decisamente superiore nell’analisi di tali situazioni perché, durante le loro

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delibere, si affidano a più fonti di informazioni. Non esistono soluzioni preconfezionate per problemi o situazioni complesse. Raccomandazioni legate alle situazioni Il modello contingente per la selezione dei mezzi di comunicazione è illustrato, mediante un grafico, nella figura 14-2. Come noterete esistono tre zone di efficacia della comunicazione. Abbiamo una comunicazione efficace quando la ricchezza del mezzo scelto si accorda con la complessità del problema o della situazione. Mezzi di comunicazione caratterizzati da un basso grado di ricchezza – mezzi impersonali e personali non interattivi – sono più adatti per problemi semplici; mezzi caratterizzati da un alto grado di ricchezza – mezzi interattivi e incontri faccia a faccia – sono adeguati per problemi o situazioni di natura complessa. Una comunicazione non efficace, al contrario, si verifica quando il mezzo è caratterizzato da un grado di ricchezza troppo alto o troppo basso per la complessità del problema o della situazione. Un responsabile vendite di area, ad esempio, sfiorerebbe la zona dell’eccesso se trasmettesse mensilmente relazioni sulle vendite facendo ricorso a mezzi ad alta ricchezza. Dirigere riunioni faccia a faccia o telefonare a ogni singolo venditore porterebbe a un’informazione eccessiva e a uno spreco di tempo maggiore di quello impiegato per trasmettere, mensilmente, i dati sulle vendite. La zona di semplificazione eccessiva rappresenta un’altra inefficace scelta del mezzo di comunicazione. In una situazione simile, i mezzi che non dispongono dell’adeguato grado di ricchezza vengono usati per trasmettere questioni complicate o emotive. Evidenza empirica Il rapporto tra la ricchezza dei mezzi di comunicazione e la complessità del problema/della situazione non è stato ancora approfonditamente indagato.

Fonti: adattato da R. Lengel e R.L. Daft, “The Selection of Communication Media as an Executive Skill,” Academy of Management Executive, agosto 1988, pp. 226, 22; e da R.L. Daft e R.H. Lengel, “Information Richness: A New Approach to Managerial Behavior and Organization Design,” Research in Organizational Behavior, a cura di B.M. Staw e L.L. Cummings (Greenwich, CT: JAI Press, 1984), p. 199.

Ricca

Ricchezza del mezzo di comunicazione

Figura 14-2 Modello contingente per la selezione dei mezzi di comunicazione

Zona dell’eccesso (mezzo che fornisce più informazioni di quanto necessarie)

Faccia a faccia

ce

ica

ff ee

n

zio

Mezzi interattivi (telefono, videoconferenza)

a nic

e

ad

u om Mezzi personali (promemoria, lettere, fax, e-mail personali, servizio privato di messaggistica)

c lla

n Zo

Mezzi impersonali (newsletter, bacheca, relazioni al computer, report finanziari, e-mail generali)

Zona di semplificazione eccessiva (mezzo che non fornisce l’informazione necessaria)

Povera Bassa

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Complessità del problema/della situazione

Alta

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Le prove a nostra disposizione ci suggeriscono che i manager abbiano usato fonti più ricche quando si sono trovati ad affrontare situazioni ambigue e complicate e che i malintesi nella comunicazione siano aumentati nel momento in cui mezzi ad alto grado di ricchezza sono stati usati per trasmettere informazioni che fino a quel momento erano state comunicate tramite mezzi più poveri.51 Questi dati sono in linea con le aree del modello in figura 14.2. Inoltre, una meta-analisi di oltre 40 studi ha rivelato che l’uso dei mezzi di comunicazione è significativamente diverso tra i livelli organizzativi. I manager di livello più alto trascorrono più tempo in riunioni faccia a faccia rispetto a quelli di livello gerarchico inferiore.52 Si tratta di un dato da leggere in chiave positiva se i manager di alto livello incontrano gruppi eterogenei interni ed esterni all’organizzazione per ampliare la loro prospettiva e favorire la comunicazione verso l’alto. Non bisogna però dimenticare che incontrare di continuo lo stesso team dirigenziale può dare adito al groupthink.

L’impatto della comunicazione digitale sul comportamento organizzativo Immaginate quanto sarebbe più semplice comunicare se esistesse una lingua universale. Se una lingua scritta e parlata condivisa da tutti resta un’utopia, esiste un linguaggio digitale binario che sta trasformando il modo in cui viviamo, lavoriamo e ci divertiamo. Oggi parole (per esempio in un’email inviata da Blackberry), immagini (video su YouTube), suoni (conversazioni e musica tramite iPhone) e movimenti (in un gioco per la Wii) sono contenuti confezionati in un formato che ne consente la condivisione. La stessa trasmissione dei contenuti digitali è stata a sua volta rivoluzionata da tecnologie come Internet, la comunicazione satellitare, le infrastrutture per la telefonia cellulare e i sistemi Wi-Fi. Il connubio di queste diverse tecnologie ci offre virtualmente accesso a quantità di informazioni e opportunità di interazione comunicativa a livello globale senza precedenti. Lo scopo di questa sezione conclusiva è esaminare in che modo la rivoluzione della comunicazione digitale sta incidendo sul comportamento organizzativo, in senso positivo e negativo. Aspetto molto importante, il fulcro della nostra attenzione non saranno le ultime innovazioni nell’ambito della comunicazione (il cloud computing, Internet mobile, la realtà aumentata o i computer controllati con il movimento),53 ma i modi in cui la comunicazione digitale influenza le nostre azioni e interazioni negli ambienti di lavoro. Per esempio, i ricercatori si sono domandati se “i colleghi si comportano in maniera diversa a seconda del mezzo che usano. Si è riscontrato che gli individui sono molto più pronti a stroncare i colleghi per email che non compilando un modulo cartaceo.”54 Uno dei nostri obiettivi è valutare l’impatto delle tecnologie della comunicazione sulla produttività. Per esempio, Secondo quanto riscontrato da un recente studio del MIT, all’interno di un’organizzazione i dipendenti dotati di una rete digitale personale più ampia erano più produttivi rispetto ai colleghi del 7%; Wiki e strumenti del Web 2.0 possono quindi accrescere la produttività. Nella stessa organizzazione, però, i collaboratori dotati delle reti di contatti faccia a faccia più coese evidenziavano una produttività maggiore del 30%. Gli strumenti elettronici

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possono essere l’ideale per la ricerca di informazioni, ma le interazioni faccia a faccia […] favoriscono maggiormente l’integrazione delle informazioni.55

Il maggior volume di informazioni e la più elevata rapidità della comunicazione digitale non coincidono necessariamente con un miglioramento qualitativo della comunicazione. Il sovraccarico di informazioni nell’ambiente di lavoro è un problema che determina ingenti costi. Dopo aver analizzato due importanti problemi strategici per il management, passeremo a illustrare le otto norme della Net Generation, le dinamiche lavorative determinate dalle tecnologie di connessione e alcune conseguenze indesiderate delle odierne tecnologie di comunicazione/informazione.

Problemi strategici: la sicurezza e la privacy Dato che molti degli scambi comunicativi attuali passano attraverso sistemi computerizzati complessi collegati tramite Internet, disattenzioni o gesti intenzionali possono causare veri e propri disastri in termini di tempo di inattività o perdita di dati. Un esame della comunicazione digitale e delle tecnologie dell’informazione non può non toccare la doppia problematica della sicurezza e della privacy, perché una qualsiasi carenza in questi ambiti può compromettere l’integrità e l’affidabilità dell’intero processo di comunicazione elettronica. Dal 2000 al 2010, l’Internet Crime Complaint Center dell’FBI ha ricevuto oltre 2 milioni di segnalazioni e solo nel 2008 si sono registrate perdite record per 265 milioni di dollari.56 Secondo gli esperti, le perdite reali sono molto più elevate perché, temendo la pubblicità negativa che può derivarne, le aziende segnalano solo una piccola parte delle frodi informatiche. Ai fini della nostra analisi, è sufficiente ricordare i consigli per la sicurezza informatica e la tutela della privacy riportati nella tabella 14-5. La prevenzione è essenziale

Tabella 14-5 Proteggersi dalle violazioni della sicurezza e della privacy nel mondo di Internet • • • • • • •

Scegliere password forti. Associare lettere, simboli e numeri seguendo le linee guida fornite alla pagina web www.microsoft. com/protect/yourself/password/create.mspx. Usare password diverse per servizi Web diversi. Non utilizzare mai le password impiegate sul Web per i codici PIN di carte di credito o di debito. Non rivelare informazioni sensibili, neanche nelle aree “private” di siti come Facebook e Flickr che offrono accesso pubblico a gran parte dei contenuti. Non condividere file mediante servizi appositi come Google Docs, a meno che non sia strettamente necessario. Archiviare i dati la cui divulgazione potrebbe causare responsabilità penali o imbarazzo su dischi fissi e dispositivi di archiviazione personali. Evitare i servizi di condivisione dei file come Lime Ware, che distribuiscono file piratati. Sia i servizi sia il download possono esporre il computer a occhi indiscreti. Applicare gli aggiornamenti più recenti per la sicurezza a tutti i software, compresi sistemi operativi, browser e programmi antivirus.

Fonte: ristampato da S.H. Wildstrom, “Security Smarts,” 6 aprile 2009, pubblicazione di BusinessWeek con autorizzazione speciale. Copyright © 2009 The McGrawHill Companies, Inc.

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quando occorre proteggere i sistemi di comunicazione digitale da tentativi di hackeraggio, furto di identità e frode. Quanto siete scrupolosi nell’uso “sicuro” del computer?57

La dirompente Net Generation Il gruppo generazionale più numeroso nella storia degli Stati Uniti, composto dagli oltre 81 milioni di nati dall’inizio del 1977 alla fine del 1997, è unico nel suo genere non solo per le sue dimensioni: tutti i membri di questa generazione, infatti, sono cresciuti con la presenza costante di Internet nelle loro vite. Nel suo libro Grown Up Digital: How the Net Generation Is Changing Your World (in italiano, Net Generation. Come la generazione digitale sta cambiando il mondo, trad. di Elisa Tomassucci, Franco Angeli, Milano), lo scrittore, consulente e docente della University of Toronto Don Tapscott la definisce “Net Generation”. Comprendere la visione del mondo di questa generazione, plasmata dall’uso di Internet e delle tecnologie digitali per la comunicazione, fornisce una buona visione di come stanno mutando gli ambienti di lavoro. Scrive Tapscott: Dal punto di vista del talento, la Net Generation sta già trasformando la forza lavoro. Il gruppo generazionale più numeroso della storia sta contribuendo ad alimentare un vortice di talenti creato dall’espansione dell’economia globale, dalla mobilità del lavoro e dal pensionamento più rapido e più significativo della storia di un’intera generazione. I net gener stanno proponendo nuovi approcci alla collaborazione, alla condivisione delle conoscenze e all’innovazione nelle aziende e nei governi di tutto il mondo. Si è constatato che le organizzazioni pronte ad abbracciare nuove modalità di lavoro evidenziano prestazioni migliori, crescita e successo. Per vincere la guerra dei talenti, le organizzazioni devono riconsiderare molti aspetti delle procedure di reclutamento, retribuzione, sviluppo, collaborazione e monitoraggio dei talenti. A mio parere, oggi è la stessa idea di management ad attraversare una fase di trasformazione.58

Dopo anni di interviste e focus group che hanno coinvolto circa 10.000 persone in tutto il mondo (prevalentemente giovani), Tapscott e il suo team di ricercatori hanno individuato le otto norme della Net Generation (vedi tabella 14.6), che racchiudono schemi di esperienze, atteggiamenti, preferenze e aspettative caratteristici di questa generazione. I net gener cercano nella vita lavorativa lo stesso accesso istantaneo a informazioni complete e contatto personale – con l’empowerment che ne deriva – sul quale hanno potuto contare durante la crescita e gli studi. I manager che cercano di opporsi al cambiamento e testardamente sbarrano la strada ai net gener finiranno per essere travolti. Quante delle norme della Net Generation illustrate nella tabella 14-6 riuscite a individuare nella seguente situazione? Come quasi tutti i suoi coetanei, la ventitreenne Jamie Varon desiderava fortemente lavorare per Twitter. Aveva già presentato la sua candidatura per una posizione aperta attraverso il sito dell’azienda e aveva chiesto a un conoscente che lavorava per la Google di mettere una buona parola per lei; non contenta, era andata nella sede dell’azienda con una busta di biscotti nel tentativo di convincere un reclutatore a dedicarle un po’ del suo tempo. Nonostante tutto, però, non era ancora riuscita a ottenere un colloquio. Nel fare

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Tabella14-6 Che cosa anima la Net Generation? Le otto norme 1.

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Libertà. Il desiderio di sperimentare cose nuove e diverse assume maggiore importanza rispetto agli impegni nel lungo periodo. Orari e sedi di lavoro flessibili, possibilità di esprimere il proprio punto di vista sulla gestione dei compiti e libertà di scelta sono considerati aspetti importanti. Personalizzazione. Dalle suonerie per telefono cellulare personalizzate allo stile di vita al layout del profilo Facebook, tutto contribuisce a rendere la vita più piacevole e interessante. Valutazione. A fronte della compresenza di contenuti utili e di informazioni prive di valore su Internet, i net gener hanno imparato a essere scettici, a verificare le informazioni e a porre domande difficili. La schiettezza e la chiarezza sono molto apprezzate. Figure autoritarie e “dati” non sono considerati esenti da critiche. Integrità. “Per i net gener l’integrità morale – essere onesti e trasparenti, preoccuparsi del prossimo, essere ligi al dovere – è una questione fondamentale. In più, questi ragazzi sono dotati di una grande tolleranza.” La fiducia nei confronti del datore di lavoro, delle persone e dei prodotti è essenziale. La flessibilità etica nel ciberspazio (p.es., il plagio e il download di contenuti piratati) resta una questione aperta. Collaborazione. I rapporti umani sono fondamentali. I net gener sanno lavorare e divertisti con gli altri, sono pronti a condividere opinioni e suggerimenti e attribuiscono valore al volontariato. Divertimento. Lungi dall’essere una pena da scontare, il lavoro dovrebbe essere stimolante e divertente. Internet è uno strumento per la produttività, un dispositivo per le comunicazioni personali, una fonte di informazioni e uno “strumento preferenziale per lo svago”. Il multitasking è uno stile di vita che consente di vivere una realtà dinamica e interessante. Velocità. “Sono abituati ad avere una risposta subito, 24 ore su 24, ogni giorno. I video game danno un feedback istantaneo, Google fornisce una risposta alle loro ricerche in un nanosecondo.” SMS a catena, messaggi in chat e tweet sono molto più rapidi rispetto alle email e alle lentezze dei processi decisionali organizzativi. I net gener si aspettano un feedback rapido, accurato e utile sulle performance lavorative. Innovazione. Emerge con forza il desiderio di vivere esperienze d’uso nuove e diverse. “”Sul posto di lavoro, innovarsi significa rifiutare la tradizionale gerarchia di comando e proporre processi lavorativi che promuovano la collaborazione e la creatività.”

Fonte: adattamento e citazioni dall’analisi contenuta in D. Tapscott, Grown Up Digital: How the Net Generation Is Changing Your World (New York: McGraw-Hill, 2009), pp. 73-96. (in italiano, Net Generation. Come la generazione digitale sta cambiando il mondo, trad. di Elisa Tomassucci, Franco Angeli, Milano, pp. 87-116).

il passo successivo, la Varon si è sentita un po’ matta (di questi tempi, però, la ricerca di un lavoro spesso rasenta la follia): ha creato un sito web chiamato twittershouldhireme. com (“twitterdeveassumermi.com”), nel quale ha inserito curriculum, referenze e un blog con il racconto delle sue avventure. Nell’arco di 24 ore è stata contattata dall’azienda e ha ottenuto un incontro. Nel frattempo ha anche ricevuto due offerte di lavoro da aziende operanti nel settore tecnologico che avevano notato il suo sito web.59

Telependolarismo e telelavoro: vantaggi e problemi La comunicazione digitale ha significativamente alterato i legami tradizionali tra lavoro, spazio e tempo; una considerazione particolarmente vera per i lavoratori della conoscenza, che non realizzano prodotti concreti, come le automobili, né forniscono servizi diretti, come i tagli di capelli. Grazie al progresso della tecnologia delle telecomunicazioni e a strumenti Internet, come SocialEyes di Facebook, che possono collegare fino a nove persone disperse geograficamente per una video riunione, il telependolarismo oggi presenta una molteplicità di variazioni.60 Il telependolarismo consente di trasferire elettronicamente il lavoro a casa, eliminando la necessità di recarsi fisicamente in ufficio. L’accesso a Internet wireless e la telefonia mobile hanno determinato l’evoluzione del

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Telelavoro: compiere le mansioni che normalmente sono svolte in ufficio in una postazione remota tramite l’utilizzo di diverse tecnologie informatiche

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telependolarismo in telelavoro (cioè la possibilità di collegarsi all’ufficio da qualsiasi luogo). Tali trasformazioni hanno alterato il legame tradizionale tra lavoro e luogo fisico, perché i collaboratori possono svolgere le proprie mansioni in luoghi diversi anziché riunirsi in un unico ambiente. Anche il legame tradizionale tra lavoro e tempo è significativamente mutato: collaboratori dispersi geograficamente in aree con fuso orario diverso possono lavorare nello stesso momento (la cosiddetta comunicazione sincrona), mentre i membri di un team possono sviluppare un progetto in tempi diversi (comunicazione asincrona). Il ricorso al telelavoro e i suoi vantaggi Il 28% delle aziende statunitensi con almeno 500 dipendenti conta tra i propri collaboratori telependolari full-time, mentre il 40% impiega telependolari part-time.61 Dietro questi dati statistici ci sono persone la cui vita è considerevolmente cambiata: Un tempo la vita di Eve Gelb era un incubo di spostamenti della durata di un’ora e mezza lungo la superstrada 405 di Los Angeles. Che ricordi: la radio in sottofondo, l’aria viziata dell’auto […] Ormai però tutto questo appartiene al passato: la Gelb, project manager per la SCAN Health Plan, gigante statunitense che fornisce assistenza sanitaria, ha detto addio al suo ufficio, imballato le foto della famiglia, e si è trasferita nel nuovo ufficio domestico. [Piuttosto sorprendentemente,] l’idea è stata del suo capo. La SCAN è una delle numerose organizzazioni che incoraggiano i collaboratori a lavorare da casa. Se è vero che le aziende manifestano questa tendenza da anni, la congiuntura economica negativa ha indotto a contenere i costi immobiliari trasformando in una necessità quello che un tempo era considerato un gradevole benefit. Ed è proprio facendo leva su questo aspetto e offrendo una serie di altri allettanti vantaggi – magari un nuovo Blackberry – che le aziende stanno vendendo la novità ai collaboratori, le cui reazioni variano dall’estasi allo sconcerto.62

Secondo quanto sostenuto di recente da un esperto in materia, il telelavoro determina i seguenti vantaggi: “(1) accresce la produttività dei collaboratori, (2) accresce l’attrattiva del datore di lavoro, (3) abbassa i costi operativi, (4) migliora l’operatività durante le crisi e (5) contribuisce a migliorare l’impronta ambientale.”63 Inoltre, il telelavoro può favorire l’ingresso nella forza lavoro di persone disabili costrette in casa e detenuti. Problemi I vantaggi del telelavoro/telependolarismo sono stati documentati principalmente mediante testimonianze dirette anziché attraverso ricerche rigorose. Per esempio, la IBM ha dichiarato di aver risparmiato 100 milioni di dollari in capitale per le sedi e costi di attrezzatura consentendo al 42% dei dipendenti di lavorare da casa. FourGen Software e Continental Traffic Services hanno registrato incrementi di produttività del 25 e del 35% rispettivamente.64 Nel frattempo, però, i dubbi del management e i dati non proprio positivi della ricerca si sono accumulati. Un giornalista di settore inquadra così la situazione: “Ora che l’era del lavoro da qualsiasi luogo è ormai ben avviata, i manager hanno iniziato a domandarsi: i collaboratori stanno lavorando da lontano […] o stanno lontani dal lavoro?”65 Per lavorare da casa, dalla biblioteca o dalla spiaggia occorre autodisciplina. Anche le implicazioni per la carriera non sono trascurabili: secondo un sondaggio condotto su 1.300 dirigenti

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in 71 paesi, si tende generalmente a pensare che le persone che lavorano a distanza hanno meno probabilità di ottenere una promozione;66 come si dice, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Un altro fattore da considerare è il senso di isolamento professionale sperimentato da chi lavora a distanza: in uno studio recente condotto su “un campione di 261 professionisti telelavoratori associati ai rispettivi manager è emerso che l’isolamento professionale determina conseguenze negative sulle prestazioni lavorative”.67 Infine, come evidenziato dal riepilogo di un altro recente studio, che riportiamo di seguito, la “libertà” del telelavoro può causare un grave squilibrio tra vita professionale e vita privata: Mediante indagini e attività di follow up condotte attraverso focus group, lo studio ha rilevato che se le tecnologie offrivano un ventaglio più ampio di opzioni rispetto ai tempi e ai luoghi di svolgimento del lavoro, la connettività determinava la disponibilità continua a lavorare e spesso innalzava le aspettative più del dovuto, determinando orari di lavoro più lunghi e, paradossalmente, un minore senso di flessibilità.68

Riprendendo le considerazioni espresse nel Capitolo 11 a proposito dei team virtuali, le interazioni faccia a faccia per motivi professionali o di svago sono essenziali per lo sviluppo dello spirito di team e la coesione del gruppo. Avendo lavorato per anni a questo libro dal proprio ufficio domestico, chi scrive consiglia ai telelavoratori di imparare a premere il tasto “off” nella loro testa e a liberarsi dal guinzaglio elettronico.

Gestire le conseguenze indesiderate dell’era digitale Nel cammino verso il futuro digitale si è verificato un interessante fenomeno: tecnologie comode, rapide e divertenti hanno dato adito a comportamenti improduttivi, deprecabili e persino pericolosi. Per esempio, i linguisti lamentano che strumenti digitali come le email, gli SMS e i tweet hanno ulteriormente impoverito le capacità di scrittura; insegnanti e manager non possono che storcere il naso davanti a progetti di ricerca, documenti formali e corrispondenza ufficiale infarciti di emoticon e abbreviazioni informali.69 Un altro pomo della discordia legato agli sviluppi dell’era digitale è ciò che la vicepresidente della Microsoft Linda Stone definisce “continua attenzione parziale”, spiegando: “Sei in una sala riunioni e tutti coloro che ti circondano buttano l’occhio – spesso e cercando di dissimulare – al telefono cellulare oppure al BlackBerry che tengono nascosto sotto il tavolo […] Controllare continuamente i dispositivi elettronici portatili è diventato un fenomeno epidemico.”70 Analizziamo le conseguenze comportamentali indesiderate dell’uso della posta elettronica e del telefono cellulare, due strumenti per la comunicazione digitale ormai onnipresenti, con l’obiettivo di accrescere l’efficacia comunicativa. Concludiamo la nostra analisi consigliando una politica aziendale per l’uso dei social media. Uso eccessivo della posta elettronica Le persone tendono ad avere un rapporto di amore-odio con la posta elettronica perché, trattandosi di uno strumento comodo e rapido, se ne fa un uso eccessivo. Secondo un recente sondaggio condotto su 805 lavoratori, il 56% ha tre o più account di posta elettronica di lavoro e privati.71 Gestire oltre 100

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email al giorno è un compito ormai di routine per i manager più impegnati. Mediante gli smartphone collegati a Internet e i tablet come l’iPad, possiamo inviare e ricevere email ventiquattro ore su ventiquattro da qualsiasi luogo, anche dal volante dell’automobile. Oltre ai pericoli legati alle distrazioni alla guida, i ricercatori hanno documentato altre conseguenze indesiderate dell’uso della posta elettronica, tra cui (1) diminuzione delle altre forme di comunicazione tra colleghi, compresi i saluti e le conversazioni informali; (2) comunicazione inadeguata o errata delle emozioni; (3) percezione di un maggiore senso di isolamento; infine, (4) tendenza più spiccata a mentire in un’email che in un messaggio tradizionale scritto con carta e penna.72 Sostenendo la necessità di politiche formali di regolamentazione dell’uso delle tecnologie nelle organizzazioni, un esperto ha di recente osservato: L’uso della posta elettronica continua a presentare una serie di problemi legali, etici e di produttività. Problema uno: gli utenti associano l’email alla comunicazione orale considerandola un mezzo informale, e non un messaggio che resta anche se elaborato nei termini sbagliati. Le email scritte e archiviate non sono assimilabili alle conversazioni faccia a faccia: una parola sbagliata oppure una frase scritta senza pensarci, con malizia o con collera possono determinare conseguenze legali.73

Oltre a elaborare e comunicare formalmente una politica aziendale per la gestione della posta elettronica e ad adottare i suggerimenti illustrati nella tabella 14-7, i manager possono cercare di contenere il ricorso eccessivo alle email con strategie creative. Per esempio, un gruppo ingegneristico della Intel, azienda produttrice di chip per computer, ha istituito i venerdì senza posta elettronica.

Tabella 14-7 Suggerimenti pratici per la gestione della posta elettronica •



• • • •



Non date per scontato che il contenuto delle email sia confidenziale. Le aziende stanno approntando un crescente monitoraggio di tutta la posta elettronica. Quando scrivete, pensate che i vostri messaggi saranno archiviati e potrebbero essere letti da chiunque. Siate professionali e cortesi. Eliminate i vecchi messaggi negli scambi di email, non inviate catene e scherzi, evitate di usare solo il maiuscolo (equivale a gridare), non rispondete immediatamente a un’email sgradevole, evitate di usare testo e sfondo a colori, non divulgate i vostri contatti a sconosciuti e siate pazienti nell’attesa delle risposte. Evitate la sciatteria. Usate un correttore ortografico e rileggete sempre il messaggio prima di inviarlo. Non usate la posta elettronica per problemi mutevoli o complessi. Scegliete sempre il mezzo di comunicazione più adeguato alla situazione. Puntate sulla concisione e sulla chiarezza. Esprimete chiaramente quello che intendete nell’oggetto dell’email. Siate concisi ricorrendo, se opportuno, a elenchi puntati. Aiutate il destinatario a risparmiare tempo. Se è il caso, nell’oggetto oppure nella parte superiore del messaggio segnalate che non è necessaria una risposta. Elaborate un oggetto descrittivo e adeguato, che aiuti il destinatario ad assegnare al vostro messaggio la giusta priorità. Gestite con attenzione gli allegati. Gli allegati pesanti possono ingolfare il sistema del destinatario e possono determinare operazioni di download molto lunghe. Inviate solo file strettamente necessari e chiedete al destinatario il permesso di inviare più allegati.

Fonti: adattato da C. Graham, “In-Box Overload,” Arizona Republic, 16 marzo 2007, p. A14; M. Totty, “Rethinking the Inbox,” The Wall Street Journal, 26 marzo 2007, p. R8; F.C. Leffler e L. Palais, “Filter Out Perilous Company E-Mails,” SHRM Legal Report, HR Magazine, agosto 2008, pp. 1-3; e P. Kemp, “10 Ways to Reduce E-Mail Overload,” Harvard Business Review, settembre 2009, p. 88.

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Non è vietato inviare email, ma tutti sono incoraggiati a prediligere i contatti telefonici oppure le conversazioni faccia a faccia. L’obiettivo è favorire una comunicazione più diretta e libera e un miglior scambio di idee, riferisce nel blog aziendale l’ingegnere capo della Intel Nathan Zeldes.74

Uso e abuso del telefono cellulare Come la posta elettronica, l’ampio uso di telefoni cellulari (per la maggior parte dotati di fotocamera incorporata) ha generato molteplici conseguenze comportamentali indesiderate, che variano in gravità da quelle semplicemente fastidiose (suonerie a volume elevato o conversazioni in luoghi pubblici) a quelle non etiche o illegali (scambio di materiale pornografico e fotografie di aree o materiali non pubblici) fino a quelle mortali.75 A questo proposito, rispetto alla controversa pratica di scrivere SMS durante la guida: “uno studio condotto dal Virginia Tech Transportation Institute su autisti di camion che percorrevano lunghe tratte ha rilevato che il rischio di incidente era 23 volte superiore quando i conducenti scrivevano SMS mentre guidavano.”76 Tenendo conto dei risultati di questa ricerca e seguendo i consigli per la gestione del telefono cellulare presentati nella tabella 14-8 è possibile ottimizzare la comunicazione digitale ed evitare i rischi per la sicurezza. Una politica per l’uso dei social media sul posto di lavoro Nel giro di pochi anni, i social media hanno determinato un impatto significativo sulla nostra vita, fuori e dentro l’ambiente di lavoro. Consideriamo questi significativi dati statistici, aggiornati all’inizio del 2011: • Facebook ha oltre 610 milioni di iscritti nel mondo che condividono 50.000 link ogni 60 secondi, mentre LinkedIn ha 90 milioni di membri. • Gli utenti di YouTube guardano 2 miliardi di video al giorno. In media ogni minuto si caricano video della durata media complessiva di 35 ore. • Gli utenti di Twitter pubblicano un miliardo di Tweet a settimana. • Secondo un recente sondaggio condotto su 1.600 lavoratori negli Stati Uniti, in Giappone, nel Regno Unito e in Germania, il 24% degli intervistati accede ai social media dalla rete aziendale.

Tabella 14-8 I cinque comandamenti del galateo del telefono cellulare 1. 2. 3. 4. 5.

Non far subire ad altri individui inermi le tue conversazioni al telefono cellulare. Il galateo del telefono cellulare, come tutte le altre forme di galateo, si basa sul rispetto per gli altri. Esistono suonerie migliori di “La cucaracha”. È un telefono, non un sistema per gli annunci al pubblico. Ricordati di abbassare la suoneria durante le occasioni pubbliche. Abbassate la suoneria o impostate la vibrazione durante riunioni o mentre siete in compagnia di altri; se necessario, rispondete o richiamate a cortese distanza. Non armeggiare con il telefono cellulare mentre sei alla guida. Se non potete fare a meno di parlare al telefono cellulare mentre guidate, usate il vivavoce. Durante le conversazioni al telefono cellulare, non parlare a voce più alta di quanto non faresti su un altro telefono. Magari non ve ne rendete conto, ma può risultare molto fastidioso.

Fonti: i cinque comandamenti in grassetto sono estratti da D. Brody, “The Ten Commandments of Cell Phone Etiquette,” Infoworld, 5 febbraio 2005, www.infoworld. com. Le cinque interpretazioni sono tratte da R. Kreitner e C. Cassidy, Management, XII edizione, (Mason, OH: South-Western Cengage Learning, 2012), p. 319.

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• In un sondaggio sugli utenti di LinkedIn, Facebook e Twitter, il 26% ha dichiarato di fingere un poco, il 22% ha ammesso di mentire e il 21% di inventare tutto di sana pianta. Solo il 31% si è dichiarato completamente onesto. • Il 64% di 7.200 manager cui è stato chiesto se la loro azienda monitora i contenuti pubblicati sui social media ha risposto di no.77 Conclusione: l’uso dei social media sul posto di lavoro è diffuso, di qualità opinabile e, a quanto pare, fuori controllo. Le organizzazioni possono approntare molteplici misure, che variano dal bloccare l’accesso ai social network al monitorare i contenuti pubblicati dai dipendenti sia durante l’orario di lavoro che durante il tempo libero. La IBM ha preferito un approccio proattivo e cooperativo: Dato che centinaia di collaboratori si dedicavano a tenere un blog durante il tempo libero, nel 2005 la IBM ha messo a punto un insieme di “linee guida per il social computing” che è ormai cresciuto sino a comprendere le attività su siti come Twitter e Facebook. Queste regole stimolano i collaboratori a essere onesti rispetto alla propria identità, ricordano loro che sono personalmente responsabili dei contenuti pubblicati e li invitano a riflettere prima di pubblicare qualcosa. Viene inoltre chiesto loro di “tenersi alla larga da argomenti controversi non legati al ruolo in IBM”, spiega Gina Poole, vicepresidente social software. Se molti considerano Twitter una vetrina di se stessi, la IBM incoraggia i dipendenti ad “aggiungere valore” a tutti i contenuti postati online. “State costruendo la vostra reputazione sociale, non vorrete apparire frivoli o scialbi” afferma la Poole. “Se scrivete ‘A colazione ho bevuto un cappuccino’ non state realmente aggiungendo valore.”78

I social media pongono due sfide interconnesse alle organizzazioni: (1) sfruttare il potenziale di marketing, miglioramento della reputazione, team building, formazione e empowerment di clienti e collaboratori; (2) rispettare il diritto alla privacy ed evitare abusi legali ed etici da parte dei dipendenti. Le linee guida illustrate nella tabella 14-9 (applicabili anche all’uso privato del sistema di posta elettronica e del telefono aziendali) sono un passo verso la giusta direzione. Tabella 14-9 Linee guida per l’uso dei social media sul posto di lavoro • • • •

Chi utilizza le risorse elettroniche aziendali per inviare messaggi di pubblico dominio deve essere autorizzato dall’azienda. Qualsiasi identificativo dell’autore – compresi username, immagini o loghi e profili – non deve contenere loghi, marchi commerciali o altri beni appartenenti alla proprietà intellettuale dell’azienda senza la specifica autorizzazione della stessa. Chiunque non sia portavoce dell’azienda e commenti qualsiasi aspetto dell’attività di quest’ultima deve specificare che le informazioni pubblicate rappresentano opinioni personali e non il punto di vista dell’organizzazione. I messaggi non devono contenere informazioni confidenziali o di proprietà dell’azienda.

Fonte: R. Stephens, “In a Dither Over Twitter? Get a Policy,” HR Magazine, giugno 2009, p. 30.

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Quanto possono divergere i punti di vista? Quando anche l’ultimo camion si avviò sulla rampa di uscita, Giorgio Moretti si voltò verso il gruppo che era dietro di lui e disse: “Adesso tutti in ufficio!” Aveva messo in fresco delle bottiglie di vino e acquistato personalmente pizzette e patatine per l’aperitivo, perché davvero quello era un giorno di festa. Si ricordava ancora come un incubo quando il responsabile della produzione, Luigi Manzi, si era dimesso improvvisamente, due mesi prima, e lui, giovane vice senza arte né parte, come si considerava, era stato chiamato dall’Amministratore Delegato e incaricato di portare a termine un lotto di produzione importantissimo per un cliente chiave. Andreasi era stato di grande sostegno: “Giorgio, so che è un compito difficile, ma non ho nessun altro che possa farlo. Mi tenga informato degli sviluppi, mi chieda aiuto quando lo ritiene necessario. Ma dobbiamo provarci!” Dopo una notte insonne fece l’unica cosa che secondo lui avesse senso: chiamò a raccolta i capi reparto e condivise il problema con estrema chiarezza e umiltà. Spiegò la situazione così come gli era stata raccontata, disse che, secondo lui, ce la potevano fare, solo che dovevano cambiare il modo di lavorare. Mentre prima si erano sempre rivolti al capo per ricevere indicazioni, dovevano trovarsi ogni mattina prima di iniziare la produzione e fare il punto della situazione,

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mettere a fuoco i problemi della giornata e decidere insieme a lui cosa fare. Sorprendentemente le cose funzionarono. Giorgio ebbe l’impressione che i capi reparto fossero stanchi del modo di lavorare di Luigi, efficiente sicuramente, ma anche molto accentratore. Ebbe quasi l’impressione che lo “adottassero” e che volessero fare con lui bella figura. Certo, lui era molto diverso dal suo predecessore: proprio perché consapevole di avere meno esperienza era pronto ad ascoltare, a ragionare e a decidere insieme. Il suo modo di agire era molto diretto, ma sempre concentrato sull’obiettivo. Se due tra i suoi più stretti collaboratori si mettevano a discutere, lui sapeva porre le domande giuste per farli uscire dall’impasse. Oggi, finalmente, il risultato era stato raggiunto e le pacche sulle spalle, i sorrisi e lo spirito del gruppo lo ripagavano molto di più dei complimenti che Andreasi gli aveva fatto. Dopo il brindisi gli si avvicinò Mauro, l’anziano magazziniere prossimo alla pensione: “E bravo il nostro Giorgio. Ho capito subito che eri un tipo furbo. Appena si è aperto uno spiraglio, zac, ti sei inserito come un fulmine. Si vedeva dai primi giorni che avresti fatto carriera! Adesso poi che sei diventato il cocco di Andreasi, non ti terrà più nessuno”.

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Reciprocità di interesse: bilanciamento degli interessi individuali e dell’organizzazione tramite una cooperazione win-win

I processi organizzativi

Al centro delle questioni interpersonali nel lavoro delle organizzazioni odierne vi è una continua lotta tra gli interessi collettivi e quelli individuali. Ciascun dipendente, per esempio, vorrebbe uno stipendio più alto, ma l’impresa non guadagna abbastanza da poter garantire sia gli aumenti di stipendio sia l’acquisto dei nuovi macchinari necessari per la produzione. La soggettiva preoccupazione per l’interesse personale è comprensibile; ciascuno di noi è nato non come membro di un’organizzazione collaborativa, ma come individuo dotato di istinti di auto conservazione. È stata necessaria la socializzazione in famiglia, a scuola, in ambienti religiosi, sportivi, di ricreazione e di lavoro per venire a contatto con il concetto di reciprocità di interesse. La reciprocità di interesse, sostanzialmente, implica una situazione win-win nella quale l’interesse del singolo viene soddisfatto tramite una cooperazione attiva e creativa, anche con potenziali concorrenti. Due consulenti di sviluppo organizzativo hanno proposto, a tal proposito, il seguente punto di vista: Nulla è più importante di tale senso di reciprocità per garantire efficacia e qualità ai prodotti e servizi di una organizzazione. Il management deve sforzarsi di stimolare, in ciascun collaboratore, un forte senso di proprietà condivisa, perché agendo diversamente l’organizzazione, a lungo andare, non può operare al meglio. I collaboratori che identificano il loro interesse personale con la qualità del risultato dell’organizzazione capiscono cosa sia la reciprocità e lottano per conservare il loro posto di lavoro e i loro rapporti professionali.1

La figura 15-1 illustra graficamente il continuo tiro alla fune tra l’interesse personale dei collaboratori e la necessità dell’organizzazione di salvaguardare gli interessi complessivi; essa mostra inoltre il legame tra gli argomenti trattati nel presente capitolo, come l’influenza, l’empowerment e le politiche organizzative, e altri argomenti chiave oggetto di discussione nel volume. Al fine di perseguire l’interesse comune i manager hanno bisogno di una serie completa di metodologie per gestire i diversi individui, spesso visibilmente motivati ad anteporre i loro interessi personali a quelli collettivi. In questo tiro alla fune tra interessi individuali e complessivi a rischiare è niente meno che la sopravvivenza dell’organizzazione.

Figura 15-1 Il continuo tiro alla fune tra interessi personali e reciprocità di interesse richiede un’azione manageriale

Clima distruttivo Competizione e sospetto

Interesse personale

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Tattiche politiche non etiche

Soggetti organizzativi • individui • gruppi

Clima di apertura Cooperazione e fiducia Tattiche di influenza Reciprocità Empowerment di interesse (efficacia Motivazione (Capitoli 8-9) Team building (Capitolo 11) organizzativa) Comunicazione (Capitolo 14) Leadership (Capitolo 16)

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Tattiche di influenza organizzativa Come riuscite a fare in modo che altri soddisfino le vostre richieste? Agite semplicemente dicendo loro cosa devono fare? O preferite un approccio meno diretto, magari promettendo di restituire il favore? In qualunque modo voi agiate, il nocciolo della questione è l’influenza sociale. L’interazione interpersonale, in larga parte, implica tentativi di esercitare la propria influenza sugli altri, compresi i genitori, i nostri capi, i colleghi, il coniuge, gli insegnanti, gli amici e i clienti. Tutti noi, di conseguenza, dovremmo affinare le nostre doti di influenza. Un buon punto di partenza potrebbe essere quello di acquisire dimestichezza con i suggerimenti derivati dalla ricerca in materia e di seguito riportati.

Nove tattiche di influenza generiche Un gruppo di ricerche particolarmente fruttuoso, avviato da Davi Kipnis e dai suoi colleghi nel 1980, mostra in che modo le persone, nelle organizzazioni, si influenzano a vicenda. La metodologia di Kipnis consiste nel chiedere ai collaboratori di spiegare in che modo riescono a far sì che i loro capi, i colleghi o i subalterni facciano quello che loro desiderano.2 Perfezionamenti statistici e ripetizioni degli esperimenti da parte di altri ricercatori, in un arco di tempo di 13 anni, hanno portato, alla fine, alla sintesi di nove tattiche di influenza. Tali tattiche, poste in ordine decrescente a seconda del loro uso sul luogo di lavoro, sono le seguenti: 1. Persuasione razionale. Tentativo di convincere qualcuno ricorrendo alla ragione, alla logica o ai fatti. 2. Ispirazione. Tentativo di suscitare l’entusiasmo facendo leva sui sentimenti, gli ideali o i valori altrui. 3. Consultazione. Coinvolgimento degli altri perché prendano parte alla fase di pianificazione, a quella decisionale e ai cambiamenti. 4. Propiziazione. Mettere qualcuno in uno stato di buon umore prima di effettuare una richiesta; mostrarsi amichevoli, disponibili, cerimoniosi e adulatori. 5. Attrazione personale. Fare riferimento ad amicizia e lealtà al momento di effettuare una richiesta. 6. Scambio. Fare promesse esplicite o implicite e contrattare favori. 7. Tattiche di coalizione. Coinvolgimento di altri nel sostenere lo sforzo di persuadere qualcuno. 8. Pressione. Pretendere obbedienza, ricorrere a intimidazione o minacce. 9. Tattiche di legittimazione. Basare una richiesta sull’autorità o il diritto di qualcuno, sulle regole o politiche organizzative, o sul supporto diretto o implicito di superiori.3 Tali approcci possono essere considerati tattiche di influenza generiche perché caratterizzano, a 360 gradi e in un’ampia varietà di situazioni, l’influenza sociale. Indipendentemente dal fatto che la direzione di influenza sia discendente, ascendente o laterale, i ricercatori reputano che l’ordine in cui le tattiche sono state messe sia abbastanza attendibile.4

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Alcuni definiscono le prime cinque tattiche di influenza – ovvero la persuasione razionale, l’ispirazione, la consultazione, la propiziazione e l’attrazione personale – “soft”, perché più cordiali e non tanto imperative quanto le ultime quattro. Lo scambio, la coalizione, la pressione e la tattiche di legittimazione, stando all’opinione diffusa, sono definite “hard”, perché implicano una pressione esplicita.

Tre possibili esiti di un processo di influenza Immaginate di trovarvi in una situazione piuttosto comune come quella che segue: è mercoledì e per venerdì dovete finire un importante progetto al quale state lavorando da tempo per il vostro gruppo. Siete rimasti indietro nella preparazione dei grafici al computer necessari per la vostra relazione finale. Riuscite a fermare un amico abilissimo in materia, mentre sta per lasciare l’ufficio. Affinché vi aiuti, tentate con la seguente tattica di scambio: “Sono rimasto veramente indietro. Ho bisogno del tuo aiuto. Se tu potessi rientrare in ufficio per un paio d’ore questa sera e aiutarmi con questi grafici io ti completerei le tabelle di cui tu ti lamenti.” Stando a quanto affermano i ricercatori, il vostro amico si comporterà secondo uno dei tre possibili esiti di seguito riportati: 1. Impegno. Il vostro amico accetterà con entusiasmo dimostrando iniziativa e perseveranza nel portare a termine il compito. 2. Adeguamento. Il vostro amico si adeguerà controvoglia e necessiterà di essere sollecitato per soddisfare i requisiti minimi. 3. Resistenza. Il vostro amico si rifiuterà, troverà delle scuse o inizierà una discussione.5 Il risultato migliore è quello dell’impegno perché la motivazione intrinseca verso il risultato della persona interpellata attiverà una buona performance. Nel complesso mondo del lavoro odierno, tuttavia, i manager devono spesso accontentarsi dell’adeguamento. La resistenza è sintomo di un tentativo di influenza fallito.

Potere sociale Il termine “potere” evoca reazioni differenziate, spesso appassionate. Nel citare recenti episodi di corruzione governativa e di malcostume aziendale, molti osservatori vedono il potere come una forza sinistra. Per questi scettici l’affermazione di Lord Acton, secondo cui “il potere corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto”, è sempre più vera.6 D’altra parte, gli esperti di comportamento organizzativo ci ricordano che il potere, piaccia o meno, è un fatto della vita nelle organizzazioni moderne. Secondo uno studioso di management: il potere deve essere usato perché i manager devono avere l’influenza su coloro che dipendono da loro. Il potere inoltre è cruciale nello sviluppo della fiducia in se stessi dei manager e nella loro determinazione di supportare i subordinati. Da questa prospettiva il potere deve essere accettato come una componente naturale di ogni organizzazione. I dirigenti devono riconoscere e sviluppare il loro potere per coordinare e supportare il

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lavoro dei collaboratori. È la mancanza di potere, e non il potere, che mina l’efficacia delle organizzazioni.7

Potere sociale: capacità di ottenere risultati da risorse umane, informatiche e materiali

Perciò il potere è una forza necessaria, generalmente positiva, nelle organizzazioni. Il potere sociale è qui definito come l’abilità di governare risorse umane, materiali e informazioni per ottenere risultati organizzativi.8 L’esercizio del potere sociale nelle organizzazioni non è necessariamente una azione discendente dall’alto verso il basso. I collaboratori possono esercitare potere verso l’alto o in modo orizzontale, e a volte lo fanno. Un esempio di gioco di potere verso l’alto accadde nell’azienda Alberto Culver, società di prodotti per la cura della persona. Leonard Lavin, fondatore dell’azienda, aveva l’urgente necessità di rivitalizzarla, perché alcuni collaboratori chiave avevano lasciato per unirsi a concorrenti più innovativi, come Procter & Gamble. La figlia di Lavin, Carol Bernick, e suo marito Howard, da tempo impiegati nell’azienda, presero in mano il problema: Sebbene persino i Bernick stessero pensando di cambiare azienda, […] marciarono dentro l’ufficio di Lavin e gli diedero un ultimatum: se non avesse lasciato le redini in qualità di amministratore delegato, lo avrebbero lasciato solo a condurre l’azienda. Per Lavin fu un duro colpo, che lo forzò a considerare la vendita dell’azienda ad altri o la cessione del controllo a una generazione più giovane. Non volendo vendere, pur riluttante, fece un passo indietro, rimanendo presidente. Carol Bernick, raccontando l’episodio, sottolinea la difficoltà di allontanare il proprio padre e di scardinare la struttura di controllo dell’azienda che lui aveva creato.9

Howard Bernick divenne CEO e lo stile manageriale direttivo dell’azienda venne abbandonato a favore di una cultura più aperta; sembra che anche Lavin ora sia contento di come sono andate le cose.10

Dimensioni del potere Mentre per l’osservatore comune il potere è un concetto piuttosto elusivo, secondo gli scienziati sociali è caratterizzato da dimensioni abbastanza chiare. Due di esse sono utili al nostro studio: (1) la contrapposizione tra potere personalizzato e potere socializzato; (2) le cinque basi del potere.

Potere socializzato: volto ad aiutare gli altri Potere personalizzato: volto a raggiungere i propri scopi

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Due tipi di potere Studiosi del comportamento come David Mc-Clelland hanno discusso l’ipotesi secondo cui il bisogno di potere è uno dei bisogni primari dell’uomo, poiché questo bisogno è appreso e non innato. Il tema è stato oggetto di ampie e approfondite ricerche. Agli albori di questi studi si attribuiva a un individuo un elevato bisogno di potere quando, osservando le immagini volutamente ambigue di un test TAT (Thematic Apperception Test), l’individuo le interpretava nei termini di una persona che tenta di influenzarne, convincerne, persuaderne o controllarne un’altra. Più di recente, invece, i ricercatori hanno operato una distinzione tra potere socializzato e potere personalizzato.

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Esistono due sotto-dimensioni o “facce” nel bisogno di potere (n Pwr = need for power): la prima viene definita potere “socializzato” (s Pwr = socialized power) e, nel Thematic Apperception Test (TAT), si collega a “piani, dubbi personali, risultati misti e preoccupazione per gli altri”, mentre la seconda si chiama potere “personalizzato” (p Pwr = personalized power) e in essa le espressioni del potere a fine di puro rafforzamento personale diventano di primaria importanza.11

I manager e tutti coloro che perseguono il potere personalizzato per i loro scopi egoistici contribuiscono a dare al concetto di potere una cattiva reputazione. Secondo i risultati delle ricerche, i manager esibiscono potere personalizzato quando: • • •

si concentrano in misura preponderante sulla soddisfazione dei propri bisogni; si concentrano meno sui bisogni dei collaboratori; si comportano come se fossero al di sopra delle regole che gli altri sono tenuti a rispettare.12

Nancy Traversy, cofondatrice e CEO della casa editrice per ragazzi Barefoot Books, ha recentemente raccontato come è diventata un’imprenditrice: Sono nata in Canada in una famiglia di artisti e quindi la mia scelta di studiare discipline economiche mi ha fatto subito diventare la pecora nera. Dopo l’università ho lavorato per la divisione bancaria della Pricewaterhouse a Londra. Un giorno indossavo un tailleur pantalone e uno dei partner mi ha detto “Le donne non portano i pantaloni”, chiedendomi di andare a casa a cambiarmi. È stata un’esperienza formativa.13

Una serie di interviste con 25 donne americane elette a incarichi pubblici ha mostrato, invece, una spiccata predilezione per il potere socializzato.14 Un buon esempio in tal senso è Sheryl Sandberg, chief operating officer di Facebook, che di recente ha scritto: Ho iniziato la mia carriera alla Banca mondiale, dove mi occupavo di progetti per contrastare la lebbra, l’AIDS e la cecità in India. Durante il primo viaggio in India, sono stata accompagnata in visita al lebbrosario di un villaggio e ho visto gente che viveva in condizioni disumane. Ho promesso a me stessa che avrei lavorato solo a progetti realmente importanti. Facebook consente alle persone di esprimersi nel modo più autentico e quindi di usare la tecnologia per scoprire gli altri e condividere la propria vera identità. Si instaurano rapporti che possono davvero fare la differenza anche nella vita reale.15

Le cinque basi del potere Uno schema generale di categorizzazione del potere sociale ci è dato dal lavoro di French e Raven, che risale a più di 50 anni fa. I due studiosi hanno affermato che il potere ha origine da cinque basi diverse: potere di ricompensa, potere coercitivo, potere legittimo, potere di competenza e potere di esempio.16 Ciascuno di essi implica un approccio diverso all’esercizio dell’influenza sugli altri: Potere di ricompensa: esercitare influenza in seguito a promesse o effettive ricompense

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Potere di ricompensa. Un manager esercita il potere di ricompensa quando ottiene obbedienza promettendo o assegnando ricompense. Il potere di ricompensa è es-

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senziale per plasmare il comportamento nell’ambiente di lavoro con riconoscimenti verbali o scritti e altre forme di rinforzo positivo. L’esperto di formazione Roy Saunderson spiega: Spesso le persone lamentano di ricevere riconoscimenti solo al raggiungimento dell’obiettivo finale, sottolineando la totale assenza di feedback positivi durante il percorso per arrivare al risultato. Che grande opportunità persa per dare atto ai collaboratori dei tanti sforzi necessari per giungere all’obiettivo prefissato. E che ottima occasione per esercitare l’arte di premiare il lavoro e le qualità della persona che lo ha svolto.17

• Potere coercitivo: esercitare influenza tramite punizioni minacciate o effettive Potere legittimo: esercitare influenza tramite autorità formale

Potere di competenza: esercitare influenza grazie al possesso di conoscenze e informazioni qualificate

Potere di esempio: esercitare influenza grazie al proprio carisma o alla personale attrattiva

Potere coercitivo. Minacce di sanzioni o penalità effettive conferiscono a un individuo un potere coercitivo. • Potere legittimo. Tale base del potere è legata a una posizione o autorità formale. Quindi i manager che, in fase decisionale, ottengono obbedienza principalmente grazie alla loro autorità formale, possiedono un potere legittimo. Il potere legittimo, nella gestione delle persone, si può esprimere in modo positivo o negativo. Il potere legittimo positivo si concentra in modo costruttivo sulla performance lavorativa. Quello negativo, al contrario, tende a essere minaccioso e degradante per coloro che ne subiscono l’influenza; il suo scopo principale è rafforzare l’ego di colui che lo detiene. • Potere di competenza. Conoscenze e informazioni qualificate danno all’individuo che le trasmette un potere di competenza rispetto a coloro che necessitano di tali conoscenze e informazioni. L’abile uso del potere di competenza ha giocato un ruolo determinante nell’efficacia dei team leader in uno studio di tre gruppi di diagnosi medica.18 La conoscenza, negli attuali luoghi di lavoro altamente tecnologici, è il potere. • Potere di esempio. Chiamato anche carisma, il potere di esempio entra in gioco quando la personalità del leader diventa la ragione che porta all’obbedienza. Modelli di ruolo esercitano il potere di esempio su coloro che si identificano molto in loro.19

Ricerche sul potere sociale In un studio condotto su un campione composto da 94 uomini e 84 donne, dipendenti in ruoli professionali e non manageriali a Denver, in Colorado, i partecipanti hanno completato i test TAT. I ricercatori hanno rilevato che uomini e donne avevano analogo bisogno di potere (n Pwr) e di potere personalizzato (p Pwr). Le donne, però, rispetto ai loro colleghi maschi, hanno mostrato di avere un ben più alto bisogno di potere socializzato (s Pwr).20 Tale dato è di buon auspicio per le organizzazioni odierne, nelle quali le donne stanno giocando un ruolo sempre più importante. Sfortunatamente, con l’incremento del potere nelle mani delle donne è stata registrata una tensione maggiore tra i due sessi. La rivista Training offre il seguente punto di vista: Gli osservatori vedono la tensione fra uomini e donne sul posto di lavoro come conseguenza naturale della disuguaglianza di potere tra i due sessi. Stando a quanto affermano, gli uomini detengono la maggior parte del potere e oppongono resistenza di fronte a

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qualsiasi cambiamento come forma di protezione della loro base di potere. La [consulente Susan L.] Webb afferma che le molestie sessuali derivano molto più dal voler esercitare il proprio potere in maniera poco corretta, piuttosto che da una vera e propria attrazione sessuale. Parimenti, il soffitto di vetro, metafora usata per raffigurare le barriere invisibili ma reali che le donne affrontano nella scalata sociale verso posizioni dirigenziali, riguarda il potere e l’accesso al potere.21

Stando a uno studio che ha preso in esame 140 studentesse e 125 studenti di college a Sidney, in Australia, “le donne al potere sono state descritte in maniera più positiva dalle donne che dagli uomini”.22 Un riesame di 18 studi condotti sul campo che valutavano le cinque basi del potere di French e Raven ha rilevato “gravi mancanze a livello metodologico”.23 Dopo aver provveduto alla correzione di tali problemi, i ricercatori hanno individuato i seguenti rapporti tra le basi del potere e risultati quali la performance lavorativa, la soddisfazione professionale e il turnover: •

Il potere di competenza e il potere di esempio hanno avuto in generale un impatto positivo. • Il potere di ricompensa e il potere legittimo hanno avuto un risultato lievemente positivo. • Il potere coercitivo ha avuto un impatto lievemente negativo. Gli stessi ricercatori, in uno studio successivo comprendente 251 collaboratori senior, hanno osservato il rapporto tra gli stili di influenza e le basi del potere. Si è trattato di uno studio orientato dal basso verso l’alto; in altre parole, sono state esaminate le percezioni dei collaboratori in merito all’influenza e al potere manageriale. La persuasione razionale si è rivelata essere una tattica di influenza notevolmente accettabile. Per quale motivo? Perché i collaboratori la ritenevano legata alle tre basi del potere che vedevano in maniera positiva: il potere legittimo, di competenza e di esempio.24 Il potere di competenza e il potere di esempio, in sintesi, ottengono, a quanto pare, la migliore combinazione di risultati e di reazioni favorevoli da parte dei collaboratori di livello inferiore.

Uso etico e responsabile del potere Con la continua diffusione nel mondo della democrazia una realtà appare molto evidente: i leader che non utilizzano in modo responsabile il potere che hanno, rischiano di perderlo. Questo vale sia per le imprese private e le organizzazioni no-profit che per i leader di governo e i personaggi pubblici. Un passo verso la giusta direzione per i manager che vogliono esercitare il potere con senso di responsabilità è capire la differenza tra impegno delle persone e mera obbedienza. I manager responsabili lottano per un tipo di potere socializzato ed evitano il potere personalizzato. Un sondaggio ha rilevato che il livello di impegno organizzativo era maggiore tra i funzionari del governo federale statunitense facenti capo a superiori che esercitavano il potere socializzato, piuttosto che tra i colleghi aventi capi “assetati di potere”.

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I ricercatori hanno usato i termini appropriati di potere volto a sostenere rispetto a potere dominante.25 Come si collega tutto questo alle cinque basi del potere? Come per le tattiche di influenza, anche il potere manageriale può avere tre possibili esiti: l’impegno, l’adeguamento o la resistenza. Il potere di ricompensa, il potere coercitivo e quello legittimo negativo tendono a produrre adeguamento (e talvolta resistenza). Il potere legittimo positivo, quello di competenza e quello di esempio tendono, d’altro canto, a favorire l’impegno. Ancora una volta, l’impegno è superiore all’adeguamento, perché è stimolato da motivazioni interne e intrinseche. I collaboratori che si limitano semplicemente a obbedire hanno bisogno di frequenti “scossoni” di potere da parte del capo al fine di mantenerli orientati verso un atteggiamento produttivo. I collaboratori che si impegnano tendono a essere naturalmente attivi fin dal primo stadio del lavoro e non richiedono un controllo ravvicinato, cosa che costituisce un fattore di successo fondamentale nelle odierne organizzazioni basate sul lavoro svolto in team.

Empowerment: dalla condivisione alla distribuzione del potere

Empowerment: condividere il potere a vari gradi con i collaboratori dei livelli inferiori al fine di sviluppare il loro intero potenziale

Una tendenza alquanto interessante nelle odierne organizzazioni consiste nel conferire ai collaboratori una maggiore voce in capitolo. Tale tendenza viene chiamata in vari modi, tra i quali “gestione ad alto coinvolgimento”, “gestione partecipativa” e “gestione a libro aperto”. Indipendentemente da quale definizione si preferisca, si tratta sempre di assegnare ai collaboratori un maggiore controllo sulla vita lavorativa. Il consulente manageriale e scrittore W. Alan Randolph ha proposto la seguente definizione: “l’empowerment consiste nel riconoscimento e nella distribuzione all’interno dell’organizzazione del potere che i collaboratori già possiedono grazie alla loro conoscenza, esperienza e motivazione interna”.26 Una componente chiave di tale processo consiste nello spingere verso il basso l’autorità decisionale fino ad arrivare progressivamente ai livelli minimi della gerarchia. Steve Kerr, responsabile della formazione della General Electric, un pioniere in fatto di empowerment dei collaboratori, aggiunge un’osservazione importante: “L’empowerment consiste nello spostare il processo decisionale fino ad arrivare al livello più basso dove si possa prendere una decisione valida.”27 La catena di hotel Homewood Suites, di proprietà della Hilton, usa la seguente strategia per l’empowerment dei collaboratori: L’empowerment è la principale leva di coinvolgimento del personale alla Homewood Suites. La catena di hotel garantisce il rimborso totale ai clienti insoddisfatti e tutti i collaboratori – dagli addetti alle pulizie ai manager – possono concederlo senza chiedere l’approvazione di altri. In questo modo, l’ospite non è costretto a risalire la scala gerarchica per ottenere risposta a un reclamo. “Il rendimento che otteniamo su ogni dollaro rimborsato è 20 a 1” riferisce [il dirigente Frank] Saitta, sulla base dei clienti rimborsati che tornano oppure consigliano l’hotel ad altri. Il rendimento ottenuto da collaboratori dediti al loro lavoro “è molto più elevato”.28

Sarebbe naturalmente sciocco e controproducente estendere il potere a collaboratori svogliati e poco preparati.

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Una questione di sfumature Il concetto di empowerment richiede di effettuare qualche modifica al modo di pensare tradizionale. Innanzitutto il potere non si esprime in una situazione “a somma zero”, dove il guadagno di uno corrisponde alla perdita di un altro. Il potere sociale è illimitato, ma per esprimere nella realtà questo assunto bisogna avere una mentalità win-win. Frances Hesselberin, la donna che ha il merito di aver modernizzato il mondo dello scoutismo femminile negli Stati Uniti, l’ha messa in questo modo: “Più potere cedi, più ne avrai.”29 I manager autoritari che vedono l’empowerment dei collaboratori come una forma di minaccia al loro potere personale non riescono a capire questo approccio a causa della loro mentalità win-lose. La seconda modifica al modo di pensare tradizionale implica vedere l’empowerment come una questione di sfumature e non come una secca alternativa sì-no.30 La figura 15-2 ci mostra come il potere può essere spostato, passo per passo, nelle mani di chi non è manager. L’obiettivo strategico di questo processo consiste in un incremento della produttività e della competitività in un mondo di organizzazioni sempre più snelle. Ogni fase del processo evolutivo aumenta il potere di coloro che contribuiscono al risultato organizzativo e che, per tradizione, ricevevano istruzioni su come e quando fare che cosa.

Grado di empowerment

Alto

Nessuno

Potere autoritario, il manager/il leader impone le decisioni

Dominio

Condivisione dell’influenza, il manager/il leader, nel prendere le decisioni, si consulta con i collaboratori

Consultazione

Condivisione del potere, il manager/il leader e i collaboratori prendono le decisioni

Partecipazione

Distribuzione del potere, i collaboratori hanno l’autorità di prendere decisioni

Delega

Figura 15-2 Evoluzione del potere: dal dominio alla delega

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Management partecipativo Management partecipativo: coinvolgimento dei collaboratori in diversi aspetti del processo decisionale

Si è fatta un po’ di confusione a proposito del preciso significato di “management partecipativo”. Gli esperti di management hanno chiarito la questione definendo management partecipativo il processo per mezzo del quale i collaboratori assumono un ruolo diretto (1) nello stabilire obiettivi, (2) nel prendere decisioni, (3) nel risolvere i problemi e (4) nell’apportare cambiamenti all’interno dell’organizzazione. La gestione partecipativa, senza dubbio, comporta molto di più che chiedere ai collaboratori le loro opinioni su qualche questione. I sostenitori del management partecipativo affermano che esso incrementa la soddisfazione, l’impegno e la performance dei dipendenti. Per meglio comprendere come e quando funzioni cominceremo con la discussione di un modello di management partecipativo. Coerentemente con quanto discusso nel Capitolo 8 in merito alla teoria dei bisogni di Maslow e al modello delle caratteristiche del lavoro, si prevede che il management partecipativo sia collegato a un aumento della motivazione perché aiuta i collaboratori a vedere soddisfatti tre bisogni fondamentali: (1) l’autonomia, (2) l’attribuzione di significato al lavoro e (3) il contatto interpersonale. Il soddisfacimento di tali bisogni fa sentire l’individuo più accettato, ne valorizza l’impegno, il senso di sicurezza, il desiderio di sfida e il grado di soddisfazione. Tali aspetti positivi, a loro volta, portano presumibilmente a una maggiore innovazione e a migliori prestazioni.31 Il management partecipativo non può essere applicato a tutte le situazioni. Tre fattori influiscono sulla sua efficacia: l’organizzazione del lavoro, il livello di fiducia tra i manager e i collaboratori e la competenza e prontezza di questi ultimi a partecipare. In riferimento all’organizzazione del lavoro, la partecipazione individuale risulta controproducente nel momento in cui le posizioni siano caratterizzate da elevata interdipendenza reciproca, come nel caso di un lavoro alla catena di montaggio. Il problema della partecipazione individuale, in questo caso, è che i lavoratori interdipendenti non possiedono, generalmente, una comprensione globale dell’intero processo produttivo. Vi sono meno possibilità che la gestione partecipativa abbia successo nel caso in cui i dipendenti non nutrano particolare fiducia per i dirigenti. Secondo un recente studio condotto in un’azienda della classifica Fortune 500, per i dipendenti che non occupano posizioni manageriali è estremamente importante riporre fiducia nel supervisore.32 Infine, la gestione partecipativa risulta invece più efficace quando i collaboratori sono competenti, preparati e interessati alla partecipazione.

Delega Delega: conferire autorità decisionale ai collaboratori dei livelli più bassi

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Il più alto grado di empowerment è dato dalla delega, ovvero il processo mediante il quale ai collaboratori dei livelli più bassi è conferita autorità decisionale.33 Ciò corrisponde a una distribuzione del potere. La delega è stata a lungo considerata la via più efficace per ridurre gli impegni di manager oberati di lavoro e, nel contempo, sviluppare le capacità dei collaboratori.34 Non va dimenticato che la delega conferisce ai collaboratori non manageriali, in fase decisionale, qualcosa di più della semplice voce in capitolo, in quanto permette loro di prendere delle decisioni. Un esempio pertinente, in tal senso, si riferisce alla catena di hotel Ritz-Carlton:

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Al Ritz-Carlton, qualsiasi dipendente ha l’autorizzazione a spendere fino a 2.000 dollari per la risoluzione di qualsiasi problema si presenti per un ospite. I collaboratori non approfittano del privilegio che hanno. “Quando tratti le persone con responsabilità si comportano in modo responsabile” afferma Patrick Mene, direttore del servizio qualità della catena di hotel.35

Non sorprende che il Ritz-Carlton abbia vinto il premio nazionale per la qualità del servizio. Ostacoli alla delega È facile parlare di delega, ma molti manager trovano difficile metterla in pratica. Nelle organizzazioni è necessario uno sforzo concertato e comune per mettere in atto un serio processo di delega, superando gli ostacoli sotto elencati: • Convinzione che “se vuoi che le cose siano fatte bene te le devi fare da solo”. • Basso grado di fiducia in se stessi. • Paura di essere considerati pigri. • Definizione vaga del lavoro da svolgere. • Paura della concorrenza da parte dei subalterni. • Riluttanza a correre rischi derivanti dal coinvolgimento di altri. • Scarsità di controllo nel caso in cui qualcosa vada male negli aspetti delegati. • Esempi mediocri da parte di capi che non ricorrono alla delega.36 Ricerche sulla delega e implicazioni per la fiducia e l’iniziativa personale Ricercatori della State University of New York ad Albany hanno condotto un’inchiesta su coppie di manager e collaboratori, ai quali hanno fatto seguire interviste con i manager relativamente alle loro abitudini in merito alla delega. I risultati ottenuti hanno confermato alcune importanti nozioni di senso comune. Un grado maggiore di delega è stato associato ai seguenti fattori: 1. 2. 3. 4.

Il collaboratore era competente. Il collaboratore condivideva gli obiettivi di lavoro del manager. I manager avevano un rapporto positivo e di lunga durata con il collaboratore. La persona a livello gerarchico inferiore era a sua volta un supervisore.37

Lo scenario sopra descritto si può ridurre a un unico fattore principale: la fiducia.38 I manager preferiscono delegare compiti e decisioni importanti alle persone di cui si fidano. Come detto nel Capitolo 11, ci vuole tempo e occorrono esperienze passate favorevoli per creare un rapporto di fiducia. D’altra parte la fiducia è fragile, e può essere distrutta da un semplice rimprovero, una azione sbagliata o una singola omissione. Ironia della sorte, i manager non possono imparare a fidarsi di qualcuno senza correre il rischio, almeno all’inizio, di esserne traditi. L’evoluzione dell’empowerment, rappresentata nella figura 15-2, appare come una scala a tre gradini verso la fiducia: consultazione, partecipazione e delega. I manager, in altre parole, devono partire dalle piccole cose per ascendere nella scala dell’empowerment. Devono delegare compiti e decisioni di piccola portata e aumentare gradualmente con la crescita di sicurezza competenza e fiducia. I collaboratori, analogamente, devono lavorare, dalla loro parte dell’equazione. Uno dei metodi migliori per guadagnarsi la fiducia di un manager è quello di mostrare

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Figura 15-3 Iniziativa personale: l’altro lato della delega Fonte: figura tratta da A.L. Frohman, “Igniting Organizational Change from Below:The Power of Personal Initiative,” Organizational Dynamics, inverno 1997, p. 46, © 1997, per concessione della Elsevier Science.

Passare all’azione Chiedere l’approvazione per agire Chiedere a qualcun altro di agire per noi Comunicare a qualcuno l’esistenza di un problema Disobbedienza Riduzione dei tempi per la risoluzione di un problema

Apatia

iniziativa (figura 15-3). I ricercatori in questo campo offrono del termine la seguente istruttiva e caratterizzante definizione: Iniziativa personale: andare oltre gli obblighi formali del lavoro e mostrarsi spontaneamente attivi

L’iniziativa personale è un comportamento che risulta nell’approccio attivo dell’individuo nei confronti del lavoro da svolgere, che va oltre ciò che viene formalmente richiesto in una data mansione. L’iniziativa personale, per essere più precisi, è caratterizzata dai seguenti aspetti: (1) è coerente con la missione dell’organizzazione, (2) ha un obiettivo a lungo termine, (3) è orientata verso l’obiettivo e l’azione, (4) non demorde di fronte agli ostacoli e alle difficoltà, e (5) si autoalimenta ed è proattiva.39

A questo proposito si ricorda ciò che è stato detto nel Capitolo 5 sulla personalità proattiva.

Manovre politiche e gestione dell’impressione Nella maggior parte dei casi gli studenti di comportamento organizzativo trovano molto interessante lo studio delle manovre politiche nelle organizzazioni. Forse tale interesse deriva dalla rappresentazione hollywoodiana di manager senza scrupoli che si sono fatti strada calpestando tutto e tutti. Come vedremo in seguito, i giochi politici possono avere a che fare con situazioni simili, ma non si limitano a questo. I giochi politici sono una caratteristica delle organizzazioni, talvolta fastidiosa, ma sempre presente nell’odierno

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mondo del lavoro. “Gli alti dirigenti dichiarano di trovarsi, per il 19% del loro tempo, ad affrontare lotte politiche all’interno del loro staff, secondo una ricerca di OfficeTeam, una azienda di selezione del personale.”40 Un esperto ha di recente osservato che “molte imprese della new economy, per descrivere i giochi politici, usano l’acronimo ‘WOMBAT’ (waste of money, brains and time) – ovvero spreco di denaro, cervello e tempo”.41 D’altro canto, le manovre politiche possono costituire una forza positiva nelle moderne organizzazioni. Manovre abili e attuate tempestivamente possono aiutarvi a far accettare il vostro punto di vista, a neutralizzare la resistenza verso un progetto importante, a ottenere un lavoro desiderato, o in generale a raggiungere i vostri scopi. Prenderemo in esame questo interessante argomento (1) dando una definizione di manovre politiche, (2) identificando i tre livelli dell’azione politica, (3) considerando otto specifiche tattiche politiche, (4) prendendo in esame un tema collegato chiamato gestione dell’impressione e (5) esaminando alcune implicazioni pratiche.

Definizione e dominio delle manovre politiche Manovre politiche: valorizzazione intenzionale dei propri interessi

“Le manovre politiche (o giochi politici) implicano l’atto intenzionale di esercitare influenza al fine di valorizzare o proteggere gli interessi degli individui o dei gruppi.”42 In particolare, tale forma di influenza sociale si distingue per l’enfasi sul termine interessi. Come avete avuto modo di osservare all’inizio del presente capitolo, i manager sono costantemente spronati a raggiungere un equilibrio attivo tra gli interessi personali dei collaboratori e quelli dell’organizzazione. Nel momento in cui esiste un equilibrio adeguato, il perseguimento dell’interesse personale può soddisfare anche gli interessi dell’organizzazione. Il comportamento politico diventa negativo quando gli interessi personali vanno a danneggiare o distruggere gli interessi dell’organizzazione. I ricercatori hanno documentato, per esempio, la tattica politica consistente nel filtrare e distorcere le informazioni destinate ai superiori. Tale pratica interessata mette i ‘collaboratoriambasciatori’ nella luce migliore.43 L’incertezza innesca i giochi politici Le manovre politiche sono provocate principalmente dall’incertezza. Cinque fonti comuni di incertezza, all’interno delle organizzazioni, sono: 1. 2. 3. 4. 5.

Obiettivi non chiari. Parametri vaghi di misurazione della performance. Processi decisionali mal definiti. Forte competizione individuale o di gruppo.44 Qualunque tipo di cambiamento.

In merito a quest’ultima fonte di incertezza, Anthony Raia, specialista di sviluppo organizzativo, ha osservato che “ogni volta che si cerca di apportare cambiamenti, il sottosistema politico diventa attivo. Gli interessi soggettivi sono quasi sempre a rischio in un processo di questo tipo e la risultante distribuzione del potere viene contestata.”45 Da queste considerazioni ci si aspetterebbe che un manager addetto alle vendite sul campo, impegnato a raggiungere un preciso risultato assegnato, sia meno orientato ai

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giochi politici di un manager in formazione impegnato su una serie di progetti piuttosto varia. Alcuni manager cercano il successo della propria carriera attraverso il duro lavoro, la competenza e un pizzico di fortuna, ma non tutti la pensano così. Altri cercano di ottenere un vantaggio personale con la combinazioni di diversi giochi politici di cui discuteremo in seguito. Per tornare all’esempio, la performance di un venditore viene misurata in base alle vendite effettuate, e quindi non viene influenzata dal livello di amicizia con il proprio capo. Questa tipologia di performance, inoltre, non consente di prendersi dei meriti per il lavoro svolto da altri. Per questo motivo, un manager in formazione che lavora su diversi progetti, a causa della maggiore incertezza della propria situazione, tenderà a lasciarsi maggiormente tentare dai giochi politici, rispetto a un venditore. Dato che le persone incontrano una maggiore incertezza all’inizio della loro carriera, i collaboratori più giovani sono forse più sensibili ai giochi politici di quelli più esperti? Stando ai risultati di una ricerca condotta nello Stato di New York su 243 dipendenti, la risposta è sì. In effetti un collaboratore senior vicino alla pensione ha detto al ricercatore: “Quand’ero più giovane facevo manovre politiche. Adesso faccio solo il mio lavoro.”46

Coalizione: raggruppamento temporaneo di individui che attivamente persegue la soluzione di una singola circostanza

Figura 15-4 Livelli di giochi politici nelle organizzazioni

Tre livelli di giochi politici Sebbene la maggior parte delle manovre politiche avvenga a livello individuale, esse possono coinvolgere un’azione collettiva o di gruppo. La figura 15-4 illustra tre differenti livelli di giochi politici: il livello individuale, il livello della coalizione e il livello di network.47 Ciascuno di essi ha caratteristiche distintive; per quanto riguarda il livello individuale, gli interessi personali sono perseguiti dal singolo. I giochi politici delle coalizioni e dei network, tuttavia, non sono così evidenti. Una coalizione politica, formata da persone con un interesse comune, potrebbe rispondere alla seguente definizione: in un contesto organizzativo, una coalizione consiste in un gruppo informale legato dall’attivo perseguimento di un solo obiettivo. Le coalizioni possono anche non coincidere con la formale appartenenza a un gruppo. Una volta raggiunto il proprio obiettivo (il licenziamento di un supervisore accusato di molestie sessuali, ad esempio) la coalizione si scioglie. Gli esperti osservano che le coalizioni politiche hanno “limiti indistinti”, il che significa che l’appartenenza è instabile, la struttura flessibile e la durata solo temporanea.

Caratteristiche distintive Livello di network Livello di coalizione Livello individuale

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Perseguimento collaborativo degli interessi generali Perseguimento collaborativo degli interessi di un gruppo in merito a situazioni specifiche Perseguimento individuale degli interessi

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Le coalizioni rappresentano una potente forza politica all’interno delle organizzazioni. Osservate che cosa ha dovuto affrontare Charles J. Bradshaw durante una riunione del comitato finanziario alla Transworld Corporation. Bradshaw, presidente dell’impresa, si è opposto al piano del coordinatore della riunione, il direttore finanziario, che prevedeva di acquisire un’impresa di case di riposo del valore di 93 milioni di dollari: [Il direttore finanziario] ha dato inizio alla riunione elencando tutta una serie di fatti e dati statistici a sostegno dell’affare. “Nel giro di due o tre minuti sapevo che ero stato sconfitto” ammette Bradshaw. “Nessuno si stava rivolgendo direttamente a me, ma tutte le affermazioni parlavano a mio sfavore. Me lo sentivo che attorno a quel tavolo tutti erano d’accordo.” […] Poi si è passati al voto. Cinque mani si sono alzate. Solo Bradshaw ha votato contro.48

Dopo la riunione Bradshaw ha dato le dimissioni lasciando il suo posto da 530.000 dollari all’anno e senza ricevere particolari segni di commiato da parte del direttore finanziario. Nel caso di Bradshaw, il comitato finanziario è stato un esempio di gruppo formale divenuto momentaneamente coalizione politica con lo scopo di decidere la sua sorte alla Transworld. Il terzo livello delle manovre politiche implica i network.49 Diversamente dalle coalizioni, che ruotano attorno a questioni specifiche, i network sono associazioni libere formate da individui alla ricerca di un sostegno sociale per i loro interessi personali. I network, da un punto di vista politico, sono orientati verso la persona, mentre le coalizioni verso l’argomento in discussione. I network hanno obiettivi a più lungo termine rispetto alle coalizioni. I collaboratori ispanici della Avon, ad esempio, hanno formato un network per valorizzare le opportunità di carriera dei membri.50

Tattiche politiche Chiunque abbia lavorato in un’organizzazione conoscerà bene i giochi politici palesi, come incolpare qualcun altro per un errore commesso. Esistono, tuttavia, giochi politici molto più sottili. In un importante studio, basato su interviste in profondità a 87 manager provenienti da 30 imprese elettroniche della California meridionale, sono state individuate otto tattiche politiche. Il campione era composto in proporzioni circa uguali da top manager e manager di livello inferiore. Stando a quanto affermano i ricercatori: “Agli intervistati è stato chiesto di descrivere le tattiche politiche e le caratteristiche personali degli individui abili nelle manovre politiche, basandosi sull’esperienza da loro accumulata in tutte le organizzazioni nelle quali avevano lavorato.”51 Elencate in ordine decrescente di apparizione, ecco le tattiche che sono emerse. 1. Attaccare o incolpare altri. 2. Strumentalizzare le informazioni. 3. Creare un’immagine favorevole di sé (altrimenti conosciuta come gestione dell’impressione). 4. Costruire una base di sostegno.

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Elogiare gli altri (propiziazione). Formare coalizioni con alleati potenti. Associarsi con persone influenti. Creare obblighi (reciprocità).

La tabella 15-1 descrive tali tattiche politiche e indica la frequenza con cui ciascuna di esse, in base alle testimonianze raccolte, è stata adottata dai manager intervistati. I ricercatori distinguono tra le tattiche politiche reattive e quelle proattive. Alcune, quali ad esempio la ricerca di un capro espiatorio, sono state considerate reattive perché l’intento iniziale era quello di difendere i propri interessi. Altre, ad esempio lo sviluppo di una base di sostegno, sono state considerate proattive perché cercavano di promuovere gli interessi dell’individuo. Qual è il vostro atteggiamento in merito alle politiche organizzative? Con che frequenza vi affidate alle varie tattiche riportate nella tabella 15-1? Potrete avere un’idea generale del vostro atteggiamento politico mettendo a confronto il vostro comportamento con le caratteristiche riportate nella tabella 15-2. Vi descrivereste come una persona politicamente ingenua, politicamente sensibile, o come un vero squalo? Come ritenete che gli altri considerino le vostre azioni politiche? Quali sono le implicazioni etiche, amicali e di carriera delle vostre tendenze?52 Tabella 15-1 Otto tattiche politiche comuni nelle organizzazioni Tattica politica

Percentuale dei manager che hanno nominato la tattica

1. Attaccare o biasimare altri

54%

2. Usare l’informazione come strumento politico

54

3. Creare un’immagine favorevole (gestione dell’impressione)

53

4. Sviluppare una base di sostegno

37

5. Lodare gli altri (propiziazione)

25

6. Formare coalizioni di potere con alleati forti 7. Associarsi con persone influenti

25

8. Creare obblighi (reciprocità)

13

24

Breve descrizione della tattica Usata per evitare o minimizzare un errore o un fallimento. È proattiva quando l’obiettivo è di ridurre la competizione per risorse limitate. Implica il tacere o distorcere di proposito le informazioni. Rendere poco chiara una situazione soggettivamente sfavorevole sommergendo i superiori con informazioni. Vestirsi/agghindarsi per avere successo. Aderire a norme organizzative e attirare l’attenzione verso i successi o i fallimenti della persona. Prendersi i meriti per i risultati positivi raggiunti da altri. Ottenere sostegno preventivo per una decisione. Costruire tramite la partecipazione l’impegno di altri in merito a una decisione. Accattivarsi le simpatie di persone influenti (“servilismo”). Unirsi a persone potenti in grado di conseguire risultati. Costruire una rete di supporto sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione. Creare debiti sociali (“Ti ho fatto un favore quindi sei in debito con me”).

Fonte: adattato da R.W. Allen, D.L. Madison, L.W. Porter, P.A. Renwick e B.T. Mayes, “Organizational Politics:Tactics and Characteristics of Its Actors,” California Management Review, autunno 1979, pp. 77-83.

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Tabella 15-2 Siete politicamente ingenui, sensibili o dei veri squali? Caratteristiche

Ingenuo

Sensibile

Squalo

Atteggiamento di base Intento Tecniche

Trova sgradevoli le manovre politiche Li evita a tutti i costi Descrive le cose come stanno

I giochi politici sono necessari

Sono un’opportunità Autocentrato e predatore Manipola; quando è necessario ricorre a frode e inganno

Tattiche favorite

Nessuna – la verità avrà la meglio

Obiettivi di gruppo Rete; estende i legami; utilizza il sistema per fare e ricevere favori Negozia, contratta

Vessa. Abusa delle informazioni; coltiva e “usa” le amicizie e altri contatti

Fonte: ristampato per concessione di J.K. Pinto e O.P. Kharbanda, “Lessons for an Accidental Profession,” Business Horizons, marzo-aprile 1995, p. 45.

Gestione dell’impressione Gestione dell’impressione: indurre altri a vederci in un certo modo

La gestione dell’impressione è definita come “il processo per il quale si cerca di controllare o manipolare le reazioni di altri in merito alla propria immagine o idea”.53 Ciò implica il modo in cui si parla, ci si comporta e ci si presenta. La gestione dell’impressione, in gran parte, mira a fare una buona impressione su persone terze di grado elevato. Come avremo modo di osservare, tuttavia, alcuni collaboratori si impegnano per fare una cattiva impressione. Al fine di chiarire meglio il concetto, trattandosi dell’aspetto più interessante per i manager, ci concentreremo sulla gestione dell’impressione di tipo ascendente (ovvero il tentativo di suscitare una certa reazione nei confronti di persone immediatamente superiori). È tuttavia bene ricordare che chiunque può diventare l’obiettivo prescelto per una gestione dell’impressione. I genitori, gli insegnanti, i propri pari, i collaboratori e i clienti sono tutti possibili prede quando si tratta di gestire le reazioni di altri. Aspetti concettuali collegati La gestione dell’impressione è un interessante “crocevia concettuale” dove si incrociano molti temi, quali l’auto-osservazione, la teoria dell’attribuzione e le manovre politiche. Questo forse spiega come mai tale concetto abbia, negli ultimi anni, suscitato l’interesse attivo dei ricercatori. I collaboratori a elevato grado di auto-osservazione (“camaleonti” che si adattano all’ambiente circostante) saranno probabilmente più inclini a impegnarsi nella gestione dell’impressione rispetto a individui caratterizzati da un basso grado di auto-osservazione.54 La gestione dell’impressione, inoltre, implica la sistematica manipolazione delle attribuzioni; il presidente di una banca, ad esempio, farà bella figura se il consiglio di amministrazione sarà incoraggiato ad attribuire i successi dell’organizzazione ai suoi sforzi, e ad attribuirne i problemi a fattori al di fuori del suo controllo. La gestione dell’impressione si inserisce senza alcun dubbio nel regno dei giochi politici, poiché il suo scopo ultimo è favorire gli interessi della persona che la pratica. Fare una buona impressione Le persone che “puntano al successo” tengono pronto un atteggiamento ottimistico per tutte le occasioni e hanno affinato un educato discorso

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della durata di 15 secondi, giusto il tempo necessario per un tragitto in ascensore con i propri capi. Fare una buona prima impressione può essere complicato, come esemplifica questa bizzarra situazione: Il primo giorno di lavoro come magazziniere per la Wal-Mart nel 1984, il diciassettenne Doung McMillon tamponò con la sua Honda Civic la macchina del capo. È stata davvero una fortuna che non sia stato licenziato: McMillon ha dedicato molti dei suoi 25 anni nell’azienda a fare carriera, fino a diventare il CEO di WalMart International.55

Esistono anche modi discutibili di creare una buona impressione. La gestione dell’impressione spesso rasenta ambiti non etici. Uno studio statistico relativo ai tentativi di esercitare influenza riportati da un campione di 84 impiegati di banca (di cui 74 donne) ha individuato tre categorie di tattiche di gestione dell’impressione favorevole verso i superiori.56 Le tattiche di gestione dell’impressione favorevole verso i superiori possono essere incentrate sul lavoro (manipolare le informazioni in merito alla propria performance professionale), incentrate sul supervisore (elogiare il proprio supervisore e fargli dei favori) e incentrate su se stessi (presentarsi come persona garbata e gentile). Una giusta quantità di gestione dell’impressione verso i superiori costituisce oggi, per il collaboratore medio, una necessità. Se la sua gestione dell’impressione è troppo bassa i superiori, sempre indaffarati, potranno sottovalutarne il contributo potenziale al momento di assegnare un nuovo lavoro, concedere un aumento di stipendio o decidere una promozioni. Se è troppo elevata corre il rischio di essere etichettato dai colleghi come un “adulatore”, o con altri appellativi poco piacevoli; un grado eccessivo di propiziazione, inoltre, si può ritorcere contro di lui andando a costituire motivo di imbarazzo per la persona oggetto delle sue attenzioni e danneggiando la sua credibilità. Si corre inoltre il rischio di sfociare nell’insulto involontario quando le tattiche di gestione dell’impressione vanno oltre i limiti di genere, razza, etnia e cultura. Esperti di management internazionale mettono in guardia: La tattica di gestione dell’impressione è efficace solo nella misura in cui essa va a sposarsi con le norme accettate di comportamento. Dare una pacca sulla spalla a un collaboratore giapponese dicendogli “bel lavoro, Hiro!” non sortirà l’effetto sperato dal manager americano espatriato. Tale comportamento, al contrario, porterà probabilmente alla reazione opposta.57

Fare una cattiva impressione A prima vista l’idea di voler fare, coscientemente, una cattiva impressione sul posto di lavoro sembra assurda. Un’interessante nuova serie di ricerche sulla gestione dell’impressione ha scoperto, tuttavia, sia le motivazioni che le tattiche per mettersi in una luce negativa. In una indagine basata sulle esperienze lavorative degli studenti di una grande università statunitense del nord-ovest, più della metà degli intervistati “ha riportato testimonianze di almeno un caso in cui qualcuno, intenzionalmente, dava una cattiva impressione di sé sul posto di lavoro”.58 Il motivo? Dallo studio ne sono risultati quattro:

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(1) Tentativo di schivare: I collaboratori tentano di evitare il lavoro aggiuntivo, lo stress, l’estrema stanchezza o un trasferimento o promozione non desiderati. (2) Ottenere riconoscimenti concreti: i collaboratori cercano di ottenere un aumento di stipendio o un trasferimento, una promozione o una retrocessione desiderati. (3) Uscita: i collaboratori cercano di essere licenziati o sospesi, e magari anche di accumulare indennità di disoccupazione o indennizzi per malattia professionale. (4) Potere: i collaboratori cercando di controllare, manipolare o intimidire gli altri, vendicarsi o mettere qualcun altro in cattiva luce.59 Alla luce dei motivi sopra riportati una gestione dell’impressione verso i superiori non favorevole appare sensata. Di seguito sono riportate cinque tattiche di gestione dell’impressione non favorevole identificate dai ricercatori: 1. Diminuire la performance – ridurre la propria produttività, commettere più errori del solito, abbassare la qualità, trascurare i propri compiti. 2. Non sfruttare al massimo le proprie potenzialità – fare finta di non capire, non sfruttare le abilità che si possiedono. 3. Ritirarsi – arrivare in ritardo, fare pause troppo lunghe, fingersi malati. 4. Mostrare un atteggiamento negativo – lamentarsi, innervosirsi e arrabbiarsi, comportarsi in modo strano, non andare d’accordo con i propri colleghi. 5. Divulgare i propri limiti – comunicare ai colleghi i propri problemi fisici e gli errori che si commettono, sia verbalmente che non verbalmente.60 Nel presente volume potrete trovare numerose raccomandazioni per la gestione di collaboratori che cercano di fare una cattiva impressione; esse includono l’assegnazione di un lavoro più stimolante, il conferimento di una maggiore autonomia, un feedback più consistente, una leadership che sostiene maggiormente, obiettivi chiari e ragionevoli e un contesto professionale meno stressante.

Gestione delle manovre politiche nelle organizzazioni I giochi politici nelle organizzazioni non si possono eliminare; sarebbe ingenuo da parte di un manager aspettarsi una cosa del genere; Essi, però, possono e devono essere gestiti in modo tale che rimangano costruttivi e nell’ambito di ragionevoli limiti. Abraham Zaleznik di Harvard ha spiegato la cosa in questo modo: “Le persone possono concentrarsi solo su un certo numero di cose. Più ci si dedica ai giochi politici, minore sarà la quantità di energia – emotiva e intellettuale – disponibile per affrontare problemi che riguardano il raggiungimento dei risultati reali.”61 Gli obiettivi misurabili sono la prima arma a disposizione del management per contrastare giochi politici controproducenti. La propensione individuale ai giochi politici dipende dai valori, dall’etica e dal temperamento di una persona. Chi è assolutamente fuori da questi giochi paga generalmente un prezzo per il suo comportamento, così come chi ne è totalmente prigioniero. Nel primo caso il rischio è di non ricevere riconoscimenti adeguati e sentirsi esclusi; nel secondo caso, di essere definiti troppo incentrati su se stessi e perdere di credibilità.

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Influenza, empowerment e manovre politiche

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I soggetti appartenenti a entrambi gli estremi possono essere considerati scarsamente adatti al lavoro di squadra. Una dose moderata di partecipazione ai giochi politici viene generalmente considerata, nell’ambito di organizzazioni complesse, uno strumento di sopravvivenza. I manager farebbero bene a seguire i suggerimenti presentati nella tabella 15-3; qualunque persona, indipendentemente dal suo ruolo professionale, dovrebbe considerare il consiglio di Irene Rosenfeld, CEO di Kraft: Siate voi stessi. Soprattutto nelle aziende, troppo spesso si nota la tendenza a creare un personaggio che si ritiene in linea con le aspettative degli altri. Tuttavia, la possibilità di essere se stessi ogni giorno nell’ambiente di lavoro è un’idea potente, ispiratrice, ed è una componente essenziale del sentirsi a proprio agio in un’azienda.62 Tabella 15-3 Come mantenere i giochi politici organizzativi entro limiti ragionevoli

Fonte: adattato in parte dalla discussione in L.B. MacGregor Server,“The End of Office Politics as Usual” (New York: American Management Association, 2002), pp. 184-99.

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• Al momento dell’assunzione escludere i soggetti eccessivamente orientati verso le manovre politiche. • Creare un sistema di gestione a “libro aperto”. • Assicurarsi che ogni collaboratore sappia come funziona l’organizzazione e abbia una visione personale orientata verso i risultati chiave, risultati collegati a obiettivi raggiungibili utili alla costruzione di una responsabilità individuale. • Fare in modo che persone non esperte in finanza, interpretino per tutti i collaboratori le relazioni finanziarie e di contabilità. • Stabilire modalità di risoluzione formale del conflitto e procedure di vertenza. • Come filtro etico fate solo ciò che vi sentireste di fare se doveste parlare alla televisione nazionale. • Riconoscete pubblicamente i meriti e premiate coloro che ottengono risultati concreti senza ricorrere a giochi politici.

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Quanto la realtà e l’apparenza coincidono nella leadership? Perfetto, era semplicemente perfetto. Luca Ardesi era perfetto. Bell’uomo, sui 45 anni, vestito in modo impeccabile, parlava con una mano in tasca, rilassato, senza una sbavatura lessicale. Era stato nominato da poco direttore del Centro di Ricerca e tutti nutrivano su di lui grandi aspettative. Laura era una capo progetto con vent’anni di esperienza, aveva fatto tutti i gradini della scala gerarchica, contrattista, ricercatrice junior, esperta di un campo molto specifico – le malattie autoimmuni, e ora capo di un gruppo trasnazionale sullo stesso tema. Insomma, un curriculum e una reputazione di tutto rispetto. Non si era candidata alla direzione anche se molti glielo avevano chiesto. Le piaceva troppo il lavoro sul campo e, inoltre, la direzione avrebbe comportato troppi contatti con i finanziatori e i politici. E lei non sapeva negoziare. Mentre ascoltava la prolusione di Luca Ardesi si chiedeva parallelamente cosa avrebbe detto lei al suo posto, e in questo continuo confronto il nuovo capo le pareva veramente la persona giusta al posto giusto. Lei non sarebbe stata tanto abile. “Le cosa cambieranno completamente. Siete stati abituati a uno stile vecchio e troppo orientato al passato. Ora guarderemo al futuro.” Laura sentì una fitta la cuore. Era legata in modo indissolubile a Elio Canciani, il precedente direttore, che sarà stato “vecchio”, ma era uomo di cuore e di grande esperienza, e che aveva por-

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tato il Centro di Ricerca a livelli europei. “No – pensò Laura – questo non l’avrei mai detto. Che bisogno hai Luca, di sputare sul tuo predecessore? Invece prendi le cose buone, mettile in luce. Siamo stati tutti dalla sua parte. In questo modo ci stai togliendo un pezzo di vita!” Il discorso proseguiva: “Quello che cercherò di imprimervi nella mente è un orientamento nuovo alla ricerca, la capacità di guardare le cose con occhi nuovi…”. Laura era a disagio: “Imprimervi nella mente?? Luca, hai di fronte ricercatori di primaria importanza, gente che studia tutti i giorni, che ha gestito grandi progetti e ottenuto risultati eccellenti, forse è da loro che dovresti imparare”. I ragionamenti continuarono sullo stesso tono. Laura contò circa trenta volta il pronome “io”, e pochissime volte il “voi”. Quasi mai pronunciò quello forse più utile, il “noi”. Alla fine ci furono applausi, ma nessuna ovazione. Il rituale di presentazione si compì come doveva essere, ma nessuno fu trascinato in una nuova avventura, come lei si aspettava. Nessuno guardò negli occhi l’altro per un lampo di complicità. Laura paragonò questo finale con quelli delle riunioni del suo gruppo, dove c’era un clima di condivisione, di energia e di comune orientamento al risultato. “Chissà, forse dovevo accettare…” – pensò. Quel Luca, sotto il vestito… niente!

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L’obiettivo di questo capitolo è fornire una panoramica completa della leadership, efficace e inefficace. Dopo aver dato una definizione formale del termine leadership, il capitolo si concentrerà sui seguenti argomenti: (1) tratti della personalità e approcci comportamentali alla leadership, (2) teorie contingenti della leadership, (3) la teoria full range e (4) altre prospettive sul tema. Le teorie della leadership sono talmente numerose ed eterogenee che è praticamente impossibile fornire una trattazione completa; questo capitolo analizzerà le teorie che hanno un maggior riscontro nelle ricerche.

I temi della leadership Poiché l’argomento della leadership ha affascinato gli uomini per secoli, le definizioni abbondano. Questa sezione presenta una definizione formale di leadership, passa in rassegna la molteplicità di approcci e punti di vista impiegati per studiarla ed evidenzia le similitudini e le differenze tra la leadership e il management.

Che cos’è la leadership?

Leadership: influenzare i collaboratori a perseguire volontariamente i traguardi organizzativi

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Il disaccordo sulla definizione di leadership deriva dal fatto che essa comporta una complessa interazione tra il leader, i collaboratori e la situazione contingente. Ad esempio, alcuni ricercatori definiscono la leadership in termini di personalità e caratteristiche fisiche, mentre altri credono che la leadership sia rappresentata da una serie di comportamenti predefiniti. Altri ancora definiscono la leadership come la relazione di potere tra leader e follower, una prospettiva secondo la quale i leader usano il potere per influenzare il comportamento dei follower. La leadership può essere considerata uno strumento per il raggiungimento di obiettivi; in altri termini, i leader sono individui che aiutano gli altri a raggiungere i propri obiettivi. È anche possibile analizzare la leadership dal punto di vista delle capacità. Le numerose definizioni di leadership presentano quattro elementi in comune: (1) la leadership è un processo tra un leader e i follower; (2) è legata all’influenza sociale; (3) si manifesta a diversi livelli in un’organizzazione (a livello individuale, ad esempio, la leadership comporta svolgere il ruolo di mentore, affiancare, ispirare e motivare; a livello di gruppo i leader costituiscono team, generano coesione e risolvono conflitti; a livello organizzativo creano la cultura e generano cambiamenti); infine (4) è incentrata sul raggiungimento di obiettivi.1 Sulla base di questi elementi comuni, la leadership è definita come “un processo mediante il quale un soggetto influenza un gruppo di individui al fine di raggiungere un obiettivo comune”.2 Ci sono due elementi della leadership che mancano dalla definizione sopra descritta: la prospettiva morale e il punto di vista dei follower. L’idea di leadership non contiene necessariamente un approccio morale: la storia è ricca di esempi di leader efficaci ma corrotti, immorali o persino criminali. È auspicabile comunque che i leader sviluppino una buona consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza e siano in grado di migliorare il proprio stile.

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Approcci alla leadership La leadership è uno dei temi più studiati nell’ambito del comportamento organizzativo per via della sua importanza in tutti i tipi di organizzazioni, e la ricerca si è ispirata a una molteplicità di approcci diversi. Il favore incontrato da ciascuno di questi è variato nel corso degli anni, ma conoscerli consente di comprendere più a fondo il processo di leadership. Il presente capitolo esamina gli approcci alla leadership presentati nella tabella 16-1. I ricercatori iniziarono a dedicarsi allo studio della leadership all’inizio del XX secolo, Tabella 16-1 Gli approcci allo studio della leadership 1 Approcci dei tratti • I cinque tratti di Stogdill e Mann – intelligenza, predominio, fiducia in se stessi, livello di energia e conoscenza delle attività. • Prototipi di leadership – intelligenza, mascolinità e predominio. • I quattro tratti di Kouzes e Posner – onestà, lungimiranza, ispirazione e competenza. • Goleman – intelligenza emotiva. • Judge e colleghi – due meta-analisi: importanza dell’estroversione, della coscienziosità e dell’apertura; maggiore importanza della personalità rispetto all’intelligenza. • I tratti della cattiva leadership di Barbara Kellerman – incompetenza, rigidità, intemperanza, insensibilità, l’essere corruttibile, ristrettezza di vedute e cattiveria. 2. Approcci comportamentali • Studi della Ohio State University – due dimensioni di comportamento: specificazione del metodo di lavoro e considerazione. • Studi della University of Michigan – due stili di leadership: centrato sulla produzione e centrato sulla relazione. 3. Approcci contingenti • Modello contingente di Fiedler – orientamento ai compiti e orientamento alle persone; tre dimensioni di controllo situazionale: relazioni leader-membri del gruppo, prescrittività dei compiti e posizione di potere. • Teoria rivisitata del percorso-obiettivo di House – otto comportamenti di leadership chiariscono il percorso per il raggiungimento degli obiettivi da parte dei follower; le caratteristiche dei collaboratori e i fattori ambientali sono elementi contingenti che influenzano l’efficacia dei comportamenti di leadership. 4. Approcci trasformazionali • I quattro comportamenti della leadership trasformazionale di Bass e Avolio – motivazione ispiratrice, influenza idealizzata, considerazione individuale e stimolazione intellettuale. • Teoria della leadership full range – lo stile di leadership varia lungo un continuum che passa dallo stile laissez-faire allo stile transazionale e trasformazionale. 5. Approcci emergenti • Modello dello scambio tra il leader e il collaboratore – centralità del rapporto diadico tra il leader e i follower. • Leadership condivisa – processo di influenza reciproca nel quale la responsabilità di leadership è condivisa. • Leadership di servizio di Geenleaf – rendere un servizio agli altri, non a se stessi. • Il ruolo dei follower nel processo di leadership – i follower gestiscono il rapporto leader – follower.

Fonte: adattamento da A. Kinicki e B. Williams, Management: A Practical Introduction, V ed., p. 443, McGraw-Hill, 2011. Copyright © 2011 The McGraw-Hill Companies. Ristampa autorizzata.

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concentrandosi sui tratti associati all’efficacia della leadership. Negli anni ’50 e ’60 si passò a esaminare i comportamenti o gli stili dei leader efficaci e si comprese che non esiste uno stile di leadership preferibile in termini assoluti. Negli anni ’60 e ’70 tale presa di coscienza diede vita a svariati approcci contingenti alla leadership, mirati a identificare i tipi di comportamento più efficaci in situazioni diverse. Attualmente l’approccio prevalente allo studio della leadership è quello trasformazionale. Le ricerche ispirate a tale approccio sono state avviate all’inizio degli anni ’80 e si basano sull’idea che, adottando una molteplicità di comportamenti, i leader operano un processo di trasformazione sui collaboratori al fine di indurli a perseguire gli obiettivi organizzativi. Infine, una serie di approcci emergenti esaminano la leadership da altri punti di vista. Ciascuna di queste prospettive ha dato vita a numerosissime teorie. Il corpus teorico si espande ulteriormente se si tiene conto delle teorie proposte dai consulenti manageriali. Anziché passare in rassegna tutti gli approcci proposti sinora, ci concentriamo su quelli più suffragati dalle ricerche ed esaminiamo le prospettive emergenti che sembrano poter avere applicazione accademica e pratica in futuro.

Leadership vs management Per comprendere appieno cos’è la leadership è importante acquisire consapevolezza delle differenze tra leadership e management. Bernard Bass, un esperto di leadership, ha concluso che “i leader gestiscono e i manager guidano, ma le due attività non sono sinonimo l’una dell’altra”.3 Bass spiega che, benché leadership e management si sovrappongano, ognuna comporta una serie unica di attività o funzioni. Parlando in senso ampio, il management comprende tipicamente le funzioni associate alla pianificazione, alla ricerca di informazioni, all’organizzazione e al controllo, mentre la leadership ha a che fare con gli aspetti interpersonali del lavoro di un manager. I leader ispirano gli altri, procurano sostegno emotivo e cercano di spronare i collaboratori a correre verso un traguardo comune. I leader giocano anche un ruolo chiave nella creazione di una visione e di un piano strategico per un’organizzazione; i manager, da parte loro, sono incaricati di tradurre in pratica la visione e il piano strategico. La tabella 16-2 riassume le differenze chiave riscontrate tra i leader e i manager.4 Si possono trarre diverse conclusioni da quanto illustrato nella tabella 16-2. La prima: un buon leader non necessariamente è un buon manager, e viceversa. La seconda: per una leadership efficace occorrono comunque buone capacità manageriali; sono esse, infatti, a tradurre la visione di un leader in compiti concreti e attuabili. Tutto considerato, quindi, il successo organizzativo richiede una combinazione di leadership e management efficaci; i leader del futuro dovranno essere sia buoni leader che buoni manager.

Teoria dei tratti e teoria comportamentale della leadership Questa sezione esamina i due primi approcci usati per spiegare la leadership. Le teorie dei tratti si concentrarono sull’identificazione delle caratteristiche personali che differenziano i leader dai follower. I teorici comportamentali esaminarono la leadership da

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Tabella 16-2 Le caratteristiche di un leader e di un manager Essere un leader significa

Essere un manager significa

Motivare e influenzare gli altri, modificandone il comportamento. Ispirare e articolare una visione. Gestire le persone. Avere carisma. Avere lungimiranza Comprendere le dinamiche del potere e dell’influenza e sapersene servire. Agire con determinazione. Mettere al primo posto le persone: il leader conosce i follower, risponde a loro e agisce per loro. I leader possono commettere errori quando: 1. scelgono l’obiettivo, la direzione o l’ispirazione errati, per incompetenza o per cattive intenzioni; 2. sono troppo autoritari; 3. sono incapaci di tenere fede alla visione espressa o di implementarla per incompetenza o carenza di impegno nell’esecuzione.

Amministrare, dirigere ed essere responsabile della gestione delle risorse. Eseguire piani, implementarli e realizzare prodotti e servizi. Gestire le risorse. Avere coscienziosità. Pianificare, organizzare, dirigere e controllare. Comprendere le dinamiche dell’autorità e della responsabilità e sapersene servire. Agire con senso di responsabilità. Mettere al primo posto i clienti: il manager conosce i clienti, risponde a loro e agisce per loro. I manager possono commettere errori quando: 1. non comprendono l’importanza delle persone come risorsa cruciale; 2. sono poco incisivi; trattano le persone come altre risorse o come numeri; 3. sono disposti a dirigere e controllare ma sono riluttanti ad assumersi responsabilità.

Fonte: ristampato da P. Lorenzi “Managing for the Common Good: Prosocial Leadership,” Organizational Dynamics, vol. 33, n. 3, p. 286. ©2004, con l’autorizzazione di Elsevier.

una prospettiva diversa, cercando di scoprire le tipologie di comportamento dei leader che si riscontravano nei gruppi di lavoro con una più alta performance. Entrambi gli approcci possono offrire ai manager, presenti e futuri, validi insegnamenti sulla leadership.

Teoria dei tratti

Tratti del leader: caratteristiche personali che differenziano i leader dai follower

La teoria dei tratti nacque per contrapposizione a quella che è stata denominata la teoria della leadership “del grande uomo”, un approccio basato sull’ipotesi che i leader, persone come Abraham Lincoln, Martin Luther King o Mark Zuckerberg, siano dotati di capacità innate. Al contrario, i fautori della teoria dei tratti avanzarono l’ipotesi che le caratteristiche della leadership non sono innate, ma possono essere sviluppate attraverso l’esperienza e l’apprendimento. Secondo questa teoria il tratto del leader è una caratteristica fisica o della personalità che può essere utilizzata per differenziare i leader dai follower. Prima della seconda guerra mondiale, numerosi studi furono condotti per delineare i tratti dei leader di successo; vennero identificati dozzine di tratti di leadership. Nel dopoguerra, tuttavia, un diffuso atteggiamento critico prese il posto dell’entusiasmo. Quali sono i tratti principali della personalità di un leader? Ralph Stodgill nel 1948 e Richard Mann nel 1959 tentarono di riassumere il legame tra tratti della personalità e capacità di leadership. Rivedendo la letteratura, Stogdill concluse che cinque tratti tendono a differenziare i leader dalla media dei follower: (1) l’intelligenza, (2) il

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predominio, (3) la fiducia in se stessi, (4) il livello di energia e attività, e (5) la conoscenza rilevante per le specifiche attività. Tra le sette categorie di tratti della personalità esaminate da Mann, l’intelligenza era il miglior predittore della leadership.5

Teoria della leadership implicita: teoria secondo la quale i tratti della leadership sono riassunti in un prototipo Prototipo di leadership: proiezione mentale dei tratti e dei comportamenti posseduti dai leader

Esistono persone che incarnano i tratti di leadership migliori? La risposta è sì, stando alla teoria della leadership implicita. Il fondamento di tale teoria è l’idea che esistono convinzioni diffuse su come si dovrebbe comportare un leader, riassunte in ciò che si definisce prototipo di leadership.6 Il prototipo di leadership è una rappresentazione mentale dei tratti e dei comportamenti che si ritiene siano prerogativa dei leader. È importante comprendere i contenuti di questa rappresentazione, perché si tenderà a percepire che qualcuno è un leader se mostra tratti o comportamenti che collimano con essa. Sebbene ricerche condotte in passato abbiano dimostrato che gli individui venivano percepiti come leader quando esibivano tratti e comportamenti associati alla mascolinità e al predominio,7 studi più recenti hanno evidenziato un’enfasi su tratti più femminili e stili di leadership che mettono al primo piano l’empowerment, l’equità e l’atteggiamento di supporto.8 Questa variazione dei modelli fa sperare in una diminuzione delle discriminazioni di genere nei ruoli di leadership. L’onestà è un tratto di leadership importante? James Kouzes e Barry Posner cercarono di identificare i tratti di leadership fondamentali ponendo la seguente domanda aperta a più di 20.000 persone in varie parti del mondo: “Quali valori (tratti personali o caratteristiche) cerchi e ammiri nei tuoi superiori?” I primi quattro tratti più citati erano l’onestà, la lungimiranza, l’ispirazione e la competenza.9 I ricercatori conclusero che questi quattro tratti costituiscono i fondamenti della credibilità di un leader. Questa ricerca suggerisce che le persone vorrebbero leader credibili e con un chiaro senso di direzione. L’esame che abbiamo condotto nel Capitolo 3 ha rilevato che la cultura organizzativa influenza significativamente la misura in cui i leader promuovono e premiano l’integrità nel lavoro. L’intelligenza emotiva è un tratto di leadership essenziale? Abbiamo introdotto la ricerca condotta da Daniel Goleman sull’intelligenza emotiva nel Capitolo 5. Come ricorderete, l’intelligenza emotiva è la capacità di gestire se stessi e le proprie relazioni con maturità e con un approccio costruttivo: le componenti dell’intelligenza emotiva sono illustrate nella tabella 5-4. Dato che la leadership è un processo di influenza tra leader e follower, non dovrebbe sorprendere che l’intelligenza emotiva sia presumibilmente associata all’efficacia della leadership. Goleman e altri studiosi sostengono di poter provare tale conclusione,10 ma ad oggi nulla è stato pubblicato in letteratura. Concordiamo con altri studiosi nell’affermare che attualmente le ricerche pubblicate in riviste scientifiche a conferma che l’intelligenza emotiva è significativamente associata all’efficacia della leadership sono ancora insufficienti.11 La personalità conta più dell’intelligenza? Il ricercatore Tim Judge e i suoi colleghi hanno condotto due meta-analisi legate ai tratti della personalità e alla leadership. La prima esaminava la relazione tra i cosiddetti Big Five (vedi la tabella 5-1 per un riepilogo di questi tratti della personalità), l’emergere della leadership e la sua efficacia passando in rassegna 94 studi. Da quanto è emerso, l’estroversione era il tratto della

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379 personalità che mostrava la correlazione più coerente e positiva con l’emergere della leadership e la sua efficacia. Anche la coscienziosità e l’apertura a nuove esperienze sono risultate correlate positivamente all’efficacia della leadership.12 La seconda meta-analisi comprendeva 151 campioni e dimostrava una correlazione modesta tra intelligenza ed efficacia della leadership. Judge ne concluse che la personalità conta più dell’intelligenza nella scelta di un leader.13 Quali sono i tratti dei cattivi leader? Finora abbiamo passato in rassegna tratti associati alla “buona leadership”. Barbara Kellerman considera tale approccio limitante, perché non riconosce che la “cattiva leadership” è strettamente correlata alla “buona leadership” e ignora i preziosi spunti di riflessione che si possono trarre esaminando il profilo di leader inefficaci. La sua analisi qualitativa ha rilevato sette tratti di un cattivo leader:14 1. Incompetenza. Il leader non è dotato della volontà o delle capacità per sostenere un’azione efficace. Rispetto ad almeno uno dei compiti di leadership più importanti, il leader non determina cambiamenti positivi. 2. Rigidità. Il leader è rigido e inflessibile. Può essere competente, ma è privo delle capacità o della disponibilità ad adattarsi a nuove idee, nuove informazioni o circostanze diverse. 3. Intemperanza. Il leader non ha autocontrollo e il suo comportamento è rinforzato da follower incapaci o non intenzionati a intervenire efficacemente. 4. Insensibilità. Il leader è insensibile e scortese. Ignora i bisogni, le necessità e i desideri di gran parte dei membri del gruppo o dell’organizzazione, in particolare dei collaboratori. 5. Disonestà. I leader di questa tipologia mentono, imbrogliano o rubano e antepongono l’interesse privato all’interesse pubblico in una misura eccessiva. 6. Ristrettezza di vedute. Il leader minimizza o ignora la salute e il benessere “dell’altro”, ossia degli esterni al gruppo o all’organizzazione di cui è direttamente responsabile. 7. Cattiveria. Leader malvagi, come Adolf Hitler e Saddam Hussein, incoraggiano i follower a commettere atrocità e tendono a usare il dolore come strumento di potere; possono arrecare un notevole danno fisico e psicologico a uomini, donne e bambini.15 Quelli appena illustrati non sono gli unici tratti associati alla cattiva leadership. Tra gli altri figurano: l’incapacità di stare con gli altri, l’assegnazione di eccessiva importanza ai propri obiettivi personali a scapito di quelli altrui, l’arroganza, la superbia, l’attenzione all’autopromozione anziché alla promozione degli altri, il bisogno di forte controllo, la propensione a costruire un “impero personale” depredando le risorse dell’organizzazione, la tendenza a prendere decisioni bruscamente senza consultare gli altri e la gestione pedante.16 Genere e leadership L’aumento delle donne nella forza lavoro ha generato molto interesse in merito alla comprensione delle similitudini e differenze tra leader uomini e donne. Tre meta-analisi separate e una serie di studi condotti da consulenti negli Stati Uniti hanno scoperto le seguenti differenze: (1) gli uomini mostravano una maggiore leadership orientata al compito, mentre le donne una maggiore leadership sociale;17

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380 Tabella 16-3 Tratti di leadership positivi essenziali Fonte: tratti identificati in B.M. Bass e R. Bass, The Bass Handbook of Leadership (New York: Free Press, 2008), p. 135.

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Competenza nel compito (intelligenza, conoscenza, capacità di problem solving) Competenza interpersonale (capacità di comunicare e di dimostrare interesse ed empatia) Intuizione Tratti del carattere (coscienziosità, disciplina, ragionamento morale, integrità e onestà) Tratti biofisici (forma fisica, vigore e livello di energia) Tratti personali (sicurezza di sé, affabilità, auto-osservazione, estroversione e auto-efficacia).

(2) le donne utilizzavano uno stile più democratico o partecipativo, mentre gli uomini ne utilizzavano uno più autocratico e direttivo;18 (3) uomini e donne erano egualmente assertivi;19 (4) nel giudizio dei loro colleghi, superiori e collaboratori diretti, le donne in posizioni di comando totalizzavano un punteggio più alto delle loro controparti maschili su una varietà di criteri di efficacia.20 Quali sono le implicazioni della teoria dei tratti? Non possiamo più permetterci di ignorare le implicazioni dei tratti di leadership, perché hanno un peso rilevante sulla nostra percezione dei leader e determinano un impatto sull’efficacia della leadership. L’elenco di tratti positivi riportato nella tabella 16-3, associato ai tratti negativi identificati dalla Kellerman, fornisce una guida ai tratti di leadership che è auspicabile coltivare se si aspira a detenere un ruolo di leadership. I test di personalità, che abbiamo passato in rassegna nel Capitolo 5, e altre valutazioni dei tratti della personalità possono essere utili per valutare punti di forza e di debolezza ed elaborare un piano di sviluppo personale. La teoria dei tratti ha due applicazioni organizzative. In primo luogo, può essere utile ricorrere a valutazioni della personalità e dei tratti nelle procedure di selezione e promozione. È importante ricordare che valutazioni di questo genere dovrebbero essere effettuate esclusivamente rispetto a indici validi dei tratti di leadership. In secondo luogo, i programmi di sviluppo del management possono consentire di creare una vera e propria fucina di talenti di leadership.

Teoria degli stili comportamentali Questa fase della ricerca sulla leadership iniziò durante la seconda guerra mondiale come parte di uno sforzo per formare migliori leader militari. All’origine della teoria comportamentale vi furono, da un lato, l’apparente incapacità della teoria dei tratti di spiegare l’efficacia della leadership; dall’altro, il movimento delle relazioni umane, sviluppatosi dagli studi di Hawthorne. L’intuizione iniziale della teoria comportamentale della leadership era concentrarsi sul comportamento del leader anziché sui tratti della sua personalità, in quanto si riteneva che il comportamento del leader fosse legato direttamente all’efficacia del gruppo di lavoro. Ciò condusse i ricercatori a identificare modelli di comportamento (chiamati stili di leadership) che mettessero in grado i leader di influenzare in modo efficace gli altri. Gli studi della Ohio State University I ricercatori della Ohio State University iniziarono creando una lista di comportamenti mostrati dai leader. A un certo punto la lista conteneva 1800 frasi che descrivevano nove categorie di comportamenti tipici

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Considerazione: creazione di rispetto reciproco e fiducia nei follower Specificazione del metodo di lavoro: organizzazione e definizione di quel che i collaboratori dovrebbero fare

381 del leader. Alla fine, i ricercatori conclusero che vi erano solamente due dimensioni indipendenti di comportamento del leader: la considerazione e la specificazione del metodo di lavoro. La considerazione si riferisce al comportamento del leader che crea il rispetto reciproco o la fiducia e si focalizza sui bisogni e i desideri dei membri del gruppo. La specificazione del metodo di lavoro è il comportamento del leader che organizza e definisce cosa i collaboratori dovrebbero fare per massimizzare il risultato. Dall’orientamento a queste due dimensioni di comportamento del leader si è arrivati a delineare quattro stili comportamentali di leadership (figura 16-1). Inizialmente fu ipotizzato che il migliore stile di leadership fosse quello con un orientamento a un’alta specificazione del metodo e a un’alta considerazione. Nel corso degli anni, l’efficacia di questo stile è stata testata molte volte.21 Complessivamente i risultati non confermano questa ipotesi, ma una meta-analisi condotta su oltre 20.000 individui ha dimostrato che la considerazione e la specificazione del metodo sono legate da una relazione significativa e moderatamente forte con i risultati di leadership. Si è visto che i follower evidenziavano prestazioni più efficaci per i leader che si avvalevano della specificazione del metodo di lavoro, pur preferendo i leader che mostravano di averne a cuore i bisogni e i desideri.22 Tutto considerato, i risultati emersi non confermano l’idea che esiste uno stile di leadership più efficace in termini assoluti, ma avvalorano l’importanza delle due dimensioni di comportamento emerse dagli studi della Ohio University: la soddisfazione, la motivazione e la performance dei follower, infatti, sono correlate in misura significativa alla considerazione e alla specificazione del metodo di lavoro. Gli studi della University of Michigan Come negli studi della Ohio State University, questa ricerca tentò di identificare differenze comportamentali tra leader efficaci e inefficaci. I ricercatori tracciarono due diversi stili di leadership: uno era centrato

Figura 16-1 Quattro stili di leadership tratti dagli studi della Ohio State University

Alta specificazione, alta considerazione Il leader fornisce molte indicazioni su come i compiti possono essere completati, mentre tiene in alta considerazione i bisogni e i desideri dei collaboratori

Bassa

Bassa specificazione, bassa considerazione Il leader fallisce nel fornire la necessaria specificazione e dimostra poca considerazione per i bisogni e i desideri dei collaboratori

Alta specificazione, bassa considerazione L’enfasi maggiore è posta sulla specificazione dei compiti, mentre il leader dimostra poca considerazione per i bisogni e i desideri dei collaboratori

Considerazione

Alta

Bassa specificazione, alta considerazione Meno enfasi è posta nella specificazione dei compiti, mentre il leader si concentra sulla soddisfazione dei bisogni e dei desideri dei collaboratori

Bassa Alta Specificazione del metodo di lavoro

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382 Tabella 16-4 I consigli di Peter Drucker per una leadership più efficace Fonte: riproduzione autorizzata da Harvard Business Review. I consigli sono tratti da “What Makes an Effective Executive,” di P.F. Ducker, giugno 2004, pp. 58-63. Copyright 2004 Harvard Business School Publishing Corporation; tutti i diritti riservati.

I processi organizzativi

1. Stabilire che cosa occorre fare. 2. Stabilire la cosa giusta da fare per il benessere dell’azienda o dell’organizzazione nel suo insieme. 3. Sviluppare piani d’azione con risultati auspicati precisi, possibili vincoli, revisioni future, momenti di verifica e implicazioni su come ciascuno deve impiegare il suo tempo. 4. Assumersi la responsabilità delle decisioni. 5. Assumersi la responsabilità di comunicare i piani d’azione e di fornire le informazioni necessarie per lo svolgimento delle mansioni. 6. Concentrarsi sulle opportunità, anziché sui problemi. Non nascondere i problemi e vedere nel cambiamento un’opportunità, non una minaccia. 7. Condurre riunioni proficue. Riunioni di tipo diverso richiedono forme di preparazione e risultati differenti. Prepararsi adeguatamente. 8. Pensare e dire “noi” anziché “io”. Considerare i bisogni e le opportunità dell’organizzazione prima di pensare ai propri. 9. Ascoltare prima di parlare.

sulla relazione, l’altro sulla produzione. Questi stili comportamentali sono in parallelo rispetto agli stili considerazione/specificazione riconosciuti dal gruppo della Ohio State University. Quali sono le implicazioni della teoria degli stili comportamentali? Secondo la teoria degli stili comportamentali leader si diventa, non si nasce. Questo è l’opposto del tradizionale assunto dei teorici dei tratti. Di conseguenza il comportamento del leader può essere sistematicamente perfezionato e sviluppato.23 La ricerca sugli stili comportamentali ha anche rivelato che non esiste uno stile di leadership migliore di altri. L’efficacia di un particolare stile di leadership dipende dalla situazione contingente. Ad esempio, i collaboratori preferiscono la specificazione del metodo di lavoro alla considerazione quando devono affrontare un’ambiguità nel ruolo. Infine Peter Drucker, studioso di management e consulente di fama internazionale, ha elaborato un insieme di nove comportamenti (vedi tabella 16-4) sui quali i manager possono puntare per migliorare l’efficacia della leadership. I primi due servono per acquisire le conoscenze necessarie in veste di leader, i successivi quattro sono mirati a trasformare le conoscenze in azioni effettive e altri due fanno sì che l’organizzazione nel suo insieme sia responsabile e pronta a rispondere delle sue azioni. L’ultimo consiglio è definito da Drucker una vera e propria regola aurea manageriale.

Teorie contingenti Teorie contingenti: suggeriscono che lo stile del leader debba adattarsi alle situazioni

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Le teorie contingenti della leadership nacquero nel tentativo di spiegare i risultati incoerenti raggiunti dalle teorie dei tratti e degli stili comportamentali. Le teorie contingenti suggeriscono che l’efficacia di un particolare stile comportamentale del leader dipenda dalla situazione. Poiché le circostanze cambiano, stili diversi possono essere appropriati in situazioni diverse. Ciò costituisce una sfida all’idea che esista uno stile di leadership eccellente.24 In questa sezione analizziamo nel dettaglio due teorie contingenti della

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Leadership

383 leadership; la sezione si conclude con l’esame di un approccio che può essere utilizzato per applicare le teorie contingenti.

Il modello contingente di Fiedler Fred Fiedler, uno studioso di comportamento organizzativo, ha sviluppato un modello contingente di leadership, il primo di tali modelli e uno dei più conosciuti. Fiedler ha scelto l’etichetta teoria contingente perché, secondo la premessa di base del modello, l’efficacia della leadership dipende dal grado di corrispondenza tra lo stile di leadership e le caratteristiche della situazione contingente. Per comprendere il funzionamento di tale modello analizzeremo gli stili di leadership identificati da Fiedler e le variabili situazionali che costituiscono ciò che lo studioso definisce controllo situazionale. Concludiamo passando in rassegna le ricerche rilevanti e le implicazioni manageriali di questo modello.25 Stili di leadership Secondo Fiedler, i leader hanno uno stile di leadership dominante, resistente al cambiamento, che può essere orientato ai compiti o alle persone. I leader che presentano uno stile orientato ai compiti si concentrano sul raggiungimento di obiettivi, mentre coloro che sono orientati alle persone investono più energie nella creazione di rapporti positivi con i follower. Questi orientamenti sono simili agli stili di specificazione del metodo di lavoro/interesse per la produzione e considerazione/ interesse per la relazione discussi in precedenza. Per individuare lo stile di leadership di un individuo, Fiedler ha sviluppato una scala attraverso la quale al leader è richiesto di indicare le caratteristiche del collaboratore con il quale si è trovato meno bene a lavorare (least preferred co-worker scale, LPC). Un punteggio elevato indica che il leader è orientato alle persone, mentre un punteggio basso è indice di uno stile orientato al compito. Controllo situazionale Il controllo situazionale si riferisce al grado di controllo e influenza che il leader ha nel suo ambiente di lavoro. Un elevato controllo situazionale implica che le decisioni del leader produrranno dei risultati prevedibili, poiché egli ha la capacità di influenzare gli esiti del lavoro. Vi sono tre dimensioni di controllo situazionale: relazioni leader-membri del gruppo, prescrittività dei compiti e posizione di potere. Queste dimensioni variano indipendentemente l’una dall’altra, formando otto combinazioni di controllo situazionale (figura 16-2). Le tre dimensioni del controllo situazionali sono qui di seguito definite. Relazioni leader-membri del gruppo: supporto, lealtà e fiducia che il gruppo di lavoro ha verso il suo leader

Prescrittivitá dei compiti: grado di strutturazione dei compiti

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• Le relazioni leader-membri del gruppo riflettono l’ampiezza del supporto, della lealtà e della fiducia che il leader ha da parte del suo gruppo di lavoro. Questa dimensione è l’elemento più importante del controllo situazionale. Delle buone relazioni leader-membri del gruppo suggeriscono che il leader può fidarsi del gruppo e assicurano che il gruppo tenterà di raggiungere i traguardi e gli obiettivi del leader. • La prescrittività dei compiti si riferisce a quanto i compiti svolti dal gruppo sono strutturati. Ad esempio, il lavoro del manager è meno strutturato di quello dell’impiegato di banca. Poiché i compiti prescrittivi seguono delle linee guida che spiegano

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384 Figura 16-2 Rappresentazione del modello contingente di Fiedler Fonte: adattato da F.E. Fiedler, “Situational Control and a Dynamic Theory of Leadership,” in Managerial Control and Organizational Democracy, a cura di B. King, S. Streufert e F.E. Fiedler (New York: John Wiley & Sons, 1978), p. 114.

Controllo situazionale

Situazioni di forte controllo

Relazioni leadermembri del gruppo

Buone Buone Buone

Alta

Posizione di potere

Forte Debole Forte

Stile di leadership ottimale

Posizione di potere: Grado in cui il leader detiene un potere formale

Situazioni di controllo moderato

Prescrittività dei compiti

Situazione

I

Alta

II

Leadership orientata al compito

I processi organizzativi

Bassa

III

Situazioni di debole controllo

Buone Scadenti Scadenti Scadenti Scadenti

Bassa

Debole Forte

IV

Alta

Bassa

Bassa

Debole

Forte

Debole

VI

VII

VIII

Alta

V

Leadership orientata alle relazioni

Leadership orientata al compito

come dovrebbe essere completato il lavoro, il leader ha più controllo e influenza sui collaboratori che li svolgono. Questa dimensione è la seconda per importanza tra le componenti del controllo situazionale. • La posizione di potere si riferisce al grado in cui il leader ha il potere di premiare, punire o comunque fare in modo di ottenere la condiscendenza dei propri collaboratori. Legame tra gli stili di leadership e il controllo situazionale Fiedler suggerisce che i leader devono imparare a manipolare o influenzare la situazione di leadership per creare un insieme armonico tra il loro stile e il controllo situazionale. Tali relazioni contingenti sono illustrate in figura 16-2. L’ultima riga sotto la colonna del controllo situazionale mostra 8 diverse situazioni di leadership. Ogni situazione rappresenta un’unica combinazione di relazione leader-membri del gruppo, prescrittività dei compiti e posizione di potere. Le situazioni I, II e III rappresentano situazioni di forte controllo. La figura 16-2 mostra che i leader orientati al compito sono considerati i più efficaci in situazione di forte controllo. In situazioni di controllo moderato, (IV, V e VI) si suppone siano più efficaci i leader con orientamento alle persone. Infine, si prevede che l’orientamento al compito sia più efficace in situazioni di controllo debole (VII e VIII). Quali sono le implicazioni del modello di Fiedler? Sebbene la ricerca abbia fornito solo conferme parziali,26 si possono trarre tre importanti insegnamenti dal modello di Fiedler e dalla scala LPC. In primo luogo, il modello sottolinea che l’efficacia della leadership non è legata solo a tratti della personalità e comportamenti, ma è una funzione della corrispondenza tra lo stile di leadership e le esigenze del contesto. Come esempio

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Leadership

385 significativo, un team di ricercatori ha esaminato l’efficacia di 20 manager senior della GE che avevano lasciato l’azienda per altre posizioni, giungendo alla conclusione che non tutti i manager sono ugualmente adatti a gestire tutte le situazioni. “Le capacità strategiche necessarie per controllare i costi e affrontare una feroce concorrenza sono molto diverse da quelle necessarie per migliorare il fatturato in un settore in rapida crescita, o per bilanciare investimenti e flusso di cassa al fine di sopravvivere in un settore molto ciclico [...] Non sorprende che esperienze rilevanti nel settore determinavano un impatto positivo sulla prestazione in una posizione nuova, ma non erano applicabili a un settore diverso.”27 Da questo studio si può concludere che le organizzazioni dovrebbero cercare di assumere o promuovere persone il cui stile di leadership sia adeguato o corrispondente alle esigenze contingenti. In secondo luogo, il modello spiega perché alcune persone gestiscono bene determinate situazioni ma non altre. Se un manager non ottiene buoni risultati in un certo contesto, si dovrebbe valutare la possibilità di assegnargli un altro incarico; è sconsigliabile lasciare andare una persona dotata di elevato potenziale semplicemente perché ha dimostrato una leadership inefficace in un dato contesto. Infine, i leader devono adattare il proprio stile alla situazione perché gli stili di leadership non hanno pari efficacia in tutti i contesti.

La teoria del percorso-obiettivo

Fattori contingenti: variabili che influenzano l’adeguatezza di uno stile di leadership

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La teoria del percorso-obiettivo fu originariamente proposta da Robert House negli anni ’7028 e si basava sulla teoria dell’aspettativa discussa nel Capitolo 8. Come si ricorderà, la teoria dell’aspettativa è basata sul concetto secondo cui la motivazione per esercitare uno sforzo cresce con l’aumentare dell’aspettativa di un rapporto causa– effetto tra sforzo, prestazione e risultato. Si suppone quindi che i comportamenti dei leader siano accettabili quando i collaboratori li vedono come fonte di soddisfazione o come premessa per future soddisfazioni. Inoltre, si prevede che il comportamento del leader sia motivante nella misura in cui (1) riduce gli ostacoli che interferiscono col raggiungimento dell’obiettivo, (2) fornisce la guida e il sostegno di cui hanno bisogno i collaboratori e (3) collega riconoscimenti rilevanti al raggiungimento dell’obiettivo. House propose un modello che descrive come l’efficacia della leadership é influenzata dall’interazione tra quattro stili di leadership (direttivo, supportivo, partecipativo e orientato al successo) e una varietà di fattori contingenti. I fattori contingenti sono situazioni variabili che causano la maggior efficacia di uno stile di leadership piuttosto che di un altro. La teoria del percorso-obiettivo considera due gruppi di variabili contingenti: le caratteristiche dei collaboratori e i fattori ambientali. Le cinque principali caratteristiche dei collaboratori sono il locus of control, l’abilità, il bisogno di successo, l’esperienza e il bisogno di chiarezza. Due fattori ambientali di una certa importanza sono i compiti (dipendenti o indipendenti) e le dinamiche di gruppo. Per meglio comprendere come questi fattori contingenti influiscono sull’efficacia della leadership, consideriamo il locus of control (Capitolo 5), l’esperienza e i compiti. I collaboratori con un locus of control interno tendono a preferire una leadership partecipativa o orientata al successo, perché ritengono di avere il controllo sul proprio ambiente di lavoro. Questi individui saranno probabilmente insoddisfatti dei compor-

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I processi organizzativi

tamenti di un leader direttivo che eserciti un controllo ulteriore sulle loro attività. Per contro, i collaboratori con un locus of control esterno tendono a considerare il proprio ambiente incontrollabile, quindi preferiscono la sicurezza fornita da una leadership direttiva o supportiva. Un collaboratore con molta abilità ed esperienza non sente il bisogno di prescrizioni dettagliate, dunque reagirà in modo negativo a una leadership direttiva, mentre probabilmente sarebbe motivato e soddisfatto da una leadership partecipativa o orientata al successo. Al contrario, un collaboratore senza esperienza troverebbe la leadership orientata al successo opprimente, specie nel momento in cui si trovasse a fronteggiare le sfide associate all’apprendimento di un nuovo lavoro; la leadership direttiva o supportiva sarebbero di grande aiuto in questa situazione. Infine, un leader direttivo o supportivo può essere utile anche nel caso di collaboratori che stiano sperimentando forti ambiguità di ruolo. La leadership direttiva, tuttavia, probabilmente frustrerà i collaboratori che svolgono compiti di routine o molto semplici; in queste situazioni è molto più indicata la leadership supportiva. Vi sono stati almeno 50 studi che hanno testato le varie previsioni derivate dal modello originale di House. I risultati non sono stati univoci; alcuni hanno confermato la teoria, altri no. Così House nel 1996 ha proposto una nuova versione della teoria del percorso-obiettivo basata su quei risultati e sull’avanzamento della conoscenza nel campo del comportamento organizzativo.29 Una riformulazione della teoria La teoria rivisitata è rappresentata nella figura 16-3. Vi sono tre cambiamenti chiave nella nuova teoria; innanzitutto House ora crede che la leadership sia più complessa e coinvolga una maggiore varietà di comportamenti del leader. Quindi identifica otto categorie di stili o comportamenti di leadership (tabella 16-5). Il bisogno di una lista più estesa di comportamenti del leader è confermato dalla ricerca attuale e dalle descrizioni dei leader aziendali. Il secondo cambiamento chiave, che concorre a influenzare l’efficacia della leadership, comporta la motivazione intrinseca del ruolo (discussa nel Capitolo 9) e l’empowerment (discusso nel Capitolo 15). House pone molta più enfasi sul bisogno del leader di alimentare la motivazione intrinseca attraverso l’empowerment. La leadership condivisa rappresenta il cambiamento finale della teoria rivista. Vale a dire che la teoria del percorso-obiettivo è basata sulla premessa che un collaboratore non debba essere un supervisore o un manager per impegnarsi in un comportamento da leader. Piuttosto, House crede che la leadership sia egualmente divisa tra tutti i collaboratori all’interno di un’organizzazione. Approfondiremo l’analisi della leadership condivisa nella sezione finale del capitolo. Quali sono le implicazioni della teoria di House? La versione riveduta della teoria di House del percorso-obiettivo non è stata direttamente sottoposta a verifica in un numero sufficiente di studi, con metodi di ricerca appropriati e procedure statistiche affidabili, per raggiungere una conclusione complessiva. Ciò nonostante si possono trarre tre importanti insegnamenti da questa teoria. In primo luogo, i leader efficaci possiedono e utilizzano più di uno stile di leadership. I manager sono dunque incoraggiati ad acquisire familiarità con le diverse categorie di comportamento del leader evidenziate nella teoria e, qualora le circostanze lo richiedano, a sperimentare nuovi comportamenti.

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Leadership

Figura 16-3 Una rappresentazione generale della teoria rivista del percorso-obiettivo di House

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Comportamento del leader • Chiarisce il percorso-obiettivo • Orientato al successo • Facilita il lavoro • Supportivo • Facilita l’interazione • Processo decisionale orientato al gruppo • Di rappresentanza e di network • Basato sui valori

• • • • •

Caratteristiche dei collaboratori Locus of control Abilità Bisogno di successo Esperienza Bisogno di chiarezza

Fattori ambientali • Compiti • Dinamiche di gruppo

Efficacia della leadership • Motivazione dei collaboratori • Soddisfazione dei collaboratori • Performance dei collaboratori • Accettazione della leadership • Performance dell’unità

Tabella 16-5 Categorie di comportamento del leader secondo la teoria rivista del percorso-obiettivo Categoria del comportamento del leader

Descrizione del comportamento del leader

Comportamenti che chiariscono il percorso-obiettivo

Chiarire gli obiettivi di performance dei collaboratori; fornire indicazioni su come i collaboratori devono completare i compiti; chiarire gli standard e le aspettative; uso di premi in relazione alla performance Stabilire obiettivi sfidanti; enfatizzare l’eccellenza; dimostrare fiducia nelle abilità dei collaboratori Pianificare, dare scadenze, organizzare e coordinare il lavoro; essere un mentore, addestrare, consigliare e controllare il risultato per aiutare i collaboratori a sviluppare le loro capacità; eliminare gli ostacoli; fornire risorse; dare ai collaboratori il potere di prendere decisioni e di agire Mostrare interesse per il benessere e i bisogni dei collaboratori; essere amichevoli e raggiungibili; trattare i collaboratori come propri pari Risolvere le dispute; agevolare la comunicazione; incoraggiare la condivisione delle opinioni di minoranza; enfatizzare la collaborazione e il lavoro di gruppo; incoraggiare le strette collaborazioni tra i collaboratori Porre problemi piuttosto che soluzioni al gruppo di lavoro; incoraggiare i membri a partecipare al processo decisionale; fornire le informazioni necessarie al gruppo per l’analisi; coinvolgere i collaboratori ben informati nel processo decisionale Presentare il gruppo di lavoro sotto una luce positiva agli altri; mantenere relazioni positive con persone influenti; partecipare a eventi sociali e cerimonie all’interno dell’organizzazione; fare favori incondizionati per gli altri Stabilire e mostrare passione per una visione, e sostenerne il raggiungimento; dimostrare fiducia in se stessi; comunicare grandi aspettative di performance e fikducia nelle abilità degli altri nel conseguire i loro obiettivi; dare frequenti riscontri positivi

Comportamenti orientati al successo Comportamenti che facilitano il lavoro

Comportamenti supportivi Comportamenti che facilitano l’interazione Comportamenti orientati al processo decisionale di gruppo Comportamenti di rappresentanza e di network Comportamenti basati sui valori

Fonte: Le descrizioni sono state adattate da R.J. House, “Path-Goal Theory of Leadership: Lesson, Legacy, and Reformulated Therory.” Leadership Quarterly, 1996, pp. 323-52.

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In secondo luogo, questa teoria offre suggerimenti precisi su come aiutare i collaboratori incoraggiando i leader a chiarire il percorso verso il raggiungimento dell’obiettivo e a rimuovere qualsiasi ostacolo possa interferire con le capacità del collaboratore. Per svolgere questo importante compito, i manager devono guidare i dipendenti e formarli nel percorso verso l’obiettivo. Infine, un numero ristretto di caratteristiche del collaboratore (abilità, esperienza e necessità di indipendenza) e fattori ambientali (autonomia, varietà e importanza del compito) si sono rivelati fattori contingenti molto importanti.30 I manager dovrebbero adeguare il loro stile di leadership a queste caratteristiche dei compiti e dei collaboratori.

L’applicazione pratica delle teorie contingenti Nonostante ricercatori e addetti ai lavori condividano l’apparato teorico alla base della leadership contingente, l’applicazione pratica non è stata chiaramente sviluppata. Un team di ricercatori ha tentato di colmare la lacuna proponendo una strategia di carattere generale applicabile a una molteplicità di situazioni e articolata in cinque fasi.31 Di seguito spieghiamo come applicare le varie fasi. 1. Identificare i risultati importanti. In questa fase il manager è chiamato a individuare gli obiettivi che intende raggiungere. 2. Identificare i tipi/comportamenti di leadership rilevanti. In questa fase il manager identifica i tipi specifici di comportamento adeguati alla situazione da gestire. L’elenco dei comportamenti in tabella 16-5 può risultare utile a questo scopo. 3. Identificare le condizioni situazionali. Sia la teoria contingente di Fiedler che la teoria del percorso-obiettivo di House identificano un insieme di potenziali fattori contingenti di cui tenere conto. Le variazioni legate alla situazione possono però essere molteplici. 4. Adeguare la leadership alle condizioni situazionali. La ricerca non può fornire indicazioni precise in merito a questa fase perché le possibili variazioni sono infinte. Occorre quindi sfruttare le proprie conoscenze sul comportamento organizzativo per stabilire quali stili/comportamenti di leadership si adeguino meglio alla situazione da gestire. 5. Determinare come stabilire la corrispondenza. Nella fase conclusiva, è il momento di applicare lo stile o i comportamenti di leadership individuati durante la fase precedente. Secondo la teoria contingente e la teoria del percorso-obiettivo di House si possono utilizzare due approcci: il leader modifica il suo stile e il suo comportamento, oppure si sostituisce l’individuo che detiene il ruolo di leadership.

Cautela nell’applicazione delle teorie contingenti Un gruppo di ricercatori di comportamento organizzativo ha di recente studiato le potenziali conseguenze negative dell’uso di un approccio contingente con i membri di un team. I risultati dello studio hanno evidenziato che, se i membri del team venivano trattati in maniera diversa, alcuni si sentivano esclusi dalle dinamiche di “scambio all’interno

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Leadership

389 del gruppo”, cioè da un rapporto di fiducia, rispetto e apprezzamento reciproci con il leader (i concetti di scambio all’interno e all’esterno del gruppo verranno illustrati nel seguito del capitolo). A loro volta, queste sensazioni negative determinavano un effetto controproducente sull’auto-efficacia degli individui coinvolti e, di conseguenza, sulle performance del team. La lezione da ricordare è che il leader di un team deve usare molta cautela nel trattare in maniera diversa i singoli membri.32

Il modello full range della leadership: dallo stile laissez-faire allo stile trasformazionale

Leadership transazionale: chiarisce i ruoli dei collaboratori e fornisce ricompense legate alle prestazioni

Leadership trasformazionale: trasforma i collaboratori perché perseguano obiettivi organizzativi invece dei loro interessi personali

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Uno degli approcci più recenti alla leadership è il cosiddetto modello full range. Secondo gli autori Bernard Bass e Bruce Avolio, il comportamento di leadership varia lungo un continuum che va dalla leadership laissez-faire (in altri termini, l’incapacità di assumersi le responsabilità di leadership) alla leadership transazionale e a quella trasformazionale.33 Un leader che adotta lo stile laissez-faire potrebbe per esempio evitare il conflitto, essere incapace di affiancare i collaboratori nell’individuazione degli obiettivi di prestazione, non fornire feedback sulla performance o essere così assente che i collaboratori non sanno bene che cosa fare. Come è evidente, lo stile di leadership laissez-faire dovrebbe essere evitato. È importante individuare i manager che adottano lo stile laissez-faire all’interno dell’organizzazione e offrire loro formazione e programmi di sviluppo mirati a insegnare comportamenti associati alla leadership transazionale e a quella trasformazionale. Questi due stili, infatti, sono positivamente correlati a diversi atteggiamenti e comportamenti dei collaboratori; incarnano aspetti diversi di che cosa significa essere un buon leader. Passiamo ora a esaminare queste due importanti dimensioni della leadership. La leadership transazionale è mirata a chiarire il ruolo del collaboratore e le necessità legate al compito nonché a fornire ai follower ricompense positive o negative, a seconda della performance. Comprende inoltre le attività manageriali fondamentali di individuazione degli obiettivi, monitoraggio dei progressi compiuti e offerta di ricompense o penalizzazioni in base al livello di raggiungimento degli obiettivi.34 Come emerge chiaramente da questa descrizione, la leadership transazionale si basa sull’assegnazione di premi o penalizzazioni per stimolare la motivazione e la performance. I leader che scelgono lo stile della leadership trasformazionale, invece, “generano fiducia, cercano di sviluppare le capacità di leadership negli altri, si sacrificano e fungono da modelli morali, convogliando la propria attenzione e quella dei follower su obiettivi che vanno oltre le esigenze più immediate del gruppo di lavoro”.35 I leader trasformazionali possono generare cambiamenti e risultati organizzativi significativi perché questo stile promuove livelli più elevati di coinvolgimento, fiducia, impegno e lealtà da parte dei follower rispetto alla leadership transazionale. È tuttavia importante sottolineare che lo stile transazionale è essenziale per una leadershsip efficace e che i leader migliori imparano a sfruttare entrambi gli stili in misura diversa. A sostegno di questa affermazione, la ricerca dimostra che la leadership trasformazionale genera performance superiori quando è associata alla leadership transazionale.36

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Come fa la leadership trasformazionale a influire sui follower? I leader trasformazionali agiscono sui follower modificandone obiettivi, valori, bisogni, convinzioni e aspirazioni. Riescono nel loro intento facendo leva sul concetto di sé che i follower hanno – sui loro valori e sulle loro identità personali. La figura 16-4 illustra un modello di come la leadership trasformazionale realizzi il suo processo di cambiamento. La figura 16-4 mostra che il comportamento del leader trasformazionale è anzitutto influenzato da svariate caratteristiche individuali e organizzative. Per esempio, la ricerca ha dimostrato che i leader trasformazionali tendono a essere più estroversi, ben disposti, proattivi e meno nevrotici rispetto ai leader non trasformazionali. Presentano inoltre un’intelligenza emotiva più sviluppata.37 È stato inoltre riscontrato che le donne tendono a ricorrere maggiormente alla leadership trasformazionale rispetto agli uomini.38 È importante sottolineare che la relazione tra i tratti della personalità e la leadership trasformazionale è relativamente debole. Ciò lascia intendere che la leadership trasformazionale è meno legata ai tratti e più soggetta all’influenza manageriale, una conclu-

Caratteristiche individuali e organizzative

Comportamento del leader

• Tratti della personalità

• Motivazione ispiratrice

• Esperienze di vita

• Influenza idealizzata

• Cultura organizzativa

• Considerazione individuale • Stimolazione intellettuale

Effetti sui follower e sui gruppi di lavoro

• Aumento della motivazione intrinseca, dell’orientamento al successo e al perseguimento dell’obiettivo • Crescente identificazione con il leader e con gli interessi collettivi dei membri dell’organizzazione • Crescente coesione tra i membri del gruppo di lavoro • Aumento dell’autostima, dell’auto-efficacia, e degli interessi intrinseci verso il raggiungimento dell’obiettivo • Crescente configurazione del ruolo di leadership carismatica

Risultati

• Impegno personale nei confronti del leader e della visione • Comportamento volto al sacrificio

• Commitment organizzativo • Significatività dei compiti e soddisfazione

• Miglioramento della performance individuale, di gruppo e organizzativa

Figura 16-4 Un modello di leadership trasformazionale Fonti: basato in parte su D.A. Waldman e F.J. Yammarino, “CEO Charismatic Leadership: Levels-of-Management and Levels-of-Analysis Effects,” Academy of Management Review, aprile 1999, pp. 266-85; e B. Shamir, R.J. House e M.B. Arthur, “The Motivational Effects of Charismatic Leadership: A Self-Concept Based Theory,” Organization Science, novembre 1993, pp. 577-94.

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Leadership

391 sione che corrobora l’idea che le esperienze di vita individuali incidono sullo sviluppo della leadership trasformazionale e che questa è un’attitudine che si può imparare. Infine, la figura 16-4 mostra che la cultura organizzativa può influenzare la misura in cui i leader adottano lo stile rasformazionale. Culture adattive e flessibili favoriscono in misura maggiore la creazione di un ambiente in cui si può ricorrere alla leadership trasformazionale rispetto alle culture rigide e burocratiche. Il leader trasformazionale esibisce quattro insiemi di comportamenti (vedi figura 16-4).39 Il primo insieme, denominato motivazione ispiratrice, implica la creazione di una visione attraente per il futuro, l’uso di argomentazioni emotive e un atteggiamento ottimista ed entusiasta. Una visione consiste in “un futuro realistico, credibile e allettante per la vostra organizzazione”.40 Stando a quanto sostiene Burt Nanus, esperto di leadership, la visione “giusta” libera il potenziale umano in quanto funge da segnale di speranza e da fine comune. Riesce a fare tutto questo attraendo l’impegno, dando energia ai collaboratori e un significato alla loro vita, stabilendo uno standard di eccellenza, promuovendo ideali e colmando il gap tra gli attuali problemi di un’organizzazione e le sue aspirazioni e obiettivi futuri. L’influenza idealizzata, il secondo insieme, comprende comportamenti come sacrificarsi per il bene del gruppo, fungere da modello di ruolo ed esibire standard etici elevati. I leader trasformazionali, con il loro modo di agire, danno forma ai valori, ai tratti, alle convinzioni e ai comportamenti desiderati per realizzare la loro visione. Il terzo insieme, la considerazione individuale, comprende comportamenti associati all’offerta di supporto, incoraggiamento, empowerment e coaching ai collaboratori. Per esibire tali comportamenti, i leader devono rivolgere particolare attenzione ai bisogni dei follower e cercare strategie per favorirne lo sviluppo e la crescita. Si possono esibire comportamenti di questo tipo parlando con le persone dei loro interessi e identificando per loro nuove opportunità di apprendimento. Mostrare interesse per le persone ricordandone il nome e richiamando le conversazioni intrattenute con loro in passato sono altri due semplici modi per dimostrare considerazione individuale. Infine, è anche essenziale trattare le persone con rispetto ed essere sinceri. La stimolazione intellettuale, il quarto insieme, comprende comportamenti che incoraggiano i collaboratori a mettere in discussione lo status quo e a ricercare soluzioni creative ai problemi organizzativi. Come potete notare, questa dimensione della leadership trasformazionale è mirata a incoraggiare la creatività, l’innovazione e le capacità di problem solving dei collaboratori. Le tecniche di problem solving di gruppo esaminate nel Capitolo 12 possono rappresentare un utile stimolo. Promuovere una cultura adhocratica attraverso gli strumenti evidenziati nel Capitolo 3 può favorire la creazione di un ambiente caratterizzato da stimolazione intellettuale.

Ricerche e implicazioni manageriali Le componenti del modello della leadership trasformazionale sono state uno degli argomenti più studiati nell’ambito della ricerca sulla leadership dell’ultimo decennio. Generalmente, le relazioni evidenziate in figura 16-4 erano già avvalorate da ricerche precedenti. Per esempio, una meta-analisi di 49 studi indicava che la leadership trasformazionale era correlata positivamente a indicatori dell’efficacia della leadership e della

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soddisfazione lavorativa dei collaboratori.41 A livello organizzativo, una meta-analisi ha dimostrato che la leadership trasformazionale è stata positivamente associata a misure organizzative di efficacia.42 I dati a conferma del modello della leadership trasformazionale sottolineano sei importanti implicazioni manageriali. In primo luogo, l’elaborazione di una visione positiva del futuro (la motivazione ispiratrice) dovrebbe essere considerata il primo passo nell’applicazione della leadership trasformazionale. Per quale motivo? Perché la visione rappresenta un obiettivo di lungo periodo ed è importante che i leader inizino a esercitare le loro capacità di influenza raccogliendo accordo e consensi sull’obiettivo cui l’organizzazione punta. È altrettanto essenziale comunicare la visione all’interno del team o dell’organizzazione,43 perché non è possibile essere entusiasti di qualcosa che non si conosce o non si comprende. Seconda implicazione: i leader migliori non sono solo trasformazionali ma anche transazionali. I leader dovrebbero sperimentare questi due tipi di leadership ed evitare uno stile laissez-faire o temporeggiatore.44 Terza implicazione: la leadership trasformazionale non incide solo su risultati individuali come la soddisfazione lavorativa, l’impegno organizzativo e la performance, ma influenza anche le dinamiche e i risultati di gruppo.45 I manager possono dunque ricorrere ai quattro tipi di comportamenti indicati in figura 16-4 per migliorare le dinamiche del gruppo e i risultati delle unità di lavoro. È questo un aspetto molto importante nelle organizzazioni odierne, perché gran parte dei collaboratori non lavorano da soli; si tende piuttosto a fare affidamento sugli input e la collaborazione degli altri e numerose organizzazioni sono strutturate in team. Il punto essenziale da ricordare è che la leadership trasformazionale influenza tanto gli individui quanto i team e i gruppi di lavoro ed è un fattore da capitalizzare. Quarta implicazione: la leadership trasformazionale funziona anche nella realtà virtuale. Se il manager è a capo di un gruppo geograficamente disperso, è importante che comprenda come esibire i quattro comportamenti del leader trasformazionale attraverso e-mail, tweet e videoconferenze.46 Quinta implicazione: i collaboratori appartenenti a tutti i livelli organizzativi possono essere formati a diventare più transazionali e trasformazionali.47 Questo conferma l’importanza di mettere a punto programmi di formazione alla leadership transazionale e trasformazionale e offrirli a tutti i dipendenti. Programmi di questo tipo devono comunque basarsi sulla filosofia aziendale alla base dello sviluppo della leadership. I leader trasformazionali, infine, possono comportarsi in modo etico o meno. Se, da una parte, i leader trasformazionali che si comportano in modo etico rendono i collaboratori in grado di aumentare la loro autostima, quelli non etici selezionano o generano follower obbedienti, dipendenti, remissivi e insoddisfatti. Il top management può creare e conservare una leadership trasformazionale etica • creando e rafforzando un codice chiaro di principi etici; • assumendo, selezionando e promuovendo persone che esibiscono comportamenti etici; • sviluppando aspettative di performance riguardo al trattamento dei collaboratori; tali aspettative possono essere poi valutate nel processo di valutazione della performance; • formando i collaboratori a valorizzare la diversità;

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393 • identificando, riconoscendo e apprezzando pubblicamente i collaboratori che sono esempi di elevata condotta morale.48

Altre prospettive sulla leadership La presente sezione prende in esame quattro ulteriori approcci alla leadership: il modello dello scambio tra leader e collaboratore, la leadership condivisa, la leadership di servizio e la prospettiva del follower.

Il modello dello scambio tra leader e collaboratore

Scambio all’interno del gruppo: partnership caratterizzata da fiducia reciproca, rispetto e stima Scambio all’esterno del gruppo: partnership caratterizzata da mancanza di fiducia reciproca, rispetto e stima

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Il modello di leadership dello scambio tra leader e collaboratore ruota attorno allo sviluppo dei rapporti diadici tra i manager e i loro diretti subordinati. Il modello è alquanto diverso da quelli in precedenza discussi, in quanto si basa sulla qualità dei rapporti tra i manager e i collaboratori, anziché sui comportamenti o i tratti dei leader o dei follower. Si differenzia anche perché non parte dal presupposto che il comportamento del leader sia caratterizzato da uno stile di leadership stabile o medio, come invece sostengono i modelli analizzati in precedenza. In altre parole, gran parte dei modelli di leadership partono dal presupposto che un leader tratti tutti i collaboratori allo stesso modo. Il modello dello scambio, invece, si basa sull’assunto che i leader sviluppino nei confronti di ciascun soggetto che si rivolge a loro un rapporto personale. Gli scienziati del comportamento chiamano tale tipo di rapporto diade verticale. Si dice che la formazione di diadi verticali sia un processo naturale, risultante dal tentativo del leader di delegare e assegnare ruoli professionali. Da tale processo risulta lo sviluppo di due tipi di rapporti di scambio tra leader e collaboratore.49 Un primo tipo è chiamato scambio all’interno del gruppo. In un rapporto del genere i leader e i follower sviluppano una partnership caratterizzata da influenza e fiducia reciproche, rispetto e stima, e un senso di destino comune. Nel secondo tipo di scambio, chiamato scambio all’esterno del gruppo, i leader sono supervisori che non riescono a creare un senso di fiducia e rispetto reciproco, o l’idea di un destino comune.50 Risultati della ricerca Se il modello dello scambio tra leader e collaboratore è corretto, dovrebbe esistere una relazione significativa tra il tipo di scambio e i risultati del lavoro. La ricerca conferma tale previsione. Uno scambio positivo tra il leader e il collaboratore, ad esempio, è stato associato positivamente alla soddisfazione professionale, alle intenzioni di continuare a lavorare per l’azienda, alla performance, all’impegno nei confronti del cambiamento organizzativo, alla fiducia tra manager e collaboratori, alla giustizia distributiva e procedurale (vedi Capitolo 8), alla disponibilità ad aiutare i colleghi e alla soddisfazione nei confronti della leadership.51 Gli studi hanno inoltre identificato una serie di variabili che influenzano la qualità del modello di scambio tra leader e collaboratore; per esempio, il modello era positivamente correlato al grado di identificazione dei dipendenti con i manager e all’ampiezza della rete sociale del leader all’interno dell’organizzazione.52

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Implicazioni manageriali Esistono tre implicazioni manageriali associate al modello di leadership dello scambio tra leader e collaboratore. In primo luogo, i leader sono incoraggiati a fissare aspettative di performance alte per tutti i loro diretti collaboratori, in quanto elevati standard di performance favoriscono uno scambio di alta qualità tra leader e collaboratori. In secondo luogo, nonostante le somiglianze demografiche e di personalità tra i leader e i follower siano associate a scambi migliori, i manager devono prestare attenzione a non creare un ambiente di lavoro troppo omogeneo pensando così di sviluppare rapporti positivi con i loro diretti subordinati. Quanto riportato nel Capitolo 2 in merito alla diversità ha documentato accuratamente l’esistenza di diversi benefici dati dall’avere una forza lavoro dalle caratteristiche diversificate. La terza implicazione riguarda coloro che si trovano in una situazione mediocre di scambio tra leader e collaboratore. Essi possono cercare di influenzare positivamente la situazione con un approccio assertivo, che introduca elementi di novità nella relazione.

La leadership condivisa

Leadership condivisa: processo di influenza dinamico e interattivo tra gli individui appartenenti a un gruppo

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Due studiosi di comportamento organizzativo hanno notato che “secondo alcune ipotesi e alcuni dati preliminari, in determinati contesti la concentrazione della leadership in una sola catena di comando potrebbe essere meno ottimale della condivisione della responsabilità di leadership tra due o più individui”.53 Questa prospettiva differisce notevolmente dalle teorie e dai modelli presentati finora, basati sull’ipotesi che la leadership sia un processo verticale, dall’alto verso il basso. Al contrario, il concetto di leadership condivisa si basa sull’idea che occorre condividere informazioni e collaborare per ottenere i risultati in ambito lavorativo. Ciò a sua volta sottolinea che i collaboratori devono adottare un processo di influenza o leadership orizzontale. La leadership condivisa si definisce come “un processo di influenza dinamico e interattivo tra gli individui appartenenti a un gruppo con il fine di guidarsi l’un l’altro verso il raggiungimento degli obiettivi del gruppo o dell’organizzazione, o di entrambi. Tale processo di influenza spesso implica un’influenza tra pari, o laterale, mentre talvolta implica un’influenza gerarchica verso l’alto o verso il basso”.54 L’idea di leadership condivisa è stato analizzato nel Capitolo 11 quando abbiamo passato in rassegna le caratteristiche dei team ad alte prestazioni: come ricorderete, la condivisione delle responsabilità è uno degli otto attributi associati ai team ad alte prestazioni. È più probabile che la leadership condivisa si riveli necessaria quando si lavora in team, si gestiscono progetti complessi o si svolgono lavori basati sulla conoscenza, che richiedono il contributo volontario di capitale intellettuale da parte di professionisti competenti. La leadership condivisa può determinare effetti positivi anche quando si lavora a compiti o progetti che richiedono interdipendenza e creatività. È importante però sottolineare che le preferenze per la leadership condivisa sono variabili. Alcune delle differenze sono determinate dalla cultura (vedi Capitolo 4). Per esempio, durante un progetto di consulenza per un’azienda manifatturiera in Portogallo, ci siamo resi conto che numerosi collaboratori preferivano un approccio direttivo, e non collaborativo, al processo decisionale e alla leadership.

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Tabella 16-6 Domande e risposte da valutare nello sviluppo di una leadership condivisa DOMANDE

RISPOSTE

Quali caratteristiche del compito richiedono una leadership condivisa?

I compiti sono altamente interdipendenti. I compiti richiedono grande creatività. I compiti sono altamente complessi.

Qual è il ruolo del leader nello sviluppo di una leadership condivisa?

Creare il team, chiarendo lo scopo, assicurando le risorse, articolando la visione, selezionando i membri e definendo i processi di team. Gestire i confini del team.

In che modo i sistemi organizzativi favoriscono lo sviluppo della leadership condivisa?

I sistemi di formazione e sviluppo possono preparare il leader e i membri del team designati a sviluppare la leadership condivisa. I sistemi di ricompensa possono essere usati per promuovere e premiare la leadership condivisa. I sistemi culturali possono essere usati per articolare e dimostrare il valore della leadership condivisa.

Quali comportamenti di leadership verticale e condivisa sono importanti per i risultati del team?

La leadership direttiva può fornire direttrici orientate ai compiti. La leadership transazionale può fornire riconoscimenti materiali e non in base a indicatori chiave della performance. La leadership trasformazionale può stimolare l’impegno a una visione di team, il coinvolgimento emotivo e il soddisfacimento di bisogni di ordine più elevato. La leadership di empowerment può rafforzare l’importanza dell’automotivazione.

Quali sono le responsabilità del leader verticale?

Il leader verticale deve essere in grado di intervenire per riempire i vuoti all’interno del team. Il leader verticale deve sottolineare costantemente l’importanza dell’approccio della leadership condivisa alla luce delle caratteristiche dei compiti assegnati al team.

Fonte: da C.L. Pearce, “The Future of Leadership: Combining Vertical and Shared Leadership to Transform Knowledge Work,” Academy of Management Executive: The Thinking Manager’s Source, febbraio 2004, p. 48. Copyright ©2004 The Academy of Management. Riproduzione autorizzata da The Academy of Management tramite Copyright Clearance Center.

Il concetto di leadership condivisa sta prendendo piede ai massimi livelli delle organizzazioni: si registrano sempre più casi in cui un CEO e un altro alto dirigente condividono la responsabilità complessiva della gestione dell’azienda. Per garantire buoni risultati, è sufficiente che un leader si occupi delle questioni interne, mentre l’altro cura quelle esterne. L’applicazione della leadership condivisa aiuta inoltre a creare un canale di sviluppo della leadership per le posizioni di livello manageriale. I ricercatori hanno appena iniziato a studiare il processo della leadership condivisa e i risultati finora evidenziati sono promettenti. Per esempio, nei team la leadership condivisa è positivamente associata alla coesione del gruppo, alla cittadinanza di gruppo e all’efficacia.55 La tabella 16-6 presenta un elenco di domande e risposte importanti che i manager dovrebbero valutare per stabilire come sviluppare la leadership condivisa.

La leadership di servizio La leadership di servizio è più una filosofia della gestione che una teoria sperimentabile; il termine leadership di servizio è stato coniato da Robert Greenleaf nel 1970. Greenleaf

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Tabella 16-7 Caratteristiche del leader di servizio Caratteristica del leader di servizio 1. Ascolto 2. Empatia 3. Ripresa 4. Consapevolezza 5. Persuasione 6. Concettualizzazione

7. Previsione 8. Assistenza 9. Impegno per la crescita delle persone 10. Costruzione della comunità

Descrizione I leader di servizio si concentrano sull’ascolto per individuare e chiarire i bisogni e desideri di un gruppo. I leader di servizio cercano di mostrare empatia verso i sentimenti e le emozioni altrui. Si crede sempre nella buona fede dell’individuo anche quando la sua performance è mediocre. I leader di servizio si impegnano strenuamente per far sì che loro e altri resistano di fronte ai fallimenti o le sofferenze. I leader di servizio sono ben consapevoli dei loro punti di forza e dei loro limiti. I leader di servizio, nel prendere decisioni e nel tentare di esercitare la loro influenza sugli altri, si basano maggiormente sulla persuasione piuttosto che sull’autorità derivata dalla loro posizione. I leader di servizio investono tempo e sforzi per sviluppare un pensiero concettuale più ampio. Cercano un equilibrio appropriato tra una concentrazione quotidiana a breve termine e un orientamento concettuale a lungo termine. I leader di servizio hanno la capacità di prevedere risultati futuri associati al corrente corso d’azione o alla corrente situazione. I leader di servizio partono dal presupposto di essere gli assistenti delle persone e risorse che gestiscono. I leader di servizio si impegnano nei confronti delle persone andando oltre il loro attuale ruolo professionale. Si impegnano a promuovere un ambiente che incoraggi la crescita spirituale, professionale e personale. I leader di servizio si sforzano di creare un senso di comunità sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione professionale.

Fonte: le caratteristiche presentate sono state tratte da L.C. Spears, “Introduction: Servant-Leadership and the Greenleaf Legacy,” in Reflections on Leadership: How Robert K Greenleaf ’s Theory of Servant-Leadership Influenced Today’s Top Management Thinkers, a cura di L.C. Spears (New York: John Wiley & Sons, 1995), pp. 1-14.

Leadership di servizio: si concentra sull’incremento del servizio rivolto ad altri piuttosto che a se stessi

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crede che i grandi leader fungano da servitori, ponendo i bisogni degli altri, inclusi quelli dei collaboratori, dei clienti e della comunità, come priorità assoluta. La leadership di servizio si concentra sull’incremento del servizio rivolto ad altri piuttosto che su quello rivolto a se stessi.56 Poiché lo scopo della leadership di servizio è quello di servire gli interessi degli altri e non i propri, è meno probabile che i leader di servizio assumano comportamenti egoistici che danneggiano gli altri (ad esempio azionisti e dipendenti). Occorre qualcosa di più delle semplici parole per incorporare la leadership di servizio nella cultura dell’organizzazione. I leader che adottano tale approccio presentano le caratteristiche illustrate nella tabella 16-7. Di recente i ricercatori hanno iniziato a sviluppare indicatori della leadership di servizio e a esaminare i rapporti tra questo tipo di leadership e svariati risultati organizzativi. A sostegno delle idee di Greenleaf, è stato riscontrato che la leadership di servizio è positivamente associata alla performance, all’impegno organizzativo, alla soddisfazione lavorativa, alla creatività, ai comportamenti di cittadinanza di impresa e alle percezioni di giustizia dei dipendenti. Inoltre, è correlata negativamente con i comportamenti controproducenti.57 Questi risultati suggeriscono che i manager potrebbero trarre svariati vantaggi esibendo le caratteristiche del leader di servizio illustrate nella tabella 16-7.

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Il ruolo dei follower nel processo di leadership Tutte le teorie illustrate in questo capitolo ruotano attorno al leader, cioè cercano di comprendere l’efficacia della leadership dal punto di vista del leader. Concludiamo quindi la trattazione esaminando il ruolo dei follower nel processo di leadership. Sebbene la ricerca sull’argomento scarseggi, è un tema importante perché il successo del leader e dei follower dipende dalla relazione dinamica che si instaura tra le persone coinvolte.58 Anzitutto, notiamo che esiste uno stretto rapporto tra leader e follower: i due ruoli esistono solo l’uno in rapporto all’altro e, poiché il leader ha bisogno di follower e viceversa, la qualità del rapporto incide sul comportamento dei follower. Per questo motivo, è importante che il leader e i follower si dedichino a sviluppare un rapporto reciprocamente appagante e positivo. I follower evidenziano un grado variabile di impegno, consenso e resistenza rispetto ai tentativi di influenza del leader. Un ricercatore ha identificato tre tipologie di follower: i facilitatori, gli indipendenti e i ribelli. “I facilitatori mostrano deferenza e consenso rispetto alla leadership; gli indipendenti ne prendono le distanze e manifestano meno consenso; i ribelli, infine, esprimono divergenze ed evidenziano il grado di consenso più basso. Tra le altre tipologie di follower, che evidenziano un consenso moderato, vanno menzionati i diplomatici, i bipartisan e i consiglieri.”59 Come è ovvio, i leader auspicano che i follower siano produttivi, affidabili, onesti, collaborativi, proattivi e flessibili. I leader non traggono vantaggio da follower che nascondono la verità, trattengono le informazioni, non propongono idee, non sono disponibili a collaborare, forniscono feedback imprecisi o sono riluttanti ad assumere il controllo di progetti e iniziative.60 La ricerca rivela che i follower cercano, ammirano e rispettano i leader che alimentano tre tipi di risposte emotive: i follower vogliono leader organizzativi che creino sentimenti di importanza (quel che ciascuno fa al lavoro è rilevante e degno di nota), comunità (un senso di unità incoraggia le persone a trattare gli altri con rispetto e dignità e a lavorare insieme perseguendo i traguardi organizzativi) ed entusiasmo (i collaboratori si impegnano e si sentono pieni di energia al lavoro).61

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Il cambiamento organizzativo è un processo facile? Il CEO della Nokia Stephen Elop ha cercato di ottenere il sostegno dei collaboratori al cambiamento organizzativo raccontando loro la storia di una piattaforma petrolifera in fiamme. Lo ha fatto perché l’azienda deve affrontare una difficile trasformazione se vuole guadagnare il terreno perduto rispetto all’iPhone Apple e agli smartphone che si avvalgono del software Android targato Google. Tanto per fare un esempio, Elop ha in mente di tagliare 1.800 posti di lavoro e nel contempo di accrescere la velocità del lancio di nuovi prodotti sul mercato. È convinto che “la Nokia è diventata un’organizzazione in cui realizzare progetti è troppo complicato” e che “il mutare delle dinamiche di mercato impone di migliorare la capacità di affrontare a viso aperto i cambiamenti che interessano il settore”. Tra gli altri progetti, figura anche l’ottimizzazione dell’organizzazione che gestisce i servizi. Elop ha dato inizio al processo di cambiamento inviando un’email a tutti i collaboratori nella quale raccontava la storia di un uomo impiegato su una piattaforma petrolifera nel Mare del Nord. Durante un incendio sulla piattaforma, circondato da fumo e fiamme, l’uomo doveva decidere in fretta se tuffarsi nelle acque gelide dell’Atlantico o cercare di contrastare l’incendio. Decise di tuffarsi e, dopo essere stato messo in salvo, raccontò ai colleghi che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa del genere, ma si trovava in una situazione estrema e quello gli era sembrato l’unico modo per mettersi in salvo. L’incendio

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della piattaforma aveva determinato un cambiamento radicale del suo comportamento. Elpo ha scritto ai suoi dipendenti: “Anche noi ci troviamo su una piattaforma petrolifera in fiamme e dobbiamo decidere come modificare il nostro comportamento.” Il CEO è convinto che “le fiamme che ci circondano sono alimentate da un forte vento che proviene da più fronti, per esempio dalla concorrenza: Apple ha cambiato il volto del mercato ridefinendo lo smartphone e attirando gli sviluppatori verso un ecosistema chiuso, ma estremamente potente. E poi c’è Android: in due anni circa, Android ha creato una piattaforma che attrae sviluppatori di applicazioni, fornitori di servizi e produttori di hardware. Dopo l’ingresso nel segmento più alto del mercato, ora Android sta conquistando il segmento di mezzo. Presto partiranno all’assalto del segmento più ampio offrendo prodotti di costo inferiore a 100 euro. Google è diventata una sorta di potentissima calamita che attira gran parte delle innovazioni del settore.” Il consiglio di amministrazione offre pieno appoggio al CEO e lo sta incoraggiando a implementare i cambiamenti proposti. L’azienda ha già lanciato una nuova linea di smartphone e, secondo i programmi, si appresta a offrire nuovi dispositivi dotati del sistema operativo MeeGo. I collaboratori accetteranno i cambiamenti proposti, modificando radicalmente il loro comportamento? Si vedrà. Elop intanto ha inviato loro un attestato di stima concludendo la sua email come segue: “Nokia,

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400 la nostra piattaforma è in fiamme. Stiamo mettendo a punto un percorso per andare avanti, un percorso per riconquistare la leadership nel mercato. Quando renderemo nota la strategia […] sarà necessario uno

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sforzo enorme per cambiare il volto dell’azienda. Sono tuttavia convinto che insieme possiamo affrontare le sfide che ci attendono. Insieme possiamo decidere di plasmare il nostro futuro.”1

La competizione a livello globale e il rapido progresso tecnologico esercitano una forte pressione sulle organizzazioni imponendo la necessità di cambiare. Il caso di apertura del capitolo, per esempio, illustra come il CEO della Nokia ha scelto un approccio proattivo al cambiamento. Altre grandi aziende come GE, Intel, Toyota e Pepsi hanno attuato iniziative di cambiamento aziendale per rendersi più competitive sul mercato.2 A quanto pare, nel prossimo futuro il cambiamento continuerà a essere indispensabile: secondo quanto emerso dal sondaggio annuale condotto dall’IBM su amministratori delegati, manager e dirigenti del settore pubblico provenienti da 60 paesi e 33 comparti “i cambiamenti incrementali sono ormai insufficienti in un mondo che opera secondo modalità essenzialmente diverse”. Secondo i dirigenti intervistati, la vita si fa sempre più complessa e sarà la gestione efficace della complessità a decretare la sopravvivenza delle organizzazioni nel lungo periodo.3 Va anche notato che qualsiasi tipo di cambiamento – che sia individuale, organizzativo oppure legato al prodotto – può incontrare una certa resistenza, anche quando rappresenta una linea di azione auspicabile. Persino nei casi in cui i collaboratori non vi si oppongono apertamente, il cambiamento potrebbe non andare a buon fine se suscita reazioni così negative da determinare un incremento dell’assenteismo e del turnover. Peter Senge, rinomato esperto di cambiamento organizzativo, ha così commentato il tema nel corso di un’intervista rilasciata alla rivista Fast Company: Se considero gli sforzi fatti negli ultimi dieci anni per introdurre dei cambiamenti nelle grandi aziende, devo dire che i risultati sono abbastanza positivi da far pensare che un cambiamento è possibile – e abbastanza negativi da far dire che non è probabile.4

Se Senge ha ragione, è ancor più importante che i futuri manager imparino in che modo attuare con successo un cambiamento organizzativo. Questo capitolo finale è stato scritto per guidarvi nel viaggio che porta al cambiamento. Nello specifico, parleremo delle forze che fanno nascere il bisogno di introdurre un cambiamento organizzativo, dei modelli della pianificazione del cambiamento, della resistenza che vi si oppone e, infine, di come gestire meglio lo stress che si accompagna a una trasformazione.

Le forze del cambiamento Come fanno le organizzazioni a riconoscere il momento in cui vi è la necessità di cambiare? Quali sono i segnali a cui prestare attenzione? Sebbene non esistano risposte precise a queste domande, è possibile riconoscere i segnali che ne denotano la necessità mediante il monitoraggio delle forze del cambiamento. Le organizzazioni si trovano ad affrontare molteplici forze di cambiamento, che derivano da fonti esterne e interne all’organizzazione. In questa sezione analizzeremo

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Gestione del cambiamento e dello stress Figura 17-1 Forze interne ed esterne del cambiamento

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Forze esterne Caratteristiche demografiche • Età • Istruzione • Livello di preparazione • Genere • Immigrazione Progressi tecnologici • Automazione della produzione • Information technology Cambiamenti del mercato • Fusioni e acquisizioni • Competizione nazionale e internazionale • Recessione Pressioni socio-politiche • Guerra • Valori • Leadership Forze interne

Bisogno di cambiamento

Problemi/prospettive legate alle risorse umane • Bisogni insoddisfatti • Insoddisfazione lavorativa • Assenteismo e turnover • Produttività • Partecipazione/consigli Comportamenti/decisioni manageriali • Conflitto • Leadership • Sistemi di ricompensa • Riorganizzazione delle strutture

le forze che danno vita al bisogno di cambiamento. Esserne consapevoli può costituire un aiuto per il manager che si trova a considerare l’implementazione di un cambiamento organizzativo. La figura 17-1 presenta le forze esterne e interne del cambiamento.

Forze esterne Forze esterne del cambiamento: hanno origine al di fuori dell’organizzazione

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Le forze esterne del cambiamento nascono al di fuori dell’organizzazione. Avendo effetti globali, queste forze possono mettere in discussione all’interno dell’organizzazione

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stessa l’essenza del business e il processo produttivo di prodotti e servizi. Consideriamo le quattro forze esterne del cambiamento: le caratteristiche demografiche, i progressi tecnologici, i cambiamenti nel mercato e le pressioni socio-politiche. Caratteristiche demografiche Il Capitolo 2 conteneva un’analisi dettagliata dei cambiamenti demografici che interessano la forza lavoro: abbiamo visto come le organizzazioni stanno modificando l’offerta dei benefit e svariati altri aspetti al fine di attirare, motivare e trattenere una forza lavoro eterogenea.5 Le differenze generazionali stanno imponendo una trasformazione della progettazione e della commercializzazione dei prodotti e servizi e rivoluzionando gli spazi di vendita. Inoltre, i tassi di disoccupazione giovanile da tempo piuttosto elevati in diversi paesi del mondo alimentano una forte pressione al cambiamento sia sui governi che sulle organizzazioni. Secondo alcuni esperti, molti dei disordini che turbano il Medio Oriente sono alimentati da una popolazione giovane che si vede priva di opportunità di impiego gratificanti.6 Progressi tecnologici Sia le aziende di produzione sia quelle di servizi stanno utilizzando sempre più la tecnologia come mezzo per aumentare la produttività, la competitività sul mercato e il servizio ai clienti, riducendo nel contempo i costi. Per esempio, un numero crescente di aziende si avvale dei social network come strumento per il reclutamento e, secondo le previsioni degli esperti in gestione delle risorse umane, la tendenza è destinata ad accentuarsi ulteriormente in futuro.7 Le tecnologie informatiche hanno dato vita a una molteplicità di forme di self-service, dagli acquisti alla gestione del conto corrente online. La telepresenza è un ottimo esempio di tecnologia che porta le aziende a realizzare prodotti, guidare i collaboratori virtuali, migliorare le comunicazioni e accrescere la produttività in un modo diverso. È una forma avanzata di videoconferenza e robotica grazie alla quale le conversazioni virtuali somigliano sempre più a classiche conversazioni faccia a faccia.8 Cambiamenti legati al mercato, agli azionisti e ai clienti Gli azionisti assumono un ruolo sempre più attivo, esercitando forti pressioni al cambiamento sulle organizzazioni dopo i numerosi scandali legati al comportamento non etico del senior management e ai compensi da capogiro della dirigenza. Le diverse abitudini di consumo impongono alle organizzazioni di fornire prodotti e servizi di alto valore: i consumatori sono diventati più esigenti e la riduzione dei costi di transizione da un fornitore all’altro permette di cambiare più agevolmente che in passato. Tale tendenza ha indotto numerose aziende ad avvalersi del feedback della clientela rispetto a un ampio ventaglio di aspetti per attirare nuovi clienti e mantenere quelli già acquisiti. Per quanto concerne i cambiamenti nel mercato, le aziende si vedono costrette ad accrescere la produttività a fronte della feroce competizione globale. Il ciclo economico altalenante, inoltre, continua a imporre cambiamenti in risposta alla crescita o al calo della domanda di prodotti, costringendo le aziende a produrre di più oppure a sopravvivere con meno. Pressioni socio-politiche Questo tipo di forze è creato da eventi sociali o politici. Per esempio, la crescente attenzione alle conseguenze del cambiamento climatico e

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i costi energetici in continuo aumento hanno rappresentato due importanti fattori di cambiamento in quasi tutti i settori in tutto il mondo. Le aziende sono diventate “ecocompatibili” e si sono messe alla ricerca di strategie per ridurre i consumi energetici e per vendere prodotti a risparmio energetico e più sicuri. Anche gli eventi politici possono determinare cambiamenti rilevanti. Le guerre in Afghanistan e in Iraq, per esempio, hanno creato grandi opportunità per i fornitori del settore della difesa e per le organizzazioni impegnate nella ricostruzione come Halliburton. Prevedere i cambiamenti nelle forze politiche è molto difficile per le organizzazioni, ma molte assumono esperti di lobbying e consulenti per riuscire a determinare i cambiamenti politico-sociali e reagire di conseguenza.

Forze interne Forze interne del cambiamento: hanno origine all’interno dell’organizzazione

Le forze interne del cambiamento derivano dall’interno dell’organizzazione. Possono essere impercettibili, come una leggera insoddisfazione, o manifestarsi con segni esteriori, come scarsa produttività, conflitti o scioperi. Le forze interne del cambiamento derivano sia da problemi legati alle risorse umane, sia da decisioni o comportamenti del management. Problematiche/prospettive legate alle risorse umane Questo tipo di problemi nasce dalle percezioni che i collaboratori hanno del modo in cui vengono trattati sul posto di lavoro, e dalla corrispondenza tra i bisogni e desideri dell’individuo e quelli dell’organizzazione. Il Capitolo 6 metteva in luce la relazione tra i bisogni insoddisfatti del collaboratore e l’insoddisfazione sul lavoro. Quest’ultima rappresenta un sintomo di un problema che riguarda il collaboratore e che va affrontato. Tra le altre forze del cambiamento che possono entrare in azione vi sono alti o insoliti livelli di assenteismo e di turnover. Le organizzazioni possono reagire a questi problemi utilizzando i diversi approcci all’organizzazione del lavoro di cui abbiamo parlato nel Capitolo 8, riducendo i conflitti di ruolo tra i collaboratori, il sovraccarico di lavoro e l’ambiguità (Capitolo 10), e eliminando le cause di stress, di cui parleremo ampiamente nell’ultima sezione di questo capitolo. Eventuali prospettive di un cambiamento in positivo derivano dalla partecipazione e dai suggerimenti del collaboratore. Comportamento/decisioni del manager Un eccessivo conflitto interpersonale tra manager e subordinati è segnale della necessità di un cambiamento. Entrambe le parti potrebbero avere bisogno di una formazione interpersonale, oppure, semplicemente, vanno tenute separate perché incompatibili. Potrebbe essere sufficiente, ad esempio, trasferire uno dei due in una nuova area. Un comportamento inadeguato da parte del leader, come una gestione o un sostegno scarsi o inadatti alla situazione, può dar luogo a problemi legati alle risorse umane che richiedono un cambiamento. Come si è detto nel Capitolo 16, la formazione alla leadership rappresenta una potenziale soluzione al problema. Infine, una delle più potenti forze del cambiamento è rappresentata dalle decisioni a livello manageriale.

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Modelli e dinamiche del cambiamento pianificato I manager americani vengono spesso criticati perché privilegiano soluzioni a breve termine che risolvano immediatamente i problemi organizzativi. Questo tipo di approccio, se applicato al cambiamento organizzativo, è predestinato da subito all’insuccesso. Le soluzioni tampone non risolvono veramente i problemi e durano poco; si può pertanto affermare che il cambiamento dovrebbe essere considerato una caratteristica naturale e costante della vita organizzativa. Sia i ricercatori che i manager hanno quindi cercato di trovare delle modalità utili a gestire il processo di cambiamento. In questa sezione ci occuperemo dei risultati di tali ricerche. Parleremo innanzitutto delle diverse tipologie di cambiamento organizzativo, poi vedremo in breve il modello del cambiamento secondo Lewin, un modello sistemico del cambiamento, le otto fasi di Kotter per gestire il cambiamento, e infine lo sviluppo organizzativo.

Tipologie di cambiamento La figura 17-2 mostra una tipologia tripartita del cambiamento:9 si tratta di una classificazione generica, in quanto include tutti i tipi di cambiamento, da quello amministrativo a quello tecnologico. Il cambiamento adattivo comporta meno spese, meno incertezze e risulta meno complesso: si ha quando si ripropone un cambiamento nella stessa unità organizzativa dopo qualche tempo dalla prima attuazione, o si riproduce un cambiamento simile all’interno di una diversa unità. Un cambiamento adattivo per un grande magazzino, ad esempio, potrebbe consistere in turni di 12 ore nel periodo dell’inventario. L’ufficio contabilità del negozio potrebbe poi applicare lo stesso sistema alle ore lavorative nel periodo del pagamento delle tasse. I cambiamenti adattivi non risultano particolarmente minacciosi per il collaboratore, perché risultano a lui familiari.

Figura 17-2 Tipologia generica del cambiamento organizzativo

Cambiamento adattivo

Cambiamento innovativo

Cambiamento radicalmente innovativo

Reintroduzione di una pratica nota

Introduzione di una pratica nuova per l’azienda

Introduzione di una pratica nuova per il settore

Basso

Alto • Livello di complessità, costi e incertezza • Potenziale resistenza al cambiamento

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I cambiamenti innovativi si situano a metà in una scala di complessità, costi e incertezza. Si qualifica come innovativo, ad esempio, un esperimento di orario di lavoro flessibile in un magazzino di prodotti per l’agricoltura, se implica un cambiamento nella modalità in cui altre aziende del settore applicano tali soluzioni. Adottare un cambiamento innovativo per la risoluzione di problemi aziendali comporta un certo grado di non familiarità e quindi di incertezza. Al capo opposto del continuum di complessità, costi e incertezza si situano i cambiamenti radicalmente innovativi, che sono i più difficili in assoluto da applicare e tendono a comportare maggiori rischi per la fiducia nei manager e per l’affidabilità del lavoro. Al tempo stesso, però, i cambiamenti radicalmente innovativi possono determinare i maggiori benefici. Aspetto molto importante, i cambiamenti radicali devono trovare appoggio nella cultura organizzativa: è infatti più probabile che si concludano in un fallimento se sono incoerenti con uno dei tre livelli della cultura: manifestazioni osservabili, valori dichiarati e assunti di base (vedi Capitolo 3).

Il modello del cambiamento di Lewin La maggior parte delle teorie che spiegano il cambiamento organizzativo nascono dal fondamentale lavoro di Kurt Lewin, psicologo sociale. Lo studioso ha elaborato un modello in tre fasi del cambiamento pianificato, che spiega come iniziare, gestire e stabilizzare il processo di cambiamento.10 Le tre fasi sono: scongelamento, trasformazione e ricongelamento. Prima di passare all’analisi approfondita di ciascuna fase, è importante mettere in luce gli assunti che stanno alla base del modello.11 1. Il processo di cambiamento implica l’apprendimento di qualcosa di nuovo e l’interruzione degli atteggiamenti, dei comportamenti e delle pratiche organizzative in uso. 2. Il cambiamento non si verifica in assenza di motivazione. Ed è questa la parte in genere più complessa del processo di cambiamento. 3. Le persone costituiscono il cuore di qualsiasi cambiamento organizzativo. Infatti ogni cambiamento nell’organizzazione, sia esso a livello di struttura, di composizione dei gruppi, di sistema di ricompensa o di organizzazione del lavoro, richiede pur sempre un cambiamento nell’individuo. 4. Il fatto che gli obiettivi del cambiamento in atto siano molto desiderabili non significa che non si verifichi comunque un certo grado di resistenza al cambiamento. 5. Un cambiamento per essere efficace richiede che si rinforzino comportamenti, atteggiamenti e pratiche organizzative nuove. Andiamo ora a considerare le tre fasi del cambiamento. Scongelamento In questa fase ci si concentra sulla creazione di una motivazione al cambiamento. Così facendo, gli individui sono incoraggiati a sostituire atteggiamenti e comportamenti in uso da tempo con quelli desiderati dal management. I manager possono iniziare il processo di scongelamento invalidando l’utilità o l’adeguatezza degli attuali comportamenti e atteggiamenti dei collaboratori. In altre parole, questi ultimi

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Benchmarking: processo per cui un’azienda mette a confronto la propria performance con quella di organizzazioni ad alta performance

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devono diventare insoddisfatti del vecchio modo di fare le cose. Spesso i manager motivano al cambiamento presentando dati relativi ai livelli di efficacia ed efficienza oppure di soddisfazione dei clienti, aiutando così i collaboratori a comprendere perché il cambiamento è necessario. Per portare lo scongelamento all’interno di un’azienda è utile applicare il benchmarking. Il benchmarking “descrive il processo per cui un’azienda confronta la propria performance con quella di altre aziende, per poi apprendere come le aziende più forti riescano a raggiungere i loro risultati”.12 Ad esempio, una delle aziende che abbiamo svolto attività di consulenza ha scoperto con questa tecnica che i propri costi di creazione di un sistema informatico erano doppi rispetto all’azienda migliore del settore, e che il tempo impiegato per lanciare un nuovo prodotto sul mercato risultava quadruplo rispetto alle aziende considerate per il confronto. Questi dati alla fine sono stati utilizzati per scongelare gli atteggiamenti dei collaboratori e motivarli a cambiare i processi interni dell’organizzazione per poter rimanere competitivi. Durante questa fase, è inoltre necessario che i manager mettano a punto strategie per ridurre le barriere al cambiamento. Trasformazione Si tratta della fase durante la quale il cambiamento organizzativo si compie. Che sia rilevante oppure minimo, il cambiamento è volto a migliorare processi, procedure, prodotti, servizi o risultati di interesse per il management. Il cambiamento implica un apprendimento, per cui in questa fase è necessario dare ai collaboratori informazioni, nuovi modelli comportamentali, nuovi processi e procedure, nuove attrezzature, nuove tecnologie o modalità diverse di svolgimento del lavoro. In che modo il management stabilisce che cosa cambiare all’interno dell’organizzazione? Non è semplice dare risposta a questo interrogativo. Il cambiamento può essere mirato a ottenere miglioramenti o crescita, oppure a risolvere un problema, come un servizio ai clienti carente o una bassa produttività. Può inoltre coinvolgere livelli diversi dell’organizzazione: per esempio, offrire ai manager programmi di formazione alla leadership può essere utile per migliorare la soddisfazione lavorativa individuale e la produttività, mentre rinnovare la tecnologia informatica può essere la strategia giusta per accrescere la produttività dei gruppi di lavoro e i profitti. L’aspetto importante da ricordare è che il cambiamento dovrebbe essere mirato al raggiungimento di un risultato finale auspicabile. Il modello sistemico del cambiamento, che analizzeremo di seguito, rappresenta uno strumento per individuare che cosa deve essere cambiato. Ricongelamento Tale fase è finalizzata a sostenere e rinforzare il cambiamento, portando i collaboratori a integrare il comportamento adottato nella loro normale routine. Risultato, questo, che si raggiunge innanzitutto dando ai collaboratori la possibilità di mostrare nuovi comportamenti o atteggiamenti. In seguito, si utilizza il rinforzo per spingere nella direzione voluta. Ulteriori azioni di formazione e di guida possono essere applicate a questo punto per rinforzare la stabilità del cambiamento. Le ricompense estrinseche, in particolare gli incentivi economici (vedi Capitolo 9), sono molto impiegati nella fase di ricongelamento.

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Un modello sistemico del cambiamento Un approccio sistemico adotta una prospettiva “più ampia” del cambiamento organizzativo. Si basa sul concetto che qualsiasi cambiamento, indifferentemente dalla dimensione, ha un effetto a cascata all’interno dell’organizzazione.13 Ad esempio, se si inserisce un individuo in un gruppo di lavoro, verranno influenzate le dinamiche sia del gruppo di appartenenza sia di quello nuovo. Analogamente, creare un team di progetto o di lavoro può dar vita al bisogno di modernizzare le pratiche retributive. Gli esempi riportati illustrano in che modo un cambiamento generi un altro cambiamento. Le soluzioni di oggi, insomma, sono l’origine dei problemi di domani. Il modello sistemico del cambiamento offre ai manager una struttura per individuare che cosa cambiare e per stabilire come valutare il successo di un’azione di cambiamento. Per consentirvi di comprendere più a fondo questo modello, ne descriviamo le componenti e poi ne esaminiamo l’applicazione. Le quattro componenti principali del modello sistemico sono input, piani strategici, obiettivi di cambiamento e output (figura 17-3).

Definizione della missione: riassume il motivo per cui l’azienda esiste

Input Qualsiasi cambiamento organizzativo dovrebbe essere coerente con la missione, la visione e il conseguente piano strategico dell’azienda. La definizione della missione (mission statement) rappresenta la “ragione” per cui un’azienda esiste, e la visione ne determina l’obiettivo a lungo termine, descrivendo “cosa” l’organizzazione vuole diventare. Vediamo in che modo la differenza tra missione e visione influisce sul cambiamento organizzativo. Probabilmente la vostra università ha la missione di formare gli studenti. Questa missione non implica necessariamente un cambiamento, bensì definisce semplicemente l’obiettivo generico dell’istituzione. Invece la visione dell’università potrebbe essere quella di ottenere il riconoscimento di “migliore” della nazione. Una visione, questa, che richiede un confronto con le altre università di alto livello e la creazione di piani per il raggiungimento dell’obiettivo.

Piano strategico: piano a lungo termine che delinea le azioni necessarie a ottenere i risultati desiderati

Piani strategici Un piano strategico delinea la direzione aziendale a lungo termine e le azioni necessarie a raggiungere i risultati pianificati. Questi progetti si basano sui risultati di un’analisi SWOT (esame dei punti di forza e di debolezza dell’azienda, in base alle opportunità e alle minacce dell’ambiente in cui opera). Questo confronto è utile nell’elaborazione di una strategia organizzativa volta a ottenere output desiderati, come profitti, soddisfazione del cliente, qualità, un ritorno degli investimenti adeguato e livelli accettabili di turnover e soddisfazione e commitment dei collaboratori.

Obiettivi del cambiamento: componenti di un’organizzazione che possono essere cambiati

Obiettivi del cambiamento Gli obiettivi del cambiamento rappresentano le componenti dell’organizzazione che potrebbero essere modificate. Essenzialmente sono le leve del cambiamento che i manager possono sfruttare per determinare un impatto su svariati aspetti dell’organizzazione. La scelta della leva giusta si basa su una diagnosi dei problemi oppure sull’identificazione delle azioni necessarie per raggiungere un obiettivo. Esiste un problema quando il manager non riesce a ottenere i risultati desiderati. Gli obiettivi del cambiamento sono impiegati per diagnosticare i problemi e individuare le soluzioni giuste.

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• Strat egie • Obiettivi

Piani strategici

Fattori sociali • Cultura organizzativa • Processi di gruppo • Interazioni interpersonali • Comunicazione • Leadership

• Livello organizzativo • Livello di funzione/gruppo • Livello individuale

Fonti: adattamento da D.R. Fuqua e D.J. Kurpius,”Conceptual Models in Organizational Consultation,” Journal of Counseling & Development, luglio-agosto 1993, pp. 602-18; e D.A. Nadler e M.L. Tushman,”Organizational Frame Bending: Principles for Managing Reorientation,” Academy of Management Executive, agosto 1989, pp. 194-203.

Metodi • Processi • Flusso di lavoro • Organizzazione del lavoro • Tecnologia

Persone • Conoscenza • Abilità • Atteggiamenti • Motivazione • Comportamento

Output

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Figura 17-3 Modello sistemico del cambiamento

• Missione • Valori • Punti di forza e di debolezza interni • Punti di forza e di debolezza esterni

Input

Accordi organizzativi • Politiche • Procedure • Regole • Struttura • Ricompense • Disposizione nello spazio

Obiettivi del cambiamento

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Come illustrato nella figura 17-3, gli elementi sottoponibili a un’azione di cambiamento sono quattro: gli accordi organizzativi, i fattori sociali, i metodi o le persone. Ciascuno di essi contiene un sottoinsieme di caratteristiche organizzative più specifiche. Per esempio, la componente dei “fattori sociali” comprende la cultura organizzativa, i processi di gruppo, le interazioni interpersonali, la comunicazione e la leadership. Esistono altri due elementi da ricordare rispetto agli obiettivi del cambiamento illustrati nella figura 17-3. Il primo, le doppie frecce che collegano tutti gli obiettivi di cambiamento indicano che il cambiamento si ripercuote sull’intera organizzazione. Per esempio, cambiando il sistema di ricompense per favorire le performance di team rispetto alle performance individuali (un accordo organizzativo) molto probabilmente si determinerà un effetto anche sulla cultura (un fattore sociale). In secondo luogo, la componente delle persone si trova al centro del riquadro degli obiettivi perché tutti i cambiamenti organizzativi finiscono per determinare un effetto sui dipendenti. Le probabilità di successo delle azioni di cambiamento sono maggiori quando i manager prendono in considerazione con un approccio proattivo le conseguenze del cambiamento sui collaboratori. Output Gli output rappresentano i risultati finali che ci si aspetta dal cambiamento. Ancora una volta, si tratta di risultati che dovrebbero essere coerenti con il piano strategico dell’azienda. La figura 17-3 indica come il cambiamento possa essere indirizzato a livello organizzativo, a livello di gruppo/unità o a livello individuale. A livello organizzativo gli sforzi necessari al cambiamento sono più complessi e difficoltosi da gestire, e questo succede perché è molto più probabile che i cambiamenti a livello organizzativo influenzino più elementi del cambiamento, tra quelli descritti nel modello. Applicare il modello sistemico del cambiamento Il modello sistemico del cambiamento può essere applicato secondo due modalità diverse. In primo luogo, può rappresentare uno strumento di ausilio nel processo di pianificazione strategica: una volta che i manager hanno stabilito la visione e gli obiettivi strategici, possono considerare gli obiettivi del cambiamento nello sviluppo di piani d’azione per sostenere la strategia. La seconda applicazione consiste nell’utilizzare il modello come schema per individuare le cause di un problema organizzativo e proporre soluzioni adeguate.

Le otto fasi di Kotter della gestione del cambiamento organizzativo John Kotter, esperto di leadership e gestione del cambiamento, sostiene che il cambiamento organizzativo tipicamente fallisce perché il management commette una molteplicità di errori nella fase di implementazione; studiando tali errori, Kotter ha ideato un processo articolato in otto fasi per la gestione del cambiamento (vedi tabella 17-1).14 Diversamente dal modello sistemico del cambiamento, il processo elaborato da Kotter non ha un fine diagnostico ma, come il modello del cambiamento di Lewin, delinea le fasi che i manager dovrebbero seguire quando si trovano a gestire un cambiamento. Le otto fasi individuate da Kotter, illustrate nella tabella 17-1, sottintendono inoltre il modello del cambiamento di Lewin. Le prime quattro rappresentano la fase di

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Tabella 17-1 Le fasi della gestione del cambiamento organizzativo Fase

Descrizione

1. Stabilire un senso di urgenza

Scongelare l’organizzazione dando una motivazione della necessità impellente del cambiamento. Creare un gruppo di persone interfunzionale e trasversale ai livelli gerarchici che abbia abbastanza potere da dirigere il cambiamento. Creare una visione e un piano strategico che guidino il processo del cambiamento. Creare e applicare una strategia comunicativa che permetta di comunicare in modo efficace la nuova visione e il piano strategico. Eliminare le barriere al cambiamento, e utilizzare gli elementi target del cambiamento mento per trasformare l’organizzazione. Incoraggiare l’assunzione di rischio e la risoluzione creativa dei problemi Pianificare e creare “successi” o miglioramenti a breve termine. Riconoscere e ricompensare le persone che contribuiscono alle vittorie. La coalizione guida utilizza la credibilità guadagnata nelle vittorie a breve termine per introdurre ulteriori cambiamenti. Un numero sempre crescente di persone viene introdotto nel processo di cambiamento man mano che esso penetra l’organizzazione. Si cerca di rinvigorire il processo strada facendo. Rinforzare i cambiamenti evidenziando le connessioni tra i nuovi comportamenti e i processi del successo organizzativo. Elaborare metodi che garantiscano lo sviluppo e la continuità della leadership.

2. Creare la coalizione guida 3. Sviluppare una visione e una strategia 4. Comunicare la visione del cambiamento 5. Incentivare un’azione partecipativa

6. Generare successi a breve termine 7. Consolidare i successi e produrre ancora più innovazioni

8. Ancorare gli approcci nuovi nella cultura

Fonte: le fasi sono state elaborate da J.P. Kotter, Leading Change (Boston: Harvard Business School Press, 1996).

“scongelamento”, le fasi 5, 6 e 7 sono la “trasformazione”, e la fase 8 corrisponde al “ricongelamento”. Le fasi di Kotter sono importanti perché danno consigli specifici sui comportamenti che il manager dovrebbe assumere per gestire con successo il cambiamento organizzativo. È importante ricordare che la ricerca di Kotter rivela che è inefficace saltare delle fasi e che i manager tendono a commettere errori proprio nelle fasi iniziali.15

Determinare il cambiamento attraverso lo sviluppo organizzativo

Sviluppo organizzativo: insieme di tecniche o strumenti utilizzati per introdurre un cambiamento organizzativo

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Lo sviluppo organizzativo si differenzia dai modelli del cambiamento analizzati finora perché non prevede una sequenza strutturata come quelle proposte da Lewin e Kotter; ha tuttavia lo stesso scopo diagnostico associato al modello sistemico del cambiamento. Inoltre, si contraddistingue per un orientamento molto più ampio. Nello specifico, due esperti della materia hanno così definito lo sviluppo organizzativo: Lo sviluppo organizzativo consiste in interventi pianificati per aiutare i collaboratori a lavorare e convivere più efficacemente all’interno dell’organizzazione nel corso del tempo. Tali obiettivi vengono raggiunti applicando metodi e principi delle scienze comportamentali e teorie adattate dai campi della psicologia, della sociologia, della formazione e del management.16

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Come si può vedere da questa definizione, lo sviluppo organizzativo costituisce un insieme di tecniche o interventi che possono essere usati per implementare il cambiamento organizzativo “pianificato” mirato ad accrescere “la capacità di un’organizzazione di migliorarsi come sistema accogliente ed efficace”; interventi e tecniche che si applicano a ciascun modello di cambiamento discusso all’interno di questa sezione. Lo sviluppo organizzativo viene utilizzato, ad esempio, nella fase di “trasformazione” di Lewin. Viene inoltre utilizzato per identificare e introdurre elementi di cambiamento all’interno del modello sistemico. Lo sviluppo organizzativo può essere applicato nelle fasi 1, 3, 5, 6 e 7 di cui parla Kotter. Infine, lo sviluppo organizzativo è attuato dagli agenti del cambiamento. Un agente del cambiamento aiuta le organizzazioni a gestire problemi di vecchia data in un modo nuovo; può essere sia un consulente esterno sia un collaboratore. In questa sezione analizziamo brevemente come funziona lo sviluppo organizzativo, le ricerche sull’argomento e le conseguenti implicazioni pratiche.17 Come funziona lo sviluppo organizzativo Nell’applicazione dello sviluppo organizzativo gli agenti del cambiamento seguono un modello simile a quello adottato dai medici. Analizzano l’organizzazione come se si trattasse di un paziente “da curare”, ne “diagnosticano” i problemi, prescrivono e implementano un “intervento” e “valutano” i progressi. Se dalla valutazione non emerge un cambiamento positivo, le informazioni ricavate vengono impiegate per affinare la diagnosi e/o valutare l’efficacia dell’intervento. Consideriamo le componenti del processo di sviluppo organizzativo illustrate nella figura 17-4. 1. Diagnosi: qual è il problema? Da che cosa è causato? Gli agenti del cambiamento ricorrono a interviste, sondaggi, informazioni scritte e osservazione diretta per individuare il problema e le sue cause. Consigliamo di utilizzare gli obiettivi di cambiamento del modello sistemico presentato in questo capitolo per elaborare domande diagnostiche mirate. Una potenziale domanda potrebbe essere: “In che misura la struttura oppure il sistema di ricompense contribuiscono a causare il problema?” 2. Intervento: che cosa si può fare per risolvere il problema? L’intervento è dato dai cambiamenti effettuati per risolvere il problema esistente ed è calibrato in base alle cause. Per esempio, se la causa della scarsa qualità è l’inefficacia del lavoro in team, si può intervenire organizzando attività di team building (Capitolo 11); se invece la causa è una leadership inefficace, è il caso di fornire ai manager formazione alla leadership (Capitolo 16). L’elemento essenziale da ricordare è che non esiste un “insieme” di misure applicabili a tutte le situazioni; si deve piuttosto intervenire sulla base delle teorie e dei modelli presentati in questo libro. Un approccio contingente consente di scegliere le modalità di intervento più adeguate per il problema o la situazione da affrontare. 3. Valutazione: l’intervento produce gli esiti desiderati? Per effettuare una valutazione corretta, l’organizzazione è chiamata a sviluppare misure di efficacia, a seconda del problema esistente. Per esempio, se il problema riguarda il turnover o la produttività dei collaboratori, è opportuno sviluppare indicatori del turnover volontario o della produttività. Se possibile, la valutazione finale dovrebbe basarsi sul raffronto tra le misure di efficacia pre- e post-intervento.

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4. Feedback: che cosa emerge dalla valutazione rispetto alla diagnosi e all’efficacia dell’intervento attuato? Se dalla valutazione emergono risultati positivi, il processo di sviluppo organizzativo è andato a buon fine e l’agente del cambiamento è chiamato a “congelare” i cambiamenti nel modo migliore. Per contro, una valutazione negativa può essere indice di due problemi: (1) la diagnosi iniziale era errata oppure (2) l’intervento non è stato attuato efficacemente. Generalmente, a fronte di una valutazione negativa, l’agente del cambiamento è tenuto a raccogliere più informazioni sulle fasi 1 e 2 del processo di sviluppo organizzativo illustrato in figura 17-4. Ricerche e implicazioni pratiche Prima di presentare alcune implicazioni pratiche, è importante notare che dagli studi legati allo sviluppo organizzativo emergono i seguenti risultati: • Da una meta-analisi su 18 ricerche è emerso che la soddisfazione del collaboratore in presenza di un cambiamento cresce quando il top management dimostra un alto livello di coinvolgimento nello sforzo volto al cambiamento.18 • I risultati di una meta-analisi su 52 studi sostengono il modello sistemico del cambiamento organizzativo. In particolare, è emerso che variare un elemento del cambiamento modifica di conseguenza anche gli altri elementi. L’analisi ha inoltre dimostrato l’esistenza di una correlazione positiva tra il cambiamento comportamentale individuale e il cambiamento a livello organizzativo.19 • Una meta-analisi di 126 ricerche ha dimostrato che gli interventi multiformi che utilizzano più di una tecnica di sviluppo organizzativo riescono a modificare meglio gli atteggiamenti nei confronti del lavoro rispetto a interventi basati su un singolo processo umano o su un approccio esclusivamente tecnico-strutturale.20 • Da un’indagine condotta su 1700 aziende cinesi, giapponesi, statunitensi ed europee, è emerso che (1) le aziende statunitensi ed europee utilizzavano gli interventi di Figura 17-4 Il processo di sviluppo organizzativo Fonte: adattamento da W.L. French e C.H. Bell Jr, Organization Development: Behavioral Interventions for Organizational Improvement (Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, 1978).

1. Diagnosi Qual è il problema? Quali sono le cause?

2. Intervento Che cosa si può fare per risolvere il problema?

3. Valutazione L’intervento produce gli esiti desiderati?

4. Feedback Che cosa emerge dalla valutazione rispetto alla diagnosi e all’efficacia dell’intervento attuato?

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sviluppo organizzativo con maggiore frequenza rispetto a quelle cinesi e giapponesi e (2) alcuni interventi non sono legati alla cultura, altri sì.21 Da queste ricerche emergono quattro principali implicazioni pratiche. Innanzitutto, il cambiamento organizzativo pianificato funziona. In ogni caso, il management e gli agenti del cambiamento dovrebbero utilizzare interventi multiformi. Come già detto in precedenza, la definizione degli obiettivi, il feedback, il riconoscimento e le ricompense, la formazione, la partecipazione e una progettazione sfidante dei ruoli si sono rivelati utili nel miglioramento della performance e della soddisfazione. Seconda osservazione: i programmi di cambiamento sono più efficaci se mirati al raggiungimento di obiettivi sia a breve sia a lungo termine. Si sconsiglia quindi ai manager di intraprendere un cambiamento organizzativo solo per il gusto di cambiare. Ogni sforzo volto al cambiamento dovrebbe produrre risultati positivi. Terza osservazione: il cambiamento organizzativo ha maggiori probabilità di successo quando il top management si impegna davvero nel processo di cambiamento e nei confronti degli obiettivi del programma di cambiamento. Ciò vale, in particolar modo, per le organizzazioni che perseguono trasformazioni su larga scala. Infine, l’efficacia degli interventi di sviluppo organizzativo dipende da considerazioni interculturali. Manager e consulenti di sviluppo organizzativo non dovrebbero quindi applicare pedissequamente un intervento che sia risultato efficace in un particolare paese a una situazione simile in uno paese diverso.

Capire e gestire la resistenza al cambiamento A prescindere dalla perfezione tecnica o amministrativa del cambiamento proposto, sono le persone a farlo andare in porto o meno, perché il cambiamento organizzativo è una forma di influenza, cioè un tentativo del management di far sì che i collaboratori si comportino, pensino o lavorino in maniera diversa. Tale prospettiva del cambiamento mette in luce quanto studiato nel Capitolo 15 sulle tecniche di influenza; come ricorderete, la resistenza è uno dei tre possibili esiti di un processo di influenza, assieme all’impegno e all’adeguamento. Secondo molti, la resistenza al cambiamento rappresenterebbe quindi il fallimento di un tentativo di influenza da parte di un agente del cambiamento. Aspetto interessante, i risultati di recenti ricerche evidenziano che è necessario riconsiderare tale interpretazione. In passato, la ricerca sulla resistenza si è basata sul presupposto secondo il quale “gli agenti del cambiamento agiscono in modo adeguato e corretto, mentre i destinatari del cambiamento pongono ostacoli o barriere irragionevoli nel tentativo di ‘sabotare’ il cambiamento […] Di conseguenza, gli agenti del cambiamento sono dipinti come le vittime innocenti della reazione irrazionale e disfunzionale dei destinatari del cambiamento”.22 La resistenza è considerata un esito negativo determinato da soggetti irrazionali o intenti a curare i propri interessi. Se in taluni casi può essere così, è altrettanto probabile che la resistenza sia causata da altri due fattori importanti: le caratteristiche, le azioni e le omissioni dell’agente del cambiamento, oppure la qualità del rapporto tra gli agenti e i destinatari del cambiamento. La presente sezione si basa sul presupposto che la resistenza è una reazione naturale dei collaboratori e può rivelarsi molto utile. Per una gestione efficace del cambiamento, si consiglia ai manager di cercare di com-

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prendere le cause della resistenza.23 A tale fine, presentiamo un modello che delinea le cause della resistenza al cambiamento e una serie di suggerimenti pratici per superarla.

Le cause della resistenza al cambiamento Resistenza al cambiamento: reazione emotiva/comportamentale a cambiamenti reali o immaginari del lavoro

La resistenza al cambiamento è una reazione emotiva/comportamentale a fatti reali o immaginari che minacciano lo status quo; può essere tanto nascosta, come nel caso di rassegnazione passiva, quanto scoperta, arrivando addirittura al sabotaggio deliberato. La figura 17-5 presenta un modello che illustra la relazione che intercorre tra le tre possibili cause della resistenza al cambiamento. In questo modello, la resistenza è considerata un’interazione dinamica tra le tre cause, e non la conseguenza del comportamento irrazionale e testardo dei destinatari del cambiamento. Per esempio, la resistenza si basa in parte sulla percezione del cambiamento, influenzata da atteggiamenti e comportamenti esibiti dagli agenti del cambiamento e dal livello di fiducia tra questi e i destinatari del cambiamento. Analogamente, gli agenti del cambiamento possono manifestare azioni e percezioni diverse a seconda delle azioni e omissioni dei destinatari del cambiamento e della qualità dei rapporti che hanno con essi. Passiamo ora a esaminare ciascuna causa di resistenza al cambiamento. Caratteristiche dei destinatari Le caratteristiche dei destinatari comprendono una molteplicità di differenze individuali (vedi Capitolo 5), le azioni (per esempio l’adozione di nuovi comportamenti) oppure le omissioni (la mancata adozione di nuovi comportamenti) evidenziate dai destinatari del cambiamento, nonché la percezione del cambiamento (“Questo cambiamento è iniquo perché mi si chiede di fare di più senza concedermi un aumento di retribuzione”). Di seguito sono descritte sei caratteristiche essenziali dei destinatari del cambiamento:24

Figura 17-5 Un modello dinamico della resistenza al cambiamento

Caratteristiche dei destinatari

Resistenza al cambiamento

Caratteristiche dell’agente del cambiamento

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Rapporto tra l’agente del cambiamento e i destinatari

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Resilienza al cambiamento: caratteristica personale composita che riflette un alto livello di autostima e di ottimismo e un locus of control interno

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1. Predisposizione individuale nei confronti del cambiamento. Tale predisposizione è molto personale e radicata nell’individuo, e deriva dal modo in cui l’individuo stesso ha imparato a gestire il cambiamento e l’ambiguità fin da piccolo. Mentre alcune persone assumono un atteggiamento sospettoso e diffidente, altre vedono nel cambiamento una situazione che richiede flessibilità, pazienza e comprensione.25 Per esempio, la resilienza al cambiamento, una caratteristica composita che riflette un alto livello di autostima, ottimismo e la presenza di un locus of control interno, è risultata positivamente associata alla disponibilità dei destinatari ad adeguarsi o accettare un dato cambiamento organizzativo.26 2. Sorpresa e paura dell’ignoto. Quando si introduce un cambiamento innovativo o radicalmente innovativo senza preavviso, i collaboratori coinvolti cominciano a nutrire paura per le possibili conseguenze. Questo accade, per esempio, quando i manager presentano nuovi obiettivi senza illustrare piani specifici per il raggiungimento degli stessi. Immaginate come vi sentireste se il capo dicesse che il vostro dipartimento deve conseguire un aumento delle vendite del 25% senza accrescere l’organico. Non esplicitare le aspettative legate a un tentativo di cambiamento o alla definizione di nuovi obiettivi contribuisce considerevolmente ad accrescere la resistenza al cambiamento.27 3. Paura del fallimento. Cambiamenti intimidatori sul lavoro possono portare i collaboratori a dubitare delle proprie capacità. Un dubbio di questo tipo va a intaccare la fiducia in loro stessi, inficiando la crescita e lo sviluppo dell’individuo (ricordate quanto detto nel Capitolo 5 a proposito dell’auto-efficacia). 4. Perdita di status o di sicurezza lavorativa. Cambiamenti di tipo amministrativo o tecnologico che minacciano di alterare i fondamenti di potere o di eliminare posti di lavoro in genere danno vita a forti sacche di resistenza. Ad esempio, gran parte delle ristrutturazioni aziendali implica l’eliminazione delle cariche manageriali. Di conseguenza non deve sorprendere se i capi intermedi resistono alle ristrutturazioni interne o ai piani di management partecipativo che riducono la loro autorità e il loro status. 5. Pressioni da parte dei colleghi. Può succedere che qualcuno non direttamente colpito dal cambiamento resista attivamente alla sua attuazione per proteggere gli interessi di amici e colleghi. 6. Successi passati. Il successo talvolta induce ad addormentarsi sugli allori. Inoltre, può determinare una testarda resistenza perché i collaboratori si convincono che ciò che è stato vincente in passato continuerà a esserlo. Caratteristiche dell’agente del cambiamento Come i destinatari del cambiamento, anche gli agenti del cambiamento si caratterizzano per una molteplicità di differenze individuali (vedi i cosiddetti Big Five della personalità nel Capitolo 5). Per esempio, se l’agente del cambiamento non riesce a comunicare o viene percepito come l’artefice di politiche inique, molto probabilmente i collaboratori opporranno resistenza. Ancora, un agente del cambiamento potrebbe interpretare le domande che gli vengono poste come una forma di resistenza, mentre in realtà sono solo tentativi di comprendere meglio il processo di cambiamento. Di seguito sono descritte cinque caratteristiche essenziali degli agenti del cambiamento:

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1. Decisioni che comportano l’abbandono di tradizioni culturali o relazioni di gruppo. Ogni volta che un collaboratore viene trasferito, promosso o assegnato a un compito diverso, le dinamiche culturali e di gruppo vengono messe in una situazione di squilibrio; un po’ come cambiare classe a metà dell’anno scolastico. La resistenza aumenta per via dell’incertezza associata alla gestione dei rapporti con nuovi colleghi di team e delle nuove aspettative. 2. Conflitti di personalità. Un amico può cavarsela pur dicendoci qualcosa che, detta da un avversario, ci offenderebbe: analogamente, la resistenza può nascere da un conflitto di personalità tra gli attori del cambiamento. Gli agenti del cambiamento che esibiscono uno qualsiasi dei tratti della cattiva leadership visti nel Capitolo 16 facilmente genereranno resistenza da parte dei destinatari. 3. Mancanza di tatto o tempistica sbagliata. Una resistenza irragionevole può nascere dal fatto che i cambiamenti sono introdotti senza tatto o in un momento sbagliato. È più probabile che i cambiamenti organizzativi proposti dai manager vengano accettati dagli altri se si spiega loro con precisione il valore che rivestono per l’azienda. Una strategia può essere quella di spiegare in che modo un cambiamento potrebbe essere strategicamente importante per il successo dell’organizzazione. 4. Stile di leadership. Le ricerche dimostrano che le probabilità di incontrare resistenza al cambiamento si riducono se ci si avvale della leadership trasformazionale (vedi Capitolo 16).28 5. Mancata legittimazione del cambiamento. Prima che venga veramente accettato, il cambiamento deve essere interiorizzato dai destinatari. Affinché questo accada, sono essenziali una comunicazione onesta e attiva e il rafforzamento dei sistemi di ricompensa. Questa raccomandazione evidenzia quanto sia necessario per gli agenti del cambiamento comunicare con i destinatari consentendo loro di esprimere punti di vista e prospettive. Inoltre, è importante che gli agenti spieghino come il cambiamento potrà tradursi in benefici individuali e organizzativi, sulla base di una chiara idea di come il lavoro dei destinatari cambierà e di quali ricompense saranno assegnate.29 Per esempio, è improbabile che un collaboratore contribuisca a un cambiamento se percepisce che gli impone di lavorare di più, subendo una pressione maggiore, senza un adeguato riconoscimento anche economico. Rapporto tra l’agente del cambiamento e i destinatari In genere, la resistenza è minore quando l’agente del cambiamento e i destinatari sono legati da un rapporto positivo, basato sulla fiducia. Come evidenziato nel Capitolo 11, la fiducia implica il credere che non si verrà danneggiati dalle intenzioni e dal comportamento dell’altro. La mancanza di fiducia reciproca può condannare al fallimento un tentativo di cambiamento sotto altri aspetti perfetto, alimentando segreti che a loro volta rendono la sfiducia sempre più profonda. I manager che si fidano dei collaboratori rendono il processo di cambiamento aperto, onesto e partecipativo; dall’altra parte, i collaboratori che si fidano del management sono più disponibili a impegnarsi maggiormente e affrontare senza timori le novità. A conferma di questa considerazione, uno studio condotto sui lavoratori del settore petrolifero e bancario ha evidenziato che ottimi rapporti tra i manager e i diretti subordinati erano associati a una minore resistenza al cambiamento.30

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Strategie alternative per vincere la resistenza al cambiamento Come abbiamo già sottolineato, la resistenza al cambiamento è una forma di feedback. Per cercare di superarla occorre quindi che i manager ne comprendano le cause valutando il peso delle tre fonti di resistenza al cambiamento illustrate in figura 17-5. Pensiamo per esempio alle caratteristiche dei collaboratori. Esistono maggiori probabilità che i dipendenti oppongano resistenza quando percepiscono che i costi individuali del cambiamento superano i benefici. In tal caso, si consiglia ai manager di (1) fornire quante più informazioni possibile riguardo al cambiamento, (2) illustrare le ragioni/la logica del cambiamento, (3) organizzare riunioni per rispondere alle domande dei collaboratori sul cambiamento e (4) offrire ai collaboratori un confronto su come il cambiamento proposto inciderà sulla loro attività lavorativa. Applicando queste raccomandazioni si può migliorare il rapporto agente del cambiamento-destinatari perché si accresce il livello di fiducia tra le parti. Inoltre, come evidenziato nella figura 17-5, si invitano i manager a non dare per scontato che i collaboratori oppongano una resistenza al cambiamento deliberata. La resistenza infatti ha sempre una causa precisa e, secondo una ricerca condotta da John Kotter su oltre 100 aziende, generalmente è legata a qualche tipo di ostacolo nell’ambiente di lavoro. Lo studioso osservò che gli ostacoli nella struttura organizzativa, o all’interno di un “sistema di valutazione delle prestazioni che costringe le persone a scegliere tra la nuova visione e il proprio interesse”, costituiscono un impedimento al cambiamento molto più grande rispetto alla resistenza diretta opposta dall’individuo.31 Tale prospettiva implica che il management deve cercare il feedback dei collaboratori rispetto a eventuali ostacoli che possano interferire con la capacità o la volontà di accettare il cambiamento. Gli agenti del cambiamento non devono temere di modificare gli obiettivi del cambiamento o l’approccio adottato in risposta alla resistenza opposta dai destinatari: se la resistenza al cambiamento è determinata da motivazioni valide, occorre promuovere iniziative diverse. Va ricordato che la partecipazione dei dipendenti al processo di cambiamento rappresenta un altro approccio generico per ridurre la resistenza. Tuttavia, gli studiosi di cambiamento organizzativo hanno criticato la tendenza a considerare la partecipazione come la panacea contro la resistenza al cambiamento; consigliano invece un approccio contingente, perché la resistenza può assumere forme diverse e i fattori legati alle situazioni variano (tabella 17-.2). Come si evince dalla tabella 17-2, la partecipazione e il coinvolgimento hanno un ruolo importante, ma richiedono un lasso di tempo non sempre disponibile. Inoltre, come indicato nella tabella, ognuno degli altri cinque metodi ha la propria nicchia di contesto, con vantaggi e controindicazioni.

Dinamiche dello stress La sezione conclusiva di questo libro tratta un tema che tocca tutti noi, cioè lo stress. Sebbene le cause siano numerose, i ricercatori hanno determinato che lo stress dà origine a due reazioni fondamentali: combattimento attivo o reazione passiva (fuga o

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Tabella 17-2 Sei strategie per vincere la resistenza al cambiamento Approccio

Comunemente usato quando

Vantaggi

Svantaggi

Formazione e comunicazione

Quando mancano informazioni o le informazioni e l’analisi sono inaccurate Quando i fautori non possiedono tutte le informazioni necessarie a strutturare il cambiamento e dove le persone coinvolte possono resistere in modo rilevante Quando le persone resistono in seguito a problemi di adattamento Quando il cambiamento comporta una perdita per un gruppo, e quando tale gruppo abbia abbastanza forza per resistere al cambiamento Quando le altre tattiche non funzionano o sono troppo costose

Una volta persuase, le persone spesso contribuiscono all’introduzione del cambiamento Le persone che partecipano saranno poi impegnate a portare avanti il cambiamento, e qualsiasi informazione utile sarà integrata nel piano di cambiamento

Se coinvolge molte persone può comportare un notevole dispendio di tempo Se i partecipanti strutturano un cambiamento inappropriato, può comportare forti perdite di tempo

In presenza di problemi di adattamento, nessun altro approccio funziona meglio Talvolta è un modo abbastanza semplice di evitare le resistenze maggiori

Può comportare perdite di tempo, di denaro e non avere risultati In molti casi può risultare troppo costoso se induce altri a negoziare le loro richieste

Può trasformarsi in una soluzione abbastanza rapida e poco dispendiosa per i problemi di resistenza È rapida e supera qualsiasi genere di resistenza nei confronti dei fautori

Può comportare problemi futuri se le persone si sentono manipolate

Partecipazione e coinvolgimento

Facilitazione e sostegno Negoziazione e accordo

Manipolazione e cooptazione

Coercizione esplicita e implicita

Quando la rapidità diventa essenziale e quando i fautori del cambiamento sono abbastanza forti

Può essere rischiosa se fa nascere nelle persone l’odio del cambiamento

Fonte: tratto da J.P. Kotter e L.A. Schlesinger, “Choosing Strategies for Change,” Harvard Business Review, marzo/aprile 1979. Riproduzione su autorizzazione; tutti i diritti riservati.

Reazione combattimento o fuga: affrontare gli agenti stressanti o tentare di evitarli

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accettazione), la cosiddetta reazione combattimento o fuga.32 Dal punto di vista fisiologico, la reazione allo stress è un “ingranaggio di passaggio” biochimico, che implica variazioni ormonali che mobilitano il corpo per rispondere a richieste straordinarie. Provate a immaginare la reazione dei nostri antenati di fronte allo stress provocato da una tigre in posizione di attacco. Per sfuggire alla morte, l’uomo può scegliere tra stare fermo e combattere o correre via. In entrambi i casi, il corpo verrebbe sferzato dall’energia dovuta allo stesso cambiamento ormonale, che implica il rilascio di adrenalina nel circolo sanguigno. Nella società odierna, urbanizzata e industrializzata, le bestie feroci sono state sostitute da problemi quali scadenze da rispettare, problemi di convivenza, conflitti con i membri del team di lavoro, sovraccarico di informazioni, tecnologia, ingorghi del traffico, inquinamento acustico e dell’aria, problemi familiari e superlavoro. Proprio come succedeva ai nostri antenati, la nostra risposta allo stress può dar vita o meno a effetti collaterali negativi, tra cui mal di testa, ulcera, insonnia, infarti, pressione alta, collassi, allergie, malattie della pelle e disturbi mentali.33 La stessa reazione allo stress che aiutava i nostri antenati a sopravvivere è oggi diventata troppo spesso un fattore che debilita fortemente la nostra vita quotidiana.

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Dal momento che è possibile influire sullo stress e sulle conseguenze che comporta, è importante che apprendiate il più possibile sullo stress legato al lavoro. In questa sezione, dopo aver definito lo stress, daremo una panoramica delle dinamiche a esso associate presentando un modello di stress sul lavoro, discuteremo i fattori che possono moderarlo e analizzeremo l’efficacia di varie tecniche per ridurlo.

Definizione di stress

Stress: reazione comportamentale, fisica o psicologica agli agenti stressanti

Eustress: stress positivo, o che induce conseguenze positive

Per un violinista, la prospettiva di un assolo di fronte a un pubblico numeroso può costituire motivo di stress. Calore, fumo e fiamme sono elementi stressanti per un pompiere, mentre per una persona timida è stressante l’idea di fare un discorso in pubblico. In breve, lo stress può essere sinonimo di cose diverse per persone diverse. Il manager ha bisogno, però, di una definizione funzionale. Formalmente, lo stress è una “reazione adattiva, mediata dalle caratteristiche individuali e/o da processi psicologici; si presenta in conseguenza ad azioni esterne, situazioni o eventi particolarmente esigenti dal punto di vista fisico o psichico per l’individuo”.34 Questa definizione non è complessa come sembra se la suddividiamo nelle sue tre componenti: (1) richieste ambientali, definite agenti stressanti, che producono (2) una reazione adattiva che varia a seconda delle (3) differenze individuali. Hans Selye, considerato il padre del moderno concetto di stress, è stato il primo a distinguere tra agenti stressanti e reazione allo stress. Egli pose inoltre l’attenzione sul fatto che eventi sia negativi sia positivi possono originare la stessa reazione, che a sua volta può essere utile o dannosa. Selye definì eustress quella forma di stress positivo o che produce conseguenze positive. Per fare un esempio, il fatto di ricevere un premio di fronte a una vasta platea, o il fatto di riuscire a portare a termine un compito difficile, sono agenti stressanti che producono eustress. Lo studioso fece inoltre notare che • • • •

Lo stress non è semplicemente tensione nervosa. Lo stress può avere conseguenze positive. Lo stress non va evitato. La completa assenza di stress è la morte.35

È evidente quindi che lo stress è inevitabile. Il manager si deve quindi impegnare per gestirlo e non per eliminarlo del tutto.

Un modello di stress lavorativo La figura 17-6 illustra un utile modello di stress lavorativo. Secondo il modello, un individuo prova inizialmente quattro tipologie di agenti stressanti. Di conseguenza, sarà motivato a scegliere la strategia adatta a gestire ciascun agente, ottenendo determinati risultati. Il modello specifica inoltre molte differenze individuali che moderano il processo legato allo stress. Un moderatore è una variabile che rende la relazione tra altre due variabili – in questo caso l’agente stressante e la valutazione cognitiva – più forte

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Conseguenze Potenziali agenti stressanti

Psicologiche/attitudinali • Soddisfazione lavorativa • Commitment nell’organizzazione • Coinvolgimento nel lavoro • Autostima • Esaurimento • Emozioni • Depressione

Livello individuale • Richieste sul lavoro • Sovraccarico • Poco lavoro, monotonia • Conflitto di ruolo • Ambiguità del ruolo • Sicurezza del lavoro

Livello di gruppo • Dinamiche di gruppo • Comportamento manageriale • Molestie

Valutazione cognitiva • Primaria • Secondaria

Livello organizzativo • Cultura • Struttura • Tecnologia • Introduczione di cambiamenti nelle condizioni di lavoro

Strategie • Controllo • Fuga • Gestione dei sintomi

Moderatori • Sostegno sociale • Hardiness • Comportamento di tipo A

Extra-organizzativi • Famiglia • Status socio-economico • Tempo necessario agli spostamenti • Rumore, calore, affollamento, inquinamento dell’aria

Comportamentali • Assenteismo • Turnover • Performance • Infortuni • Abuso di sostanze stupefacenti • Violenza Cognitive • Processi decisionali non adeguati • Mancanza di concentrazione • Dimenticanze Stress fisico • Sistema cardiovascolare • Sistema immunitario • Sistema muscoloscheletrico • Sistema gastrointestinale

Figura 17-6 Un modello di stress lavorativo

per alcune persone, più debole per altre. Nella prossima sezione analizzeremo i tre principali moderatori. Andiamo ora a vedere nel dettaglio le altre componenti del modello. Agenti stressanti: fattori ambientali che producono stress

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Agenti stressanti Gli agenti stressanti sono fattori ambientali che producono stress. In altre parole, gli agenti stressanti costituiscono il prerequisito per sperimentare la reazione allo stress. La figura 17-6 mostra le quattro tipologie principali: individuale, di gruppo, organizzativo ed extra-organizzativo. Gli agenti stressanti individuali sono quelli legati direttamente alle mansioni della persona. Gli esempi più comuni di agenti stressanti individuali sono le richieste sul lavoro, il sovraccarico, i conflitti di ruolo, l’ambiguità

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del ruolo, controversie quotidiane, il livello percepito di controllo sugli eventi che si verificano sul posto di lavoro e le caratteristiche del lavoro stesso.36 La perdita del posto di lavoro è un agente stressante individuale significativo. Ritrovarsi disoccupati è un evento molto stressante, associato a un calo del benessere psicofisico. Ricerche recenti dimostrano tuttavia che le persone che hanno un lavoro di pessima qualità sperimentano un benessere psicologico inferiore rispetto alle persone disoccupate.37 Infine, anche i problemi legati al sonno sono una notevole fonte di stress: come ha dimostrato la ricerca, gran parte delle persone ha bisogno di circa sette ore di sonno ogni notte e la prontezza, l’energia, le prestazioni, la creatività e la capacità di pensiero variano in base a quanto ci si sente riposati all’inizio di una giornata di lavoro.38 Gli agenti stressanti a livello di gruppo sono legati alle dinamiche specifiche di gruppo (Capitolo10) e al comportamento manageriale. I manager creano stress nei collaboratori se (1) si comportano in modo incoerente, (2) non danno sostegno, (3) dimostrano poco interessamento, (4) non dirigono in modo efficace, (5) danno vita a un ambiente ad alta produttività e (6) si concentrano sulle performance negative senza degnare di uno sguardo quelle positive. Un altro agente stressante a livello di gruppo sono le molestie sessuali. Gli agenti stressanti a livello organizzativo affliggono un gran numero di collaboratori. La cultura organizzativa, di cui abbiamo parlato nel Capitolo 3, costituisce una dimostrazione di prim’ordine. Per fare un esempio, un ambiente di lavoro che pone richieste pressanti sui collaboratori alimenta una reazione di stress. Secondo un sondaggio internazionale che ha coinvolto 1700 professionisti, l’utilizzo crescente di tecnologie informatiche è un’altra fonte di stress organizzativo. I risultati evidenziano che il 59% degli intervistati è stressato per via del sovraccarico di informazioni da elaborare nel contesto lavorativo; purtroppo, la maggior parte di loro ha riferito di gestire questo agente stressante cancellando o ignorando le informazioni,39 una strategia decisamente sconsigliabile. Infine, la qualità dell’aria e la ventilazione all’interno degli ambienti di lavoro possono rappresentare un altro agente stressante a livello organizzativo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, circa il 30% degli edifici nuovi e ristrutturati presenta problemi legati alla qualità dell’aria, che incidono sulla capacità di concentrazione e possono generare mal di testa e capogiri.40 Gli agenti stressanti extra-organizzativi, infine, sono legati a fattori che risiedono al di fuori dell’organizzazione. Ad esempio nel Capitolo 6 abbiamo parlato dello stress derivante dai conflitti che nascono dal tentativo di conciliare carriera e famiglia. Un ulteriore fattore di stress extra-organizzativo è lo status socioeconomico. Lo stress è maggiore per le persone con status inferiore. Lo status socioeconomico è una combinazione tra (1) status economico, misurabile con il reddito, (2) status sociale, determinato dal livello di istruzione e (3) status lavorativo, definito dall’occupazione. Questo tipo di agenti stressanti diventerà probabilmente più importante in futuro. A conferma di questa considerazione, nel sondaggio nazionale condotto dall’Associazione degli psicologi americani, la maggior parte degli statunitensi ha citato il denaro, il lavoro e l’andamento dell’economia come principali agenti stressanti.41 Valutazione cognitiva degli agenti stressanti La valutazione cognitiva riflette la percezione o valutazione che l’individuo dà di una situazione o di un agente stressante. Si tratta di una componente importante nel processo dello stress perché le persone

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Valutazione primaria: determinare se un agente stressante è irrilevante, positivo o stressante

Valutazione secondaria: determinare cosa si debba e si possa fare per ridurre lo stress

Strategia del controllo: strategia che affronta direttamente i problemi o li risolve

Distacco psicologico: evitare attività, pensieri e sentimenti legati all’attività lavorativa durante il proprio tempo libero

Strategia della fuga: strategia che evita o ignora gli agenti stressanti e i problemi Strategia di gestione dei sintomi: strategia che si concentra sulla riduzione dei sintomi dello stress

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interpretano in modo diverso gli stessi agenti stressanti. Alcuni studenti, per esempio, vedono in un esame impegnativo un’opportunità per dimostrare le loro capacità, mentre altri lo considerano una minaccia all’obiettivo di ottenere un buon voto. Dalla figura 17-6 vediamo come le persone facciano due tipi di valutazione sull’impatto potenziale degli agenti stressanti sulla propria vita: una valutazione primaria e una secondaria.42 La valutazione primaria ha esito in una categorizzazione della situazione o dell’agente stressante come irrilevante, positivo o stressante. Nei termini della nostra analisi, la valutazione più importante è quest’ultima, perché implica che la situazione o l’agente stressante possono essere percepiti come pericolosi, minacciosi o difficili da affrontare. La valutazione secondaria ha luogo solo ed esclusivamente in reazione a una valutazione primaria con esito “stressante”, e implica una valutazione su cosa si possa fare per ridurre il livello di stress percepito. Nel fare questa valutazione, la persona prende in esame le strategie da adottare, decidendo quali permettano con più probabilità una risoluzione della situazione. Infine, la combinazione tra la valutazione primaria e quella secondaria influenza la scelta della strategia da utilizzare per ridurre lo stress. Strategie Le strategie per affrontare lo stress sono caratterizzate da comportamenti e cognizioni specifiche utilizzate per gestire una situazione. Per gestire agenti stressanti e stress le persone utilizzano una combinazione di tre approcci (figura 17-6). Il primo approccio è detto strategia del controllo, e consiste nell’utilizzo di comportamenti e cognizioni che anticipano o risolvono direttamente i problemi. La strategia del controllo tende a gestire la situazione. Consiste per esempio nel parlare con il docente oppure con il capo se ci si sente sovraccaricati di lavoro e responsabilità, oppure affrontare un collega che sta diffondendo voci negative sul proprio conto. I risultati di una meta-analisi di 34 studi hanno evidenziato che la strategia del controllo è correlata positivamente a un buono stato di salute.43 Le persone tendono a ricorrere alla strategia del controllo quando sono dotate di autostima, auto-efficacia e capacità di problem-solving.44 I ricercatori hanno individuato una strategia orientata al controllo utilizzabile da tutti, cioè il distacco psicologico, definito come il mancato coinvolgimento in attività, pensieri e sentimenti legati all’attività lavorativa durante il proprio tempo libero;45 tali attività potrebbero consistere nell’effettuare telefonate, rispondere alle email, pensare a progetti e iniziative da portare a termine, oppure semplicemente pensare ai colleghi e renderli argomento di conversazione. Il distacco psicologico è associato positivamente alla soddisfazione della vita personale e al benessere psicologico e negativamente all’esaurimento emotivo e a problemi psicosomatici.46 Pur sapendo che è più facile a dirsi che a farsi, vi consigliamo di cercare di prendere le distanze dalle responsabilità lavorative nel tempo libero, riservandovi una parte della giornata durante la quale non effettuate attività lavorative e non pensate al lavoro. La strategia della fuga prevede di evitare il problema anziché affrontarlo di petto. Gli individui utilizzano questa strategia quando accettano in modo passivo le situazioni oppure le evitano perché incapaci di confrontarsi con la causa dello stress (un collega insopportabile, ad esempio). La strategia di gestione dei sintomi, infine, consiste nell’utilizzare metodi come il rilassamento, la meditazione, l’uso di farmaci o l’esercizio fisico per gestire i sintomi dello stress da lavoro. Una vacanza potrebbe essere un ottimo modo per ridurre i sintomi dello stress. Alcune persone cercano di ridurre lo

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stress bevendo alcolici o assumendo stupefacenti; uno degli autori di questo libro ama coccolare il suo cane, mentre l’altro si rilassa accarezzando il gatto. Conseguenze dello stress I teorici sostengono che lo stress comporta conseguenze ed esiti a livello psico-attitudinale, comportamentale, cognitivo e fisico. Numerose ricerche provano gli effetti negativi che lo stress percepito comporta su molti aspetti delle nostre vite. Lo stress sul posto di lavoro è negativamente correlato con la soddisfazione lavorativa, il commitment organizzativo, il comportamento di cittadinanza d’impresa, le emozioni positive e la performance, mentre è positivamente correlato con l’esaurimento emotivo, l’assenteismo e il turnover.47 La ricerca, inoltre, dimostra che lo stress è associato a comportamenti negativi come urlare, insultare o essere violenti con gli altri, al consumo smodato di alcolici e all’assunzione di stupefacenti.48 Le conseguenze dello stress costano care sia agli individui sia alle organizzazioni. Infine, è ampiamente confermato dai fatti che lo stress influenza negativamente la nostra salute fisica. Esso, infatti, ha un ruolo nelle seguenti patologie: diminuzione della capacità di combattere malattie e infezioni, elevata pressione arteriosa, malattie delle coronarie, mal di testa muscolo-tensivo, mal di schiena, diarrea, stipsi.49 In effetti, anche solo pensare a tutti questi problemi è stressante!

Moderatori dello stress occupazionale I moderatori, lo ripetiamo, sono variabili che indeboliscono o rinforzano la relazione tra agenti stressanti, stress percepiti e conseguenze. Se un manager conosce i principali moderatori dello stress, può affrontare lo stress dei propri collaboratori in vari modi. 1. La consapevolezza dell’esistenza dei moderatori aiuta a identificare le persone più esposte a subire stress e conseguenze negative. In questo modo si possono formulare programmi di riduzione dello stress mirati ai collaboratori più a rischio. 2. I moderatori di per sé suggeriscono possibili soluzioni volte alla riduzione delle conseguenze negative legate allo stress lavorativo. Tenendo ben presenti questi obiettivi, andremo ora a esaminare tre importanti moderatori: sostegno sociale, hardiness e comportamento di Tipo A.

Sostegno sociale: quantità di supporto derivante da relazioni sociali

Sostegno sociale Nei periodi caratterizzati da paura, stress o solitudine, può essere di conforto una chiacchierata con un amico o una seduta di terapia di gruppo. Per molte ragioni, avere relazioni sociali significative aiuta le persone a gestire meglio lo stress. Si definisce sostegno sociale la quantità percepita di sostegno derivante dalle relazioni sociali. Esso è determinato da qualità e quantità delle relazioni dell’individuo. Dagli altri riceviamo quattro tipi di sostegno sociale. • Di stima. Comunicare che una persona è accettata e rispettata nonostante i suoi problemi o la sua inadeguatezza. • Conoscitivo. Aiutare a definire, capire e affrontare i problemi. • Sociale. Passare con gli altri del tempo dedicato ad attività ricreative.

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• Pratico. Dare aiuto economico, fornire risorse materiali o servizi.50 La ricerca mostra che esiste una correlazione negativa tra sostegno sociale, processi fisiologici e mortalità. In altre parole, le persone con scarso sostegno sociale tendono a essere caratterizzate da un funzionamento peggiore del sistema cardiovascolare e immunitario e a morire prima rispetto alle persone che hanno reti di sostegno sociale più forti. Inoltre, il sostegno sociale protegge la persona dalla percezione dello stress, dalla depressione, dai problemi psicologici, dalle complicazioni legate alla gravidanza, dall’ansia, dalla solitudine, dalla pressione alta e da numerosissimi altri disturbi. Un sostegno sociale negativo, invece, ad esempio il fatto che una persona sia minacciata o umiliata da un’altra, influenza negativamente la salute mentale.51 Dobbiamo quindi sforzarci di evitare le persone che provano a indebolirci. La ricerca sul sostegno sociale evidenzia due consigli pratici. Primo, i manager dovrebbero informare i propri collaboratori sui sistemi di sostegno sociale interni ed esterni all’azienda. Internamente, il manager può utilizzare i quattro tipi di sostegno sociale quando i collaboratori attraversano una crisi personale, per esempio affrontano un divorzio. Secondo, i programmi di management partecipativo e le attività sponsorizzate dall’azienda che danno ai collaboratori la percezione di essere parte importante di una famiglia allargata, possono costituire importanti risorse di sostegno sociale. I collaboratori hanno bisogno di tempo ed energia per mantenere le proprie relazioni sociali in modo adeguato. Se le richieste dell’azienda sono eccessive, le relazioni sociali del collaboratore e le reti di sostegno sociale ne soffriranno, con ovvie conseguenze quali disturbi legati allo stress e diminuzione della performance.

Hardiness: caratteristica della personalità che neutralizza lo stress

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Hardiness Suzanne Kobasa, scienziato del comportamento, ha identificato un insieme di caratteristiche della personalità che neutralizzano lo stress lavorativo. Queste caratteristiche, che vengono definite hardiness (ardimento, capacità di resistenza), implicano la capacità di trasformare dal punto di vista percettivo o comportamentale gli agenti stressanti negativi in sfide positive. L’hardiness implica commitment, locus of control e sfida.52 Il commitment riflette la misura in cui l’individuo è coinvolto nel compito che sta svolgendo. Le persone impegnate hanno il senso dell’obiettivo e non mollano se sotto pressione, perché tendono a essere coinvolte dalla situazione. Come si è detto nel Capitolo 5, gli individui che hanno un locus of control interno pensano di poter influenzare le situazioni della propria vita. Chi è dotato di questa caratteristica avrà maggiori probabilità di prevedere gli eventi stressanti, riducendo così l’esposizione a situazioni ansiogene. Inoltre la sua sensazione di avere il controllo degli eventi lo porterà a utilizzare strategie di risposta proattive. La sfida è la convinzione che il cambiamento sia una normale componente della vita, per cui viene visto come un’opportunità di crescita e sviluppo e non come una minaccia alla propria sicurezza. Le ricerche dimostrano l’effetto moderatore dell’hardiness sul processo dello stress,53 risultati che hanno portato all’elaborazione di programmi di formazione e sviluppo organizzativo che rinforzano le caratteristiche di commitment, controllo personale e sfida. Per esempio, un team di ricercatori ha messo a punto un programma di formazione alla hardiness e lo ha testato su un gruppo composto da studenti e lavoratori. Secondo i risultati, dopo la formazione gli studenti evidenziavano una media, una capacità di memorizzazione e uno stato di salute migliori, mentre i lavoratori mostravano performance migliorate, maggiore soddisfazione lavorative e un buono stato di salute generale.54 Il

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concetto di hardiness va d’accordo anche con la progettazione delle mansioni: un lavoro vario molto probabilmente alimenta le due componenti del commitment e della sfida. Un’ultima applicazione del concetto di hardiness può essere l’utilizzo di uno strumento diagnostico: i collaboratori che ottengono punteggi bassi di hardiness in questo tipo di test emergerebbero come i candidati ideali di un eventuale programma di riduzione del disagio derivante dallo stress. Comportamento di Tipo A Secondo Meyer Friedman e Ray Rosenman (i cardiologi che isolarono la sindrome di Tipo A nel 1950), Comportamento di Tipo A: coinvolgimento determinato nella battaglia cronica ed energica per ottenere di più in minor tempo

il comportamento di Tipo A è una complessa azione-emozione osservabile in qualsiasi individuo coinvolto in modo prepotente nello sforzo cronico e incessante di ottenere sempre di più in sempre minor tempo, e, se necessario, anche opponendosi agli sforzi opposti di altre cose o persone. Non è una psicosi o un insieme di preoccupazioni, paure, fobie o ossessioni, bensì una forma di conflitto socialmente accettabile – anzi spesso persino lodata. Le persone che dimostrano questo tipo di comportamento sono spesso anche portate a esibire una straordinaria e razionale ostilità. Come prevedibile, si tratta di un comportamento che può presentarsi a vari livelli di intensità.55

Friedman e Rosenman hanno etichettato il comportamento di Tipo A come “malattia della fretta”, notando che gli individui che lo mostrano tendono in generale ad assumere la maggior parte dei comportamenti elencati nella tabella 17-3. Potendo comparire a più livelli, il comportamento di Tipo A viene misurato su un continuum: a un estremo c’è il Tipo A, sempre di fretta e competitivo; all’altro estremo il Tipo B, più rilassato. Andiamo ora a vedere i pro e i contro dell’appartenenza al Tipo A. La ricerca sul comportamento organizzativo ha dimostrato che i collaboratori che Tabella 17-3 Caratteristiche del Tipo A 1. Linguaggio rapido, accentuazione esplosiva delle parole chiave 2. Tendenza a camminare, a muoversi e a mangiare velocemente 3. Impazienza costante di fronte alla lentezza con cui la maggior parte degli eventi si svolge (ad esempio, irritazione di fronte al traffico rallentato e alle persone che parlano e si muovono lentamente) 4. Tendenza accentuata a pensare o fare due o più cose contemporaneamente (ad esempio leggere questa pagina facendo qualcos’altro) 5. Tendenza a portare le conversazioni su temi o soggetti personalmente ritenuti importanti 6. Tendenza a interrompere chi sta parlando per dare la propria opinione o completarne le frasi con parole proprie 7. Sensi di colpa nei momenti di relax o nel tempo libero 8. Tendenza a dimenticare ciò che lo circonda durante le attività quotidiane 9. Grande preoccupazione per l’avere piuttosto che per l’essere 10. Tendenza a programmare sempre più cose in meno tempo; un senso cronico di urgenza temporale 11. Sentimenti di competizione più che di compassione di fronte a un altro Tipo A 12. Acquisizione di tic nervosi o di gesti tipici 13. Una ferma convinzione che il successo dipenda dall’abilità di fare le cose più velocemente degli altri 14. Tendenza a valutare le attività personali e quelle delle altre persone in termini di “numeri” (ad esempio, il numero di riunioni, le telefonate fatte, i clienti ricevuti)

Fonte:adattamento da M. Friedman e R.H. Rosenman, Type A Behavior and Your Heart (Greenwich, CT: Fawcett Publications, 1974), pp. 100-2.

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rientrano in questa definizione tendono a essere più produttivi rispetto ai colleghi di Tipo B. Ad esempio, è emersa una correlazione positiva e significativa tra il comportamento di Tipo A e il punteggio finale di 766 studenti, la performance qualitativa e quantitativa di 278 docenti universitari e le vendite di 222 assicuratori.56 D’altro canto, però, il comportamento di Tipo A è associato anche ad alcune conseguenze negative: una meta-analisi di 729 studi ha evidenziato che le persone di Tipo A presentano un’attività cardiovascolare più intensa (frequenza cardiaca, pressione diastolica e sistolica più elevate) rispetto alle persone di Tipo B. Tale iperattività è a sua volta associata a malattie cardiache e mortalità.57 Le persone di Tipo A hanno inoltre dimostrato una maggiore attività cardiovascolare nelle seguenti situazioni: 1. ricezione di feedback positivo o negativo; 2. ricezione di rimprovero verbale o critica; 3. esecuzione di compiti che richiedono lavoro mentale anziché fisico.58 Sfortunatamente per gli individui di Tipo A, queste situazioni sul lavoro si verificano spesso. Un’altra meta-analisi condotta su 83 studi ha dimostrato che le caratteristiche più dure e competitive delle persone di Tipo A sono correlate a malattie di cuore, mentre la fretta, l’impazienza e il coinvolgimento nel lavoro non lo sono. Questo studio ha rivelato inoltre che sentimenti come la rabbia, l’ostilità e l’aggressività hanno una correlazione maggiore a malattie di cuore che a comportamenti di Tipo A.59 Risultati come questi sono forse il segnale che gli individui di Tipo A dovrebbero smetterla di lavorare così tanto? Non necessariamente. Innanzitutto, la ricerca ha dato mostra del fatto che sentimenti come la rabbia, l’ostilità e l’aggressività comportano danni maggiori alla salute rispetto alla semplice appartenenza al Tipo A. Tutti dovrebbero quindi cercare di ridurre queste emozioni negative. In secondo luogo, i ricercatori hanno elaborato delle tecniche di riduzione dello stress mirate ad aiutare le persone di Tipo A ad acquisire ritmi più realistici e a ottenere un equilibrio migliore nelle loro vite; le analizzeremo nella prossima sezione. Il management può, in ogni caso, aiutare le persone di Tipo A, evitando di sovraccaricarle di lavoro nonostante sembrino sempre disposte ad accettarne un maggiore carico. I manager dovrebbero, insomma, aiutare attivamente gli individui di Tipo A, anziché sfruttarli.

Tecniche per ridurre lo stress Lo stress determina un costo elevato per gli individui, i gruppi e le organizzazioni nel loro insieme. Non sorprende quindi che le organizzazioni mettano a punto e attuino una molteplicità di programmi mirati ad aiutare i collaboratori a gestire lo stress.60 Le tecniche a disposizione per ridurre lo stress sono molte e diverse tra loro. I quattro approcci applicati più di frequente sono il rilassamento muscolare, il biofeedback, la meditazione e la ristrutturazione cognitiva. Ognuna di queste tecniche implica modi diversi di affrontare il problema (vedi tabella 17-4). Nonostante la ricerca confermi gli effetti positivi di tutte queste tecniche, una meta-analisi condotta su 55 interventi per la gestione dello stress ha dimostrato che la più efficace è la ristrutturazione cognitiva.61 Il professor Martin Seligman, noto come il padre della psicologia positiva, ha sviluppato un processo di ristrutturazione cognitiva in cinque fasi mirato a indurre le persone a

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Gestione del cambiamento e dello stress

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Tabella 19-4 Tecniche di riduzione dello stress Tecnica Rilassamento muscolare Biofeedback

Descrizione

Valutazione

Utilizza la respirazione lenta e profonda e una riduzione sistematica della tensione muscolare Viene utilizzata una macchina per insegnare alle persone a localizzare la tensione muscolare; quindi viene utilizzato il rilassamento muscolare per alleviare i sintomi dello stress Meditazione Il rilassamento viene attivato allontanando i pensieri dal sé; viene utilizzata una procedura a quattro fasi per ottenere uno stato mentale libero da stress e passivo Ristrutturazione I pensieri irrazionali o inadeguati vengono cognitiva identificati e sostituiti con pensieri razionali o logici Benessere Approccio vasto e interdisciplinare, che va oltre olistico la riduzione dello stress affermando che le persone desiderano un benessere personale che comprenda ogni aspetto della propria vita

Non costa nulla ed è facile da usare; può richiedere all’inizio la guida di un professionista Costoso a causa del macchinario utilizzato; quest’ultimo, comunque, può essere impiegato anche per valutare l’efficacia degli altri programmi usati per ridurre lo stress Meno costosa, semplice da utilizzare e praticabile ovunque

Costosa perché richiede l’intervento di uno psicologo o di un consulente Implica cambiamenti dello stile di vita privi di costi ma spesso difficili dal punto di vista comportamentale

liberarsi dal pessimismo rispetto a una circostanza o un problema. Il metodo è denominato ABCDE ed è illustrato di seguito.62 • Individuare la circostanza avversa o il problema. (Per esempio, il mio coinquilino intende trasferirsi e non posso pagare l’affitto per intero.). • Elencare le proprie convinzioni rispetto a tale circostanza o problema. (Non ho un amico cui proporre di condividere la casa con me e probabilmente dovrò lasciare anch’io l’appartamento. Potrei essere costretto a tornare a casa e ad abbandonare gli studi. I miei genitori non possono aiutarmi economicamente. Potrei trasferirmi in un monolocale con un affitto più basso in un quartiere più periferico della città.) • Identificare le conseguenze delle proprie convinzioni. (Durante il semestre primaverile starò a casa dei miei genitori e tornerò per il semestre autunnale.) • Mettere in discussione le proprie convinzioni. È importante ricordare che i pensieri negativi spesso sono una reazione esagerata, per cui il primo passo consiste nel ridimensionare le impressioni errate o distorte. (Non ho esaminato con attenzione le spese, è probabile che io possa permettermi di pagare l’affitto. Se così non fosse, potrei cercare un lavoro part-time. Posso cercare un nuovo coinquilino mettendo un annuncio nella bacheca dell’università. Non devo necessariamente accogliere in casa una persona che non mi piace, ma nella peggiore delle ipotesi dovrò sostenere questo costo aggiuntivo solo per un semestre.) • Descrivere la carica e la sensazione di empowerment che si provano. (Sono deciso a trovare un nuovo coinquilino e un lavoro part-time. Sono sempre riuscito a cavarmela e non vedo perché non posso superare anche questo problema.) Secondo le ricerche di Seligman, questa tecnica evidenzia buoni risultati nel tempo: è fondamentale seguirla senza aspettarsi risultati immediati. Provate ad applicarla la

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Parte IV

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prossima volta che dovrete affrontare una circostanza o un problema che vi causano stress. Alcuni ricercatori consigliano alle aziende di non applicare questo tipo di programmi di riduzione dello stress, anche se i risultati sono positivi. Secondo il loro ragionamento, queste tecniche alleviano i sintomi dello stress anziché eliminare gli agenti stressanti.63 Quindi, concludono, applicandole le organizzazioni utilizzerebbero una specie di “cerotto” contro lo stress. Questa raccomandazione ha portato alla messa a punto di approcci più ampi mirati a ridurre lo stress: i programmi di assistenza ai dipendenti e la scelta di un approccio del benessere olistico. Programmi di assistenza ai dipendenti I programmi di assistenza ai dipendenti consistono in un ampio ventaglio di iniziative mirate ad aiutare i collaboratori ad affrontare difficoltà come l’uso di stupefacenti, i problemi di salute, i problemi familiari e di coppia o difficoltà di altra natura che potrebbero incidere negativamente sulle prestazioni lavorative. Generalmente i programmi di assistenza ai dipendenti vengono offerti dalle aziende in collaborazione con i sindacati e i dipendenti se ne avvalgono nell’ambito del pacchetto di benefit loro destinato. In alternativa, tali programmi consistono nella semplice distribuzione di numeri utili che i collaboratori possono contattare in caso di bisogno, pagando di tasca propria. Approccio del benessere olistico L’approccio del benessere olistico implica e va oltre la riduzione dello stress, rifacendosi al fatto che l’individuo lotta per “ottenere un equilibrio armonioso e produttivo tra il benessere fisico, mentale e sociale, legato all’accettazione della responsabilità personale nello sviluppo e nell’adesione a un programma di tutela della salute”.64 Ecco cinque dimensioni dell’approccio del benessere olistico: 1. Responsabilità. Prendetevi la responsabilità del vostro benessere (intraprendendo azioni tipo smettere di fumare, moderare l’assunzione di alcool, allacciare le cinture di sicurezza in auto e regolare l’alimentazione). Secondo le stime degli esperti, dal 50 al 70% di tutte le malattie sono causate da scelte di stile di vita che possiamo controllare.65 2. Consapevolezza nutrizionale. Siamo ciò che mangiamo; provate allora ad aumentare il consumo di cibi nutrienti e ricchi di fibre e vitamine (come frutta e verdura fresca, carne bianca e pesce) e diminuire le quantità di cibi ricchi di zuccheri e grassi. 3. Riduzione dello stress e rilassamento. Fate uso di tecniche di rilassamento per ridurre i sintomi dello stress. 4. Benessere fisico. Fate ginnastica con regolarità per mantenere la forza, la flessibilità, la resistenza e un peso adeguato. Un’analisi condotta sui programmi sportivi rivolti ai collaboratori ha evidenziato che si tratta di un modo efficace per ridurre le spese mediche e i livelli di assenteismo, turnover e incidenti sul lavoro. 5. Sensibilità ambientale. Siate consapevoli dell’ambiente in cui vivete e cercate di identificare gli agenti che vi causano stress. Per eliminare gli agenti stressanti è utile adottare una strategia di controllo.

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Note al volume

Capitolo 1 1. Estratto da T. Hsieh, Delivering Happiness: A Path to Profits, Passion, and Purpose (New York: Business Plus, 2010), pp. 157-158. 2. Dati tratti da M. Moskowitz, R. Levering e C. Tkaczyc, “100 Best Companies to Work For,” Fortune, Febraury 7, 2011, p. 93. Vedi anche D. Brady, “Hard Choices: Tony Hsieh,” Bloomberg Businessweek, May31-June 6, 2010, p. 88, e http://about.zappos.com/. 3. Basato su J. Pfeffer, The Human Equation: Building Profits by Putting People First (Boston: Harvard Business School Press, 1998); J. Pfeffer e J.F. Veiga, “Putting People First for Organizational Success,” Academy of Management Executive, May 1999, p. 37-48. 4. Dati da Pfeffer e Veiga, “Putting People First for Organizational Success,” p. 47. Vedi anche C.A. O’Reilly e Pfeffer, Hidden Value: How Great Companies Achieve Extraordinary Results with Ordinary People (Boston: Harvard Business School Press, 2000); J. Combs, Y. Liu, A. Hall e D. Ketchen, “How Much Do High-Performance Work Practices Matter? A Meta-Analysis of their Effects on Organizational Peformance,” Personnel Psychology, Autumn 2006, pp. 501-28; e K.W. Mossholder, H.A. Richardson e R.P. Settoon, “Human Resource Systems and Helping in Organizations: A Relational Perspective,” Academy of Management Review, January 2011, pp. 33-52. 5. J. Pfeffer, “Building Sustainable Organizations: The Human Factor,” Academy of Management Perspectives, Febraury 2010, p. 36. Vedi anche C. Chuang e H. Liao, “Strategic Human Resource Management in Service Context: Taking Care of Business by Taking Care of Employees and Customers,” Personnel Psychology, Spring 2010, pp. 153-96. 6. “Layoffs Pack Punch to ‘Surviving’ Employees,” HR Magazine, Febraury 2009, p. 18. 7. Vedi D.A. Kaplan, “#1 SAS: The Best Compny to Work For,” Fortune, Febraury 8, 2010, pp. 56-64; e L. Buchanan, “A Little Enlightened Self-Interes,” Inc., June 2010, pp. 56-60. 8. C I Barnard, The Functions of the Executive (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1938), p. 73. 9. F. Zakaria, “The Education of Paul Wolfowitz,” Newsweek, March 28, 2005, p. 37. 10. Vedi per esempio M.V. Copeland, “Intel’s Cultural Anthropologist,” Fortune, September 27, 2010, pp. 25-26. 11. Dati da J.B. Miner, “The Rated Importance, Scientific Validity, and Practical Usefulness of Organizational Behavior Theories: A Quantitative Review,” Academy of Management Learning and Education, September 2003, pp. 250-68. Vedi anche W.F. Cascio e H. Aguinis, “Research in Indus-

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trial and Organizational Psychology from 1963 to 2007: Changes, Choices, and Trends,” Journal of Applied Psychology, September 2008, pp. 1062-81. 12. E.E. Lawler III, Treat People Right! How Organizations and Individual Can Propel Each Other into a Virtuous Spiral of Success (San Francisco: Jossey-Bass, 2003), p. 19. 13. Estratto da J. Welch e S. Welch, “Growing Up but Staying Young,” BusinessWeek, December 11, 2006, p. 112. 14. B.S. Lawrence, “Historical Perspective: Using the Past to Study the Present,” Academy of Management Review, April 1984, p. 307. 15.Vedi L.T. Benjamin Jr, “Hugo Munsterberg’s Attack on the Application of Scientific Psychology,” Journal of Applied Psychology, March 2006, pp. 414-25. 16. Evidenze che indicano che le conclusioni originali del famoso effetto Hawtorne sono ingiustificate si possono trovare in R.G. Greenwood, A.A. Bolton e R.A. Greenwood, “Hawthorne a Half Century Later: Relay Assembly Participants Remember,” Journal of Management, Fall-Winter 1983, pp. 217-31; e R.H. Franke e J.D. Kaul, “The Hawthorne Experiments: First Statistical Interpretation,” American Sociological Review, October 1978, pp. 623-43. Per un’interpretazione positiva degli studi di Hawthorne vedi J.A Sonnenfeld, “Shedding Light on the Hawthorne Studies,” Journal of Occupational Behaviour, April 1985, pp. 111-30. 17. Vedi M. Parker Follett, Freedom and Coordination (London: Management Publications Trust, 1949) 18. Vedi D. McGregor, The Human Side of Enterprise (New York: McGrawHill, 1960). 19. A Fox, “Raising Engagement,” HR Magazine, May 2010, p. 35-36; vedi anche B.L. Rich, J.A. LePine eE.R. Crawford, “Job Engagement: Antecedents and Effects on Job Performance,” Academy of Management Journal, June 2010, pp. 617-35. 20. Vedi D.W. Organ, “Elusive Phenomena,” Business Horizons, MarchApril 2002, pp. 1-2. 21. Vedi per esempio R. Zemke, “TQM: Fatally Flawed or Simply Unfocused?” Training, October 1992, p. 8. 22. R.O. Crockett, “Six Sigma Pays Offat Motorola,” BusinessWeek, December 4, 2006, p. 50. Vedi anche T. Minton-Eversole, “Lean Overtakes Six Sigma,” HR Magazine, April 2010, p. 14. 23. M. Sashkin e K.J. Kiser, Putting Total Quality Management to Work (San Francisco: Berrett-Koehler, 1993), p. 39. 24. R.J. Schonberger, “Total Quality Management Cuts a Broad Swath – Through Manufacturing and Beyond,” Organizational Dynamics, Spring

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430 1992, p. 18. Vedi anche B Gray, “Fine Tuning Market Oriented Practices,” Business Horizons, July-August 2010, pp. 371-83. 25. Basato su C. Hui, S.S.K. Lam e J. Schaubroeck, “Can Good Citizens Lead the Way in Providing Quality Service? A Field Quasi Experiment,” Academy of Management Journal, October 2001, pp. 988-95. 26. Il lavoro di Deming è in W.E. Deming, Out of the Crisis (Cambridge, MA: MIT, 1986). Vedi anche S Miller, “Pioneer of Quality Control Kept Searching for ‘A Better Way’ to Make and Manage,” The Wall Street Journal, March 8, 2008, p. A7. 27. Vedi M. Trumbull, “What Is Total Quality Management?” The Christian Science Monitor, May 3, 1993, p. 12; e J. Hillkirk, “World-Famous Quality Expert Dead at 93,” USA Today, December 21, 1993, pp. 1B-2B; e O. Port, “The Kings of Quality,” BusinessWeek, August 30, 2004, p. 20. 28. Basato sulla discussione in M. Walton, Deming Management at Work (New York: Putnam/Perigee, 1990). 29. Ibid., p. 20. 30. Adattato da D.E. Bowen e E.E. Lawler III “Total Quality-Oriented Human Resources Management,” Organizational Dynamics, Spring 1992, pp. 29-41. 31. Per dettagli vedi T.J. Douglas e W.Q. Judge, Jr, “Total Quality Management Implementation and Competitive Advantage: The Role of Structural Control and Exploration,” Academy of Management Journal, February 2001, pp. 158-69; e K.B. Hendricks e V.R. Singhal, “The Long-Run Stock Price Performance of Firms with Effective TQM Programs,” Management Science, March 2001, pp. 359-68. 32. Dati tratti da www.internetworldstats.com/stats.htm (accessed January 24, 2011). 33. Vedi G.T. Lumpkin e G.G. Dess, “E-Business Strategies and Internet Business Models: How the Internet Adds Value,” Organizational Dynamics, n. 2, 2004, pp. 161-73. 34. M.J. Mandel e R.D. Hof, “Rethinking the Internet,” Business Week, March 26, 2001, p. 118. 35. Vedi D Kirkpatrick, The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World (New York: Simon & Schuster, 2010); e B. Stone, “Sell Your Friends,” Bloomberg Businessweek, September 27-October 3, 2010, pp. 64-72. 36. Vedi “It’s Not Sci-Fi, It’s (Augmented) Reality,” Fortune, March 22, 2010, p. 27; K. Bell “Will the Internet Destroy Us?” Harvard Business Review, December 2010, pp. 138-139; P. Burrows, “Will Video Kill The Internet, Too?” Bloomberg Businessweek, December 6-12, 2010, pp. 43-44; F Gillette, “Innovator: Evan Ratliff,” Bloomberg Businessweek, January 24-30, 2011, p. 39. 37. D. Tapscott, Grown Up Digital: How the Net Generation Is Changing the World New York: McGraw-Hill, 2009), p. 96 (in italiano, Net Generation. Come la generazione digitale sta cambiando il mondo, trad. di Elisa Tomassucci, Franco Angeli, Milan. Vedi anche l’intervista a Tapscott in A.D. Wright, “Millennials: ‘Bathed in Bits,’” HR Magazine, July 2010, pp. 40-41. 38. Vedi H. Dolezalek, “Virtual Leaders,” Training, May 2009, pp. 40-42; e Y. Lee, “Tele-Terminating, Terminating Employees Abroad, Recruiting Diversity,” HR Magazine, June 2010, p. 31. 39. Per approfondimenti su queste tendenze, vedi J. Dychtwald, T.J. Erickson e R. Morison, Workforce Crisis: How to Beat the Coming Shortage of Skills and Talent (Boston: Harvard Business School Press, 2006); D.A. Kaplan, “The STEM Challenge,” Fortune, June 14, 2010, p. 25; e J.C. Meister e K. Willyerd, The 2020 Workplace: How Innovative Companies Attract, Develop, and Keep Tomorrow’s Employees Today (New York: Harper Business, 2010). 40. B.E. Becker, M.A. Huselid, e D. Ulrich, The HR Scorecard: Linking People, Strategy, and Performance (Boston: Harvard Business School Press, 2001), p. 4. Vedi anche M. Weinstein, “How’s Your Human Capital ROI?” Training, February 2010, p. 12; T.H. Davenport, J. Harris e J. Shapiro, “Competing on Talent Analytics,” Harvard Business Review, October 2010, pp. 52-58; e R.E. Ployhart e T.P. Moliterno, “Emergence of the Human

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Note al volume Capital Resource: A Multilevel Model,” Academy of Management Review, January 2011, pp. 127-150. 41. Tratto da “Poll Identifies Top Challenges for HR During Next 10 Years,” HR Magazine, November 2010, p. 80. Vedi anche “Research: 2010’s Top Research Findings,” HR Magazine, January 2011, p. 9. 42. Vedi www.intel.com/education/index.htm?iid=intel_edu+body_initiative. 43. Vedi “North Carolina Girl Wins Intel Prize,” USA Today, March 3, 2008, p. 7; D.J. Der Bedrosian, “Intel Science Talent Search Crowns 10 Promising Young Scientists,” USA Today, March 12, 2009, p. 7D; e “Why Do We Support Science Competitions? Because We All Win,” sezione pubblicitaria, Harvard Business Review, May 2010, pp. 113-115. 44. Ispirato da P.S. Adler e S. Kwon, “Social Capital: Prospects for a New Concept,” Academy of Management Review, January 2002, pp. 17-40. Vedi anche S. Hamm, “The Globe is IBM’s Classroom,” BusinessWeek, March 23-30, 2009, pp. 56-57; A Fox, “Pave the Way for Volunteers,” HR Magazine, June 2010, pp. 70-74; e C. Garton, “Companies Give in Kind, If Not in Cash,” USA Today, August 9, 2010, pp. 1B-2B. 45. Prusak e D. Cohen, “How to Invest in Social Capital,” Harvard Business Review, June 2001, p. 93. Vedi anche B.L. Fredrickson, M.A. Cohn, K.A. Coffey, J. Pek e S.M. Finkel, “Open Hearts Build Lives: Positive Emotions, Induced through Loving-Kindness Meditation, Build Consequential Personal Resources,” Journal of Personality and Social Psychology, November 2008, pp. 1045-62. 46. Dati da “What Makes a Job OK,” USA Today, May 15, 2000, p. 1B. 47. Basato su E.D. Heaphy e J.E. Dutton, “Positive Social Interactions and the Human Body at Work: Linking Organizations and Physiology,” Academy of Management Review, January 2008, pp. 137-62. 48. J. Covert e T. Sattersten, “Learning from Heroes,” Harvard Business Review, March 2009. Vedi anche M.T. Hansen, “The Future Manager Is T-Shaped,” HR Magazine, January 2010, p. 60; R Barker, “No, Management Is Not a Profession,” Harvard Business Review, July-August 2010, pp. 52-60; e F.R. David, M.E. David e F.R. David, “What Are Business Schools Doing for Business Today?” Business Horizons, January-February 2011, pp. 51-62. 49. Vedi per esempio H. Mintzberg, “Managerial Work: Analysis from Observation,” Management Science, October 1971, pp. B97-B110. Vedi anche N. Fondas, “A Behavioral Job Description for Managers,” Organizational Dynamics, Summer 1992, pp. 47-58. 50. Vedi L.B. Kurke e H.E. Aldrich, “Mintzberg Was Right!: A Replication and Extension of The Nature of Managerial Work,” Management Science, August 1983, pp. 975-84. 51. Studi a supporto in E. Van Velsor e J.B. Leslie, Feedback to Managers, Volume II: A Review and Comparison of Sixteen Multi-Rater Feedback Instruments (Greensboro, NC: Center for Creative Leadership, 1991); e F. Shipper, “A Study of the Psychometric Properties of the Managerial Skill Scales of the Survey of Management Practices,” Educational and Psychological Measurement, June 1995, pp. 468-79; e C.L. Wilson, How and Why Effective Managers Balance Their Skills: Technical, Teambuilding, Drive (Columbia, MD: Rockatech Multimedia Publishing, 2003). 52. Vedi F. Shipper, “Mastery and Frequency of Managerial Behaviors Relative to Sub-Unit Effectiveness,” Human Relations, April 1991, pp. 371-88. 53. Ibid. 54. Dati da F. Shipper, “A Study of Managerial Skills of Women and Men and Their Impact on Employees’ Attitudes and Career Success in a Nontraditional Organization,” paper presentato all’Academy of Management Meeting, August 1994, Dallas, Texas. Lo stesso risultato è riportato in A.H. Eagly e B.T. Johnson, “Gender and Leadership Style: A Meta-Analysis,” Psychological Bulletin, September 1990, pp. 233-56. 55. Per esempio vedi J.B. Rosener, “Ways Women Lead,” Harvard Business Review, November-December 1990, pp. 119-25; e C. Lee, “The Feminization of Management,” Training, November 1994, pp. 25-31.

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Note al volume 56. Un risultato simile è riportato in J. Kornik, “Bosses Say They’re Great: Employees Not So Sure,” Training, October 2006, p. 20. 57. Basato su F. Shipper e J.E. Dillard Jr, “A Study of Impending Derailment and Recovery of Middle Managers across Career Stages,” Human Resource Management, Winter 2000, pp. 331-45. Vedi anche R.I. Sutton, Good Boss, Bad Boss: How to Be the Best…and Learn from the Worst (New York: Business Plus, 2010); J.K. Summers, T.P. Munyon, A.A. Perryman e G.R. Ferris, “Dysfunctional Executive Behavior: What can Organizations Do?” Business Horizons, November-December 2010, pp. 581-90; L.A. Hill e K. Lineback, “Are You a Good Boss or a Great One?” Harvard Business Review, January-February 2011, pp. 124-131. 58. Vedi S. Overman, “HR Trendbook 2011: Workforce Trends,” HR Magazine, December 2010, p. 75. 59. Vedi G.M. Parker, Team Players and Teamwork: New Strategies for Developing Successful Collaboration, 2nd ed (San Francisco: Jossey-Bass, 2008); e A.M.L. Raes, M.G. Heijltjes, U. Glunk e R.A. Roe, “The Interface of the Top Management Team and Middle Managers: A Process Model,” Academy of Management Review, January 2011, pp. 102-26. 60. G. Hamel, “Moon Shots for Management,” Harvard Business Review, February 2009, p. 92. Vedi anche G. Hamel con B. Breen, The Future of Management (Boston: Harvard Business School Press, 2007). 61. Citato in P. LaBarre, “The Industrial Revolution,” Fast Company, November 2003, pp. 116, 118. Vedi anche N. Bloom e J. Van Reenen, “Why Do Management Practices Differ across Firms and Countries?” Journal of Economic Perspectives, Winter 2010, pp. 203-224. 62. T.M. Jones, “Corporate Social Responsibility Revisited, Redefined,” California Management Review, Spring 1980, pp. 59-60.Vedi anche P. A Heslin e J D Ochoa, “Understanding and Developing Strategic Corporate Social Responsibility,” Organizational Dynamics, April-June 2008, pp. 125-44; A. Delios, “How Can Organizations Be Competitive but Dare to Care?” Academy of Management Perspectives, August 2010, pp. 25-36; e G.B. Sprinkle e L.A. Maines, “The Benefits and Costs of Corporate Social Responsibility,” Business Horizons, September-October 2010, pp. 445-453. 63. Vedi J. Pfeffer, “Shareholders First? Not So Fast,” Harvard Business Review, July 8, 2009, pp. 90-91; e R.M. Murphy, “Why Doing Good Is Good for Business,” Fortune, February 8, 2010, pp. 90-95. 64. Vedi per esempio J. Welch e S. Welch, “The Real Verdict on Business,” BusinessWeek, June 12, 2006, p. 100; e M.E. Porter e M.R. Kramer, “Creating Shared Value,” Harvard Business Review, January-February 2011, pp. 62-77. 65. A.B. Carroll, “Managing Ethically with Global Stakeholders: A Present and Future Challenge,” Academy of Management Executive, May 2004, p. 118. 66. Ibid., pp. 117-18. 67. E. Levenson, “Citizen Nike,” Fortune, November 24, 2008, p. 166. 68. Vedi capitolo 6 in K. Hodgson, A Rock and a Hard Place: How to Make Ethical Business Decisions When the Choices Are Tough (New York: AMACOM, 1992), pp. 66-77. 69. Vedi R.M. Fulmer, “The Challenge of Ethical Leadership,” Organizational Dynamics, August 2004, pp. 307-17; S. Ambec e P. Lanoie, “Does It Pay to Be Green? A Systematic Overview,” Academy of Management Perspectives, November 2008, pp. 45-62; J L Goolsby, D A Mack, e J Campbell Quick, “Winning by Staying in Bounds: Good Outcomes from Positive Ethics,” Organizational Dynamics, July-September 2010, pp. 24857; e D Meinert, “Strong Ethical Culture Helps Bottom Line,” HR Magazine, December 2010, p. 21. 70. I risultati si trovano in “Tarnished Employment Brands Affect Recruiting,” HR Magazine, November 2004, pp. 16, 20. 71. Adattato in parte da W.E. Stead, D.L. Worrell, e J. Garner Stead, “An Integrative Model for Understanding and Managing Ethical Behavior in Business Organizations,” Journal of Business Ethics, March 1990, pp. 233-42. Vedi anche D Lange, “A Multidimensional Conceptualization of Organizational Corruption Control,” Academy of Management Review, July

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431 2008, pp. 710-29; e J DesJardins, An Introduction to Business Ethics, 3rd ed (New York: McGraw-Hill, 2009). 72. Per un’eccellente panoramica sui controlli dell’integrità, vedi D.S. Ones e C. Viswesvaran, “Integrity Testing in Organizations,” in Dysfunctional Behavior in Organizations: Violent and Deviant Behavior, ed R.W. Griffin et al. (Stamford, CT: JAI Press, 1998), pp. 243-76. Vedi anche J. McGregor, “Background Checks That Never End,” BusinessWeek, March 20, 2006, p. 40. 73. Vedi K.M. Gilley, C.J. Robertson, e T.C. Mazur, “The Bottom-Line Benefi ts of Ethics Code Commitment,” Business Horizons, January-February 2010, pp. 31-37. 74. Le linee guida per la formazione sull’etica sono illustrate da K. Tyler, “Do the Right Thing,” HR Magazine, February 2005, pp. 99-101; e C. Kincaid, “The Right Stuff,” Training, March-April 2009, pp. 34-36. 75. Vedi G. Beenen e J. Pinto, “Resisting Organizational-Level Corruption: An Interview With Sherron Watkins,” Academy of Management Learning and Education, June 2009, pp. 275-89. Vedi anche P. Eisler, “Whistle-Blowers’ Rights Get Second Look,” USA Today, March 15, 2010, p. 6A; J. Biskupic, “Supreme Court Restricts Whistle-Blower Lawsuits,” USA Today, March 31, 2010, p. 7A; e J Westbrook, “Whistleblowers Get a Raise,” Bloomberg Businessweek, August 2-8, 2010, pp. 31-32. 76. Basato su S.J. Reynolds, “Moral Attentiveness: Who Pays Attention to Moral Aspects of Life?” Journal of Applied Psychology, September 2008, pp. 1027-41. 77. Citato in D. Jones, “Military a Model for Execs,” USA Today, June 9, 2004, p. 4B. Vedi anche B. George e P. Sims, True North: Discover Your Authentic Leadership (San Francisco: Jossey-Bass, 2007). 78. Una discussione completa su questa tecnica può essere trovata in J.E. Hunter, F.L. Schmidt, e G.B. Jackson, Meta-Analysis: Cumulating Research Findings across Studies (Beverly Hills, CA: Sage Publications, 1982); J.E. Hunter e F.L. Schmidt, Methods of Meta-Analysis: Correcting Error and Bias in Research Findings (Newbury Park, CA: Sage Publications, 1990); H. Le, I. Oh, J. Shaffer, e F. Schmidt, “Implications of Methodological Advances for the Practice of Personnel Selection: How Practitioners Benefit from MetaAnalysis,” Academy of Management Perspectives, August 2007, pp. 6-15; and I. Oh, F.L. Schmidt, J.A. Shaffer e H. Le, “The Graduate Management Admission Test (GMAT) Is Even More Valid Than We Thought: A New Development in Meta-Analysis and Its Implications for the Validity of the GMAT,” Academy of Management Learning and Education, December 2008, pp. 563-70. 79. I limiti delle tecniche di meta analisi sono discussi in P. Bobko e E.F. Stone-Romero, “Meta-Analysis May Be Another Useful Tool, but It Is Not a Panacea, in Research in Personnel and Human Resources Management, vol. 16, ed G R Ferris (Stamford, CT: JAI Press, 1998), pp. 359-97; e J. Carey, “When Medical Studies Collide,” BusinessWeek, August 6, 2007, p. 38.

Capitolo 2 1. H. Collingwood, “Who Handles a Diverse Work Force Best?” Working Women, February 1996, p. 25. 2. Vedi K. Gurchiek, “EEOC Addresses Religious Discrimination,” HR Magazine, September 2008, p. 21. 3. Vedi M. Moskowitz, R. Levering, e C. Tkaczyk, “100 Best Companies to Work For,” Fortune, February 8, 2010, pp. 75-88. 4. Per una rassegna di ricerche rilevanti vedi M.E. Heilman, “Affirmative Action: Some Unintended Consequences for Working Women,” in Research in Organizational Behavior, vol. 16, ed B.M. Staw e L.L. Cummings (Greenwich, CT: JAI Press, 1994), pp. 125-69. 5. Risultati di questi studi in M.E. Heilman, W.S. Battle, C.E. Keller, e R.A. Lee, “Type of Affirmative Action Policy: A Determinant of Reactions to Sex-Based Preferential Selection?” Journal of Applied Psychology, April 1998, pp. 190-205.

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432 6. Il processo è descritto in “About the Diversity Top 50 Companies for Diversity,” May 6, 2010, http://www.diversityinc.com/article/7570/. 7. A.M. Morrison, The New Leaders: Guidelines on Leadership Diversity in America (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 1992), p. 78. 8. Estratto da “N. 1 Johnson & Johnson.” tratto da http://www.diversityinc. com/article/5449/ Mo-1-Johnson-Johnson/ il 27 dicembre 2010 . 9. I risultati si trovano in A.A. Cannella Jr, J-H. Park, e H-U. Lee, “Top Management Team Functional Background Diversity and Firm Performance: Examining the Roles of Team Member Colocation and Environmental Uncertainty,” Academy of Management Journal, August 2008, pp. 768-84. 10. Conclusioni basate su A.H. Eagly e L.L. Carli, Through the Labyrinth (Boston: Harvard Business School Press, 2007); O’Neill, “Washington’s Equal Pay Obsession”; e S. Miller, “‘Motherhood Gap’ Explains Differences in Gender Wages,” HR Magazine, October 28, 2010, p. 19. 11. Dati statistici tratti da “Women CEOs of the Fortune 1000,” November 2010, http://www.catalyst.org/publication/322/ women-ceos-of-thefortune-1000. 12. Vedi M.J. Perry, “Carpe Diem,” February 2009, http://mjperryblogspot. com/2009/02/degree-gap-will-continue-to-widen.html; “Women in Management in the United States, 1950-Present,” April 2010, http://www.catalyst. org/publication/207/women-in-management-1950-present; “Women in the Board Room and in the President’s Offi ce: What Differences Does It Make?” Retrieved December 29, 2010, from http://www.agb.org/events/ annual-meeting/2011/2011-agb-national-conference-trustreeship/sessions/ women-board-room-and-pr; and L Jones, “8th Circuit Lags in Female Appointees,” May 31, 2010, http://www.law.com/jsp/nlj/ PubArticleNLJ.jsp?i d=1202458929880&slreturn=1&hbxlogin=1. 13. Eagly e Carli, pp. 26-27. 14. The American Heritage Dictionary (New York: Bantam Dell, 2004), p. 475. 15. Vedi T. DeAngelis, “Unmasking ‘Racial Micro Aggressions,’ ” Harvard Business Review, February 2009, pp. 42-46; e D.R. Avery, P.F. McKay, e D.C. Wilson, “What Are the Odds? How Demographic Similarity Affects the Prevalence of Perceived Employment Discrimination,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 235-49. 16. Vedi “U.S. Census Bureau, Current Population Survey, 2009 Annual Social and Economic Supplement,” April 2010, http://www.census.gov/ hhes/socdemo/education/data/cps/2009/tables.html; and Bureau of Labor Statistics, “Education Projections,” May 27, 2010, http://www.bls.gov.emp/ ep_chart-001.htm. 17. Vedi S. Miller, “Skills Critical for a Changing Workforce,” HR Magazine, August 2008, p. 24; N Anderson, “High-School Graduation Rates Up in U.S.,” The Arizona Republic, December 15, 2010, p. A21; e “Illiteracy – Major U.S. Problem,” January 20, 2009, http://www.enotalone.com/ article/19273.html. 18. The New Commission on the Skills of the American Workforce, Tough Choices or Tough Times (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 2007), pp. xvi, xvii. 19. H. Jones, “CEOs Now Find That Principles and Profits Can Mix Well,” The Wall Street Journal, November 22, 2010, p. R5. 20. Vedi A. Joshi, J.C. Dencker, G. Franz, e J.J. Martocchio, “Unpacking Generational Identities in Organizations,” Academy of Management Review, July 2010, pp. 392-414. 21. Per approfondimenti vedi T.W.H. Ng e D.C. Feldman, “The Relationship of Age to Ten Dimensions of Job Performance,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 392-423. 22. T.W.H. Ng e D.C. Feldman, “The Relationships of Age with Job Attitudes: A Meta-Analysis,” Personnel Psychology, Autumn 2010, pp. 677-718. 23. Vedi R. Rashid, “The Battle for Female Talent in Emerging Markets,” Harvard Business Review, May 2010, pp. 101-6. 24. Eagly e Carli, pp. 26-27.

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Note al volume 25. Vedi H. Ibarra, N.M. Carter, e C. Silva, “Why Men Still Get More Promotions Than Women,” Harvard Business Review, September 2010, pp. 80-85; and “Programs for Female Leaders Scarce,” HR Magazine, December 2010, p. 22. 26. A.H. Eagly e J.L. Chin, “Diversity and Leadership in a Changing World,” American Psychologist, April 2010, pp. 216-24; e J.V. Sanchez-Hucles e D.D. Davis, “Women and Women of Color in Leadership,” American Psychologist, April 2010, pp. 171-81. 27. D.A. Thomas, “The Truth about Mentoring Minorities: Race Matters,” Harvard Business Review, April 2001, p. 107. 28. Vedi B. Mirza, “Build Employee Skills, Help Nonprofits,” HR Magazine, October 2008, p. 30. 29. I dettagli di questo programma si trovano in C.H. Loch, F.J. Sting, N. Bauer, e H. Mauermann, “How BMW Is Defusing the Demographic Time Bomb,” Harvard Business Review, March 2010, pp. 99-102. 30. Raccomandazioni prese da G.M. McEvoy and M.J. Blahana, “Engagement or Disengagement? Older Workers and the Looming Labor Shortage,” Business Horizons, September-October 2001, p. 50. 31. R.R. Hastings, “Do Younger Employees Sabotage Boomers?” HR Magazine, October 2008, p. 33. 32. P. O’Connell, “What’s Eating Gen X,” BusinessWeek, September 1, 2008, p. 62. 33. Vedi la discussione correlata in L. Gratton, “The End of the Middle Manager,” Harvard Business Review, January-February 2011, p. 36; and A.D. Wright, “ ‘Millennials’ Bathed in Bits,” HR Magazine, July 2010, pp. 40-41. 34. Esempi illustrati in L. Gerdes, “The Best Places to Launch a Career,” BusinessWeek, September 15, 2008, pp. 37-46. 35. D. van Knippenberg, C.K.W. De Dreu, e A.C. Homan, “Work Group Diversity and Group Performance: An Integrative Model and Research Agenda,” Journal of Applied Psychology, December 2004, p. 1009. 36. Vedi ibid., pp. 1008-22; e S.E. Jackson e A. Joshi, “Diversity in Social Context: A Multi-Attribute, Multilevel Analysis of Team Diversity and Sales Performance,” Journal of Organizational Behavior, September 2004, pp. 675-702. 37. J L Berdahl e C Moore, “Workplace Harassment: Double Jeopardy for Minority Women,” Journal of Applied Psychology, March 2006, pp. 426-36. 38. Vedi Jackson e Joshi, pp. 675-702. 39. Risultati consultabili in K. Bezrukova, C.S. Spell, e J.L. Perry, “Violent Splits or Health Divides? Coping with Injustice Through Faultines,” Personnel Psychology, Autumn 2010, pp. 719-51; J.M. Sacco e N. Schmitt, “A Dynamic Multilevel Model of Demo-graphic Diversity and Misfit Effects,” Journal of Applied Psychology, March 2005, pp. 203-31; e H. Liao e A. Joshi, “Sticking Out Like a Sore Thumb: Employee Dissimilarity and Deviance at Work,” Personnel Psychology, Winter 2004, pp. 969-1000. 40. van Knippenberg, De Dreu, e Homan, p. 1009. 41. Conclusioni tratte da Jackson e Joshi, “Diversity in Social Context.” 42. Vedi J. Wegge, C. Roth, B. Neubach, K-H. Schmidt, e R. Kanfer, “Age and Gender Diversity as Determinants of Performance and Health in a Public Organization: The Role of Task Complexity and Group Size,” Journal of Applied Psychology, November 2008, 1301-13; e Jackson e Joshi, “Diversity in Social Context.” 43. Vedi S. Schulz-Hardt, F.C. Brodbeck, A. Mojzisch, R. Kerschreiter, e D. Frey, “Group Decision Making in Hidden Profi le Situations: Dissent as a Facilitator for Decision Quality,” Journal of Personality and Social Psychology, December 2006, pp. 1080-93. 44. Vedi R. Moss-Kanter, The Change Masters (New York: Simon and Schuster, 1983). 45. Vedi K.Y. Williams, “Demography and Diversity in Organizations: A Review of 100 Years of Research,” in Research in Organizational Behavior, vol. 20, ed B.M. Staw and L.L. Cummings (Greenwich, CT: JAI Press, 1998), pp. 77-140.

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Note al volume 46. J.N. Choi e T. Sy, “Group-Level Organizational Citizenship Behavior: Effects of Demographic Faultlines and Conflict in Small Work Groups,” Journal of Organizational Behavior, October 2010, pp. 1032-1054; e Bezrukova, Spell, e Perry, “Violent Splits or Health Divides? Coping with Injustice Through Faultines.” 47. D.C. Lau e J.K. Murnighan, “Demographic Diversity and Faultlines: The Compositional Dynamics of Organizational Groups,” Academy of Management Review, April 1998, p. 328. 48. Vedi ibid; and A.H. Van De Ven, R.W. Rogers, J.P. Bechara, e K. Sun, “Organizational Diversity, Integration and Performance,” Journal of Organizational Behavior, April 2008, pp. 335-54. 49. Risultati a supporto si trovano in M.C. Triana, M.F. García, e A. Colella, “Managing Diversity: How Organizational Efforts to Support Diversity Moderate the Effects of Perceived Racial Discrimination on Affective Commitment,” Personnel Psychology, Winter 2010, pp. 817-43. 50. Barriere tratte dalle analisi contenute in M Loden, Implementing Diversity (Burr Ridge, IL: Irwin, 1996); e “Link Diversity to Business Goals for Best Results,” HR Focus, January 2010, pp. 5-8. 51. J.A. Gonzalez e A. DeNisi, “Cross-Level Effects of Demography and Diversity Climate on Organizational Attachment and Firm Effectiveness,” Journal of Organizational Behavior, January 2009, p. 24. 52. Vedi ibid., pp. 21-40. 53. Vedi Y. Lee, “Electronic Harassment, Recruiters’ Sources, Global Benefi ts,” HR Magazine, September 2010, p. 24. 54. Vedi risultati correlati in L. Torres e D. Rollock, “Acculturation and Depression among Hispanics: The Moderating Effect of Intercultural Competence,” Cultural Diversity and Ethnic Minority Psychology, January 2007, pp. 10-17. 55. G. Colvin, “Lafley and Immelt: In Search of Billions,” Fortune, December 11, 2006, pp. 70-72. 56. Esame basato su R.R. Thomas Jr, Redefining Diversity (New York: AMACOM, 1996); e R R Thomas Jr, World Class Diversity Management: A Strategic Approach (San Francisco: Berrett-Koehler, 2010). 57. D.J. Gaiter, “Eating Crow: How Shoney’s, Belted by a Lawsuit, Found the Path to Diversity,” The Wall Street Journal, April 16, 1996, pp. A, A11. 58. P. Dass e B. Parker, “Strategies for Managing Human Resource Diversity: From Resistance to Learning,” Academy of Management Executive, May 1999, p. 69. 59. Gaiter, pp. A, A11.

Capitolo 3 1. C. Barrett, “Talking Southwest Culture,” Spirit, May 2008, p. 12. 2. C-H. Chuang e H. Liao, “Strategic Human Resource Management in Service Context: Taking Care of Employees and Customers,” Personnel Psychology, Spring 2010, pp. 153-196. 3. E.H. Schein, “Culture: The Missing Concept in Organization Studies,” Administrative Science Quarterly, June 1996, p. 236. 4. Estratto da J. McGregor, “The 2008 Winners,” BusinessWeek, March 3, 2008, p. 49. 5. H. Walters, “Google Did,” Bloomberg Businessweek, May 16, 2010, p. 60. 6. S.H. Schwartz, “Universals in the Content and Structure of Values: Theoretical Advances and Empirical Tests in 20 Countries,” in Advances in Experimental Social Psychology, edito da M.P. Zanna (New York: Academic Press, 1992), p. 4. 7. A. Fox, “Get in the Business of Being Green,” HR Magazine, June 2008, pp. 45-46. 8. Vedi G. Colvin, “Who’s to Blame at BP?” Fortune, July 26, 2010, p. 60; e “US Sues BP, 8 Other Companies in Gulf Oil Spill,” January 3, 2011, http:// news.yahoo.com/s/ap/ us_golf_oil_spill. 9. A. Ignatius, “ ‘We Had to Own the Mistakes,’ ” Harvard Business Review, July-August 2010, p. 111.

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433 10. Risultati illustrati in “Executing Ethics,” Training, March 2007, p. 8. Vedi anche D. Meinert, “Strong Ethical Culture Helps Bottom Line,” HR Magazine, December 2010, p. 21. 11. A.L. Kristof-Brown, R.D. Zimmerman, e E.C. Johnson, “Consequences of Individuals’ Fit at Work: A Meta-Analysis of Person-Job, Person-Organization, Person-Group, and Person-Supervisor Fit,” Personnel Psychology, Summer 2005, p. 281. 12. Vedi ibid., pp. 281-342; e J.P. Meyer, T.D. Hecht, H. Gill e L. Toplonytsky, “Person-Organization (Culture) Fit and Employee Commitment Under Conditions of Organization Change: A Longitudinal Study,” Journal of Vocational Behavior, June 2010, pp. 458-73. 13. I dati relativi al caso di Southwest Airlines sono consultabili in “Southwest Airlines Fact Sheet,”, aggiornato al 7 novembre 2010, http://www.southwest. com/html/about-southwest/ history/fact-sheet.html. 14. “Southwest Airlines Careers,” da http:// www. southwest.com, consultato nel febbraio 2009. 15. La mission della Southwest si trova all’interno di “Customer Service Commitment,” October 9, 2001 (www.southwest.com). 16. Vedi C. Ostroff, A. Kinicki, e M. Tamkins, “Organizational Culture and Climate,” in Handbook of Psychology, vol. 12, ed W.C. Borman, D.R. Ilgen, e R.J. Klimoski (New York: Wiley and Sons, 2003), pp. 565-93. 17. Per una descrizione dettagliata del modello dei valori contrastanti, vedi K.S. Cameron, R.E. Quinn, J. Degraff, e A.V. Thakor, Competing Values Leadership (Northampton, MA: Edward Elgar, 2006). 18. Estratto da K.R. Spors, “Top Small Workplaces 2008,” The Wall Street Journal, October 13, 2008, p. R4. 19. T.Kelley e M.F. Cortez, “AstraZeneca’s Risky Bet on Drug Discovery,” Bloomberg Businessweek, January 3-9, 2011, p. 21. 20. Vedi M. Arndt e B. Einhorn, “The 50 Most Innovative Companies,” Bloomberg Businessweek, April 25, 2010, p. 39; e “Leadership with Trust,” January 4, 2011, http://www.tata.com/aboutus/sub_index.aspx?sectid=8hOk5Qq3EfQ=. 21. B. Stone, “Will Richard Branson’s Virgin America Fly?” Bloomberg Businessweek, January 3-9, 2011, pp. 64-68. 22. D. Welch, D. Kiley, e M. Ihlwan, “My Way or the Highway at Hyundai,” BusinessWeek, March 17, 2008, pp. 48-51. 23. J.D. Rockoff, “J&J Lapses Are Cited in Drugs for Kids,” The Wall Street Journal, May 27, 2010, p. B1; e J.S. Lublin, “Some CEOs Face Big Repair Jobs in 2011,” The Wall Street Journal, January 4, 2011, p. B6. 24. M. Gunther, “3M’s Innovation Revival,” Fortune, September 27, 2010, pp. 73-76. 25. I risultati sono consultabili in C. Hartnell, Y. Ou, e A. Kinicki, “Organizational Culture and Organizational Effectiveness: A Meta-Analytic Investigation of the Competing Values Framework’s Theoretical Suppositions,” Journal of Applied Psychology, in corso di stampa. Vedi anche S.A. Sackman, “Culture and Performance,” in The Handbook of Organizational Culture and Climate, 2nd ed, ed N.M. Ashkanasy, C.P.M. Wilderom, e M.F. Peterson, (Los Angeles: Sage, 2011), pp. 188-224. 26. Le fusioni sono analizzate da L. Tepedino e M. Watkins, “Be a Master of Mergers and Acquisitions,” HR Magazine, June 2010, pp. 53-56. 27. Vedi C.A. Hartnell e F.O. Walumbwa, “Transformational Leadership and Organizational Culture,” in The Handbook of Organizational Culture and Climate, 2nd ed, ed N.M. Ashkanasy, C.P.M. Wilderom, e M.F. Peterson (Los Angeles: Sage, 2011), pp. 225-48; e E.F. Goldman and A. Casey, “Building a Culture that Encourages Strategic Thinking,” Journal of Leadership and Organizational Studies, May 2010, pp. 119-28. 28. D.W. Young, “The Six Levers for Managing Organizational Culture,” in Readings in Organizational Behavior, ed J.A. Wagner III e J.R. Hollenbeck (New York: Routledge, 2010), pp. 533-46. 29. W. Disney, citato in B. Nanus, Visionary Leadership: Creating a Compelling Sense of Direction for Your Organization (San Francisco, CA:

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Note al volume

434 Jossey-Bass, 1992), p. 28; ripreso da B. Thomas, Walt Disney: An American Tradition (New York: Simon & Schuster, 1976), p. 247. 30. D-A. Durbin, “Ford Cuts Part of Culture Shift,” The Arizona Republic, January 24, 2006, p. D3. 31. Gli strumenti si basano sul materiale contenuto in E H Schein, “The Role of the Founder in Creating Organizational Culture,” Organizational Dynamics, Summer 1983, pp. 13-28. 32. A. Fox, “Don’t Let Silos Stand in the Way,” HR Magazine, May 2010, p. 51. 33. Vedi M. Kimes, “Fluor’s Corporate Crime Fighter,” Fortune, February 16, 2009, p. 26. 34. D. Moss, “Triage: Methodically Developing Its Employees,” HR Magazine, July 2007, p. 45. 35. V. Elmer, “How Storytelling Spurs Success,” Fortune, December 6, 2010, pp. 75-76. 36. C. Hymowitz, “New CEOs May Spur Resistance if They Try to Alter Firm’s Culture,” The Wall Street Journal, August 13, 2007, p. B1. 37. Chazan e D. Mattioli, “BP. Links Pay to Safety in 4th Quarter,” The Wall Street Journal, October 19, 2010, p. B5. 38. Fox, p. 51. 39. Questi esempi sono approfonditi in B. Roberts, “Social Networking at the Offi ce,” HR Magazine, March 2008, pp. 81-83. 40. Van Maanen, “Breaking In: Socialization to Work,” in Handbook of Work, Organization, and Society, ed R. Dubin (Chicago: Rand-McNally, 1976), p. 67. 41. “Best Practices & Outstanding Initiatives: Pricewaterhouse Coopers: 101: PwC Internship Experience,” Training, February 2010, p. 104. 42. Vedi B. Roberts, “Manage Candidates Right from the Start,” HR Magazine, October 2008, pp. 73-76. 43. Vedi J.M. Phillips, “Effects of Realistic Job Previews on Multiple Organizational Outcomes: A Meta-Analysis,” Academy of Management Journal, December 1998, pp. 673-90. 44. I programmi di onboarding sono esaminati in T. Arnold, “Ramping Up Onboarding,” HR Magazine, May 2010, pp. 75-76; e K. Fritz, M. Kaestner, e M. Bergman, “Coca-Cola Enterprises Invests in On-Boarding at the Front Lines to Benefit the Bottom Line,” Global Business and Organizational Excellence, May-June 2010, pp. 15-22. 45. H.R. Rafferty, “Social Media Etiquette: Communicate Behavioral Expectations,” March 24, 2010, http://www.shrm.org.hrdisciplines/ technology/ Articles/Pages/SocialMediaEtiquette.aspx. 46. Estratto da S. Reed, “The Stealth Oil Giant,” BusinessWeek, January 14, 2008, p. 45. 47. Questa definizione si basa sul mentoring visto nella prospettiva del network proposta da M. Higgins e K. Kram, “Reconceptualizing Mentoring at Work: A Developmental Network Perspective,” Academy of Management Review, April 2001, pp. 264-88. 48. Vedi T.D. Allen, L.T. Eby, M.L. Poteet, e E. Lentz, “Career Benefits Associated with Mentoring for Protégés: A Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, February 2004, pp. 127-36; e D E Chandler e L Eby, “When Mentoring Goes Bad,” The Wall Street Journal, May 24, 2010, pp. R1, R3. 49. Le funzioni della carriera sono affrontate dettagliatamente da K. Kram, Mentoring of Work: Developmental Relationships in Organizational Life (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1985). 50. T.J. DeLong, J.J. Gabarro, e R.J. Lees, “Why Mentoring Matters in a Hypercompetitive World,” Harvard Business Review, January 2008, pp. 115-21. 51. Questa discussione si basa su Higgins e Kram, pp. 264-88. 52. Ibid., pp. 264-88. 53. Vedi L.T. Eby, J.R. Durley, S.C. Evans, e B.R. Ragins, “Mentors’ Perceptions of Negative Mentoring Experiences: Sale Development and Nomological Validation,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 358-73. 54. Vedi Chandler e Eby, “When Mentoring Goes Bad;” e S. Wang, E.D. Tomlinson, e R.A. Noe, “The Role of Mentor Trust and Protégé Internal

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Locus of Control in Formal Mentoring Relationships,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 358-67 55. Vedi T. Gutner, “Finding Anchors in the Storm: Mentors,” The Wall Street Journal, January 27, 2009, p. D4. 56. A. Pomeroy, “Internal Mentors and Coaches Are Popular,” HR Magazine, September 2007, p. 12.

Capitolo 4 1. Adattato e tratto da A. Kedem, “Focus on Israel,” Training, January 2010, p. 14. 2. Vedi P. Engardio, G. Smith, e J. Sasseen, “Refighting NAFTA,” BusinessWeek, March 31, 2008, pp. 56-59; S.A. Stumpf e P. Chaudhry, “Country Matters: Executives Weigh In on the Causes and Counter Measures of Counterfeit Trade,” Business Horizons, May-June 2010, pp. 305-14; e F. Balfour e T. Culpan, “ Chairman Gou,” Bloomberg Businessweek, September 13-19, 2010, pp. 58-69. 3. W.W. Maddux, A.D. Galinsky, e C.T. Tadmar, “Be a Better Manager: Live Abroad,” Harvard Business Review, September 2010, p. 24. 4. Dati tratti da, “Bundling Human Capital with Organizational Context: The Impact of International Assignment Experience on Multinational Firm Performance and CEO Pay,” di M.A. Carpenter,W.G. Sanders, e H.B. Gregersen Academy of Management Journal, giugno 2001, pp. 493-511. Vedi anche H. Lin e S. Hou, “Managerial Lessons from the East: An Interview with Acer’s Stan Shih,” Academy of Management Perspectives, November 2010, pp. 6-16. 5. Dati tratti da L. Petrecca, “Low-Profile Nestlé Leader Aims High,” USA Today, October 25, 2010, p. 5B. 6. Vedi G. Hofstede, A.V. Garibaldi de Hilal, S. Malvezzi, B. Tanure, e H. Vinken, “Comparing Regional Cultures within a Country: Lessons from Brazil,” Journal of Cross-Cultural Psychology, May 2010, pp. 336-52. 7. Vedi U. Zander e L. Zander, “Opening the Grey Box: Social Communities, Knowledge and Culture in Acquisitions,” Journal of International Business Studies, January 2010, pp. 27-37. 8. Vedi T. Cappellen e M. Janssens, “Enacting Global Careers: Organizational Career Scripts and the Global Economy as Co-existing Career Referents,” Journal of Organizational Behavior, July 2010, pp. 687-706; e M. Harvey, H. Mayerhofer, L. Hartmann, e M. Moeller, “Corralling the ‘Horses’ to Staff the Global Organization of 21st Century,” Organizational Dynamics, July-September 2010, pp. 258-68. 9. Vedi W.A. Haviland, H.E.L. Prins, B. McBride, e D. Walrath, Cultural Anthropology: The Human Challenge, 13th ed (Florence, KY: Wadsworth, 2010). 10. M. Mabry, “Pin a Label on a Manager—And Watch What Happens,” Newsweek, maggio 14, 1990, p. 43. 11. Ibid. Vedi anche M. Munoz e M. Segura, “Focus on the Philippines,” Training, June 2009, p. 18. 12. “Cultural Acumen for the Global Manager: Lessons from Project GLOBE,” di M. Javidan e R.J. House Organizational Dynamics, primavera 2001, p. 292. (Emphasis added.) 13. Per un dibattito istruttivo vedi, Global Assignments: Successfully Expatriating and Repatriating International Managers di J.S. Black, H.B. Gregersen, e M.E. Mendenhall (San Francisco: Jossey-Bass, 1992), Cap. 2. 14. F. Trompenaars e C. Hampden-Turner, Riding the Waves of Culture: Understanding Cultural Diversity in Global Business, 2nd ed (New York: McGraw-Hill, 1998), pp. 6-7. Il concetto di “mosaic culturale” è analizzato in G.T. Chao e H. Moon, “The Cultural Mosaic: A Metatheory for Understanding the Complexity of Culture,” Journal of Applied Psychology, November 2005, pp. 1128-40. Vedi anche K. Leung, R. Bhagat, N.R. Buchan, M. Erez, e C.B. Gibson, “Beyond National Culture and Culture-Centricism: A Reply to Gould and Grein (2009),” Journal of International Business Studies, January 2011, pp. 177-81. 15. Citato da BusinessWeek, August 25-September 1, 2008, p. 44.

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Note al volume 16. Basato su A.K. Leung e C. Chiu, “Multicultural Experience, Idea Receptiveness, and Creativity,” Journal of Cross-Cultural Psychology, September-November 2010, pp. 723-41. 17. Citato da “How Cultures Collide,” Psychology Today, July 1976, p. 69. 18. Le ricerche di mercato condotte da un antropologo cultural sono esaminate in E. Pooley, “Charged for Battle,” Bloomberg Businessweek, January 3-9, 2011, pp. 48-56. 19. J. Main, “How to Go Global – and Why,” Fortune, August 28, 1989, p. 73. 20. W.D. Marbach, “Quality: What Motivates American Workers?” BusinessWeek, April 12, 1993, p. 93. 21. Vedi G.A. Sumner, Folkways (New York: Ginn, 1906). 22. Citato da C. Levinson, “In Kirkuk, Ethnic Tension Simmers,” USA Today, August 14, 2008, p. 2A. 23. D.A. Heenan e H.V. Perlmutter, Multinational Organization Development (Reading, MA: Addison-Wesley, 1979), p. 17. 24. Dati tratti da R. Kopp “International Human Resource Policies and Practices in Japanese, European, and United States Multinationals,” Human Resource Management, inverno 1994, pp. 581-99. 25. Fareed Zakaria, The Post-American World (New York: W W Norton, 2008), p. 46. Vedi anche R.J. Crisp e R.N. Turner, “ Cognitive Adaptation to the Experience of Social and Cultural Diversity,” Psychological Bulletin, December 2010, pp. 1-25. 26. Dati tratti da M B Marklein, “College Study Abroad Suffers a Dip,” USA Today, November 15, 2010, p. 3A. Vedi anche D Bolton e R Nie, “Creating Value in Transnational Higher Education: The Role of Stakeholder Management,” Academy of Management Learning and Education, December 2010, pp. 701-14. 27. R.R. McCrae, A. Terracciano, A. Realo, e J. Allik, “Interpreting GLOBE Societal Practices Scales,” Journal of Cross-Cultural Psychology, November 2008, pp. 805-10. 28. J.S. Osland e A. Bird, “Beyond Sophisticated Stereotyping: Cultural Sensemaking in Context,” Academy of Management Executive, February 2000, p. 67. 29. “Fujio Mitarai: Canon,” Business Week, gennaio 14, 2002, p. 55. 30. Vedi P.C. Earley e E. Mosakowski, “Toward Culture Intelligence: Turning Cultural Differences into a Workplace Advantage,” Academy of Management Executive, August 2004, pp. 151-57; P.C. Earley e E. Mosakowski, “Cultural Intelligence,” Harvard Business Review, October 2004, pp. 139-46; e K. Ng, L. Van Dyne, e S. Ang, “From Experience to Experiential Learning: Cultural Intelligence as a Learning Capability for Global Leader Development,” Academy of Management Learning and Education, December 2010, pp. 511-26. 31. D.C. Thomas e K. Inkson, Cultural Intelligence: Living and Working Globally, 2nd ed (San Francisco: Berrett-Koehler, 2009), p. 16. 32. Vedi K.A. Crowne, “What Leads to Cultural Intelligence?” Business Horizons, September-October 2008, pp. 391-99. 33. J. Porter, “How to Stand Out in the Global Crowd,” BusinessWeek, November 24, 2008, pp. 52, 54. 34. Vedi “How Cultures Collide,” pp. 66-74, 97; e M. Munter, “Cross-Cultural Communication for Managers,” Business Horizons, May-June 1993, pp. 69-78. 35. S. Reed, “Meet the Master of Mideast Buyouts,” BusinessWeek, March 10, 2008, p. 70. 36. Lo stile di gestione tedesco è discusso in, “German Management: A Challenge to Anglo-American Managerial Assumptions,” di R Stewart Business Horizons, maggio-giugno 1996, pp. 52-54. 37. I. Adler, “Between the Lines,” Business Mexico, October 2000, p. 24. Vedi anche I. Cantú de La Torre e L. Cantú Licón, “Focus on Mexico,” Training, February 2009, p. 20. 38. Suggerimenti tratti da R. Drew, “Working with Foreigners,” Management Review, September 1999, p. 6.

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435 39. Per un background, vedi Javidan e House, “Cultural Acumen for the Global Manager,” pp. 289-305; l’intera edizione primaverile del 2002 del Journal of World Business; R.J. House, P.J. Hanges, M. Javidan, P.W. Dorfman, e V. Gupta, eds, Culture, Leadership, and Organizations: The GLOBE Study of 62 Societies (Thousand Oaks, CA: Sage, 2004); e www.thunderbird. edu/wwwfi les/ms/globe/. 40. R. House, M. Javidan, P. Hanges, e P. Dorfman, “Understanding Cultures and Implicit Leadership Theories across the Globe: An Introduction to Project GLOBE,” Journal of World Business, Spring 2002, p. 4. Per un esame critico del progetto GLOBE, vedi P. Brewer e S Venaik, “GLOBE Practices and Values: A Case of Diminishing Marginal Utility?” Journal of International Business Studies, October-November 2010, pp. 1316-24. 41. Adattato dalla lista tratta da ibid., pp. 5-6. Vedi anche M. Javidan, G.K. Stahl, F. Brodbeck, e C.P.M. Wilderom, “Cross-Border Transfer of Knowledge: Cultural Lessons from Project GLOBE,” Academy of Management Executive, May 2005, pp. 59-76; e D A Waldman, M Sully de Luque, N Washburn, R.J. House, et al., “Cultural and Leadership Predictors of Corporate Social Responsibility Values of Top Management: A GLOBE Study of 15 Countries,” Journal of International Business Studies, November 2006, pp. 823-37. 42. Vedi M. Javidan, “Forward-Thinking Cultures,” Harvard Business Review, July-August 2007, p. 20; e N. Orkin, “Focus on Singapore,” Training, January 2009, p. 16. 43. Vedi D. Oyserman, H.M. Coon, e M. Kemmelmeier, “Rethinking Individualism and Collectivism: Evaluation of Theoretical Assumptions and Meta-Analyses,” Psychological Bulletin, January 2002, pp. 3-72; B. Erdogan e R.C. Liden, “Collectivism as a Moderator of Responses to Organizational Justice: Implications for Leader- Member Exchange and Ingratiation,” Journal of Organizational Behavior, February 2006, pp. 1-17; e A Hwang e A M Francesco, “The Influence of Individualism-Collectivism and Power Distance on Use of Feedback Channels and Consequences for Learning,” Academy of Management Learning and Education, June 2010, pp. 243-57. 44. M. Edwards, “As Good as It Gets,” AARP: The Magazine, November-December 2004, p. 48. 45. Ibid., vedi tabella a p. 49. 46. Dati tratti da Trompenaars e Hampden-Turner, Riding the Waves of Culture, ch. 5. Per ricerche sullo stesso tema, vedi E G T Green e J Deschamps, “Variation of Individualism and Collectivism within and between 20 Countries,” Journal of Cross-Cultural Psychology, May 2005, pp. 321-39; e S. Begley, “You Can Blame the Bugs,” Newsweek, April 14, 2008, p. 41. 47. Citato da E.E. Schultz, “Scudder Brings Lessons to Navajo, Gets Some of Its Own,” The Wall Street Journal, April 29, 1999, p. C12. 48. Trompenaars e Hampden-Turner, p. 56. 49. Per una lettura interessante, vedi P. Zimbardo e J Boyd, The Time Paradox: The New Psychology of Time That Will Change Your Life (New York: Free Press, 2008). 50. Citato da D.W. Dowling, “The Best Advice I Ever Got,” Harvard Business Review, May 2008, p. 21. Vedi anche la funzione del tempo monocronico in J. Graham, “Google Starts Searching Before You Finish Typing,” USA Today, September 9, 2010, p. 1B. 51. S. Smith, “A Pirate’s Life,” Newsweek, June 26, 2006, p. 45. 52. R.W. Moore, “Time, Culture, and Comparative Management: A Review and Future Direction,” in Advances in International Comparative Management, vol. 5, ed S B Prasad (Greenwich, CT: JAI Press, 1990), pp. 7-8. 53. S. Reed e R. Tuttle, “Qatar on the Cusp,” Bloomberg Business-week, March 22-29, 2010, p. 53. 54. J. Deschenaux, “Less Time for Lunch,” HR Magazine, June 2008, p. 125. 55. Vedi E.T. Hall, The Hidden Dimension (Garden City, NY: Doubleday, 1966). 56. “How Cultures Collide,” p. 72.

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436 57. Vedi C.L. Grossman, “Young Adults Today Are a ‘Less Religious’ Bunch,” USA Today, February 17, 2010, p. 10B; S. Prothero, “A World Apart on the Muslim Veil,” USA Today, August 2, 2010, p. 9A; e C.L. Grossman, “How America Sees God,” USA Today, October 7, 2010, pp. 1A-2A. 58. Risultati adattati e definizioni di valore citate da S.R. Safranski e I-W. Kwon, “Religious Groups and Management Value Systems,” in Advances in International Comparative Management, vol 3, ed R.N. Farner e E.G. McGoun (Greenwich, CT: JAI Press, 1988), pp. 171-83. 59. Ibid., p. 180. 60. N.J. Adler con A. Gundersen, International Dimensions of Organizational Behavior, 5th ed (Mason, OH: Thomson SouthWestern, 2008), p. 13 (emphasis added). Un altro ottimo testo di riferimento è D.C. Thomas, Cross-Cultural Management: Essential Concepts, 2nd ed (Thousand Oaks, CA: Sage, 2008). 61. Tratto da F.F. Chen, “What Happens if We Compare Chop-sticks with Forks? The Impact of Making Inappropriate Comparisons in Cross-Cultural Research,” Journal of Personality and Social Psychology, November 2008, pp. 1005-18. Vedi anche R.L. Tung e A. Verbeke, “Beyond Hofstede and GLOBE: Improving the Quality of Cross-Cultural Research,” Journal of International Business Studies, October-November 2010, pp. 1259-74; e P. D Ellis, “Effect Sizes and the Interpretation of Research Results in International Business,” Journal of International Business Studies, December 2010, pp. 1581-88. 62. M. Javidan e R.J. House, “Leadership and Cultures around the World: Findings from GLOBE – An Introduction to the Special Issue,” Journal of World Business, Spring 2002, p. 1. 63. Per i dettagli completi, vedi G. Hofstede, Culture’s Consequences: International Differences in Work-Related Values, abridged ed (Newbury Park, CA: Sage, 1984); G. Hofstede, “The Interaction between National and Organizational Value Systems,” Journal of Management Studies, July 1985, pp. 347-57; e G. Hofstede, “Management Scientists Are Human,” Management Science, January 1994, pp. 4-13. Vedi anche B.L. Kirkman, K.B. Lowe, e C.B. Gibson, “A Quarter Century of Culture’s Consequences: A Review of Empirical Research Incorporating Hofstede’s Cultural Values Framework,” Journal of International Business Studies, May 2006, pp. 285-320; R. Fischer, C.M. Vauclair, J.R.J. Fontaine, e S.H. Schwartz, “Are Individual-Level and Country-Level Value Structures Different? Testing Hofstede’s Legacy With the Schwartz Value Survey,” Journal of CrossCultural Psychology, March 2010, pp. 135-51; e V. Taras, B.L. Kirkman, e P. Steel, “Examining the Impact of Culture’s Consequences: A Three-Decade, Multilevel, Meta-Analytic Review of Hofstede’s Cultural Value Dimensions,” Journal of Applied Psychology, May 2010, pp. 405-39. 64. La seguente ripetizione dello studio di Hofstede propone una conclusione simile: A Merritt, “Culture in the Cockpit: Do Hofstede’s Dimensions Replicate?” Journal of Cross-Cultural Psychology, May 2000, pp. 283-301. Vedi anche K. Gilbert e S. Cartwright, “Cross-Cultural Consultancy Initiatives to Develop Russian Managers: An Analysis of Five Western Aid-Funded Programs,” Academy of Management Learning and Education, December 2008, pp. 504-18. 65. Per letture correlate, vedi M. Javidan, P.W. Dorfman, M. Sully de Luque, e R.J. House, “In the Eye of the Beholder: Cross Cultural Lessons in Leadership from Project GLOBE,” Academy of Management Perspectives, February 2006, pp. 67-90; G.B. Graen, “In the Eye of the Beholder: Cross-Cultural Lesson in Leadership from Project GLOBE: A Response Viewed from the Third Culture Bonding (TCB) Model of Cross-Cultural Leadership,” Academy of Management Perspectives, November 2006, pp. 95-101; R.J. House, M. Javidan, P.W. Dorfman, e M. Sully de Luque, “A Failure of Scholarship: Response to George Graen’s Critique of GLOBE,” Academy of Management Perspectives, November 2006, pp. 102-14; P. Caligiuri e I. Tarique, “Predicting Effectiveness in Global Leadership Activities,” Journal of World Business, July 2009, pp. 336-46; e A McDonnell, R Lamare, P. Gunnigle, e J Lavelle, “Developing Tomorrow’s Leaders – Evidence of

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Note al volume Global Talent Management in Multinational Enterprises,” Journal of World Business, April 2010, pp. 150-60. 66. J. Guyon, “David Whitwam,” Fortune, July 26, 2004, p. 174. 67. N. Bloom e J. Van Reenen, “Why Do Management Practices Differ Across Firms and Countries?” Journal of Economic Perspectives, Winter 2010, p. 207. Vedi anche J. Yu e S. Zaheer, “Building a Process Model of Local Adaptation of Practices: A Study of Six Sigma Implementation in Korean and US Firms,” Journal of Inter-national Business Studies, April 2010, pp. 475-99; e J.J. Lawler, S. Chen, P. Wu, J. Bae, e B. Bai, “High-Performance Work Systems in Foreign Subsidiaries of American Multinationals: An Institutional Model,” Journal of International Business Studies, February-March 2011, pp. 202-20. 68. Dati tratti da www.siemens.com/about/en/worldwide.htm; e R. Weiss e B. Kammel, “How Siemens Got Its Geist Back,” Bloom-berg Businessweek, January 31-February 6, 2011, pp. 18-20. 69. Vedi M. Chen e D. Miller, “West Meets East: Toward an Ambi-cultural Approach to Management,” Academy of Management Perspectives, November 2010, pp. 17-24. 70. J. Welch e S. Welch, “Red Flags for the Decade Ahead,” Business Week, May 19, 2008, p. 82. Vedi anche P. Davidson, “US Job Hunters Eye Other Nations’ Help Wanted Ads,” USA Today, November 16, 2009, p. 1B. 71. J.S. Black e H.B. Gregersen, “The Right Way to Manage Ex-pats,” Harvard Business Review, March-April 1999, p. 53. Una visione più ottimistica è presentata in R.L. Tung, “American Expatriates Abroad: From Neophytes to Cosmopolitans,” Journal of World Business, Summer 1998, pp. 125-44. Vedi anche M.A. Clouse e M.D. Watkins, “Three Keys to Getting an Overseas Assignment Right,” Harvard Business Review, October 2009, pp. 115-119. 72. Dati tratti da G.S. Insch e J.D. Daniels, “Causes and Consequences of Declining Early Departures from Foreign Assignments,” Business Horizons, November-December 2002, pp. 39-48. Vedi anche G. Chen, B.L. Kirkman, K. Kim, C.I.C. Farh, e S. Tangirala, “When Does Cross-Cultural Motivation Enhance Expatriate Effectiveness? A Multilevel Investigation of the Moderating Roles of Subsidiary Support and Cultural Distance,” Academy of Management Journal, October 2010, pp. 1110-30. 73. S. Dallas, “Rule N. 1: Don’t Diss the Locals,” BusinessWeek, May 15, 1995, p. 8. Vedi anche L.S. Paine, “The China Rules,” Harvard Business Review, June 2010, pp. 103-8. 74. Questi spunti di riflessione sono tratti da Tung, “American Expatriates Abroad”; R.L. Tung, “Female Expatriates: The Model Global Manager?” Organizational Dynamics, n. 3, 2004, pp. 243-53; A. Varma, S.M. Toh, e P. Budhwar, “A New Perspective on the Female Expatriate Experience: The Role of Host Country National Categorization,” Journal of World Business, June 2006, pp. 112-20; M. Janssens, T. Cappellen, e P. Zanoni, “Successful Female Expatriates as Agents: Positioning Oneself through Gender, Hierarchy, and Culture,” Journal of World Business, June 2006, pp. 133-48; e A. Pomeroy, “Outdated Policies Hinder Female Expats,” HR Magazine, December 2006, p. 16. 75. J S Lublin, “Younger Managers Learn Global Skills,” The Wall Street Journal, March 31, 1992, p. B1. 76. Vedi P.C. Earley, “Intercultural Training for Managers: A Comparison of Documentary and Interpersonal Methods,” Academy of Management Journal, December 1987, pp. 685-98. 77. Basato su J.O. Okpara e J.D. Kabongo, “Cross-Cultural Training and Expatriate Adjustment: A Study of Western Expatriates in Nigeria,” Journal of World Business, January 2011, pp. 22-30. Vedi anche D. Holtbrügge e A.T. Mohr, “Cultural Determinants of Learning Style Preferences,” Academy of Management Learning and Education, December 2010, pp. 622-37. 78. Vedi E. Marx, Breaking through Culture Shock: What You Need to Succeed in International Business (London: Nicholas Brealey Publishing, 2001). Vedi anche M. Javidan, M. Teagarden e D. Bowen, “Making It Overseas,” Harvard Business Review, April 2010, pp. 109-13.

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Note al volume 79. Vedi M. Lazarova, M. Westman, e M.A. Shaffer, “Elucidating the Positive Side of the Work-Family Interface on International Assignments: A Model of Expatriate Work and Family Performance,” Academy of Management Review, January 2010, pp. 93-117; e C.I.C. Farh, K.M. Bartol, D.L. Shapiro, e J. Shin, “Networking Abroad: A Process Model of How Expatriates Form Support Ties to Facilitate Adjustment,” Academy of Management Review, July 2010, pp. 434-54. 80. K L Miller, “How a Team of Buckeyes Helped Honda Save a Bundle,” BusinessWeek, September 13, 1993, p. 68. 81. B. Newman, “For Ira Caplan, Re-Entry Has Been Strange,” The Wall Street Journal, December 12, 1995, p. A12. 82. Vedi Black, Gregersen, e Mendenhall, p. 227. 83. Ibid., pp. 226-27. 84. Vedi L. Albright, “How Can My Company Best Retain Repatriated Employees?” HR Magazine, March 2008, p. 35; A. Andors, “Happy Returns,” HR Magazine, March 2010, pp. 61-63; e P. Tharenou e N. Caulfield, “Will I Stay or Will I Go? Explaining Repatriation by Self-Initiated Expatriates,” Academy of Management Journal, October 2010, pp. 1009-28.

Capitolo 5 1. Dati tratti da www.facebook.com/press/info.php?statistics. 2. Estratto da D. Kirkpatrick, The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World (New York: Simon & Schuster, 2010), p. 20 (in italiano, Facebook. La storia. Mark Zuckerberg e la sfida di una nuova generazione, traduzione di Ilaria Katerinov, Milano, Hoepli, 2011). 3. S. Sternberg, “The Genome: Big Advances, Many Questions,” USA Today, July 8, 2010, p. 2A. Nota: Dati statistici sulla popolazione aggiornati da 6 a 7 miliardi. 4. D. Seligman, “The Trouble with Buyouts,” Fortune, November 30, 1992, p. 125. 5. Vedi J. Schramm, “HR’s Challenging Next Decade,” HR Magazine, November 2010, p. 96; e M R. Hamdani e M.R. Buckley, “Diversity Goals: Reframing the Debate and Enabling a Fair Evaluation,” Business Horizons, January-February 2011, pp. 33-40. 6. Vedi H. Ibarra e R. Barbulescu, “Identity as Narrative: Prevalence, Effectiveness, and Consequences of Narrative Identity Work in Macro Work Role Transitions,” Academy of Management Review, January 2010, pp. 135-54; e R.E. Johnson, C. Chang, e L. Yang, “Commitment and Motivation at Work: The Relevance of Employee Identity and Regulatory Focus,” Academy of Management Review, April 2010, pp. 226-45. 7. Tratto da E. Porter, “Mirror, Mirror on the Wall,” Best Friends Magazine, January-February 2007, pp. 8-9. 8. Dati estrapolati da “If We Could Do It Over Again,” USA Today, February 19, 2001, p. 4D. 9. Citato da G. Colvin, “Star Power,” Fortune, February 6, 2006, p. 56. 10. V. Gecas, “The Self-Concept,” in Annual Review of Sociology, edito da R.H. Turner e J.F. Short, Jr (Palo Alto, CA: Annual Reviews Inc., 1982), vol. 8, p. 3. Vedi anche R.E. Johnson, C.C. Rosen, e P.E Levy, “Getting to the Core of Core Self-Evaluation: A Review and Recommendations,” Journal of Organizational Behavior, April 2008, pp. 391-413; e S.W. Farmer e L. Van Dyne, “The Idealized Self and the Situated Self as Predictors of Employee Work Behaviors,” Journal of Applied Psychology, May 2010, pp. 503-16. 11. L. Festinger, A Theory of Cognitive Dissonance (Stanford, CA: Stanford University Press, 1957), p. 3. Per un esame delle cognizioni di sé in un contesto pratico, vedi K Sulkowicz, “Analyze This,” BusinessWeek, April 21, 2008, p. 17. 12. Tratto in parte da una definizione di Gecas, “The Self- Concept.” Vedi anche D.L. Ferris, H. Lian, D.J. Brown, F.X.J. Pang, e L.M. Keeping, “Self-Esteem and Job Performance: The Moderating Role of Self-Esteem Contingencies,” Personnel Psychology, Autumn 2010, pp. 561-93.

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437 13. Vedi N. Hellmich, “For Women, Bad Hair Days Are No Joke,” USA Today, April 13, 2010, p. 10B; D Brady, “Out of Work, Not Out of Oomph,” Bloomberg Businessweek, September 13-19, 2010, pp. 51-52; e S. Jayson, “Youths Prefer Praise to Sex, Booze,” USA Today, January 11, 2011, p. 3A. 14. H.W. Marsh, “Positive and Negative Global Self-Esteem: A Substantively Meaningful Distinction or Artifacts?” Journal of Personality and Social Psychology, April 1996, p. 819. 15. Ibid. 16. Basato su D.A. Stinson et al., “The Cost of Lower Self-Esteem: Testing a Self- and Social-Bonds Model of Health,” Journal of Personality and Social Psychology, March 2008, pp. 412-28; S M. McCrea, “Self-Handicapping, Excuse Making, and Counterfactual Thinking: Consequences for Self-Esteem and Future Motivation,” Journal of Personality and Social Psychology, August 2008, pp. 274- 92; e U. Orth, R.W. Robins, e B.W. Roberts, “Low Self-Esteem Prospectively Predicts Depression in Adolescence and Young Adulthood,” Journal of Personality and Social Psychology, September 2008, pp. 695-708. 17. E. Diener e M. Diener, “Cross-Cultural Correlates of Life Satisfaction and Self-Esteem,” Journal of Personality and Social Psychology, April 1995, p. 662. Vedi anche R.A. Brown, “Perceptions of Psychological Adjustment, Achievement Outcomes, and Self-Esteem in Japan and America,” Journal of Cross-Cultural Psychology, January 2010, pp. 51-61; e R.W. Tafarodi, S.C. Shaughnessy, S. Yamaguchi, e A. Murakoshi, “The Reporting of Self-Esteem in Japan and Canada,” Journal of Cross-Cultural Psychology, January 2011, pp. 155-64. 18. Vedi G. Chen, S.M. Gully, e D. Eden, “General Self-Efficacy and Self-Esteem: Toward Theoretical and Empirical Distinction between Correlated Self-Evaluations,” Journal of Organizational Behavior, May 2004, pp. 375-95. 19. M.E. Gist, “Self-Efficacy: Implications for Organizational Behavior and Human Resource Management,” Academy of Management Review, July 1987, p. 472. Vedi anche A. Bandura, “Self-Efficacy: Toward a Unifying Theory of Behavioral Change,” Psychological Review, March 1977, pp. 191-215; S. Ellis, Y. Ganzach, E. Castle, e G. Sekely, “The Effect of Filmed Versus Personal After-Event Reviews on Task Performance: The Mediating and Moderating Role of Self-Efficacy,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 122-31; e A.M. Schmidt, e R.P. DeShon, “The Moderating Effects of Performance Ambiguity on the Relationship Between Self-Efficacy and Performance,” Journal of Applied Psychology, May 2010, pp. 572-81. 20. Basato su D.H. Lindsley, D.A. Brass, e J.B. Thomas, “Efficacy-Performance Spirals: A Multilevel Perspective,” Academy of Management Review, July 1995, pp. 645-78. Vedi anche J.B. Vancouver e L.N. Kendall, “When Self-Effi cacy Negatively Relates to Motivation and Performance in a Learning Context,” Journal of Applied Psychology, September 2006, pp. 1146-153. 21. Vedi, ad esempio,V. Gecas, “The Social Psychology of Self- Efficacy,” in Annual Review of Sociology, edito da W.R. Scott e J. Blake (Palo Alto, CA: Annual Reviews, Inc., 1989), vol. 15, pp. 291-316; C.K. Stevens, A.G. Bavetta, e M.E. Gist, “Gender Differences in the Acquisition of Salary Negotiation Skills: The Role of Goals, Self-Efficacy, and Perceived Control,” Journal of Applied Psychology, October 1993, pp. 723-35; D. Eden e Y. Zuk, “Seasickness as a Self-Fulfilling Prophecy: Raising Self- Efficacy to Boost Performance at Sea,” Journal of Applied Psychology, October 1995, pp. 628-35; S.M. Jex, P.D. Bliese, S. Buzzell, e J. Primeau, “The Impact of Self-Efficacy on Stressor- Strain Relations: Coping Style as an Explanatory Mechanism,” Journal of Applied Psychology, June 2001, pp. 401-9; C.A. Shields, L.B. Brawley, e T.I. Lindover, “Self-Efficacy as a Mediator of the Relationship between Causal Attributions and Exercise Behavior,” Journal of Applied Social Psychology, November 2006, pp. 2785-802; e E.C. Dierdorff, E.A. Surface, e K.G. Brown, “Frame-of-Reference Training Effectiveness: Effects of Goal Orientation and Self-Efficacy on Affective, Cognitive, Skill-

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438 Based, and Transfer Outcomes,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1181-91. 22. Dati tratti da A.D. Stajkovic e F. Luthans, “Self-Efficacy and Work-Related Performance: A Meta-Analysis,” Psychological Bulletin, September 1998, pp. 240-61. 23. M. Snyder e S. Gangestad, “On the Nature of Self- Monitoring: Matters of Assessment, Matters of Validity,” Journal of Personality and Social Psychology, July 1986, p. 125. 24. Citato da K. Sulkowicz, “Me, Me, Me, Me, Me,” BusinessWeek, April 23, 2007, p. 14. 25. Dati estrapolati da D V Day, D J Schleicher, A L Unckless, e N J Hiller, “Self-Monitoring Personality at Work: A Meta-Analytic Investigation of Construct Validity,” Journal of Applied Psychology, April 2002, pp. 390-401. 26. M.G. Pratt, “To Be or Not to Be? Central Questions in Organizational Identification,” in Identity in Organizations, edito da D.A. Whetten e P.C. Godfrey (Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 1998), p. 172. Vedi anche G. Petriglieri e J. Petriglieri, “Identity Workspaces: The Case of Business Schools,” Academy of Management Learning and Education, March 2010, pp. 44-60; J.E. Dutton, L.M. Roberts, e J. Bednar, “Pathways for Positive Identity Construction at Work: Four Types of Positive Identity and the Building of Social Resources,” Academy of Management Review, April 2010, pp. 265-93; e D. Cooper e S.M.B. Thatcher, “Identification in Organizations: The Role of Self-Concept Orientations and Identification Motives,” Academy of Management Review, October 2010, pp. 516-38. 27. Per una panoramica generale, vedi L.R. James e M.D. Mazerolle, Personalità in Work Organizations (Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 2002). Vedi anche P.J. Rentfrow, “Statewide Differences in Personality,” American Psychologist, September 2010, pp. 548-58. 28. Vedi W. Bleidom, C. Kandler, U.R. Hülsheger, R. Riemann, A. Angleitner, e F.M. Spinath, “Nature and Nurture of the Interplay Between Personality Traits and Major Life Goals,” Journal of Personality and Social Psychology, August 2010, pp. 366-79; P. Beston, “Peace of Mind: The Battle,” The Wall Street Journal, August 20, 2010, p. W4; e S. Shane, N. Nicolaou, L. Cherkas, e T.D. Spector, “Genetics, the Big Five, and the tendency to Be Self-Employed,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1154-62. 29. Dati tratti da from M.C. Ashton, K. Lee, e L.R. Goldberg, “A Historical Analysis of 1,710 English Personality-Descriptive Adjectives,” Journal of Personality and Social Psychology, November 2004, pp. 707-21. 30. Il lavoro fondamentale è il rapporto di J.M. Digman, “Personality Structure: Emergence of the Five-Factor Model,” Annual Review of Psychology, vol. 41, 1990, pp. 417-40. Vedi anche M.R. Barrick e M.K. Mount, “Autonomy as a Moderator of the Relationships between the Big Five Personality Dimensions and Job Performance,” Journal of Applied Psychology, February 1993, pp. 111-18. 31. C.J. Ferguson, “A Meta-Analysis of Normal and Disordered Personality Across the Life Span,” Journal of Personality and Social Psychology, April 2010, p. 659. 32. Vedi M.R. Barrick e M.K. Mount, “The Big Five Personality Dimensions and Job Performance: A Meta-Analysis,” Personnel Psychology, Spring 1991, pp. 1-26. Vedi anche R.P. Tett, D.N. Jackson, e M. Rothstein, “Personality Measures as Predictors of Job Performance: A Meta-Analytic Review,” Personnel Psychology,Winter 1991, pp. 703-42. 33. Barrick e Mount, p. 18. Per altre ricerche sulla coscienzionsità, vedi A. Minbashian, R.E. Wood, e N. Beckmann, “Task-Contingent Conscientiousness as a Unit of Personality at Work,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 793-806. 34. Basato su S.J. Perry, L.A. Witt, L.M. Penney, e L. Atwater, “The Downside of Goal-Focused Leadership: The Role of Personality in Subordinate Exhaustion,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1145-53; H. Le et al., “Too Much of a Good Thing: Curvilinear Relationships Between Personality Traits and Job Performance,” Journal of Applied Psychology, January 2011, pp. 113-33; e A.M. Cianci, H.J. Klein, e G.H. Seijts, “The

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Note al volume Effect of Negative Feedback on Tension and Subsequent Performance: The Main and Interaction Effects of Goal Content and Conscientiousness,” Journal of Applied Psychology, July 2010, pp. 618-30. 35. Vedi H. Zhao e S.E. Seibert, “The Big Five Personality Dimensions and Entrepreneurial Status: A Meta-Analytical Review,” Journal of Applied Psychology, March 2006, pp. 259-71. Vedi anche S.A. Woods e S.E. Hampson, “Predicting Adult Occupational Environments from Gender and Childhood Personality Traits,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1045-57. 36. Tratto da S.E. Seibert e M.L Kraimer, “The Five-Factor Model of Personality and Career Success,” Journal of Vocational Behavior, February 2001, pp. 1-21. 37. J.M. Crant, “Proactive Behavior in Organizations,” Journal of Management, n. 3, 2000, p. 439. Vedi anche N. Li, J. Liang, e J.M. Crant, “The Role of Proactive Personality in Job Satisfaction and Organizational Citizenship Behavior: A Relational Perspective,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 395-404; e G.J. Greguras e J.M. Diefendorff, “Why Does Proactive Personality Predict Employee Life Satisfaction and Work Behaviors? A Field Investigation of the Mediating Role of the Self-Concordance Model,” Personnel Psychology, Autumn 2010, pp. 539-60. 38. Per un’eccellente panoramica, vedi J.B. Rotter, “Internal versus External Control of Reinforcement: A Case History of a Variable,” American Psychologist, April 1990, pp. 489-93. Vedi anche S. Wang, E.C. Tomlinson, e R.A. Noe, “The Role of Mentor Trust and Protégé Internal Locus of Control in Formal Mentoring Relationships,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 358-67; e Q. Wang, N.A. Bowling, e K.J. Eschleman, “A Meta-Analytic Examination of Work and General Locus of Control,” Journal of Applied Psychology, July 2010, pp. 761-68. 39. Vedi A. Norenzayan e A. Lee, “It Was Meant to Happen: Explaining Cultural Variations in Fate Attributions,” Journal of Personality and Social Psychology, May 2010, pp. 702-20. 40. Crant, “Proactive Behavior in Organizations,” pp. 439-41. 41. Vedi A. Murphy Paul, The Cult of Personality: How Personality Tests Are Leading Us to Miseducate Our Children, Mismanage Our Companies, and Misunderstand Ourselves (New York: Free Press, 2004). 42. Citato da H. Dolezalek, “Tests on Trial,” Training, April 2005, p. 34. Vedi anche D A Kaplan, “Death to the SAT!!!” Fortune, November 1, 2010, p. 32; e D. Zielinski, “Effective Assessments,” HR Magazine, January 2011, pp. 61-64. 43. Per i dettagli vedi S. Komar, D.J. Brown, C. Robie, e J.A. Komar, “Faking and the Validity of Conscientiousness: A Monte Carlo Investigation,” Journal of Applied Psychology, January 2008, pp. 140-54. 44. Per una lettura interessante sul tema dell’intelligenza, vedi D. Lubinski, R.M. Webb, M.J. Morelock, e C.P. Benbow, “Top 1 in 10,000: A 10-Year Follow-Up of the Profoundly Gifted,” Journal of Applied Psychology, August 2001, pp. 718-29; e L.T. Benjamin Jr, “The Birth of American Intelligence Testing,” Monitor on Psychology, January 2009, pp. 20-21. 45. Per un ottimo aggiornamento sul tema dell’intelligenza, comprese le distinzioni terminologiche e una prospettiva storica sulla controversia relativa al QI, vedi R.A. Weinberg, “Intelligence and IQ,” American Psychologist, February 1989, pp. 98-104. Vedi anche G. Toppo, “Poverty Dramatically Affects Children’s Brains,” USA Today, December 8, 2008, p. 4D; S. Begley, “Sex, Race and IQ: Off Limits?” Newsweek, April 20, 2009, p. 53; e S. Kanazawa, “Evolutionary Psychology and Intelligence Research,” American Psychologist, May-June 2010, pp. 279-89. 46. Vedi Weinberg, “Intelligence and IQ”; e W A Walker e C Humphries, “Starting the Good Life in the Womb,” Newsweek, September 17, 2007, pp. 56, 58. 47. B. Azar, “People Are Becoming Smarter – Why?” APA Monitor, June 1996, p. 20. Vedi anche K. Baker, “Why Do IQ Scores Vary By Nation?” Newsweek, August 2, 2010, p. 14; S. Begley, “Can You Build a Better Brain?” Newsweek, January 10-17, 2011, pp. 40-45; and S. Begley, “Get

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Note al volume Smarter: A Group of Thinkers Explains How,” Newsweek, January 24, 2011, p. 42 48. Vedi D. Lubinski, “Introduction to the Special Section on Cognitive Abilities: 100 Years after Spearman’s (1904) ‘General Intelligence, Objectively Determined and Measured,’ ” Journal of Personality and Social Psychology, January 2004, pp. 96-111; e R. Gilkey e C. Kilts, “Cognitive Fitness,” Harvard Business Review, November 2007, pp. 53-66. 49. Vedi F.L. Schmidt e J.E. Hunter, “Employment Testing: Old Theories and New Research Findings,” American Psychologist, October 1981, p. 1128; J.W.B. Lang, M. Kersting, U.R. Hülsheger, e J. Lang, “General Mental Ability, Narrower Cognitive Abilities, and Job Performance: The Perspective of the Nested-Factors Model of Cognitive Abilities,” Personnel Psychology, Autumn 2010, pp. 595-640; e M.A. Maltarich, A.J. Nyberg, e G. Reilly, “A Conceptual and Empirical Analysis of the Cognitive Ability-Voluntary Turnover Relationship,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1058-70. 50. Vedi H. Gardner, Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences, 10th anniversary ed (New York: Basic Books, 1993); H. Gardner, Intelligence Reframed: Multiple Intelligences for the 21st Century (New York: Basic Books, 2000); e H. Gardner, Five Minds for the Future (Boston: Harvard Business School Press, 2009). 51. Per una buona panoramica sulla vita e le opere di Gardner vedi M .K. Smith, “Howard Gardner and Multiple Intelligences,” Encyclopedia of Informal Education, 2002, www.infed.org/thinkers/gardner.htm. Vedi anche B Fryer, “The Ethical Mind: A Conversation with Psychologist Howard Gardner,” Harvard Business Review, March 2007, pp. 51-56. 52. Vedi D.A. Shepherd e D.F. Kuratko, “The Death of an Innovative Project: How Grief Recovery Enhances Learning,” Business Horizons, September-October 2009, pp. 451-58; D. Ariely, “The Long-Term Effects of ShortTerm Emotions,” Harvard Business Review, January-February 2010, p. 38; T. Menon e L. Thompson, “Envy at Work,” Harvard Business Review, April 2010, pp. 74-79; e J.S. Lerner e K. Shonk, “How Anger Poisons Decision Making,” Harvard Business Review, September 2010, p. 26. 53. R.S. Lazarus, Emotion and Adaptation (New York: Oxford University Press, 1991), p. 6. Vedi anche P. Kuppens, A. Realo, e E. Diener, “The Role of Positive and Negative Emotions in Life Satisfaction Judgment across Nations,” Journal of Personality and Social Psychology, July 2008, pp. 66-75; e M.J. Burke, et al., “The Dread Factor: How Hazards and Safety Training Infl uence Learning and Performance,” Journal of Applied Psychology, January 2011, pp. 46-70. 54. Tratto da una discussione in R.D. Arvey, G.L. Renz, e T.W. Watson, “Emotionality and Job Performance: Implications for Personnel Selection,” in Research in Personnel and Human Resources Management, vol. 16, edito da G.R. Ferris (Stamford, CT: JAI Press, 1998), pp. 103-47. Vedi anche S.G. Young e K. Hugenberg, “Mere Social Categorization Modulates Identifi cation of Facial Expressions of Emotions,” Journal of Personality and Social Psychology, December 2010, pp. 964-77; e C Harmon-Jones, B J Schmeichel, E Mennit, e E Harmon-Jones, “The Expression of Determination: Similarities Between Anger and Approach-Related Positive Affect,” Journal of Personality and Social Psychology, January 2011, pp. 172-81. 55. Basato su L. Van Boven, J. Kane, P.A. McGraw, e J Dale, “Feeling Close: Emotional Intensity Reduces Perceived Psychological Distance,” Journal of Personality and Social Psychology, June 2010, pp. 872-85. 56. D. Goleman, Emotional Intelligence (New York: Bantam Books, 1995), p. 34. Per ulteriori informazioni, vedi J. Antonakis, N.M. Ashkanasy, e M.T. Dasborough, “Does Leadership Need Emotional Intelligence?” The Leadership Quarterly, April 2009, pp. 247-61; T. DeAngelis, “Social Awareness + Emotional Skills = Successful Kids,” Monitor on Psychology, April 2010, pp. 46-49; e “Interaction: When Emotional Reasoning Trumps IQ,” Harvard Business Review, December 2010, pp. 20-21. 57. Basato su D.L. Joseph e D.A. Newman, “Emotional Intelligence: An Integrative Meta-Analysis and Cascading Model,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 54-78.

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439 Capitolo 6 1. La teoria di Schwartz è illustrata in S.H. Schwartz, “Universals in the Content and Structure of Values: Theoretical Advances and Empirical Tests in 20 Countries,” in Advances in Experimental Social Psychology, ed M. Zanna (New York: Academic Press, 1992), pp. 1-65. 2. A. Bardi e S.H. Schwartz, “Values and Behavior: Strength and Structure of Relations,” Personality and Social Psychology Bulletin, October 2003, p. 1208. 3. Ibid., pp. 1207-20; e J.A. Lee, G.N. Soutar, e J. Sneddon, “Personal Values and Social Marketing: Some Research Suggestions,” Journal of Research for Consumers,” 2010, pp. 1-4. 4. Vedi Bardi e Schwartz, “Values and Behavior: Strength and Structure of Relations”; e S.T. Lyons, C.A. Higgins, e L. Duxbury, “Work Values: Development of a New Three-Dimensional Structure Based on Confirmatory Smallest Space Analysis,” Journal of Organizational Behavior, October 2010, pp. 969-1002. 5. K. Helliker, “You Might as Well Face It: You’re Addicted to Success,” The Wall Street Journal, February 10, 2009, p. D1. 6. L’esempio è tratto da D. Lieberman, “L.A. Times’ Publisher Forced Out Over Refusal to Cut Staff,” USA Today, October 6, 2006, p. 1B. 7. Per un esame approfondito dell’adattamento persona-ambiente, vedi A.L. Kristof-Brown, R.D. Zimmerman, e E.C. Johnson, “Consequences of Individuals’ Fit at Work: A Meta-Analysis of Person-Job, Person-Organization, Person-Group, and Person-Supervisor Fit,” Personnel Psychology, Summer 2005, pp. 281-342. 8. Risultati a supporto possono essere consultati in ibid.; e J.P. Meyer, T.D. Hecht, H. Gill, e L. Toplonytsky, “Person-Organization (Culture) Fit and Employee Commitment Under Conditions of Organization Change: A Longitudinal Study,” Journal of Vocational Behavior, June 2010, pp. 458-73. 9. P.L. Perrewé e W.A. Hochwarter, “Can We Really Have It All? The Attainment of Work and Family Values,” Current Directions in Psychological Science, February 2001, p. 31. 10. Vedi M. Wang, S. Liu, Y. Zhan, e J. Shi, “Daily Work-Family Conflict and Alcohol Use: Testing the Cross-Level Moderation Effects of Peer Drinking Norms and Social Support,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 377-86; e P. Wang, J.J. Lawler, e K. Shi, “Work-Family Confl ict, Self-Effi cacy, Job Satisfaction, and Gender: Evidences from Asia,” Journal of Leadership & Organizational Studies, May 2010, pp. 298-308. 11. Risultati esaminati in L. Winerman, “A Healthy Mind, a Longer Life,” Monitor on Psychology, November 2006, pp. 42-44. 12. Vedi D.A. Harrison, D.A. Newman, e P.L. Roth, “How Important Are Job Attitudes? Meta-Analytic Comparisons of Integrative Behavioral Outcomes and Time Sequences,” Academy of Management Journal, April 2006, pp. 305-25; e M. Riketta, “The Causal Relation between Job Attitudes and Performance: A Meta-Analysis of Panel Studies,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 472-81. 13. M. Fishbein e I. Ajzen, Belief, Attitude, Intention and Behavior: An Introduction to Theory and Research (Reading, MA: Addison-Wesley Publishing, 1975), p. 6. 14. Le ricerche sugli atteggiamenti sono esaminate nel dettaglio in A.P. Brief, Attitudes in and around Organizations (Thousand Oaks, CA: Sage, 1998), pp. 49-84. 15. Per un’esposizione dettagliata di questa teoria, vedi L. Festinger, A Theory of Cognitive Dissonance (Stanford, CA: Stanford University Press, 1957). 16. Vedi B M Staw e J Ross, “Stability in the Midst of Change: A Dispositional Approach to Job Attitudes,” Journal of Applied Psychology, August 1985, pp. 469-80. 17. Dati da P.S. Visser e J.A. Krosnick, “Development of Attitude Strength Over the Life Cycle: Surge and Decline,” Journal of Personality and Social Psychology, December 1998, pp. 1389-410.

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440 18. I. Ajzen, “The Theory of Planned Behavior,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, vol. 50 (1991), p. 188. 19. L. Yerkes, Fun Works: Creating Places Where People Love to Work (San Francisco: Berrett-Koehler, 2001), p. 73. 20. J.P. Meyer e L. Herscovitch, “Commitment in the Workplace: Toward a General Model,” Human Resource Management Review, Autumn 2001, p. 301. 21. J.P. Meyer e N.J. Allen, “A Three-Component Conceptualization of Organizational Commitment,” Human Resource Management Review, Spring 1991, p. 67. 22. Vedi B. Joo, “Organizational Commitment for knowledge workers: The Role of Perceived Organizational Learning Culture, Leader-Member Exchange Quality, and Turnover Intention,” Human Resource Development Quarterly, Spring 2010, pp 69-85; B. Joo e S. Park, “Career Satisfaction, Organizational Commitment, and Turnover Intention: The Effects of Goal Orientation, Organizational Learning Culture and Developmental Feedback,” Leadership & Organization Development, 2010, pp. 482-500; e R.E. Johnson, D. Chang, e L-Q. Yang, “Commitment and Motivation at Work: The Relevance of Employee Identity and Regulatory Focus,” Academy of Management Review, April 2010, pp. 226-45. 23. Definizione fornita da D.M. Rousseau, “Psychological and Implied Contracts in Organizations,” Employee Responsibilities and Rights Journal, June 1989, pp. 121-39. 24. W.A. Kahn, “Psychological Conditions of Personal Engagement and Disengagement at Work,” Academy of Management Journal, December 1990, p. 695. 25. W.A. Macy, B. Schneider, K.M. Barbera, e S.A. Young, Employee Engagement: Tools for Analysis, Practice, and Competitive Advantage (West Sussex, United Kingdom: Wiley-Blackwell, 2009), p. 20. 26. Vedi W.H. Macey e B. Schneider, “The Meaning of Employee Engagement,” Industrial and Organizational Psychology, March 2008, pp. 3-30. 27. C.A. Hartnell, A.Y. Ou, e A. Kinicki, “Organizational Culture and Organizational Effectiveness: A Meta-Analytic Investigation of the Competing Values Framework’s Theoretical Suppositions,” Journal of Applied Psychology, in corso di stampa; e C. D’Angela, “In Post-Recession World, Recognition Boosts Recovery,” The Power of Incentives: Special Advertising Supplement in HR Magazine, September 2010, pp. 93-97. 28. Vedi Kahn, “Psychological Conditions of Personal Engagement and Disengagement at Work.” 29. Vedi B. Schneider e K.B. Paul, “In the Company We Trust,” HR Magazine, January 2011, pp. 40-43; e P. Yeramyan, “Building the (Workplace) Ties that Bind,” Fortune, December 6, 2010, p. 78. 30. Vedi B.L. Rich, J.A. Lepine, e E.R. Crawford, “Job Engagement: Antecedents and Effects on Job Performance,” Academy of Management Journal, June 2010, pp. 617-35; J.S. Stoner e V.C. Gallagher, “Who Cares? The Role of Job Involvement in Psychological Contract Violation,” Journal of Applied Social Psychology, June 2010, pp. 1490-1514. 31. Risultati consultabili in “Generation Gap: On Their Bosses, Millennials Happier Than Boomers,” The Wall Street Journal, November 15, 2010, p. B6; e J. Schramm, “Post-Recession Job Dissatisfaction,” HR Magazine, July 2010, p. 88. 32. Per una rassegna sullo sviluppo dello JDI (indice descrittivo del lavoro), vedi P.C. Smith, L.M. Kendall, e C.L. Hulin, The Measurement of Satisfaction in Work and Retirement (Skokie, IL: Rand McNally, 1969). 33. S. Miller, “HR, Employees Vary on Job Satisfaction,” HR Magazine, August 2007, p. 32. 34. Per una rassegna dei modelli basati sulla soddisfazione dei bisogni, vedi E.F. Stone, “A Critical Analysis of Social Information Processing Models of Job Perceptions and Job Attitudes,” in Job Satisfaction: How People Feel about Their Jobs and How It Affects Their Performance, edito da C.J. Cranny, P. Cain Smith, e E.F. Stone (New York: Lexington Books, 1992), pp. 21-52.

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Note al volume 35. I risultati si trovano in J. Cohen-Charash e P.E. Spector, “The Role of Justice in Organizations: A Meta-Analysis,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, November 2001, pp. 278-321. 36. Vedi A.J. Kinicki, F.M. McKee- Ryan, C.A. Schriesheim, e K.P. Carson, “Assessing the Construct Validity of the Job Descriptive Index: A Review and Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, February 2002, pp. 14-32. 37. Vedi S.P. Brown, “A Meta-Analysis and Review of Organizational Research on Job Involvement”. 38. D.W. Organ, “The Motivational Basis of Organizational Citizenship Behavior,” in Research in Organizational Behavior, edito da B.M. Staw e L.L. Cummings (Greenwich, CT: JAI Press, 1990), p. 46. 39. I risultati si trovano in B.J. Hoffman, C.A. Blair, J.P. Meriac, e D.J. Woehr, “Expanding the Criterion Domain? A Quantitative Review of the OCB Literature,” Journal of Applied Psychology, March 2007, pp. 555-66. 40. Vedi N.P. Podsakoff, S.W. Whiting, P.M. Podsakoff, e B.D. Blume, “Individual- and Organizational-Level Consequences of Organizational Citizenship Behaviors: A Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, January 2009, pp. 122-41; e D.S. Whitman, D.L. Van Rooy, e C. Viswesvaran, “Satisfaction, Citizenship Behaviors, and Performance in Work Units: A Meta-Analysis of Collective Relations,” Personnel Psychology, Spring 2010, pp. 41-81. 41. Vedi la relativa discussione in S. Lau, “Positive Turnover, Disability Awareness, Employee Selection Guidelines,” HR Magazine, January 2011, p. 20. 42. I risultati si trovano in Griffeth, Hom, e Gaertner, pp. 463-88. 43. I risultati si trovano in Podsakoff, LePine, e LePine, pp. 438-54. 44. Vedi A. Novotney, “Boosting Morale,” Monitor on Psychology, December 2010, pp. 32-34; C. Fritz, M. Yankelevich, A. Zarubin, e P. Barger, “Happy, Healthy, and Productive: The Role of Detachment From Work During Nonwork Time,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 977-83; e S. Sonnentag, C. Binnewies, e E.J. Mojza, “Staying Well and Engaged When Demands Are High: The Role of Psychological Detachment,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 965-76. 45. I diversi modelli sono discussi in T.A. Judge, C.J. Thoresen, J.E. Bono, e G.K. Patton, “The Job Satisfaction-JobPerformance Relationship: A Qualitative and Quantitative Review,” Psychological Bulletin, May 2001. pp. 376-407. 46. I risultati si trovano in Ibid. 47. Vedi P.E. Spector e S. Fox, “Theorizing About the Deviant Citizen: An Attributional Explanation of the Interplay of Organizational Citizenship and Counterproductive Work Behavior,” Human Resource Management Review, June 2010, pp. 132-43; w K Tyler, “Helping Employees Cool It,” HR Magazine, April 2010, pp. 53-55. 48. Vedi B. Leonard, “Survey: 10% of Employees Report Harassment at Work,” HR Magazine, October 2010, p. 18; e B. Mirza, “Attorneys Advise Action to Prevent Bullying at Work,” HR Magazine, 2010, p. 16. 49. Vedi B.J. Tepper, C.A. Henle, L.S. Lambert, R.A. Giacalone, e M.K. Duffy, “Abusive Supervision and Subordinates’ Organization Deviance,” Journal of Applied Psychology, July 2008, pp. 721-32. 50. B.W. Roberts, P.D. Harms, A. Caspi, e T.E. Moffitt, “Predicting the Counterproductive Employee in a Child-to-Adult Prospective Study,” Journal of Applied Psychology, September 2007, pp. 1427-36. 51. Vedi P.E. Spector e J.A. Bauer, e S. Fox, “Measurement Artifacts in the Assessment of Counterproductive Work Behavior and Organizational Citizenship Behavior: Do We Know What We Think We Know?” Journal of Applied Psychology, July 2010, pp. 781-90; e L.R. Bolton, L.K. Becker, e L.K Barber, “Big Five Trait Predictions of Differential Counterproductive Work Behavior Dimensions,” Personality and Individual Differences, October 2010, pp. 537-41. 52. J.R. Detert, L.K. Treviño, E.R. Burris, e M. Andiappan, “ Managerial Modes of Influence and Counterproductivity in Organizations: A Longitu-

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Note al volume dinal Business-Unit-Level Investigation,” Journal of Applied Psychology, July 2007, pp. 993-1005.

Capitolo 7 1. Estratto da P. Lencioni, “The Power of Saying ‘We Blew It,’” Bloomberg Businessweek, February 22, 2010, p. 84. 2. Vedi “Bernard Madoff, January 5, 2011. Tratto da http://en.wikipedia.org/ wiki/Bernard_Madoff, consultato il 10 gennaio 2011. 3. Vedi L. Winerman, “Screening Surveyed,” Monitor on Psychology, January 2006, pp. 28-29. 4. S.T. Fiske e S.E. Taylor, Social Cognition, 2nd ed (Reading, MA: Addison-Wesley Publishing, 1991), pp. 1-2. 5. Il bias negativo è esaminato in A. Weinberg e G. Hajcak, “ Beyond Good and Evil: The Time-Course of Neural Activity Elicited by Specific Picture Content,” Emotion, December 2010, pp. 767-82. 6. E. Rosch, C.B. Mervis,W.D. Gray, D.M. Johnson, e P. Boyes- Braem, “Basic Objects in Natural Categories,” Cognitive Psychology, July 1976, p. 383. 7. I risultati si trovano in M. Rotundo, D-H. Nguyen, e P.R. Sackett, “A Meta-Analytic Review of Gender Differences in Perceptions of Sexual Harassment,” Journal of Applied Psychology, October 2001, pp. 914-22. 8. Per un’analisi dettagliata della struttura e dell’organizzazione della memoria, vedi L.R. Squire, B. Knowlton, e G. Musen, “The Structure and Organization of Memory,” in Annual Review of Psychology, edito da LW Porter e M R Rosenzweig (Palo Alto, CA: Annual Reviews Inc., 1993), vol. 44, pp. 453-95. 9. Vedi M.R. Barrick, B.W. Swider, e G.L. Stewart, “Initial Evaluations in the Interview: Relationships with Subsequent Interviewer Evaluations and Employment Offers,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1163-72. 10. La cognizione implicita è esaminata in C.E. Drake, K.K. Kellum, K.G. Wilson, J.B. Luoma, J.H. Weinstein, e C.H. Adams, “Examining the Implicit Relational Assessment Procedure: Four Preliminary Studies,” The Psychological Record, Winter 2010, pp. 81-100. 11. Vedi M. Orey, “White Men Can’t Help It,” BusinessWeek, May 15, 2006, pp. 54, 57. 12. I dettagli di questo studio si trovano in C K Stevens, “Antecedents of Interview Interactions, Interviewers’ Ratings, and Applicants’ Reactions,” Personnel Psychology, Spring 1998, pp. 55-85. 13. Vedi R.C. Mayer e J.H. Davis, “The Effect of the Performance Appraisal System on Trust for Management: A Field Quasi-Experiment,” Journal of Applied Psychology, February 1999, pp. 123-36. 14. I risultati si trovano in W.H. Bommer, J.L. Johnson, G.A. Rich, P.M. Podsakoff, e S.B. Mackenzie, “On the Interchangeability of Objective and Subjective Measures of Employee Performance: A Meta-Analysis,” Personnel Psychology, Autumn 1995, pp. 587-605. 15. L’efficacia della formazione del valutatore è confermata in D.V. Day e L.M. Sulsky, “Effects of Frame-of-Reference Training and Information Configuration on Memory Organization and Rating Accuracy,” Journal of Applied Psychology, February 1995, pp. 158-67. 16. I risultati si trovano in J.S. Phillips e R.G. Lord, “Schematic Information Processing and Perceptions of Leadership in Problem-Solving Groups,” Journal of Applied Psychology, August 1982, pp. 486-92; e D.D. Cremer, M.V. Dijke, e D.M. Mayer, “Cooperating When ‘You’ and ‘I’ are Treated Fairly: The Moderating Role of Leader Prototypicality,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1121-33. 17. Vedi M. Beck, “Conquering Fear,” The Wall Street Journal, January 4, 2011, pp. D1, D2; e W. Darr e G. Johns, “Work Strain, Health, and Absenteeism: A Meta-Analysis,” Journal of Occupational Health Psychology, October 2008, pp. 293-318. 18. S. Power, “Mickey Mouse, Nike Give Advice on Air Security,” The Wall Street Journal, January 24, 2002, p. B4.

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441 19. C.M. Judd e B. Park, “Definition and Assessment of Accuracy in Social Stereotypes,” Psychological Review, January 1993, p. 110. 20. Per un’analisi dettagliata dell’accuratezza dello sterotipo, vedi T.R. Cain, J.T. Crawford, K. Harber, e F. Cohen, “The Unbearable Accuracy of Stereotypes,” in Handbook of Prejudice, Stereotyping, and Discrimination, ed T D Nelson (New York: Psychology Press, 2009), pp. 199-225. 21. La formazione e il radicamento degli stereotipi sono esaminate in M.L. Pelley, J.S. Reimers, G. Calvini, R. Spears, T. Beesley, e R.A. Murphy, “Stereotype Formation: Biased by Association,” Journal of Experimental Psychology, February 2010, pp. 138-61. 22. Vedi E.L. Paluck e D.P. Green, “Prejudice Reduction: What Works? A Review and Assessment of Research and Practice,” Annual Review of Psychology, 2009, pp. 339-67. 23. Vedi J.V. Sanchez-Hucles e D.D. Davis, “Women and Women of Color in Leadership,” American Psychologist, April 2010, pp. 171-81; e S. Bruckmüller e N.R. Branscombe, “How Women End Up On the ‘Glass Cliff,’ Harvard Business Review, January-February 2011, p. 26. 24. Vedi J.D. Olian, D.P. Schwab, e Y. Haberfeld, “The Impact of Applicant Gender Compared to Qualifications on Hiring Recommendations: A Meta-Analysis of Experimental Studies,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, April 1988, pp. 180-95. 25. I risultati dell’analisi comparata si trovano in K.P. Carson, C.L. Sutton, e P.D. Corner, “Gender Bias in Performance Appraisals: A Meta-Analysis,” paper presented at the 49th Annual Academy of Management Meeting,Washington, DC: 1989. I risultati dello studio sul campo si trovano in T J Maurerand M.A. Taylor, “Is Sex by Itself Enough? An Exploration of Gender Bias Issues in Performance Appraisal,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, November 1994, pp. 231-51. 26. Vedi J. Landau, “The Relationship of Race and Gender to Managers’ Ratings of Promotion Potential,” Journal of Organizational Behavior, July 1995, pp. 391-400. 27. K.S. Lyness e M.E. Heilman, “When Fit Is Fundamental: Performance Evaluations and Promotions of Upper-Level Female and Male Managers,” Journal of Applied Psychology, July 2006, pp. 777-85. 28. Per una rassegna su questa ricerca, vedi R.A. Posthuma e M.A. Campion, “Age Stereotypes in the Workplace: Common Stereotypes, Moderators, and Future Research Directions,” Journal of Management, February 2009, pp. 158-88. 29. Per una rassegna completa, vedi S.R. Rhodes, “Age-Related Differences in Work Attitudes and Behavior: A Review and Conceptual Analysis,” Psychological Bulletin, March 1983, pp. 328-67. 30. Vedi T.W.H. Ng e D.C. Feldman, “The Relationship of Age to Ten Dimensions of Job Performance,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 392-423. 31. Per i dettagli, vedi B J Avolio, D.A. Waldman, e M.A. McDaniel, “Age and Work Performance in Nonmanagerial Jobs: The Effects of Experience and Occupational Type,” Academy of Management Journal, June 1990, pp. 407-22. 32. D.H. Powell, “Aging Baby Boomers: Stretching Your Workforce Options,” HR Magazine, July 1998, p. 83. 33. I risultati si trovano in R.W. Griffeth, P.W. Hom, e S. Gaertner, “A Meta-Analysis of Antecedents and Correlates of Employee Turnover: Update, Moderator Tests, and Research Implications for the Next Millennium,” Journal of Management, 2000, pp. 463-88. 34. Vedi J.J. Martocchio, “Age-Related Differences in Employee Absenteeism: A Meta-Analysis,” Psychology and Aging, December 1989, pp. 409-14. 35. T. DeAngelis, “Unmasking ‘Racial MicroAggressions,’ ” Monitor on Psychology, February 2009, p. 44. 36. Ibid., p. 43. 37. Vedi S.M. Colarelli, D.A. Poole, K. Unterborn, e G.C. D’Souza, “Racial Prototypicality, Affi rmative Action, and Hiring Decisions in a Multiracial World,” International Journal of Selection and Assessment,” June 2010,

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Note al volume

442 pp. 166-73; e E.B. King e A.S. Ahmad, “An Experimental Field Study of Interpersonal Discrimination Toward Muslim Job Applicants,” Personnel Psychology, Winter 2010, pp. 881-906. 38 Vedi “About Tiger Woods,” http://web.tigerwoods.com/aboutTiger/bio, consultato l’11 gennaio 2011. 39. I risultati si trovano in A.I. Huffcutt e P.L. Roth, “Racial Group Differences in Employment Interview Evaluations,” Journal of Applied Psychology, April 1998, pp. 179-89; e T-R. Lin, G.H. Dobbins, e J-L. Farh, “A Field Study of Race and Age Similarity Effects on Interview Ratings in Conventional and Situational Interviews,” Journal of Applied Psychology, June 1992, pp. 363-71. 40. Vedi D.A. Waldman e B.J. Avolio, “Race Effects in Performance Evaluations: Controlling for Ability, Education, and Experience,” Journal of Applied Psychology, December 1991, pp. 897-901; e E.D. Pulakos, L.A. White, S.H. Oppler, e W.C. Borman, “Examination of Race and Sex Effects on Performance Ratings,” Journal of Applied Psychology, October 1989, pp. 770-80. 41. H-H.D. Nguyen e A.M. Ryan, “Does Stereotype Threat Affect Test Performance of Minorities and Women? A Meta-Analysis of Experimental Evidence,” Journal of Applied Psychology, November 2008, p. 1314. 42. Vedi ibid., pp. 1314-34; e J. Owens e D.S. Massey, “ Stereotype Threat and College Academic Performance: A Latent Variable Approach,” Social Science Research, January 2011, pp. 150-66. 43 Vedi “Economic News Release: Employment Situation Summary Table A. Household data, seasonally adjusted,” Bureau of Labor Statistics. http:// www.bls.gov/news.release/empsit.a.htm, consultato l’11 gennaio 2011; e “Unemployment Rate for People With Disabilities Continues to Rise, Part One.” http://www.socialsecuritydisabilitylosangeles.com/ 2011/ 11/ unemployment-rate-for-people, consultato l’11 gennaio 2011. 44 Vedi “New Monthly Data Series on the Employment Status of People with a Disability,” US Bureau of Labor Statistics. http://data.bls.gov/cgi-bin/print. pl/cps/ cpsdisability.htm, ultima modifica il 6 febbraio 2009. 45. Vedi Day e Sulsky, “Effects of Frame-of-Reference Training and Information Configuration on Memory Organization and Rating Accuracy.” 46. R. Rosenthal e L. Jacobson, Pygmalion in the Classroom: Teacher Expectation and Pupils’ Intellectual Development (New York: Holt, Rinehart & Winston, 1968). Vedi anche C. Haimerl e S. Fries, “Self-Fulfilling Prophecies in Media-Based Learning: Content Relevance Moderates Quality Expectation Effects on Academic Achievement,” Learning and Instruction, December 2010, pp. 498-510. 47. D.B. McNatt, “Ancient Pygmalion Joins Contemporary Management: A Meta-Analysis of the Result,” Journal of Applied Psychology, April 2000, pp. 314-22. Vedi anche T Inamori e F Analoui, “Beyond Pygmalion Effect: The Role of Managerial Perception,” Journal of Management Development, 2010, pp. 306-21. 48. G. Natanovich e D. Eden, “Pygmalion Effects among Outreach Supervisors and Tutors: Extending Sex Generalizability,” Journal of Applied Psychology, November 2008, pp. 1382-8. 49. Vedi ibid.; e X.M. Bezuijen, P.T. van den Berg, K. van Dam, e H. Thierry, “Pygmalion and Employee Learning: The Role of Leader Behaviors,” Journal of Management, October 2009, pp. 1248-67. 50. Una definizione e un’analisi dell’effetto Golem si trovano in O.B. Davidson e D. Eden, “Remedial Self-Fulfilling Prophecy: Two Field Experiments to Prevent Golem Effects among Disadvantaged Women,” Journal of Applied Psychology, June 2000, pp. 386-98. 51. Del ruolo delle aspettative positive alla Google si parla in A Lashinsky, “Search and Joy,” Fortune, January 22, 2007, pp. 70-82. 52. Vedi R. Courtny, “Believe You Can Succeed and It’s Likely You Will.” http://www.leadershippundit.com/2011/01/believe-you-can-succeed-andits-likely-you-will/, consultato l’11 gennaio 2011; e M. Beck, “Conquering Fear,” The Wall Street Journal, January 4, 2011, pp. D1, D2.

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53. Il modello di Kelley è analizzato nel dettaglio in H.H. Kelley, “The Processes of Causal Attribution,” American Psychologist, February 1973, pp. 107-28. 54. Vedi J. Reb e G.J. Greguras, “Understanding Performance Ratings: Dynamic Performance, Attributions, and Rating Purpose,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 213-20. 55. I. Choi, R.E. Nisbett, e A. Norenzayan,“Causal Attribution Across Cultures: Variation and Universality,” Psychological Bulletin, January 1999, pp. 47-63. 56. G. Kolev, “The Stock Market Bubble, Shareholders’ Attribution Bias and Excessive Top CEO Pay,” The Journal of Behavioral Finance, April 2008, pp. 62-71. 57. R.J. Grossman, “What to Do About Substance Abuse,” HR Magazine, November 2010, pp. 33-38. 58. J. Metcalfe, “Recruiting Phone Calls at Center of NCAA Hearing,” The Arizona Republic, August 13, 2010, p. C7. 59. Risultati si trovano in E.W.K. Tsang, “Self-Serving Attributions in Corporate Annual Reports: A Replicated Study,” Journal of Management Studies, January 2002, pp. 51-65. 60. Una breve relazione su questa ricerca si trova in T.S. Duval e P.J. Silvia, “Self-Awareness, Probability of Improvement, and the Self- Serving Bias,” Journal of Personality and Social Psychology, January 2002, pp. 49-61. 61. Ibid., p. 58 62. I dettagli si trovano in S.E. Moss e M.J. Martinko, “The Effects of Performance Attributions and Outcome Dependence on Leader Feedback Behavior Following Poor Subordinate Performance,” Journal of Organizational Behavior, May 1998, pp. 259-74; e E.C. Pence,W.C. Pendelton, G.H. Dobbins, e J.A. Sgro, “Effects of Causal Explanations and Sex Variables on Recommendations for Corrective Actions Following Employee Failure,” Organizational Behavior and Human Performance, April 1982, pp. 227-40. 63. See M. O’Neill, “Luck, or Hard Work?” Forbes, February 26, 2007, p. 38. 64. Vedi D. Konst, R. Vonk, e R.V.D. Vlist, “Inferences about Causes and Consequences of Behavior of Leaders and Subordinates,” Journal of Organizational Behavior, March 1999, pp. 261-71 65. Vedi M. Miserandino, “Attributional Retraining as a Method of Improving Athletic Performance,” Journal of Sport Behavior, August 1998, pp. 286-97.

Capitolo 8 1. Estratto da S. Banchero, “Teachers Lose Jobs Over Test Scores,” The Wall Street Journal, July 24, 2010, p. A3; W. McGuran, “Giving Lousy Teachers the Boot,” The Wall Street Journal, July 27, 2010, p. A17; e R. Whitmire, “Can Rhee’s Reforms Work Without Rhee’s Toughness?” The Washington Post, January 21, 2011, http://www.washingtonpost.com/wpdyn/content/ article/2011/01/21 0AR2011012105238.ht. 2. T.R. Mitchell, “Motivation: New Direction for Theory, Research, and Practice,” Academy of Management Review, January 1982, p. 81. 3. Per una panoramica delle teorie motivazionali incentrate sulla predisposizione individuale e sui processi cognitivi, vedi “Motivation in Today’s Workplace: The Link to Performance,” Research Quarterly, Second Quarter 2010, pp. 1-9. Pubblicato dalla Society For Human Resource Management. 4. Per una descrizione completa della teoria di Maslow, vedi A.H. Maslow, “A Theory of Human Motivation,” Psychological Review, July 1943, pp. 370-96. 5. Vedi W.B. Swann Jr, C. Chang-Schneider, e K.L. McClarty, “Do People’s Self-Views Matter?” American Psychologist, February- March 2007, pp. 84-94. 6. Applicazioni della teoria di Maslow si trovano in M Hofman, “The Idea That Saved My Company,” Inc., October 2007, www.inc.com; and C. Conley, How Great Companies Get Their Mojo from Maslow (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 2007).

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Note al volume 7. Per una rassegna completa della teoria ERG, vedi C.P. Alderfer, Existence, Relatedness, and Growth: Human Needs in Organizational Settings (New York: Free Press, 1972). 8. L. Buchanan, “Managing One-to-One,” Inc., October 2001, p. 87. 9. H.A. Murray, Explorations in Personality (New York: John Wiley & Sons, 1938), p. 164. 10. Vedi K.G. Shaver, “The Entrepreneurial Personality Myth,”Business and Economic Review, April-June 1995, pp. 20-23. 11. Vedi S.W. Spreier, M.H. Fontaine, e R.L. Malloy, “Leadership Run Amok,” Harvard Business Review, June 2006, pp. 72-82. 12. Vedi H Heckhausen e S Krug, “Motive Modification,” in Motivation and Society, edito da A J Stewart (San Francisco: Jossey- Bass, 1982). 13. I risultati si trovano in D.B. Turban e T.L. Keon, “Organizational Attractiveness: An Interactionist Perspective,” Journal of Applied Psychology, April 1993, pp. 184-93. 14. Citato in Spreier, Fontaine, e Malloy, p. 2. 15. Vedi F. Herzberg, B. Mausner, e B.B. Snyderman, The Motivation to Work (New York: John Wiley & Sons, 1959). 16. Vedi J. Flint, “How to Be A Player,” Bloomberg Businessweek, January 24-January 30, 2011, pp. 108-9. 17. F. Herzberg, “One More Time: How Do You Motivate Employees?” Harvard Business Review, January-February 1968, p. 56. 18. Per una rassegna ragionata della ricerca sulla teoria di Herzberg, vedi C.C. Pinder, Work Motivation: Theory, Issues, and Applications (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1984). 19. Vedi R.G. Satter e J. Lawless, “WikiLeaks Supporters Protest Via Cyberattacks,” The Arizona Republic, December 10, 2010, p. A15. 20. Il processo comparativo è analizzato in S.T. Fiske, “Envy Up, Scorn Down: How Comparison Divides Us,” American Psychologist, November 2010, pp. 698-706. 21. Vedi P. Bamberger e E. Belogolovsky, “The Impact of Pay Secrecy on Individual Task Performance,” Personnel Psychology, Winter 2010, pp. 965-96; e M.C. Bolino e W.H. Turnley, “Old Faces, New Places: Equity Theory in Cross-Cultural Contexts,” Journal of Organizational Behavior, January 2008, pp. 29-50. 22. N. Koppel e V. O’Connell, “Pay Gap Widens at Big Law Firms As Partners Chase Star Attorneys,” The Wall Street Journal, February 8, 2011, p. A1. 23. Le reazioni all’iniquità sono state esaminate in D.P. Skarlicki e D.E. Rupp, “Dual Processing and Organizational Justice: The Role of Rational Versus Experiential Processing in Third-Party Reactions to Workplace Mistreatment,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 944-52; e J. Goodstein e K. Aquino, “And Restorative Justice for All: Redemption, Forgiveness, and Reintegration in Organizations,” Journal of Organizational Behavior, May 2010, pp. 624-28. 24. J. Bernoff e T. Schadler, “Empowered,” Harvard Business Review, July-August 2010, pp. 95-101. 25. Per una rassegna ragionata della teoria sulla giustizia organizzativa e sulla ricerca relativa, vedi R. Cropanzano, D.E. Rupp, C.J. Mohler, e M. Schminke, “Three Roads to Organizational Justice,” in Research in Personnel and Human Resources Management, vol. 20, edito da G.R. Ferris (New York: JAI Press, 2001), pp. 269-329. 26. J.A. Colquitt, D.E. Conlon, M.J. Wesson, C.O.L.H. Porter, e K.Y Ng, “Justice at the Millennium: A Meta-Analytic Review of 25 Years of Organizational Justice Research,” Journal of Applied Psychology, June 2001, p. 426. 27. I risultati di questi due studi si trovano in N.E. Fassina, D.A. Jones, e K.L. Uggerslev, “Meta-Analytic Tests of Relationships between Organizational Justice and Citizenship Behavior: Testing Agent-System and Shared-Variance Models,” Journal of Organizational Behavior, August 2008, pp. 805-28; Y. Cohen-Charash e P.E. Spector, “The Role of Justice in Organizations: A Meta-Analysis,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, November 2001, pp. 278-321; Colquitt, Conlon, Wesson, Porter, e Ng, p.

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443 426; e M.S. Hershcovis, N. Turner, J. Barling, K.A. Arnold, K.E. Dupré, M. Inness, M.M. LeBlanc, e N. Sivanathan, “Predicting Workplace Aggression: A Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, January 2007, pp. 228-38. 28. Per studi recenti sulla giustizia, vedi D. De Cremer, J. Brockner, A. Fishman, M. van Dijke, W. van Olffen, e D.M. Mayer, “When Do Procedural Fairness and Outcome Fairness Interact to Influence Employees’ Work Attitudes and Behaviors? The Moderating Effect of Uncertainty,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 291-304; e O. Janssen, C.K. Lam, e X. Huang, “Emotional Exhaustion and Job Performance: The Moderating Roles of Distributive Justice and Positive Affect,” Journal of Organizational Behavior, August 2010, pp. 787-809. 29. I risultati di questo studio sono citati in K. Gurchiek, “Show Workers Their Value, Study Says,” HR Magazine, October 2006, p. 40. 30. L’impatto dei gruppi sulle percezioni di giustizia è stato indagato da D.A. Jones e D.P. Skarlicki, “The Effects of Overhearing Peers to Discuss an Authority’s Fairness Reputation on Reactions to Subsequent Treatment,” Journal of Applied Psychology, March 2005, pp. 363-72. 31. Il clima di giustizia è stato studiato da S. Tangirala e R. Ramanujam, “Employee Silence on Critical Work Issues: The Cross Level Effects of Procedural Justice Climate,” Personnel Psychology, Spring 2008, pp. 37-68. 32. Per una discussione completa della teoria di Vroom, vedi V H Vroom, Work and Motivation (New York: John Wiley & Sons, 1964). 33. E.E. Lawler III, Motivation in Work Organizations (Belmont, CA:Wadsworth, 1973), p. 45. 34. Vedi C.C. Pinder, Work Motivation (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1984), ch. 7. 35. “Federal Express’s Fred Smith,” Inc., October 1986, p. 38. 36. I risultati si trovano in W. van Eerde e H. Thierry, “Vroom’s Expectancy Models and Work-Related Criteria: A Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, October 1996, pp. 575-86. 37. Vedi J. Cameron e W.D. Pierce, Rewards and Intrinsic Motivation: Resolving the Controversy (Alberta, Canada: Cameron and Pierce, 2002); K.L. Scott, J.D. Shaw, e M.K. Duffy, “Merit Pay Raises and Organization-Based Self-Esteem,” Journal of Organizational Behavior, October 2008, pp. 967-80. 38. M. Dewhurst, M. Gulhridge, e W. Mohr, “Motivating People: Getting Beyond Money,” McKinsey&Company, November 2009, http://www.mckinseyquarterly.com/ghost.aspx?ID=/Organizatin/ Talent/Motivating_peo. Vedi anche E. Krell, “All For Incentives, Incentives for All,” HR Magazine, January 2011, pp. 35-38. 39. L. Scott, “Grocery Bagger Set Course to Be President of Bashas,” The Arizona Republic, February 11, 2007, p. D2. 40. E.A. Locke, K.N. Shaw, L.M. Saari, e G.P. Latham, “Goal Setting and Task Performance: 1969-1980,” Psychological Bulletin, July 1981, p. 126. 41. Il caso della molteplicità degli obiettivi è analizzato da J.B. Vancouver, J.M. Weinhardt, e A.M. Schmidt, “A Formal, Computational Theory of Multiple-Goal Pursuit: Integrating Goal-Choice and Goal-Striving Processes,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 985-1008. 42. M. Frese, S.I. Krauss, N. Keith, S. Escher, R. Grabarkiewicz, S.T. Luneng, C. Heers, J. Unger, e C. Friedrich, “Business Owners’ Action Planning and Its Relationship to Business Success in Three African Countries,” Journal of Applied Psychology, November 2007, pp. 1481-98. 43. Vedi E.A. Locke e G.P. Latham, A Theory of Goal Setting and Task Performance (Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, 1990). 44. D. Morisano, J.B. Hirsh, J.B. Peterson, R.O. Pihl, e B.M. Shore, “Setting, Elaborating, and Reflecting on Personal Goals Improves Academic Performance,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 255-64. 45. Risultati a supporto si trovano in S.E. Humphrey, J.D. Nahrgang, e F.P. Morgeson, “Integrating Motivational, Social, and Contextual Work Design Features: A Meta-Analytic Summary and Theoretical Extension of the Work Design Literature,” Journal of Applied Psychology, September 2007, pp. 1332-56.

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444 46. Vedi J.J. Donovan e D.J. Radosevich, “The Moderating Role of Goal Commitment on the Goal Difficulty-Performance Relationship: A Meta-Analytic Review and Critical Reanalysis,” Journal of Applied Psychology, April 1998, pp. 308-15. 47. Vedi Latham e Locke, “Enhancing the Benefits and Overcoming the Pitfalls of Goal Setting.” 48. Vedi “It’s a Balancing Act,” Training, May 2009, p. 10. 49. J.L. Bowditch e A.F. Buono, A Primer on Organizational Behavior (New York: John Wiley & Sons, 1985), p. 210. 50. Una panoramica di questi approcci è fornita in S. Hornung, D.M. Rousseau, J. Glaser, P. Angerer, e M. Weigl, “Beyond Top-Down and Bottom-Up Work Redesign: Customizing Job Content Through Idiosyncratic Deals,” Journal of Organizational Behavior, February 2010, pp. 187-215; e G.R. Oldham e J.R. Hackman, “Not What It Was and Not What It Will Be: The Future of Job Design,” Journal of Organizational Behavior, February 2010, pp. 463-79. 51. G.D. Babcock, The Taylor System in Franklin Management, seconda edizione (New York: Engineering Magazine Company, 1917), p. 31. 52. Per un’analisi completa, vedi F.B. Copley, Frederick W Taylor: The Principles of Scientific Management (New York: Harper & Brothers, 1911). 53. Vedi la relativa discussione in S. Wagner-Tsukamoto, “An Institutional Economic Reconstruction of Scientifi c Management: On the Lost Theoretical Logic of Taylorism,” Academy of Management Review, January 2007, pp. 105-17; e P.R. Lawrence, “The Key Job Design Problem Is Still Taylorism,” Journal of Organizational Behavior, February 2010, pp. 412-21. 54. Questo tipo di programma è stato sviluppato e testato in M.A. Campion e C.L. McClelland, “Follow-Up and Extension of the Interdisciplinary Costs and Benefits of Enlarged Jobs,” Journal of Applied Psychology, June 1993, pp. 339-51. 55. M. Moskowitz, R. Levering, e C. Tkaczyk, “100 Best Companies to Work For,” Fortune, p. 96. 56. J.R. Hackman, G.R. Oldham, R. Janson, e K. Purdy, “A New Strategy for Job Enrichment,” California Management Review, Summer 1975, p. 58. 57. Le definizioni relative alle caratteristiche del lavoro sono adattate da J.R. Hackman e G.R. Oldham, “Motivation through the Design of Work: Test of a Theory,” Organizational Behavior and Human Performance, August 1976, pp. 250-79. 58. A. Wrzesniewski e J.E. Dutton, “Crafting a Job: Revisioning Employees As Active Crafters of Their Work,” Academy of Management Review, April 2001, p. 179. 59. Vedi J.M. Berg, A. Wrzesniewski, e J.E. Dutton, “Perceiving and Responding to Challenges in Job Crafting at Different Ranks: When Proactivity Requires Adaptivity,” Journal of Organizational Behavior, February 2010, pp. 158-86. 60. Hornung, Rousseau, Glaser, Angerer, e Weigl, p. 188. 61. Vedi T. Hopke, “Go Ahead, Take a Few Months Off,” HR Magazine, September 2010, pp. 71-74; e “RSM McGladrey,” Wikipedia, ultimo aggiornamento 6 dicembre 2010, http://en.wikipedia.org/wiki/ RSM_McGladrey. 62. Hornung, Rousseau, Glaser, Angerer, e Weigl, pp. 187-215. 63. J. Welch e S. Welch, “An Employee Bill of Rights,” Business-Week, March 16, 2009, p. 72.

Capitolo 9 1. B. Tulgan, “The Under-Management Epidemic,” HR Magazine, October 2004, p. 119. 2. S. Meisinger, “Management Holds Key to Employee Engagement,” HR Magazine, February 2008, p. 8. 3. Vedi K. Gurchiek, “Report Ties Coaching Strategies to Business,” HR Magazine, July 2010, p. 75; T.H. Davenport, J. Harris, e J. Shapiro, “Competing on Talent Analytics,” Harvard Business Review, October 2010, pp. 52-58; J.A. Segal, “Performance Management Blunders,” HR Magazine, No-

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Note al volume vember 2010, pp. 75-78; e C.M. Plump, “Dealing with Problem Employees: A Legal Guide for Employers,” Business Horizons, November-December 2010, pp. 607-18. 4. La distinazione è tratta da G.P. Latham, J. Almost, S. Mann, e C. Moore, “New Developments in Performance Management,” Organizational Dynamics, n. 1, 2005, pp. 77-87. 5. Vedi A. Fox, “Curing What Ails Performance Reviews,” HR Magazine, January 2009, pp. 52-56; “A Bad Review for Performance Reviews,” HR Magazine, May 2010, p. 28; K.W. Platts e M. Sobótka, “When the Uncountable Counts: An Alternative to Monitoring Employee Performance,” Business Horizons, July-August 2010, pp. 349- 57; e “Rave Reviews,” Training, September-October 2010, p. 7. 6. Vedi M. Weinstein, “Holding On to Talent?” Training, March-April 2010, p. 12. 7. Citato e adattato da “ThermoSTAT,” Training, July-August 2003, p. 16. 8. Basato su W.R. Boswell, J.B. Bingham, e A.J.S. Colvin, “Aligning Employees through ‘Line of Sight,’ ” Business Horizons, November- December 2006, pp. 499-509. Vedi anche E. Patton, “What Are the Characteristics of Good Strategic Objectives?” HR Magazine, April 2010, p. 23. 9. C.J. Loomis, “The Bloomberg,” Fortune, April 16, 2007, p. 68. 10. G.H. Seijts e G.P. Latham, “Learning versus Performance Goals: When Should Each Be Used?” Academy of Management Executive, February 2005, pp. 126-27. Vedi l’interessante dibattito in corso sul goal setting: L.D. Ordóñez, M.E. Schweitzer, A.D. Galinsky, e M.H. Bazerman, “Goals Gone Wild: The Systematic Side Effects of Overprescribing Goal Setting,” Academy of Management Perspectives, February 2009, pp. 6-16; E.A. Locke e G.P. Latham, “Has Goal Setting Gone Wild, or Have Its Attackers Abandoned Good Scholarship?” Academy of Management Perspectives, February 2009, pp. 17-23; L.D. Ordóñez, M.E. Schweitzer, A.D. Galinsky, e M.H. Bazerman, “On Good Scholarship, Goal Setting, and Scholars Gone Wild,” Academy of Management Perspectives, August 2009, pp. 82-87; e G.P. Latham e E.A. Locke, “Science and Ethics: What Should Count as Evidence Against the Use of Goal Setting?” Academy of Management Perspectives, August 2009, pp. 88-91. 11. D. Morisano, J.B. Hirsh, J.B. Peterson, R.O. Pihl, e B.M. Shore, “Setting, Elaborating, and Reflecting on Personal Goals Improves Academic Performance,” Journal of Applied Psychology, March 2010, p. 255. 12. Una discussione completa dell’MBO si trova in P.F. Drucker, The Practice of Management (New York: Harper, 1954); e P.F. Drucker, “What Results Should You Expect? A User’s Guide to MBO,” Public Administration Review, January-February 1976, pp. 12-19. Vedi anche A.M. Kantrow, “Why Read Peter Drucker?” Harvard Business Review, November 2009, pp. 72-82. 13. Citato in M. Kimes, “How Do I Groom and Keep Talented Employees?” Fortune, November 10, 2008, p. 26. 14. I risultati di entrambi gli studi si trovano in R. Rodgers e J.E. Hunter, “Impact of Management by Objectives on Organizational Productivity,” Journal of Applied Psychology, April 1991, pp. 322-36; e R. Rodgers, J.E. Hunter, e D.L. Rogers, “Influence of Top Management Commitment on Management Program Success,” Journal of Applied Psychology, February 1993, pp. 151-55. 15. D. Foust, “Why Did IndyMac Implode?” BusinessWeek, August 4, 2008, p. 24. Vedi anche L.M. Bacon, “Study: Soldiers Go to Extremes to Meet Army’s Weight Rules,” The Arizona Republic, December 12, 2010, p. A30. 16. F. Herzberg, “One More Time: How Do You Motivate Employees?” Harvard Business Review, January-February 1968, p. 56. 17. Vedi J.A. Colquitt e M.J. Simmering, “Conscientiousness, Goal Orientation, and Motivation to Learn During the Learning Process: A Longitudinal Study,” Journal of Applied Psychology, August 1998, pp. 654-65. 18. D. VandeWalle, S.P. Brown,W.L. Cron, e J.W. Slocum, Jr, “The Influence of Goal Orientation and Self-Regulated Tactics on Sales Performance: A Longitudinal Field Test,” Journal of Applied Psychology, April 1999, p. 250. Vedi anche G.H. Seijts, G.P. Latham, K. Tasa, e B.W. Latham, “Goal

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Note al volume Setting and Goal Orientation: An Integration of Two Different Yet Related Literatures,” Academy of Management Journal, April 2004, pp. 227-39; e C.L. Porath e T.S. Bateman, “Self-Regulation: From Goal Orientation to Job Performance,” Journal of Applied Psychology, January 2006, pp. 185-86. 19. Per approfondimenti, vedi Y. Gong e J. Fan, “Longitudinal Examination of the Role of Goal Orientation in Cross-Cultural Adjustment,” Journal of Applied Psychology, January 2006, pp. 176-84; S.C. Payne, S.S. Youngcourt, e J.M. Beaubien,“A Meta-Analytic Examination of the Goal Orientation Nomological Net,” Journal of Applied Psychology, January 2007, pp. 12850; e C. Porter, J.W. Webb, e C.I. Gogus, “When Goal Orientations Collide: Effects of Learning and Performance Orientation on Team Adaptability in Response to Workload Imbalance,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 935-43. 20. As quoted in “The Best Managers,” BusinessWeek, January 19, 2009, p. 41. 21. Vedi J. McGregor, “Giving Back to Your Stars,” Fortune, November 1, 2010, pp. 53-54. 22. Tratto da M. Koo e A. Fishbach, “Climbing the Goal Ladder: How Upcoming Actions Increase Level of Aspiration,” Journal of Personality and Social Psychology, July 2010, pp. 1-13. 23. E.A. Locke e G.P. Latham, Goal Setting: A Motivational Technique That Works! (Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1984), p. 79. Vedi anche K.S. Cravens, E.G. Oliver, e J.S. Stewart, “Can a Positive Approach to Performance Evaluation Help Accomplish Your Goals?” Business Horizons, May-June 2010, pp. 269-79. 24. Vedi E.A. Locke, “Linking Goals to Monetary Incentives,” Academy of Management Executive, November 2004, pp. 130-33. 25. K. Tyler, “One Bad Apple,” HR Magazine, December 2004, p. 85. 26. Vedi E.G. Love, D.W. Love, e G.B. Northcraft, “Is the End in Sight? Student Regulation on In-Class and Extra-Credit Effort in Response to Performance Feedback,” Academy of Management Learning and Education, March 2010, pp. 81-97. 27. Dati estrapolati da “Fortune 500 Largest US Corporations,” Fortune, May 3, 2010, p. F-54. 28. Come citato in C. Fishman, “Fred Smith,” Fast Company, June 2001, p. 66. 29. C.D. Lee, “Feedback, Not Appraisal,” HR Magazine, November 2006, p. 111. Vedi anche M. Rosenthal, “Performance Review 201,” Training, July-August 2010, p. 44. 30. Entrambe le definizioni di feedback e di funzioni del feedback sono basate sulla trattazione in D.R. Ilgen, C.D. Fisher, e M.S. Taylor, “Consequences of Individual Feedback on Behavior in Organizations,” Journal of Applied Psychology, August 1979, pp. 349-71; e R.E. Kopelman, Managing Productivity in Organizations: A Practical People-Oriented Perspective (New York: McGraw-Hill, 1986), p. 175. 31. Vedi P.C. Earley, G.B. Northcraft, C. Lee, e T.R. Lituchy, “Impact of Process and Outcome Feedback on the Relation of Goal Setting to Task Performance,” Academy of Management Journal, March 1990, pp. 87-105. 32. Dati da A.N. Kluger e A. DeNisi, “The Effects of Feedback Interventions on Performance: A Historical Review, a Meta-Analysis, and a Preliminary Feedback Intervention Theory,” Psychological Bulletin, March 1996, pp. 254-84. Vedi anche G. Morse, “Feedback Backlash,” Harvard Business Review, October 2004, p. 28. 33. Dati da K.D. Harber, “Feedback to Minorities: Evidence of a Positive Bias,” Journal of Personality and Social Psychology, March 1998, pp. 622-28. 34. Vedi T. Matsui, A. Okkada, e T. Kakuyama, “Influence of Achievement Need on Goal Setting, Performance, and Feedback Effectiveness,” Journal of Applied Psychology, October 1982, pp. 645-48. 35. S.J. Ashford, “Feedback-Seeking in Individual Adaptation: A Resource Perspective,” Academy of Management Journal, September 1986, pp. 465-87. Vedi anche D.B. Fedor, R.B. Rensvold, e S.M. Adams, “An Investigation of

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445 Factors Expected to Affect Feedback Seeking: A Longitudinal Field Study,” Personnel Psychology,Winter 1992, pp. 779-805; e M.F. Sully De Luque e S.M. Sommer, “The Impact of Culture on Feedback-Seeking Behavior: An Integrated Model and Propositions,” Academy of Management Review, October 2000, pp. 829-49. 36. Vedi D.B. Turban e T.W. Dougherty, “Role of Protégé Personality in Receipt of Mentoring and Career Success,” Academy of Management Journal, June 1994, pp. 688-702. 37. Vedi C. Unkelbach, K. Fielder, M. Bayer, M. Stegmuller, e D. Danner, “Why Positive Information Is Processed Faster: The Density Hypothesis,” Journal of Personality and Social Psychology, July 2008, pp. 36-49. 38. Per i dettagli, vedi P.M. Podsakoff e J-L. Farh, “Effects of Feedback Sign and Credibility on Goal Setting and Task Performance,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, August 1989, pp. 45-67. 39. W.S. Silver, T.R. Mitchell, e M.E. Gist, “Responses to Successful and Unsuccessful Performance: The Moderating Effect of Self-Efficacy on the Relationship between Performance and Attributions,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, June 1995, p. 297. Vedi anche A.P. Tolli e A.M. Schmidt, “The Role of Feedback, Causal Attributions, and Self-Effi cacy in Goal Revision,” Journal of Applied Psychology, May 2008, pp. 692-701. 40. M. Kouzes e B.Z. Posner, Credibility: How Leaders Gain and Lose It, Why People Demand It (San Francisco: Jossey- Bass, 1993), p. 25. Per ricerche a conferma, vedi A.J. Kinicki, G.E. Prussia, B. Wu, e F.M. McKee-Ryan, “A Covariance Structure Analysis of Employees’ Response to Performance Feedback,” Journal of Applied Psychology, December 2004, pp. 1057-69. Vedi anche J Pfeffer, What Were They Thinking? Unconventional Wisdom about Management (Boston: Harvard Business School Press, 2007), pp. 104-6. 41. Vedi K. Leung, S. Su, e M.W. Morris, “When Is Criticism Not Constructive? The Roles of Fairness Perceptions and Dispositional Attributions in Employee Acceptance of Critical Supervisory Feedback,” Human Relations, September 2001, pp. 1123-54; l’analisi di come un artista gestisce le critiche in K. Bell, “Life’s Work: Richard Serra,” Harvard Business Review, March 2010, p. 132. 42. Basato sulla trattazione in Ilgen, Fisher, e Taylor, “Consequences of Individual Feedback on Behavior in Organizations,” pp. 367-68. Vedi anche A.M. O’Leary-Kelly, “The Influence of Group Feedback on Individual Group Member Response,” in Research in Personnel and Human Resources Management, vol. 16, edito da G.R. Ferris (Stamford, CT: JAI Press, 1998), pp. 255-94. 43. Vedi P.C. Earley, “Computer-Generated Performance Feedback in the Magazine-Subscription Industry,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, February 1988, pp. 50-64. 44. Vedi M. De Gregorio e C.D. Fisher, “Providing Performance Feedback: Reactions to Alternate Methods,” Journal of Management, December 1988, pp. 605-16. 45. Per i dettagli, vedi R.A. Baron, “Countering the Effects of Destructive Criticism: The Relative Efficacy of Four Interventions,” Journal of Applied Psychology, June 1990, pp. 235-45. Vedi anche A. Maingault, “Q: I’m Trying to Help a Manager Who Inadvertently Destroys Morale When Providing Criticism,” HR Magazine, May 2008, p. 36. 46. C.O. Longenecker e D.A. Gioia, “The Executive Appraisal Paradox,” Academy of Management Executive, May 1992, p. 18. 47. Vedi M. Carson, “Saying It Like It Isn’t: The Pros and Cons of 360-Degree Feedback,” Business Horizons, September-October 2006, pp. 395-402; T. van Rensburg e G. Prideaux, “Turning Professionals into Managers Using Multisource Feedback,” Journal of Management Development, n. 6, 2006, pp. 561-71; e J.T. Polzer, “Making Diverse Teams Click,” Harvard Business Review, July- August 2008, pp. 20-21. 48. J.W. Smither, M. London, e R.R. Reilly, “Does Performance Improve Following Multisource Feedback? A Theoretical Model, Meta-Analysis, and Review of Empirical Findings,” Personnel Psychology, Spring 2005, p.

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446 33. Vedi anche F. Shipper, R.C. Hoffman, e D.M. Rotondo, “Does the 360 Feedback Process Create Actionable Knowledge Equally across Cultures?” Academy of Management Learning and Education, March 2007, pp. 33-50. 49. D.E. Coates, “Don’t Tie 360 Feedback to Pay,” Training, September 1998, pp. 68-78. Vedi anche “Full-Circle Assessments,” Training, November-December 2010, p. 7; e S. Brutus e M.B.L. Donia, “Improving the Effectiveness of Students in Groups with a Centralized Peer Evaluation System,” Academy of Management Learning and Education, December 2010, pp. 652-62. 50. Per approfondimenti sul coaching, vedi S. Kochanowski, C.F. Seifert, e G. Yukul, “Using Coaching to Enhance the Effects of Behavioral Feedback to Managers,” Journal of Leadership and Organizational Studies, n. 4, 2010, pp. 363-69; R.T. Whipple, “Stop the Enabling,” HR Magazine, September 2010, pp. 114-15; e E. de Haan, C. Bertie, A. Day, e C. Sills, “Clients’ Critical Moments of Coaching: Toward a ‘Client Model’ of Executive Coaching,” Academy of Management Learning and Education, December 2010, pp. 607-21. 51. Vedi J.E. Core e W.R. Guay, “Is CEO Pay Too High and Are Incentives Too Low? Wealth-Based Contracting Framework,” Academy of Management Perspectives, February 2010, pp. 5-19; A.G. Lafley, “Executive Pay: Time for CEOs to Take a Stand,” Harvard Business Review, May 2010, p. 40; J. Silver-Greenberg e A. Leondis, “How Much Is a CEO Worth?” Bloomberg Businessweek, May 10-16, 2010, pp. 70-71; e B. George, “Executive Pay: Rebuilding Trust in an Era of Rage,” Bloomberg Businessweek, September 13-19, 2010, p. 56. 52. “The Stat,” BusinessWeek, October 4, 2004, p. 16. Vedi anche S Highhouse, M J Zickar, e M Yankelevich, “Would You Work If You Won the Lottery? Tracking Changes in the American Work Ethic,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 349-57. 53. Vedi, per esempio, S. Kerr con G. Rifkin, Reward Systems: Does Yours Measure Up? (Boston: Harvard Business Press, 2009). 54. Vedi D. Brady, “Hard Choices: Joe Torre,” Bloomberg Businessweek, June 21-27, 2010, p. 96; J. Shambora, “From Leverage to Corkage,” Fortune, December 6, 2010, p. 80; e K. Nicholas, “Where the Wild Things Are,” Bloomberg Businessweek, January 17-23, 2011, p. 74. 55. Lista adattata da J.L. Pearce e R.H. Peters, “A Contradictory Norms View of Employer-Employee Exchange,” Journal of Management, Spring 1985, pp. 19-30. Vedi anche T.A. Judge, e D.M. Cable, “When It Comes to Pay, Do the Thin Win? The Effects of Weight on Pay for Men and Women,” Journal of Applied Psychology, January 2011, pp. 95-112. 56. B. Hindo, “Rewiring Westinghouse,” BusinessWeek, May 19, 2008, p. 49. 57. R. Levering e M. Moskowitz, “100 Best Companies to Work For: And the Winners Are . . .,” Fortune, February 2, 2009, pp. 67-78. 58. K.W. Thomas, Intrinsic Motivation at Work: Building Energy and Commitment (San Francisco: Berrett-Koehler Publishers, 2000). Vedi anche A.M. Grant, “Does Intrinsic Motivation Fuel the Prosocial Fire? Motivational Synergy in Predicting Persistence, Performance, and Productivity,” Journal of Applied Psychology, January 2008, pp. 48-58. 59. E.L. Deci e R.M. Ryan, “The ‘What’ and ‘Why’ of Goal Pursuits: Human Needs and Self-Determination of Behavior,” Psychological Inquiry, December 2000, pp. 227-68. 60. Questo studio è riassunto in S. Ellingwood, “On a Mission,” Gallup Management Journal,Winter 2001, pp. 6-7. 61. R. Randazzo, “Nuclear Watchdog,” The Arizona Republic, November 2, 2008, p. D1. 62. M. Littman, “Best Bosses Tell All,” Working Woman, October 2000, p. 55. 63. A. Carter, “Lighting a Fire under Campbell,” BusinessWeek, December 4, 2006, p. 96. Vedi anche P. Post, “The Note,” Training, September-October 2010, p. 44. 64. D.R. Spitzer, “Power Rewards: Rewards That Really Motivate,” Management Review, May 1996, p. 47. Vedi anche B. Schwartz, “The Dark Side of

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Note al volume Incentives,” Businessweek, November 23, 2009, p. 84; e J. Berry, “Tough Tests,” The Arizona Republic, January 30, 2011, pp. D1-D2. 65. Lista adattata da Spitzer, “Power Rewards: Rewards that Really Motivate,” pp. 45-50. 66. “Performance-Based Pay Plans,” HR Magazine, June 2004, p. 22. Vedi anche S. Miller, “Pay Incentives Planned to Limit Post-Recession Flight,” HR Magazine, July 2010, p. 11. 67. Per le argomentazioni contro la retribuzione legata alla performance, vedi B.W. Heineman Jr, “The Fatal Flaw in Pay for Performance,” Harvard Business Review, June 2008, pp. 31, 34; W.F. Cascio e P. Cappelli, “Lessons from the Financial Services Crisis,” HR Magazine, January 2009, pp. 46-50; e D. Heath e C. Heath, “The Curse of Incentives,” Fast Company, February 2009, pp. 48-49. 68. Dati da D. Kiley, “Crafty Basket Makers Cut Downtime, Waste,” USA Today, May 10, 2001, p. 3B. 69. Vedi S. Ladd, “May the Sales Force Be with You,” HR Magazine, September 2010, pp. 105-7. 70. N.J. Perry, “Here Come Richer, Riskier Pay Plans,” Fortune, December 19, 1988, p. 51. Vedi anche E. Krell, “All for Incentives, Incentives for All,” HR Magazine, January 2011, pp. 34-38. 71. Dati da M. Bloom e G.T. Milkovich, “Relationships among Risk, Incentive Pay, and Organizational Performance,” Academy of Management Journal, June 1998, pp. 283-97. 72. Per dettagli, vedi G.D. Jenkins, Jr, N. Gupta, A. Mitra, e J.D. Shaw, “Are Financial Incentives Related to Performance? A Meta-Analytic Review of Empirical Research,” Journal of Applied Psychology, October 1998, pp. 777-87. Vedi anche S.J. Peterson e F. Luthans, “The Impact of Financial and Nonfinancial Incentives on Business-Unit Outcomes over Time,” Journal of Applied Psychology, January 2006, pp. 156-65. 73. Vedi M.J. Mandel, “Those Fat Bonuses Don’t Seem to Boost Performance,” Business Week, January 8, 1990, p. 26; S.F. O’Byrne e S.D. Young, “Why Executive Pay Is Failing,” Harvard Business Review, June 2006, p. 28; e A. Pomeroy, “Pay for Performance Is Working, Says a New Study,” HR Magazine, January 2007, pp. 14, 16. 74. Basato sulla trattazione in R Ricklefs, “Whither the Payoff on Sales Commissions?” The Wall Street Journal, June 6, 1990, p. B1. 75. Per un piano di compartecipazione dei profitti, vedi F. Koller, Spark: How Old-Fashioned Values Drive a Twenty-First Century Corporation – Lessons from Lincoln Electric’s Unique Guaranteed Employment Program (New York: PublicAffairs, 2010). 76. Vedi B.E. Litzky, K.A. Eddleston, e D.L. Kidder, “The Good, the Bad, and the Misguided: How Managers Inadvertently Encourage Deviant Behaviors,” Academy of Management Perspectives, February 2006, pp. 91-103. 77. Vedi E.L. Thorndike, Educational Psychology: The Psychology of Learning, Vol. II (New York: Columbia University Teachers College, 1913). 78. Una discussione circa uno dei primi comportamentisti che influenzò l’opera di Skinner si può trovare in in P.J. Kreshel, “John B. Watson at J. Walter Thompson: The Legitimation of ‘Science’ in Advertising,” Journal of Advertising, n. 2, 1990, pp. 49-59. Tra le trattazioni recenti del comportamentismo M.R. Ruiz, “B.F. Skinner’s Radical Behaviorism: Historical Misconstructions and Grounds for Feminist Reconstructions,” Psychology of Women Quarterly, June 1995, pp. 161- 79; J.A. Nevin, “Behavioral Economics and Behavioral Momentum,” Journal of the Experimental Analysis of Behavior, November 1995, pp. 385-95; e H. Rachlin, “Can We Leave Cognition to Cognitive Psychologists? Comments on an Article by George Loewenstein,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, March 1996, pp. 296-99. 79. Per una trattazione, vedi JW Donahoe, “The Unconventional Wisdom of B F Skinner: The Analysis- Interpretation Distinction,” Journal of the Experimental Analysis of Behavior, September 1993, pp. 453-56.

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Note al volume 80. Vedi B.F. Skinner, The Behavior of Organisms (New York: Appleton-Century- Crofts, 1938). 81. Per gli approcci moderni al comportamento reattivo, vedi B. Azar, “Classical Conditioning Could Link Disorders and Brain Dysfunction, Researchers Suggest,” APA Monitor, March 1999, p. 17. 82. Per una trattazione di Skinner e di uno dei suoi allievi, vedi M.B. Gilbert e T.F. Gilbert, “What Skinner Gave Us,” Training, September 1991, pp. 4248; e “HRD Pioneer Gilbert Leaves a Pervasive Legacy,” Training, January 1996, p. 14. Vedi anche F. Luthans e R. Kreitner, Organizational Behavior Modification and Beyond: An Operant and Social Learning Approach (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1985). 83. Le ricerche sulla punizione sono analizzate in L.E. Atwater, D.A. Waldman, J.A. Carey, e P. Cartier, “Recipient and Observer Reactions to Discipline: Are Managers Experiencing Wishful Thinking?” Journal of Organizational Behavior, May 2001, pp. 249-70; e T.K. Peng e M.F. Peterson, “Nation, Demographic, and Attitudinal Boundary Conditions on Leader Social Rewards and Punishments in Local Governments,” Journal of Organizational Behavior, January 2008, pp. 95-117. 84. Vedi C.B. Ferster e B.F. Skinner, Schedules of Reinforcement (New York: Appleton-Century-Crofts, 1957). 85. Vedi L M Saari e G P. Latham, “Employee Reactions to Continuous and Variable Ratio Reinforcement Schedules Involving a Monetary Incentive,” Journal of Applied Psychology, August 1982, pp. 506-8. 86. P. Brinkley-Rogers e R. Collier, “Along the Colorado, the Money’s Flowing,” Arizona Republic, March 4, 1990, p. A12. 87. J.M. O’Brien, “Zappos Knows How to Kick It,” Fortune, February 2, 2009, p. 58. 88. K. Gurchiek, “ ‘New Collar’ Workers Choose Hourly Careers,” HR Magazine, September 2008, p. 24. 89. N. Lublin, “Something Special,” Fast Company, June 2010, p. 40. 90. Vedi D. Jones, “Training Workers the SeaWorld Way,” USA Today, August 21, 2006, p. 3B; E Zlomek, “Zookeeper: People, Like Animals, Relish Fast Rewards,” The Arizona Republic, May 30, 2009, p. D1; e J. Lloyd, “His Cats Know All the Tricks,” USA Today, October 5, 2009, p. 7D. 91. Dati da K.L. Alexander, “Continental Airlines Soars to New Heights,” USA Today, January 23, 1996, p. 4B; e M. Knez e D. Simester, “Making Across-the-Board Incentives Work,” Harvard Business Review, February 2002, pp. 16-17.

Capitolo 10 1. Vedi G. Morse, “Health Care Needs a New Kind of Hero,” Harvard Business Review, April 2010, pp. 60-61; D.S.D. Rue, C.M. Barnes, e F.P. Morgeson, “Understanding the Motivational Contingencies of Team Leadership,” Small Group Research, October 2010, pp. 621-51; e A.M.L. Raes, M.G. Heijljes, U. Glunk, e R.A. Roe, “The Interface of the Top-Management Team and Middle Managers: A Process Model,” Academy of Management Review, January 2011, pp. 102-26. 2. Questa definizione si basa in parte su una scoperta tratta da “A Parsimonious Definition of ‘Group’: Toward Conceptual Clarity and Scientific Utility,” di D. Horton Smith, Sociological Inquiry, spring 1967, pp. 141-67. Per un dibattito sulla possibilità di definire gruppo un insieme di sole due persone, vedi R.L. Moreland, “Are Dyads Really Groups?” Small Group Research, April 2010, pp. 251-67; e K.D. Williams, “Dyads Can Be Groups (and Often Are),” Small Group Research, April 2010, pp. 268-74. 3. E.H. Schein, Organizational Psychology, 3rd ed (Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, 1980), p. 145. 4. Vedi L. Petrecca, “Hiring Family or Friends Can Be Boon or Bust,” USA Today, October 11, 2010, p. 6B. 5. J. Castro, “Mazda U.,” Time, 20 October, 1986, p. 65.

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447 6. Dati da J. Yang e K. Gelles, “Workplace Friendships,” USA Today, April 13, 2010, p. 1B. 7. Vedi M. Giglio, “The Keystroke Revolution,” Newsweek, February 7, 2011, pp. 25-27. 8. www.pcmag.com/encyclopedia_term/0,2542,t=social+ networ king&i=55316,00.asp, consultato il 7 febbraio 2009. 9. Dati tratti da S. Jayson, “A Few Wrinkles Are Etching Facebook, Other Social Sites,” USA Today, January 15, 2009, p. 9D. 10. J. Welch e S. Welch, “From the Old, Something New,” Business-Week, November 20, 2006, p. 124. 11. Per una panoramica esauriente delle cinque diverse teorie dello sviluppo del gruppo vedi “Organizational Socialization and Group Development: Toward an Integrative Perspective,” di J.P. Wanous, A.E. Reichers, e S.D. Malik, Academy of Management Review, October 1984, pp. 670-83. 12. Vedi B.W. Tuckman, “Developmental Sequence in Small Groups,” di Psychological Bulletin, June 1965, pp. 384-99; e “Stages of Small-Group Development Revisited,” di B.W. Tuckman e M.A.C. Jensen, Group & Organization Studies, December 1977, pp. 419-27. Vedi anche G. Seijts e J. Gandz, “Gaining a Competitive Edge through Rapid Team Formation and Development,” Organizational Dynamics, October-December 2009, pp. 261-69. 13. Per i dettagli, vedi C. Cleveland, J. Blascovich, C. Gangi, e L. Finez, “When Good Teammates Are Bad: Physiological Threat on Recently Formed Teams,” Small Group Research, February 2011, pp. 3-31. 14. Per ricerche relative, vedi J.C. Biesanz, S.G. West, e A. Millevoi, “What Do You Learn about Someone over Time? The Relationship between Length of Acquaintance and Consensus and Self-Other Agreement in Judgments of Personality,” Journal of Personality and Social Psychology, January 2007, pp. 119-35; e R.I. Swaab, K.W. Phillips, D. Diermeier, e V.H. Medvec, “The Pros and Cons of Dyadic Side Conversations in Small Groups,” Small Group Research, June 2008, pp. 372-90. 15. Basato su B.L. Riddle, C.M. Anderson, e M.M. Martin, “Small Group Socialization Scale: Development and Validity,” Small Group Research, October 2000, pp. 554-72; e M. Van Vugt e C.M. Hart, “Social Identity as Social Glue: The Origins of Group Loyalty,” Journal of Personality and Social Psychology, April 2004, pp. 585-98. 16. L.N. Jewell e H.J. Reitz, Group Effectiveness in Organizations(Glenview, IL: Scott, Foresman, 1981), p. 19. 17. Basato su J.F. McGrew, J.G. Bilotta, e J.M. Deeney,“Software Team Formation and Decay: Extending the Standard Model for Small Groups,” Small Group Research, April 1999, pp. 209-34. 18. Ibid., p. 232. 19. Ibid., p. 231. 20. D. Davies e B.C. Kuypers, “Group Development and Interpersonal Feedback,” Group & Organizational Studies, June 1985, p. 194. 21. Ibid., pp. 184-208. 22. C.J.G. Gersick, “Marking Time: Predictable Transitions in Task Groups,” Academy of Management Journal, June 1989, pp. 274-309. 23. D.K. Carew, E. Parisi-Carew, e K.H. Blanchard, “Group Development and Situational Leadership: A Model for Managing Groups,” Training and Development Journal, June 1986, pp. 48-49. Per prove relative all’efficacia di leadership e gruppo, vedi G.R. Bushe e A.L. Johnson,“Contextual and Internal Variables Affecting Task Group Outcomes in Organizations,” Group & Organization Studies, December 1989, pp. 462-82. 24. Vedi T.J. Erickson, “The Leaders We Need Now,” Harvard Business Review, May 2010, pp. 63-66; e R.H. Schaffer, “Mistakes Leaders Keep Making,” Harvard Business Review, September 2010, pp. 86-91. 25. Per letture relative, vedi M. Jokisaari e J. Nurmi, “Change in Newcomers’ Supervisor Support and Socialization Outcomes After Organizational Entry,” Academy of Management Journal, June 2009, pp. 527-44; e J.T. Arnold, “Ramping Up Onboarding,” HR Magazine, May 2010, pp. 75-78.

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448 26. G. Graen, “Role-Making Processes within Complex Organizations,” in Handbook of Industrial and Organizational Psychology, ed M D Dunnette (Chicago: Rand McNally, 1976), p. 1201. 27. Dati tratti da D.S. Chiaburu e D.A. Harrison, “Do Peers Make the Place? Conceptual Synthesis and Meta-Analysis of Coworker Effects on Perceptions, Attitudes, OCBs, and Performance,” Journal of Applied Psychology, September 2008, pp. 1082-1103. 28. G.L. Miles, “Doug Danforth’s Plan to Put Westinghouse in the ‘Winner’s Circle,’ ” BusinessWeek, July 28, 1986, p. 75. 29. Dati e citazione tratti da “Great Expectations,” Training, January- February 2011, p. 12. 30. Schein, p. 198. 31. A. Romano e T. Dokoupil, “Men’s Lib,” Newsweek, September 27, 2010, pp. 45. Vedi anche G.N. Powell e J.H. Greenhaus, “Sex, Gender, and the Work-to-Family Interface: Exploring Negative and Positive Interdependencies,” Academy of Management Journal, June 2010, pp. 513-34; S. Shellenbarger, “A New White-Collar Juggle,” The Wall Street Journal, August 18, 2010, p. D3; e J.C. Santora e M. Esposito, “Dual Family Earners: Do Role Overload and Stress Treat Them as Equals?” Academy of Management Perspectives, November 2010, pp. 92-93. 32. Schein, p. 198. Quattro tipi di ambiguità di ruolo sono discusse in M A Eys e A V Carron, “Role Ambiguity, Task Cohesion, and Task Self-Efficacy,” Small Group Research, June 2001, pp. 356-73. 33. Tratto da M. Peterson et al., “Role Conflict, Ambiguity, and Overload: A 21-Nation Study,” Academy of Management Journal, April 1995, pp. 429-52. 34. Basato su Y. Fried, H.A. Ben-David, R.B. Tiegs, N. Avital, e U. Yeverechyahu, “The Interactive Effect of Role Conflict and Role Ambiguity on Job Performance,” Journal of Occupational and Organizational Psychology, March 1998, pp. 19-27. 35. R.R. Blake e J. Srygley Mouton, “Don’t Let Group Norms Stifle Creativity,” Personnel, August 1985, p. 28. 36. A. Dunkin, “Pepsi’s Marketing Magic: Why Nobody Does It Better,” di BusinessWeek, 10 Febraury 1986, p. 52. 37. Per ricerche relative, vedi G.M. Wittenbaum, H.C. Shulman, e M.E. Braz, “Social Ostracism in Task Groups: The Effects of Group Composition,” Small Group Research, June 2010, pp. 330-53; I.R. Pinto, J.M. Marques, J.M. Levine, e D. Abrams, “Membership Status and Subjective Group Dynamics: Who Triggers the Black Sheep Effect?” Journal of Personality and Social Psychology, July 2010, pp. 107-19; e C.D. Parks e A.B. Stone, “The Desire to Expel Unselfi sh Members from the Group,” Journal of Personality and Social Psychology, August 2010, pp. 303-10. 38. D.C. Feldman, “The Development and Enforcement of Group Norms,” Academy of Management Review, January 1984, pp. 50-52. Vedi anche E.K. Kelan e R.D. Jones, “Gender and the MBA,” Academy of Management Learning and Education, March 2010, pp. 26-43. 39. Feldman, “The Development and Enforcement of Group Norms.” Vedi anche D. Abrams, G.R. de Moura, J.M. Marques, e P. Hutchison, “Innovation Credit: When Can Leaders Oppose Their Group’s Norms?” Journal of Personality and Social Psychology, September 2008, pp. 662-78. 40. Vedi R.G. Netemeyer, M.W. Johnston, e S. Burton, “Analysis of Role Confl ict and Role Ambiguity in a Structural Equations Framework,” Journal of Applied Psychology, April 1990, pp. 148- 57; e G.W. McGee, C.E. Ferguson Jr, e A Seers, “Role Conflict and Role Ambiguity: Do the Scales Measure These Two Constructs?” Journal of Applied Psychology, October 1989, pp. 815-18. 41. Vedi S.E. Jackson e R.S. Schuler, “A Meta-Analysis and Conceptual Critique of Research on Role Ambiguity and Role Conflict in Work Settings,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, August 1985, pp. 16-78. 42. Basato su C.S. Crandall, A Eshleman, e L. O’Brien, “Social Norms and the Expression and Suppression of Prejudice: The Struggle for Internalization,” Journal of Personality and Social Psychology, March 2002, pp. 359-78. Vedi

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Note al volume anche L Ashburn-Nardo, K.A. Morris, e S.A. Goodwin, “The Confronting Prejudiced Responses (CPR) Model: Applying CPR in Organizations,” Academy of Management Learning and Education, September 2008, pp. 332-42. 43. Vedi B. Weber e G. Hertel, “Motivation Gains of Inferior Group Members: A Meta-Analytic Review,” Journal of Personality and Social Psychology, December 2007, pp. 973-93; e M.C. Schilpzand, D.M. Herold, e C.E. Shalley, “Members’ Openness to Experience and Teams’ Creative Performance,” Small Group Research, February 2011, pp. 55-76. 44. Vedi K.D. Benne e P. Sheats, “Functional Roles of Group Members,” Journal of Social Issues, Spring 1948, pp. 41-49. Per una tipologia alternativa, vedi T.V. Mumford, C.H. Van Iddekinge, F.P. Morgeson, e M A Campion, “The Team Role Test: Development and Validation of a Team Role Knowledge Situational Judgment Test,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 250-67. 45. Vedi G.P. Latham e E.A. Locke, “Enhancing the Benefits and Overcoming the Pitfalls of Goal Setting,” Organizational Dynamics, n. 4, 2006, pp. 332-40. 46. A. Zander, “The Value of Belonging to a Group in Japan,” Small Group Behavior, February 1983, pp. 7-8. Vedi anche C. Lin e S. Yamaguchi, “Under What Conditions Do People Feel Face-Loss? Effects of the Presence of Others and Social Roles on the Perception of Losing Face in Japanese Culture,” Journal of Cross-Cultural Psychology, January 2011, pp. 120-24. 47. Dati tratti da M. Vella, “InData,” BusinessWeek, April 28, 2008, p. 58. Vedi anche P.R. Laughlin, E.C. Hatch, J.S. Silver, e L. Boh, “Groups Perform Better Than the Best Individuals on Letters-to-Numbers Problems: Effects of Group Size,” Journal of Personality and Social Psychology, April 2006, pp. 644-51; e J.L. Yang, “The Power of Number 4.6,” Fortune, June 12, 2006, p. 122. 48. Per esempio, vedi B. Grofman, S.L. Feld, e G. Owen, “Group Size and the Performance of a Composite Group Majority: Statistical Truths and Empirical Results,” Organizational Behavior and Human Performance, June 1984, pp. 350-59. 49. Vedi P. Yetton e P. Bottger, “The Relationships among Group Size, Member Ability, Social Decision Schemes, and Performance,” Organizational Behavior and Human Performance, October 1983, pp. 145-59. 50. Questo esercizio, protetto dai diritti d’autore, si trova in J. Hall, “Decisions, Decisions, Decisions,” Psychology Today, November 1971, pp. 51-54, 86, 88. 51 Yetton e Bottger, p. 158. 52. Basato su R.B. Gallupe, A.R. Dennis, W.H. Cooper, J.S. Valacich, L.M. Bastianutti, e J.F. Nunamaker Jr, “Electronic Brainstorming and Group Size,” Academy of Management Journal, June 1992, pp. 350-69. Vedi anche J. Barauh e P.B. Paulus, “Effects of Training on Idea Generation in Groups,” Small Group Research, October 2008, pp. 523-41. 53. Dati tratti da E. Salas, D. Rozell, B. Mullen, e J.E. Driskell, “The Effect of Team Building on Performance: An Integration,” Small Group Research, June 1999, pp. 309-29. 54. Tratto da B. Mullen, C. Symons, L-T. Hu, e E. Salas, “Group Size, Leadership Behavior, and Subordinate Satisfaction,” Journal of General Psychology, April 1989, pp. 155-69. Vedi anche B. Ogungbamila, A. Ogungbamila, e G.A. Adetula, “Effects of Team Size and Work Team Perception on Workplace Commitment: Evidence from 23 Production Teams,” Small Group Research, December 2010, pp. 725-45. 55. D.S. Carlson, K.M. Kacmar, e D. Whitten, “What Men Think They Know about Executive Women,” Harvard Business Review, September 2006, p. 28. Vedi anche T A Judge e B A Livingston, “Is the Gap More Than Gender? A Longitudinal Analysis of Gender, Gender Role Orientation, and Earnings,” Journal of Applied Psychology, September 2008, pp. 994-1012; e G.N. Powell, “The Gender and Leadership Wars,” Organizational Dynamics, January-March 2011, pp. 1-9.

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Note al volume 56. G.L. Stewart, S.L. Dustin, M.R. Barrick, e T.C. Darnold, “Exploring the Handshake in Employment Interviews,” Journal of Applied Psychology, September 2008, p. 1145. 57. Vedi L. Smith-Lovin e C. Brody, “Interruptions in Group Discussions: The Effects of Gender and Group Composition,” American Sociological Review, June 1989, pp. 424-35. 58. L. Karakowsky, K. McBey, e D.L. Miller, “Gender, Perceived Competence, and Power Displays: Examining Verbal Interruptions in a Group Context,” Small Group Research, August 2004, p. 407. Vedi anche E.W. Morrison, S.L. Wheeler-Smith, e D. Kamdar, “Speaking Up in Groups: A Cross-Level Study of Group Voice Climate and Voice,” Journal of Applied Psychology, January 2011, pp. 183-91. 59. E M Ott, “Effects of the Male-Female Ratio at Work,” Psychology of Women Quarterly, March 1989, p. 53. 60. “Daily Downer,” Training, April 2005, p. 12. Vedi anche J. Swartz, “Will Hurd’s Sexual-Harassment Scandal Tarnish HP?” USA Today, August 9, 2010, p. 1B; B. Leonard, “Survey: 10% of Employees Report Harassment at Work,” HR Magazine, October 2010, p. 18; e D. Leinwand, “Navy Captain Loses Carrier Job Over Racy Videos,” USA Today, January 5, 2011, p. 4A. 61. J.L. Berdahl e C. Moore, “Workplace Harassment: Double Jeopardy for Minority Women,” Journal of Applied Psychology, March 2006, p. 426. Vedi anche J L Raver e L H Nishii, “Once, Twice, or Three Times as Harmful? Ethnic Harassment, Gender Harassment, and Generalized Workplace Harassment,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 236-54. 62. Vedi D Leinwand, “Survey: 1 in 5 Teens ‘Sext’ Despite Risks,” USA Today, June 24, 2009, p. 3A; e S Jayson, “Teens Say Bullying is Widespread,” USA Today, October 26, 2010, p. 1A. 63. Dati tratti da M. Rotundo, D. Nguyen, e P.R. Sackett, “A Meta-Analytic Review of Gender Differences in Perceptions of Sexual Harassment,” Journal of Applied Psychology, October 2001, pp. 914-22. Vedi anche N.A. Bowling e T.A. Beehr, “Workplace Harassment from the Victim’s Perspective: A Theoretical Model and Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, September 2006, pp. 998-1012; e M.S. Hershcovis e J. Barling, “Comparing Victim Attributions and Outcomes for Workplace Aggression and Sexual Harassment,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 874-88. 64. S.J. South, C.M. Bonjean, W.T. Markham, e J. Corder, “Female Labor Force Participation and the Organizational Experiences of Male Workers,” Sociological Quarterly, Summer 1983, p. 378. 65. R.R. Hirschfeld, M.H. Jordan, H.S. Field, W.F. Giles, e A.A. Armenakis, “Teams’ Female Representation and Perceived Potency as Inputs to Team Outcomes in a Predominantly Male Field Setting,” Personnel Psychology, Winter 2005, p. 893. Vedi anche P. Raghubir e A. Valenzuela, “Male-Female Dynamics in Groups: A Field Study of the Weakest Link,” Small Group Research, February 2010, pp. 41-70. 66. B.T. Thornton, “Sexual Harassment, 1: Discouraging It in the Work Place,” Personnel, April 1986, p. 18. 67. Vedi J. Deschenaux, “EEOC: Train Managers on Harassment,” HR Magazine, May 2008, p. 26. 68. Vedi J.L. Goolsby, D.A. Mack, e J.C. Quick, “Winning by Staying in Bounds: Good Outcomes from Positive Ethics,” Organizational Dynamics, July-September 2010, pp. 248-57; e P.T .Leeson, “Opportunism and Organization Under the Black Flag,” Organizational Dynamics, January-March 2011, pp. 34-42. 69. Per maggiori informazioni vedi S.E. Asch, Social Psychology (Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, 1952), ch. 16. Vedi anche G.D. Reeder, A.E. Monroe, e J.B. Pryor, “Impressions of Milgram’s Obedient Teachers: Situational Cues Inform Inferences about Motives and Traits,” Journal of Personality and Social Psychology, July 2008, pp. 1-17. 70. Vedi T.P. Williams e S. Sogon, “Group Composition and Conforming Behavior in Japanese Students,” Japanese Psychological Research, n. 4, 1984, pp. 231-34; T Amir, “The Asch Conformity Effect: A Study in Ku-

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449 wait,” Social Behavior and Personality, n. 2, 1984, pp. 187-90; e Y. Takano e S. Sogon, “Are Japanese More Collectivistic Than Americans,” Journal of Cross-Cultural Psychology, May 2008, pp. 237-50. 71. Dati tratti da R. Bond e P.B. Smith, “Culture and Conformity: A Meta-Analysis of Studies Using Asch’s (1952b, 1956) Line Judgment Task,” Psychological Bulletin, January 1996, pp. 111-37. 72. J.L. Roberts e E. Thomas, “Enron’s Dirty Laundry,” Newsweek, March 11, 2002, p. 26. Vedi anche G. Farrell, “Pride at Root of Skilling’s Downfall,” USA Today, October 24, 2006, p. 3B. 73. I.L. Janis, Groupthink, 2nd ed (Boston: Houghton Miffl in, 1982), p. 9. Modelli alternativi sono discussi in K. Granstrom e D. Stiwne, “A Bipolar Model of Groupthink: An Expansion of Janis’s Concept,” Small Group Research, February 1998, pp. 32-56; e A.R. Flippen, “Understanding Groupthink from a Self-Regulatory Perspective,” Small Group Research, April 1999, pp. 139-65. Per un aggiornamento completo sul groupthink vedi la completa edizione di febbraio-marzo 1998 di Organizational Behavior and Human Decision Processes (12 articoli). 74. Ibid. Per un modello alternativo, vedi R.J. Aldag e S. Riggs Fuller, “Beyond Fiasco: A Reappraisal of the Groupthink Phenomenon and a New Model of Group Decision Processes,” Psychological Bulletin, May 1993, pp. 533-52. Vedi anche A.A. Mohamed e F.A. Wiebe, “Toward a Process Theory of Groupthink,” Small Group Research, August 1996, pp. 416-30. 75. Dettagli di questo studio si potrebbero trovare in M.R. Callaway e J.K. Esser, “Groupthink: Effects of Cohesiveness and Problem-Solving Procedures on Group Decision Making,” Social Behavior and Personality, n. 2, 1984, pp. 157-64. Vedi anche C.R. Leana, “A Partial Test of Janis’s Groupthink Model: Effects of Group Cohesiveness and Leader-Behavior on Defective Decision Making,” Journal of Management, Spring 1985, pp. 5-17; e G. Moorhead e J.R. Montanari, “An Empirical Investigation of the Groupthink Phenomenon,” Human Relations, May 1986, pp. 399-410. Un effetto indiretto più modesto è riportato in J.N. Choi e M.U. Kim, “The Organizational Application of Groupthink and Its Limitations in Organizations,” Journal of Applied Psychology, April 1999, pp. 297-306. 76. Adattato dalla discussione tratta da Janis, ch. 11. 77. Vedi M.C. Gentile, “Keeping Your Colleagues Honest,” Harvard Business Review, March 2010, pp. 114-17; R. Tedlow, “Toyota Was in Denial. How About You?” Bloomberg Businessweek, April 19, 2010, p. 76; e F.J. Flynn e S.S. Wiltermuth, “Who’s With Me? False Consensus, Brokerage, and Ethical Decision Making in Organizations,” Academy of Management Journal, October 2010, pp. 1074-89. 78. Basato sulla discussione tratta da B. Latane, K. Williams, e S. Harkins, “Many Hands Make Light the Work: The Causes and Consequences of Social Loafing,” Journal of Personality and Social Psychology, June 1979, pp. 822-32; e D.A Kravitz e B. Martin, “ Ringelmann Rediscovered: The Original Article,” Journal of Personality and Social Psychology, May 1986, pp. 936-41. Vedi anche A. Jassawalla, H. Sashittal, e A. Malshe, “Students’ Perceptions of Social Loafing: Its Antecedents and Consequences in Undergraduate Business Classroom Teams,” Academy of Management Learning and Education, March 2009, pp. 42-54. 79. Vedi J. A Shepperd, “Productivity Loss in Performance Groups: A Motivation Analysis,” Psychological Bulletin, n. 1, 1993, pp. 67-81; R.E. Kidwell Jr e N. Bennett, “Employee Propensity to Withhold Effort: A Conceptual Model to Intersect Three Avenues of Research,” Academy of Management Review, July 1993, pp. 429-56; e S.J. Karau e K.D. Williams, “Social Loafing: Meta-Analytic Review and Theoretical Integration,” Journal of Personality and Social Psychology, October 1993, pp. 681-706. 80. Vedi S.J. Zaccaro, “Social Loafing: The Role of Task Attractiveness,” Personality and Social Psychology Bulletin, March 1984, pp. 99-106; J.M. Jackson e K.D. Williams, “Social Loafing on Difficult Tasks: Working Collectively Can Improve Performance,” Journal of Personality and Social Psychology, October 1985, pp. 937-42; e J.M. George, “Extrinsic and

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450 Intrinsic Origins of Perceived Social Loafing in Organizations,” Academy of Management Journal, March 1992, pp. 191-202. 81. Per i dettagli completi vedi K. Williams, S. Harkins, e B. Latane, “Identifiability as a Deterrent to Social Loafing: Two Cheering Experiments,” Journal of Personality and Social Psychology, February 1981, pp. 303-11. 82. Vedi J.M. Jackson e S.G. Harkins, “Equity in Effort: An Explanation of the Social Loafi ng Effect,” Journal of Personality and Social Psychology, November 1985, pp. 1199-206. 83. Entrambi gli studi sono riportati in S.G. Harkins e K. Szymanski, “Social Loafing and Group Evaluation,” Journal of Personality and Social Psychology, June 1989, pp. 934-41. Vedi anche R. Hoigaard, R. Safvenbom, e F.E. Tonnessen, “The Relationship between Group Cohesion, Group Norms, and Perceived Social Loafi ng in Soccer Teams,” Small Group Research, June 2006, pp. 217-32. 84. Dati tratti da J.A. Wagner III, “Studies of IndividualismCollectivism: Effects on Cooperation in Groups,” Academy of Management Journal, February 1995, pp. 152-72. Vedi anche R.C. Liden, S.J. Wayne, R.A. Jaworski, e N. Bennett, “Social Loafing: A Field Investigation,” Journal of Management, n. 2, 2004, pp. 285-304. 85. Basato su M.J. Pearsall, M.S. Christian, e A.P.J. Ellis, “Motivating Interdependent Teams: Individual Rewards, Shared Rewards, or Something in Between?” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 183-91. 86. Per approfondimenti vedi R.E. Kidwell, “Loafing in the 21st Century: Enhanced Opportunities - and Remedies - for Withholding Job Effort in the New Workplace,” Business Horizons, November-December 2010, pp. 543-52.

Capitolo 11 1. Estratto da A. Gostick e C. Elton, The Orange Revolution (New York: Free Press, 2010), pp. 114-15. 2. J.R. Katzenbach, e D.K. Smith, The Wisdom of Teams: Creating the High-Performance Organization (New York: HarperBusiness, 1999), p. 45. 3. Vedi J. Welch e S. Welch, “Team Building: Wrong and Right,” BusinessWeek, November 24, 2008, p. 130. 4. J.R. Katzenbach e D.K. Smith, “The Discipline of Teams,” Harvard Business Review, March-April 1993, p. 112 (enfasi aggiunta). 5. A. Gardiner, “Perfect Fit: Holtz Leads East Carolina Revival,” USA Today, September 12, 2008, p. 8C. 6. Vedi E. Sundstrom, K.P. DeMeuse, e D. Futrell, “Work Teams,” American Psychologist, February 1990, pp. 120-33. 7. Per tipologie alternative di team, vedi S.G. Scott e Walter O. Einstein, “Strategic Performance Appraisal in Team-Based Organizations: One Size Does Not Fit All,” Academy of Management Executive, May 2001, pp. 107-16. Vedi anche M.J. Pearsall, A.P.J. Ellis, e B.S. Bell, “Building the Infrastructure: The Effects of Role Identifi cation Behaviors on Team Cognition Development and Performance,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 192-200; J. Farh, C. Lee e C.I.C. Farh, “Task Confl ict and Team Creativity: A Question of How Much and When,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1173-80; e A.M.L. Raes, M.G. Heijltjes, U. Glunk, e R.A. Roe, “The Interface of the Top Management Team and Middle Managers: A Process Model,” Academy of Management Review, January 2011, pp. 102-26. 8. S. Hamm e K. Hall, “Perfect: The Quest to Design the Ultimate Portable PC,” BusinessWeek, February 25, 2008, p. 45. Vedi anche G.R. Bushe, “When People Come and Go,” The Wall Street Journal, August 23, 2010, p. R6. 9. Per esempio, vedi A. Zimmerman, “Wal-Mart’s Emergency-Relief Team Girds for Hurricane Gustav,” The Wall Street Journal, August 30, 2008, p. A3; e S. Sternberg, “Saved by 96 Minutes of CPR,” USA Today, March 3, 2011, pp. 1D-2D. 10. P. King, “What Makes Teamwork Work?” Psychology Today, December 1989, p. 16.

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Note al volume 11. Vedi J.A. LePine, R.F. Piccolo, C.L. Jackson, J.E. Mathieu, e J.R. Saul, “A Meta-Analysis of Teamwork Processes: Tests of a Multidimensional Model and Relationship with Team Effectiveness Criteria,” Personnel Psychology, Summer 2008, pp. 273-307; L. A DeChurch, e J.R. Mesmer-Magnus, “The Cognitive Underpinnings of Effective Teamwork: A Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 32-53; e M.R. Haas, “The Double-Edged Swords of Autonomy and External Knowledge: Analyzing Team Effectiveness in a Multinational Organization,” Academy of Management Journal, October 2010, pp. 989-1008. 12. Vedi M. Bolch, “Rewarding the Team,” HR Magazine, February 2007, pp. 91-93. 13. P. Burrows, “Cisco’s Comeback,” BusinessWeek, November 24, 2003, p. 124. 14. Vedi C.O.L.H. Porter, C.I. Gogus, e R.C. Yu, “When Does Team-work Translate Into Improved Team Performance? A Resource Allocation Perspective,” Small Group Research, April 2010, pp. 221-48; H. Van Mierlo e A. Kleingeld, “Goals, Strategies, and Group Performance: Some Limits of Goal Setting in Groups,” Small Group Research, October 2010, pp. 524-55; e T.L. Griffith e J.E. Sawyer, “Multilevel Knowledge and Team Performance,” Journal of Organizational Behavior, October 2010, pp. 1003-31. 15. Citato in P.B. Brown, “What I Know Now,” Fast Company, January 2005, p. 96. Vedi anche G. Hirst, D. Van Knippenberg, e J. Zhou, “A Cross-Level Perspective on Employee Creativity: Goal Orientation, Team Learning Behavior, and Individual Creativity,” Academy of Management Journal, April 2009, pp. 280-93. 16. Per approfondimenti sull’efficacia dei team, vedi S. Sonnentag e J. Volmer, “Individual-Level Predictors of Task-Related Teamwork Processes: The Role of Expertise and Self-Efficacy in Team Meetings,” Group and Organization Management, February 2009, pp. 37-66. 17. Per approfondimenti, vedi D Coutu, “Why Teams Don’t Work,” Harvard Business Review, May 2009, pp. 99-105. 18. P. Raeburn, “Whoops! Wrong Patient,” BusinessWeek, June 17, 2002, p. 85. Vedi anche G. Morse, “Health Care Needs a New Kind of Hero,” Harvard Business Review, April 2010, pp. 60-61. 19. Vedi C.M. Christensen, M. Marx, e H.H. Stevenson, “The Tools of Cooperation and Change,” Harvard Business Review, October 2006, pp. 73-80. 20. Vedi A. Kohn, “How to Succeed without Even Vying,” Psychology Today, September 1986, pp. 27-28. Gli psicologi dello sport esaminano la “competizione cooperativa” in S. Sleek, “Competition: Who’s the Real Opponent?” APA Monitor, July 1996, p. 8. 21. Citato in M.C. Meaney, “Seeing Beyond the Woman: An Interview with a Pioneering Academic and Board Member,” The McKinsey Quarterly, September 2008, pp. 7-8. 22. D.W. Johnson, G. Maruyama, R. Johnson, D. Nelson, e L. Skon, “Effects of Cooperative, Competitive, and Individualistic Goal Structures on Achievement: A Meta-Analysis,” Psychological Bulletin, January 1981, pp. 56-57. Un’interpretazione alternativa dello studio citato che sottolinea l’influenza dei fattori situazionali può essere trovata in J.L. Cotton e M.S. Cook, “Meta-Analysis and the Effects of Various Reward Systems: Some Different Conclusions from Johnson et al.,” Psychological Bulletin, July 1982, pp. 176-83. 23. R. Zemke, “Office Spaces,” Training, May 2002, p. 24. Vedi anche A. Fox, “Don’t Let Silos Stand in the Way,” HR Magazine, May 2010, pp. 50-51. 24. Vedi M.E. Porter e M.R. Kramer, “Creating Shared Value,” Harvard Business Review, January-February 2011, pp. 62-77. 25. J. Barbian, “Short Shelf Life,” Training, June 2002, p. 52. 26. Vedi J. O’Toole e W. Bennis, “What’s Needed Next: A Culture of Candor,” Harvard Business Review, June 2009, pp. 54-61; M. Yakovleva, R.R. Reilly, e R. Werko, “Why Do We Trust? Moving Beyond Individual to Dyadic Perceptions,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp.

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Note al volume 79-91; e J.P. MacDuffi e, “Inter-Organizational Trust and the Dynamics of Distrust,” Journal of International Business Studies, January 2011, pp. 35-47. 27. B. Schneider e K.B. Paul, “In the Company We Trust,” HR Magazine, January 2011, p. 41. 28. H. Mackay, “Truth or Consequences,” www.harveymackay.com/ columns/column_this_week.cfm. Accessed March 6, 2009. 29. Vedi E.C. Tomlinson e R.C. Mayer, “The Role of Causal Attribution Dimensions in Trust Repair,” Academy of Management Review, January 2009, pp. 85-104; N. Gillespie e G. Dietz, “Trust Repair after an Organization-Level Failure,” Academy of Management Review, January 2009, pp. 127-45; e P.H. Kim, K.T. Dirks, e C.D. Cooper, “The Repair of Trust: A Dynamic Bilateral Perspective and Multilevel Conceptualization,” Academy of Management Review, July 2009, pp. 401-422. 30. R.C. Mayer, J.H. Davis, e F.D. Schoorman, “An Integrative Model of Organizational Trust,” Academy of Management Review, July 1995, p. 715. 31. J.D. Lewis e A. Weigert, “Trust as a Social Reality,” Social Forces, June 1985, p. 970. Vedi anche R.F. Hurley, “The Decision to Trust,” Harvard Business Review, September 2006, pp. 55-62. 32. M. Powell, “Betrayal,” Inc., April 1996, p. 24. 33. Adattato da F. Bartolomé, “Nobody Trusts the Boss Completely— Now What?” Harvard Business Review, March-April 1989, pp. 135-42. Vedi anche D. Seidman, “Building Trust by Trusting,” BusinessWeek, September 7, 2009, p. 76; P. Lencioni, “The Power of Saying ‘We Blew It,’ ” Bloomberg Businessweek, February 22, 2010, p. 84; e M.V. Copeland, “A Sick CEO’s Full Disclosure,” Fortune, October 18, 2010, pp. 47-52. 34. S.M.R. Covey con R.R. Merrill, The Speed of Trust: The One Thing That Changes Everything (New York: Free Press, 2006), p. 45 (enfasi aggiunta). Per ricerche recenti, vedi M.L. Frazier, P.D. Johnson, M. Gavin, J. Gooty, e D.B. Snow, “Organizational Justice, Trustworthiness, and Trust: A Multifoci Examination,” Group and Organization Management, February 2010, pp. 39-76; S Wong e W F Boh, “Leveraging the Ties of Others to Build a Reputation for Trustworthiness Among Peers,” Academy of Management Journal, February 2010, pp. 129-48; e B.A. De Jong e T. Elfring, “How Does Trust Affect the Performance of Ongoing Teams? The Mediating Role of Refl exivity, Monitoring, and Effort,” Academy of Management Journal, June 2010, pp. 535-49. 35. W. Foster Owen, “Metaphor Analysis of Cohesiveness in Small Discussion Groups,” Small Group Behavior, August 1985, p. 416. 36. Questa distinzione si basa sulla discussione che si trova in A. Tziner, “Differential Effects of Group Cohesiveness Types: A Clarifying Overview,” Social Behavior and Personality, n. 2, 1982, pp. 227-39. 37. Basato su L. Van Boven, J. Kane, P.A. McGraw, e J. Dale, “Feeling Close: Emotional Intensity Reduces Perceived Psychological Distance,” Journal of Personality and Social Psychology, June 2010, pp. 872-85. 38. Basato su B. Mullen, T. Anthony, E. Salas, e J.E. Driskell, “Group Cohesiveness and Quality of Decision Making: An Integration of Tests of the Groupthink Hypothesis,” Small Group Research, May 1994, pp. 189-204. Vedi anche M.C. Andrews, K.M. Kacmar, G.L. Blakely, e N.S. Bucklew, “Group Cohesion as an Enhancement to the Justice-Affective Commitment Relationship,” Group and Organization Management, December 2008, pp. 736-55. 39. G.L. Miles, “The Plant of Tomorrow Is in Texas Today,” Business-Week, July 28, 1986, p. 76. 40. Vedi, per esempio, P. Jin, “Work Motivation and Productivity in Voluntarily Formed Work Teams: A Field Study in China,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, 1993, pp. 133-55. Vedi anche S. Reysen, “Construction of a New Scale: The Reysen Likability Scale,” Social Behavior and Personality, n. 2, 2005, pp. 201-8. 41. Basato sulla discussione in E.E. Lawler III e S.A. Mohrman, “ Quality Circles: After the Honeymoon,” Organizational Dynamics, Spring 1987, pp. 42-54.

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451 42. Vedi D.L. Duarte e N. Tennant Snyder, Mastering Virtual Teams: Strategies, Tools, and Techniques, 3rd ed (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 2006); e J. Cordery, C. Soo, B. Kirkman, e B. Rosen, “Leading Parallel Global Virtual Teams: Lessons from Alcoa,” Organizational Dynamics, July-September 2009, pp. 204-16. 43. J. Yang e K. Gelles, “Working Remotely vs. In the Office,” USA Today, June 10, 2008, p. 1B. 44. B. Williamson, “Managing at a Distance,” BusinessWeek, July 27, 2009, p. 64. Vedi anche “Mobile Workforce: Concerns and Benefits,” HR Magazine, February 2011, p. 14; e D. Dahl, “Want a Job? Let the Bidding Begin. A Radical Take on the Virtual Company,” Inc., March 2011, pp. 93-96. 45. Basato su P. Bordia, N DiFonzo, w A Chang, “Rumor as Group Problem Solving: Development Patterns in Informal Computer-Mediated Groups,” Small Group Research, February 1999, pp. 8-28. 46. Vedi K.A. Graetz, E.S. Boyle, C.E. Kimble, P. Thompson, e J.L. Garloch, “Information Sharing in Face-to-Face, Teleconferencing, and Electronic Chat Groups,” Small Group Research, December 1998, pp. 714-43. 47. Basato su F. Niederman e R.J. Volkema, “The Effects of Facilitator Characteristics on Meeting Preparation, Set Up, and Implementation,” Small Group Research, June 1999, pp. 330-60; e B. Whitworth, B. Gallupe, e R. McQueen, “Generating Agreement in Computer-Mediated Groups,” Small Group Research, October 2001, pp. 625-65. 48. Basato su J J Sosik, B J Avolio, e S S Kahai, “Inspiring Group Creativity: Comparing Anonymous and Identified Electronic Brainstorming,” Small Group Research, February 1998, pp. 3-31. Vedi anche S.S. Kahai, J.J. Sosik, e B.J. Avolio, “Effects of Participative and Directive Leadership in Electronic Groups,” Group and Organization Management, February 2004, pp. 67-105. 49. Basato su M.M. Montoya-Weiss, A.P. Massey, e M. Song, “Getting It Together: Temporal Coordination and Conflict Management in Global Virtual Teams,” Academy of Management Journal, December 2001, pp. 1251-62. 50. J. Hyatt, “A Surprising Truth about Geographically Dispersed Teams,” MIT Sloan Management Review, Summer 2008, pp. 5-6. 51. B. Dumaine, “Who Needs a Boss?” Fortune, May 7, 1990, p. 52. 52. Adattamento dalla tabella 1 in V.U. Druskat e J.V. Wheeler, “Managing from the Boundary: The Effective Leadership of Self-Managing Work Teams,” Academy of Management Journal, August 2003, pp. 435-57. 53. J.M. O’Brien, “Team Building in Paradise,” Fortune, May 26, 2008, p. 113. Vedi anche T. Wayne, “Should Your Trainer Look Like This?” Bloomberg Businessweek, August 30-September 5, 2010, pp. 81-83; e L. Freifeld, “Paddle to Collaborate,” Training, November- December 2010, p. 6. 54. Vedi S. McChrystal, “Step Up for Your Country,” Newsweek, January 31, 2011, pp. 36-39. 55. Citato in C. Tkaczyk, “Keeping Creatives Happy,” Fortune, March 16, 2009, p. 40. Vedi anche K. Wehrum, “Hello, Conference Room A! An Offi ce Where Employees Rock,” Inc., November 2010, pp. 115-16. 56. Vedi S. Prokesch, “How GE Teaches Teams to Lead Change,” Harvard Business Review, January 2009, pp. 99-106; e B. Burn, “Teambuilding Dilemma,” Training, September-October 2010, p. 42. 57. Vedi J. Brett, K. Behfar, e M.C. Kern, “Managing Multicultural Teams,” Harvard Business Review, November 2006, pp. 83-91. 58. S. Bucholz e T. Roth, Creating the High-Performance Team (New York: John Wiley & Sons, 1987), p. xi. 59. Ibid., p. 14. Vedi anche K. Gurchiek, “Report Ties Coaching Strategies to Business,” HR Magazine, July 2010, p. 75. 60. P. King, “What Makes Teamwork Work?” Psychology Today, December 1989, p. 17. Per ricerche ed analisi sull’argomento, vedi P.F. Skilton e K.J. Dooley, “The Effects of Repeat Collaboration on Creative Abrasion,” Academy of Management Review, January 2010, pp. 118-34; e A. Wiedow e U. Konradt, “Two-Dimensional Structure of Team Process Improvement: Team Reflection and Team Adaptation,” Small Group Research, February 2011, pp. 32-54.

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452 61. Per approfondimenti vedi D.L. Kirkpatrick e J.D. Kirkpatrick, Evaluating Training Programs: The Four Levels, 3rd ed (San Francisco, CA: Berrett-Koehler, 2006); e L. Freifeld, “50 Years for Four Levels,” Training, October-November 2009, pp. 38-39. Vedi anche T. Sitzmann, K. Ely, K.G. Brown, e K.N. Bauer, “Self-Assessment of Knowledge: A Cognitive Learning or Affective Measure?” Academy of Management Learning and Education, June 2010, pp. 169-91; K.V. Mann, “Self-Assessment: The Complex Process of Determining ‘How We Are Doing’ – A Perspective from Medical Education,” Academy of Management Learning and Education, June 2010, pp. 305-13; e B.M. Moskal, “Self-Assessments: What Are Their Valid Uses?” Academy of Management Learning and Education, June 2010, pp. 314-20. 62. J.M. O’Brien, “Zappos Knows How to Kick It,” Fortune, February 2, 2009, p. 58. 63. Per ricerche relative vedi C.B. Gibson, C.D. Coopere J.A. Conger, “Do You See What We See? The Complex Effects of Perceptual Distance between Leaders and Teams,” Journal of Applied Psychology, January 2009, pp. 62-76; S.W.J. Kozlowski, D. Watola, J.M. Jensen, B. Kim e I. Botero, “Developing Adaptive Teams: A Theory of Dynamic Leadership,” in Team Effectiveness in Complex Organizations, a cura di E. Sales, G.F. Goodwin e C.S. Burke (New York: Routledge Academic, 2009); e T.L. Pittinsky, “A Two-Dimensional Model of Intergroup Leadership,” American Psychologist, April 2010, pp. 194-200. 64. L.A. Hill, “Becoming the Boss,” Harvard Business Review, January 2007, p. 54. Vedi anche L.A. Hill e K. Lineback, “Are You a Good Boss – Or a Great One?” Harvard Business Review, January- February 2011, pp. 124-31.

Capitolo 12 1. Estratto da B. Stone, P. Burrows, e D. MacMillan, “Google Once and Future CEO, Larry Page, on His Plan for Growth – and the Star Deputies Who Have to Make It Happen,” Bloomberg Businessweek, January 31-February 6, 2011 pp. 51-52. 2. I punti di forza e i punti deboli del modello razionale sono esaminati in M.H. Bazerman, Judgment in Managerial Decision Making ( Hoboken, NJ: John Wiley & Sons, 2006). 3. Lo studio è stato condotto da P.C. Nutt, “Expanding the Search for Alternatives during Strategic Decision Making,” Academy of Management Executive, November 2004, pp. 13-28. 4. H.A. Simon, “Rational Decision Making in Business Organizations,” American Economic Review, September 1979, p. 510. 5. Conclusioni proposte in R. Brown, Rational Choice and Judgment (Hoboken, NJ: John Wiley & Sons, 2005), p. 9. 6. I risultati si possono trovare in J.P. Byrnes, D.C. Miller, e W.D. Schafer, “Gender Differences in Risk Taking: A Meta-Analysis,” Psychological Bulletin, May 1999, pp. 367-83. 7. La razionalità limitata è esaminata in A.R. Memati, A.M. Bhatti, M. Maqsal, I. Mansoor, e F. Naveed, “Impact of Resource Based View and Resource Dependence Theory on Strategic Decision Making,” International Journal of Business Management, December 2010, pp. 110-15; e H A Simon, Administrative Behavior, 2nd ed (New York: Free Press, 1957). 8. Conclusioni estratte da “Poor Decisions Hurt Company Performance,” HR Magazine, February 2007, p. 16. 9. Il modello è presentato dettagliatamente in M.D. Cohen, J.G. March, e J.P. Olsen, “A Garbage Can Model of Organizational Choice,” Administrative Science Quarterly, March 1981, pp. 1-25. 10. Vedi G. Fioretti e A. Lomi, “Passing the Buck in the Garbage Can Model of Organizational Choice,” Computational and Mathematical Organization Theory, June 2010, pp. 113-43; e A. Styhre, L. Wikmalm, S. Olilla, e J. Roth, “Garbage-Can Decision Making and the Accommodation of Uncertainty in New Drug Development Work,” Creativity and Innovation Management, June 2010, pp. 134-46.

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Note al volume 11. Vedi A Carter, “Lighting a Fire Under Campbell,” BusinessWeek, December 4, 2006, pp. 96, 99. 12. Un esempio di processo del contenitore dei rifiuti si trova in K A Strassel, “Mr. Fairness,” The Wall Street Journal, August 7-8, 2010, p. A11. 13. Vedi D.J. Snowden e M.E. Boone, “A Leader’s Framework for Decision Making,” Harvard Business Review, November 2007, pp. 69-76. 14. Vedi P.M. Tingling E.M.J. Brydon, “Is Decision-Based Evidence Making Necessarily Bad?” MIT Sloan Management Review, Summer 2010, pp. 71-76. 15. I bias associati all’uso di scorciatoie nel processo decisionale sono trattati da A. Tversky e D. Kahneman, “Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases,” Science, September 1974, pp. 1124-31. 16. I risultati sono consultabili in R.A. Lowe e A.A. Ziedonis, “Overoptimism and the Performance of Entrepreneurial Firms,” Management Science, February 2006, pp. 173-86. 17. L’esempio è tratto da Bazerman, p. 41. 18. Vedi J. Ross e B.M. Staw, “Organizational Escalation and Exit: Lessons from the Shoreham Nuclear Power Plant,” Academy of Management Journal, August 1993, pp. 701-32; e G. Pan e L. Shan, “Transition to IS Project De-Escalation: An Exploration into Management Executives’ Influence Behaviors,” IEEE Transactions on Engineering Management, February 2011, pp. 109-23. 19. La definizione è tratta da J. Pfeffer e R.I. Sutton, “Evidence-Based Management,” Harvard Business Review, January 2006, p. 112. Per applicazioni reali vedi S. Birk, “The Evidence-Based Road,” Healthcare Executive, July-August 2010, pp. 28-36. 20. Il modello è stato proposto da R.B. Briner, D. Denyer, e D.M. Rousseau, “Evidence-Based Management: Concept Cleanup Time?” Academy of Management Perspectives, November 2009, pp. 19-32. 21. Le definizioni e l’esame seguenti sono tratti da Tingling e Brydon, pp. 71-76. 22. Le citazioni e la discussione si basano su J. Pfeffer aned R.I. Sutton, “Profiting from Evidence-Based Management,” Strategy & Leadership 34, n. 2 (2006): 35-42. 23. Vedi D. Meinert, “Top Performers Boast Analytics Over Intuition,” HR Magazine, February 2011, p. 18; e D. Rich, “Power of Predictive Analytics,” Malaysian Business, December 1, 2010, p. 66. 24. Da Pfeffer e Sutton, “Evidence-Based Management.” Vedi anche J. Griffin, “Who’s Responsible for Analytics?” Information Management, January 1, 2011, p. 29. 25. Tale definizione è stata tratta da A.J. Rowe e R.O. Mason, Managing with Style: A Guide to Understanding, Assessing and Improving Decision Making (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 1987). 26. La discussione sugli stili si basa su materiale contenuto in Ibid. 27. Estratto da B. Gimbel, “Keeping Planes Apart,” Fortune, June 27, 2005, p. 112. 28. B. Bremner e D. Roberts, “A Billion Tough Sells,” BusinessWeek, March 20, 2006, p. 44. 29. Y.I. Kane e P. Dvorak, “Howard Stringer, Japanese CEO,” The Wall Street Journal, March 3-4, 2007, pp. A1, A6. 30. Vedi M. Gupta, A. Brantley, e V.P. Jackson, “Product Involvement as a Predictor of Generation Y Consumer Decision Making Styles,” The Business Review, Summer 2010, pp. 28-33; e S.S. Wang, “Why So Many People Can’t Make Decisions,” The Wall Street Journal, September 28, 2010, pp. D1, D2. 31. L. Lehrer, How We Decide (Boston: Houghton Miffl in, 2009); in italiano: Come decidiamo, trad. di Susanna Bourlot, Codice, Torino, 2009. 32. D. Kahneman e G. Klein, “Conditions for Intuitive Expertise: A Failure to Disagree,” American Psychologist, September 2009, p. 519. 33. Vedi R. Lange e J. Houran, “A Transliminal View of Intuitions in the Workplace,” North American Journal of Psychology, December 2010, pp. 501-16. 34. Estratto da C.C. Miller e R.D. Ireland, “Intuition in Strategic Decision Making: Friend or Foe in the Fast-Paced 21st Century,” Academy of Management Executive, February 2005, p. 20.

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Note al volume 35. Vedi Kahneman e Klein, pp. 515-26. 36. Vedi E. Dane e M.G. Pratt, “Exploring Intuition and Its Role in Managerial Decision Making,” Academy of Management Review, January 2007, pp. 33-54. 37. N.M. Tichy e W.G. Bennis, “Making Judgment Calls: The Ultimate Act of Leadership,” Harvard Business Review, October 2007, p. 99. 38. Vedi Kahneman e Klein, pp. 515-26. 39. Estratto da “Top Small Workplaces 2008,” The Wall Street Journal, October 13, 2008, p. R4. 40. I risultati si trovano in C.K.W. De Dreu e M.A. West, “Minority Dissent and Team Innovation: The Importance of Participation in Decision Making,” Journal of Applied Psychology, December 2001, pp. 1191-201. 41. G. Park e R.P. DeShon, “A Multilevel Model of Minority Opinion Expression and Team Decision-making Effectiveness,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 824-33. 42. Tali linee guida sono state tratte da G.P. Huber, Managerial Decision Making (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1980), p. 149. 43. G.W. Hill, “Group versus Individual Performance: Are N+1 Heads Better Than One?” Psychological Bulletin, May 1982, p. 535. 44. R Adams e D Ferreira, “Moderation in Groups: Evidence from Betting on Ice Break-Ups in Alaska,” The Review of Economic Studies, July 2010, pp. 882-913. 45. Risultati di supporto si trovano in J. Hedlund, D.R. Ilgen, e J.R. Hollenbeck, “Decision Accuracy in Computer-Mediated versus Face-to-Face Decision-Making Teams,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, October 1998, pp. 30-47. 46. Vedi J.R. Winquist e J.R. Larson Jr, “Information Pooling: When It Impacts Group Decision Making,” Journal of Personality and Social Psychology, February 1998, pp. 371-77. 47. G.M. Parker, Team Players and Teamwork: The New Competitive Business Strategy (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 1990). 48. Suggerimenti tratti da Ibid.. 49. Vedi A.F. Osborn, Applied Imagination: Principles and Procedures of Creative Thinking, 3rd ed (New York: Scribners, 1979). 50. Vedi J. Castaldo, “Getting Drowned Out by the Brainstorm,” Canadian Business, July 19, 2010, p. 91; e K. Girotra e C. Terwiesch, “Idea Generation and the Quality of the Best Idea,” Management Science, April 2010, pp. 591-605. 51. Per un riepilogo della ricerca sul brainstorming vedi R.C. Litchfield, “Brainstorming Reconsidered: A Goal-Based View,” Academy of Management Review, July 2008, pp. 649-68. 52. Raccomandazioni e descrizioni tratte da B. Nussbaum, “The Power of Design,” BusinessWeek, May 17, 2004, pp. 86-94. 53. Per un’applicazione della tecnica del nominal group vedi S. Lloyd, “ Applying the Nominal Group Technique to Specify the Domain of a Construct,” Qualitative Market Research, January 2011, pp. 105-21. 54. Vedi L. Thompson, “Improving the Creativity of Organizational Work Groups,” Academy of Management Executive, February 2003, pp. 96-109. 55. Vedi N.C. Dalkey, D.L. Rourke, R. Lewis, e D. Snyder, Studies in the Quality of Life: Delphi and Decision Making (Lexington, MA: Lexington Books: D.C. Heath and Co, 1972). 56. Per un’applicazione della tecnica Delphi vedi A. Graefe e J.S. Armstrong, “Comparing Face-to-Face Meetings, Nominal Groups, Delphi and Prediction Markets on an Estimating Task,” International Journal of Forecasting, January-March 2011, pp. 183-95. 57. Vedi P. Dvorak, “Best Buy Taps ‘Prediction Market’; Imaginary Stocks Let Workers Forecast Whether Retailer’s Plans Will Meet Goals,” The Wall Street Journal, September 16, 2008, p. B1. 58. Vedi K. Maher, “Wal-Mart Seeks New Flexibility in Worker Shifts,” The Wall Street Journal, January 3, 2007, pp. A1, A11. 59. Risultati di supporto si trovano in S.S. Lam e J. Schaubroeck, “Improving Group Decisions by Better Polling Information: A Comparative Advantage of

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453 Group Decision Support Systems,” Journal of Applied Psychology, August 2000, pp. 565-73. 60. La definizione è stata adattata da R K Scott, “Creative Employees: A Challenge to Managers,” Journal of Creative Behavior, First Quarter 1995, pp. 64-71. 61. T.A. Matherly e R.E. Goldsmith, “The Two Faces of Creativity,” Business Horizons, September-October 1985, p. 9. 62. Vedi S.H. Harrison, D.M. Sluss, e B.E. Ashforth, “ Curiosity Adapted the Cat: The Role of Trait Curiosity in Newcomer Adaptation,” Journal of Applied Psychology, January 2011, pp. 211-20. 63. La personalità e la creatività sono state analizzate da M. Baer e G.R. Oldham, “The Curvilinear Relations between Experienced Creative Time Pressure and Creativity: Moderating Effects of Openness to Experience and Support for Creativity,” Journal of Applied Psychology, July 2006, pp. 963-70; e X. Zhang e K.M. Bartol, “The Infl uence of Creative Process Engagement on Employee Creative Performance and Overall Job Performance: A Curvilinear Assessment,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 862-73. 64. J.M. Higgins, “Innovate or Evaporate: Seven Secrets of Innovative Corporations,” The Futurist, September-October 1995, p. 46. 65. Vedi C.A. Hartnell, A.Y. Ou, e A. Kinicki, “Organizational Culture and Organizational Effectiveness: A Meta-Analytic Investigation of the Competing Values Framework’s Theoretical Suppositions,” Journal of Applied Psychology, in corso di stampa. 66. Vedi C.M. Pearson e S.A. Sommer, “Infusing Creativity Into Crisis Management: An Essential Approach Today,” Organizational Dynamics, January-March 2011, pp. 27-33; J-L. Farh, C. Lee, e C.I.C. Farh, “Task Conflict and Team Creativity: A Question of How Much and When,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1173-80; e K. Byron, S. Khazanchi, e D. Nazarian, “The Relationship Between Stressor and Creativity: A Meta-Analysis Examining Competing Theoretical Models,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 201-12. 67. Vedi A-C. Wang e B-S. Cheng, “When Does Benevolent Leadership Lead to Creativity? The Moderating Role of Creative Role Identity and Job Autonomy,” Journal of Organizational Behavior, January 2010, pp. 106-21; e S. Khazanchi e S.S. Masterson, “Who and What is Fair Matters: A Multi-Foci Social Exchange Model of Creativity,” Journal of Organizational Behavior, January 2011, pp. 86-106. 68. J.Y. Kim, “A Lifelong Battle against Disease,” US News & World Report, November 19, 2007, pp. 62, 64. 69. Vedi J. Lehrer, “Bother Me, I’m Thinking,” The Wall Street Journal, February 19-20, 2011, p. C12. 70. I dettagli si trovano in M Basadur, “Managing Creativity: A Japanese Model,” Academy of Management Executive, May 1992, pp. 29-42.

Capitolo 13 1. D. Tjosvold, Learning to Manage Confl ict: Getting People to Work Together Productively (New York: Lexington Books, 1993), p. xi. 2. Ibid., pp. xi-xii. Vedi anche G.J. Kilduff, H.A. Elfenbein, e B.M. Staw, “The Psychology of Rivalry: A Relationally Dependent Analysis of Competition,” Academy of Management Journal, October 2010, pp. 943-69, e A. Vance e A. Ricadela, “HP. Cancels The Board And the Beautiful,” Bloomberg Businessweek, January 31-February 6, 2011, pp. 33-34. 3. J.A. Wall Jr e R. Robert Callister, “Conflict and Its Management,” Journal of Management, n. 3 (1995), p. 517. Vedi anche M. Sheehan, “Understanding Opposition,” Harvard Business Review, February 2008, p. 21. 4. Wall e Callister, p. 544. 5. Vedi R.R. Vallacher, P.T. Coleman, A. Nowak, e L. BuiWrzosinska, “Rethinking Intractable Confl ict: The Perspective of Dynamical Systems,” American Psychologist, May-June 2010, pp. 262-78; e D.L. Shapiro, “Relational Identity Theory: A Systematic Approach for Transforming the

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454 Emotional Dimension of Confl ict,” American Psychologist, October 2010, pp. 634-45. 6. K. Cloke e J. Goldsmith, Resolving Confl icts at Work: A Complete Guide for Everyone on the Job (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 2000), pp. 25, 27, 29. Vedi anche R. Lipsyte, “ ‘Jock Culture’ Permeates Life,” USA Today, April 10, 2008, p. 11A. 7. Cloke e Goldsmith, pp. 31-32. 8. Dati tratti da L. Petrecca, “Bullying in Workplace Is Common, Hard to Fix,” USA Today, December 28, 2010, pp. 1B-2B. Vedi anche E. Kim e T.M. Glomb, “Get Smarty Pants: Cognitive, Personality, and Victimization,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 889-901; D Levine, “Investigation of Bullying, Job Analyses, Dual Career Ladders,” HR Magazine, November 2010, p. 20; e A.R. Wheeler, J.R.B. Halbesleben, e K. Shanine, “Eating Their Cake and Everyone Else’s Cake, Too: Resources as the Main Ingredient to Workplace Bullying,” Business Horizons, November-December 2010, pp. 553-60. 9. Vedi D. Cadrain, “Campus Violence Reveals Background Screening Flaws,” HR Magazine, May 2010, p. 13, S Whitson, “Checking Passive Aggression,” HR Magazine, June 2010, pp. 115-16; e A.C. Klotz e M.R. Buckley, “ ‘Where Everybody Knows Your Name’: Lessons from Small Business about Preventing Workplace Violence,” Business Horizons, November-December 2010, pp. 571-79. 10. S.P. Robbins, “‘Conflict Management’ and ‘Conflict Resolution’ Are Not Synonymous Terms,” California Management Review, Winter 1978, p. 70. Vedi anche P.S. Hempel, Z. Zhang, e D. Tjosvold, “Conflict Management between and within Teams for Trusting Relationships and Performance in China,” Journal of Organizational Behavior, January 2009, pp. 41-65. 11. Estratto da K. Sulkowicz, “Analyze This,” BusinessWeek, September 29, 2008, p. 19. Vedi anche S.A. Joni e D. Beyer, “How to Pick a Good Fight,” Harvard Business Review, December 2009, pp. 48-57. 12. Adattato in parte dalla discussione tratta da A.C. Filley, Interpersonal Confl ict Resolution (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1975), pp. 9-12; e B. Fortado, “The Accumulation of Grievance Conflict,” Journal of Management Inquiry, December 1992, pp. 288-303. Per una situazione caratterizzata da molti di questi antecedent del conflitto, vedi M. Adams, “Pilots Have Much to Lose during Mergers,” USA Today, March 10, 2008, p. 3B. 13. Adattato dalla discussione tratta da Tjosvold, Learning to Manage Conflict, pp. 12-13. Vedi anche K.A. Jehn, S. Rispens, e S.M.B. Thatcher, “The Effects of Confl ict Asymmetry on Work Group and Individual Outcomes,” Academy of Management Journal, June 2010, pp. 596-616. 14. L. Gardenswartz e A. Rowe, Diverse Teams at Work: Capitalizing on the Power of Diversity (New York: McGraw-Hill, 1994), p. 32. 15. C.M. Pearson e C.L. Porath, “On the Nature, Consequences, and Remedies of Workplace Incivility: No Time for ‘Nice’? Think Again,” Academy of Management Executive, February 2005, p. 7. Vedi anche C.L. Porath e C.M. Pearson, “The Cost of Bad Behavior,” Organizational Dynamics, January-March 2010, pp. 64-71; S. Page, “Poll: Less Civility Seen as Political Disputes Heat Up,” USA Today, April 22, 2010, p. 4A. 16. Vedi P. Post, “Rude Awakening,” Training, January 2010, p. 40; e M. Weinstein, “Tips to Neutralize Toxic Personalities,” Training, March-April 2010, p. 13. 17. Dati tratti da D. Stamps, “Yes, Your Boss Is Crazy,” Training, July 1998, pp. 35-39. Vedi anche S.S. Wang, “Mental Illness, Redefi ned,” The Wall Street Journal, February 10, 2010, p. A3; A. Andors, “Dispel the Stigma of Mental Illness,” HR Magazine, October 2010, pp. 83-86; e M. Harvey, M. Moeller, H. Sloan III, e A. Williams, “Business Horizons, November-December 2010, pp. 561-70. 18. Vedi L.P. Postol, “ADAAA Will Result in Renewed Emphasis on Reasonable Accommodations,” SHRM Legal Report, January 2009, pp. 1-6; R.J. Grossman, “What to Do About Substance Abuse,” HR Magazine, November 2010, pp. 32-38; e D. Cadrain, “The Marijuana Exception,” HR Magazine, November 2010, pp. 40-42.

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Note al volume 19. Tratto da J.C. McCune, “The Change Makers,” Management Review, May 1999, pp. 16-22. 20. Basato sulla discussione tratta da C.W. Leach et al., “Group-Level Self-Definition and Self-Investment: A Hierarchical (Multicomponent) Model of In-Group Identification,” Journal of Personality and Social Psychology, July 2008, pp. 144-65; J. Gillispie e J.H. Chrispeels, “Us and Them,” Small Group Research, August 2008, pp. 397-437; A.C. Homan, J.R. Hollenbeck, S.E. Humphrey, D. Van Knippenberg, D.R. Ilgen, e G.A. Van Kleef, “Facing Differences with an Open Mind: Openness to Experience, Salience of Intragroup Differences, and Performance of Diverse Work Groups,” Academy of Management Journal, December 2008, pp. 1204-22; e A.B. Dessel, “Effects of Intergroup Dialogue: Public School Teachers and Sexual Orientation Prejudice,” Small Group Research, October 2010, pp. 556-92. 21. Vedi T.F. Pettigrew e L.R. Tropp, “A Meta-Analytic Test of Inter-group Contact Theory,” Journal of Personality and Social Psychology, May 2006, pp. 751-83. 22. G. Labianca, D.J. Brass, e B. Gray, “Social Networks and Perceptions of Intergroup Confl ict: The Role of Negative Relationships and Third Parties,” Academy of Management Journal, February 1998, p. 63 (con enfasi aggiunta). 23. Per esempio, vedi S.C. Wright, A. Aron, T. McLaughlin-Volpe, e S.A. Ropp, “The Extended Contact Effect: Knowledge of Cross-Group Friendships and Prejudice,” Journal of Personality and Social Psychology, July 1997, pp. 73-90; e E. Page-Gould, R. Mendoza-Denton, e L.R. Tropp, “With a Little Help from My Cross-Group Friend: Reducing Anxiety in Intergroup Contexts through Cross-Group Friendship,” Journal of Personality and Social Psychology, November 2008, pp. 1080-94. 24. Vedi A. Karacanta e J. Fitness, “Majority Support for Minority OutGroups: The Roles of Compassion and Guilt,” Journal of Ap-plied Social Psychology, November 2006, pp. 2730-49; D.A. Butz e E.A. Plant, “Perceiving Outgroup Members as Unresponsive: Implications for Approach-Related Emotions, Intentions, and Behavior,” Journal of Personality and Social Psychology, December 2006, pp. 1066-79; e C.M. Fiol, M.G. Pratt, e E.J. O’Connor, “Managing Intractable Identity Conflicts,” Academy of Management Review, January 2009, pp. 32-55. 25. Vedi “Developing Your Global Know-How,” Harvard Business Review, March 2011, pp. 70-75. 26. Vedi M. Alexander e H. Korine, “When You Shouldn’t Go Global,” Harvard Business Review, December 2008, pp. 70-77; C.M. Dalton, “Strategic Alliances: There Are Battles and There Is War,” Business Horizons, March-April 2009, pp. 105-8; e S. Green, “The Would-Be Pioneer,” Harvard Business Review, April 2011, pp. 124-26. 27. “Negotiating South of the Border,” Harvard Management Communication Letter, August 1999, p. 12. 28. Estratto da A. Rosenbaum, “Testing Cultural Waters,” Management Review, July-August 1999, p. 43. 29. Vedi R.L. Tung, “American Expatriates Abroad: From Neophytes to Cosmopolitans,” Journal of World Business, Summer 1998, pp. 125-44. 30. Vedi K.A. Crowne, “What Leads to Cultural Intelligence?” Business Horizons, September-October 2008, pp. 391-99; e N. Goodman, “Cultivating Cultural Intelligence,” Training, March-April 2011, p. 38. 31. Vedi J. Weiss e J. Hughes, “What Collaboration? Accept – and Actively Manage – Conflict,” Harvard Business Review, March 2005, pp. 92-101; G. Colvin, “The Wisdom of Dumb Questions,” Fortune, June 27, 2005, p. 157; e B. Frisch, “When Teams Can’t Decide,” Harvard Business Review, November 2008, pp. 121-26. 32. R.A. Cosier e C.R. Schwenk, “Agreement and Thinking Alike: Ingredients for Poor Decisions,” Academy of Management Executive, February 1990, p. 71. Vedi anche J.P. Kotter, “Combating Complacency,” BusinessWeek, September 15, 2008, pp. 54-55. 33. Per esempio, vedi “Facilitators as Devil’s Advocates,” Training, September 1993, p. 10.

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Note al volume 34. Una buona serie di letture sul tema dell’avvocato del diavolo si può trovare in C.R. Schwenk, “Devil’s Advocacy in Managerial Decision Making,” Journal of Management Studies, April 1984, pp. 153-68. 35. Vedi L. Buchanan, “Armed with Data: How the Military Can Help You Learn from Your Mistakes,” Inc, March 2009, pp. 98, 100. 36. Vedi D M Schweiger, W R Sandberg, e P. L Rechner, “Experiential Effects of Dialectical Inquiry, Devil’s Advocacy, and Consensus Approaches to Strategic Decision Making,” Academy of Management Journal, December 1989, pp. 745-72. 37. Vedi J.S. Valacich e C. Schwenk, “Devil’s Advocacy and Dialectical Inquiry Effects on Face-to-Face and Computer-Mediated Group Decision Making,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, August 1995, pp. 158-73. 38. Come citato in D. Jones, “CEOs Need X-Ray Vision in Transition,” USA Today, April 23, 2001, p. 4B. 39. Based on C.K.W. De Dreu e M.A. West, “Minority Dissent and Team Innovation: The Importance of Participation in Decision Making,” Journal of Applied Psychology, December 2001, pp. 119-201. Vedi anche P. Shachaf, “Cultural Diversity and Information and Communication Technology Impacts on Global Virtual Teams: An Exploratory Study,” Information and Management, March 2008, pp. 131-42; e H.P. Sims Jr, S. Faraj, e S. Yun, “When Should a Leader Be Directive or Empowering? How to Develop Your Own Situational Theory of Leadership,” Business Horizons, MarchApril 2009, pp. 149-58 40. Una convalida statistica per questo modello si può trovare in M.A. Rahim e N.R. Magner, “Confirmatory Factor Analysis of the Styles of Handling Interpersonal Conflict: First-Order Factor Model and Its Invariance across Groups,” Journal of Applied Psychology, February 1995, pp. 122-32. Vedi anche M.A. Rahim, Managing Confl ict in Organizations (Westport, CT: Greenwood Publishing Group, 2001); e D. Bargal, “Group Processes to Reduce Intergroup Confl ict,” Small Group Research, February 2008, pp. 42-59. 41. Vedi D. Ebenstein, “Removing ‘Personal’ from Interpersonal Tension,” Training, September 2009, p. 48. 42. M.A. Rahim, “A Strategy for Managing Confl ict in Complex Organizations,” Human Relations, January 1985, p. 84. 43. Per un approccio alternativo vedi H. Ren e B. Gray, “Repairing Relationship Confl ict: How Violation Types and Culture Infl uence the Effectiveness of Restoration Rituals,” Academy of Management Review, January 2009, pp. 105-26. 44. “Female Officers Draw Fewer Brutality Suits,” USA Today, May 2, 2002, p. 3A. Vedi anche K. Tyler, “Helping Employees Cool It,” HR Magazine, April 2010, pp. 53-55; B.M. Wilkowski, M.D. Robinson, e W Troop-Gordon, “How Does Cognitive Control Reduce Anger and Aggression? The Role of Conflict Monitoring and Forgiveness Processes,” Journal of Personality and Social Psychology, May 2010, pp. 830-40; e E. Bernstein, “This Loved One Will Explode in Five, Four...,” The Wall Street Journal, December 14, 2010, pp. D1, D3. 45. P. Ruzich, “Triangles: Tools for Untangling Interpersonal Messes,” HR Magazine, July 1999, p. 129. Vedi anche P. Falcone, “Avoid Preemptive Strikes,” HR Magazine, May 2007, pp. 101-4. 46. Per un background vedi P.S. Nugent, “Managing Conflict: Third-Party Interventions for Managers,” Academy of Management Executive, February 2002, pp. 139-54; F.P. Phillips, “Ten Ways to Sabotage Dispute Management,” HR Magazine, September 2004, pp. 163-68; e R. Zeidner, “What’s Important about Dispute Resolution?” HR Magazine, September 2008, p. 10. 47. Vedi M. Bordwin, “Do-It-Yourself Justice,” Management Review, January 1999, pp. 56-58; e E. Jensen, D. Wagner, e D. FitzGerald, “Mediators Help Take Bite Out of Dog Disputes,” USA Today, March 16, 2009, p. 3A. 48. B. Morrow e L.M. Bernardi, “Resolving Workplace Disputes,” Canadian Manager, Spring 1999, p. 17. Per ricerche correlate vedi J.M. Brett, M. Olekalns, R. Friedman, N. Goates, C. Anderson, e C. Cherry Lisco, “Sticks

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455 and Stones: Language, Face, and Online Dispute Resolution,” Academy of Management Journal, February 2007, pp. 85-99. 49. Adattato dalla discussione tratta da K.O. Wilburn, “Employment Disputes: Solving Them Out of Court,” Management Review, March 1998, pp. 17-21; e Morrow e Bernardi, “Resolving Workplace Disputes,” pp. 17-19, 27. Vedi anche W.H. Ross e D.E. Conlon, “Hybrid Forms of Third-Party Dispute Resolution: Theoretical Implications of Combining Mediation and Arbitration,” Academy of Management Review, April 2000, pp. 416-27. 50. Wilburn, p. 19. Vedi anche J. Hanley, “Transformative Mediation,” HR Magazine, April 2010, pp. 64-65. 51. Per un background su questo argomento controverso vedi S. Armour, “Arbitration’s Rise Raises Fairness Issue,” USA Today, June 12, 2001, pp. 1B-2B; T.J. Heinsz, “The Revised Uniform Arbitration Act: An Overview,” Dispute Resolution Journal, May-July 2001, pp. 28-39; e J.B. Thelen, “Manager Who Refused to Sign Agreement Must Arbitrate,” HR Magazine, January 2007, p. 111. 52. Per esempio vedi M.G. Danaher, “Employee’s Arbitration Victory Had Limits,” HR Magazine, March 2007, p. 116. 53. Vedi R.E. Jones e B.H. Melcher, “Personality and the Preference for Modes of Confl ict Resolution,” Human Relations, August 1982, pp. 649-58. 54. Vedi R.A. Baron, “Reducing Organizational Conflict: An Incompatible Response Approach,” Journal of Applied Psychology, May 1984, pp. 272-79. 55. Vedi G.A. Youngs Jr, “Patterns of Threat and Punishment Reciprocity in a Conflict Setting,” Journal of Personality and Social Psychology, September 1986, pp. 541-46. 56. Per maggiori dettagli vedi V.D. Wall Jr e L.L. Nolan, “Small Group Conflict: A Look at Equity, Satisfaction, and Styles of Conflict Management,” Small Group Behavior, May 1987, pp. 188-211. Vedi anche S.M. Farmer e J. Roth, “Confl ict-Handling Behavior in Work Groups: Effects of Group Structure, Decision Processes, and Time,” Small Group Research, December 1998, pp. 669-713. 57. Basato su B. Richey, H.J. Bernardin, C.L. Tyler, e N. McKinney, “The Effects of Arbitration Program Characteristics on Applicants’ Intentions toward Potential Employers,” Journal of Applied Psychology, October 2001, pp. 1006-13. 58. Vedi M.E. Schnake e D.S. Cochran, “Effect of Two Goal-Setting Dimensions on Perceived Intraorganizational Conflict,” Group & Organization Studies, June 1985, pp. 168-83. Vedi anche O. Janssen, E. Van De Vliert, e C. Veenstra, “How Task and Person Confl ict Shape the Role of Positive Interdependence in Management Teams,” Journal of Management, n. 2, 1999, pp. 117-42. 59. Tratto da L.H. Chusmir e J. Mills, “Gender Differences in Confl ict Resolution Styles of Managers: At Work and at Home,” Sex Roles, February 1989, pp. 149-63. 60. Vedi K.K. Smith, “The Movement of Confl ict in Organizations: The Joint Dynamics of Splitting and Triangulation,” Administrative Science Quarterly, March 1989, pp. 1-20. 61. Basato su C. Tinsley, “Models of Conflict Resolution in Japanese, German, and American Cultures,” Journal of Applied Psychology, April 1998, pp. 316-23; e S.M. Adams, “Settling Cross-Cultural Disagreements Begins with ‘Where’ Not ‘How,’ ” Academy of Management Executive, February 1999, pp. 109-10. 62. Basato sulla definizione tratta da M.A. Neale e M.H. Bazerman, “Negotiating Rationally: The Power and Impact of the Negotiator’s Frame,” Academy of Management Executive, August 1992, pp. 42-51. Vedi anche D. Malhotra, “When Contracts Destroy Trust,” Harvard Business Review, May 2009, p. 25. 63. Per esempio vedi L.P. Barovick, “Sharing the Pain,” HR Magazine, November 2010, pp. 51-54. 64. Dati e citazione tratti da J. Yang e K. Carter, “USA Today Snapshots,” USA Today, March 9, 2009, p. 1B. 65. M.H. Bazerman e M.A. Neale, Negotiating Rationally (New York: Free Press, 1992), p. 16. Vedi anche M. Kaplan, “How to Negotiate Anything,”

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456 Money, May 2005, pp. 117-19; D. Malhotra, G. Ku, e J.K. Murnighan, “When Winning Is Everything,” Harvard Business Review, May 2008, pp. 78-86; e E.T. Amanatullah, M.W. Morris, e J.R. Curhan, “Negotiators Who Give Too Much: Unmitigated Communion, Relational Anxieties, and Economic Costs in Distributive and Integrative Bargaining,” Journal of Personality and Social Psychology, September 2008, pp. 723-38. 66. Buone strategie per soluzioni win-win si possono trovare in R.R. Reck e B.G. Long, The Win-Win Negotiator: How to Negotiate Favorable Agreements That Last (New York: Pocket Books, 1987); R. Fisher e W. Ury, Getting to YES: Negotiating Agreement without Giving In (Boston: Houghton Miffl in, 1981); e R. Fisher e D. Ertel, Getting Ready to Negotiate: The Getting to YES Workbook (New York: Penguin Books, 1995). Vedi anche B. Spector, “An Interview with Roger Fisher e William Ury,” Academy of Management Executive, August 2004, pp. 101-108; B. Booth e M. McCredie, “Taking Steps toward ‘Getting to Yes’ at Blue Cross and Blue Shield of Florida,” Academy of Management Executive, August 2004, pp. 109-12; e N. Brodsky, “The Paranoia Moment. Are They Stalling? Is This Deal about to Fall Apart?” Inc, April 2007, pp. 67-68. 67. Vedi L.R. Weingart, E.B. Hyder, e M.J. Prietula, “Knowledge Matters: The Effect of Tactical Descriptions on Negotiation Behavior and Outcome,” Journal of Personality and Social Psychology, June 1996, pp. 1205-17. 68. Per maggiori dettagli vedi L.E. Metcalf, A. Bird, M. Shankarmahesh, Z. Aycan, J. Larimo, e D.D. Valdelamar, “Cultural Tendencies in Negotiation: A Comparison of Finland, India, Mexico, Turkey, and the United States,” Journal of World Business, December 2006, pp. 382-94; e L.A. Liu, C.H. Chua, e G.K. Stahl, “Quality of Communication Experience: Definition, Measurement, and Implications for Intercultural Negotiations,” Journal of Applied Psychology, May 2010, pp. 469-87. 69. Per prove di supporto vedi J.K. Butler Jr, “Trust Expectations, Information Sharing, Climate of Trust, and Negotiation Effectiveness and Efficiency,” Group and Organization Management, June 1999, pp. 217-38. 70. Vedi D.R. Dalton e C.M. Dalton, “On the Many Limitations of Threat in Negotiation, as Well as Other Contexts,” Business Horizons, March-April 2009, pp. 109-115. 71. D.R. Dalton e C.M. Dalton, “Trips and Tips for Negotiation Self-Defense: Forewarned is Forearmed,” Business Horizons, January-February 2011, pp. 63-72. 72. R.A. Clay, “Meeting Emotions Head On,” Monitor on Psychology, May 2010, p. 78. (enfasi aggiunta.) Vedi anche D. Ariely, “In Praise of The Handshake,” Harvard Business Review, March 2011, p. 40.

Capitolo 14 1. D. Brady, “Etc. Hard Choices: Brian Dunn,” Bloomberg Business-week, December 6-12, 2010, p. 104. 2. S. Martin, “More Companies Put iPads to Work,” USA Today, March 2, 2011, p. 1B. 3. Vedi B. Kowitt, “Building the (Workplace) Ties That Bind,” Fortune, December 6, 2010, p. 78. 4. Dati tratti da G. Naik, “A Hospital Races to Learn Lessons of Ferrari Pit Stop,” The Wall Street Journal, November 14, 2006, pp. A1, A10. 5. Basato su “Why Am I Here,” Training, April 2006, p. 13. Per un’interpretazione analoga vedi D. Robb, “From the Top,” HR Magazine, February 2009, pp. 61-63. 6. J.L. Bowditch e A.F. Buono, A Primer on Organizational Behavior, 4th ed (New York: John Wiley & Sons, 1997), p. 120. Per una prospettiva alternativa vedi U. Hasson, “I Can Make Your Brain Look Like Mine,” Harvard Business Review, December 2010, pp. 32-33. 7. Dato tratto da H. Hitchings, The Secret Life of Words: How English Became English (New York: Farrar, Straus and Giroux, 2008), p. 7. 8. G.A. Fowler, “In China’s Offices, Foreign Colleagues Might Get an Earful,” The Wall Street Journal, February 13, 2007, p. B1. Vedi anche L.

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Note al volume Kramer, “How French Innovators Are Putting the ‘Social’ Back in Social Networking,” Harvard Business Review, October 2010, pp. 121-24; e C. Schmidt, “The Battle for China’s Talent,” Harvard Business Review, March 2011, pp. 25-27. 9. Vedi “Developing Your Global Know-How,” Harvard Business Review, March 2011, pp. 70-75; e N. Goodman, “Cultivating Cultural Intelligence,” Training, March-April 2011, p. 38. 10. Vedi A. Damast, “For Communication Skills, the Play’s the Thing,” BusinessWeek, April 7, 2008, p. 92; e M. Weinstein, “Mane Event,” Training, March-April 2009, pp. 20-24. 11. Vedi B. Schneider e K.B. Paul, “In the Company We Trust,” HR Magazine, January 2011, pp. 40-43. 12. Vedi R.R. Hastings, “Poll Finds Mistrust among Racial Groups,” HR Magazine, February 2008, p. 26. 13. Per una discussione completa di tali ostacoli vedi C.R. Rogers e F.J. Roethlisberger, “Barriers and Gateways to Communication,” Harvard Business Review, July-August 1952, pp. 46-52. 14. Ibid., p. 47. 15. Vedi B. Levisohn, “Techie Charm School,” BusinessWeek, August 25-September 1, 2008, p. 13. 16. L. Petrecca, “More Grads Use Social Media to Job Hunt,” USA Today, April 5, 2011, p. 1B. 17. I risultati si trovano in J.D. Johnson, W.A. Donohue, C.K. Atkin, e S. Johnson, “Communication, Involvement, and Perceived Innovativeness,” Group and Organization Management, March 2001, pp. 24-52; e B. Davenport Sypher e T.E. Zorn Jr, “ Communication-Related Abilities and Upward Mobility: A Longitudinal Investigation,” Human Communication Research, Spring 1986, pp. 420-31. 18. Vedi M. Weinstein, “Mind Your Manners,” Training, July-August 2009, pp. 24-29; e T. Wayne, “Etiquette School for Dummies,” Bloomberg Businessweek, October 18-24, 2010, pp. 89-91. 19. Consigli adattati da J. Yadegaran, “Just Say ‘No,’ ” The Arizona Republic, September 14, 2006, p. E3. 20. W.D. St. John, “You Are What You Communicate,” Personnel Journal, October 1985, p. 40. Vedi anche S. Baker, “Reading the Body Language of Leadership,” BusinessWeek, March 23-30, 2009, p. 48. 21. Dati statistici citati in R.O. Crockett, “The 21st Century Meeting,” BusinessWeek, February 26, 2007, pp. 72-79. 22. Uno studio sulla decodifica dei segnali non verbali è stato condotto da E.L. Cooley, “Attachment Style and Decoding of Nonverbal Cues,” North American Journal of Psychology, 2005, pp. 25-33. Vedi anche T. Murphy, “Coffee Kinesiology,” Bloomberg Businessweek, October 25-31, 2010, pp. 106-7; e T. Murphy, “Airport Semiotics,” Bloomberg Businessweek, January 10-16, 2011, pp. 76-77. 23. H. Mackay, “Words Whisper; Body Language Roars,” The Arizona Republic, March 30, 2008, p. D2. 24. Basato su J.A. Hall, “Male and Female Nonverbal Behavior,” in Multichannel Integrations of Nonverbal Behavior, e A.W. Siegman e S. Feldstein (Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum, 1985), pp. 195-226. 25. Vedi B. Kachka, “Etiquette 101,” Condé Nast Traveler, April 2008, pp. 112-18; e S. Pika, E. Nicoladis, e P. Marentette, “How to Order a Beer: Cultural Differences in the Use of Conventional Gestures for Numbers,” Journal of Cross-Cultural Psychology, n. 1, 2009, pp. 70-80. 26. I risultati si possono trovare in Hall, pp. 195-226. 27. Vedi J.A. Russell, “Facial Expressions of Emotion: What Lies beyond Minimal Universality?” Psychological Bulletin, November 1995, pp. 379-91. Vedi anche B. Azar, “A Case for Angry Men and Happy Women,” Monitor on Psychology, April 2007, pp. 18-19. 28. Regole per il contatto visivo intercultural sono esaminate in C. Engholm, When Business East Meets Business West: The Guide to Practice and Protocol in the Pacif c Rim (New York: John Wiley & Sons, 1991). Vedi anche G. Ward

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Note al volume e Y. Al Bayyari, “American and Arab Perceptions of an Arabic Turn-Taking Cue,” Journal of Cross-Cultural Psychology, March 2010, pp. 270-75. 29. Consigli adattati da quelli riportati in P. Preston, “Nonverbal Communication: Do You Really Say What You Mean?” Journal of Healthcare Management, March-April 2005, pp. 83-86. 30. Vedi R.D. Ramsey, “Ten Things That Never Change for Supervisors,” SuperVision, April 2007, pp. 16-18; “CEOs Emphasize Listening to Employees,” HR Magazine, January 2007, p. 14; e M. Marchetti, “Listen to Me!” Sales and Marketing Management, April 2007, p. 12. 31. La descrizione degli stili di ascolto si basa su “5 Listening Styles,” www.crossroadsinstitute.org/listyle.html, consultato il 5 maggio 2005; e J. Condrill, “What Is Your Listening Style?” Authors Den.Com, July 7, 2005, www.authorsden.com/visit/viewarticle. asp?id=18707 32. Consigli tratti da J. Jay, “On Communicating Well,” HR Magazine, January 2005, pp. 87-88. Vedi anche il mito n. 5 in V. Harnish, “Five Business Myths to Ditch Now,” Fortune, January 17, 2011, p. 45. 33. D. Tannen, “The Power of Talk: Who Gets Heard and Why,” Harvard Business Review, September-October 1995, p. 139. Vedi anche D. Tannen, You Just Don’t Understand: Women and Men in Conversation (New York: Ballantine Books, 1990). 34. Vedi M. Dainton e E.D. Zelley, Applying Communication Theory for Professional Life: A Practical Introduction (Thousand Oaks, CA: Sage, 2005); e E. Bernstein, “She Talks a Lot, He Listens a Little,” The Wall Street Journal, November 16, 2010, pp. D1, D4. 35. Definizione tratta da J.C. Tingley, Genderflex: Men and Women Speaking Each Other’s Language at Work (New York: American Management Association, 1994), p. 16. 36. Tannen, pp. 147-48. Vedi anche G.N. Powell, “The Gender and Leadership Wars,” Organizational Dynamics, January-February 2011, pp. 1-9; e A. Joyner, “Damning with Praise,” Inc, February 2011, p. 28. 37. J.R. Detert, E.R. Burris, e D.A. Harrison, “Debunking Four Myths About Employee Silence,” Harvard Business Review, June 2010, p. 26. Vedi anche V. Venkataramani e S. Tangirala, “When and Why Do Central Employees Speak Up? An Examination of Mediating and Moderating Variables,” Journal of Applied Psychology, May 2010, pp. 582-91; e “Most Employees Don’t Speak Up,” HR Magazine, September 2010, p. 22. 38. Vedi L. Grensing-Pophal, “To Ask or Not to Ask,” HR Magazine, February 2009, pp. 53-55; M. Kimes, “How Can I Get Candid Feedback from My Employees?” Fortune, April 13, 2009, p. 24; e “How Often Should Exit Interview Results Be Presented to Senior Managers? What Should Be Reported?” HR Magazine, July 2010, p. 23. 39. J. Yang e S. Ward, “USA Today Snapshots,” USA Today, February 26, 2008, p. 1B. 40. J. Yang e V. Salazar, “USA Today Snapshots,” USA Today, November 20, 2008, p. 1B. Vedi anche la prima Q&A in “Ask Inc: Tough Questions, Smart Answers,” Inc, January-February 2009, pp. 104-5. 41. Per approfondimenti vedi L Sussman, “Disclosure, Leaks, and Slips: Issues and Strategies for Prohibiting Employee Communication,” Business Horizons, July-August 2008, pp. 331-39; B. Newstead e L. Lanzerotti, “Can You Open-Source Your Strategy?” Harvard Business Review, October 2010, p. 32; e B. Helm, “Spy Games,” Inc, April 2011, pp. 75-83. 42. G. Labianca, “It’s Not ‘Unprofessional’ to Gossip at Work,” Harvard Business Review, September 2010, p. 28. Vedi anche K.M. Kniffin e D.S. Wilson, “Evolutionary Perspectives on Workplace Gossip: Why and How Gossip Can Serve Groups,” Group and Organization Management, April 2010, pp. 150-76; e G. Michelson, A van Iterson, e K Waddington, “Gossip in Organizations: Contexts, Consequences, and Controversies,” Group and Organization Management, August 2010, pp. 371-90. 43. Tratto da S.M. Crampton, J.W. Hodge, e J.M. Mishra, “The Informal Communication Network: Factors Infl uencing Grapevine Activity,” Public Personnel Management, Winter 1998, pp. 569-84; J. Yang e V. Salazar, “What Is the Most Taboo Topic to Discuss at Work?” USA Today, June 17, 2008,

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457 p. 1B; e C. Mills, “Experiencing Gossip: The Foundations for a Theory of Embedded Organizational Gossip,” Group and Organization Management, April 2010, pp. 213-40. 44. J. Yang e S. Parker, “Top Managers Don’t Appreciate Offi ce Gossip,” USA Today, December 24, 2008, p. 1B. 45. J. McGregor, “Mining the Office Chatter,” BusinessWeek, May 19, 2008, p. 54. 46. Il management by walking around è analizzato in T Peters e N Austin, A Passion for Excellence: The Leadership Difference (New York: Random House, 1985). 47. L. Dulye, “Get Out of Your Offi ce,” HR Magazine, July 2006, p. 99. 48. Consigli adattati da ibid., pp. 100-1. 49. R.L. Daft e R.H. Lengel, “Information Richness: A New Approach to Managerial Behavior and Organizational Design,” in Research in Organizational Behavior, e B.M. Staw e L.L. Cummings (Greenwich, CT: JAI Press, 1984), p. 196. 50. Per una buona analisi, vedi A.M. Kaplan e M. Haenlein, “Users of the World, Unite! The Challenges and Opportunities of Social Media,” Business Horizons, January-February 2010, pp. 59-68. 51. Vedi B. Barry e I.S. Fulmer, “The Medium and the Message: The Adaptive Use of Communication Media in Dyadic Influence,” Academy of Management Review, April 2004, pp. 272-92; e A.F. Simon, “Computer-Mediated Communication: Task Performance and Satisfaction,” The Journal of Social Psychology, June 2006, pp. 349-79. 52. Vedi R.E. Rice e D.E. Shook, “Relationships of Job Categories and Organizational Levels to Use of Communication Channels, Including Electronic Mail: A Meta-Analysis and Extension,” Journal of Management Studies, March 1990, pp. 195-229. 53. Sulle innovazioni digitali “It’s Not Sci-Fi, It’s (Augmented) Reality,” Fortune, March 22, 2010, p. 27; A. Vance, “The Power of the Cloud,” Bloomberg Businessweek, March 7-13, 2011, pp. 52-59; e “Sign Language,” Fortune, March 21, 2011, p. 45. 54. A. Fisher, “E-Mail Is for Liars,” Fortune, November 24, 2008, p. 57. 55. A. Pentland, “How Social Networks Network Best,” Harvard Business Review, February 2009, p. 37. Vedi anche B. Barton, “Are We Losing Empathy?” USA Today, October 20, 2010, p. 9A; e M. Rosenwald, “The Antisocial Network,” Bloomberg Businessweek, March 7-13, 2011, pp. 82-83. 56. Dati tratti da www.ic3.gov/media/2011/110224.aspx; consultato il 7 aprile 2011. Vedi anche D. MacMillan, “Washington’s Web Cop Turns Up the Heat,” Bloomberg Businessweek, July 12-18, 2010, pp. 39-40. 57. Vedi K. Wehrum, “When IT Workers Attack: How to Prevent Tech Sabotage,” Inc, April 2009, pp. 132, 134; J. Swartz, “Privacy Breached in Facebook Apps,” USA Today, October 19, 2010, p. 2B; e J. Bennett, “Privacy is Dead,” Newsweek, November 1, 2010, pp. 40-41. 58. D. Tapscott, Grown Up Digital: How the Net Generation Is Changing Your World (New York: McGraw-Hill, 2009), p. 36. Vedi anche S. Terbush, “Twitter, Facebook, Blogs – Young Adults Are Active ‘Social Animals,’ ” USA Today, February 21, 2011, p. 5D. 59. J.L. Yang, “How to Get a Job,” Fortune, April 13, 2009, p. 51. 60. Vedi P. Burrows, “Virtual Meetings for Real-World Budgets,” Bloomberg Businessweek, August 9-15, 2010, pp. 36-37; A. Schwartz, “Bring Your Robot to Work Day,” Fast Company, November 2010, pp. 72-74; e J. Swartz, “SocialEyes Delivers Group Video Chat,” USA Today, February 28, 2011, p. 2B. 61. Dati tratti da E. Reed, “Telecommuting by the Numbers,” HR Magazine, September 2008, p. 61. Un altro sondaggio è consultabile J. Schramm, “At Work in a Virtual World,” HR Magazine, June 2010, p. 152. 62. M. Conlin, “Home Offi ces: The New Math,” BusinessWeek, March 9, 2009, p. 66. Vedi anche J. Swartz, “No Place Like Home for StartUps,” USA Today, April 28, 2010, p. 3B. 63. J.A. Pearce II, “Successful Corporate Telecommuting with Technology Considerations for Late Adopters,” Organizational Dynamics, January-March 2009, p. 17.

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Note al volume

458 64. Dati tratti da “The Virtual Workforce,” BusinessWeek, March 5, 2007, p. 6; e T.D. Golden, J.F. Veiga, e Z. Simsek, “Telecommuting’s Differential Impact of Work-Family Confl ict: Is There No Place Like Home?” Journal of Applied Psychology, November 2006, pp. 1240-50. Vedi anche R. Zeidner, “Home Is Where the Productivity Is,” HR Magazine, July 2010, p. 20. 65. M. Conlin, “Telecommuting: Out of Sight, Yes. Out of Mind, No,” BusinessWeek, February 18, 2008, p. 60. 66. Risultati riportati in K. Gurchiek, “Telecommuting Could Hold Back Careers,” HR Magazine, March 2007, p. 34. 67. T.D. Golden, J.F. Veiga, e R.N. Dino, “The Impact of Professional Isolation on Teleworker Job Performance and Turnover Intentions: Does Time Spent Teleworking, Interacting Face-to-Face, or Having Access to Communication-Enhancing Technology Matter?” Journal of Applied Psychology, November 2008, p. 1412. Vedi anche M. Chafkin, “Freelancer Tony Bacigalupo Longed for Co-Workers,” Inc, October 2010, pp. 67-68. 68. C.R. Stoner, P. Stephens, e M.K. McGowan, “Connectivity and Work Dominance: Panacea or Pariah?” Business Horizons, January- February 2009, p. 67. Vedi anche B. Roberts, “Mobile Workforce Management? There Are Apps for That,” HR Magazine, March 2011, pp. 67-70. 69. Vedi B. Levisohn, “Write On, Dood,” BusinessWeek, August 4, 2008, p. 16; P. Welch, “Txting Away Ur Education,” USA Today, June 23, 2009, p. 11A; e D. Baron, A Better Pencil: Readers, Writers, and the Digital Revolution (New York: Oxford University Press, 2009). 70. L. Stone, “Living with Continuous Partial Attention,” Harvard Business Review, February 2007, p. 28. N.L. Reinsch Jr, J.W. Turner, e C.H. Tinsley, “Multicommunicating: A Practice Whose Time Has Come?” Academy of Management Review, April 2008, pp. 391-403. 71. Dati tratti da A.R. Carey e S. Ward, “How Many E-mail Accounts Do You Have?” USA Today, March 16, 2011, p. 1A. Vedi anche B. Stone, “Dear E-Mail: Die Already. Love, Facebook,” Bloomberg Businessweek, November 22-28, 2010, pp. 50, 52. 72. Basato su K. Byron, “Carrying Too Heavy a Load? The Communication and Miscommunication of Emotion by Email,” Academy of Management Review, April 2008, pp. 309-27 e C.E. Naquin, T.R. Kurtzberg, e L.Y. Belkin, “The Finer Points of Lying Online: E-mail Versus Pen and Paper,” Journal of Applied Psychology, March 2010, pp. 387-94. 73. B. Roberts, “Stay Ahead of the Technology Use Curve,” HR Magazine, October 2008, p. 58. Vedi anche W.P. Smith e F. Tabak, “Monitoring Employee E-Mails: Is There Any Room for Privacy?” Academy of Management Perspectives,” November 2009, pp. 33-48; e J. Deschenaux, “New Jersey: Employee E-Mail With Attorney Is Private,” HR Magazine, May 2010, p. 20. 74. M. Kessler, “Fridays Turning E-mail Free,” The Arizona Republic, October 7, 2007, p. D3. Vedi anche P. Kemp, “10 Ways to Reduce E-Mail Overload,” Harvard Business Review, September 2009, p. 88. 75. Vedi W. Koch, “More Teens Caught Up in ‘Sexting,’ ” USA Today, March 12, 2009, p. 1A; J. Michaels, “Cellphones Put to ‘Unnerving’ Use in Gaza,” USA Today, January 14, 2009, p. 4A; e A.R. Carey e S. Ward, “What Experienced U.S. Business Travelers Most Wish Other Travelers Knew About,” USA Today, June 15, 2010, p. 1A. 76. R. Petrancosta, “There’s a Reason We Can’t Text and Drive: Science,” USA Today, June 30, 2010, p. 11A. Vedi anche L. Copeland, “Most Teens Still Driving While Distracted,” USA Today, August 2, 2010, p. 7A. 77. I dati riportati nell’elenco sono stati tratti, nell’ordine, da: L. Fabel, “The Business of Facebook,” Fast Company, April 2011, p. 128; S. Berfield, “Dueling Your Facebook Friends for a New Job,” Bloomberg Businessweek, March 7-13, 2011, pp. 35-36; L. Szabo, “Teens Share Internet Injury Videos,” USA Today, February 21, 2011, p. 3A; http://blog.twitter.com/2011/03/ numbers.html (consultato l’8 aprile 2011); A.D. Wright, “More Employees Visit Social Sites While Working,” HR Magazine, September 2010, p. 21; A.R. Carey e P. Trap, “How Honest Are You on Your Social Networking Sites?” USA Today, January 3, 2011, p. 1A; e J. Yang e S. Ward, “Does Your

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Company Audit and Monitor Postings to Social-Networking Sites?” USA Today, February 23, 2010, p. 1B. 78. M. Conlin e D. MacMillan, “Managing the Tweets,” Business-Week, June 1, 2009, pp. 20-21. Vedi anche M. Weinstein, “Are You LinkedIn?” Training, September-October 2010, pp. 30-33; A M. Kaplan e M. Haenlein, “The Early Bird Catches the News: Nine Things You Should Know About Micro-blogging,” Business Horizons, March-April 2011, pp. 105-13; e A. Vance, “Trouble at the Virtual Water Cooler,” Bloomberg Businessweek, May 2-8, 2011, pp. 31-32.

Capitolo 15 1. H. Malcolm e C. Sokoloff, “Values, Human Relations, and Organization Development,” in The Emerging Practice of Organizational Development, ed W. Sikes, A. Drexler, e J. Gant (San Diego, CA: University Associates, 1989), p. 64. 2. Vedi D. Kipnis, S.M. Schmidt, e I. Wilkinson, “Intraorganizational Influence Tactics: Explorations in Getting One’s Way,” Journal of Ap-plied Psychology, August 1980, pp. 440-52. Vedi anche C.A. Schriesheim e T.R. Hinkin, “Influence Tactics Used by Subordinates: A Theoretical and Empirical Analysis and Refinement of the Kipnis, Schmidt, and Wilkinson Subscales,” Journal of Applied Psychology, June 1990, pp. 246-57; G. Yukl e C.M. Falbe, “Influence Tactics and Objectives in Upward, Downward, and Lateral Influence Attempts,” Journal of Applied Psychology, April 1990, pp. 132-40; e G. Yukl e B. Tracey, “Consequences of Influence Tactics Used with Subordinates, Peers, and the Boss,” in Organizational Infl uence Processes, 2nd ed, ed L.W. Porter, H.L. Angle, e R.W. Allen (Armonk, NY: M E Sharpe, 2003), pp. 96-116. 3. Basato sulla tabella 1 in G. Yukl, C.M. Falbe, e J.Y. Youn, “Patterns of Infl uence Behavior for Managers,” Group and Organization Management, March 1993, pp. 5-28. Un’ulteriore tattica di influenza è presentata in B.P. Davis e E.S. Knowles, “A Disrupt-Then-Reframe Technique of Social Infl uence,” Journal of Personality and Social Psychology, February 1999, pp. 192-99. Vedi anche K. Savani, M.W. Morris, N.V.R. Naidu, S. Kumar, e N.V. Berlia, “Cultural Conditioning: Understanding Interpersonal Accommodation in India and the United States in Terms of the Modal Characteristics of Interpersonal Infl uence Situations,” Journal of Personality and Social Psychology, January 2011, pp. 84-102. 4. Per una trattazione completa vedi L.W. Porter, H.L. Angle, e R.W. Allen, eds, Organizational Influence Processes, 2nd ed (Armonk, NY: M E Sharpe, 2003); e The Society for Human Resource Management and Harvard Business School Press, The Essentials of Power, Infl uence, and Persuasion (Boston: Harvard Business School Press, 2006). Vedi anche R. Barnett, “I Deserve a Raise. Do I Dare Ask for One?” Fortune, July 5, 2010, p. 36. 5. Basato sulla discussione in G. Yukl, H. Kim, e C.M. Falbe, “Antecedents of Influence Outcomes,” Journal of Applied Psychology, June 1996, pp. 309-17. 6. Vedi J. Pfeffer, Power: Why Some People Have It – and Others Don’t (New York: Harper Business, 2010); J. Pfeffer, “Power Play,” Harvard Business Review, July-August 2010, pp. 84-92; e I. McGugan, “The Goldman Doctrine,” Bloomberg Businessweek, April 11-17, 2011, pp. 86-87. 7. D. Tjosvold, “The Dynamics of Positive Power,” Training and Development Journal, June 1984, p. 72. Vedi anche D. Tjosvold e B. Wisse, eds, Power and Interdependence in Organizations (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2009). 8. M.W. McCall Jr, Power, Infl uence, and Authority: The Hazards of Carrying a Sword, Technical Report N. 10 (Greensboro, NC: Center for Creative Leadership, 1978), p. 5. Per un’ottima analisi vedi J.O. Hagberg, Real Power: Stages of Personal Power in Organizations, 3rd ed (Salem, WI: Sheffi eld Publishing, 2003). 9. D. Weimer, “Daughter Knows Best,” BusinessWeek, April 19, 1999, pp. 132, 134. Vedi anche “How to Stage a Coup,” Inc, March 2005, p. 52.

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Note al volume 10. Per un aggiornamento vedi C.L. Bernick, “When Your Culture Needs a Makeover,” Harvard Business Review, June 2001, pp. 53-61. 11. L.H Chusmir, “Personalized versus Socialized Power Needs among Working Women and Men,” Human Relations, February 1986, p. 149. Vedi anche R.I. Sutton, “The Boss as Human Shield,” Harvard Business Review, September 2010, pp. 106-9. 12. R.I. Sutton, “Are You Being a Jerk Again?” BusinessWeek, August 25-September 1, 2008, p. 52. Vedi anche C.J. Torelli e S. Shavitt, “Culture and Concepts of Power,” Journal of Personality and Social Psychology, October 2010, pp. 703-23. 13. Citata in L. Buchanan, “That’s Quite a Story: How I Did It,” Inc, November 2006, p. 113. 14. Basato su D.W. Cantor e T. Bernay, Women in Power: The Secrets of Leadership (Boston: Houghton Mifflin, 1992). Vedi anche J. Shambora e B. Kowitt, “50 Most Powerful Women,” Fortune, October 18, 2010, pp. 129-34. 15. S. Sandberg, “Changing the World, One Job at a Time,” Newsweek, October 13, 2008, p. 68. 16. Vedi J.R.P. French e B. Raven, “The Bases of Social Power,” in Studies in Social Power, ed D Cartwright (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1959), pp. 150-67. 17. R. Saunderson, “Changing Minds,” Training, March-April 2011, pp. 42-43. 18. Dati tratti da J.R. Larson Jr, C. Christensen, A.S. Abbott, e T.M. Franz, “Diagnosing Groups: Charting the Flow of Information in Medical Decision-Making Teams,” Journal of Personality and Social Psychology, August 1996, pp. 315-30. 19. Vedi A. Pentland, “We Can Measure the Power of Charisma,” Harvard Business Review, January-February 2010, pp. 34-35; B. Stone e P. Burrows, “The Essence of Apple,” Bloomberg Business-week, January 24-30, 2011, pp. 6-8; e J. Sonnenfeld, “The Genius Dilemma,” Newsweek, January 31, 2011, pp. 12-17. Per un nuovo filone di ricerca molto interessante vedi D.A. Waldman, P.A. Balthazard, e S.J. Peterson, “Leadership and Neuroscience: Can We Revolutionize the Way That Inspirational Leaders Are Identified and Developed?” Academy of Management Perspectives, February 2011, pp. 60-74. 20. Dettagli si trovano in Chusmir, “Personalized versus Socialized Power Needs among Working Women and Men,” pp. 149-59. Per una revisione della ricerca sulle differenze individuali nel bisogno del potere vedi R.J. House, “Power and Personality in Complex Organizations,” in Research in Organizational Behavior, ed B.M. Staw e L.L. Cummings (Greenwich, CT: JAI Press, 1988), pp. 305-57. 21. B. Filipczak, “Is It Getting Chilly in Here?” Training, February 1994, p. 27. 22. Dati tratti da J. Onyx, R. Leonard, e K. Vivekananda, “Social Perception of Power: A Gender Analysis,” Perceptual and Motor Skills, February 1995, pp. 291-96. 23. P.M. Podsakoff e C.A. Schriesheim, “Field Studies of French and Raven’s Bases of Power: Critique, Reanalysis, and Suggestions for Future Research,” Psychological Bulletin, May 1985, p. 388. Vedi anche C.A Schriesheim, T.R. Hinkin, e P.M. Podsakoff, “Can Ipsative and Single-Item Measures Produce Erroneous Results in Field Studies of French and Raven’s (1950) Five Bases of Power? An Empirical Investigation,” Journal of Applied Psychology, February 1991, pp. 106-14. 24. Vedi T.R. Hinkin e C.A. Schriesheim, “Relationships between Subordinate Perceptions and Supervisor Influence Tactics and Attributed Bases of Supervisory Power,” Human Relations, March 1990, pp. 221-37. 25. Basato su P.A. Wilson, “The Effects of Politics and Power on the Organizational Commitment of Federal Executives,” Journal of Management, Spring 1995, pp. 101-18. Per ricerche sull’argomento vedi D. Carney, “Powerful People Are Better Liars,” Harvard Business Review, May 2010, pp. 32-33; M. Segalla, “Find the Real Power in Your Organization,” Harvard Business Review, May 2010, pp. 34-35; e J.K. Maner, e N.L. Mead, “The Essential Tension Between Leadership and Power: When Leaders Sacrifice

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459 Group Goals for the Sake of Self-Interest,” Journal of Personality and Social Psychology, September 2010, pp. 482-97 26. Come citato in W.A. Randolph e M. Sashkin, “Can Organizational Empowerment Work in Multinational Settings?” Academy of Management Executive, February 2002, p. 104 (con enfasi aggiunta). Vedi anche H.P. Sims Jr, S. Faraj, e S. Yun, “When Should a Leader Be Directive or Empowering? How to Develop Your Own Situational Theory of Leadership,” Business Horizons, March-April 2009, pp. 149-58; e L.B. Cattaneo e A.R. Chapman, “The Process of Empowerment: A Model for Use in Research and Practice,” American Psychologist, October 2010, pp. 646-59. 27. R.M. Hodgetts, “A Conversation with Steve Kerr,” Organizational Dynamics, Spring 1996, p. 71. Vedi anche J. Bernoff e T. Schadler, “Empowered,” Harvard Business Review, July-August 2010, p. 95. 28. A. Fox, “Raising Engagement,” HR Magazine, May 2010, p. 39. Vedi anche “How May We Help You?” Inc, March 2011, p. 63. 29. L. Shaper Walters, “A Leader Redefi nes Management,” Christian Science Monitor, September 22, 1992, p. 14. Vedi anche A.D. Amar, C. Hentrich, e V. Hlupic, “To Be a Better Leader, Give Up Authority,” Harvard Business Review, December 2009, pp. 22-24; e L. Wiseman e G McKeown, “Bringing Out the Best in Your People,” Harvard Business Review, May 2010, pp. 117-21. 30. Per una scala sull’empowerment composta da 15 elementi vedi la tabella 1 a p.103 di B.P. Niehoff, R.H. Moorman, G. Blakely, e J. Fuller, “The Influence of Empowerment and Job Enrichment on Employee Loyalty in a Downsizing Environment,” Group and Organization Management, March 2001, pp. 93-113. 31. Per un’analisi esaustiva di questo modello vedi M. Sashkin, “Participative Management Is an Ethical Imperative,” Organizational Dynamics, Spring 1984, pp. 4-22. 32. Tratto da X. Huang, Joyce Iun, A. Liu, e Y. Gong, “Does Participative Leadership Enhance Work Performance by Inducing Empowerment or Trust? The Differential Effects on Managerial and Nonmanagerial Subordinates,” Journal of Organizational Behavior, January 2010, pp. 122-43. 33. Per maggiori dettagli sulla delega vedi L. Bossidy, “The Job No CEO Should Delegate,” Harvard Business Review, March 2001, pp. 46-49; e S. Sanghi, “Good Delegation Means Setting Objectives, Getting Results,” The Arizona Republic, August 1, 2010, p. D5. 34. Vedi S. Gazda, “The Art of Delegating,” HR Magazine, January 2002, pp. 75-78; e J.W. Womack, “Delegating 5 Developing Leadership,” Training, November-December 2010, p. 6. 35. M. Memmott, “Managing Government Inc,” USA Today, June 28, 1993, p. 2B. Vedi anche R.C. Ford e C.P. Heaton, “Lessons from Hospitality That Can Serve Anyone,” Organizational Dynamics, Summer 2001, pp. 30-47. 36. R. Kreitner, Management, 11th ed (Boston: Houghton Miffl in Harcourt, 2009), p. 254. 37. Tratto da G.Yukl e P.P. Fu, “Determinants of Delegation and Consultation by Managers,” Journal of Organizational Behavior, March 1999, pp. 219-32. Vedi anche Z.X. Chen e S. Aryee, “Delegation and Employee Work Outcomes: An Examination of the Cultural Context of Mediating Processes in China,” Academy of Management Journal, February 2007, pp. 226-38. 38. Vedi D. Moyer, “Broken Trust,” Harvard Business Review, April 2009, p. 120; e B. Schneider e K.B. Paul, “In the Company We Trust,” HR Magazine, January 2011, pp. 40-43. 39. M. Frese, W. Kring, A. Soose, e J. Zempel, “Personal Initiative at Work: Differences between East and West Germany,” Academy of Management Journal, February 1996, p. 38 (con aggiunta di enfasi). Vedi anche D.N. Den Hartog e F.D .Belschak, “Personal Initiative, Commitment and Affect at Work,” Journal of Occupational and Organizational Psychology, December 2007, pp. 601-22; e R. Bledow e M. Frese, “A Situational Judgment Test of Personal Initiative and Its Relationship to Performance,” Personnel Psychology, Summer 2009, pp. 229-58 40. D.J. Burrough, “Office Politics Mirror Popular TV Program,” The Arizona Republic, February 4, 2001, p. EC1.

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460 41. L.B. MacGregor Serven, The End of Offi ce Politics as Usual (New York: American Management Association, 2002), p. 5. Vedi anche J Hempel, “Trouble @ Twitter,” Fortune, May 2, 2011, pp. 66-76. 42. R.W. Allen, D.L. Madison, L.W. Porter, P.A. Renwick, e B.T. Mayes, “Organizational Politics: Tactics and Characteristics of Its Actors,” California Management Review, Fall 1979, p. 77. 43. Tratto da P.M. Fandt e G.R. Ferris, “The Management of Information and Impressions: When Employees Behave Opportunistically,” Organizational Behavior and Human Decision Processes, February 1990, pp. 140-58. 44. Le prime quattro si basano sulla discussione di D.R. Beeman e T.W. Sharkey, “The Use and Abuse of Corporate Politics,” Business Horizons, March-April 1987, pp. 26-30. Per prove a conferma, vedi C.C. Rosen, P.E. Levy, e R.J. Hall, “Placing Perceptions of Politics in the Context of the Feedback Environment, Employee Attitudes, and Job Performance,” Journal of Applied Psychology, January 2006, pp. 211-20. 45. A. Raia, “Power, Politics, and the Human Resource Professional,” Human Resource Planning, n. 4, 1985, p. 203. 46. Citato in A.J. DuBrin, “Career Maturity, Organizational Rank, and Political Behavioral Tendencies: A Correlational Analysis of Organizational Politics and Career Experience,” Psychological Reports, October 1988, p. 535. Vedi anche D.A. Ready, J.A. Conger, e L.A. Hill, “Are You a High Potential?” Harvard Business Review, June 2010, pp. 78-84. 47. Questa distinzione a tre livelli deriva da A T Cobb, “Political Diagnosis: Applications in Organizational Development,” Academy of Management Review, July 1986, pp. 482-96. Vedi anche R. Cross, A. Cowen, L. Vertucci, e R.J. Thomas, “Leading in a Connected World: How Effective Leaders Drive Results Through Networks,” Organizational Dynamics, April-June 2009, pp. 93-105. 48. L. Baum, “The Day Charlie Bradshaw Kissed off Transworld,” BusinessWeek, September 29, 1986, p. 68. Vedi anche C.J. Loomis, “How the HP. Board KO’d Carly,” Fortune, March 7, 2005, pp. 99-102; e B. Worthen e J.S. Lublin, “Hurd Deal Infl amed Directors at H-P,” The Wall Street Journal, August 16, 2010, pp. A1-A2. 49. Vedi H. Ibarra e M. Hunter, “How Leaders Create and Use Networks,” Harvard Business Review, January 2007, pp. 40-47; N. Anand e J.A. Conger, “Capabilities of the Consummate Networker,” Organizational Dynamics, n. 1, 2007, pp. 13-27; e R. Cross e R.J. Thomas, “How Top Talent Uses Networks and Where Rising Stars Get Trapped,” Organizational Dynamics, April-June 2008, pp. 165-80. 50. Tratto da J.T. Arnold, “Employee Networks,” HR Magazine, June 2006, pp. 145-52. 51. Allen et al., “Organizational Politics,” p. 77. Vedi anche D.C. Treadway, W.A. Hochwarter, C.J. Kacmar, e G.R. Ferris, “Political Will, Political Skill, and Political Behavior,” Journal of Organizational Behavior, May 2005, pp. 229-45. 52. Vedi B. Fryer, “When Your Colleague Is a Saboteur,” Harvard Business Review, November 2008, pp. 41-45; e E. Spitznagel, “How to Play Hooky in the Afternoon,” Bloomberg Businessweek, April 4-10, 2011, p. 96. 53. A. Rao, S.M. Schmidt, e L.H. Murray, “Upward Impression Management: Goals, Infl uence Strategies, and Consequences,” Human Relations, February 1995, p. 147. 54. Vedi W.H. Turnley e M.C. Bolino, “Achieving Desired Images While Avoiding Undesired Images: Exploring the Role of Self-Monitoring in Impression Management,” Journal of Applied Psychology, April 2001, pp. 351-60. 55. “CEOs of Tomorrow,” BusinessWeek, May 11, 2009, p. 36. 56. Vedi S.J. Wayne e G.R. Ferris, “Infl uence Tactics, Affect, and Exchange Quality in Supervisor-Subordinate Interactions: A Laboratory Experiment and Field Study,” Journal of Applied Psychology, October 1990, pp. 487-99. teriore versione vedi tabella 1 (p. 246) in S.J. Wayne e R.C. Liden, “Effects of Impression Management on Performance Ratings: A Longitudinal Study,” Academy of Management Journal, February 1995, pp. 232-60. Vedi anche

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M.C. Bolino, J.A. Varela, B. Bande, e W.H. Turnley, “The Impact of Impression-Management Tactics on Supervisor Ratings of Organizational Citizenship Behavior,” Journal of Organizational Behavior, May 2006, pp. 281-97. 57. M.E. Mendenhall e C. Wiley, “Strangers in a Strange Land: The Relationship between Expatriate Adjustment and Impression Management,” American Behavioral Scientist, March 1994, pp. 605-20. 58. T.E. Becker e S.L. Martin, “Trying to Look Bad at Work: Methods and Motives for Managing Poor Impressions in Organizations,” Academy of Management Journal, February 1995, p. 191. 59. Ibid., p. 181. Vedi anche M.K. Duffy, D.C. Ganster, e M. Pagon, “Social Undermining in the Workplace,” Academy of Management Journal, April 2002, pp. 331-51; e M.K. Duffy, J.D. Shaw, B.J. Tepper, e K.L. Scott, “The Moderating Roles of Self-Esteem and Neuroticism in the Relationship between Group and Individual Undermining Behavior,” Journal of Applied Psychology, September 2006, pp. 1066-77. 60. Adattato da Becker e Martin, “Trying to Look Bad at Work,” pp. 180-81. 61. A. Zaleznik, “Real Work,” Harvard Business Review, January- February 1989, p. 60. 62. Citata in D. Lieberman, “Kraft Sees Benefi ts as Consumers Stay Home,” USA Today, December 11, 2008, p. 4B. Vedi anche S. Whitson, “Checking Passive Aggression,” HR Magazine, June 2010, pp. 115-16; D J Ketchen e M.R. Buckley, “Divas at Work: Dealing with Drama Kings and Queens in Organizations,” Business Horizons, November-December 2010, pp. 599-606; e T. Murphy, “Lunch Theater,” Bloomberg Businessweek, April 11-17, 2011, pp. 78-79.

Capitolo 16 1. I quattro elementi comuni sono stati identificati da P.G. Northouse, Leadership: Theory and Practice, 4th ed (Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 2007), p. 3. Vedi anche A.J. Kinicki, K.J.L. Jacobson, B.M. Galvin, e G.E. Prussia, “A Multilevel Systems Model of Leader-ship,” Journal of Leadership & Organizational Studies, in corso di pubblicazione. 2. Ibid. 3. B.M. Bass e R. Bass, The Bass Handbook of Leadership: Theory, Research, and Managerial Applications, 4th ed (New York: Free Press, 2008), p. 654. 4. Per un esame delle differenze tra leadership e management vedi Bass e Bass, The Bass Handbook of Leadership, pp. 651-81. 5. Per un riepilogo vedi Bass e Bass, pp. 103-35. 6. La teoria della leadership implicita è esaminata in Bass e Bass, pp. 46-78; e J.S. Mueller, J.A. Goncalo, e D. Kamdar, “Recognizing Creative Leadership: Can Creative Idea Expression Negatively Relate to Perceptions of Leadership Potential?” Journal of Experimental Social Psychology, in corso di pubblicazione. 7. I risultati si trovano in R.G. Lord, C.L. De Vader, e G.M. Alliger, “A Meta-Analysis of the Relation between Personality Traits and Leadership Perceptions: An Application of Validity Generalization Procedures,” Journal of Applied Psychology, August 1986, pp. 402-10. 8. Vedi A.H. Eagly e J.L. Chin, “Diversity and Leadership in a Changing World,” American Psychologist, April 2010, pp. 216-24; e D.D. Cremer, M. van Dijke, e D.M. Mayer, “Cooperating When ‘You’ and ‘I’ Are Treated Fairly: The Moderating Role of Leader Prototypicality,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1121-33. 9. I risultati si trovano in J.M. Kouzes e B.Z. Posner, The Leadership Challenge (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 1995). 10. R.S. Nadler, Leading with Emotional Intelligence (New York: McGrawHill, 2011). 11 .Vedi D.L. Joseph e D.A. Newman, “Emotional Intelligence: An Integrative Meta-Analysis and Cascading Model, “Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 54-78; e J. Antonakis, N.M. Ashkanasy, e M.T. Dasborough, “Does Leadership Need Emotional Intelligence?” The Leadership Quarterly, April 2009, pp. 247-61.

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Note al volume 12. I risultati si trovano in T.A. Judge, J.E. Hono, R. Ilies, e M.W. Gerhardt, “Personality and Leadership: A Qualitative and Quantitative Review,” Journal of Applied Psychology, August 2002, pp. 765-80. 13. Vedi T.A. Judge, A.E. Colbert, e R. Ilies, “Intelligence and Leadership: A Quantitative Review and Test of Theoretical Propositions,” Journal of Applied Psychology, June 2004, pp. 542-52. 14. La ricerca di Kellerman si trova in B. Kellerman, Bad Leadership (Boston: Harvard Business School Press, 2004). 15. Le definizioni dei tratti sono citate da ibid., pp. 40-46. Alcuni degli esempi sono tratti da “The Worst Managers,” BusinessWeek, January 19, 2009, p. 42. 16. Vedi A. Morriss, R.J. Ely, e F.X. Frei, “Stop Holding Yourself Back,” Harvard Business Review, January-February 2011, pp. 160-64; e L. Wiseman e G. McKeown, “Bringing Out the Best In Your People,” Harvard Business Review, May 2010, pp. 117-21. 17. Il genere e la nascita dei leader è stata trattata in A.H. Eagly e S.J. Karau, “Gender and the Emergence of Leaders: A Meta-Analysis,” Journal of Personality and Social Psychology, May 1991, pp. 685-710; e R. Ayman e K. Korabik, “Leadership: Why Gender and Culture Matter,” American Psychologist, April 2010, pp. 157-70. 18. Vedi A.H. Eagly, S.J. Karau, e B.T. Johnson, “Gender and Leadership Style among School Principals: A Meta-Analysis,” Educational Administration Quarterly, February 1992, pp. 76-102. 19 Scoperte a supporto sono incluse in J.M. Twenge, “Changes in Women’s Assertiveness in Response to Status and Roles: A Cross-Temporal Meta-Analysis, 1931-1993,” Journal of Personality and Social Psychology, July 2001, pp. 133-45. 20. Per una sintesi di tale ricerca vedi H. Ibarra e O. Obodaru, “Women and Vision Thing,” Harvard Business Review, January 2009, pp. 62-70. 21. Ricerca sintetizzata e criticata in Bass e Bass, pp. 497-538. 22. I risultati si trovano in T.A Judge, R.F Piccolo, e R. Ilies, “The Forgotten Ones? The Validity of Consideration and Initiating Structure in Leadership Research,” Journal of Applied Psychology, February 2004, pp. 36-51. 23. Vedi S.T. Hannah e B.J. Avolio, “Ready or Not: How Do We Accelerate the Developmental Readiness of Leaders?” Journal of Organizational Behavior, November 2010, pp. 1181-87; e J.M. Leigh, E.R. Shapiro, e S.H. Penney, “Developing Diverse, Collaborative Leaders: An Empirical Program Evaluation,” Journal of Leadership & Organizational Studies, November 2010, pp. 370-79. 24. Le teorie contingenti sono esaminate in Bass e Bass, pp. 497-538. 25. Per approfondimenti su questa teoria vedi F.E. Fiedler, “A Contingency Model of Leadership Effectiveness,” in Advances in Experimental Social Psychology, vol. 1, ed L. Berkowitz (New York: Academic Press, 1964); e F.E. Fiedler, A Theory of Leadership Effectiveness (New York: McGrawHill, 1967). 26. Vedi L.H. Peters, D.D. Hartke, e J.T. Pohlmann, “Fiedler’s Contingency Theory of Leadership: An Application of the Meta-Analyses Procedures of Schmidt and Hunter,” Psychological Bulletin, March 1985, pp. 274-85; e C.A. Schriesheim, B.J. Tepper, e L.A. Tetrault, “Least Preferred Co-worker Score, Situational Control, and Leadership Effectiveness: A Meta-Analysis of Contingency Model Performance Predictions,” Journal of Applied Psychology, August 1994, pp. 561-73. 27. B. Groysberg, A.N. McLean, e N. Nohria, “Are Leaders Portable?” Harvard Business Review, May 2006, pp. 95, 97. 28. Per maggiori dettagli su questa teoria vedi R.J. House, “A Path-Goal Theory of Leader Effectiveness,” Administrative Science Quarterly, September 1971, pp. 321-38. 29. Questa ricerca è sintetizzata in R.J. House, “Path-Goal Theory of Leadership: Lessons, Legacy, and a Reformulated Theory,” The Leadership Quarterly, Autumn 1996, pp. 323-52. 30. I risultati si possono trovare in P.M. Podsakoff, S.B. MacKenzie, M. Ahearne, e W.H. Bommer, “Searching for a Needle in a Haystack: Trying

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461 to Identify the Illusive Moderators of Leadership Behaviors,” Journal of Management, 1995, pp. 422-70. 31. Queste fasi sono state sviluppate da H.P. Sims Jr, S. Faraj, e S. Yun, “When Should a Leader Be Directive or Empowering? How to Develop Your Own Situational Theory of Leadership,” Business Horizons, MarchApril 2009, pp. 149-58. 32. Vedi J.B. Wu, A.S. Tsui, e A.J. Kinicki, “Consequences of Differentiated Leadership in Groups,” Academy of Management Journal, February 2010, pp. 90-106. 33. Per una trattazione completa di questa teoria vedi B.J. Avolio e B.M. Bass, A Manual for Full-Range Leadership Development (Binghamton, NY: Center for Leadership Studies, 1991). Attualmente il libro è edito da www.mindgarden.com. 34. Per una definizione e una descrizione della leadership transazionale vedi Bass e Bass, pp. 618-48. 35. U.R. Dumdum, K.B. Lowe, e B.J. Avolio, “A Meta-Analysis of Transformational and Transactional Leadership Correlates of Effectiveness and Satisfaction: An Update and Extension,” in Transformational and Charismatic Leadership: The Road Ahead, ed B.J. Avolio e F.J. Yammarino (New York: JAI Press, 2002), p. 38. 36. Le ricerche a supporto sono sintetizzate in Bass e Bass, pp. 618-48. 37. Analisi a supporto si trovano in P.D. Harms e M. Credé, “Emotional Intelligence and Transformational and Transactional Leadership: A Meta-Analysis,” Journal of Leadership & Organizational Studies, February 2010, pp. 5-17; e J.E. Bono e T.A. Judge, “Personality and Transformational and Transactional Leadership: A Meta-Analysis,” Journal of Applied Psychology, October 2004, pp. 901-10. 38. Risultati consultabili in A.H. Eagly, M.C Johannesen-Schmidt e M.L. van Engen, “Transformational, Transactional, and Laissez-Faire Leadership Styles: A Meta-Analysis Comparing Women and Men,” Psychological Bulletin, June 2003, pp. 569-9. 39. Definizioni tratte da R. Kark, B. Shamir, e C. Chen, “The Two Faces of Transformational Leadership: Empowerment and Dependency,” Journal of Applied Psychology, April 2003, pp. 246-55. 40. B. Nanus, Visionary Leadership (San Francisco, CA: Jossey-Bass, 1992), p. 8. 41. I risultati sono consultabili in U.R. Dumdum, K.B. Lowe, e B.J. Avolio, “A Meta-Analysis of Transformational and Transactional Leadership Correlates of Effectiveness and Satisfaction: An Update and Extension,” in Transactional and Charismatic Leadership: The Road Ahead, ed B.J. Avolio e F.J. Yammarino (New York: JAI, 2002), pp. 35-66. 42. Vedi K.B. Lowe, K.G. Kroeck, e N. Sivasubramaniam, “Effectiveness Correlates of Transformational and Transactional Leadership: A Meta-Analytic Review of the MLQ Literature,” The Leadership Quarterly, 1996, pp. 385-425. 43. La leadership visionaria è analizzata da C.A. Hartnell e F.O. Walumbwa, “Transformational Leadership and Organizational Culture,” in The Handbook of Organizational Culture and Climate, 2nd ed, ed N.M. Ashkanasy, C.P.M. Wilderom, e M..F Peterson (Thousand Oaks, CA: Sage, 2011), pp. 225-48; e M.A. Griffin, S.K. Parker, e C.M. Mason, “Leader Vision and the Development of Adaptive and Proactive Performance: A Longitudinal Study,” Journal of Applied Psychology, January 2010, pp. 174-82. 44. Studi a support si trovano in T.A. Judge e R.F. Piccolo, “Transformational and Transactional Leadership: A Meta-Analytic Test of Their Relative Validity,” Journal of Applied Psychology, October 2004, pp. 755-68. 45. X-H. Wang e J.M. Howell, “Exploring the Dual-Level Effects of Transformational Leadership on Followers,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1134-44. 46. T. Whitford e S.A. Moss, “Transformational Leadership in Distributed Work Groups: The Moderating Role of Follower Regulatory Focus and Goal Orientation,” Communication Research, December 2009, pp. 810-37.

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Note al volume

462 47. Vedi A.J. Towler, “Effects of Charismatic Influence Training on Attitudes, Behavior, and Performance,” Personnel Psychology, Summer 2003, pp. 363-81; e M. Frese e S. Beimel, “Action Training for Charismatic Leadership: Two Evaluations of Studies of a Commercial Training Module on Inspirational Communication of a Vision,” Personnel Psychology, Autumn 2003, pp. 671-97. 48. Queste raccomandazioni sono state tratte da J.M. Howell e B.J. Avolio, “The Ethics of Charismatic Leadership: Submission or Liberation?” Academy of Management Executive, May 1992, pp. 43-54. 49. Vedi F. Dansereau Jr, G. Graen, e W. Haga, “A Vertical Dyad Linkage Approach to Leadership within Formal Organizations,” Organizational Behavior and Human Performance, February 1975, pp. 46-78; e K.S. Wilson, H-P. Sin, e D.E. Conlon, “What About the Leader in Leader-Member Exchange? The Impact of Resource Exchanges and Substitutability on the Leader,” Academy of Management Review, July 2010, pp. 358-72. 50. Queste descrizioni sono state tratte da D. Duchon, S.G. Green, e T.D. Taber, “Vertical Dyad Linkage: A Longitudinal Assessment of Antecedents, Measures, and Consequences,” Journal of Applied Psychology, February 1986, pp. 56-60. 51. Risultati a supporto si trovano in B. Erodogan e T.N. Bauer, “Differentiated Leader-Member Exchanges: The Buffering Role of Justice Climate,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1104-20; e L.W. Hughes, J.B. Avey, e D.R. Nixon, “Relationships Between Leadership and Followers’ Quitting Intentions and Job Search Behaviors,” Journal of Leadership & Organizational Studies, November 2010, pp. 351-62. 52. Vedi V. Venkataramani, S.G. Green, e D.J. Schleicher, “Well-Connected Leaders: The Impact of Leaders’ Social Network Ties on LMX and Members’ Work Attitudes,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1071-84; R. Eisenberger, G. Karagonlar, F. Stinglhamber, P. Neves, T.E. Becker, M.G. Gonzalez-Morales, e M. Steiger-Mueller, “Leader-Member Exchange and Affective Organizational Commitment: The Contribution of Supervisor’s Organizational Embodiment,” Journal of Applied Psychology, November 2010, pp. 1085-1103. 53. R.J. House e R.N. Aditya, “The Social Scientific Study of Leadership Quo Vadis?” Journal of Management, 1997, p. 457. 54. C.L. Pearce e J.A. Conger, “All Those Years Ago: The Historical Underpinnings of Shared Leadership,” in Shared Leadership: Reframing the Hows and Whys of Leadership, ed C.L. Pearce and J.A. Conger (Thousand Oaks, CA: Sage, 2002), p. 1. 55. Questa ricerca è sintetizzata in B.J. Avolio, J.J. Sosik, D.I. Jung, e Y. Berson, “Leadership Models, Methods, and Applications,” in Handbook of Psychology: Industrial and Organizational Psychology, vol. 12, ed W.C. Borman, D.R. Ilgen, and R.J. Klimoski (Hoboken, NJ: John Wiley & Sons, 2003), pp. 277-307. 56. Una sintesi generale della leadership di servizio è fornita in L.C. Spears, Reflections on Leadership: How Robert K Greenleaf’s Theory of ServantLeadership Infl uenced Today’s Top Management Thinkers (New York: John Wiley & Sons, 1995). 57. Risultati a supporto si trovano in F.O. Walumbwa, C.A. Hartnell, e A. Oke, “Servant Leadership, Procedural Justice Climate, Service Climate, Employee Attitudes, and Organizational Citizenship Behavior: A Cross-Level Investigation,” Journal of Applied Psychology, May 2010, pp. 517-29; e R.C. Liden, S.J Wayne, H. Zhao, e D. Henderson, “Servant Leadership: Development of a Multidimensional Measure and Multi-Level Assessment,” The Leadership Quarterly, April 2008, pp. 161-77. 58. Il ruolo dei follower è analizzato da D.S. DeRue e S.J. Ashford, “Who Will Lead and Who Will Follow? A Social Process of Leader-ship Identity Construction in Organizations,” Academy of Management Review, October 2010. 59. Bass e Bass, p. 408. 60. Vedi L. Bossidy, “What Your Leader Expects of You and What You Should Expect in Return,” Harvard Business Review, April 2007, pp. 58-65.

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61. Vedi R. Goffee e G. Jones, “Followership: It’s Personal, Too,” Harvard Business Review, December 2001, p. 148.

Capitolo 17 1. Estratto da G. Sandstrom e C. Lawton, “Nokia CEO Makes His Mark,” The Wall Street Journal, October 22, 2010, p. B3; e C. Ziegler, “Nokia CEO Stephen Elop Rallies Troops in Brutally Honest ‘Burning Platform’ Memo?” reperito l’8 aprile 2011 all’indirizzo http://www.engadget.com/2011/02/08/ nokia-ceo-stephen-elop-rallies-troups-in-brutally-hon 2. Vedi G. Colvin, “Grading Jeff Immelt,” Fortune , February 28, 2011, pp. 75-80; e M. Moskowitz, R. Levering, e C. Tkaczyk, “The 100 Best Companies to Work For,” Fortune, February 7, 2011, pp. 91-101. 3.“Capitalizing on Complexity,” IBM Corporation, May 2010. 4.A.M. Webber, “Learning for a Change,” Fast Company, May 1999, p. 180. 5.Vedi “Training Top 125,” Training, January-February 2011, pp. 54-93. 6. P. Coy, “A Message from the Street,” Bloomberg Businessweek, February 7-February 13, 2011, pp. 58-65. 7. Vedi “Social Networking Comes to Fore as Regular Recruiting Tool,” HR Trendbook HR Magazine, 2011, p. 63. 8. Vedi D. Bennett, “I’ll Have My Robots Talk to Your Robots,” Bloomberg Businessweek, February 21-February 27, 2011, pp. 52-61. 9. Questa tipologia tripartita del cambiamento è un adattamento tratto da P.C. Nutt, “Tactics of Implementation,” Academy of Management Journal, June 1986, pp. 230-61. 10. Per una trattazione completa del modello vedi K. Lewin, Field Theory in Social Science (New York: Harper & Row, 1951); e J. Helms, K. Dye, e A.J. Mills, Understanding Organizational Change (New York: Routledge, 2009) pp. 39-55. 11. Queste affermazioni sono analizzate in E.H. Schein, Organizational Psychology, 3rd ed (Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall, 1980). 12. C Goldwasser, “Benchmarking: People Make the Process,” Management Review, June 1995, p. 40. 13. Vedi D. Shaner, The Seven Arts of Change (New York: Union Square Press, 2010). 14. Errori esaminati in J.P. Kotter, “Leading Change: When Transformation Efforts Fail,” Harvard Business Review, January 2007, pp. 96-103. 15. Vedi L. Freifeld, “Changes with Penguins,” Training, June 2008, pp. 24-28; e J.P. Kotter, “Transformation,” Leadership Excellence, December 2008, p. 20. 16. P.G. Hanson e B. Lubin, “Answers to Questions Frequently Asked about Organization Development,” in The Emerging Practice of Organization Development, ed W. Sikes, A. Drexler, and J. Grant (Alexandria, VA: NTL Institute, 1989), p. 16. 17. Per una rassegna dello sviluppo organizzativo vedi L. Martins, “Organizational Change and Development,” Handbook of Industrial and Organizational Psychology, 2011, pp. 691-728. 18. Vedi R. Rodgers, J.E. Hunter, e D.L. Rogers, “Influence of Top Management Commitment on Management Program Success,” Journal of Applied Psychology, February 1993, pp. 151-55. 19. I risultati si trovano in P.J. Robertson, D.R. Roberts, e J.I. Porras, “Dynamics of Planned Organizational Change: Assessing Empirical Support for a Theoretical Model,” Academy of Management Journal, June 1993, pp. 619-34. 20. I risultati dell’analisi comparata si trovano in G.A. Neuman, J.E. Edwards, e N.S. Raju, “Organizational Development Interventions: A Meta-Analysis of Their Effects on Satisfaction and Other Attitudes,” Personnel Psychology, Autumn 1989, pp. 461-90. 21. I risultati si trovano in C-M. Lau e H-Y. Ngo, “Organization Development and Firm Performance: A Comparison of Multinational and Local Firms,” Journal of International Business Studies, First Quarter 2001, pp. 95-114.

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Note al volume 22. J.D. Ford, L.W. Ford, e A. D’Amelio, “Resistance to Change: The Rest of the Story,” Academy of Management Review, April 2008, p. 362. 23. Vedi J.D. Ford e L.W. Ford, “Stop Blaming Resistance to Change and Start Using It,” Organizational Dynamics, January-March 2010, pp. 24-36. 24. Adattamento da R.J. Marshak, Covert Processes at Work (San Francisco, CA: Berrett-Koehler Publishers, 2006); e A.S. Judson, Changing Behavior in Organizations: Minimizing Resistance to Change (Cambridge, MA: Blackwell, 1991). 25. Ricerche sulla predisposizione individuale al cambiamento sono state condotte da E. Lamm e J.R. Gordon, “Empowerment, Predisposition to Resist Change, and Support for Organizational Change,” Journal of Leader-ship & Organizational Studies, November 2010, pp. 426-37. 26. Ricerche sulla resilienza sono esaminate da K. Kersting, “ Resilience: The Mental Muscle Everyone Has,” Monitor on Psychology, April 2005, pp. 32-33. 27. Vedi R.H. Schaffer, “Mistakes Leaders Keep Making,” Harvard Business Review, September 2010, pp. 86-91. 28. Vedi D.M. Harold, D.B. Fedor, S. Caldwell e Y. Liu, “The Effects of Transformational and Change Leadership on Employees’ Commitment to Change: A Multilevel Study,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 346-57. 29. Vedi R.H. Miles, “Accelerating Corporate Transformations (Don’t Lose Your Nerve!),” Harvard Business Review, January-February 2010, pp. 69-75. 30. Vedi S.A. Furst e D.M. Cable, “Employee Resistance to Organizational Change: Managerial Infl uence Tactics and Leader-Member Exchange,” Journal of Applied Psychology, March 2008, pp. 453-62. 31. J.P. Kotter, “Leading Change: Why Transformation Efforts Fail,” Harvard Business Review, 1995, p. 64. 32. La reazione dello stress è ampiamente trattata in H Selye, Stress without Distress (New York: J B Lippincott, 1974). 33. Vedi T.A. Wright, “The Role of Psychological Well-Being in Job Performance, Employee Retention and Cardiovascular Health,” Organizational Dynamics, January-March 2010, pp. 13-23. 34. J.M. Ivancevich e M.T. Matteson, Stress and Work: A Managerial Perspective (Glenview, IL: Scott, Foresman, 1980), pp. 8-9. 35. Vedi Selye. 36. Vedi J.D. Nahrgang, F.P. Morgeson, e D.A. Hoffman, “Safety at Work: A Meta-Analytic Investigation of the Link Between Job Demands, Job Resources, Burnout, Engagement, and Safety Outcomes,” Journal of Applied Psychology, January 2011, pp. 71-94; e S. Ohly e C. Fritz, “Work Characteristics, Challenge Appraisal, Creativity, and Proactive Behavior: A Multi-level Study,” Journal of Organizational Behavior, May 2010, pp. 543-65. 37. F.M. McKee-Ryan, Z. Song, C.R. Wanberg, e A.J. Kinicki, “Psychological and Physical Well-Being during Unemployment: A Meta-Analytic Study,” Journal of Applied Psychology, January 2005, pp. 53-76; e P. Butterworth, L.S. Leach, L. Strazdins, S.C. Olesen, B. Rodgers, e D.H. Broom, “The Psychosocial Quality of Work Determines Whether Employment Has Benefits for Mental Health: Results from a Longitudinal National Household Panel Study,” Occupational & Environmental Medicine, March 14, 2011, http://oem.bmj.com/content/early/2011/02/26/oem.2010.059030. abstract?sid=716907ef-4e 38. Vedi C. Binnewies, S. Sonnentag, e E.J. Mojza, “Daily Performance at Work: Feeling Recovered in the Morning as a Predictor of Day-Level Job Performance,” Journal of Organizational Behavior, January 2009, pp. 67-93. 39. “Too Much Information,” HR Magazine, January 2011, p. 19. 40. Il tema delle condizioni ambientali è analizzato da A. Bruzzese, “Is the Building Making You ‘Sick’ of Work?” The Arizona Republic, January 29, 2005, p. D3. 41. Vedi R.A. Clay, “Stressed in America,” Monitor on Psychology, January 2011, pp. 60-61. 42. La trattazione della valutazione si basa su R.S. Lazarus e S. Folkman, Stress, Appraisal, and Coping (New York: Springer Publishing, 1984).

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463 43. I risultati sono presentati in J.A. Penley, J. Tomaka, e J.S. Wiebe, “The Association of Coping to Physical and Psychological Health Outcomes: A Meta-Analytic Review,” Journal of Behavioral Medicine, December 2002, pp. 551-609. 44. Vedi J.D. Kammeyer-Mueller, T.A. Judge, e B.A. Scott, “The Role of Core Self-Evaluations in the Coping Process,” Journal of Applied Psychology, January 2009, pp. 177-95. 45. Definizione adattata da C Fritz, M Yankelevich, A Zarubin, e P. Barger, “Happy, Health, and Productive: The Role of Detachment From Work During Nonwork Time,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 977-83. 46. Vedi ibid.; S. Sonnentag, C. Binnewies, e E.J. Mojza, “Staying Well and Engaged When Demands Are High: The Role of Psychological Detachment,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 965-76; e C. Fritz, S. Sonnentag, P.E. Spector, e J.A. McInroe, “The Weekend Matters: Relationships between Stress Recovery and Affective Experiences,” Journal of Organizational Behavior, November 2010, pp. 1137-62. 47. Risultati a supporto si trovano in R. Ilies, N. Dimotakis, e I.E. De Pater, “Psychological and Physiological Reactions to High Workloads: Implications for Well-Being,” Personnel Psychology, Summer 2010, pp. 407-36; e E.R. Crawford, J.A. LePine, e B.L. Rich, “Linking Job Demands and Resources to Employee Engagement and Burnout: A Theoretical Extension and Meta-Analytic Test,” Journal of Applied Psychology, September 2010, pp. 834-48. 48. Vedi M.R. Frone, “Are Work Stressors Related to Employee Substance Use? The Importance of Temporal Context in Assessments of Alcohol and Illicit Drug Use,” Journal of Applied Psychology, January 2008, pp. 199-206. 49. Risultati a support si trovano in Wright, “The Role of Psychological Well-Being in Job Performance, Employee Retention and Cardiovascular Health;” e P. Steel, J Schmidt, e J Shultz, “Refining the Relationship between Personality and Subjective Well-Being,” Psychological Bulletin, January 2008, pp. 138-61; e G E Miller, E Chen, e E S Zhou, “If It Goes Up, Must It Come Down? Chronic Stress and the Hypothalamic-Pituitary-Adrenocortical Axis in Humans,” Psychological Bulletin, January 2007, pp. 25-45. 50. Le tipologie di sostegno sono analizzate in S. Cohen e T.A. Wills, “Stress, Social Support, and the Buffering Hypothesis,” Psychological Bulletin, September 1985, pp. 310-57. 51. Vedi W. Arnold, “Studies Show Friendships May Be Factor in Keeping Us Alive,” The Arizona Republic, March 5, 2011, p. Z15; e R. Ilies, M.D. Johnson, T.A. Judge, e J. Keeney, “A Within-Individual Study of Interpersonal Conflict as a Work Stressor: Dispositional and Situational Moderators,” Journal of Organizational Behavior, January 2011, pp. 44-64. 52. Questa ricerca pionieristica è stata presentata in S.C. Kobasa, “Stressful Life Events, Personality, and Health: An Inquiry into Hardiness,” Journal of Personality and Social Psychology, January 1979, pp. 1-11. 53. Vedi S.C. Kobasa, S.R Maddi, e S. Kahn, “Hardiness and Health: A Prospective Study,” Journal of Personality and Social Psychology, January 1982, pp. 168-77. 54. I risultati di questo studio sono esaminati in S.R. Maddi, “On Hardiness and Other Pathways to Resilience,” American Psychologist, April 2005, pp. 261-62. 55. M. Friedman e R.H. Rosenman, Type A Behavior and Your Heart (Greenwich, CT: Fawcett Publications, 1974), p. 84. (Grassetto aggiunto.) 56. Vedi C. Lee, L.F. Jamieson, e P.C. Earley, “Beliefs and Fears and Type A Behavior: Implications for Academic Performance and Psychiatric Health Disorder Symptoms,” Journal of Organizational Behavior, March 1996, pp. 151-77; S.D. Bluen, J. Barling, e W. Burns, “Predicting Sales Performance, Job Satisfaction, and Depression by Using the Achievement Strivings and Impatience- Irritability Dimensions of Type A Behavior,” Journal of Applied Psychology, April 1990, pp. 212-16; e M.S. Taylor, E.A. Locke, C. Lee, e M.E. Gist, “Type A Behavior and Faculty Research Productivity: What Are the Mechanisms?” Organizational Behavior and Human Performance, December 1984, pp. 402-18.

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464 57. I risultati si trovano in Y. Chida e M. Hamer, “Chronic Psychological Factors and Acute Physiological Responses to Laboratory-Induced Stress in Healthy Populations: A Quantitative Review of 30 Years of Investigations,” Psychological Bulletin, November 2008, pp. 829-85. 58. Vedi S.A. Lyness, “Predictors of Differences between Type A and B Individuals in Heart Rate and Blood Pressure Reactivity,” Psychological Bulletin, September 1993, pp. 266-95. 59. Vedi T.Q. Miller, T.W. Smith, C.W. Turner, M.L. Guijarro, e A.J. Hallet, “A Meta-Analytic Review of Research on Hostility and Physical Health,” Psychological Bulletin, March 1996, pp. 322-48. 60. Vedi S.J. Wells, “Finding Wellness’s Return on Investment,” HR Magazine, June 2008, pp. 75-84.

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Note al volume 61. I risultati sono presentati in K.M. Richardson e H.R. Rothstein, “Effects of Occupational Stress Management Intervention Programs: A Meta-Analysis,” Journal of Occupational Health Psychology, January 2008, pp. 69-93. 62. Fasi tratte da una presentazione contenuta in L. Dzubow, “Optimism 101,” The Oprah Magazine, April 2011, p. 130. 63. Vedi D.C. Ganster, B.T. Mayes, W.E. Sime, e G.D. Tharp, “Managing Organizational Stress: A Field Experiment,” Journal of Applied Psychology, October 1982, pp. 533-42. 64. R. Kreitner, “Personal Wellness: It’s Just Good Business,” Business Horizons, May-June 1982, p. 28. 65. Dati statistici citati in “Meeting the Challenge of Motivating Employees to Embrace Wellness,” HR Magazine, May 2005, pp. 15-17.

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