Come in uno specchio. I grandi registi della storia del cinema 8879893467, 9788879893466

In questo libro, per brevi voci che congiungono informazione e riflessione, biografia e storia, Fofi racconta gli autori

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Italian Pages 288 [333] Year 1997

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Table of contents :
Collana
Frontespizio
Colophon
Il libro
Come in uno specchio
Premessa
1. Lumière e/o Méliès
2. David Wark Griffith
3. Charles Chaplin
4. Buster Keaton
5. Erich von Stroheim
6. Friedrich Wilhelm Murnau
7. Il cinema tedesco del primo dopoguerra
8. Il cinema sovietico
9. Sergej M. Ejzenstejn
10. Aleksandr Dovzenko
11. Dziga Vertov
12. Fritz Lang
13. Carl-Theodor Dreyer
14. Ernst Lubitsch
15. Jean Renoir
16. Jean Vigo
17. John Ford
18. Il cinema americano
19. Howard Hawks
20. Alfred Hitchcock
21. Max Ophüls
22. Yasujiro Ozu
23. Kenji Mizoguchi
24. Luis Buñuel
25. Orson Welles
26. Roberto Rossellini
27. Luchino Visconti
28. Akira Kurosawa
29. Billy Wilder
30. John Huston
31. Elia Kazan
32. Robert Bresson
33. Ingmar Bergman
34. Federico Fellini
35. Il cinema italiano dopo il ’45
36. Andrzej Wajda
37. Joseph Losey
38. Dalle avanguardie «storiche» al cinema underground
39. Satyajit Ray
40. Le nouvelles vagues dall’Occidente all’Est europeo e al Terzo Mondo
41. Alain Resnais
42. Jean-Luc Godard
43. François Truffaut
44. Stanley Kubrick
45. Arthur Penn
46. Sam Peckinpah
47. Andy Warhol
48. Pier Paolo Pasolini
49. Andrej Tarkovskij
50. Vasilij Šukšin
51. Glauber Rocha
52. Nagisa Oshima
53. Robert Altman
54. Francis Ford Coppola
55. Woody Allen
56. Rainer Werner Fassbinder
57. Wim Wenders
58. Martin Scorsese
59. Gianni Amelio
60. Abbas Kiarostami
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Come in uno specchio. I grandi registi della storia del cinema
 8879893467, 9788879893466

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Universale / 9

Goffredo Fo

COME IN UNO SPECCHIO I grandi registi della storia del cinema

© 1995, 1997 Donzelli editore, Roma Prima edizione in Universale: giugno 1997 ISBN 88-7989-346-7

A

Il libro

cento anni di distanza dalla nascita, il cinema sfugge ancora alle celebrazioni paludate e si mostra come uno dei fenomeni più vivi del nostro tempo. Ha detto moltissimo su ciò che siamo stati e siamo; ha ancora molto da dire in fatto di poesia. In questo libro, per brevi voci che congiungono informazione e ri essione, biogra a e storia, Goffredo Fo - il più estroso e autorevole dei nostri critici militanti - racconta gli autori più rappresentativi di questi cento anni, le scuole, i periodi, i momenti più importanti dell’evoluzione di un’arte letta e giudicata criticamente nei suoi rapporti con la società. Al centro della ri essione di Fo rimane il cinema d’autore: quel cinema che, in modi autonomi e insostituibili, ha saputo dare all’uomo del Novecento quanto, e forse più, hanno saputo offrirgli la letteratura, la pittura, la musica, il teatro, la fotogra a. Il risultato è una personale, originalissima, tendenziosa galleria di «ritratti» fondamentali, che introduce ai dilemmi di un’arte il cui spazio è forse da ride nire, ma che resta tuttavia indispensabile. E bellissima.

Come in uno specchio

Premessa Il cinema ha cent’anni e ha cambiato pelle molte volte. Muto e sonoro, bianco e nero e a colori, spettacolare e sperimentale, miliardario e povero, narrativo e documentario, in pellicola e in elettronica, nelle sale e in televisione ha espresso nel mondo migliaia di registi e milioni di lm. La critica ha cercato di renderne conto, cambiando pelle anch’essa più volte, e riducendosi alla ne alla seriosità spesso imbalsamatrice dell’università o alla pubblicitaria super cialità della cronaca. Ha cercato di dar dignità al «cinema come arte» ma ha anche contribuito a strappargliela; ha seguito le mode o la rivolta alle mode, a servizio di logiche commerciali e/o politiche maggioritarie o di esperienze di rottura e di novità. Da ultimo, nel magma dei media e della produzione di consumo, annaspa nell’esaltazione di merci o nella ricerca, dentro le merci, di stracci di poesia o di ussi di eccitazione. Col tempo, ha perso sempre di più ogni funzione «pedagogica» ed esortativa, ogni sforzo di selezione e valorizzazione non solo secondo intuito, anche secondo progetto: nella possibilità del cinema di collegarsi alla storia di una società, alla storia degli altri modi di comunicazione ed espressione che una società si offre o partorisce faticosamente come rottura, spazio del negativo e del positivo, della critica dell’esistente e nell’utopia, del non-detto e del non-dicibile. Le «voci» che compongono questo volume considerano gli autori analizzati alla stregua degli altri grandi nomi delle arti del secolo, privilegiando quelli che sembrano, a chi scrive, aver dato al cinema maggior dignità e maggior luce, avergli portato qualcosa che prima non c’era - una sensibilità o un modo di narrare o un’ambizione più radicali. La scelta è personale, è discutibile. Altri nomi si sarebbero potuti aggiungere, anche di autori minori che forse tanto

minori non sono. Cominciamo con questi. Alcune di queste voci sono state scritte per dizionari o storie e ampiamente rimaneggiate; la maggior parte sono state scritte per questo progetto di personale e pubblica sistemazione di valori, allo scadere di un secolo di cinema e di mezzo secolo di privata cine lia, ora più innamorata e ora più lucida ma sempre ostinatamente «sociale». Ringrazio per l’intelligenza e per l’affetto con i quali mi hanno assistito in quest’impresa e vi hanno collaborato Georgette Ranucci, Gianni Volpi, Morando Morandini, Paolo Mereghetti, Piergiorgio Bellocchio.

1. Lumière e/o Méliès Le invenzioni diventano «vere» quando i tempi sono maturi per farne uso, quando c’è una domanda e c’è un’offerta. Il cinema è l’arte nuova del Novecento perché le società di massa nate dall’industrializzazione, le nuove città e le vecchie che si dilatano a dismisura hanno bisogno di divertimenti economici e di facile diffusione per il tempo libero dei loro abitanti. Se la fotogra a nasce, si sviluppa e si perfeziona nel corso dell’Ottocento, il cinema viene dopo e ne mette a punto i procedimenti applicandoli al movimento, alla riproduzione su pellicola e alla proiezione su schermo di «scene della vita» o ricostruite e, via via, immaginate, ordinate e «montate» secondo un copione e una progressione prestabilita, secondo criteri di narrazione. Le invenzioni moderne non hanno un solo autore, ne hanno mille. Chi ha inventato la fotogra a? Chi ha inventato il cinema (e il lm)? Centinaia hanno dato il loro contributo: Plateau, Stampfer, von Uchatius, Heyl, Isaacs, Muybridge, Marey, Eastman, Edison, Reynaud, Leprince, Friese-Greene, Demény, Latham, LeRoy, Jenkins, Armat, Skladanowsky e i fratelli Louis (Besangon 1864-Lione 1948) e Auguste Lumière (Besangon 1862-Lione 1954) e dei due soprattutto Louis; e anche, per molti versi, il loro accorto genitore Antoine. Lentamente, da un piccolo perfezionamento a un altro, si de nisce una «macchina», un procedimento, una sorpresa. I Lumière erano di Lione, industriali-scienziati che tali resteranno per tutta la vita. Il cinematografo fu la loro «invenzione» più nota, ma non fu il loro mestiere. Nel 1895, il 13 febbraio, chiedono il brevetto dell’apparecchio di riprese cinematogra che, che registra immagini al ritmo di 16 al secondo; il 28 dicembre dello stesso anno, a Parigi, in una saletta del Grand Café sul Boulevard des Capucines, proiettano le prime «vedute» in movimento, i primi « lm». Non si

rendono conto della portata della loro invenzione e, dopo altri esperimenti e alcune riprese, passano ad altro. Tra i primi lm ci sono riprese di piccoli fatti quotidiani della famiglia (il pasto di un bambino, un bagno a mare, una partita di carte…) e dell’azienda (l’uscita dalla fabbrica, la demolizione di un muro…) e naturalmente il famoso arrivo del treno nella stazione di La Ciotat, e un «soggetto» che è già comico, un effetto speciale a vista: Le jardinier et le petit espiègle, più noto come L’arroseur arrosé, pezzo forte della prima serata di proiezioni parigine. Sono «dimostrazioni» della potenza di un apparecchio meccanico, ma il titolo del primo lm resterà per molti emblematico della prima e fondamentale contraddizione del cinema: La sortie de l’usine (o La sortie des ouvriers de l’usine Lumiére). Gli operai escono dai cancelli della fabbrica, ed escono via via dall’inquadratura: l’inquadratura sta stretta al cinema. E il dilemma futuro tra un cinema che si costruisce e si controlla tutto dentro l’immagine, l’inquadratura, lo schermo, un cinema che accetta e sfrutta il proprio limite, e invece un cinema che vuole abbatterlo e uscire nella vita coinvolgendola e coinvolgendosene, e che soprattutto vuole uscire dalla fabbrica: dal condizionamento economico dell’industria e del mercato e dal condizionamento della grande tecnologia. Il titolo del primo lm è il titolo di un progetto d’utopia che sovrasta la banalità e la prosaicità della ripresa. Allo stesso modo, può essere considerato esemplare e n emblematico il confronto tra la scarsa opera dei Lumière e quella di un «pioniere» come Georges Méliès (Parigi 1861-Orly 1938), il più noto dei pionieri, il più proli co (per alcuni storici circa quattromila «pezzi», per altri 503, di cui conservati circa 120) e il più inventivo e fantasioso di tutti. Da un lato, il realismo documentario che, su no al realismo e al cinema-verità, sarà l’ambizione di gran parte dei grandi cineasti (riprodurre la vita, raccontare la «vera» vita) e dall’altra la deformazione fantastica, il trucco e l’«effetto speciale», il grande spettacolo sbalorditivo, nonché la surrealtà. Da un lato il documentario, Rossellini, la «nouvelle vague», la televisione, dall’altro De Mille, Disney,

Spielberg, ma anche Kubrick, Fellini, Bunuel (e i grandi russi del muto). Méliès è il padre delle illusioni: veniva dal teatro di trucchi, dagli spettacoli di automi, dai baracconi delle ere. «Inventò» il primo teatro di posa e ricorse per primo alla luce arti ciale, dipinse fondali e scrisse trame, fu produttore e autore completo dei suoi lm e per un certo periodo andò in giro presentandoli egli stesso, sperimentò ed elaborò trucchi e illusioni. Se con i Lumière il cinema si serviva della fotogra a, con Méliès ricorreva al teatro, al circo, al music-hall (più tardi, con Griffith e con la corrente francese del « lm d’art», il cinema scoprì la letteratura, e con il trionfo del «noleggio», la letteratura più avventurosa, sentimentale, popolare, e dal romanzo e dal teatro derivò le basi narrative, la costruzione delle sue storie). L’ambizione di Méliès fu, per sua ammissione, «tutto quanto era assolutamente impossibile a teatro». «Volete sapere come mi venne la prima idea di applicare il trucco al cinematografo? L’arresto della macchina da presa di cui mi servivo produsse un effetto inatteso un giorno che io riprendevo, molto prosaicamente, la piazza dell’Opéra; mi bastò un minuto per sbloccare la macchina e rimetterla in moto. Durante questo minuto i passanti, gli omnibus, le automobili avevano naturalmente cambiato posizione. Proiettando la pellicola, giunto al punto in cui si era provocata la rottura, vidi all’improvviso un omnibus mutato in carro funebre e degli uomini cambiati d’un tratto in donne. Il trucco per sostituzione, detto trucco di arresto, era trovato, e due giorni dopo eseguii le prime metamorfosi di uomini in donne, e le prime scomparse improvvise ch’ebbero, agli inizi, un così grande successo. Un trucco ne attira un altro; di fronte al successo del nuovo genere mi preoccupai d’inventare procedimenti nuovi, e immaginai successivamente il cambiamento di sfondi per dissolvenza incrociata, ottenuto con un dispositivo speciale dell’apparecchio fotogra co, le apparizioni, le scomparse, le metamorfosi ottenute con la sovrapposizione su fondali bianchi già impressionati. Poi vennero i trucchi delle teste tagliate, del moltiplicarsi dei

personaggi, delle scene interpretate da un solo personaggio che, sdoppiandosi, nisce col rappresentare da solo n dieci personaggi simili, che recitano la commedia l’uno con l’altro». E vennero Le voyage dans la lune (Il viaggio sulla luna, 1902), L’homme a la tète en caoutchouc (L’uomo dalla testa di caucciù, 1903), Le voyage a travers l’impossible (Il viaggio attraverso l’impossibile, 1904), Les quatre-cents farces du diable (I quattrocento scherzi del diavolo, 1906), Les hallucinations du baron de Munchhausen (Le allucinazioni del barone di Münchhausen, 1911), A la conquète du Póle (Alla conquista del Polo, 1912) eccetera, titoli egregi di una produzione che comprendeva favole, attualità ricostruite (come L’affaire Dreyfus o L’éruption du mont Pelé), drammi storici (come Jeanne d’Arc), adattamenti di classici (come Amleto), balletti (come Cendrillon, Cenerentola), farsette (come Le déshabillage impossible, La svestizione impossibile), e naturalmente tanti Castelli Incantati e Locande Stregate… Il cinema doveva incantare e stregare, doveva sbalordire, affascinare e depistare, portare in altri mondi e in altre dimensioni. Il cinema doveva far venire i brividi dalla paura o far schiattare dalle risate, ma soprattutto far emettere all’unisono da un pubblico vasto degli «oh» di stupore, di meraviglia, di entusiasmo. È quanto molto cinema cerca ancora di fare, con grandi mezzi ma, a ben vedere, servendosi dello stesso armamentario cui ricorreva Méliès. Coinvolgere con lo spettacolo del vero o sbalordire con lo spettacolo del falso, o ancora mediare con la forzatura fantasiosa del vero; far ridere o far piangere; suscitare identi cazioni o sollecitare ri essioni; attrarre o distrarre; chiedere la negazione di sé e della propria ragione (della propria veglia) o destare a nuove scoperte la propria intelligenza, il proprio spirito, il proprio cuore. Quando le luci si spengono nelle platee e lo schermo si accende, tutto può accadere, ma secondo linee direttrici già ssate dalla scelta magica di Méliès o da quella dimessa e realistica di Lumière; e tuttavia… Tra i miracoli del cinema può esserci anche la

banalità del fantastico e la poesia del reale, la fuga all’infuori e la spinta all’indentro che possono, talora, anche coincidere.

2. David Wark Griffith Griffith (Crestwood, Kentucky 1875-Hollywood 1948) non ha certo inventato il cinema, ma si dice gli abbia dato una grammatica e una sintassi, ed è probabilmente vero, anche se la discussione è tuttora aperta. Lo ha fatto con tutto il coraggio, la testarda protervia, la foga di uno sperimentatore, dapprima (1908-11, in pochissimi anni ma attraverso dozzine di lm a una o due bobine, alla media spesso di due lm alla settimana) incerto e vergognoso di occuparsi, lui che mirava al teatro e alla letteratura, di questa «novità» bizzarra e volgare che era il cinema, poi (1912-14) convinto della grandezza e dell’importanza di un nuovo mezzo di espressione di cui ha la possibilità ben rara di diventare pioniere e maestro, e in ne, dopo Intolerance (1916) e il suo successo, preoccupato più della costruzione di un impero economico (fallimentare) che della propria arte, ma ancora capace, a tratti, se non più di invenzioni certamente di una qual forza narrativa. Bisognerebbe conoscere meglio la sua opera, per sceverare il grano dal loglio, anche se essa, oggetto di minuziosi studi, è importante in sé, oltre i suoi valori artistici. Perché Griffith perfeziona un mezzo, e gli dà, nel paese che ne vedrà il maggiore sviluppo, uno statuto di arte, lo nobilita nello stesso tempo in cui ne afferma la grandissima portata spettacolare, quindi economica. È discutibile che egli abbia per primo inventato primi piani, panoramiche o mascherini, ma certamente è con lui che il cinema perfeziona le sparse acquisizioni in un sistema linguistico che reggerà, che regge tuttora, e non solo nella sua forma più speci camente narrativa. Oggi quelle che erano novità sembrano, agli occhi di chi è venuto dopo, cose ovvie - ed è ovvio che sia così - ma l’impatto che dovettero avere non è paragonabile a quello di nessun altro regista: sul pubblico, sulla nascente critica (che acquista essa pure uno statuto a partire da lui, dai suoi oggetti

elaborati, coerenti, dotati di autonomia espressiva e di valore poetico, pronti per un’analisi originale), sui registi che da lui impararono (direttamente: Stroheim, De Mille, Borzage, King, Browning, Walsh, Van Dyke, ma anche, indirettamente, Ejzenstejn o Kulesov o Pudovkin, Mizoguchi o Gosho, Lubitsch o Lang, Gance o L’Herbier, Sjòstròm o Stiller…), sul sistema produttivo che ne rapinò le soluzioni. Il cinema si istituzionalizza come industria e forma espressiva negli anni di Griffith, a partire da Griffith. Il suo sforzo aveva radici precise, non solo nel cinema (i primitivi francesi e inglesi, i kolossal italiani - che pure è controverso egli conoscesse prima di Nascita di una nazione e, in America, Porter e Blackton). C’era il romanzo ottocentesco (Dickens, soprattutto, da lui spesso citato - e Ejzenstejn scriverà nel ’44 un saggio-omaggio intitolato Dickens, Griffith e noi - e il feuilleton), mediato attraverso la vivace applicazione teatrale dei «classici» più popolari e delle loro strutture narrative (David Belasco, e Griffith stesso veniva di lì), la poesia romantica inglese (Tennyson, Browning, le ballate più narrative), e in ne Poe, anima nera anche per lui. E c’era la passione tecnica, da inventore dilettante, cui Griffith volentieri sacri cava. Niente nasce dal niente ma Griffith fu l’artista giusto al momento giusto e, insistiamo, nel luogo giusto per permettere l’affermazione di un nuovo mezzo e di un nuovo linguaggio. La mobilità della macchina da presa dentro l’inquadratura; la vitalità arditissima del montaggio, che diventa proverbiale coi « nali alla Griffith» e la suspense di azioni simultanee a stacchi velocissimi; la funzione del primo piano, che impone una recitazione che sacri ca gli effetti gigioneschi, e dell’alternanza dei campi, tuttavia dentro una rigorosa unità di tema, sequenza per sequenza; il contrasto della fotogra a; l’uso del mascherino e dell’iride, dello schermo tagliato, del passaggio dal particolare all’insieme nella stessa immagine; il colore, ottenuto col viraggio della pellicola a seconda degli stati d’animo che il regista intende suggerire allo spettatore; il ricorso all’orchestra: tutto questo fa per la prima volta del lm uno spettacolo

completo, in grado di sollecitare e guidare l’attenzione e la passione dello spettatore di massa. E tutto questo dentro un’ideologia che confonde continuamente la magniloquente retorica di un imbonitore vittoriano e un liquido sentimentalismo tra pre-raffaellita, sessuofobico e comunque puritano, vistoso quando si tratta di eroine che sono angeliche vergini e devotissime spose e madri. Con Griffith nasce anche, non va dimenticato, lo star system vero e proprio, nasce il divismo delle sorelle Gish e della Pickford, di Walthall, di Barthelmess e per no di Stroheim, diretto preludio ai Fairbanks e ai Valentino che lo porteranno a nuova collettiva mania. Ma, ciò che è più, nasce anche una funzione non solo genericamente sociale del cinema, ma speci camente politica. Le passioni politiche destate da e birth of a nation (La nascita di una nazione, 1914) dimostrano la potenza di questo nuovo mass-medium, di portata inaudita rispetto alle precedenti forme di espressione e di comunicazione. Ed è questo il lm che meglio rivela la grandezza e miseria di Griffith artista. Venuto dopo «assaggi» importanti come e lonely villa, Enoch Arden, Pippa passes, e lonedale operator ecc., e il realistico - e c’è chi dice neorealistico - e musketeers of Pig Alley, La nascita di una nazione è un’opera, per il suo tempo, mastodontica. Romanzescamente uido, intrecciato, complesso, lunghissimo, ma carico di una tensione ottenuta tutta con la straordinaria libertà del linguaggio che Griffith perfeziona in un’altalena di pieni e di vuoti, dal ritmo calibratissimo e di inesausta novità (se Griffith usa di un accorgimento stilistico una volta, bada bene a non farvi ricorso una seconda), è anche l’omaggio di Griffith alla sua cultura originaria, ottocentesca e sudista, ergo razzista. Tutto in Griffith sembra dicotomico, duplice, contrastante. Egli salva le ragioni del nord, ma non è disposto a salvare l’abolizionismo, e i neri del lm, se non sono dei fedeli zii Tom, sono viscidi, lussuriosi, scatenati mostri di violenza e abiezione. Più tardi, in altri lm, mostrerà con dubbia sincerità dei neri diversi, ma si accanirà in America (1924) contro gli indiani, e altrove contro

gli zingari e ogni altro diverso. Resta che il lm è l’odiabile primo capolavoro dello schermo, a indicarne forse la malattia originaria, a indicare l’uso direttamente o latamente ideologico in cui il cinema, a cominciare da quello americano, doveva illustrarsi, la sua esasperata funzione sociale. Al successivo e ancor più ambizioso Intolerance, a drama of comparison (1916) non arriderà lo stesso successo. Griffith è, se possibile, ancora più sciolto e innovativo, ma più frequentemente bolso, retorico no al delirio. Predica ora la tolleranza, con quel suo impeto che vorrebbe, nella visione dualistica della realtà e della storia (Nord e Sud, Lavoro e Capitale, Europa e America…) una impossibile soluzione. Ma i tempi stanno cambiando, c’è in Europa la guerra, e l’invito alla tolleranza non è accettato dalle classi dirigenti né dal pubblico. Ma, soprattutto, la spettacolarità nuoce al messaggio. I «quattro corsi d’acqua visti dalla cima di una collina», che «al principio scorrono lentamente e quietamente ciascuno per suo conto, ma scorrendo si avvicinano sempre più l’uno all’altro» e «si uniscono in un solo, possente ume di commozione» (Griffith) sono invero di forza diseguale, e non sempre il montaggio alternato - tra l’una e l’altra delle quattro storie: quella moderna che racconta gli effetti di uno sciopero con un vigore adialettico di cui si avvertiranno chiare tracce nel cinema dei sovietici, quella babilonese, quella di Cristo e quella del massacro degli Ugonotti - salva la situazione. Lo spettacolo uccide l’emozione, ed è lecito preferire di gran lunga i due lm che successivamente Griffith trasse da questo magma solo apparentemente ordinato, montando a parte l’episodio moderno e quello babilonese, i meglio riusciti. L’ambizione del regista, dopo il asco commerciale del lm, si sposta sul versante economico. Non inventa più, rifa, e accentua i caratteri più negativi della sua oratoria, del suo sentimentalismo. D’altro canto la guerra ha veramente cambiato lo stato delle cose. Si entra nell’era del jazz e del benessere, trionfano le commedie mondane di De Mille e Lubitsch, i lm comici dei Chaplin, Keaton, Lloyd, le evasioni esotiche di Valentino, le spericolate avventure di Douglas

Fairbanks, il western epico di Cruze e quello affettuoso di Ford, tutti in certo modo nati dalla sua costola, ma - il capitalismo non si smentisce - il cinema non è certo riconoscente al suo maestro. Tra molti brutti lm c’è comunque molto da salvare. Broken blossoms (Giglio infranto, 1919) è un piccolo gioiello dickensiano o poeiano, tutto nero e tutto dettato da un turbatissimo inconscio vittoriano, un lm di essenziale claustrofobia, di cupa malinconia col suo sottofondo inaspettatamente misticheggiante e n orientaleggiante; per di più è una storia d’amore (beninteso irrealizzabile) interrazziale. Di Way down East (Agonia sui ghiacci, 1920) si salva il nale, ma la descrizione, ancora tutta vittoriana, della vita rurale americana, è certamente inferiore a quella, di felicissima sensibilità, data da un allievo di Griffith, Henry King, in Tol’able David (David il paziente, 1921). Orphans of the storm (Le due orfanelle, 1922) è insopportabile nell’assunto, ma ancora una volta condotto magistralmente nella precisione della struttura e rivelatore degli insanabili contrasti griffithiani - rivoluzione e reazione, anime buone e anime turpi, tolleranza e intolleranza. Di America (1924), opera in fondo di imitazione dei successi western del periodo, le scene di battaglia non sono certamente indegne di quelle della battaglia di Petersburg in Nascita di una nazione. Griffith morirà quasi in miseria a Hollywood nel 1948. Non girava più lm dal 1931, e gli ultimi erano stati particolarmente disastrosi quanto a risultati economici.

3. Charles Chaplin La gura e l’arte di Charles Chaplin (Londra 1889-Vevey, Svizzera, 1977) sono state troppe volte accomunate in un’entità indistinta dalla critica più agiogra ca degli anni trentacinquanta per non dover venire ridiscusse e scisse da quella successiva. E tuttavia, in una più distante e meno coinvolta analisi attuale, esse tornano a incrociarsi, incrociandosi nel contempo in un rapporto, non sempre sincronico, con la storia di questo secolo. L’artista che ne vien fuori è più diseguale e ricco di contraddizioni di quanto non si sia voluto credere, ma mantiene una grandezza inusitata, che oltrepassa di gran lunga i con ni della cultura cinematogra ca. Nessun regista (o attore), infatti, è stato ugualmente celebrato e amato, su scala mondiale, dai pubblici più diversi - intellettuali e analfabeti, occidentali e orientali, adulti e bambini, borghesi e proletari. Chaplin è glio dell’Ottocento. Londinese, venuto dalla miseria e dal music-hall, la sua opera riecheggia Dickens e gli oscuri artisti della pantomima popolare, ed elabora e porta a perfezione su queste basi un personaggio complesso e completo come Charlie (Chariot) divenuto nitida e immediata maschera cui il cinema ha saputo dare - come non era mai successo prima - caratteri di universalità, per poi ri ettere, con essa e senza, sulle trasformazioni della società contemporanea in modi dapprima incerti e via via più personali, ricchi, contrastati. Vediamone sinteticamente il lungo tragitto. 1893-1912: il teatro, alla scuola di Karno; 1913-14: in America, il cinema con Mack Sennett, il personaggio di Chas, dandy sfortunato e miserabile, volentieri sadico; 1915: autonomia di regista-attore alla Essanay, nascita di Chariot, e tramp (Il vagabondo), ri uto dello slapstick e delle sue incongruenze, prima linearità della narrazione e sinteticità delle gag; 1916-17: piena de nizione del personaggio e dello stile, alla Mutual, e primi

capolavori - e vagabond (Chariot vagabondo), Easy Street (Chariot poliziotto), e immigrant (Chariot emigrante), e adventurer (L’evaso) -; Chariot è eroe solitario e miserevole, alla ricerca di primarie sicurezze e strenuo difensore della propria (risibile) dignità, alla ricerca anche di una solidarietà che un mondo ostile, fatto di concreti poliziotti, preti, malviventi e ricchi, gli va continuamente negando, ma ancora, come il Pulcinella di Petito, ora sottoproletario ora proletario ora addirittura, in alcune comiche, borghese; 1918-22: alla First National, lm da due a quattro bobine, spesso di geniale concisione ed efficacia: in A dog’s life (Vita da cani) trova il suo primo partner, su cui il patetico è convogliato e cristallizzato, ed è un cane; in Shoulder arms (Chariot soldato) descrive il grigio orrore delle trincee della prima guerra mondiale; in e pilgrim (Il pellegrino), ideale continuazione dell’Emigrante, è un evaso, sorta di Asvero dentro un’America bigotta e rigidamente classista; ma in e idle class (Chariot e la maschera di ferro) si sdoppia in ricco e povero; ed è un borghese in A day’s pleasure (Una giornata di vacanza). Fa parte di questo periodo anche e Kid (Il monello, 1921, in sei bobine, prodotto per la United Artists da lui fondata assieme alla Pickford, a Fairbanks e a Griffith), che porta alla sua estrema precisazione la ricerca di questi anni. Qui Chariot non è più solo, al cane si sostituisce un bambino, il dosaggio degli elementi comici e patetici è perfetto, l’America si presenta sotto la veste amara che ormai ben conosciamo, ma anche con i suoi risvolti «positivi»: il lm ha un happy end, per quanto inatteso e forzato, e la «idle class» non è tutta e solo ostile, l’America (come era anche, per esempio, nell’Emigrante) offre le sue chances, quelle stesse che Chaplin ha potuto direttamente sperimentare. In questo contesto, Pay day (Giorno di paga, 1922) acquista il signi cato di un modello più diffusamente «piccolo-borghese» offerto da Chaplin ai sogni dell’emarginato Chariot e degli emarginati che con Chariot si immedesimano. Chaplin e il suo personaggio si prestano tuttavia a un’identi cazione che va oltre i signi cati delle vicende narrate. La rivolta al tipo di comicità dettato da Sennett ha dato i suoi

frutti. Lo stile è limpido, essenziale; la costruzione delle gag non dimostra più modelli e forzature; Chaplin raggiunge quella aurea semplicità che è il risultato di una ricerca attentissima ai meccanismi psicologici del comico, al dosaggio degli elementi, alla loro immediata leggibilità, anche se già da allora gli viene da alcuni rimproverata la costruzione «a teatrino» delle scene, non distratta da alcuna speci ca ricerca di linguaggio cinematogra co, che bensì sa servirsi delle acquisizioni del Griffith più pacato ri utandone le maggiori complessità. Ormai la dimensione della «comica» non basta più a Chaplin, e neanche quella del comico. Dal 1923, con A woman of Paris (La donna di Parigi), Chaplin tende col lungometraggio al romanzo, e lo fa, deludendo o scandalizzando il pubblico di massa, ri utando il personaggio stesso di Chariot. In questo melodramma sulla borghesia egli si dimostra distante e freddo, accumula piccoli tocchi e osservazioni minute, sembra non prender partito, limitarsi a narrare; pian piano, invece, la sua distanza diventa giudizio, no alla ferocia. Dopo di allora, nei soli nove lm realizzati nell’arco di più di quarant’anni, anche Chariot non sarà più lo stesso. C’è in Chaplin una maturità e un’ambizione di giudizio sul mondo che lo circonda, anzi sulle sue essenze più nascoste (in de nitiva sul mondo del capitale) che produrranno, con alti e bassi, lm di tentato dialogo con i massimi problemi del tempo. e gold rush (La febbre dell’oro, 1925) ha sì un nale altrettanto ottimista che quello del Monello, ma a quale prezzo! La corsa all’oro, quell’oro già così importante nella Donna di Parigi, vede Chariot vincitore al termine di un percorso di mostruosa solitudine e di con itti mostruosi. Addirittura, in una delle più comiche sequenze del lm, si allude da molto vicino alla logica cannibalica di questa lotta, e raramente la natura, forse mai prima, nel cinema, è stata specchio così preciso della cultura. La pausa di e circus (Il circo, 1928) è sottilmente autobiogra ca - una tentazione cui Chaplin sacri cherà ancora e più prepotentemente in futuro. Ripercorre e proietta le

difficoltà dell’artista ad affermarsi nel mondo dello spettacolo, e la nuova forza che allo spettacolo egli ha dato. L’altalena già fortemente «didattica» di City lights (Le luci della città, 1931) ha i suoi poli in due personaggi poco simpatici. La «violetera» cieca cui il vagabondo riesce a ridare la vista è angelica nché cieca, nché lo crede un azzurro miliardario, e il vero miliardario del lm è amichevole solo nché ubriaco. Lo Chariot operaio di Modem times (Tempi moderni, 1936) è il prodotto diretto della grande crisi, e rappresenta, per Lukács, «lo smarrimento dell’uomo medio di fronte all’ingranaggio e all’apparato del capitalismo contemporaneo». Il lm è costruito per grandi blocchi: la fabbrica e il suo risultato di follia per il povero operaio che fu Chariot; la disoccupazione, la involontaria partecipazione a una manifestazione, l’arresto; l’incontro con «la monella del porto» (Paulette Goddard) e la casta vita a due nella capanna miserabile; il lavoro ai grandi magazzini, con la stupenda sequenza dei pattini che sta a ricordare ai due una precarietà che credono ormai alle loro spalle per sempre, il nuovo arresto; e in ne il lavoro di cameriere-cantante (Chariot, nel primo lm sonoro di Chaplin, non parla: canta, e canta la «Titina», una canzone di successo quasi mondiale, con insensato miscuglio di parole da molte lingue), un nuovo arresto sventato, la fuga ma non più da solo, assieme alla monella. In fondo, quel che chiede Chariot non è certo la rivoluzione, ma (come certi ca un’altra celebre sequenza) una «normale» integrazione, quella che alla classe operaia degli anni trenta comincia a promettere Roosevelt. Più che a Orwell si pensa, per l’aspetto «fantascienti co» del lm (le sequenze di fabbrica), a Wells, anche se il ri uto del lavoro operaio è radicale, forse preveggente. L’individualismo di Chariot non ha in ne nulla a che spartire con le ideologie terzinternazionaliste. Il massimo dell’individualismo è rappresentato bensì dal lm successivo di Chaplin, quel e great dictator (Il dittatore, 1940) in cui il grande ebreo regola i suoi conti con Hitler, il persecutore degli ebrei che «ha osato rubare i baffetti a Chariot». Ben tre sono, in ne, i personaggi che Chaplin vi

incarna: il dittatore Hynkel, il barbiere ebreo che continua ad avere i tratti sici e il costume e le movenze di Chariot e, nell’ultima sequenza, Chaplin stesso, superamento ardito e ambiguo dei due primi, in un magniloquente appello personale alla pace che chiedeva di essere ascoltato quando il lm è uscito, non dai posteri. L’Hitler chapliniano ha in fondo qualche tratto del vecchio Chas, è un suo per do e malvagio sviluppo. L’appello chapliniano era destinato, molto prevedibilmente, a restare inascoltato. Lo sterminio e la strage della seconda guerra mondiale producono nel ’47 il lm forse più ambizioso, certamente più arduo per il pubblico ma insieme il più grande del regista. Perché in Monsieur Verdoux, se si esclude un sottile accenno nale che volutamente ricorda Chariot quando Verdoux si dirige alla ghigliottina, Chariot è veramente morto, come è morto, all’inizio del lm, il protagonista narrante, il piccolo-borghese spietato uccisore di donne per mantenere in vita la sua. Chaplin ha compreso, con una lucidità che ha l’equivalente, forse, soltanto in quella dei loso francofortesi, come il nazismo non sia stato che un conseguente prodotto della società borghese e ha anche compreso come il piccoloborghese sia destinato a diventare vieppiù criminale alla stregua della società in cui vive. Narrato con soave compostezza, questo apologo crudelissimo ha anch’esso le sue ambiguità. Chaplin non vi osserva un mondo crudele (come in La donna di Parigi) ma vi mette in scena se stesso nel ruolo di vittima-persecutore, senza più necessità di sdoppiamenti estremi; con coerenza davvero impareggiabile, in Verdoux c’è sia dell’Hitler che dello Chariot, e quando in ne egli è punito, quale differenza tra il discorso del Dittatore e quello di Verdoux, che suggerisce ai suoi giudici il legame consequenziale tra i grandi stermini di massa della guerra e i piccoli omicidi di cui egli è stato arte ce! La «volontà di morte» (Bazin) che lo sguardo di Verdoux esprime nelle scene conclusive, è anche il massimo segno della presenza morale individuale dell’artista.

Sette anni dopo, nel ’52, Limelights (Luci della ribalta) rovescia questa morale. Chaplin non vuol più morire, e torna al suo passato per imbonirci con somma sapienza spettacolare (il lm è, almeno in Europa, un grandissimo successo) una sua loso a della vita, la sua presunta raggiunta saggezza di vecchio, racchiusa nello speech rivolto alla sua protetta Terry (Claire Bloom), di impressionante banalità se confrontato al discorso di Verdoux. Quest’immaginario autobiogra smo consolatorio pervade anche A king in New York (Un re a New York, 1957) dove Chaplin regola i suoi conti con l’America del maccartismo, sdoppiandosi con il personaggio del bambino Rupert. Per quanto pieno di parziali verità, la vitalità comica ne è scomparsa, e resta un’ironia amara ma saputa. E su A countess from Hong Kong (La contessa di Hong Kong) girato nel ’66, a 78 anni, c’è poco da dire, tanto irrisolta è questa rivisitazione della commedia so sticata hollywoodiana degli anni trenta, priva di mordente e per di più pesantemente recitata (Brando, Sophia Loren). Anche in questi lm si accentua in Chaplin una tendenza, che forse è stata in lui sempre presente, a vedersi a sua volta giudice, dall’alto di un moralismo via via, negli ultimi anni, più fastidioso e insincero; e a esser giudicata è la Storia. Il suo individualismo si scopre come difesa degli interessi e della individualità di un «estraneo» alla storia, di qualcuno che non sa mettersi in discussione. La sua rivolta alla società costituita sembra in ne far spazio solo a una personale, egocentrica affermazione di sé. Le connotazioni di proletario o emarginato di Chariot non coinvolgevano più né il suo creatore né la sua ideologia.

4. Buster Keaton La grande opera di Buster Keaton (Pickway, Kansas, 1896Woodland Hills, California, 1966) è racchiusa, in tutto e per tutto, nel decennio degli anni venti e in una ventina di cortometraggi e una dozzina di lungometraggi. Egli non saprà resistere al sonoro, ai nuovi mezzi e ai nuovi costi, al lavoro non in proprio, alla Grande Crisi; ma è anche probabile si sia trattato, più semplicemente, di perdita di ato, di ne di un’impressionante energia creativa. Il mondo cambiava, cambiava radicalmente, e Keaton non era in grado di accettarlo: le mutate regole del gioco non ha voluto o non ha saputo impararle. È un luogo comune della critica il paragone tra Chaplin e Keaton. La grandezza e la miseria di Chaplin sta nel suo solitario egoismo, nella sua capacità di adattamento e seduzione, nel suo dialogo con la storia. Quella di Keaton nella sua inadattabilità, nella sua fedeltà, nella sua irriducibilità alla storia. Chaplin è sociale, Keaton meta sico; Chaplin è la sopravvivenza (europea e intellettuale) dell’Ottocento, Keaton la vampata novecentista tutta «americana». Lo sguardo di Chaplin è umido e furbo, quello di Keaton impassibile e di una decisione che nisce per essere, ri utando il pathos, tragica. Un’altra distinzione va fatta: tra la teatralità chapliniana (lo spazio è lui, Chariot) e la cinematogra cità keatoniana (lo spazio esiste, ha le sue regole e i suoi contenuti, esige il movimento della macchina da presa). In de nitiva: Chariot è l’individuo in lotta con la società, Buster è uno della massa, socialmente adattata, in lotta con la natura e gli oggetti, che riproducono ad altro livello, più ossessivo e privo di pausa, lo scontro: in un universo di costanze «naturali» in cui il «sociale» è semmai, come sarà in Hawks, la donna. L’uomo comune Keaton non ha psicologia ma ri essi. La caratteristica costruzione a spirali o a «palla di neve» delle sue

storie lo vede pur sempre al centro di nuove insicurezze alle quali reagire, abituato da sempre a farlo. La realtà è un incubo senza scampo che ripropone prove su prove. Se un masso precipita, diventa mille massi; se un poliziotto ti insegue, sono mille poliziotti; se cerchi una sposa, ne arrivano mille; vuoi il successo, e non ti basta riuscire una volta, devi riuscire mille volte; se spira il vento, si fa ciclone. La situazione cresce su se stessa, secondo un lo di geometrica «improbabilità». A questa irrazionalità del mondo, Keaton regista reagisce con la razionalità dello stile, e di qui nasce la sua ineguagliabile originalità cinematogra ca. Tutto è funzionale, perché nulla, dentro lo schermo, sembra esserlo. Da un lato, le vicende di Buster sono strettamente collocate, anzi ancorate nella realtà americana, «il paese più moderno del mondo», coi suoi miti del successo e la necessità del farsi da sé. Di essi è svelata la menzogna, perché gli happy end altro non sono che illusione e preludono a una continuazione, che spesso è il tema stesso di lm come My wife’s relations (1922), o è esplicitata in un post- nale sinteticamente agghiacciante come in College (Tuo per sempre, 1925) o è ricorrente per tutto un lm come ree ages (L’amore attraverso i secoli, 1923). Ma rimandano anche a una perennità di situazioni decisamente metastorica. Gli oggetti della vita moderna (le macchine) sono equivalenti (o vi si sovrappongono) agli elementi della natura. Buster continua la lotta che è di tutti, contro i primi come contro i secondi; e i primi non sono che un «moderno» fastidio in più, rispetto ai secondi. Pur sempre immutabile, pur sempre dignitoso, «Buster non cercherà mai di farci piangere, perché sa che le lacrime facili sono superate» (Buñuel, 1927). E, aggiunge James Agee molti anni più tardi (1949): «Tra i grandi comici egli era il solo a escludere quasi totalmente dalla sua recitazione il sentimento; portava al più alto livello la pura commedia sica. Sotto la mancanza di emozioni era lievemente sardonico; e molto più profondamente, arricchendo la poesia con una sconcertante

tensione e grandezza, v’era nella sua comicità un gelido soffio non di pathos ma di malinconia». Paragonato a Kaa (Benayoun), a Poe, Hawthorne, Melville (il primitivismo dell’America «è sempre a fondo demonico, fantomatico, allucinativo», scrive Emilio Cecchi, come quello di Keaton), il regista-attore di Convict 13 (1920), e haunted house (1921), Cops (1922), e electric house (1922), e navigator (Il navigatore, 1924), Seven chances (Le sette probabilità, 1925), e General (Come vinsi la guerra, 1926), Steamboat Bill jr. (Io e il ciclone, 1928), Spite marriage (Io e l’amore, 1929), doveva anche offrirci, con Sherlock jr. (La palla n. 13, 1924) e e cameraman (Io e la scimmia, 1928) due tra le più intelligenti ri essioni sul cinema, tanti anni prima di Godard o Antonioni; lui che in fondo aveva sempre rifatto e «criticato» il cinema americano del suo tempo, vedendone tutta la povertà ideologica. Nell’ultimo anno di vita, quando vecchio e stanco veniva riscoperto e salutato come il grande che era stato, doveva ancora sbalordirci con l’interpretazione di Film (1965), diretto da Alan Schneider ma scritto e supervisionato da Samuel Beckett che aveva scelto Keaton per incarnare un se stesso Keaton e un se stesso Beckett: ora l’ineluttabilità delle cose è anch’essa superata, perché pienamente scoperta come ineluttabilità della solitudine e della morte, contro le quali ogni lotta è scon tta, ma che Keaton non può che affrontare con la sua impassibile, tragica dignità: «non posso continuare, continuerò».

5. Erich von Stroheim Secondo ricerche successive alla morte del regista (avvenuta a Maurepas, Parigi, nel 1957; era nato a Vienna nel 1885), quello che egli aveva raccontato della sua infanzia e adolescenza era falso: Stroheim non era un nobile, non era stato ufficiale dell’esercito austriaco, era glio di un modesto cappellaio ebreo e aveva servito come soldato semplice. Da questa storia inventata e raccontata a più riprese con minuzia di particolari, Amengual deduce un’infanzia infelice, rimossa, con forti sensi di colpa che avrebbero portato poi il regista a «farsi odiare» (dai suoi committenti, e per un certo periodo anche dal suo pubblico di attore), come inconscia volontà di punizione continuamente provocata. Stroheim sarebbe stato in de nitiva arte ce anche del proprio disastro di artista, dell’impossibilità a esprimersi con i mezzi del cinema alla ne del breve periodo 1919-32, comunque frastagliato di disavventure e di continue mutilazioni alle sue opere. Quale che sia la verità, è certo che per no un Welles, un Ejzenstejn, un Buiiuel riuscirono prima o poi a realizzare i loro lm e proseguire in una carriera che per Stroheim si chiuse de nitivamente all’avvento del sonoro, ma non per colpa del sonoro. A eccezione del secondo, perduto, tutti i suoi lm sono incompleti, rimontati, contaminati, tagliati. Greed (Rapacità, 1924) presenta circa un quarto del primitivo montaggio e meno della metà di quello che Stroheim si era piegato a rifare. Foolish wives (Femmine folli, 1921) fu ridotto a quasi la metà. Merry-go-round (Donne viennesi, 1923) fu completato e montato da un altro regista. La seconda parte di e wedding march (Sinfonia nuziale, 1926) fu montata da Sternberg e distribuita col titolo Honeymoon (Luna di miele). Queen Kelly (1928) fu interrotto a un terzo delle riprese per l’avvento del sonoro. Walking down Broadway (1932) fu rimaneggiato con aggiunte da altri. Senza contare che l’unico serio tentativo di

ritorno alla regia, in Francia, con La dame bianche, a lavorazione pronta fu abbandonato per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Con l’eccezione di e devil’s passkey (1919), ambientato a Parigi, di Femmine folli, ambientato a Montecarlo, di Greed e Walking down Broadway, ambientati in America (il primo ha un prologo semi-documentario girato in esterni minerari, e un celebre nale nella Death Valley, e per il resto è San Francisco), l’azione di tutti i suoi lm ha luogo a Vienna o in immaginari regni mitteleuropei. Una Vienna odiata e amata, che dà comunque il segno distintivo alla sua opera, in modo ossessivamente vendicativo, ma da cui gli è impossibile distaccarsi. Di essa mostra il retroscena del potere (la corte come i bordelli, e in Queen Kelly corte mitteleuropea e bordello africano avrebbero dovuto costituire le due parti del lm), la logica del servilismo (ognuno serve qualcuno, in uno stato sovranazionale in cui n il monarca si dichiara «servo»), il feticismo delle cerimonie e delle parate e in particolare delle divise, la costante presenza dell’oro. Di fatto, gli interessano non il funzionamento di una società, ma le aberrazioni che la rivelano, e il modo in cui esse corrompono ogni innocenza. In questo senso, Vienna o Montecarlo (una Montecarlo già postbellica, che fa stranamente pensare a Hollywood) o San Francisco si equivalgono. La società è retta dalla «rapacità», dalla bramosia - nei loro aspetti di bramosia di denaro e di bramosia erotica, la seconda in quanto contestualizzata al deviarne dominio della prima, ridotta anch’essa a feticismo (si veda la splendida scena di e merry widow, La vedova allegra, 1925, in cui i tre protagonisti maschili osservano la donna, chi guardando al pube, chi ai piedi, chi al volto; ma anche tantissime altre scene, in altri lm e nello stesso). La lenta degradazione della coppia di Greed è diretta conseguenza di un contesto ben più che delle intime nevrosi dei due. Stroheim è regista eccessivo in tutto. Allievo di Griffith, non cura come lui - osserva Bazin - il montaggio, bensì l’inquadratura, al cui interno lavora con un accumulo di dati

tutti signi cativi: «Egli restituisce il cinema alla sua funzione primaria, gli insegna di nuovo a mostrare. Uccide la retorica e il discorso per far trionfare l’evidenza; sulle ceneri dell’ellisse e del simbolo, crea un cinema dell’iperbole e della realtà; contro il mito sociologico della vedette, eroe astratto, ectoplasma dei sogni collettivi, riafferma la più singolare incarnazione dell’attore, la mostruosità dell’individuale». Attua «una rivoluzione del concreto». Ma questo concreto è barocco, è visionario, irrealistico per eccesso di realismo. Guida lo spettatore dove vuole il regista, lo conduce violentemente a disvelare la presenza immediata, abituale, spingendone l’occhio sugli aspetti più vistosi, pronto a renderli ancor più vistosi per raggiungere il suo scopo. Stroheim opera sul rimosso, mostrandone gli effetti a tutto tondo. Ben diverso dalla belleezza, comunque elegante di un Lubitsch, che solletica il pubblico e perciò conquista i produttori, l’erotismo di Stroheim accumula gure e episodi che oltrepassano il limite del dicibile, contro ogni savoir faire, no a metterne in causa le pulsioni malate, e con ciò stesso l’impossibilità della pienezza erotica. Per no la vedova allegra, sana americana dell’epoca del jazz, non può che partecipare, padrona-vittima suo malgrado, di questa corruzione, in quanto detentrice dello scatenante potere del denaro. Ecco allora le molte gure della castrazione che, oltre il feticismo, compaiono in ogni lm di Stroheim. L’umanità nisce per essere fascinosamente repellente, non vi è posto per nessuna nostalgia di «paradisi perduti» poiché ogni innocenza è subito turbata e avvilita dall’altrui colpevolezza, in un giro senza ne. Il destino amaro di Stroheim - cui Wilder offrirà con lucido rispetto di recitare un rivelatore se stesso in Viale del tramonto - è la conseguenza, anche, di una dismisura inaccettabile alla capitale del cinema, che Stroheim de nirà «fabbrica di salsicce». La malattia va controllata, canalizzata, e il cinema è stato uno degli strumenti più efficaci, almeno per decenni, per farlo. Chi, partecipe, ne addita la ragion d’essere mette in causa troppo: dice ciò che va, se non del tutto taciuto, solo sussurrato.

6. Friedrich Wilhelm Murnau Esiste un «mistero Murnau», esiste una spiegazione per la varietà e l’eclettismo delle scelte artistiche attuate da F. W. Murnau (Bielefeld 1888-Santa Monica, California 1931, in un incidente automobilistico)? Meno determinato nelle sue scelte che Lubitsch o Lang, suoi grandi contemporanei, e per no del loro allievo (di tutti e tre, ma con propensioni proprie e tensioni più fragili) G. W. Pabst, Murnau ha attraversato il cinema muto come una brillante meteora alla ricerca di una destinazione, di una de nizione che portasse un equilibrio nella sua ispirazione: tra la luce e il buio che caratterizzano la sua fotogra a, la città e la natura che rinchiudono i suoi personaggi, l’identità e le maschere che li de niscono o li nascondono. Allievo di Reinhardt (altro grande eclettico), Murnau appare agli uni tecnicamente fragile e agli altri ferratissimo, agli uni succube degli ottimi sceneggiatori cui si affida e agli altri mosso da una vocazione di autore-demiurgo, agli uni preciso nelle sue volontà e agli altri pieno di in ngimenti almeno quanto i suoi personaggi, o sotto l’incubo di una condanna come gli innamorati di Tabù. In realtà nel suo cinema c’è tutto questo, e c’è inoltre l’oscillazione tra mercato e arte (la necessità di legarli, tipica di un cinema che vuol parlare al pubblico più vasto ma che non rinuncia alla sperimentazione e a esplorare tutte le possibilità del mezzo). Ambiziosissimo dissodatore di nuovi territori, Murnau ha ridotto al minimo, primo fra tutti, l’uso della didascalia nei suoi lm, e ha insistito su una narrazione sinfonica visivamente controllatissima, e ha saputo, come altri grandi, trarre vantaggio dai soggetti che gli erano proposti e piegarli alle sue esigenze, farne le tappe di una crescita personale. Sua matrice prima è il romanticismo e la pittura dei grandi come Caspar Friedrich, ma come Lang ha amato e coltivato la scienza dello spazio, del modo di riempirlo che è dell’architettura, con il

sentimento forte e vissuto della chiusura dell’attore dentro il quadro, ma anche ai margini e tra le ombre della scena (vedi l’analisi che Rohmer ha dedicato all’«organizzazione dello spazio» nel Faust); e i castelli, le città, le osterie, gli interni da «kammerspiel», le nestre che inquadrano, la porta d’albergo e la strada, un cesso sotterraneo o gli archi di un quartiere gotico, hanno lo stesso rilievo necessario dei viottoli e degli alberi, delle rocce e delle palme che una natura opprimente tende a collocare attorno e addosso, sopra e contro il personaggio. Il cinema diventa così il «luogo assoluto» che concentra i luoghi in cui la vita compie il suo dramma, la sua recita, il duro gioco di sostanza e di apparenza, di colpa e di rimorso, di speranza e di angoscia. Teutonico campione di un cinema che si cerca, ossessionato dalla morte e in fondo pauroso della vita, voglioso di «heimat» e di quiete ma incapace di raggiungerla e, se raggiunta, di gestirla, l’eroe di Murnau è un insoddisfatto colpito dalla incomprensibilità del fato e dalla assolutezza della norma, che sono bensì tali in quanto egli li accetta e li fa suoi, e non vede altro ordine possibile. Dei molti lm di Murnau alcuni dei primi che sembravano scomparsi sono stati ritrovati e restaurati. In uenzati spesso da Reinhardt, piuttosto decadenti nelle intime venature, coordinati nelle trame da provetti sceneggiatori-autori, sono una lenta e divagante progressione per indecise fasi che, tra natura e cultura (tra giorno e notte), attraverso Scbloss Vogelód (Il castello di Vogelód, 1921), portano a Nosferatu (1922), il primo e ossessionato capo d’opera giovanile, viaggio nel subconscio e nella fascinazione della paura, della morte, dell’occulto, del negato, del rimosso, che evita l’armamentario dell’espressionismo per una romantica perlustrazione di gure da suspense. Nel bellissimo Der brennende Acker (Il campo del diavolo, 1922) la natura è di fuoco (il petrolio) e non è dominata dagli uomini, il denaro e la frenesia del moderno non vincono la sua forza e la tradizione contadina che vi è concresciuta. Gioco di doppi e di punizione, Phantom (Fantasma, 1922) precipita lo

spunto naturalistico nel vortice di una fascinazione romantica dominata dal sogno. È un delicatissimo, saldo equilibrio di opposti. Dopo la commedia Die finanzen des Grossherzog (Le finanze del Granduca, 1923, scritto come il precedente da ea von Harbou, abituale collaboratrice e poi moglie di Lang), è Der letzte Mann (L’ultima risata nell’edizione italiana, ma L’ultimo uomo, 1924) interpretato da un Emil Jannings statuario e corposo e sempre sopra le righe, il lm che fa di Murnau uno dei nomi centrali del cinema degli anni venti, il decennio dei capolavori e delle sperimentazioni più coraggiose. Qui è protagonista la divisa, ossessione nazionale, e il portiere d’albergo riverito per essa è nudo e vilipeso senza di essa. Il sottofondo psicanalitico del lm non può sfuggire, ma la metafora è aperta ai signi cati sociali (siamo negli anni di Weimar, nel crollo delle aspirazioni della piccola borghesia uscita malissimamente dalla guerra, e al «bisogno di divisa» che di nuovo pervade una nazione s ancata) e soprattutto è servita da una varietà di accenti e da una controllata costruzione che di una tecnica prodigiosa si serve per una continua dilatazione dei signi cati. La mobilità della macchina da presa, il passaggio d’ambienti, la velocità e la lentezza, il movimento euforico e l’imprigionamento oppressivo in cui il personaggio è volta a volta inserito concludono su un lieto ne tanto improbabile quanto benvenuto, nella sua favolistica irrealtà. Ancora il sogno, come deviazione e come fuga, come necessità di reagire alla pesantezza delle «leggi» del mondo, economiche e sociali e morali: e per Murnau, omosessuale in un’epoca di confuse affermazioni libertarie e di concrete repressioni sempre risorgenti, il sogno è una risposta all’oppressione della norma e delle convenzioni. Tartliff (Tartufo, 1925) è ancora un gioco variato, e la commedia di Molière, ridotta a kammerspiel, è inserita in una commedia moderna (e prevedibile, acca): il teatro nel teatro ed entrambi nel cinema, per una moralità che condanna gli ipocriti e i falsi. Meno amato dal regista, il suo Tartufo è in de nitiva migliore del più ambizioso Faust, del ’26, ancora con

Jannings, eccessivo Me sto dopo essere stato Tartufo. Qui l’eccesso è del lm, e delle sue oscillazioni tra magniloquenza e sdolcinatezza, riscattate bensì dalla inventiva dell’organizzazione spaziale, dal pieno dell’immagine e dal ritmo delle immagini. Per Murnau è ormai tempo d’America. Chiamato anche lui a Hollywood, vi dirige, su sceneggiatura e soggetto tedeschi (Carl Mayer, dal Viaggio a Tilsitt di Sudermann, scrittore che arriva al limite di una esemplare banalità) Sunrise (Aurora, 1927), che è un gioiello purissimo dell’ultimo muto, tra campagna e città, tra desiderio di evasione e scelta di radici, in polemica con la città quanto Il campo del diavolo era stato in polemica con l’industrializzazione. Canto d’amore diviso tra sacro e profano, vi si sceglie il sacro, la norma, e la dilacerazione dell’autore è evidente: razionalmente conservatore, propugnatore non incoerente di una coppia felice e «normale». Scritto da Mayer, rielaborato da altri, e four devils (I quattro diavoli, 1928) adatta un romanzo di Hermann Bang sul circo, ed è lm abile quanto scontato, perdipiù melenso nel suo happy end. Rovinato dai produttori, City Girl (Nostro pane quotidiano, 1930) è ancora un lm di contadini contro la città, memore della lezione americana dei Vidor e dei Borzage; è un melodramma che perde d’autenticità e di tensione nel nale ma che ha pagine splendide (la tavola calda, la scoperta della città tentatrice) e scene di tenerezza tra Charles Farrell e Mary Duncan che preludono alle più intense scene d’amore - più «naturali», e a contrasto più tragiche, quanto il peso delle leggi primitive lo è rispetto a quelle della «civiltà» - di Tabù (1931), pensato da Robert J. Flaherty secondo la sua propensione pedagogico-lirica e documentaria, e portato da Murnau all’incandescenza del poema visivo, disperatamente amoroso, disperatamente oppressivo. Non importa la natura o la civiltà, è la liberazione, la pienezza dell’amore che il mondo non permette, e il Destino è prodotto della Natura come della Civiltà e della Storia ma forse, soprattutto, prodotto dell’Uomo medesimo che non sa conquistare la sua Libertà, e ricade pur sempre nel dominio della Legge (della Natura, della Comunità). In questa piccola

oscura opera di luce, di presunta ingenuità e di presunta immediatezza, Murnau ha concentrato sul fondo di un paesaggio quasi astratto, oltre la campagna e la città, la sua primitiva e più duratura contraddizione, che è per lui tra giorno e notte, tra la prigione che è d’ogni società e una agognata e impossibile evasione.

7. Il cinema tedesco del primo dopoguerra Nella stagione di Weimar il cinema tedesco consuma una pluralità di esperienze, di conchiusa ricchezza. Diventa secondo nel mondo dopo quello americano per quantità di opere realizzate; il secondo ancora dopo l’Urss per ricchezza creativa; a cavallo tra le esperienze di questi due paesi per la commistione di spettacolo (in concorrenza con Hollywood) e di ricerca (in subordine a Mosca), è proprio questa posizione a dirne l’originalità e l’imprevedibilità, in una confusa e irripetibile miscela. Il cinema non ha qui ancora risolto la sua dicotomia tra intrattenimento indirizzato ideologicamente e espressione di creatività singola o di gruppo, ma si muove quasi sempre in una dimensione che nisce per rimandare al collettivo. Alla con uenza, gli stessi autori più celebrati ondeggiano tra queste due spinte e cercano incertamente di congiungerle: Murnau, Lang, Pabst, lo stesso spettacolarissimo Lubitsch, gli altri. L’analisi contenutistica di Kracauer (Da Caligari a Hitler) è certamente un punto fermo nella storia della critica, ma essa scopre a ritroso una predeterminazione che rischia di svilire a una nalizzazione da posteri la varietà anche ideologica delle esperienze, la non sempre programmata e programmabile risposta a spinte diverse, la disponibilità. Il disagio dell’epoca vi è però colto con grandissimo acume: la perdita d’identità di una nazione scon tta, tra nostalgia (o ripulsa) di un rigido passato e disastro delle prospettive in cui la stretta internazionale, l’impotenza socialdemocratica, le aspirazioni rivoluzionarie, nonché il loro uso a ni restaurativi e imperialistici, dilacerano il proletariato e permettono l’esplodere di un ceto piccolo-borghese (quegli «impiegati» ancora analizzati, però «in diretta», da Kracauer) detestato dall’arte ma di cui il cinema non può che cercare il consenso, e gli artisti del cinema in vario modo farsi interpreti.

Frustrazione e sublimazione sono allora e meccanica e moventi di una crisi di incerta soluzione, ma che cova ben visibili tentazioni autoritarie. Il quindicennio tra scon tta nazionale e vittoria nazista non è monocorde. Si assiste dapprima a un cinema che cerca di esorcizzare (o rievocare, perché il fascino è forte) fantasmi e mostri - e in cui l’espressionismo ha il suo peso ed è anche, per la sua originalità, ragione di affermazione commerciale all’estero con l’esplosione del Caligari. Preceduto da altri titoli (il primo Golem, il primo Student von Prag, Homunculus…), Das Kabinett des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), modello di una sorta di «genere», sembra sottolineare meglio di ogni altro l’ambiguità dell’apporto espressionista, il percorso del suo adattamento al cinema. Opera di uno scrittore cèco, Hans Janowitz, e di uno sceneggiatore il cui nome diverrà una presenza fondamentale nel cinema degli anni a venire, Carl Mayer, è offerto da un produttore avventuroso come Erich Pommer a Fritz Lang, che lo ri uta ma suggerisce l’inserimento del soggetto in una cornice (prologo ed epilogo) conformista, accettata da Pommer e dal nuovo non geniale regista, Robert Wiene. È l’intervento degli scenogra di «Der Sturm» - Warm, Ròhrig, Reimann (ma Janowitz aveva proposto Kubin) - a potenziare il soggetto, già «espressionista», verso la sua possente chiave gurativa: ciò che altrove è richiamo a un manierato gotico-romantico è qui allucinata e originale grandezza, ed è questa in ne a preservare un’ambiguità pro cua dell’assunto: sia Caligari un fantasma di Francis, siano davvero Caligari e lo psichiatra la stessa persona, si tratta ancora di un incubo. Uomini larve e oggetti nelle mani di un burattinaio, di un potere di cui si tratta, per gli autori, di additare il pericolo. Il cinema permette più la suggestione che l’urlo, sceglie dell’espressionismo ciò che gli si confà, certo annacquandone le istanze primarie. Viene inoltre dopo, come quasi sempre succede, in cinema: adatta, traduce, si lascia in uenzare e non in uenza, tralascia l’astratto e punta al visionario, fa della misticheggiante sete di rivolta un ripiegamento più confuso,

meno denso, e la inserisce su schemi che gli vengono da altrove: Hoffmann come Meyrink e certa letteratura di più vieto consumo. La sua «anarchia» e la sua assolutistica protesta sono guidate a più miti consigli. Ne resta soprattutto una de nizione formale, spesso solo scenogra ca. Il personaggio fatto schema; ombre e doppi; giochi di ri essi; scene contorte e luci a taglio, gelido e cupo; recitazione che accentua la magia esteriore del gesto o lo raffredda improvvisa; estrema stilizzazione dello spazio e degli oggetti; e per cominciare sempre l’incertezza dell’incubo, più che del sogno, entro il quale la storia si dipana. Doppi e ombre, destino e morte, incubo e follia estremizzano un’incertezza sulla realtà e su di sé che è sottesa, o palese, anche all’altro cinema, quello che rinuncia al visionario. Schatten (Ombre, 1923) di Arthur Robison offre un intelligente e sicuro passaggio: le ombre sono la notte, coi suoi fantasmi, le sue incertezze, le sue ambiguità, ma la luce del giorno le dissolve. Il cinema di quegli anni non è solo «espressionista» e fantastico. L’in uenza del quasi onnivoro teatro reinhardtiano si fa vistosa nelle grandi messe in scena storiche di Lubitsch e Buchowetzki o anche nelle fantasie langhiane, nell’aspetto féerique di certo Paul Leni - il centone Das Wachsfigurenkabinett (Tre amori fantastici, 1924) che media squisitamente con quasi tutte le tendenze di questi anni -, per no nei sociali e hauptmanniani Die Weber (I tessitori, 1927) di Zelnik, e moltissimo nel Kammerspiel cinematogra co di Carl Mayer. Ma è un’in uenza esteriore, poiché ognuno sceglie dal pozzo Reinhardt ciò che gli aggrada. Grazie a Mayer, Murnau abbandona Nosferatu (1922) e il suo apprendistato tra fantasmi per quel Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924) per il quale gli è richiesto un secondo nale, ottimistico, bellamente e efficacemente rovesciato. Ci sono sempre due verità, in questi lm, c’è un’ambiguità che rimanda l’insicurezza del singolo alle forze oscure - interne, esterne - ma tuttavia concrete che lo sovrastano. Murnau aggiunge al cinema weimariano una dilacerata incapacità, tutta freudiana, di esplicitarsi e di scegliersi. Diverso è il caso di

Lang, alla ricerca di una limpidezza che prima ea von Harbou poi l’ampiezza dello sforzo e la sua oscillazione tra grandiosità e metafora gli impediscono di raggiungere. La sapienza intellettuale e cinematogra ca di Mayer impone il kammerspiel come genere transitorio, in sé conchiuso ma foriero di nuove trasformazioni. Scherben (La rotaia, 1921) di Lupu Pick, Hintertreppe (La scala di servizio, 1921) di Leopold Jessner e Paul Leni, Die Strasse (La strada, 1923) di Karl Grüne, Sylvester (La notte di San Silvestro, 1924) di Lupu Pick chiudono l’azione tra una casa e i suoi immediati dintorni, con pochi personaggi e un’estrema concentrazione dell’azione. Un «dentro» di normalità minacciata - ma è anche tana, aspira a essere sicurezza. Un «fuori» che è sempre nemico - ma che sembra essere anche luogo di possibili liberazioni e novità. Luogo di contraddizione lo sono i lm stessi: tra in uenze espressionistiche e naturalistiche, stili di recitazione contrastanti, simbologie punitive; punto di passaggio, in ne, tra il chiuso di una soggettività morbosa e l’aperto di una sociale tragedia. A questa tendenza possono richiamarsi il kaiseriano Von Morgen bis Mitternacht (Da mezzogiorno a mezzanotte, 1920) di Karl-Heinz Martin, il Phantom (1922) e lo stesso Der letzte Mann di Murnau, più tardi Nju (1924) di Paul Czinner, per no Variété (1925) di E. A. Dupont, triangolo di circo di grande maestria tecnica, e altri titoli ancora. Dopo Mayer, la dialettica casa-strada assume connotazioni di dichiarata denuncia sociale, la strada ha il sopravvento, affrontata e descritta da un lm per molti aspetti innovatore: Die freüdlose Gasse (La via senza gioia, 1925) di GeorgWilhelm Pabst, regista eclettico e sensibile alle mode, ma anche possente descrittore di realtà crudeli e creatore di straordinari personaggi femminili. In questo suo primo successo, due storie corrono parallele: quelle della proletaria Asta Nielsen e della borghese Greta Garbo - occasioni per spaccati impietosi su realtà di disuguaglianza e corruzione. C’è una certa magniloquenza in Pabst, dettata dal suo gusto per il limite più che dalla sua indignazione sociale. C’è anche molto del romanzo a grandi effetti, vistoso nel successivo Die liebe der

Jeanne Ney (Giglio nelle tenebre, 1927), intricato adattamento di un mirabolante romanzo di Ilja Ehrenburg, ancora con due personaggi femminili al suo centro (Brigitte Helm e Edith Tehanne), mentre Geheimnisse einer Seele (I misteri di un’anima, 1926), che godette della consulenza di due celebri seguaci di Freud, Abraham e Sachs, trasferisce le pirotecniche contorsioni del mèlo nel subconscio di un borghese. Ma Die Biichse der Pandora (Lulu, 1928), tratto da Wedekind, e Tagebuch einer Verlorenen (Il diario di una donna perduta, 1929), interpretati dall’ineguagliabile Louise Brooks, risolvono in ne tanto ardore in un’adeguata fusione di tensione erotica e descrizione della spietatezza sociale; e restano due opere magistrali. Ritroviamo Asta Nielsen, sublime ombra crudele di se stessa, in Dimentragödie (Tragedia diprostitute, 1927) di Bruno Rahn. Il realismo sociale predilige i reietti, come in Jenseits der Strasse (Al di là della strada, 1929) di Leo Mittler, ma le condizioni sono mature per un allargamento del discorso. Nella Germania di un provvisorio benessere (1927-29) si scava nella miseria delle classi oppresse con più coraggio e precisione di quanto non sia stato possibile prima, e l’insegnamento del cinema sovietico come l’intensi cazione della lotta sociale (affermazione del partito comunista) permettono un’azione da «compagni di strada» che è tuttavia molto raramente radicale. Il populismo di questo cinema è preferibilmente «nero». L’autore maggiore, ancora non apprezzato come merita, di questa tendenza è Piel Jutzi che realizza nel ’29 Mutter Kräusens Fahrt ins Gluck (Il viaggio di Mamma Krause verso la felicità), corale descrizione di un proletariato che trova, nella protagonista, solo una disperata scelta di morte, un proletariato che sembra non avere né futuro né speranza, e Unser tägliches Brot (Nostro pane quotidiano), quasi un essenziale reportage sulla vita di un disoccupato, mentre più tardi, con la riduzione per lo schermo di Berlin Alexanderplatz di Dòblin (1931), porrà un altro reietto (interpretato da Heinrich George) nel cuore di una grande città che vuole distruggerlo ma da cui la sua corposa e anarcoide vitalità non vuol farsi distruggere.

Di populismo nero si può parlare anche per So ist das Leben (Questa è la vita, 1929) di Carl Junghans e Cyankali (Cianuro di potassio, 1930) di Hans Tintner, mentre nello stesso anno Menschen am Sonntag (Uomini di domenica) di Siodmak e Ulmer, scritto da Billy Wilder, vira tutto a una rosea simpatia, e più tardi il Kühle Wampe (1932) di Dudow e Brecht, volendosi più politico e più didattico, non farà che prendere dall’uno e dall’altro con risultati di uno schematismo politico rigidamente propagandistico. Con la crisi del ’29, la contraddizione weimariana è diventata più tragica, il nazismo avanza minaccioso, divide il proletariato, predica nuove guerre. Nascono convinti ma inefficaci lm paci sti (di May, Griine, Trivas…) tra i quali Westfront 1918 (1930) di un Pabst che è certo più felice e più sincero in Kameradscha (La tragedia della miniera, 1931), di corale intensità e vigore, preceduto da un discusso adattamento dell’Opera da tre soldi di Brecht (Die Dreigroschenoper, 1930), fredda esercitazione che prende vita solo dove più acida è la polemica, e seguito da Die Herrin von Atlantis (Atlantide, 1932), esercitazione intellettualistica su un romanzo d’appendice, in gloria alla statuaria bellezza di Brigitte Helm, ancora una volta costruito dentro un sogno che non si sa quanto sia realtà, e che è di preludio a più smaccate esercitazioni ed evasioni. Ma di quegli anni sono capolavori come Der blaue Engel (L’angelo azzurro, 1930) da Heinrich Mann, di Joseph von Sternberg, che lancia la Dietrich (e che avrebbe voluto fare Pabst con la Brooks), M e Il testamento del dottor Mabuse di Lang e, su altri versanti, i lm di montagna di Fanck e Leni Riefenstahl, i musical di iele, Charrel, Berger, i primi tentativi di cinema nazista, mentre Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme, 1931) di Leóntine Sagan esplora la logica di un universo concentrazionario femminile, preludio a ben più atroci esperienze concentrazionarie. Col ’33, si assiste alla prevedibile diaspora. Lang, Pabst, Mayer, Pommer, Brecht, Siodmak, Ulmer, Wilder, Veidt, Dieterle, cento altri prenderanno la strada di Parigi, Londra, soprattutto Hollywood, arricchendola di idee e di sapere

tecnico. I più rimarranno, e assicureranno al nazismo un cinema di raggiunta capacità professionale e di monolitico conformismo, anche nell’evasione. Il cinema ha accompagnato una crisi, non ha certo contribuito a risolverla. Da Caligari a Hitler, secondo l’affermazione kracaueriana? È assai dubbio. I fantasmi tedeschi sono certo più espliciti di quanto non lo saranno quelli americani, quelli francesi degli anni trenta, quelli dell’Italia dei nostri giorni, e tanti altri ancora. Diremmo piuttosto che, allora come poi e allora con maggior rappresentatività di poi, il cinema accompagna le crisi, non ne dà risposta né soluzione. Le accompagna incertamente, le accompagnano incertamente la maggior parte degli intellettuali chiamati a ri ettervi, pochi dei quali ne avvertono le cause più profonde, pochissimi sono in grado di prevederne sviluppi e soluzioni, e ancora meno sono quelli che riescono a lottare coerentemente per scon ggere la sottigliezza dei demoni nascosti e la pesantezza dei palesi, per indicare altre soluzioni. Gli Arturo Ui si scrivono sempre dopo e da fuori, e non è poi così difficile scriverli.

8. Il cinema sovietico La storia del cinema sovietico è segnata da decreti, risoluzioni, ukase, congressi, piani quinquennali. All’inizio, inviti ed esortazioni che si intrecciano, frenandoli, a manifesti di gruppo, di tendenza; poi, molto presto, i manifesti scompaiono. Il 27 agosto 1919 Lenin nazionalizza il cinema, quel poco che ne resta dopo la rivoluzione e dopo l’emigrazione dei cineasti maggiori del periodo zarista che aveva pur dato nomi notevoli (Ocep, Gardin, Bauer, Protazanov, l’attore Ivan Mozzuchin divenuto in Francia Mosjoukine). E ci sono pur stati episodi isolati che denunciano una presenza diversa nel settore: le interpretazioni e sceneggiature di Majakovskij, tra cui quel Zakovannaja fil’moj (Incatenata dal film, 1918) che è già un lm nel e sul cinema, il debutto di Lev Kulesov tra poliziesco e agit-prop e, prima ancora, tra il 1915 e il ’17, gli scomparsi tentativi cinematogra ci di Mejerchol’d. L’avanguardia si interessa al cinema, entra nel cinema, ed è da subito in pesante dialettica, se non in con itto, con le «direttive», più tollerata che amata dai Lenin, Trockij, Lunacarskij. La nascente Unione delle repubbliche chiede documentari o lm di agitazione e propaganda; poi, consolidandosi, predica il realismo. Ma le avanguardie più impegnate sul piano di una rifondazione dell’arte interna o parallela a quella della società, e che chiedono, con la ne della borghesia, la morte violenta della tradizione culturale borghese, pensano ad altro, guardano più lontano e, insieme, più vicino. Kulesov, che ha già scoperto Griffith e l’importanza del montaggio, fonda una scuola sperimentale di cinema dopo aver fatto l’operatore dell’esercito, e forma Tisse, la Chochlova, Barnet (un ex boxeur), Pudovkin; in direzione costruttivista, de nisce l’attore come «uomomodello», cerca dinamismo, chiarezza, ritmo. Ejzenstejn viene dal teatro e dal Proletkult, e parla di «montaggio delle attrazioni», aggressioni allo spettatore di cui va cambiato il

modo di percepire le immagini, che va coinvolto nella creazione del lm, attivizzato, modi cato intellettualmente. Kozincev e Trauberg fondano con Jutkevic la Feks, la fabbrica dell’attore eccentrico, attiva nel teatro e poi nel cinema; e pescano dal music-hall, dal circo, da tutto quanto è dinamico e «moderno»; insegnano ai loro allievi boxe e acrobazie e vogliono «giungere all’eccentrismo attraverso l’assurdo e l’impossibile» poiché «la vita chiede all’arte di essere iperbolicamente graffiante, percuotente i nervi, apertamente utilitaria, meccanicamente esatta e istantanea». Con loro collaborano Tynjanov, Ejchenbaum, Sklovskij, vicini anche a Kulesov. Vertov viene dal gruppo del Lef e vuol cogliere «il movimento delle cose» con l’agilità della macchina da presa, giungere col montaggio alla riorganizzazione delle immagini della realtà, per la riorganizzazione del mondo. In un breve, intensissimo periodo, bruceranno tutti le loro esperienze di fronte a un progetto politico che li sovrasterà e in ne riuscirà a piegarli. Seguiamoli più da vicino (su Ejzenstejn e Vertov, si vedano le rispettive voci), perché è in loro il maggior grado di novità e di rottura, determinante anche per le altrui esperienze appena successive (Pudovkin, Dovzenko, gli isolati tentativi di Ochlopkov e di Medvedkin). Come i futuristi e i costruttivisti, Lev Kulesov è affascinato dall’America, di cui, no al ’34, parleranno i suoi lm maggiori. Non ha, politicamente, un progetto de nito: sperimentare è il suo motto, e i suoi lm sono quindi diversissimi tra loro. Neobycajnye prikljucenija Mistera Vesta v strane bol’sevikov (Le straordinarie avventure di Mister West nel paese dei bolscevichi, 1924) porta un americano in Russia - più tardi Ghorizont (Orizzonte, 1934) porterà un russo in America - al centro di avventure mirabolanti, di scatenata dinamica, esaltata dal montaggio e dai trucchi. Po zakonu (Dura lex, 1926), scritto da Sklovskij, è tratto da un racconto del Jack London del Grande Nord, e struttura asciuttamente la narrazione con una testarda essenzialità alquanto astratta, ma è in ligrana sia un concentrato di teorie formaliste sia (e in questo senso è un lm politico, non si sa quanto scientemente) una ri essione sulla

nascita della legge in un paese che comincia a stringere il cerchio del suo potere. Velikij utesitel’ (Il grande consolatore, 1933) è dedicato allo scrittore americano O. Henry e intreccia tre piani di narrazione, confrontando l’autore ai suoi testi, e dibattendo la sua poetica (con una invisibile identi cazione autobiogra ca con O. Henry) con una sotterranea polemica col nascente realismo socialista: l’arte deve o non dev’essere «consolatoria»? Ma già è andato recuperando teoricamente (parallelamente a, e forse per in uenza di, Pudovkin) la tradizione, e n Gor’kij e Stanislavskij. Ha messo giudizio, anche perché gli attacchi da lui subiti sono stati tra i più virulenti di quegli anni. Anche per Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg l’America è un punto di riferimento basilare nella ricerca del nuovo, se li si accusò di citare Griffith e Ince e Sennett assieme a Vertov e Kulesov. I loro primi lm sono quelli di maggior libertà e invenzione: Pochozdenija Oktjabrìny (Le avventure di Ottobrina, 1924), che essi de nirono «agit-commedia caricatura eccentrica»; Milka protiv Judenica (Miska contro Judente, 1925), storia di circo e di rivoluzione; Cortovo koleso (La ruota del diavolo, 1926), le vicende di una banda di malviventi truci ed enfatici. La Feks vi si illustra allo stato più puro, con una bizzarria di tagli e movenze, scatti e gesti grotteschi che uni cano attori e montaggio in un agitato e sbalordente disordine. Un primo ordine viene loro dal rapporto coi formalisti. Tynjanov scrive per loro Sinej (Il cappotto, 1926) da Gogol, strutturandone due racconti con echi onirici di tipo espressionista, e S.V.D. (1927), melodramma sul primo Ottocento e i decabristi. Da soli, nel 1929, realizzano il loro capolavoro con Novyi Vavilon (La Nuova Babilonia, 1929), insieme di «quadri» sulla Comune di Parigi, di romantica esaltazione nella contrapposizione tra la feroce caricatura dei borghesi e la realtà del proletariato, combinazione quasi perfetta di sapienza gurativa e montaggio che regola un apparente disordine, con epici risultati. Ma nel ’31, con Odna (Sola), sono costretti a un presente trionfalistico sulla nuova Russia, che adagia la loro irruenza in canali preordinati.

Vertov, forse tra i cineasti il più grande degli scon tti, si è già piegato. Ejzenstejn è passato da Sciopero e La corazzata Potëmkin a La linea generale (1929), dal titolo signi cativo. Ma ci sono state molte altre novità, nel cinema russo degli anni venti. Mastodontiche e sovraccariche imprese alla Aelita di Protazanov (1924), che però ha anche dato squisite commedie populiste, quadri d’ambiente e di costume spiritosi come Don Diego i Pelagoia (1928) e Prazdnik sviatogo Jorgena (La festa di san Giorgio, 1930); lo sklovskiano Tret’ja Mescanskaja (noto come Tre in un sottosuolo, 1927) di Abram Room, sulla crisi degli alloggi, i primi simpatici lavori di Boris Barnet, no a quell’Okraina (Città di frontiera, 1933) che sposta i toni della commedia di caldo afflato umanitario indietro ai tempi di guerra - un insieme corposo di descrizione delle piccole e non delle grandi trasformazioni, di cui il cinema sovietico perderà del tutto il segreto. C’è stato anche Prodannyj appetii (L’appetito venduto, 1928) di Nikolaj Ochlopkov, ex attore d’avanguardia, che osa ancora trarre la sua ispirazione dal Diritto all’ozio di Paul Lafargue. Ci sono stati le ricostruzioni più o meno indignate e più o meno solide dell’era zarista, i lm di propaganda per le grandi masse conditi con la spiccia tecnica dell’avventura, i grandi documentari della Sub, di Turin, Bljuch, Kalatozov, i debutti di Ermler, Jutkevic, Rajzman ecc. E ci sono stati Pudovkin e Dovzenko. Di questa oritura, troppo spesso si è ristretta in passato l’analisi al contrasto Ejzenstejn-Pudovkin, di cui Dovzenko sarebbe magari stato una sorta di mediatore (ma ricordiamo la battuta di Ejzenstejn: «Io sono Leonardo, Pudovkin è Raffaello, Dovzenko può diventare Michelangelo»). In realtà essi sono le punte privilegiate di un iceberg che ha lasciato scoprire col tempo personalità altrettanto importanti, almeno in quel periodo, e certo ugualmente, se non maggiormente innovative. Pudovkin è il personaggio da ridimensionare. Certo, la portata delle sue teorizzazioni è stata enorme, nello sviluppo del cinema sovietico, ma proprio per l’esito che hanno avuto: stabilire regole valide per il futuro che si preparava, usate per restaurare ben oltre la sua volontà. Alla sperimentazione

Pudovkin oppone il canone, alla stimolazione dialettica e coinvolgente dello spettatore il tracciato predeterminato che lo porti dove il regista vuole, al ri uto della psicologia e della narrazione «borghesi» la psicologia e la narrazione condizionate e nalizzate al programma politico di cui si sente cantore e al ere, alle masse e ai loro immani sommovimenti e irrequietudini il «tipo» e il personaggio che incarni un’ideale presa di coscienza no ad assurgere a emblema rappresentativo di tutta la storia collettiva, alla libertà della regia ejzenstejniana capace di sacri care alla suggestione del momento, in quegli anni, ogni schema stabilito, lo schema (è forse lui ad avere inventato la de nizione di «sceneggiatura di ferro»). Una costruzione che si serve di ciò che ha imparato alla scuola di Kulesov, ma che prevede anche il montaggio sin nei minimi particolari e si vuole eminentemente e in ogni senso esemplare. Questo ex chimico accostatosi al comunismo con cautela e lentezza, se ne farà portavoce convinto in ciò che in esso vi è di più programmatico, e in ne di partitico. Trasmette e non inventa. I suoi tre lm di questi anni sono comunque granitici monumenti alla rivoluzione di una forza notevole, il primo specialmente - Mat’ (La madre, 1926) - che piega il romanzone arti cioso di Gor’kij a una costruzione efficace, calibratissima, volutamente «sinfonica», di risultanze già sperimentali da lui piegate alla metafora e al «realismo». Con lui nasce l’eroe (o l’eroina) proletario, e si afferma come momento chiave di una storia (della storia) la «presa di coscienza». La madre, l’operaio inurbato di Konec Sankt-Peterburga (La fine di San Pietroburgo, 1927), che è contemporaneo a Ottobre e che usa di molti procedimenti ejzenstejniani, e il mongolo di Potomok CingizCbana (Tempeste sull’Asia, 1929), come più tardi, dopo un silenzio di cinque anni dedicati all’insegnamento, il «disertore» del lm omonimo, sono gure a tutto tondo, iscritte nell’albo d’oro del nascente realismo socialista nonostante lo sforzo, nei primi lm, di costruire attorno o meglio sotto di loro una impalcatura di immagini sapientemente montate, tutte funzionali all’azione e all’assunto. Ma neppur questo lo salverà dai rigori staliniani.

Diverso è il caso di Aleksandr Dovzenko, cantore di un mondo contadino (preferibilmente ucraino) cui deve le sue origini, le cui «sinfonie» hanno il calore, a volte visionario e fantastico, della leggenda e della aba. Forse più di ogni altro regista Dovzenko afferma una continuità del popolo sopra la storia, di lontana ascendenza e di costanti richiami e ritorni nella cultura russa (si pensi, in cinema, all’Andrej Rublev di Tarkovskij, all’opera di Šukšin). La sua opera è tra quelle che meno portano i segni del tempo proprio per questo, e perché se passano dalla poesia alla prosa è piuttosto per cambiare registro poetico: dalla lirica accesa delle spezzature immaginose e metaforiche, negli anni post-rivoluzionari, al disteso poema che piega più che può ogni occasione e comanda alle sue ragioni, negli anni trenta e quaranta. Il primo Congresso degli scrittori lancia nel ’34 la de nizione staliniana nonché sciaguratamente gorkiana dell’artista come «ingegnere delle anime» e del «realismo socialista» come suo canone creativo. Ma in cinema il realismo socialista ha già, come si è in parte visto attraverso Pudovkin, una sua storia perché il cinema, «la più importante delle arti», interessa da subito il partito come strumento privilegiato di propaganda e di costruzione del consenso, quello di portata più vasta e immediata (si pensi al numero degli analfabeti lasciato in eredità dallo zarismo). Nel ’24 e nel ’25 i primi interventi normativi sono però ancora di guida e consiglio e si occupano più dei progetti di organizzazione delle strutture cinematogra che che non di forme e contenuti speci ci del lm; anzi, nel ’25, con la condanna dell’estremismo della Rapp, il gruppo degli scrittori proletari, ci si preoccupa di non perdere il consenso degli artisti e degli intellettuali che si vogliono rivoluzionari. Ma l’atteggiamento del partito è pieno di diffidenza né viene modi cato dai primi successi che il cinema sovietico va ottenendo all’estero. Il dibattito è già acceso, a livello invero elevato, e ha, alle spalle, nei dirigenti bolscevichi, le correzioni leniniane al sociologismo plekhanoviano, le curiosità trotskijane, la capacità di mediazione di Lunacarskij. Arte e politica, cinema e

politica sono già intrecciati tra loro indistricabilmente, e l’arte è già sottoposta alla tattica se non alla strategia dei politici. Con la prima Conferenza del partito sul cinema, nel 1928, e il privilegiamento in essa delle posizioni della Rapp di Averbach, che reclama al proletariato urbano e di fabbrica l’indirizzo e la costruzione della nuova arte (ma la Rapp verrà sciolta col ’32, quando la politica contro i kulaki avrà vinto e si potrà proclamare la ne della lotta di classe, o l’inizio della sua ne), si chiede al cinema il raggiungimento di una serie di obiettivi consoni all’avvenuto lancio del primo piano quinquennale: «propaganda dei nuovi elementi socialisti nell’economia, nei rapporti sociali, nel costume, nella personalità umana; lotta contro le sopravvivenze del vecchio regime; elevazione culturale delle masse, loro educazione e organizzazione interna intorno ai compiti culturali, economici e politici del proletariato e del suo partito nell’epoca dell’edi cazione socialista; chiarimento, dal punto di vista classista, degli avvenimenti storici e dei fenomeni sociali; divulgazione di conoscenze generali ed educazione internazionalista delle masse, superamento dei pregiudizi nazionalistici e delle limitazioni campanilistiche, e iniziazione delle masse per mezzo del cinema a tutte le realizzazioni della cultura sovietica e a quelle migliori della cultura mondiale; organizzazione del tempo libero e dei divertimenti, facendo anche del cinema ricreativo una forza per organizzare in senso proletario i sentimenti e i pensieri dello spettatore». Ci sono molte premesse all’elaborazione, invero cervellotica, della teoria del realismo socialista che Zdanov chiarirà al Congresso degli scrittori del ’34: la sempli cazione del linguaggio, la ricerca del consenso di massa («i sentimenti e i pensieri dello spettatore»), le tematiche sociali organizzate secondo quella che Zdanov chiamerà «tendenziosità» proletaria. E, certamente, non si parla di una diversa organizzazione dei modi di produzione del cinema e quindi del suo linguaggio, bensì di un loro utilizzo a ni immediatamente politici. Zdanov parlerà di «veridicità e concretezza storica della rappresentazione artistica» cui «si devono accompagnare la trasformazione ideale e l’educazione dei lavoratori nello

spirito del socialismo», essenza del «realismo socialista» assieme all’«accettazione di un romanticismo di tipo nuovo, un romanticismo rivoluzionario» che esalti «i nostri eroi», ricorrendo a «generi, stili, forme e procedimenti della creazione letteraria in tutta la loro varietà e pienezza, scegliendo il meglio fra quanto è stato fatto in questo campo in tutti i periodi precedenti». Se si vuol diventare ingegneri delle anime umane bisogna saper «assimilare criticamente il retaggio letterario di tutte le epoche»: siamo insomma al recupero delle forme borghesi, riempite da nuovi contenuti. I due aspetti che ci preme sottolineare di questa de nizione, confusa nei suoi termini logici e teorici e chiarissima nei suoi scopi, sono: il primo, il recupero delle forme passate, che era in fondo nei desideri (nella cultura) di tutti i vecchi dirigenti bolscevichi, e che aprirà la strada al tipico, allo psicologico, allo «stanislavskismo», con la scusa della comprensibilità da parte delle masse (come se il Potëmkin o La terra o La nuova Babilonia non fossero loro comprensibili), identi cando, come altri fanno nello stesso congresso, avanguardia - quella avanguardia! - col «decadentismo borghese»; il secondo, il ruolo normativo del partito, unico giudice della correttezza ideologica dell’opera d’arte o del prodotto letterario o lmico. Questa strada, in modi diversi, verrà ripercorsa da altri regimi postrivoluzionari, con ben scarne differenze. Ejzenstejn, che dopo i rifacimenti e le manipolazioni subiti da La linea generale nel ’29, se ne era andato in America, sarà la vittima più vistosa di questi principi con le vicende tormentate di Il prato di Bezin distrutto in nome del realismo socialista, e prima ancora con la messa sotto accusa al Congresso del cinema del ’35, che applica ancor più estremizzandoli i dettami del Congresso degli scrittori. Ma tutti dovranno via via cedere, di autocritica in autocritica. D’ora in avanti il cinema sovietico si caratterizzerà nettamente come cinema di regime, no alla sua ne e con alterne vicende immediatamente dipendenti dalle alterne vicende del gruppo dirigente e delle sue necessità politiche.

E ovvio che non tutto il bagaglio di straordinarie esperienze del decennio precedente può andar perso in un lampo. Nell’adattarsi alle direttive, molti registi riusciranno a preservare una personalità creativa sia pure attraverso penose mediazioni e censure. Non è certo il sonoro ad avvilirli poiché i manifesti contro il sonoro di Ejzenstejn e Pudovkin esprimono la preoccupazione che esso spinga, che esso acceleri il ritorno del cinema al teatro e insomma, al meglio, al realismo stanislavskiano. Il cinema stalinista, che ha già segnato dei punti a suo favore nel ’31 col makarenkiano e sincero Putëvka v zizn’ (Il cammino verso la vita) di Nikolaj Ekk, già dentro la sua logica ma tuttavia speranzoso in un domani che canta (i ragazzi vagabondi della rivoluzione diventeranno, non c’è dubbio, ottimi funzionari e cittadini) e con l’efficace Vstrecnij (Contropiano, 1932) di Ermler e Jutkevic, forse l’ultimo lm per decenni che parlerà di classe operaia e di fabbrica in un paese che si vuole fondato e diretto dai «soviet operai», trova il suo trionfale modello proprio nel ’34 con Capaev (Ciapaiev) di Georgij e Sergej Vasil’ev che un critico comunista nostrano si vanterà, in anni di guerra fredda, di aver visto cento volte scoprendovi ogni volta qualcosa che gli era prima sfuggito. Film esemplare davvero, perché non basta più l’eroe a fare realismo socialista, ma esso è affiancato dalla nuova gura del commissario politico, che dà la linea e sovrintende alla sua esecuzione. D’ora in avanti, l’eroe contemporaneo sarà membro del partito o, al termine di lunghe vicende come nella Trilogia di Massimo di Kozincev e Trauberg (Junost’ Maksima, Vozvrascenie Maksima, Vyborgskaja storona, 1935-39), lo diventerà. E parliamo di una delle opere migliori di questi anni, assieme a quelle di Ejzenstejn e Dovzenko, le uniche che riescano a non rinnegare del tutto il vigore creativo del passato, pur in condizioni ben diverse. Titoli a vario modo rilevanti saranno anche Pyska (Cavoletto, 1934, da Boule de suif di Maupassant) di Mikhail Romm, i primi lm del georgiano Michail Caureli, di solida costruzione e immaginosa gurazione, alcuni altri di Rajzman, Rosai’, Arnstam, Gerasimov ecc. C’è una leva di registi più o meno ufficiali che opera nelle rigide strutture del cinema sovietico muovendosi

nelle rievocazioni del passato e negli adattamenti letterari, o affrontando problemi reali nell’ottica grata ai burocrati, con indubbia capacità, spesso con convinta partecipazione ma certamente con rara originalità, e tutti dentro la visione condizionatrice della politica ufficiale, sostanzialmente celebrativa. Un lm come My iz Kronstadta (Noi di Kronstadt, 1936) di E m Dzigan, da una pièce di Vishnevskij, autore dell’antianarchica Tragedia ottimista, è esemplare per il modo in cui robustamente rievoca i giorni della rivoluzione, in un’ottica storicamente tutta costruita e letta «a posteriori». Il nuovo regista che più si sottrae ai canoni celebrativi è forse Mark Donskoj, autore soprattutto di quella Trilogia di Gorkij (1938-40) che, specialmente nel primo titolo, Detstvo Gor’kogo (L’infanzia di Gorkij) ritrova una vena da grande «largo» ottocentesco, romanzesco, populista. Le strutture produttive si sono consolidate, e certamente non tutto il patrimonio di capacità tecniche e professionali che il decennio precedente aveva prodotto è andato perduto. Ma la «programmazione centrale dei soggetti» è un organismo che ha assunto un peso - di tipo pre-censorio - così forte che la trilogia di Donskoj può nascere solo all’interno della produzione per ragazzi; e questa programmazione vuol dire testi colcosiani, rivoluzionari, storici, letterari, musicali, comici ecc., distribuiti secondo un accorto dosaggio tutto teso alla formazione del consenso e alla soddisfazione delle esigenze di svago della popolazione, debitamente canalizzate. Le regole imprecise del «realismo socialista» vengono interpretate a discrezione degli alti funzionari, mantenendo tuttavia uno standard ideologico compattissimo, più scoperto nei lm di ambiente contemporaneo dove l’eroe è, o diventerà, membro del partito. Il periodo di guerra convoglia la produzione su un nazionalismo esasperato, che lascia spazio soltanto al documentario - che per la forza stessa delle immagini e la capacità straordinaria dei tecnici è talora ricco di squarci di lirica commozione. E dentro questo lone si conferma, nei lm a soggetto pre-bellici, bellici, post-bellici quel «culto della

personalità» che vede Stalin motore paterno e divino della rivoluzione e della storia. Già presente nelle rievocazioni su Lenin di Romm o negli sciagurati lm che devono giusti care le grandi purghe della seconda metà degli anni trenta, la gura di Stalin campeggerà ossessiva nei lm dell’immediato dopoguerra, quando la produzione si ridurrà a pochissimi titoli e la pressione dittatoriale non sarà mai stata così rigida. In ottica nazionalista, si segnala inoltre il recupero di «eroi» della storia zarista - di preferenza generali, ammiragli, musicisti, ma anche gli stessi zar più «nazionali», da Ivan il Terribile a Pietro il Grande. La generazione del disgelo, dopo la morte di Stalin, avrà avuto poco da imparare da queste opere, ormai dimenticata e cancellata la grande avanguardia, e dovrà forzatamente rivolgersi agli adattamenti dei classici - stavolta più acuti, fedeli allo spirito e non a una lettura schematica dei loro contenuti sociali, e soprattutto formalmente raffinati. Il vero «formalismo» nasce proprio col disgelo, con i lm di delirante barocchismo di Kalatozov, col sentimentalismo di Cuchraj, cogli arazzi storici di Jutkevic, con i bozzetti folklorici (ma absit iniuria verbis) che vengono dalle repubbliche minori, con i banalissimi adattamenti dostoevskiani di Pyr’ev, con l’umanesimo iperretorico di Bondarcuk, mentre gli adattamenti shakespeariani di Kozincev, immemore delle passate avventure, sono davvero opere d’eccezione anche per la sapiente mediazione della traduzione pasternakiana, e Damas sobackoj (La signora col cagnolino, 1960), di Iosif Chej c è uno squisito adattamento da Cechov di struggente malinconia. Di fatto, la cinematogra a sovietica continua a essere sottoposta al partito e alle sue metamorfosi, e il periodo krusceviano permette solo per un breve arco di anni che si affronti l’immediato passato stalinista e le sue «storture», per stringere di nuovo subito dopo. Ma in questi anni di provvisoria liberalizzazione è nato il dissenso, e nel ’62 sono usciti romanzi come Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyn, lm come Devjat dnej odnogo goda (Nove giorni in

un anno) del vecchio Romm e Ivanovo detstvo (L’infanzia di Ivan) del debuttante Andrej Tarkovskij. Singolare caso, quello di Romm, autore di regime ma anche allievo dei grandi e a sua volta insegnante e formatore della leva degli anni sessanta, capace a distanza di un quindicennio di ritrovare un’ispirazione tutta diversa da quella precedente molta acqua è passata sotto i ponti e molto si è stati costretti a ragionare su di sé, magari solo tra sé, e sul mondo - e di narrare, con intimo nitore, del rapporto tra scienza e vita, scienza e società, attraverso personaggi veri, collocati in una situazione vera e credibile, e poi, col lm di montaggio Obyknovennyj fasizm (Il fascismo ordinario, 1965), di alludere in modo non equivocabile alla manipolazione del consenso in un regime che, nel lm, assai somiglia a quello in cui egli ha vissuto. L’opera di Tarkovskij è più nota: certa sentimentalità e certo scialo formale del debutto si decanteranno in un lm perfetto, quello Strastipo Andrej (Andrej Rublév), girato nel ’65 ma uscito nel ’69, e certamente non del tutto gradito ai burocrati poiché, pur ricostruendo un lontanissimo passato, la sua morale è chiara: di fronte all’orrore perenne della storia, solo l’alleanza tra il prete-artista e il popolo, analfabeta ma naturalmente vitale e costruttore, può avere senso. I lm successivi di Andrej Tarkovskij hanno rinchiuso questa produttiva dialettica in uno spazio autobiogra co e in un’interrogazione sul mistero dell’esistente. Di molti lm più banali ma più legati al presente si è invece avuto paura, e già con Chruscév si ebbero casi di pesante intervento censorio, come per il modesto Mne dvadcat’ let (Ho vent’anni, 1962, ma uscito nel 1965), accusato dal leader di «pessimismo». Nel ’64 e ’65 hanno debuttato rispettivamente Sergej Paradzanov con Teni zabitich predkov (L’ombra degli avi dimenticati) e Andrej Michalkov-Koncalovkij con Pervyj ucitel’ (Il primo maestro, 1966), lm delle repubbliche minori, a loro modo di alto folklorismo, il primo su un passato di aba e di cupa magia, il secondo su un passato di inizi rivoluzionari. Rifugi, prese di distanza. Paradzanov avrà un amaro destino di

persecuzioni, perché omosessuale e «decadente»; Michalkov, anche co-sceneggiatore del Rublèv, adatterà i classici dopo le disavventure subite da lm della stessa vena un po’ favolistica del primo, e saprà abilmente destreggiarsi tra Urss e Usa, tra cultura e spettacolo. Il fratello minore, con intelligenza non scevra da furbizia, è stato il regista quasi-ufficiale dell’Urss degli ultimi anni e, continuando a coniugare squisitezze formali a blandi messaggi, ha saputo piacere a oriente e occidente. Il personaggio più straordinario degli anni tra sessanta e settanta è stato, con Tarkovskij, Vasilij Šukšin, allievo di Romm, narratore, attore, regista, morto precocemente nel 1974. Figlio di contadini, egli ha descritto e interpretato personaggi di disadattati: piccoli delinquenti, incerti tra affermazione vitale di sé e una non convinta morale collettiva, destinati alla morte. È al mondo contadino che si rivolge e che interpreta, con straziante coscienza della sua marginalità e nostalgia dei suoi valori. La realtà vi irrompe con disperato romanticismo. Šukšin non è certo stato un Esenin né un Dovzenko, ma è certo stato l’Esenin e il Dovzenko del suo tempo. Forse però per capire le strade del cinema sovietico e attraverso di esse la realtà sovietica prima della sua ne, altri lm sono stati più importanti, benché in qualche modo meno «caldi». Premia (Il premio, 1975) di Sergej Mikaelian riportava in fabbrica, e mostrava un serrato dibattito attorno al ri uto di un operaio del premio di produzione. Prosa slova (Chiedo la parola, 1976) di Gleb Pan lov narrava le difficoltà pubbliche e private di una donna, sindaco di una media città. Zil pevcij drozd (C’era una volta un merlo canterino, 1973) di Otar Ioseliani, georgiano, introduceva un personaggio nevrotico e svagato, incapace di adattarsi a una realtà che gli appare arida e programmata. Dentro la rigidità brezneviana si muoveva, come indicavano questi e altri lm meno pregnanti, un disagio che toccava la base come i funzionari e si traduceva, in de nitiva, non certo in una radicalità di richieste, bensì nell’aspirazione a una maggior democrazia. Essa non è venuta che tardi, con i

tentativi estremi e fallimentari di mediazione e passaggio del vecchio sistema al nuovo del premier Gorbaciov, dalla veloce e imprevedibile fase della «caduta dei muri» (1989) che ha imprevedibilmente dimostrato l’immensa fragilità dell’edi cio comunista, sgretolatosi con immane velocità. Dalle macerie che esso ha lasciato (raccontate mirabilmente dal reportage di Ryszard Kapuscinski Imperium), morto Tarkovskij nell’esilio, sbandatisi i Pan lov, le Sepit’ko, i Gherman, su cui tanto si puntava, sono spuntati i disgregati e plateali avocatori di una disgregazione che non sembra per ora trovare risposte e nuovi ordini. Il sottosuolo ha riconquistato lo spazio che il potere sovietico gli aveva ossessivamente negato, e in cui aveva chiuso tanta parte dei suoi artisti secondo le regole di una società dittatoriale, criminosa nella dirigenza e nelle sue rami cazioni. Assieme a quelli di Pavel Lungin e di Jurij Mamin, ma più radicalmente e intelligentemente di loro, un lm ha segnato il punto estremo della riconquista della libertà di parola, duro e spietato a partire dalle più fragili tra le sue vittime, un bambino abbandonato e mal cresciuto da un contesto aberrante di squallore: Zamri, oumri, voskreni (Sta’ fermo, muori e risuscita, 1990) di Vitali Kanevski, traversata di dolore e di morte, nonostante tutto vitale, di un paese che il regime ha lasciato ingombro di miseria materiale e morale.

9. Sergej M. Ejzenstejn Concentrata in pochi lm portati a termine, di intensità sorprendente come sorprendentemente intensa fu la vita stessa del regista (Riga 1898-Mosca 1948: cinquant’anni appena), l’opera di S. M. Ejzenstejn è invero monumentale, e perciò stesso ha talora, per lo spettatore di oggi, qualcosa di raggelante nella sua imponenza. Essa attraversa il destino tragico di una rivoluzione e il fallimento di un’utopia, partecipandone intimamente ma anche distaccandosene con sovrana grandezza, contrassegno di un’individualità rara ed estrema sempre presente al suo tempo secondo il giovanile proposito di «essere contemporanei» a ogni costo, e con una ostinata coscienza intellettuale del proprio valore e della grandezza del proprio progetto. Artista, Ejzenstejn vuol esserlo da subito, convinto della speci cità dell’arte e del suo possibile apporto alla trasformazione del mondo e dell’uomo, contrariamente a quei coetanei che credevano nella dissoluzione dell’arte nel socialismo o, più tardi, nella sua funzione subalterna di «servizio» rispetto al progetto politico. E Ejzenstejn sceglie di essere artista di cinema, della più nuova e moderna delle arti. Già nel Lef e nel teatro del Proletkult, egli elabora la teoria del «montaggio delle attrazioni»: fatti, e non ri essioni o conseguenze di fatti; organizzazione dei «materiali» che li concernono, in modo da coinvolgere lo spettatore in un dialettico gioco emotivo e intellettuale che lo porti a parteciparvi, a partire da forti sensazioni, progredendo attraverso i fatti verso la comprensione non della realtà apparente, ma dei suoi modelli interni e fondamentali. Stacka (Sciopero, 1924) organizza il «con itto» secondo una precisa intenzionalità ideologica: lo sciopero dev’essere l’essenza logica e drammatica di ogni storia di sciopero, nell’assenza del personaggio e del «racconto». L’aggressività delle «attrazioni»

ha come ne l’esplicitazione creativa collettiva di un processo di trasformazione collettivo. La rivoluzione è rivoluzione della forma perché risponde a una rivoluzione esaltante del mondo, alla ne del suo assetto borghese. La strutturazione più serrata e sinfonica di Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin, 1926), nato come celebrazione della rivoluzione del 1905, accentua la volontà eisensteiniana di «restituire alla scienza la sua sensibilità» e «al processo intellettuale il suo ardore e la sua passionalità». La forma materialistica e dialettica che il regista persegue deve trasformare le abitudini percettive dello spettatore, diventare attraverso il lm (e il «montaggio delle attrazioni») una fusione di sentimento e ragione quale solo l’arte del cinema può ottenere. Il con itto e la dialettica devono agire nel processo intellettuale di chi assiste sì da costituire la base di una nuova sensibilità e di una nuova ragione, in ne indissolubilmente unite. Si tratta, in de nitiva, dell’apprendimento-insegnamento di un metodo dialettico adeguato al nuovo progetto sociale. Dalle immagini-cellule combinate nel messaggio devono nascere idee, e idee nuove. Il montaggio deve produrre concetti e non effetti. Nato come celebrazione della rivoluzione del ’17, Oktjabr (Ottobre, 1928) è organizzato secondo questi principi con sapiente e provocatorio estremismo: la rivoluzione che si fa e continua a farsi, e non l’affresco retorico sulla rivoluzione avvenuta. La dialettica, anima della storia, non si ferma con il trionfo della rivoluzione, continua ad agire dentro di essa. Ma la rivoluzione ha già preso altre strade, e Ejzenstejn deve ormai confrontarsi con esse. I suoi anni trenta sono anni di scon tta, sia nel contesto nazionale che nel confronto con quello americano, nel fallimentare viaggio a Hollywood. La spinta biogra ca di Ejzenstejn, artista di origini borghesi da lui raccontate con la precisione di un’autocoscienza intellettuale coltissima anche per il confronto con le maggiori acquisizioni della cultura borghese del suo tempo (innanzitutto Freud), deve abbandonare il terreno di una rivolta contro il padre che è bensì collettivo (lo zar, lo zarismo) o, meglio, deve

destoricizzarlo. Se Lenin e Trockij (la cui immagine è subito espunta da Ottobre) erano le cristallizzazioni storiche di una tensione di masse, Stalin è il riproporsi del padre. Con Staroe i novoe (Il vecchio e il nuovo, o La linea generale, 1926-29) Ejzenstejn sposta la sua attenzione dal contesto urbano e storico dei primi lm a quello contadino e metastorico che contraddistingue i suoi nuovi progetti (l’irrealizzato Canale di Fergana, l’incompiuto ¡Que viva Mexico!, 1930-32, il distrutto Bezin lug, Il prato di Bezin, 1935-37). Riconquista l’intreccio, ma lo inserisce dentro dimensioni quasi mitiche. L’entusiasmo della partecipazione attraverso il con itto al nuovo della storia diventa lotta eterna tra «vecchio» e «nuovo» e tra padri e gli nella eterna legge della natura. Film di passaggio, Il vecchio e il nuovo presenta le forze vitali in azione (la contadina-«madre terra», il toro) pur dentro una lotta ancora «politica» tra nuovo ordine socialista e vecchio dominio dei kulaki. Ma Bezin lug era, per ciò che ne resta e se ne sa, un titanico scontro tra due forze ancora più mitiche: un padre divoratore del glio, un glio divoratore del padre. Il padre biblico è affrontato dalla mistica concretizzazione di una forza- glio che ne è tuttavia annientata, a sacri cio per tutti. Il michelangiolesco affresco messicano accentua questa nuova visione ejzenstejniana, di cui tuttavia non è certo difficile trovare gli embrioni nella prima trilogia, benché inseriti in una dialettica di ben altro progetto. La vitalità del regista non si piega alle scon tte. Nel 1938, all’avvicinarsi della guerra, egli trova una provvisoria conciliazione con la gura del padre nella dimensione epica dell’Aleksandr Nevskij (Alessandro Nevsky). La preoccupazione dell’artista - che è forse di tutti i grandi artisti - di tendere, pur attraverso la obbligata coscienza della disarmonia della storia, alla ricerca e costruzione di una nuova armonia, tensione interna di cui l’opera d’arte deve dar conto, è quella della riconciliazione e dell’unità - qui nazionale. (Ejzenstejn alterna e controlla, in de nitiva, dichiarazioni di «armonia» e dimostrazioni di «disarmonia»: il Potëmkin viene dopo Sciopero, dopo Il vecchio e il nuovo c’è Il prato di Bezin, dopo il

Nevsky l’Ivan). Il padre buono che è Nevsky sullo sfondo di un bianco medioevo, è una astrazione «collettiva», è la «santa Russia» che si unisce di fronte al nemico teutonico. Il padre Ivan, dentro un nero e sanguinoso rinascimento, è la spiegazione della tragica necessità e connaturata condanna della «politica». La trilogia di Ivan Grozny (Ivan il terribile) resta incompiuta. Il primo lm (1944) suscita il plauso staliniano, che lo vede come giusti cazione ed esaltazione del suo operato (l’unità e la sopravvivenza della nazione di fronte ai suoi nemici esterni e interni); il secondo (La congiura dei boiardi, 1946) lo ferisce e vedrà la luce solo dopo la morte del dittatore; il terzo non verrà mai realizzato. La pubblicazione del progetto di sceneggiatura di questa terza parte lascia l’opera nella sua magniloquente ambiguità, né staliniana né antistaliniana, ma ri essione «dialettica» sui meccanismi del potere e della politica. Se la prima parte accentua la logica della necessità del politico, la seconda la nega e la mostra nella sua più brutale arroganza, e la terza avrebbe dovuto portarla a una mediata soluzione. Resta che Ejzenstejn osa quello che ben pochi hanno osato, affrontando di petto, con una calibratura estetica che raffredda la materia shakespeariana del dramma storico sulla gura del potente in una cupa e ambigua distanza gurativa, il nodo della tragedia della politica. Le cui armi, egli dice dal fondo della sua esperienza concreta della storia di una rivoluzione e del suo fallimento, sono e non possono che essere quelle dell’inganno, della violenza, della sopraffazione e della morte. Fosse vera o no la leggenda che ha circolato su Stalin, e cioè che egli avrebbe avuto costante compagno delle sue notti come livre de chevet il machiavelliano Principe, è tuttavia al Principe che Ejzenstejn ha pensato ed è tornato, per spiegare, con Stalin, cos’è la logica del potere e perché, dentro la politica, non può esistere altra logica. Ma scoprendo Machiavelli, Ejzenstejn non ha dimenticato Marx e Freud, e sta in questo la notturna forza dell’Ivan. Il con itto, la disarmonia sono radicati nello scontro tra forze che sono classi, ma anche nello scontro tra le forze di un

inconscio che è pur sempre barbarico e continua a esserlo e con cui chi agisce nella storia deve pur sempre confrontarsi dominandolo o lasciandosene soverchiare. In questo gioco il leader, colui che vuole piegare la storia per affermare un progetto, oscilla pesantemente e non trova come punto di riferimento teorico ben reale - contro ogni ideologia e progetto positivi - altro che il sorriso macabro del orentino. E stato per noi consolante che Ejzenstejn abbia concluso la sua opera con la seconda e non con la terza parte dell’Ivan, poiché ci resta del regista l’immagine di un glio che nonostante tutto osa ancora dire al padre (e in che contesto!) ciò che egli vede e pensa di lui, in un estremo slancio di rivolta. È certo meno consolante e più vero sapere che la «dialettica» delle rivoluzioni e del potere, per Ejzenstejn, era pur sempre immutabile e obbligata.

10. Aleksandr Dovzenko Figlio di contadini cosacchi, l’ucraino Dovzenko (Sosnicy 1894-Mosca 1956) diventò con fatica maestro di scuola e, dopo la guerra e la rivoluzione, impiegato d’ambasciata a Berlino e Varsavia. Caricaturista e disegnatore dilettante, si buttò nel ’26 sul cinema convinto di aver trovato la strada giusta per esprimere quel che gli ribolliva dentro e cui non riusciva a dare espressione: l’entusiasmo per la rivoluzione e per i suoi effetti, legato bensì all’amore per la terra natale e a un vivissimo sentimento della natura. Il rapporto tra vecchio e nuovo (Il vecchio e il nuovo fu un titolo di Ejzenstejn, ma anche di un’in nità di articoli e dibattiti) era in quegli anni tutt’altro che dialettico. Il potere sovietico e i suoi intellettuali ponevano l’accento sul nuovo, solo il primo cercando qualche mediazione, via via più decisa proprio sul piano intellettuale a partire dai primi anni trenta. Prima che la restaurazione delle forme tornasse a dominare assistita dalle catene di uno stato poliziesco, il cinema e le arti dell’Urss vissero grandi momenti, e Dovzenko riuscì a imporsi con quattro vasti capolavori di ardita e ispirata libertà compositiva. Dovzenko era un poeta dello schermo che conosceva bene la poesia del suo tempo, da Chlebnikov a Pasternak, da Majakovskij a Esenin, con il quale ultimo sentì il legame dell’attenzione al mondo contadino e dell’amore della natura, insomma di una origine simile, per strade antiche. Dovzenko credeva nel nuovo, e ci credeva anche troppo. Dopo alcuni cortometraggi e una sorta di thriller avventuroso, tanto per dimostrare di non avere niente da invidiare a nessuno quanto a tecnica, nel 1928 egli realizzò Zvenigora, affrescopamphlet sospeso tra poesia e delirio immaginativo, confusamente zeppo d’immagini e personaggi in gloria della storia ucraina di sempre e del momento, ovviamente a conclusione bolscevica. Dovzenko vi si dimostrò cantore epico

di un mondo contadino nazionale che mentre esaltava se stesso, preannunciava la sua stessa morte e tras gurazione nella rivoluzione. Del ’29 è Arsenal, del ’30 Zemlja (La terra), del ’32 Ivan. Nel ricordo dello spettatore (questi lm li si vede raramente, e rarissimamente in edizioni appropriate) accade che le immagini o le sequenze dell’uno si mescolino con quelle dell’altro, e non è un male. Si tratta in realtà di poemi autonomi e ricchissimi, i primi due più coerenti e coesi e il terzo più libero e divagante. Arsenal racconta la lotta di classe in Ucraina durante guerra, rivoluzione e guerra civile, e un personaggio, Timoc, che dalla terra alla guerra scopre la politica, la necessità di cambiare il mondo e il suo sistema di potere. Celebre idea, quella del cavallo che parla ed esprime la scontentezza n degli animali per una storia così pesante come quella della campagna russa, e celebre un nale invero geniale, in cui Timoc, più volte ferito, si scopre il petto e lo espone alle pallottole, di nuovo e poi di nuovo, in s da e convinzione di vittoria e di immortalità, come in una poesia di Blok, sotterraneamente religiosa, esplicitamente e magni camente epica. A suo modo poema religioso-rivoluzionario è certamente La terra, che inizia con la serena morte di un vecchio nel mezzo di un frutteto e prosegue con le innovazioni portate dalla rivoluzione e un giovane felice la cui danza notturna verso l’amore, panteistica e sublime, è rotta dalla pallottola sparatagli dal rivale, ovviamente un controrivoluzionario contrario al progresso. Mai forse il cinema avrà cantato con più euforico ed espansivo, ma dolce entusiasmo, l’amore della vita, il canto dell’uomo nella natura, l’illusione di una rottura storica che apre a una nuova e diversa storia. Il funerale del giovane, nel nale, è una delle pagine più solenni del cinema muto. Ivan è un lm ancora più lineare, ma anche più aperto. Pro ttando del sonoro e del parlato, Dovzenko continua a permettersi grandi audacie sperimentali in tempi in cui si comincia a combatterle. Il giovane contadino Ivan che ne è protagonista somiglia agli altri eroi tra terra e futuro di

Dovzenko, diventa operaio alla costruzione di una diga e vive con entusiasmo l’esperienza del «collettivo» e la ne degli ideali di piccola proprietà e di individualismo, ma il lm ha il torto di puntare sull’immagine, che dice forse qualcosa di diverso dal testo, e che ama troppo il ume e la terra, la natura e la luce per convincere i nascenti e molto aggressivi professori del realismo socialista e del cinema didascalico, di eroi perfetti ossequienti al catechismo di partito. Con il realismo socialista il posto di Dovzenko, come quello di altri lirici ed entusiasti, si restringe no a sparire. Aerograd (1935) narra la colonizzazione in un estremo Oriente dove agiscono, in mezzo ai «buoni», giapponesi, disfattisti vari e soprattutto vecchi credenti che non vogliono si tormenti e aggredisca la natura e si muoia per un potere che è lungi dal convincere, che insomma stimano l’antico e ne difendono i valori. Naturalmente Dovzenko, narrando l’edi cazione di un aeroporto e della città che deve attorniarlo, è dalla parte della «novità», ma è così onesto (o ha tali dubbi) da non tacere le opinioni dei nemici del nuovo, e di non limitarsi a indicarli come spie o traditori ma di ascoltarne e farne ascoltare le ragioni, e questo non gli viene perdonato. Il lm è sottoposto a una la di accuse, a un’aperta diffidenza burocratica. Quando però Stalin dichiara di volere «un Capaev ucraino», a chi chiederlo se non a lui? Ecco dunque Sors (1939), la cui sceneggiatura è vista e rivista, letta e riletta per undici mesi, mentre la lavorazione ne implicherà venti! Sors è il giovane eroe (ventiquattro anni!) della rivoluzione che nel 1918 fronteggia con la sua armata gli occupanti tedeschi, i bianchi, Petlura, i polacchi ed è assistito però da un commissario politico che incarna la super-coscienza leninista. Come in Capaev, una «forza della natura» è domata e indirizzata dalla scienza e dalla disciplina bolscevica, ma Dovzenko riesce a trasformare anche questa tra la conformista e banale in una visione epica della storia, piena d’avventura e su sfondo di girasoli, variando registro e permettendosi (per l’ultima volta) di passare liberamente dall’epica alla farsa, dal western al trattato, in una rutilante allegria dell’immagine. La

guerra e la nuova occupazione tedesca sono vicine, Sors è accolto bene e sostenuto ufficialmente nonostante qualche riserva, qualche abituale accusa di «formalismo». E d’altronde è stato molto studiato e corretto prima di essere mostrato al pubblico. Durante la guerra, Dovzenko verrà più volte punito della sua visionaria indipendenza formale. I suoi vasti documentari di guerra, di libero montaggio e libera costruzione, dispiacquero al dittatore e ai suoi servi; sudatissima, in particolare, la preparazione e la lavorazione di Pobeda na Pravobereznoj Ukraine (Ucraina in fiamme, 194445), smontato e rimontato più volte. Nonostante la ridondanza propagandistica, non è privo di un soffio autentico d’epica, nel racconto della caduta e del riscatto della patria in guerra. A guerra nita, Dovzenko, in disgrazia, tentò di tornare a lavorare in un’epoca di massime purghe e restrizioni con un vecchio soggetto a cui si dedicava da anni, al punto da averne fatto anche un testo per il teatro, La vita in fiore, ispirato alla vita dello scienziato Micurin. Il lm riuscirà a farlo, ma sarà una normale biogra a secondo lo stile nazionalista del tempo, imposto da Stalin, e si chiamerà proprio Micurin (1949). Leggiamo da una nota dei suoi diari, del 2 aprile 1946: «Letto il 29 marzo La vita in fiore all’Unione degli scrittori. Solo dopo la ne ho notato quanto fossero tutti sovreccitati e commossi. Sono stato applaudito a lungo. Eppure mi sentivo molto triste. La gente che mi stava di fronte si rallegrava perché ero riuscito a non soccombere al pugno brutale e crudele, perché non ero diventato un impotente mentale, un servo o un lacchè, perché non avevo maledetto l’universo». Con Micurin egli voleva realizzare un poema della natura e della scienza che la modi ca. Ma Micurin non fu il lm facile da realizzare che egli sperava. Durante la sua lavorazione crebbe infatti a dismisura il potere di Lysenko, uno scienziato che si richiamava a Micurin e che la scienza considera oggi come un emerito falsario, il quale sosteneva la modi cabilità della natura oltre ogni possibile immaginazione, secondo canoni che pretendeva «marxisti». I programmi di trasformazione agricola tentati da Stalin in quel periodo (e risultati fallimentari)

avevano bisogno di teorie roboanti quali quelle lysenkiane, e a rimetterci fu, tra gli altri, anche Dovzenko, che vide il suo lm snaturato da mille controlli per essere aderente al pensiero lysenkiano e sempre più lontano dalla visione che di Micurin aveva l’artista. Il risultato nale è scienti camente falso, tuttavia non indegno del grande regista, che aveva organizzato il suo lm su una partitura di Sostakovic magniloquente ma efficace, e su un uso creativo del colore. Restano giustamente celebri le sequenze della rivoluzione, col suo orire di bandiere rosse trattate come oritura della natura, e ancora più quelle in cui nascono sullo schermo nuove forme, colori, volumi, espansioni, attraverso le ibridazioni dei ori. In Micurin Dovzenko ha visto un se stesso osservatore e cantore della natura, e soprattuto ricercatore paziente, dubitoso ma entusiasta, dei modi di coglierne il segreto e di narrarla. Poeta più che scienziato, egli era stato soprattutto un narratore delle vicende del rapporto tra l’uomo e la terra in momenti di rivoluzione e di trasformazioni sociali. Nel 1945 aveva scritto la sceneggiatura di un lm sull’Ucraina in guerra, Povest’ plamennych let (Storia degli anni di fuoco), che venne severamente criticata e che fu realizzata solo nel 1960 dalla vedova di Dovzenko, Julija Solnceva. Girato con grandi mezzi, a colori e a 70 mm, fu ancora un poema sui rapporti tra l’uomo e la sua terra e la storia che li modi ca, qui tragicamente, chiudendo però su un nuovo canto di speranza per una futura armonia. La Solnceva portò sullo schermo anche Poema o more (Il poema del mare, 1955-58) - il più libero nella costruzione tra questi lm «postumi», scivolante dal presente al passato e al futuro, e alla visualizzazione delle fantasie dei protagonisti, e bruciante ogni de nizione realistica; ma anche il lm che, proprio per questo, rende più cocente e insostituibile l’assenza del regista - e quelli che erano solo semplici abbozzi di una sceneggiatura incompiuta, Zacarovannaja Desna (La Desna incantata, 1965). La fedeltà al testo e l’imponenza dei mezzi fanno di queste opere degli autentici poemi sinfonici e una continua meraviglia di colori, ma nonostante tutto manca loro quell’afflato

personalissimo, quell’esitazione prima del canto, quelle aperture fantastiche che fanno vibrare in delicatezze e in superbie ineguagliate l’opera di Dovzenko. Palesemente o sotterraneamente l’eredità di questo pari dei Blok, degli Esenin, dei Platonov, ha continuato ad agire. L’abbiamo ritrovata, per esempio, nel senso della natura di Tarkovskij, nell’amore per i contadini di Šukšin, nella visionarietà di Paradzanov, nel lirismo da Siberiade di Michalkov-Koncalovskij, negli esordi di Larisa Sepit’ko, nei lm ucraini di Savcenko o Sengelaja, e in tanti lm cinesi, indiani (S. Ray), e per no statunitensi (Kazan).

11. Dziga Vertov «Noi affermiamo che i vecchi lm, romanzati, teatralizzati e simili, hanno la lebbra. Non vi avvicinate! Non toccateli con gli occhi! Pericolo di morte! Contagio! Noi dichiariamo che il futuro dell’arte cinematogra ca è la negazione del suo presente. Noi lanciamo un appello per affrettarne la morte. […] Noi epuriamo il Kinokismo dagli intrusi: musica, letteratura, teatro; cerchiamo il nostro ritmo senza rubarlo a nessuno e lo troviamo nei movimenti delle cose. […] L’uomo nuovo, liberato dalla pesantezza e dalla goffaggine, capace di movimenti leggeri e precisi come quelli delle macchine, sarà il soggetto della nostra macchina da presa». Nel primo manifesto del «Cine-occhio» (Kinoglaz), Vertov pone nel ’22 la sua ducia nella esaltante possibilità, all’interno della nuova Russia, di creare un cinema adeguato al progetto globale della rivoluzione: un nuovo linguaggio che si fonde col nuovo linguaggio che parla la nascente società. Il ri uto delle forme borghesi comporta l’omologia di una ricerca sociale e artistica o, meglio, di una costruzione. Il progetto di Vertov - come del gruppo del Lef e di Majakovskij, coi quali, sin dal ’18, collabora - è in de nitiva istituzionale. Dare un nuovo statuto al cinema, concomitante e via via fuso con quello dell’assetto sociale complessivo post-rivoluzionario. L’esperienza della Kinonedelja (Cinesettimana, dal 1918), del cinegiornale su ciò che accade, gli ha permesso una conoscenza profonda del mezzo, della potenza dell’obiettivo, dell’importanza di un montaggio che colga, nel movimento, il «movimento delle cose». Insoddisfatto dei materiali che deve mettere insieme ne va a girare egli stesso, e l’obiettivo si muove davvero, specialmente quando nuove e più agili macchine ne permettono un nuovo e spericolato uso: «Io sono il Kinoglaz. Sono l’occhio meccanico. Sono la macchina che vi mostra il mondo così com’è. […] Sono in ininterrotto movimento. Mi

avvicino agli oggetti e me ne allontano, scivolo sotto di essi, entro in loro, mi muovo accanto al muso di un cavallo che fugge, fendo in piena corsa la folla, corro dinanzi ai soldati che corrono, mi rovescio sulla schiena, mi levo con gli aeroplani, precipito e risalgo, in volo, con corpi che precipitano e risalgono». Affine alle ricerche del Lef e del costruttivismo, il Cine-occhio elabora una organizzazione dei materiali di per sé poetica, in cui le angolature, i movimenti di macchina, il montaggio creano il ritmo, de niscono lo spazio. Nel ’22 il progetto di una Kinopravda (Cine-verità), cinegiornale fatto di numeri normali e di numeri speciali, ha però minor diffusione del previsto, è sostanzialmente boicottato dall’ormai consolidato potere cinematogra co statale. Anche la Leninskaja kinopravda (1924) lascia perplessi, anche se, per ammissione di Ejzenstejn, avrà non poca in uenza sul Potëmkin. E anche Kinoglaz -Zizn’ vrasploch (Cineocchio: la vita in flagrante, 1924), forse il più rivoluzionario dei suoi risultati, è accolto con freddezza. La «cinematizzazione» delle masse (che, indica Montani, equivale ad alfabetizzazione) non può esserci senza il concorso di quel nuovo stato che va elaborando i suoi piani quinquennali. Da ora in avanti, la battaglia di Vertov sarà piuttosto quella per la sopravvivenza della sua concezione del cinema dentro un sistema che va progressivamente ri utandolo: concretamente, con Sagai, Sovet! (Avanti, Soviet!, 1926), che la cinematogra a di stato prima commissiona e poi contesta, giungendo, pare, a licenziarne l’autore dopo il successivo inno all’Urss che doveva essere Sestaja cast’mira (La sesta parte del mondo, 1926). Vertov deve contentarsi di essere accettato come tecnico straordinario, come sperimentatore della cui opera altri potranno servirsi diluendone la novità e la forza. Celovek s Kinoapparatom (L’uomo con la macchina da presa, 1929) ha qualcosa di frenetico e di amaro, quasi di estraneo alla «vita qual è», e sembra giusti care le accuse di «sperimentalismo» e «formalismo», di «feticismo del mezzo». Dopo Entuziazm (Entusiasmo, 1930), giudicato troppo poco chiaro ed estraneo alle direttive, con la sua caotica visione del lavoro operaio, Tri

pesni o Lenine (Tre canti su Lenin, del 1934, l’anno del primo congresso degli scrittori) dimostra ormai una acquiescenza vertoviana alle direttive, l’accettazione di una poesia di regime, tuttavia autonomamente reinventata e, si direbbe, piena di nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, nei cinema e nel paese. Vertov (nato a Bialystok nel 1896, morto a Mosca nel 1954) è un artista che ha perduto la sua battaglia così come l’ha perduta, in altri modi e con più brutale coscienza, un Majakovskij: che era quella della rivoluzione. Al vecchio si è sovrapposto un nuovo vecchio. La costruzione del nuovo, nei progetti della più lucida avanguardia, aveva solo senso come concreta utopia di canto nuovo, distruzione del vecchio per costruire una nuova armonia tra gli uomini e le cose, cui l’arte avrebbe dovuto contribuire alla pari con la politica.

12. Fritz Lang Non stupisce di questo viennese, architetto di formazione e sceneggiatore ai suoi debutti a Berlino di mirabolanti avventure esotiche o di intrichi polizieschi, la capacità di adattamento al «sistema» hollywoodiano. Lang (Vienna 1890-Los Angeles 1976) è stato, certo, uno dei grandi del cinema di Weimar, ma di quel cinema ha contribuito più dialetticamente di altri a creare la forza anche commerciale, spettacolare. Un modo di esprimersi, la nuova arte, ma anche un’industria di cui egli ben conosce le regole. Quando, nel 1941-42, chiama a collaborare con sé un altro esule tedesco, Brecht, a Hangmen also die (Anche i boia muoiono), il giudizio di questi su di lui sarà durissimo: un uomo del sistema, appunto. Ma uno che risponde regolarmente alle proposte dell’uomo di teatro «questo il pubblico lo accetta» o «questo il pubblico non lo accetta». Lang conosce il suo mezzo e ha capito l’America, l’ha accettata, mantenendo la propria autonomia di giudizio e, pressoché intatte, le proprie capacità di narratore e la propria etica. Ciò gli è stato possibile perché è uno di coloro che hanno «fatto il cinema» quale esso è, miscuglio di tecnica e ideologia, mezzo di comunicazione e di costruzione del consenso; ma anche perché progressivamente è la sua visione del mondo e dell’uomo ad avergli permesso questo scaltrito adeguamento. Lang non crede alla perfettibilità del mondo né a quella dell’uomo, tutta la sua opera sta lì a riaffermarlo. Le complicate scenogra e, i giochi di ombre, i meccanismi contorti del periodo tedesco non hanno ancora quella lucidità che solo l’esperienza dell’esilio sembra dargli. In Der miide Tod (Destino, 1921), nel prologo ed epilogo che contano assai più delle tre fantasiose storie narrate, il contrasto è già tra una esatta semplicità e il suo sfociare nell’irreale e magica presenza della Morte. Più tardi, di questo punto d’esplicito arrivo non avrà più bisogno, la meta sica verrà tutta iscritta dentro la scarnità della

vicenda, l’essenzialità senza fronzoli della regia. Così come nel primo Mabuse, Doktor Mabuse, der Spieler (1922), bisognerà cercare lo scontro tra forze opposte (il bene e il male) dietro i ghirigori della trama, in Metropolis (1926) - che viene dopo l’infausta esperienza di quei Nibelüngen (in due parti, 1923-25) di insincera aspirazione a farsi vate della nazione sulle orme di Wagner - la proterva conciliazione (tra capitale e lavoro: l’espressionismo, cioè l’avanguardia, è recuperato nella più socialdemocratica delle morali, a una nale contraddizione) conta assai meno della presentazione delle forze in campo e della pessimistica, tremenda visione che ne deriva. Con M (1931) e Das Testament des Doktor Mabüse (Il testamento del dottor Mahuse, 1933) Lang conquista una prima lineare, geometrica efficacia. Tutto è nell’immagine, e nell’immagine ci sono, individuati con acutezza estrema, anche i dati sociali dei problemi, ma il problema sta altrove: nella ingiustizia di ogni assetto sociale, nella specularità delle «leggi» (malavita e società borghese), nella prima de nizione (attraverso il personaggio reso da Peter Lorre, il mostro) di una «colpa» che può essere di tutti, e di cui tutti gli uomini sono portatori. Il «teatro morale» di Lang si de nisce, e il suo stile si depura. Dopo la fuga dalla Germania nazista e la felice parentesi francese - Liliom (La leggenda di Liliom, 1934) è anch’esso una divertita e sentimentale storia di colpa -, l’impatto con Hollywood non è, come s’è detto, traumatico. Lang impara presto le regole del gioco, saggia le nuove condizioni e i limiti, l’America non gli pare certamente peggiore della Germania ma non per questo si fa americano. Noi siamo tra coloro che non vedono uno lato tra i due periodi dell’arte langhiana. La continuità ci pare indubbia; certo il rigido meccanismo impone le sue leggi, ma anche favorisce l’approfondimento di quella essenzializzazione (che pure già maturava), anche per meri motivi «tattici». Fury (Furia, 1936) e You only live once (Sono innocente, 1937) hanno una carica di indignazione sociale che mancherà ai lm successivi, cui in de nitiva si saldano per l’assunto centrale: l’innocente (Spencer Tracy nel primo lm, Henry

Fonda nel secondo) si fa, per vendicarsi di ingiustizie subite, colpevole. C’è qualcosa di Mabuse nell’ossessione di vendetta che muove Tracy, come, molto più tardi, Arthur Kennedy in Rancho Notorious (1952), Glenn Ford in e hig heat (Il grande caldo, 1953). E per no nella giusta vendetta collettiva di Anche i boia muoiono. L’uomo, di fronte all’ingiustizia, è solo, ma rischia di farsi nuovo portatore di ingiustizia. La colpa può essere il risultato di un assetto sociale, di un’educazione sbagliata, di circostanze ostili, di momenti di abbandono della guardia. Ogni uomo è potenzialmente colpevole, come dimostra esemplarmente un lm tra ironico e angoscioso quale e woman in the window (La donna del ritratto, 1944). Attraverso opere che accolgono in modi estremamente personali anche le mode e le occasioni del tempo - la lotta al nazismo in Man Hunt (Duello mortale, 1941) e Ministry of fear (Il prigioniero del terrore, 1944), la psicanalisi in e secret beyond the door (Dietro la porta chiusa, 1948), il western, i rifacimenti di lm europei famosi come Scarlet street (Strada scarlatta, 1945), i piccoli gialli per case di produzione minori come House by the river (Bassa marea, 1950) o Beyond a reasonable doubt (L’alibi era perfetto, 1956), per no le rivisitazioni di sue opere come, rientrato in Germania, saranno Das indische Grabmal (Il sepolcro indiano, 1958) e Die 1000 Augen des Doktor Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse, 1960) - i suoi temi sono in ne questi, e l’essenzializzazione delle azioni e della regia è un modo privilegiato per farli risaltare: ligrana evidente, moralità. Certo ci sono cadute - di stile, di chiarezza, di tensione - in molti lm, ma la coerenza di Lang è davvero sovrana. Ci sono anche improvvisi palpiti romantici, nei citati Rancho Notorious che porta nel West i dilemmi e le suggestioni di un Kleist, e in Bassa marea o nello stevensoniano Moonfleet (Il covo dei contrabbandieri, 1955), un capolavoro, dove è l’occhio di un bambino a scoprire, senza perdere d’innocenza, l’orrore del mondo. Da ultimo, Lang rivendicava una sua ascendenza cattolica (anche questo c’era, a Vienna). Ma più che altro ci pare di

vedere in lui, dentro l’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte e della massima commistione tra arte e commercio, l’eco di una ri essione kantiana. Contrariamente all’uomo di Hitchcock, anch’esso «colpevole» ma anche frigidamente vittoriano, l’uomo di Lang lotta contro circostanze avverse e anche contro se stesso, ma può, almeno nell’immediato, reagire, scegliere, a volte vincere.

13. Carl-eodor Dreyer Il numero dei progetti dreyeriani non realizzati, e lungamente preparati, è maggiore di quelli realizzati. Tra i primi, adattamenti da Proust, Strindberg, O’Neill (Il lutto si addice a Elettra), Ibsen (Brand), Faulkner (Luce d’agosto), Euripide (Medea), e in ne il Gesù, certamente il progetto più elaborato, e che avrebbe dovuto costituire il culmine della sua opera. Tuttavia, le pur scarse opere realizzate (alcune delle quali peraltro ancora pressoché invisibili, come quel Tva manniskor girato in Svezia nel 1945 con due soli attori in luogo chiuso: un uomo e la moglie alle prese con la crisi del loro rapporto, in ne entrambi suicidi) bastano a far rilevare una coerenza nello stile e nella loso a, e per no, pur con la loro così forte componente di mistero e di inespresso, un messaggio. Nel primo cinema di Dreyer (Copenhagen 1889-1968) c’è del naturalismo (Prdsident, 1920) e dell’humour di grana grossa (Prästänkan, 1921), ma già nel secondo si assiste a una curiosa mescolanza con ri essioni sul misticismo protestante. Sulla scia dei modelli griffithiani di azioni parallele per vasti affreschi storici comparativi, egli dà però ben presto un Blade af Satans Bog (Pagine dal libro di Satana, 1920-21), che stabilisce una tematica rimasta poi costante: quella dell’intolleranza, e del rapporto tra libertà e autonomia individuale e canoni oppressivi - ideologici, religiosi, politici dell’ordine fanaticamente costituito. Satana è volta a volta incarnato nei persecutori del Cristo, nei preti dell’Inquisizione, nei giacobini francesi, nei bolscevichi in Finlandia. Ritroviamo questo tema in Die Gezeichneten, girato in Germania nel 1922: la persecuzione degli ebrei nella Russia zarista. E lo ritroviamo espandersi in ne con sovrana concisione in La passion de Jeanne d’Arc (1928), in Vredens Dag (Dies Irae, 1943), in Ordet (La parola, 1955). E se Vampyr (Il vampiro, 1932), notturna presenza della morte, è un caso a sé stante, tuttavia si collega a

Ordet, in quanto ri essione e dimostrazione della possibile realizzazione del «mistero» nella vita, dei legami che uniscono certi rari personaggi alle forze oscure della vita e della morte, e della vita oltre la morte, con la differenza che il primo tratta di «magia nera» e il secondo di «magia bianca», e cioè del miracolo. La conclusione di Mikaël (Desiderio del cuore, 1924) collega invece questo lm a Gertrud (1964), e la ricerca della protagonista di Gertrud ha molti punti di contatto, è anzi in de nitiva la stessa, di quella dell’Anna di Dies Irae. In ogni caso, da Giovanna d’Arco in poi, i mezzi di cui Dreyer si serve sono depurati no all’estremo, si tratti dell’uso dei primi piani di Giovanna d’Arco o dei lenti piani-sequenza di Gertrud, del raffronto tra interni generalmente limpidi e illuminati da una luce in qualche modo oggettiva, ed esterni invece sfumati, nebulosi, sognanti o angosciati, in qualche modo adeguati alla soggettività dei protagonisti; dell’interpretazione progressivamente distaccata ed estraniata (ché «la parola» è «il verbo», l’espressione di una realtà dello spirito che va oltre ai dati concreti del soggetto o alla psicologia dei personaggi) sempre più indirizzata alla macchina da presapubblico, e sempre meno plausibile in termini realistici. «La sempli cazione deve trasformare l’idea in simbolo; col simbolo siamo sulla traccia dell’astrazione», afferma Dreyer, ed è chiaro che questa depurazione, questo processo di astrazione, questo estremo e disincarnato rigore hanno lo scopo di permettere alle idee-base del regista di delinearsi e incidersi con il massimo di precisione, pur nell’alone obbligato della «parte di mistero» cui solo si può alludere, o che solo si può rappresentare senza spiegare. Ma quali sono queste idee-base? La prima è la lotta tra l’individuo (la sua libertà) e il dogma (espressione del potere). Giovanna, Mikkel (in Ordet), Anna hanno di fronte a sé l’ostilità opprimente della legge, della repressione, del fanatismo, del potere politico e di quello religioso, dell’ideologia e della teologia, e contro di essi lottano per l’affermazione di una verità altra, individuale; sia essa «divina» o estremamente terrena (l’amore, il diritto alla felicità). Dreyer

rivendica un cristianesimo senza dogmi e senza repressione, in de nitiva senza peccato: il maggiore dei peccati è quello, storico, di de nire una legge imponendola ad altri. La comunicazione con un Dio di vita e di amore, attraverso la forza di un amore terreno e la forza della fede nell’amore, giunge a produrre il miracolo di Ordet, la scon tta cioè della morte. Il Gesù avrebbe chiarito questa lettura, spiegato in termini «naturali» i miracoli, opposto Cristo alle Chiese. Ma non è forse casuale che, oltre lo scemo di Ordet, siano tre donne a incarnare questa ricerca. Tre vittime-vincitrici. Giovanna sceglie la morte all’abiura del suo credo; Anna sceglie la morte all’impossibile vittoria del suo amore; Gertrud vuole un amore assoluto, liberato dalle pastoie della in ngardaggine maschile mascherata di alti ideali (la Politica e l’Arte), e non ottenendolo si chiude in volontaria prigione. Nelle due ultime non è solo la lotta tra il modo individuale e autonomo di vivere il messaggio cristiano (che è appena citato) ma anche una ricerca di pienezza che è pure, in Anna soprattutto, sensuale, e che è amore senza più distinzione tra corpo e anima, tra spirito e sensi. Il anatos di Anna (e delle altre) non è in congiunzione freudiana con la morte, ma è semplicemente la negazione della vita, e se lo si sceglie è solo per tener fede alla propria ducia nella vita e nell’amore. Per questo Dreyer nitidamente divide la sua scena tra bianco e nero, tra luce e ombra inconciliabili. E i crepuscoli e le albe sono proprio crepuscoli e albe, cioè approssimarsi della notte o del giorno. Gertrüd assume nella breve lmogra a di Dreyer il signi cato di un testamento, mancando l’ultima voce del Gesù. Ella fa incidere sulla tomba che l’accoglierà le parole «Amor Omnia», e recita al fedele amico (psichiatra) una poesia che racchiude la sua comprensione della vita: «Guardami dunque. Son bella? No. Ma ho amato. Guardami dunque. Son giovane? No. Ma ho amato. Guardami dunque. Son viva? No. Ma ho amato». Il pittore protagonista di Mikaël, abbandonato dal suo giovane amante, moriva dicendo: «Muoio felice perché ho vissuto un grande amore». Quarant’anni dopo, Dreyer ha

offerto una conclusione ben più astratta, ma essenziale, liberata dall’intrigo del romanzo e della psicologia. Ma in ogni caso i suoi eroi e le sue eroine restano isolati: nel mondo borghese in cui si muovono, se non sono santi come Giovanna o artisti come Mikaël che testimoniano individualmente e per gli altri, la loro sete di amore e di assoluto è scon tta. Non riescono a trasferirla ad altri, a trovare i loro corrispondenti. Testimoniano di un’impossibilità. E pure è contato per loro unicamente il tentativo, fallito, di rendere la loro aspirazione realtà.

14. Ernst Lubitsch Il Lubitsch touch, il tocco di Lubitsch o alla Lubitsch, ha segnato un’epoca del cinema statunitense. Tra i primi registi ad avere l’onore del «nome prima del titolo» sui manifesti e nei cast, Ernst Lubitsch (Berlino 1892-Los Angeles 1947) era emigrato a Hollywood nel 1923, quando l’industria americana andava setacciando il cinema europeo strappandogli i nomi più prestigiosi. Era già assai famoso. Ebreo berlinese, era stato attore e collaboratore in teatro di Max Reinhardt, aveva alternato in cinema le farse (accusato di «cattivo gusto berlinese» dagli intellettuali weimariani dal palato no) e i supercolossi su modello italiano, con grande disinvoltura di messinscena e con gusto teatrale. Sul fronte del comico, s’era reso famoso in ruoli di commesso ebreo proponendo una versione non inedita dell’humour berlinese popolaresco e di grana grossa. Certa volgarità si trasferirà nell’opera hollywoodiana, basti pensare al pernacchio lunghissimamente preparato dell’episodio con Charles Laughton in If I had a million (Se avessi un milione, 1932) un efficace modo di usare il sonoro nascente. Il lm più memorabile, la cui visione è ancora uno spasso, è su questo fronte Die Austernprinzessin (La principessa delle ostriche, 1919), operetta muta affine alla Vedova allegra che già propone, dopo una sfrenata caricatura dei personaggi e delle loro ossessioni tra eros e denaro, il matrimonio tra la ricca America e la povera nobile decaduta Europa. Sul fronte del grande spettacolo in costume, campeggiano invece Carmen (Sangue gitano, 1918) e Madame Dubarry (1919) con Pola Negri, il secondo attento ai retroscena e ai tempi morti della storia, non solo alle sue esplosioni. Per Emil Jannings, attore principe del tempo e attore gon o di retorica, Lubitsch dirige Anna Boleyn (Anna Bolena, 1920) e Das Weib des Pharao (La donna del faraone, 1921). Più curiosi sono oggi

Sumurum (1920), fantasia orientale da uno spettacolo teatrale di Reinhardt e Die Puppe (La bambola di carne, 1919), fantasia espressionista ispirata a Hoffmann. A Hollywood, si chiede a Lubitsch di ripetere i successi europei, rendendoli ancora più «europei» secondo il gusto del pubblico statunitense. Ritrova Pola Negri per Forbidden paradise (La zarina, 1924) ed Emil Jannings per e patriot (Lo zar folle, 1928) e per il più penetrante e man I killed (L’uomo che ho ucciso, 1932), melodramma bellico paci sta che viene dopo il successo dei lm sonori sulla grande guerra come All’ovest niente di nuovo di Milestone ma punta sugli attori e sul contrasto drammatico più che sulle scene del fronte. Tuttavia, a parte altri rari melò, è nella commedia che il pubblico comincerà ad amare, seguire, acclamare Lubitsch assiso negli studios della Paramount a capo di uno staff di sceneggiatori preferibilmente europei - tedeschi o viennesi o ungheresi - e a volte già noti come commediogra , mescolati con vecchie o giovani volpi di Broadway e di Hollywood: tra questi, il più fedele e solido fu Samson Raphaelson, i più vivaci e «nuovi» Billy Wilder e Charles Brackett, una coppia vincente. Producer dei propri lm, maestro di giovani collaboratori (George Cukor, Joseph L. Mankiewicz, Preston Sturges, Otto Preminger, lo stesso Wilder…) Lubitsch consolida le sue scelte e il suo «tocco» nel corso degli anni trenta oscillando tra l’operetta e la commedia so sticata. Ruba alla commedia francese da boulevard, alla commedia ungherese dei «telefoni bianchi» (talora più populista), all’operetta viennese, al congeniale Noel Coward. I suoi personaggi s orano sempre, senza oltrepassarlo, il limite della decenza, ma il loro imbonitore non frena le allusioni sessuali, anzi a volte ne abusa con strizzate d’occhio ineccepibili per il grande pubblico. Nell’operetta sonora - e love parade (Il principe consorte, 1927), e smiling lieutenant (L’allegro tenente, 1931), One hour with you (Un’ora d’amore, 1932), e merry widow (La vedova allegra, 1934) - fa capolino, nel mezzo di una maestria della costruzione e dell’euforia dell’affresco, tra le allusioni sessuali e la satira dei nuovi e dei vecchi ricchi, diversamente volgari, una

spigliata irriverenza democratica verso il mondo aristocratico, molto grata agli americani, ma non così esplicita come in certi lm di autori statunitensi del periodo (quelli per esempio di Leo McCarey). L’Europa è per Lubitsch e per l’americano medio che egli corteggia ancora un territorio di raffinatezza, sogno, eleganza, compiuto edonismo. All’opposto di Stroheim, la cui crudeltà il pubblico e l’industria non tollerarono, Lubitsch fu cinico e sentimentale, nostalgico e ironico, nonché satirico e comico nella misura di certi fumetti e di certe farse. Considerato in Germania un parvenu, dette a Hollywood lezioni di savoir vivre borghese. Seppe catturare l’attenzione dell’America puritana senza scandalizzarla oltremodo, seppe insomma come corteggiarla e blandirla. Secondo il biografo Weinberg riuscì per esempio, bensì imitandolo, dove era fallito Chaplin in Una donna di Parigi, perché non volle essere un fustigatore di costumi, un moralista, ma puramente entertainer, uomo di spettacolo e di successo. I migliori lm del decennio restano esemplari modelli di regia. Negli anni venti aveva avuto un rivale in De Mille, autore di commedie mondane anch’esse «europee», ma nei trenta fu il primo: per la limata perfezione delle regie e delle sceneggiature, il sinuoso e insinuante gioco degli attori da scena a scena, anzi da una porta all’altra (quante porte si aprono e si chiudono nelle commedie di Lubitsch!), i rovesciamenti di situazione e i rientri molto sornioni nell’ordine, il profondo cinismo sui comportamenti umani. Popolano le sue storie avventuriere, ladri in guanti gialli, miliardari ridicoli o ingenui, nti gentiluomini, servitori maliziosi. Egli è maestro di sottile immoralità, di piacevole accettazione, di arguto pro ttare delle leggi del mondo. Trouble in paradise (Mancia competente, 1932) è la storia di una coppia di ladri che raggira una bella signora, innamorata di uno dei due. L’amore verrà a patti con il cinismo, il denaro con la gelosia. «Quanto a stile credo di non aver mai fatto niente di meglio», disse Lubitsch a proposito di questo lm. Design for living (Partita a quattro, 1933) da Noel Coward,

propone, di fronte all’impossibilità per l’eroina di scegliere tra i due giovani spasimanti e alla presenza transitoria di un marito, una convivenza affettiva a tre rigorosamente priva di sesso. Un gioiello e anche, stavolta, una preveggente lezione di saggezza di fronte alle difficoltà dell’amore fuori dall’alveo costrittivo della coppia? Angel (Angelo, 1937) offre di questo un risvolto assai triste, con la bella Dietrich tentata di tradire il noioso marito ma in ne ritrosamente rinunciataria; mentre Bluebeard’s eighth wife (L’ottava moglie di Barbablù, 1938), scritto da Brackett e Wilder, elogia la coppia e non disprezza il denaro, ed è una commedia-farsa già vicina a quelle di Preston Sturges nella mescolanza sfrenata di satira e nonsense un’amoralità da incombente tempo di guerra, ma naturalmente a lieto ne. Gli stessi autori, assieme al commediografo ungherese Melchior Lengyel, forniscono a Lubitsch il materiale per il celeberrimo Ninotchka (1939) in cui «la Garbo ride» e fa ridere, scegliendo al rigore dell’ideologia sovietica la dolce vita parigina assieme a tre affamati compagni burocrati in trasferta. Nel ’42, mentre ebrei come lui muoiono nei lager, mentre il mondo è in amme e l’Europa è sotto il tallone nazista, Lubitsch dirige il suo lm certamente più bello. To be or not to be (Vogliamo vivere) si svolge nell’ambiente del teatro nella Praga occupata dai nazisti; un attore sa imitare Hitler, e questo gli dovrebbe servire a risolvere i dilemmi amorosi (teme che la moglie lo tradisca, ed è infatti così) e politici - tra partigiani, collaborazionisti, nazisti, in un rischiosissimo gioco di travestimenti. La celebre battuta dell’Amleto «essere o non essere» è una chiave di passo farsesca e tremenda, sullo stesso rischioso lo della provocazione politica che è stato, poco tempo prima, del Grande dittatore di Chaplin. Ritmata con agilità insuperabile, Vogliamo vivere è una commedia dentro e su un momento tragico della storia, è un’acuta presa in giro del nazismo e fa ridere col nazismo mentre il mondo trema per la paura del nazismo. È il lm più azzardato e intelligente di Lubitsch, così come, di poco precedente, e shop around the corner (Scrivimi fermo posta, 1940) era, in veste di commedia ungherese, il più

affettuosamente populista, il massimo di democrazia che Lubitsch sembrava poter accettare. E se Cluny Brown (Fra le tue braccia, 1946), a guerra nita, torna a irridere con relativa simpatia la stolida nobiltà inglese, Heaven can wait (Il cielo può attendere, 1943) è un testamento tutto americano, dichiarazione di principi, lasciataci a futura memoria da un vecchio europeo pieno di saggezza e di arguzia. Saper vivere, amare e godere la vita, questa dev’essere la legge: attenti però a non far del male a nessuno. Nel nale il protagonista rinuncia al paradiso per seguire al purgatorio un’ennesima bella ragazza. Maestro di registi tra i più interessanti del dopoguerra, direttore di attori eccelso, Lubitsch morì a Hollywood nel ’47 nel mezzo della regia di un lm-operetta, completato da Preminger. La sua importanza è stata di aver offerto all’America un’immagine dell’Europa che le fosse accetta, quindi edulcorata e adattata, ma anche, con cinismo sornione, di avere insegnato all’America regole epicuree che le erano sconosciute: della miseria come della forza, della vanità come della durata dei riti e dei costumi borghesi.

15. Jean Renoir C’è in La règie du jeu (1939) una battuta famosa detta proprio dal regista, qui anche in veste di attore: «Quel che è più terribile, su questa terra, è che tutti hanno le loro ragioni». Si può partire da qui per cercare di chiarire il «mistero Renoir», o almeno la varietà, con tutti i suoi cedimenti, della sua lunga attività di regista. Renoir (Parigi 1894-Los Angeles 1979) è un onnivoro, dotato di forte capacità mimetica, che ha affrontato con egocentrica autonomia esperienze le più diverse. La decadente avanguardia simbolista degli anni venti (La fille de l’eau, 1926; Charleston, 1927; La petite marchande d’allumettes, 1928), che è «il cinema colto» del suo tempo e del suo paese. Ma già, contemporaneamente, lm i più commerciali, tra i quali una farsa militare, Tire au flanc (1928), notevole per la presenza di un positivo stordito tra i personaggi. Due adattamenti da classici ottocenteschi, quel Nana (1926) che lo riconcilia, dopo la breve presa di distanza avanguardista, con il mondo del/dei padre/i e con la tradizione, e un antesignano del «cinema di qualità» alla francese, Madame Bovary (1924), di corposa teatralità naturalistica. Un confuso «giallo» da Simenon, in quella provincia francese che continua a nascondere «nidi di vipere», La nuit du carrefour (1933). Un lm, che segna l’inizio della miglior stagione del regista, La chienne (1931), e che sacri ca a modelli weimariani (il « lm di strada»), ma con una possente descrizione di ambienti parigini e con un attore-feticcio, Michel Simon, che ritorna in Boudu sauvé des eaux (1933), pieno della divertita retorica dei clochard per vocazione, satira anche di un personaggio intellettuale (il libraio che dal clochard è affascinato e vorrebbe rieducarlo) che ha qualche tratto «alla Anatole France», e Chotard et C.ie (1933), farsa sui bottegai, anch’essa di simpatico realismo.

Del ’34 è Toni, cupo dramma contadino provenzale, che parte da Pagnol per fare tutt’altro, tragedia di sensualità e incrocio di destini, mediterranea e nera, girata con una immediatezza, una scioltezza, una spontaneità che davvero preludono al neorealismo. Ma subito dopo, è il ’35, c’è Le crime de Monsieur Lange, scritto da Prévert, squisita pittura populista del piccolo mondo di un cortile parigino, tra operai tipogra e sartine, padroni sudici e bislacchi e speranze cooperative, culminante con un giusto delitto premiato dalla solidarietà proletaria. È il breve, intenso periodo delle speranze del Fronte popolare, e nel ’36 Renoir costruisce per il Partito comunista francese un lm di propaganda elettorale, La vie est a nous, che pesca a piene mani dalle esperienze militanti e documentarie più diverse, prima tra tutte quella del prevertiano Gruppo Ottobre. Il ’36 è ancora l’anno di Les bas-fonds (Verso la vita), adattamento da Gor’kij, mescolanza curiosa di umori russi e francesi, virati a una sorta di esistenzialismo che odora di insincerità. Ma è anche l’anno di Une partie de campagne (La scampagnata), incompiuto gioiello impressionista, viaggio nella natura e nei sensi, con una nale malinconia già un po’ manierosa. Renoir si adatta, si mimetizza. Spera e dispera, sorride e piange, si mescola alla vita dei suoi personaggi con curiosità e affetto sempre, ma sempre con una spiritosa distanza. Pesca dove la curiosità (e l’occasione) lo spinge. Rompe i canoni e ne costruisce di nuovi. E nuovo è nella vivace mobilità degli esterni, nella corale de nizione dei personaggi, nella svagata presa di contatto con la realtà, anzi con più realtà, che egli sonda da gran signore apparentemente pacioso, disponibile, aperto. Dalle sue molte tentate adesioni al mondo che volta per volta narra nasce il suo fascino ambiguo, lm per lm. Scopre le sue carte veramente solo nei tre lm successivi, cui La bète humaine (L’angelo del male, 1938) funge da parentesi in ne pessimistica sui destini di un proletariato morso internamente dalla malattia che, ben più che l’ereditarietà di follia di Lantier (Jean Gabin), è già l’impossibilità reale di avere in sé forza sufficiente a cambiare il

mondo. In La Marseillaise (La Marsigliese, 1938), pur nanziato nel ’37 con una sottoscrizione popolare gestita dai sindacati e dal Pc, l’affresco storico dà a tutti «le loro ragioni», monarchi e popolani, nobili e giacobini, ma con un micheletiano afflato nazionale di grandeur unanimista. La grande illusion (La grande illusione, 1938) unisce ancora le classi, dentro una prigione tedesca per francesi della prima guerra mondiale, ma per una volta Renoir sembra pienamente sincero quando, nei personaggi del nobile francese (Fresnay) e del nobile tedesco (Stroheim), esprime in ne la sua ottica (e solidarietà) altoborghese sui casi della storia e sulla ne di una classe, o meglio, della cultura di una classe che è la sua. La règie du jeu (1939), il capolavoro, è un marivaudage sulla ne insipiente della borghesia francese, un balletto in cui servi e padroni si equivalgono - servi e padroni, un tema già toccato in Nana, e che tornerà ancora in Diary of a chambermaid (Il diario di una cameriera, 1946), in La carrozza d’oro (1952), e ancora altrove -, più corposi gli uni, più sfatti gli altri. Renoir dà a se stesso la funzione di malinconico commentatore della ne di un tempo. Poi è la guerra, l’esilio americano, dopo un tentativo nell’Italia fascista di una Tosca abortita. Ancora una volta, Renoir si adatta. Il suo modo di girare non è del tutto gradito alla precisione della macchina hollywoodiana, ma tuttavia se la cava, scende a qualche patto e nel ’45, con e southerner (L’uomo del Sud) annuncia una nuova svolta. La sua reazione a una guerra vista da lontano ha ora, pure ancora unanimista, un senso vagamente religioso, certo spiritualista, che accentuerà nel ’51 e river (Il fiume), girato in India. Un pacato capolavoro, semplice con solennità. Il resto è prevedibile. Coloriti spettacoli che accentuano una «saggezza» alquanto facile e riduttiva, ritorni al passato paterno ormai vagheggiato e idealizzato, esaltazioni dei luoghi comuni di un «saper vivere» alla francese, blanda polemica anti-scientista e panteista dove edonismo e giusti cazioni spirituali si danno bellamente la mano, con un unico, esile colpo d’ala in Le testament du docteur Cordelier (Il testamento

del mostro, 1959) girato per la Tv, variazione sul Dottor Jekyll dalla parte di un sadico-dispettoso Mister Hyde. Perdute le illusioni (in una pulizia operaia, in una pulizia francese), Renoir, come tanti, ha discettato sull’uomo e sulla vita concedendosi l’alibi di una «naturalità» cui egli stesso non sembra aver creduto mai no in fondo. E il successo presso la nouvelle vague di un regista certo personale, ma fatto di così tante e diverse suggestioni, è stato forse un fenomeno di ricerca di padri pronti a giusti care troppe cose.

16. Jean Vigo Jean Vigo (Parigi 1905-1934) non è stato né un caposcuola né un vero innovatore. La brevità della sua carriera, stroncata dalla morte per tisi a ventinove anni; le origini familiari (era glio del chiacchierato anarchico Almereyda, ucciso misteriosamente in carcere nel 1917); le disavventure coi produttori (tanto Zèro de conduite, 1933, che L’Atalante, 1934, subirono traversie, e il secondo in particolare venne sconciato al punto che con estrema fatica è stato possibile ricostituirne negli anni ottanta la versione originale) - gli hanno dato la fama di autore «maledetto», l’hanno fatto paragonare dalla critica, con procedimenti super ciali, vuoi a Rimbaud vuoi al primo Céline. In realtà, egli ha saputo unire, in un’opera irripetibile che acquista grazia dalle sue stesse mancanze tecniche, alle suggestioni di un’epoca, culturali e politiche in lui difficilmente districabili, una tensione personale ancora nel suo primo estrinsecarsi. Egli opera tra il 1929, anno della Grande Crisi, e delle prime affermazioni del parlato nel cinema, e il 1934, anno del tentato colpo di stato reazionario in Francia e dell’avvio, con la reazione popolare che ne consegue, del Fronte Popolare (l’ultimo atto politico di Vigo sarà proprio la rma, unico uomo di cinema, apposta al manifesto degli intellettuali per la vigilanza antifascista). La prima avanguardia cinematogra ca francese, quella del formalismo estetizzante dei L’Herbier, Epstein, Delluc come quella Dada del primo Clair, lascia il posto al surrealismo buñueliano (Un chien andalou è del 1928, L’àge d’or del ’30). Vigo conosce anche, da animatore di cineclub qual era, le esperienze sovietiche (Vertov, Ejzenstejn) e tedesche (il cinema dell’espressionismo e quello del realismo sociale), ed è alla con uenza di queste che, autonomamente, si pone.

Se si esclude l’esercitazione documentaria di Taris (1931), già A propos de Nice, da lui de nito «un punto di vista documentato» su una città all’insegna della corruzione, e dunque dell’oro, della carne e della morte, unisce, in modo spesso goffo e forzato, a una ricerca formale che s’apparenta all’avanguardia il tentativo di un cinema che vorrebbe anche essere etnologico, di constatazione sociale, con l’accanita violenza del pamphlet. E infatti il rigore non gli è possibile, tanta è la carica di ripulsa che egli prova nei confronti di una società, di cui vede bene ciò che le apparenze nascondono e esorcizzano. Se qui è il mondo degli adulti, la società del capitale, che egli tenta di illustrare, in Zèro de conduite a questo mondo viene contrapposto quello dell’infanzia, dal primo oppressa, e in L’Atalante le possibilità concrete dell’utopia, di un «cambiare la vita» che può avvenire solo in ambiente proletario e ai margini del «mondo degli adulti». Si tratta in de nitiva di tre sguardi infantili sulla vita, di uno stesso modo di porsi nei suoi confronti. Il rigetto nei confronti di ciò che la società è e di ciò che tende a fare dei bambini, di esseri che hanno la potenzialità e disponibilità e libertà che sono dell’infanzia, passa attraverso la descrizione di una città dalla natura stupenda e che vive del vizio e che nasconde i suoi malati, i suoi vecchi, i suoi infelici; la descrizione non realistica di una rivolta di bambini in un luogo chiuso (collegio-carcere) contro adulti visti con gli occhi dei bambini, personaggi deformati dalle loro funzioni; e uno spazio chiuso da libro d’avventura (la chiatta, sui umi e canali, ai margini della città e della società) dove anche la famiglia, non anagra ca, e cioè il gioco delle età, l’eros, l’amore, la solidarietà, possono riconquistare un senso: il vecchio (Michel Simon), la coppia, il mozzo. Non si tratta, per Vigo, di quel «realismo poetico» brumoso che lanceranno più tardi Carnè e Prévert, i quali pure useranno ambienti e a volte personaggi similari; si tratta di un rapporto tra realtà e surrealtà in cui la deformazione onirica, la dilatazione poetica, trovano un loro centro naturale in questa visione pura, e anarchica, delle possibilità di una vita altra,

quale soltanto la sensibilità dell’infanzia può indicare e preservare (nei personaggi di adulti-bambini dell’istitutore Huguet in Zèro de conduite e del Pére Jules in L’Atalante). Si veda l’insistenza sulla corporalità dei personaggi «infantili»; sul loro recupero degli aspetti misti cati del dolore e della disgrazia; sulla festa e sul gioco. La società aliena, morti ca, tradisce. Il mondo, per Vigo, può essere salvato solo dai ragazzini.

17. John Ford «Il western è il cinema americano per eccellenza» (Bazin). Ford è il cinema americano per eccellenza, dentro e oltre il western. C’è forse un regista che, suo coetaneo, incarna assai meglio l’americanismo nel e del cinema, Howard Hawks, ma nell’atteggiamento di Ford (Cape Elisabeth, Maine, 1895-Palm Springs, California, 1973), anche lui wasp e però irlandese, l’identi cazione è più ambigua, il percorso più accidentato, la maturità più patetica, i sentori di crisi meglio avvertiti, benché in un’adesione ben diversa da quella - pur sempre critica e a volte, nella critica, efferata - dei registi immigrati. A ritroso, l’unità dell’opera di Ford, la sua parabola di «autore», è evidente anche attraverso i lm di guerra, o coloniali, o di commedia, o di varia avventura - anche se quasi tutti quelli degli anni trenta scritti per lui da Dudley Nichols ci appaiono i più brutti (Il traditore, Maria di Scozia, La pattuglia sperduta, Viaggio senza fine, La croce di fuoco…), tentativi di troppo pomposa «artisticità». Ogni inquadratura dei migliori lm di Ford, in particolare dei western o dei quasi-western (che sono molti) ha la capacità di essere di una riconoscibilità immediata, di una evidenza piena, ma anche di de nire un rapporto: tra tensione e precarietà individuali, da un lato, e ambiente storico e/o naturale, dall’altro. Ogni inquadratura rimanda all’America. Ford canta gli umili costruttori dell’America - contadini, soldati, artigiani - nel momento dell’edificazione. Elabora e de nisce gure «classiche» di pionieri, caratterizzati, tra l’altro, da una propensione gentile all’auto-ironia. Essi incarnano funzioni, sanno il loro compito e come assolverlo. Più spesso, sono sceriffi non per scelta (che si fanno strumenti di giustizia e di comunità), medici ubriaconi o sfortunati (la cui funzione è la vita), soldati (a difesa della fragile e nuova nazione). Dentro un ordine comunitario, anche gerarchico (la gerarchia è stabilita dalla necessità, è un

prodotto della priorità, volta a volta, di una funzione), che va fondato, coordinato, difeso, e del quale il focolare domestico è il nucleo prioritario. In questa de nizione, che è per Ford l’essenza della democrazia americana, hanno il loro posto Abe Lincoln come Ringo, Wyatt Earp come il giudice Priest, i dottori Arrowsmith, Bull Mudd, Boone, i capitani o colonnelli Brittles, Yorke e i due di Fort Apache - il fanatico ursday e il saggio York. Almeno no a quando la ducia nell’America non vacillerà. Il primo periodo di Ford è segnato dalla collaborazione con l’attore Harry Carey, prototipo dei Wayne e Fonda e Stewart futuri, in western ariosi e spiritosi, e poi dall’epica di e iron horse (Il cavallo d’acciaio, 1924) e dal primo approfondito dramma di individui e di ambiente western, ree bad men (I tre furfanti, 1926). I suoi anni trenta sono, in ligrana, salve le cadute citate ma sovente anche in quelle, storie di indiretta apologia rooseveltiana. Le sue comunità isolate (in navi e sottomarini, nel deserto, in avamposti di colonia, o in the wilderness, ai margini di una civiltà da costruire o da salvaguardare o da guarire) sono in ne metafore politiche di una situazione storica determinata. In questa chiave può essere letto un capolavoro del periodo, il lm che rilancia il western e ne stabilisce per almeno due decenni nuove convenzioni e stereotipi, Stagecoach (Ombre rosse, 1939): la diligenza è ancora una volta un microcosmo di contraddizioni sociali, l’America, circondato da pericoli (gli indiani) ma denso soprattutto di tensioni tutte interne e sociali, e si oserebbe dire di classe. Medico e sceriffo favoriranno, alla ne, l’amore tra reietti - il bandito e la prostituta - portatori di un’autenticità che manca agli altri, e che sono essi stessi marginali, rappresentanti esemplari di una più vasta marginalità da cui è nata l’America e da cui può nascere la vera comunità. Utopia dentro la contraddizione: generica, esaltante. Solo coi primi anni quaranta Ford affronterà direttamente il periodo del New Deal, soprattutto con quel e grapes of wrath (Furore, 1940) che applica tutte le convenzioni del western alla esaltazione retrospettiva della politica rooseveltiana. Che, è bene ricordarlo, egli ha visto anche nella sua aspirazione

imperialista, dominatrice su un esterno da battere o da civilizzare. La serena grandezza di Young Mr. Lincoln (Alba di gloria, 1939) è in ne l’esaltazione di un’armonia - nella società, nella forma stessa del lm - di cui Ejzenstejn seppe ben scrutare il fascino in un celebre scritto: utopia, ancora, di tipo eminentemente comunitario. Dopo la guerra è ancora al western che dobbiamo le opere più esemplari di Ford: la trilogia militare Fort Apache (Il massacro di Fort Apache, 1948), She wore a yellow ribbon (I cavalieri del Nord-Ovest, 1949), Rio Grande (Rio Bravo, 1950) è venata di nostalgia e di una certa malinconica nevrosi, più aperta e esplicita nel primo: i valori sono scossi, ma non certo piegati. Wagonmaster (La carovana dei Mormoni, 1950) riconquista, come aveva fatto My darling Clementine (Sfida infernale, 1946), un’alta e pacata ducia, come in ne e sun shines bright (Il sole splende alto, 1953) che rievoca l’affettuosa ed empirica furbizia di Steamboat round the bend (1935), capolavoro misconosciuto del lone sudista. Si può ricomporre l’America se si ritorna ai vecchi valori, al vecchio spirito comunitario, alla vecchia morale. Ma gli ultimi quindici anni del regista dimostreranno come questa ducia sia sterile e come anche per lui questi valori siano terribilmente minati. Il più commovente di questi lm, e last hurrah (L’ultimo urrà, 1958) presenta uno Spencer Tracy-John Ford vinto dai nuovi tempi, una straziante scon tta: la ne della politica dei giusti dentro la polis. La violenza, lasciata da sempre sullo sfondo, conquista spazi a tratti parossistici, sorprendenti in Ford. L’aspirazione alla casa, alla terra, al focolare è trasferita dai bianchi agli indiani: Cheyenne autumn (Il grande sentiero, 1961), che nell’ultimo western-capolavoro del regista, e searchers (Sentieri selvaggi, 1956), erano in ne comparsi a far esplodere l’intima insicurezza del personaggio Wayne. L’eroe di Sergeant Rutledge (I dannati e gli eroi, 1960) è un negro. L’eroina di Seven Women (Missione in Manciuria, 1964), in una comunità di missionarie bigotte, è un’atea. E e man who shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1961) è, coi modi che sono della sua

tradizione, una rilettura critica dell’immaginario western, in disvelamento di «ciò che c’è dietro». Da Sentieri selvaggi in avanti, il cinema di Ford è un cinema pessimista, che forse per questo anche si depura dai suoi molti manierismi. Il mondo, l’America sono cambiati; Ford non li capisce più, forse non li ama più. Troppo vecchio per cambiare davvero, fa però palese la sua amarezza. Ha inseguito un sogno, ha contribuito a fare di questo sogno un mito collettivo, una falsa coscienza collettiva. Uomo dell’Ottocento, di tutto questo intravede, nella seconda metà del Novecento, il fallimento. L’eroe è sempre più solo, la comunità se ne serve ma lo respinge, non l’ama. L’America non ama coniugare la libertà e l’apporto dell’individuo nell’armonia del gruppo.

18. Il cinema americano È stato e resta il più importante, capace di coprire un mercato nazionale enorme e di seguirne e a tratti indirizzarne o prevederne le mutazioni, e un mercato internazionale altrettanto vasto (Europa occidentale e Terzo Mondo). Legato a doppio lo a un sistema politico e culturale di paurosa vitalità e capacità di sopravvivenza e di dominio. Cinema di un impero. Tutti i tentativi di liberazione dall’ambiguo fascino dell’America, mediato per lungo tempo innanzitutto dal cinema, sembrano oggi culturalmente perdenti, dopo le parziali ricerche di autonomia degli anni sessanta, anch’esse spesso condizionate da quel fascino. Il con itto era cominciato assai presto, ed era stato, no agli anni sessanta, tra Europa e America. Due correnti - certo non traducibili in termini immediatamente politici - vi si scontravano: quella degli esaltatori di una vitalità americana (la macchina, l’azione, la spregiudicatezza, la capacità di costruire miti), che ha attraversato molte avanguardie (futurismo italiano e russo, Lef e Feks, costruttivismo, surrealismo…) man mano che il cinema americano cominciava a imporsi sul pubblico di massa anche in Europa, contrapposto al « lm d’arte» europeo, alla sua teatrale o letteraria staticità; e, sul versante opposto, quella di tutti gli spaventati dalla commercializzazione dell’arte, dalla sua merci cazione - gli intellettuali borghesi di tradizione, aristocraticamente chiusi alla nuova forma di espressione, come quelli aperti invece a un suo uso artistico, e via via quelli, tra loro, di impronta marxista, più seriamente preoccupati della funzione alienante del cinema, e soprattutto della più potente e merci cata delle cinematogra e. Il pubblico (il «popolo») aveva altre strategie, e fece suo il cinema americano per un sistema di riferimenti, forse più democratico di ogni altro.

Tra gli intellettuali le divergenze teoriche furono grandi, e continuano in certo modo a servire da punto di riferimento costante a tutte le critiche del cinema. Dal ri uto primo di Lukács e poi di Adorno e Horkheimer, all’accettazione critica di Balász, Kracauer, Arnheim, che tentano la de nizione di una possibile estetica che oltrepassi il ri uto, no al dilemma benjaminiano, il dibattito verteva tuttavia su un unico punto: la contrapposizione tra arte e macchina, tra arte e industria culturale nascente. Le posizioni più avanzate restano, a ben vedere, quelle di Adorno-Horkheimer da un lato, e quella di Benjamin dall’altro. Per i primi, il concetto stesso di «pubblico» nega il rapporto individuale con l’opera, e la possibilità di una sua creazione autonoma, e la «qualità» cui alcuni lm possono pretendere altro non è che la massima misti cazione della natura stessa del cinema, della sua forza alienata e alienante. Per Benjamin può esistere, con la obbligata proletarizzazione dell’artista nell’epoca della «riproducibilità tecnica dell’opera d’arte», un uso di massa del cinema, cioè della macchina, qualora esso sia frutto di una società meno autoritaria, benché di massa. In ogni caso, la contrapposizione destinata a perdurare è quella immediata tra Europa-arte e America-industria. Contro il cinema-industria lotteranno registi «borghesi» isolati; registi che si vogliono «sperimentali» o «d’avanguardia»; registi che credono al cinema come «arte per le masse» in un contesto socialista oppure in contesti capitalistici dove siano presenti contraddizioni sociali assai forti con le loro esplicitazioni organizzative cui agganciarsi; scuole nazionali di breve durata. Dentro il cinema-industria si muoveranno i funzionari supini dell’industria, con gli anni trenta sia quelli dell’America sia quelli dell’Urss o della Germania o dell’Italia, proni comunque alle ideologie del sistema in cui vivono; gli artisti/artigiani intelligenti e «creativi», tuttavia nella adesione di fondo a quelle ideologie; e in ne quei nomi più rari di autori che cercano di ritagliarsi uno spazio, con maggiore o minor fortuna e autorità, mediando tra esigenze o imposizioni dell’industria e dell’ideologia dominante e una propria «visione del mondo» e del cinema.

In America, dove il sistema cinematogra co si fa rapidamente monopolio e la produzione catena, per lungo tempo non resta spazio alle iniziative individuali. Tra gli anni venti e la ne dei cinquanta, con alterne vicende, dominano il codice e la regola in una enorme impresa di socializzazione della preesistente cultura borghese (romanzo e teatro e pittura) sviscerata nelle sue strutture più essenziali e nei suoi messaggi più accettabili e blandi. Ma, per la natura stessa, industriale, del cinema resta una certa concorrenza (o specializzazione) tra case di produzione, e la necessità di continui aggiustamenti e varianti dentro il codice, nello sforzo di mantenere un pubblico organizzandone la fruizione ma anche cercando di prevederne e condizionarne i bisogni emergenti e le trasformazioni in una nuova domanda. L’epoca d’oro è per Hollywood quella degli anni trenta e quaranta. La storia dell’industria cinematogra ca americana non si distingue da quella di altre industrie se non per il fatto di smerciare, più palesemente di altri, sogni e ideologie fatti spettacolo. Dalle origini (fondazione dello «studio» Black Maria da parte di Edison nel 1893) lungo tutta la cosiddetta «guerra dei brevetti» durata no al 1908, data dell’accordo tra produttori che danno vita alla Motion Pictures Patent Company che controlla i mezzi tecnici, la produzione di lm e parzialmente il noleggio, no alla guerra (condotta, come quella dei brevetti, anche a colpi d’arma da fuoco) tra monopolio e noleggiatori rimasti indipendenti, si giunge a una prima regolamentazione statale con la legge anti-trust del 1915 (anno in cui si producono cento lm alla settimana), che spezza il monopolio e stabilisce le norme della concorrenza. Si è intanto concentrata la produzione su Hollywood e si assiste al consolidamento dell’industria nei oridi anni venti (una media di 600 lungometraggi l’anno per tutto il decennio). La grande crisi e l’introduzione del sonoro (1928-30) portano vasti cambiamenti: attraverso il controllo dei brevetti entra in scena l’industria elettrica, si acuisce il controllo delle banche, si assiste a fusioni di case di produzione, alla concentrazione dei capitali. La produzione è assorbita in poche grandi ditte

(Paramount, Fox, Warner, Rko, Mgm, le «big ve», e Universal, Columbia, United Artists, le «little three», contornate da alcune ancora più piccole, specializzate nella produzione di lm B: Republic, Monogram ecc.), che suddividono la produzione in «unità» controllate da un produttore singolo, in grado di seguire circa dieci lm l’anno programmati in «generi» (melodrammi, western, polizieschi, comici, musical, commedie…) e in livelli (A e B e cortometraggi documentari e non, per i differenti tipi di programmazione). La «casa» imprime il suo marchio, pensa alla distribuzione attraverso le proprie sale, attraverso un proprio sistema di noleggio, o in accordo con le catene indipendenti di noleggio o i singoli esercenti. Di fatto, si è ristabilito un monopolio, che si autoregola n nella de nizione, nel 1931, di un «codice di autocensura» (codice Hays) sui contenuti dei lm, su ciò che è lecito o no mostrarvi e sull’ideologia da trasmettervi, onde poter accontentare i gruppi di pressione politici o religiosi che in America proliferano. Per due decenni, quelli del trionfo del cinema su altri mezzi di comunicazione, non ci saranno che interferenze transitorie presto riassorbite nell’ordine (costituzione dei sindacati professionali, nascita di una «sinistra» hollywoodiana, concentrazione e crisi del mercato estero con la guerra, trasformazione del gusto e aggiustamenti delle ideologie e dei messaggi) e la «domanda» resterà stabile e massiccia, determinando una media annuale di lungometraggi, dopo il massimo di 1350 raggiunto nel ’28, subito prima della crisi, attorno ai 500 (350-400 negli anni quaranta, e via via di meno, no ai 150 del ’61). Questo sistema attraverserà il New Deal, la guerra, il dopoguerra, ma si troverà nel 1948 di fronte a una nuova offensiva statale, a un nuovo intervento della legge anti-trust determinato dalla necessità di regolarizzare il rapporto tra il cinema e un nuovo mezzo di comunicazione, la televisione, a tutto vantaggio di quest’ultimo. Lo stato interviene perché punta su un cavallo vincente la cui portata economica e ideologica è ben più vasta di quella del cinema, il quale tenterà inutilmente di reagire con innovazioni tecniche sin lì trascurate

(cinemascope, vistavision, schermo panoramico, tentativi di cinema in rilievo, massiccia introduzione del colore) e riorganizzandosi internamente. Le trasformazioni saranno grandi e il cinema americano entrerà in una fase, non ancora conclusa, di incertezze e crolli e successi in faticosa alternanza, nell’impossibilità comunque di ristabilire il suo primato. Neanche Hollywood è eterna. Il cinema delle origini, lo si è visto da Griffith come dalle «guerre» interne per la supremazia economica, non è certo innocente. Racconta i sogni americani e in uenza il sogno americano. Non è innocente Griffith e non lo sono neanche omas H. Ince e Mack Sennett, i due rivali che tentarono come lui la costruzione di un impero nel quale la gura del produttore si uni casse a quella del regista, o quantomeno fosse l’ispiratore e condizionatore completo delle loro produzioni. Western e slapstick narrano in ne due mondi complementari: quello supremamente ideologico della «frontiera» e quello caotico della vita contemporanea, esagerandone i tratti nell’idillio avventuroso o nello sfogo crudele e meccanico, nella tensione costruttiva e nella pulsione distruttiva. All’interno del western, nell’epica nazionalpopolare derivata dalla letteratura popolare, già intravediamo, con William S. Hart (Rio Jim) la psicologia romantica e tormentata dei personaggi di un Chandler, di un Bogart. E da Sennett si distaccano il disagio sociale dell’immigrato Chariot come il parossismo meta sico delle inutili fatiche e delle distruzioni di Laurei e Hardy. L’ottimismo all american di Douglas Fairbanks o di Harold Lloyd, di Tom Mix o Harry Carey (di quest’ultimo erediterà la sorniona ironia un Gary Cooper, da Mix la granitica solidità il più longevo dei «divi», John Wayne), degli «ingenui» Mary Pickford o Richard Barthelmess, è venato delle contraddizioni di un’ideologia (protestante, bianca, espansionista, nazionalista, imperialista) che nasconde durezze reali e contraddizioni possenti. Ancor più negli anni del consolidamento euforico di Hollywood, i ruggenti venti.

La ricchezza porta sogni più esotici, aspirazioni più sottili a una cultura «mondana», di fatto piccolo-borghese e di massa. Con la voga delle sceneggiatrici il cinema si costituisce come regno del non autentico e del non riconducibile all’esperienza quotidiana, come regno del sogno frustrante: eda Bara e Pola Negri, De Mille e Ingram, Valentino e Novarro, Jeanie Macpherson e June Mathis, la Swanson e Mae Murray costruiscono gli impossibili modelli di avventure impossibili, l’altero e pacchiano primo divismo, contrastato dal cinema degli immigrati europei - con la loro crudeltà (Stroheim) o il loro camuffato sarcasmo epicureo (Lubitsch), pur tuttavia sacri canti all’evasione. Nella progressiva crescita monopolistica del cinema americano, gli immigrati sono il cinema americano: i produttori ebrei mitteleuropei dalle fantasiose biogra e, i registi di buon mestiere o di forza ambiziosa. Dozzine che portano se non l’arte la qualità, ma che sopravvivono a Hollywood solo quando ne accettano le regole o ngono di accettarle. I più intransigenti saranno i primi a cadere: Stroheim, Murnau, Sjòstròm, Stiller. Per gli altri resta lo spazio impositivo del buon gusto «europeo» da ammannire all’America cafona, la raffinatezza formale mai troppo spinta, la crudeltà nascosta nell’ambiguo gioco delle luci e delle ombre, delle psicologie torbide o turbolente, delle ligrane amarognole. La vitalità americana li accetta, continuerà ad accettarli per piegarli comunque ai suoi voleri e perché l’Europa resta pur sempre la sua prima faccia nascosta, assieme a quella forse ancora più cupa del rimosso nazionale (gli indiani e i neri, una civiltà nata dallo sterminio e portatrice imperiale di morte). Ancora negli anni venti essa potrà esprimersi con gioia aggressiva nella commedia della jazz age (quella delle Clara Bow e delle Elinor Glyn, delle Marion Davies e Joan Crawford e delle Anita Loos, che durerà ancora col sonoro attraverso Jean Harlow e Mae West, aprendo alla più astratta commedia so sticata), e nella pleiade della scuola griffithiana (King Vidor tra epica e commedia, il melodramma popolare di Frank

Borzage, l’apprendistato spavaldo di Howard Hawks, le saghe umili di Henry King, il western espansionista di Cruze e di Ford, le imprese «autarchiche» di Fairbanks e Lloyd), mentre la testarda battaglia contro la nevrosi di un Keaton, l’eterna immaturità di un Harry Langdon, la lotta per la sopravvivenza di uno Chariot da un lato e dall’altro le plateali impotenze e mutilazioni dei personaggi di un Tod Browning ci dicono un più di verità che agli altri sembra negata, e già costituiscono una sorta di denuncia (e analisi) del mito. Nel 1928, e crowd (La folla) di Vidor - impressionante illustrazione dell’alienazione dell’uomomassa - è forse il punto più alto di questa coscienza. L’impatto col sonoro e con la parola è contemporaneo a quello con la ne delle illusioni economiche e isolazioniste: la Grande Crisi risparmierà bensì Hollywood proprio grazie alla parola e alla musica. Le invenzioni nascono quando ce n’è bisogno, ma in realtà sono lì in attesa da tempo. La ristrutturazione obbligata serve a restringere il potere, a organizzare ferreamente i modi di produzione, a codi care i generi e i messaggi, ma intanto impone con la parola l’abbandono di un divismo esotico per una maggior quotidianità dell’eroe: rappresentazione astratta di un ideale sociale diffuso, il divo si accosta all’uomo della strada, nobilitandone tuttavia le parvenze e le azioni, e per un ventennio vivrà di questa simbiosi misti cante, concentrando su di sé (in poche o pochissime varianti) apparizioni latenti e frustrazioni concretissime, più vicino eppure più lontano che mai nella sua monolitica monodimensionalità. Assieme al divo, i generi. Con buona pace degli strutturalisti, il genere esiste, anche se le sue strutture possono mescolarsi e rimandare dall’uno all’altro, e se il genere ha forza solo in quanto produce varianti, continui rinnovamenti, parziali negazioni. Generi e divismo sono il perno della ristrutturazione hollywoodiana. Contrariamente al cinema delle dittature europee, centralmente condizionato, come in Urss, anche oltre e nonostante il responso del pubblico, Hollywood vive sulla variante. La sua forza sta tutta nel

compiere la sua opera in efficace sintonia con i bisogni del sistema e con i bisogni del pubblico, da ricondurre sapientemente nell’alveo dei primi. Sono proprio i generi e il divismo a permetterglielo. Fatto certo il codice di valori cui tutta la produzione deve ispirarsi (1931); stabiliti con la divisione del lavoro generi, livelli, funzioni; incarnati in tipi astratti, in stereotipi, i modelli personi cati dagli attori - la grande macchina è pressoché perfetta. A limarla ci pensa un’istituzione secondaria e poco studiata: quella della preview, che affina gli studi sui gusti del pubblico, mettendo a confronto con l’opera realizzata e ancora inedita una piccola fetta rappresentativa di esso, a sorpresa, per saggiarne le reazioni e intervenire di conseguenza sul primo risultato, girando se necessario nuove scene, abolendone altre, dilatando la parte di certi attori. È tutto questo, fatte salve le ragioni di fondo dei detrattori, a costituire la forza di Hollywood in un’epoca in cui il cinema si costituisce come il primo dei mass-media, e il sogno americano è anche quello di fornire un unico e omogeneo modello di cultura al mondo occidentale e via via agli altri. È questo a permettere l’affermarsi, pur dentro la catena, degli «autori», siano essi sceneggiatori o registi o producers o anche divi, a seconda dei casi. Per quarant’anni, tra i venti e la ne dei cinquanta, Hollywood sarà un immenso repertorio di invenzioni e possibilità narrative bensì controllate. L’epoca è densa di incognite e la macchina dei sogni le registra, in sottofondo piuttosto che in super cie. Il western decade, dopo l’ipernazionalismo demilliano che si applicherà ormai a supercolossi-avventurosi o «storici» di oscena mescolanza sacro-profana, e aspetta per risorgere Ombre rosse (1939), perfetta metafora della sovrastruttura ideologica rooseveltiana. La lotta per la conquista della frontiera si trasferisce nei lm di avventure coloniali esplicitandovi il proprio imperialismo esterno, per un decennio, oppure si trasfonde nel lm urbano di gangster, zona aperta di lotta per il potere economico equivalente (e rispecchiante) quella per il potere economicopolitico ai livelli più alti. Lotta, anche, tra bene e male, dove i gangster (a partire dal Clive Brook dello Sternberg muto di

Underworld, Le notti di Chicago, 1927) sono romantici angeli caduti o (come in Scarf ace di Hawks, 1932, e nei suoi rivali di Wellman o LeRoy) dinamici anti-eroi bacati dalla sete di potenza. Nel melodramma è ancora la lotta tra bene e male a dominare, ma il problema è l’affermazione di sé più che il potere, la caduta per la difficoltà a essere contemporaneamente fedeli a se stessi e ai valori dominanti del conformismo comunitario; zona, anche, prevalentemente femminile, che rispecchia una contraddizione di ruolo in una società che lascia alle donne per affermarsi solo lo spazio della rivalità col maschio nelle ambizioni di potere. La commedia so sticata si costituisce invece come ideale campo, di quasi assoluta astrazione dalla realtà, per la battaglia tra i sessi - a un passo sempre, per il suo estremismo, dalla tragedia. Il musical diverrà sempre più - da Berkeley a Minnelli - la zona del sogno, tentandone un suo nevrotico riscatto poiché ne indica e accetta inconsapevolmente la necessità. Il cinema hollywoodiano si costituisce in de nitiva come zona dell’immaginario collettivo, che esso determina e da cui è determinato, e trova in questo la sua ineguagliata originalità. Dovunque, con le eccezioni della Garbo (però destinata prevalentemente all’Europa) e della Dietrich (maschera tuttavia «volgare»), il divismo richiede una democratica e igienica riconoscibilità «comune». Colonne di questo cinema sono registi come John Ford (cantore della comunità, del suo insediamento e della sua espansione), Howard Hawks (scatenato precorritore in ogni genere, ma che arriverà a dividere la sua opera in lm dove l’avventura vede sovrano un ideale di virilità e commedie dove l’eroe è aggredito dalla presenza castratrice della donna, in una diretta associazione donna-civiltà urbana), King Vidor (divenuto assertore di un’epica nazionale dei self-made-men), Frank Capra (demagogico cantore del piccolo uomo rooseveltiano in lotta contro i trust), Frank Borzage (che riscatta il melodramma nella sete di tenerezza dei suoi personaggi avviliti dalla società), Michael Curtiz (pronto a tutto, ma con scrupoli e ambiguità da sottocultura europea),

Raoul Walsh (negli spavaldi lm di un’azione essenziale e dinamica), Ernst Lubitsch (da operetta a commedia, di sottile cinismo nell’adattamento agli Usa e nei giochi delle parti), Rouben Mamoulian (sperimentatore del suono e del colore, tutto nel rinnovamento dello spettacolo), Leo McCarey (autore delle più perfette delle commedie, e più tardi dei più conformisti dei melodrammi, magari canori), Joseph von Sternberg (geniale no al delirio nei suoi inni a Marlene), William Wyler (assertore di una nevrotica e talora arida «qualità» di studio) e ancora LeRoy e Wellman, Milestone e il duo Schoedsack e Cooper (il loro King Kong, 1933, è il capolavoro casuale degli anni trenta, con l’invenzione della Grande Scimmia che è Grande Crisi, Natura, Altro, Rivoluzione…), Fleming e La Cava, Van Dyke e King, Stahl e Goulding e Cukor, autori di cui si scoprono di continuo opere efficaci, successi di genere o di divo, concretizzazioni di gusto, tocchi personali o bizzarrie casuali. Al volgere del decennio, dopo il trionfo di Gone with the wind (Via col vento, 1939) del producer Selznick e con l’entrata in guerra, gli aggiustamenti saranno ancora più evidenti. Il lm «nero» di derivazione hammettiana e chandleriana, introdotto dal debuttante Huston con e Maltese falcon (Il mistero del falco, 1941) imporrà uno stile che invaderà il lm di gangster come il melodramma, dandogli contrasti inusitati e notturni. Il lm di guerra esalterà lo sforzo della nazione. Il melodramma parlerà delle donne rimaste sole a casa. Il musical si farà più quotidiano e dilaterà i suoi soggetti e ambienti. La commedia, con Preston Sturges che anticipa Wilder, non sarà mai stata così aggressiva come in questi anni. Il western approfondirà le radici sociali dei suoi miti e introdurrà pietisticamente gure di indiani buoni. Stare al passo con le trasformazioni del paese e del mondo richiederà in de nitiva uno sforzo in direzione del realismo. I «nuovi» registi hollywoodiani - piuttosto che non gli Hitchcock dei grandi «gialli», tuttavia ricchi di una perversa capacità di mostrare il nero che il rosa levigato della fattura nasconde - saranno quelli venuti da esperienze culturali, politiche, sociali anche esterne a Hollywood. Si è incrinato l’ottimismo degli happy end, e si scoprono le strade e i luoghi

delle vere città sulla base della «novità» neorealista, e si contorcono le psicologie degli eroi in una cupezza talvolta disperata e «tedesca», parallela all’introduzione massiccia della psicanalisi. Nel ’40 Citizen Kane (Quarto potere) di Welles aveva scoperto, nella magniloquente ambiguità della forma, l’ambiguità delle gure del capitale, la sua faccia doppia e bensì unica, ora riformista e ora fascista. Ma più che l’entrata in guerra è l’uscita dalla guerra a imporre la constatazione di una morale ormai insicura dei suoi valori, che tuttavia Hollywood cerca di piegare nché può a canoni vecchi. Il «nero» (Huston, Hawks, Dmytryck, Daves, Wilder, e più avanti, con più durezza, Aldrich o il primo Kubrick) mescola le in uenze e invade i lm di reduci (Wellman, Robson, Zinnemann), di gangster (Hathaway, Walsh, Polonsky, Losey, Dassin, Rossen, Lang, Wise, Aldrich…), il western (Walsh, Daves, Wellman, e poi Mann e Boetticher) e a cavallo tra «giallo» e denuncia, tra melodramma e studio clinico, il vasto territorio in cui il genere consuma commistioni di crisi, rivelando adulti personaggi insoddisfatti e nevrotici, maschili e/o femminili (Welles, Wilder, Mankiewicz, Huston, Hitchcock, Brooks, Stevens, Preminger, Litvak, Kazan e «tutti quanti»), mentre agli inizi degli anni cinquanta sbocceranno con Brando e Dean i nuovi divi stanislavskiani del disorientamento giovanile e della sua rivolta «senza causa». L’intervento federale del ’48 non avrà fatto in de nitiva che sanzionare una crisi al suo livello politico e economico. Forse anche perché il cinema sta perdendo al suo interno la capacità di controllo ideologico sul pubblico, perché il cinema (o meglio i suoi autori) è corroso dalla trasformazione sociale del paese, dal disagio che sembra senza sbocco e che la guerra fredda e il maccartismo non hanno fatto che portare alla luce del sole, e non servono più codici Hays a regolamentarlo, perché è la stessa «idea» e identità americana a essere caduta in crisi. La televisione si è imposta come sistema centrale della comunicazione e dell’informazione e tenta ormai di inglobare il cinema nel «suo» sistema. La prima reazione hollywoodiana

(nuove tecniche) risulta impotente ad arginare l’abbandono del pubblico. Fine delle seconde visioni, proliferazioni dei produttori indipendenti, ne del «cinema B» il cui fabbisogno è ormai coperto dalle Tv, ne della caratterizzazione dei lm per casa di produzione, aumento dei costi di produzione del singolo lm, alti investimenti sul singolo lm, trasformazione del divismo anche per limitare i costi dei divi e affermazione di attori meno costosi che porteranno al cinema una scioltezza tecnica esplicitante la nevrosi del personaggio, il suo disagio psicologico nonché corporale (Dean, Brando, Newman e tutta la leva «Actor’s Studio»), nascita del regista-divo, nascita delle runaway productions e conseguente ricorso a un capitale multinazionale (nel ’61, su 150 lm americani 90 sono coproduzioni), sono conseguenze obbligate della prevalenza televisiva. Il cinema è costretto da un lato a fornire prodotti più quali cati, validi uno a uno, prodotti singoli e non seriali, mentre dall’altro comincerà a lavorare direttamente per la Tv, sia vendendole i suoi stock, sia producendo direttamente per la Tv serial e tele lm, sia fornendole macchinari e strutture. Cominciando a imitarne a sua volta i modi di realizzazione e il linguaggio (ingresso di registi formati dalla Tv nel cinema). Gli anni cinquanta sono bensì gli anni della piena maturità di Wilder, con lm quali Viale del tramonto (1950), A qualcuno piace caldo (1959), L’appartamento (1960), solide ri essioni morali sull’America; di Cukor, che dà le sue commedie più libere e i suoi personaggi femminili più intensi, e che in A star is born (E nata una stella, 1954) ri ette, tra commedia musicale e melodramma, sulla spietatezza hollywoodiana, come avevano fatto Wilder in Viale del tramonto e Minnelli in e bad and the beautiful (Il bruto e la bella, 1952), l’altra faccia del sogno dei suoi musical; del cinema di suspense vieppiù psicologica di Hitchcock; del cinema di parola e di apparenze di Mankiewicz. Hawks, Ford, King e altri «grandi vecchi» narrano una saggezza messa in crisi dai cambiamenti, mentre si affermano nella farsa l’allegro non-sense da cartoon di Frank Tashlin, nel musical la quotidianità spiritosa di Donen e Kelly. Nel western si impongono i nomi di Anthony Mann e Budd Boetticher, che portano il genere a una durezza austera e magni ca, durezza

che nasconde in Nicholas Ray un estremo romanticismo, in Aldrich una nuova propensione al cinismo, in Fuller una morale ribaltata e disastrata; mentre Kazan si perde e cerca di ritrovarsi nell’abiezione e nella giusti cazione del tradimento, fatto legge sociale e necessità del singolo. Chayefsky trasferisce dalla Tv al cinema i suoi esili canti all’uomo comune e alle sue piccole rivolte al conformismo degli «eterodiretti»; e debuttano, giunti dal teatro o dalla televisione, Frankenheimer e Ritt, Mulligan e Penn, e, giunti dalle esperienze indipendenti, Kubrick e Cassavetes. Scompaiono gli obblighi del lieto ne e dell’eroe positivo, e si affrontano progressivamente temi sino allora tabù (droga, sessualità in tutti i suoi aspetti compreso quello dei rapporti interrazziali, iniziali ri essioni sul rimosso della storia nazionale). Oltre che dagli ultimi grandi lm di Ford e Hawks, i primi anni sessanta sono segnati dall’affermazione de nitiva di Kubrick; dal ritorno di Kazan, a partire dai melodrammi sugli anni trenta, a una più sincera ispirazione; dal pieno successo di Hitchcock con Vertigo, gotica ossessione di colpa, con Psycho, che pure apre la strada allo spettacolo di una violenza senza più freno, e soprattutto con Gli uccelli (1963), di misantropica grandezza; dalla rinascita del cinema dell’orrore con Roger Corman e la sua scuola (scuola di un «cinema B» cui si formano tanti importanti registi, da Coppola a Demme, da Hellman a Scorsese); dall’affermazione di un cinema di science- ction da B ad A, cambiando di segno alle paure della guerra fredda e indagando un «altro» che è proiezione dell’oggi e delle paure di una società massi cata dalla logica incontrollabile, prima di diventare «catastro co» o di tornare a essere sogno consolatorio con Lucas e Spielberg; dall’affermazione transitoria di un regista-attore di talento sfrenato nella descrizione e catalogazione della nevrosi americana come Jerry Lewis (e Woody Allen, che debutta nel ’66, porterà il comico dalla gag visuale alla parola, scavando nella stessa materia ma prediligendo all’uomo comune l’uomo intellettuale). È nel western, però, che le novità sono più vistose. Vera e propria revisione del passato che arriverà a coinvolgere lo stesso Ford, esso avrà i suoi capisaldi in lm di

Sam Peckinpah, Arthur Penn, Monte Hellman, del redivivo Abraham Polonsky, del giovane Sidney Pollack, di Robert Altman ecc., in un’intensa e ricca stagione che ha forse aperto un anziano, Richard Brooks, con e professionals (I professionisti, 1966). Il nero e l’indiano e il messicano nel loro rapporto col bianco, la ne degli eroi, il rovesciamento delle «morali storiche», la violenza, la passata vita quotidiana, la presenza del capitale, il rapporto civiltà-natura ne sono i veri protagonisti - e permettono di ri ettere su di sé e sul proprio passato fuori dalle lontane misti cazioni, pur se a volte introducendone di nuove. Altman allargherà questa ri essione ad altri generi, e in ne al presente americano condizionato dai media. Attorno al ’70, la contestazione giovanile e hippy trova spazio anche nel cinema ( lm sulle lotte nei campus, Easy Rider, Alice’s Restaurant di Penn, Woodstock di Michael Wadleigh ecc. ecc.) ma sarà sommersa rapidamente dai lm che si richiamano esplicitamente alla conservazione e alla tradizione come quelli di Don Siegel e Clint Eastwood o che parlano del rapporto tra l’uomo e la natura in termini etologici e storici come Deliverance (Un tranquillo week-end di paura, 1971) dell’inglese John Boorman, o più platealmente esaltano la vecchia legge della giungla come Straw dogs (Cane di paglia, 1971) di Peckinpah. Il tentativo di sopravvivere con la concentrazione dello sforzo su alcuni superprodotti che richiedono enormi investimenti è stato letale per molte case (memorabili i aschi di Cleopatra per la Fox, 1960-64, del Bounty per la Mgm, 1962), e attorno alla svolta degli anni sessanta le Majors hanno dovuto aprire a massicci interventi bancari, diventare parti di grosse holdings nanziarie: la Universal della Mca (1963), la Paramount della Gulf and Western (1966), la United Artists della Transamerica (1967), la Warner della Seven Arts (1967), la Mgm in ne dell’industria alberghiera Kerkorian… Sempre transitoriamente, prima che il balletto nanziario si scateni di nuovo, senza sosta. Ormai l’agonia di Hollywood si è praticamente conclusa, il cinema americano si trasforma per

sopravvivere, e non è più «Hollywood». D’ora in avanti l’affannosa ricerca del successo attraverserà poche strade: quella abituale del supercolosso internazionale, adatto a un pubblico mondiale, di derivazione letteraria o teatrale da un precedente successo e più raramente elaborato direttamente per il cinema, pochi titoli in grado di reggere annualmente su un mercato vastissimo; quella del piccolo prodotto «giovane» sul quale investire poco, tanto da permetterne la realizzazione, ma dal quale, se il gioco riesce, ricavare il massimo (è il caso innanzitutto di Easy Rider di Dennis Hopper nel ’69, che fa da battistrada anche per i lm di Scorsese, Coppola, De Palma e tanti altri), mentre il mercato tornato più libero e differenziato permetterà la produzione-distribuzione di lm marginali per un pubblico marginale (i neri, le donne, la nuova sinistra, le avanguardie, così come i lm di violenza o pornogra a). Al centro dell’ultima grande stagione dell’«impegno» hollywoodiano ci sarà, dopo la rivolta degli studenti e dei neri, la guerra del Vietnam come collettiva lacerazione interna (i lm di Coppola, Kubrick, Cimino e tanti altri). Negli anni della restaurazione reaganiana dominerà invece la paura del complotto, la s ducia di tutti verso tutti (La conversazione di Coppola). Nel corso dei sessanta si è radicalmente trasformato il sistema del divismo - i cui ultimi nomi mitici sono stati quelli di James Dean e di Marilyn Monroe, ma perché, morti giovani, concentreranno su di sé le immagini del disorientamento giovanile e di una soggezione femminile usata dai mass-media, di cui si comincia ad avere maggiore coscienza - e il divo si trasforma con Jane Fonda, Jack Nicholson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Robert De Niro, Johnny Depp, Meryl Streep, Jessica Lange, Tom Hanks eccetera in attore professionalmente agguerritissimo, e sovente ottimo uomo o donna d’affari coinvolto direttamente nella ideazione, produzione, lancio di un lm grazie a un potere contrattuale enorme benché uttante, ma senza attorno l’alone profondo e duraturo dei divi del passato. Le pulsioni di un pubblico disomogeneo e preso, con la caduta delle grandi speranze degli anni sessanta e della rivolta alla guerra del Vietnam, in una sorta di ricaduta nel

privato e di narcisismo di massa, si cristallizzano attorno all’immagine di un divo provvisoriamente, transitoriamente. Ma lo show continua… ed ecco dai margini aggredire il centro del sistema dello spettacolo i nuovi autori abilissimi - gli Steven Spielberg o i George Lucas che da giovani cine li universitari giungono in breve tempo alla costruzione di imperi economici e tecnologici, e nanche a rivaleggiare con la più salda delle antiche fabbriche di immagini, quella di Walt Disney con il suo stabile pubblico infantile; ecco, tra gli «autori», i Coppola e gli Altman, gli Scorsese e i Demme, ed ecco l’esplosione dell’horror come genere il più rappresentativo della difficoltà del vivere e dell’attrazione che la morte ha sull’America caotica di ne secolo (con i lm del canadese David Cronenberg, il più intellettuale e inventivo di tutti, di Brian De Palma, verso il suspense e il remake, e dei mediocri Carpenter, Hooper, Craven eccetera, adattanti spesso le opere di Stephen King); ecco l’indiscutibile crescita di Clint Eastwood regista dolce e spietato del bene e del male americano, l’unico il cui percorso sia paragonabile ai «classici» hollywoodiani; ecco lm di autori che si affollano e assommano nella controproposta al rosa, spesso venati di blande consolazioni fantastiche - con bambini che fanno gli adulti e gli adulti che fanno i bambini, con i morti che non muoiono e i sogni della middle class che si realizzano; ecco una comicità stridente e spaccatutto capitanata dai Blues Brothers (1980) di John Landis e dagli attori dei talkshow televisivi, aggressivi e volgari, anche neri e per pubblici in ne interrazziali. Ed ecco in ne, dopo i disorientamenti portati nella coscienza del paese da governi destrorsi che distruggono le acquisizioni pur scarse dello stato assistenziale, e con il perpetuarsi di con itti interetnici che coinvolgono ormai anche nuove immigrazioni e nuove minoranze non disposte ad accettare i modelli culturali preparati per loro e che mettono in discussione non le radici ma le rami cazioni dell’american way of life (e sarà stato il nero Spike Lee ad aver raccontato meglio e con più confusa dilacerazione di modelli linguistici questa nuova realtà), ecco nella continua rincorsa delle tecnologie, nell’esplosione dell’elettronica, nella divulgazione delle cassette

che riproducono tutto, nella marginalizzazione delle esperienze, nella vivacità degli apprendimenti universitari, nell’apertura comunque e sempre di chances per i più dotati o i più furbi - ecco una generazione di autori che innova stavolta davvero i canoni della narrazione, ecco i «post-moderni» ironici, citazionisti, sferzanti, violenti, paradossali, angosciati e angoscianti anche quando sembrano far di tutto per nasconderlo, ecco i David Lynch di Blue velvet (Velluto blu, 1986) e Wild at heart (Cuore selvaggio, 1990), i fratelli Joel e Ethan Coen di Mille’s Crossing (Crocevia della morte, 1990), di Barton Fink (1991) e soprattutto di Fargo (1995); i Quentin Tarantino di Pulp Fiction (1994), che rendono dell’America la sua immagine più adeguata a un’epoca di insensatezze e brutalità, che respinge ai margini; gli Abel Ferrara (e Funeral, Fratelli, 1996), il più estremo e rigoroso nella sua convinzione tragica e morale. Ed ecco gli autori di questa epoca (i Jim Jarmusch, gli Hal Hartley, i Gus Van Sant ecc.), drop-out insoddisfatti che «non accettano» e vengono respinti, e invece che seguire grandi sogni ne inseguono di piccoli, e scavano nell’individuo e nella sua crisi, vagando per vicoli o on the roads alla ricerca di appigli sentimentali, ambientali, e soprattutto morali.

19. Howard Hawks L’accusa di ripetersi che veniva rivolta agli ultimi lm di Hawks era risibile, poiché Hawks ha continuato a ritornare sulle cose già dette e a un modo di raccontare la cui fascinazione derivava dallo scavo fedele sulle ispirazioni della prima maturità, per approfondire, giocare e avanzare in mezzo alle acquisizioni fondamentali. Come i grandi autori di un’epoca intiera, Hawks procedeva per piccoli passi muovendosi sullo stesso terreno e battendo gli stessi sentieri, girando attorno agli stessi personaggi, tornando sempre agli stessi temi. I suoi ultimi lm, due western, El Dorado (1967) e Rio Lobo (1970) somigliavano come cavalli della stessa razza a Rio Bravo (Un dollaro d’onore, 1959), al precedente e big sky (Il grande cielo, 1952) e ovviamente al capostipite (nel western) Red River (Il fiume rosso, 1948). Ma somigliavano fortemente anche a A girl in every port (Capitan Barbablù, 1928), a Only angels have wings (Avventurieri dell’aria, 1939), a Air Force (Arcipelago in fiamme, 1943) che western non erano, e che parlavano di marinai e aviatori a riposo e in azione. Del grande tema di Hawks, l’amicizia virile, è presente nelle opere citate soprattutto l’elemento della solidarietà, sopra quello della rivalità che caratterizza invece un’altra lista di bei titoli - e dawn patrol (La squadriglia dell’aurora, 1930), Tiger shark (Tigri del Pacifico, 1932), Today we live (Rivalità eroica, 1933), più esteriori, e poi Barbary Coast (La costa dei barbari, 1935), Come and get it (Ambizione, 1936, alla cui regia collaborò William Wyler), e outlaw (Il mio corpo ti scalderà, 1943, da lui ideato ma portato a termine dal produttore Hughes) eccetera. E il gusto della vita, l’amicizia, l’azione - tre cardini d’ogni western hawksiano - qui certo non mancano, unitamente a quegli elementi di commedia che l’humour dialogante e affettuosamente crudele, popolare e mai volgare, spande anche sulle opere più nere come Scarface (1932), e

road to glory (Le vie della gloria, 1936), e big sleep (Il grande sonno, 1946), ostile com’è a una de nizione stretta di genere. A essa sfuggono anche, per una caratterizzazione «oltranzista», le più «morali» delle sue opere, quelle che hanno scelto la strada della commedia. L’humour hawksiano è ben presente, mettiamo, in Un dollaro d’onore o El Dorado, in cui si riproducono come in un paese ideale della geogra a e della storia hawksiane i contrasti, le situazioni, le prove, le schermaglie di un universo virile. Il ruolo della donna è sdoppiato in El Dorado nella ragazza di saloon e nella giovane pioniera, senza distinzione di merito tra loro ma semmai di saggezza; in Un dollaro d’onore Angie Dickinson era sola a interferire con il quartetto d’età del lm, e conquistava l’adulto per testardaggine, sopportazione, per accanimento. Si guadagnava comunque un posto non di prim’ordine ma di secondo, al anco di Wayne, l’uomo sui quaranta, e venendo dopo l’adolescente che ha da imparare ( glio), il trentenne caduto (fratello minore) che deve ritrovarsi, il settantenne (padre) tenero e petulante. La donna di Hawks ha pochi volti simili, tra loro conseguenti: è la bella intrigante che vuol distruggere una grande amicizia, e che è spazzata via nel nale; è la bella non intrigante che si preoccupa di non distruggere l’amicizia e l’uomo, e riesce a passare dall’uno all’altro di due amici cosciente della prevalenza dell’amicizia sull’amore; è la disincantata spiritosa che si dimostra magni ca collaboratrice o sa imporsi senza impicciare. Ma in El Dorado, nonostante la certezza del connubio di Wayne con la ragazza del saloon, il nale non può che mettere in scena i due protagonisti del lm, poiché loro, in un mondo che non ha rinunciato all’avventura, sono i due eroi, e la vera coppia del lm. Siamo sempre sul terreno dell’azione, dell’avventura, del rischio, in cui per Hawks la donna sente la sua inferiorità di fronte all’uomo e l’accetta. L’universo dei lm bellici, polizieschi, avventurosi, western, è un universo eminentemente virile, la donna vi ha posto solo se accetta questa realtà e vi si adegua intelligentemente, solo se il suo posto se lo sa guadagnare. Ma siamo ancora in un mondo ideale, o in un mondo passato, o in un mondo straordinario

(come nei lm di guerra) che non ha somiglianze con la vita normale. Nella vita normale, cioè nella civiltà americana contemporanea, per Hawks la donna ha il sopravvento, l’uomo è sussidiario, l’iniziativa e l’avventura sono assenti o non sono più sua prerogativa. I lm sociali di Hawks sono le commedie. I lm crudeli di Hawks sono le commedie. I lm misogini di Hawks sono le commedie. È bene insisterci, e insistere ancora sull’equivalenza donna castratrice-civiltà di massa, poiché essa è in Hawks fondamentale. Hawks, uomo dell’Ottocento, uomo «libero», secondo gli schemi di un’America pionieristica, reagisce come può alla oppressione di un sistema appiattente, e la sua reazione è innanzitutto quella prima, istintiva, dell’uomo che si vede privato delle sue prerogative, e perciò stesso assoggettato tra gli altri, ridotto dal sistema a impiegatuzzo o numero, in pantofole insomma, e pronto a subire la sua più generale castrazione anche sul terreno più speci co della virilità, nella sua chiave sessuale. Rosalind Russell, il duo Marilyn Monroe e Jane Russell (l’una bionda e frigida, prototipo della caccia all’oro; l’altra mora e sensuale, prototipo della caccia al maschio) - in Gentlemen prefer blondes (Gli uomini preferiscono le bionde, 1953), Carole Lombard, Katharine Hepburn, la coorte di disinibite fanciulle di Man’s favorite sport (Lo sport preferito dell’uomo, 1964), dominano e schiacciano il professore e l’impiegato e il commerciante, che abbia i tratti di Cary Grant, e la sua vana difesa ironica, o quelli di Rock Hudson, e la sua molliccia e totale inadeguatezza… Soccombe John Barrymore a Carole Lombard in Twentieth Century (Ventesimo secolo, 1934), soccombe Gary Cooper a Barbara Stanwyck in Ball of fire (Colpo di fulmine, 1941), soccombe Cary Grant a Katharine Hepburn in Bringing up Baby (Susanna, 1938), a Rosalind Russell in His girl friday (La ragazza del venerdì, 1940), a Ann Sheridan in I was a male war bride (lo ero uno sposo di guerra, 1949) ed è ridotto, dalla studiosità e dalle donne, a regredire no alla prima infanzia in Monkey business (Il magnifico scherzo, 1952).

Come Hatari (1962), To have and have not (Acque del Sud, 1944) e Lo sport preferito dell’uomo, El Dorado rappresenta nella lmogra a hawksiana uno dei lm più spezzettati, punteggiati, progredenti per piccoli tocchi e scenette con una certa individuale autonomia, sulla linea retta della velocità. Un dollaro d’onore tanto era stretto in un tempo e in uno spazio precisi (pochissimi esterni, un solo campo d’azione, due o tre ambienti massimo: il saloon, la prigione, la strada, l’albergo) e in un’evoluzione drammatica concentrata e accanita, tanto rissoso e divagante e sciolto è El Dorado, in cui tutti gli elementi dell’altro vengono ampliati o ristretti. Le costanti, oltre ai temi, stanno proprio nell’ironia dei personaggi nei confronti di se stessi e dei loro sentimenti, nel ri uto del magniloquente e del melodramma, nell’accentramento minuzioso avvertibile solo nell’insieme e non nel particolare, di una concentrazione diversa attorno a un tema nuovo, o almeno portato innanzi con più rilievo, che è il tema della vecchiaia. Nel mondo ideale di Hawks, la vecchiaia ha sempre avuto un posto onorevole e altamente simpatico, caratterizzato da alcune (ironico-affettuose) qualità-difetti, ma pur sempre in un ruolo attivo e tutt’altro che patriarcale. Il ruolo di un eguale, un po’ meno vigoroso e con qualche ritegno di meno, ma quello di un pari che ha il suo posto e la sua necessità. Hawks è nato nel lontano ’96 a Goshen, Indiana, e morirà a Los Angeles nel 1977. Quando il suo arco sta per chiudersi, la stessa imperturbabile sanità sembra però muovere i suoi personaggi come il regista. Senza retorica dell’età matura e senza nessun elemento di esaltazione o di abbassamento della vecchiaia, l’adulto trasmette al giovane quello che sa, e guida il coetaneo all’acquisizione della sua stessa serenità, oltre le «cadute» del dubbio, dello scontro dei sessi, della perdita di ducia. Le stampelle, i reumatismi, i ri essi meno pronti, divengono così al limite - un nuovo elemento negativo da tener presente nella lotta quotidiana di agguati e di s de. Gli eroi di Hawks si avviano verso la morte senza temerla, considerandola come un compimento inevitabile, che d’altronde è stato così spesso s orato, col quale si ha una totale familiarità, il cui rischio è così scontato, che esso nisce per essere un elemento di

imprevisto di più, come gli altri, alla pari degli altri. Per questo l’amicizia e la pietà non provocano mai il pianto sul morto: quel che è capitato a lui poteva capitare all’altro, e allora il comportamento reciproco sarebbe stato necessariamente lo stesso. Il mondo di Hawks è un mondo irrealistico, salvo che nelle commedie. Di qua la vita eroica, di là la vita borghese. Di qua il prevalere (positivo) dell’uomo, di là quello (negativo) della donna. Di qua, soprattutto, una ideale loso a della vita e dell’azione che risale a un’epoca nita. La vita eroica, la frontiera, sono scomparse. Restano così al regista che in essa si è fatto, per essa si è fatto, di essa si è imbevuto, le sole soluzioni attuali dell’avventura, nei marginali come in Hatarì! o, altrimenti, sul piano delle esperienze collettive, quella dell’avventura di guerra. E su questo piano, come e più che i suoi grandi coetanei, i Ford e gli Walsh, la falsa coscienza di un americanismo aretorico, schietto, attivo e senza dubbi, si presenta con tutto il suo fascino, tutta la sua ambiguità: e insomma con tutto il suo orrore. L’efficienza del lavoro ben fatto, e più che lavoro eroico lavoro libero, scelto in situazioni libere dall’uomo semplice e diretto che non si pone domande sulla giustizia o ingiustizia di quel che fa, convinto com’è che i suoi ideali siano la giustizia in assoluto. La fedeltà alla scelta compiuta una volta per tutte. La sicurezza del giusto, insomma. Che debbono necessariamente esprimersi nell’azione, e dunque, oggi, nella guerra. Senza mai ri ettere sul torto e sulla ragione, e sulle motivazioni più profonde. La salute americana diviene così necessariamente la morte altrui. Il sergente York (Sergeant York, 1941) tirava al tedesco (con atroce parallelismo) con lo stesso gusto sportivo con cui tirava al tacchino sulla piazza del villaggio nei giorni di festa. Pancho Villa in Viva Villa! (1933, terminato da Jack Conway) faceva la rivoluzione (unico esempio di attività rivoluzionaria nella lmogra a di Hawks) per scaricarvi i suoi umori vitali e la sua frenesia di movimento. Il dovere, per quanto in sordina, guidava i combattenti e gli aviatori. Con la stessa imperturbabile «salute», Hawks si apprestava verso la ne della vita a girare un lm sul Vietnam come nuova occasione per il suo eroe di

mettersi al servizio non tanto di una patria o di un’idea, quanto di una concezione americana e «virile» dell’esistenza. La destinazione e il compimento dell’uomo sono nell’azione. Chi si piega, chi cede al dubbio e all’incertezza, allo scrupolo o al rimorso, è presente nella lmogra a di Hawks con il personaggio alla Mitchum-Martin degli ultimi lm, controaltare a quello di Wayne, e prima coi momenti di esitazione, presto superati, dei protagonisti positivi. Caduto nel peccato del dubbio, Mitchum va aiutato a risollevarsene, per acquistare nuova sicurezza, e dunque nuova efficienza. L’eroe viene messo in campo nei suoi istanti di dubbio, di freno, in rapidi brani, ma per vederli superati nella ritrovata ducia e assenza di paura, cioè, per Hawks, maturità. Ma è evidente che quest’itinerario morale è l’inverso della libertà. Hawks, uomo d’altri tempi, venne sopravanzato dai registi della crisi (i Kazan, i Brooks) e del dubbio; o dai negatori off-Hollywood. Resisteva perché egli, con Ford, era il cinema, la prima e fondamentale concezione del cinema come azione. Ma la sua morale dell’azione era diventata indifendibile. Egli ha saputo suscitare la nostra nostalgia (maschile) per un mondo chiaro di naturalezza e movimento, privo di dubbi. Ma il mondo non era affatto cosi semplice e chiaro, e Hawks - quintessenza dell’America dell’infanzia, dell’America come infanzia - non era più, né lo era mai stato, nostro contemporaneo. Dean Martin in Un dollaro d’onore o Robert Mitchum in El Dorado che si aggirano testardi per la cittadina di frontiera mossi dal desiderio di riconquistare il paradiso perduto delle certezze, ci sono sembrati in nitamente più vicini dell’imperturbabile John Wayne uguale a se stesso e contento di se stesso, in grado di proiettarsi, con la spavalda convinzione di essere nel giusto, nel massacro tecnico e preciso di cattivi che potevamo essere anche noi, stranieri, diversi da lui, e di tutti coloro che non riconoscessero il suo diritto al comando e al dominio.

20. Alfred Hitchcock Il «caso Hitchcock» appassionò e divise la critica negli anni cinquanta e sessanta, stimolato dalla devozione che votarono al «maestro della suspense» i giovani critici della nouvelle vague, in testa a tutti Truffaut, che gli avrebbe dedicato un grande libro-intervista con il quale fu obbligatorio confrontarsi anche per i critici avversi e per quelli delle generazioni successive. L’algida perfezione dei meccanismi narrativi e la sapientissima costruzione di ogni sequenza, anzi d’ogni immagine, in rapporto a un testo che avrebbe dovuto intrigare, avvolgere, sorprendere e mantenere in stato d’ansiosa allerta lo spettatore, era frutto di una visione del mondo, una visione d’autore? O non soltanto somma abilità professionale, come dicevano i critici «contenutisti» della sinistra, gli anti-americani della guerra fredda, illustri materialisti e illustri idealisti? La risposta stava nei lm, che nessuno - prima della «politica degli autori» - aveva saputo studiare con la dovuta attenzione, così come quelli di altri grandi considerati solo mestieranti per il classicismo della loro scrittura. A costoro si cominciò a rendere giustizia a partire dalle pagine dei «Cahiers du cinema» stimolati e cresciuti da André Bazin, fucina di nuovi registi ma prima ancora di approcci nuovi a un’arte del Novecento, la più contaminata con le esigenze dell’economia e della cultura di massa. Alfred Hitchcock (Londra 1899-Los Angeles 1980) fu l’«Ernani» di una fondamentale battaglia critica, che vide da un lato una pervicace ottusità attenta solo al sublime e alla denuncia, e dall’altro un’esaltazione a tratti eccessiva, nello scovare, approfondire e giusti care i moventi e le ragioni di uno stile. Quando nel 1940 Hitchcock sbarcò negli Usa, chiamatovi dall’accorto Selznick, era già un regista affermato. Veniva dalla gavetta, conosceva molti dei mestieri del cinema e in un soggiorno agli Ufa berlinesi aveva visto come lavoravano

i Leni e i Lang. Nei suoi primi lm s’era mosso senza regola alla ricerca, più che di stile, di un rapporto col pubblico. Il cinema muto, con le sue essenziali metafore visive e le sue costruzioni di montaggio, è per lui la vera scuola. I «generi» - la commedia, il thriller, ma anche il melodramma in costume e la piccola storia sentimentale - il terreno di formazione e di battaglia. e Lodger (Il pensionante, 1926) fu il suo primo successo nell’esercizio della suspense, seguito da Blackmail (Ricatto, 1929) e Murder (Omicidio, 1930), che aprivano ai successi degli anni trenta: il primo e man who knew too much (L’uomo che sapeva troppo, 1934, rifatto con maggior maestria nel ’56), e 39 steps (Il club dei 39, 1936) e e lady vanishes (La signora scompare, 1938), riuscitissimo esercizio nel genere grazie a parentesi di humour in cui eccellerà rinnovando la compassata distanza e la fredda salacia della tradizione britannica. e secret agent (Amore e mistero, 1936) era adattato dalle storie di Ashenden l’inglese di Maugham, modello della moderna spy story su cui crebbero Greene e Ambler, ma solo parzialmente seguito da Hitchcock (gli scambi di identità, i paradossi comportamentali), che nell’adattamento di un classico come L’agente segreto di Conrad - Sabotage (Sabotaggio, 1937) - non colse la lezione più profonda dello scrittore ma impresse il suo marchio in alcune magistrali sequenze e nella descrizione del rapporto tra una moglie sottomessa a un marito che scopre essere spia, e assassino. A Hollywood trionfò con Rebecca (La prima moglie, 1940), neo-gotico e «tanto inglese» e con Suspicion (Sospetto, 1941), bensì sminuito da un rivolgimento nale (il marito che la protagonista sospetta voglia assassinarla risulta, contro ogni attesa, innocente); divertì con due movimentatissimi lm di spionaggio di puro intreccio come Foreign correspondent (Il prigioniero di Amsterdam, 1940) e Sabotatori (Saboteur, 1942) nei quali s’incontrano sequenze da manuale - il comizio sotto la pioggia con omicidio in mezzo agli ombrelli nel primo e nel secondo la caccia al cattivo in cima alla Statua della Libertà -; sbalordì per un esercizio di bravura come Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944) il cui unico ambiente è una scialuppa di salvataggio in mare aperto con otto personaggi di classi diverse

e un prigioniero tedesco (un altro esercizio, bensì su tema più morboso e malsano, sarà nel ’48 e rope, Nodo alla gola, teatrale unità di tempo e luogo tutta in piani sequenza, e un altro ancora Dial M for Murder, Il delitto perfetto, 1954, realizzato per le tre dimensioni nella breve epoca in cui furono in voga) e commosse con l’omaggio alla nascente moda della psicanalisi resa romantica dalla calda presenza di Ingrid Bergman con Spellbound (Io ti salverò, 1945), un lm arricchito inutilmente di incubi disegnati da Salvador Dalí. È forse il successo ad alienargli il favore della critica, un successo accresciuto dai trion della trasmissione televisiva che negli ultimi anni cinquanta produsse, introducendo episodi da lui soltanto supervisionati e prefati. Uomo di spettacolo, Hitchcock aveva compreso alla perfezione le regole puritane della morale statunitense e le aveva accettate a partire da un cattolicesimo originario che credeva nel peccato e nella colpa e non credeva nell’uomo. Con la spietata descrizione della piccola comunità provinciale al cui interno cova la follia - Shadow of a doubt (L’ombra del dubbio, 1943) scritto con ornton Wilder - e con Notorious (1946), storia di spionaggio che vede un agente segreto far sposare a un criminale nazista la donna che ama, pur di incastrarlo; con e Paradine case (Il caso Paradine, 1947), dramma giudiziario e melodramma di rara cattiveria, distorto nella sua forza dalla paura del «codice Hays», e con Under Capricorn (Il peccato di lady Considine, 1949), omaggio alla bravura e al fascino della Bergman ma melodramma prolisso e macchinoso; con I confess (Io confesso, 1953), sui dilemmi faticosi di un prete che sa e non può dire, e con la vacanza di un humour nero molto meccanico di e trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955) che ancora irride un generale cinismo di piccola gente simpatica, Hitchcock approfondisce, ora bene ora meno, i suoi temi, il suo modo di strutturarli. Questa bravura è ormai retta dalla costruzione preventiva in story board (dal pre-disegno di ogni inquadratura affinché nulla sia lasciato al caso) e da un uso accortissimo del commento musicale, in chiave sinfonica post-romantica, espressionista, e da ultimo da una calcolata precisione del colore in funzione della interna tensione che nei

lm a venire sempre di più ri uterà la banalità del «who did it?» per procedere con logica conseguenzialità verso nali che solo raramente sono davvero liberatori. Si precisa una dimensione quasi di aba, una scena di personale moralità talora scostante nella sua misantropia e, per esempio, nella sua latente o espressa misoginia. All’autore interessa il modo di raccontare più che il senso palese del racconto, e la convinzione che «il dramma è la vita liberata dai momenti di noia», ma assieme ai grandi «divertissements» che sono To catch a thief (Caccia al ladro, 1954), il secondo Uomo che sapeva troppo, North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) e, benché più affaticati, gli ultimi Frenzy (1972) e Family plot (Complotto di famiglia, 1976) girati nella vecchia patria, e lasciando da parte due acchi lm nostalgici di guerra fredda come Torn curtain (Il sipario strappato, 1966) e Topaz (1969), la grande stagione di Hitchcock comprende alcuni straordinari esempi di precisione formale, di per sé rivelatrice di convinzioni e contraddizioni morali, esploratrice di rapporti tra esseri umani in una società sempre durissima. Strangers on a train (L’altro uomo, 1951), Rear window (La finestra sul cortile, 1954), e wrong man (Il ladro, 1961, di stile dimesso, oggettivo, grigio come il suo protagonista e probabilmente il lm in cui più Hitchcock si è accostato al problema del caso e della grazia), Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), Psycho (Psyco, 1961), e birds (Gli uccelli, 1962), Marnie (1964, benché appesantito da una psicanalisi primaria) sono titoli indimenticabili per esercizio di stile e intensità di messaggio. La sua esplorazione dell’umana per dia e cattiveria, che va dalla quotidiana repressione e dall’abituale meccanismo della giustizia alla esplorazione della follia, e sfocia nella vendetta degli uccelli a danno di un’umanità ignava e mediocre prigioniera dei suoi egoismi. Questi lm sono popolati da un’umanità sempre alquanto spregevole, e anche i suoi innocenti non sono immuni dalla colpa (si pensi al prete di Io confesso, al musicista uomo qualunque di Il ladro). Sono uomini disposti a tutto per interesse, sete di potere o per tensione al male, donne frigide e snob, maniaci senza riscatto visti non con l’occhio della

constatazione tuttavia partecipante (pensiamo a Bunuel, a Lang), bensì con quello di un’inveterata antipatia vittoriana, senza prospettive che di condanna. Che Hitchcock, in ne, si metta anche lui nella bolgia non serve a renderlo più vicino poiché mai ha tentato di scavare dentro di sé, di mettersi in discussione, convinto invece dei suoi poteri di voyeur al servizio di altri voyeurs. I lm più sintomatici del suo atteggiamento e probabilmente i suoi capolavori restano, in questo senso, La finestra sul cortile, La donna che visse due volte, Gli uccelli. Nel primo miserie e squallori quotidiani di una povera umanità sono visti nei loro momenti peggiori da un fotoreporter voyeur, nel secondo, dal taglio onirico e gotico di rara maestria stilistica, un poliziotto aerofobico e morboso porta alla morte la donna che ama, complice di un efferato omicidio, dopo averla quasi creduta la reincarnazione di un’altra; e nel terzo una comunità infognata nelle sue mediocri nevrosi e nei suoi pregiudizi si avvia a venir distrutta da una rivolta di uccelli che mirano innanzitutto agli occhi. Ma in questi lm la misantropia di Hitchcock è come riscattata da un estremismo senza scampo.

21. Max Ophüls Nato nella Saar, metà tedesco e metà francese, Ophüls (Saarbriicken 1902-Amburgo 1979) ha diretto lm in Austria, Francia, Germania, Italia, Olanda, Stati Uniti, ma ha avuto la sua patria d’elezione in una Vienna che non ha potuto conoscere: quella della decadenza e della morte dell’impero asburgico, il «mondo di ieri» evocato con immensa nostalgia da Stefan Zweig e da tanti altri che a quel mondo erano sopravvissuti. Al contrario dei grandi della letteratura (i Musil, Roth, Broch, Doderer…), del teatro (Schnitzler), della pittura (Schiele, Klimt), della musica (Schònberg), del giornalismo (Kraus), nonché, a posteriori, del cinema (Stroheim, Sternberg, Wilder…) l’in uenza di quella ricchissima epoca egli non l’ha sperimentata, e l’ha subita per scelta, per mediazione artistica. A livello, insomma, di mito intellettuale e non per concrete radici. Qui sta l’originalità e forse anche il limite del suo cinema, uno dei più affascinanti e sottili che si conoscano. La sua opera ruota attorno a Vienna, a una Vienna immaginata e idealizzata scelta come patria dell’anima. Il suo vagabondare di paese in paese e di cinematogra a in cinematogra a a essa ritorna, oltre ogni suggestione diversa, e da quel sogno trae linfa. Ebreo senza casa, sbattuto qua e là dagli anni bui d’Europa, il suo «lontano da dove» è stato, per vocazione, «lontano da Vienna»: una Vienna che fondesse, come in un manuale del perfetto mitteleuropeo, la leggerezza parigina e la concretezza berlinese. Il suo apprendistato avvenne nel teatro. Portò sullo schermo, più tardi, Goethe e Maupassant come Colette, Salvator Gotta e Louise de Vilmorin, ma trovò il suo alter ego in Schnitzler, adattandolo e rileggendolo in chiave di nostalgia. Se ne servì per Liebelei (Amanti folli, 1933) da Amoretto, e per La ronde (1950) da Girotondo. In Amanti folli quella che per l’ufficialetto era un’avventura passeggera, per la ragazza

proletaria e sognante che ha fatto innamorare è il punto culmine dell’esistenza e prelude ineluttabilmente, con l’abbandono di lui, al suicidio. Il balletto degli incontri sessuali di La ronde propone in molte varianti la vanità del sesso senza l’amore, la fragilità del desiderio. La brutalità di Schnitzler è smorzata più che da una sorta di romanticismo in ritardo, dalla nostalgia del romanticismo, dall’incapacità del regista di non commuoversi sui suoi personaggi, capendoli e amandoli, più che dal suo cinismo che, se c’è, è frutto di partecipazione alle scon tte della vita e della morale, è saggezza di moralista. Amanti folli fu girato a Vienna con attori e tecnici viennesi e tedeschi; La ronde a Parigi, tutto in studio, come in studio ma a Hollywood fu girato un altro lm «viennese», tratto da un romanzetto del già citato Stefan Zweig, Letter from an unknown woman (Lettera da una sconosciuta, 1948). Immagini di una Vienna ripensata e sognata sono il cortile dove si svolge gran parte della vicenda e le viuzze che lo circondano, i lussuosi teatri e saloni dei ricchi e in ne il Prater delle piccole meraviglie dove si può, seduti in una carrozza ben ferma, fare il giro del mondo grazie a vedute caratteristiche che scorrono fuori dal nestrino come in un lm incantato. Vi si narra di un piccolo irt, un amoretto in più per lui frivolo pianista ma non per la fanciulla povera che lo idolatra. Da quell’incontro ella ha un glio, ha la vita cambiata. Finché, morente, non gli scrive dal suo misero letto d’ospedale la lettera che ricostruisce una vicenda, un incontro che lui ha bellamente dimenticato. Sul fondo, il gioco delle classi e dei rapporti di potere - sociali e sessuali - è così evidente che non si ha bisogno di insisterci. E il gioco barocco degli ambienti, degli accessori, dei costumi, i movimenti di macchina la cui ampiezza ed eleganza nessun regista è forse riuscito a eguagliare. Questo lm esemplare e perfetto, di decadenza e di ambigua e malinconica nostalgia, è pervaso come gli altri da un’intuizione tragica e desolata dell’esistenza. Sempre, nelle opere di Ophùls, c’è al centro una precisa tematica decadente; la morte dietro il piacere, il corrompimento dei sensi e dei corpi, l’amore sostituito dal desiderio e da esso negato e ucciso,

il tempo che fugge lasciando segni irrimediabili… Ophùls concentra gli effetti di questa logica nei personaggi femminili, le vere vittime del crudele gioco dell’illusione amorosa: Joan Fontaine nella Lettera, Gaby Morlay o le «pensionanti» della Casa Tellier in Le plaisir (Il piacere, 1952), Joan Bennett in e reckless moment (Sgomento, 1949) al cui anco è un James Mason votato al sacri cio per lei e per la sua triste irraggiungibilità, la frivola Danielle Darrieux in Madame de… (I gioielli di Madame de…, 1953) e soprattutto Martine Carol in Lola Months (Lola Montez, 1955). La leggerezza, la volgarità, l’egoismo degli uomini, la crudeltà di un ordinamento sociale ben presenti anche se mascherati dietro la suprema eleganza degli ambienti, dietro le elegantissime movenze della macchina da presa - rinviano sempre alla presenza dominante della morte e alla fuga del tempo. Lievità e disincanto, fugacità dei sentimenti maschili (con l’eccezione citata) e profondità dolorosa nei femminili, gusto del passato e del «piacere» e senso dell’effimero; e dietro la maschera giovanile e carnevalesca del Vecchio del Piacere c’è il volto della morte, dietro ogni ronda c’è la corsa del tempo, l’approssimarsi di una funerea corruzione. Lola Montez (a colori, e purtroppo manomesso dai produttori) rimane il suo lm più ambizioso. I suoi temi vi si concentrano in un’immane scenogra a di teatro nel teatro al cui centro campeggia la donna-spettacolo, Lola Montez, una donna nita: la scandalosa ex amante del re di Baviera è mostrata al pubblico da un imbonitore-regista (Peter Ustinov) secondo una logica che è quella dello spettacolo nella nostra società contemporanea, dello spettacolo e dei media. Davanti alla donna scorrono a ritroso nel tempo gli uomini e gli episodi della sua vita, in un gioco tragico e simultaneo di presente e di memoria, di nzioni e di storie vere, di esibizionismo obbligato e di doloroso martirio di una donnaoggetto, che è oggetto ora di curiosità e di commercio. Dietro il rigoglio decorativo e il sontuoso sistema di in ngimenti e di mascherate c’è la realtà di un personaggio e la sua verità interiore, com’è di ogni autentico spettacolo barocco.

22. Yasujiro Ozu Yasujiro Ozu (Tokyo 1903-1963) è il regista che, probabilmente in tutta la storia del cinema, si è più rigorosamente attenuto al racconto della stessa vicenda in modi sempre simili nel corso di tutta una carriera. Diceva: «I miei lm possono sembrare tutti uguali, ma io cerco di creare ogni volta qualcosa di nuovo: come fa il pittore che dipinge la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la propria visione». Minuziosamente fedele alla propria ispirazione, egli la raffina e depura, narrando sempre un piccolo universo familiare alle prese con una piccola o grande crisi: un personaggio si sente messo in crisi nel suo ambiente, reagisce, cerca un suo spazio più preciso e vero che sarà più interiore che esteriore, ma la sua crisi, pur portandogli una maggiore saggezza - un maggiore rispetto per il uire della vita, una maggiore coscienza della sua ineffabile bellezza e del suo imperscrutabile mistero - lascia in lui e nello spettatore un velo di malinconia quasi inspiegabile, anche nella serenità. È il senso di una accettazione, di una disponibilità precisa, di una misura non valicabile che Ozu comunica, secondo convinzioni che hanno fondamento nel peculiare zen e buddismo giapponese. Sembra non succedere nulla o quasi nei lm di Ozu, e succede invece tantissimo. Lentamente si è catturati nel corso delle cose, senza scene madri, senza soluzioni imprevedibili, senza rottura vera dell’ordine. Lentamente ci si trova confrontati con l’intimo muoversi e ragionare del personaggio, e si entra nella soggiacenza dei dilemmi morali che partono dal piccolo e dal quotidiano e non se ne allontanano, ma scavano e scavano. Lentamente si nisce per godere di questo ritmo e di queste immagini, si nisce per godere del cinema di Ozu come di una musica da camera tra le più sottili, mai stridente e romantica, mai decorativa e a effetto. Lentamente in ne si coglie, lm dopo lm, e a volte con il senso di piccole rivelazioni straordinariamente pregnanti,

come una società e una cultura si modi chino, cambino, si trasformino. Di Ozu si è detto molto anche prima di conoscerlo (in Europa abbiamo potuto conoscere la sua opera solo negli ultimi venticinque anni, molto dopo la sua morte), e ci è stato presentato come un tradizionalista, n reazionario, come un autore a fondo solo religioso (zen), come un artigiano maniaco della forma chiusa e ripetuta. Conservatore lo era. Ha lavorato quasi esclusivamente con una casa di produzione (la Shoshiku), con uno sceneggiatore e amico (Kogo Noda), con attori assidui e amici (Chishu Ryu, Kinuyo Tanaka ecc.) e con tecnici fedeli che vennero a formare una sorta di squadra meticolosamente preparata alla bisogna, attorno a schemi formali de niti. Rigore e essenzialità, per raggiungere una semplicità non troppo ieratica, una misura e un’armonia riconoscibili e comunicabili. La cinepresa sempre «all’altezza dell’occhio di un cane», e ferma, senza movimenti (nei lm del dopoguerra, un unico movimento di macchina appare, ma all’interno di un televisore, dentro una scena ben ferma!), non esprime, non deve esprimere. È uno strumento, una misura minima di lettura delle cose, che proprio per questo è tramite alle cose per render loro (come alle persone, ai loro rapporti, alle loro parole e ai loro sentimenti più che alle azioni, che sono in de nitiva sempre le stesse, nella vita degli esseri comuni) il valore primario, la concreta essenza e esattezza. Non c’è bisogno di soggetti nuovi per Ozu, ma di variazioni, ritorni. Alcuni lm del dopoguerra sono remake dei vecchi, altri sono «continuazioni», altri in ne - i più - spostano ambienti e personaggi ricombinandoli, ma di fatto tornando a luoghi (appartamenti, bar, uffici, strade, negozi sulla strada) e a facce che ci sembra già di conoscere. Sono lm di riconoscimento che acquistano da questo la loro necessità; sono appuntamenti con verità cui è bene tornare e cui il pubblico giapponese tornava con tranquilla abitudine, cui lo spettatore occidentale scopre che tornare è bello, è giovevole all’intimo.

Nei lm precedenti alla tragedia bellica (Ozu aveva esordito nel 1927, e fu regista assai proli co) l’attenzione si era andata via via spostando dalla perlustrazione dei generi mutuata dall’assidua frequentazione del cinema americano, in particolare comico e brillante e soprattutto quello di Borzage, di Lubitsch - a una ricerca di semplicità, dall’acquisizione della libertà formale per via di una sperimentazione di forme curiosa e disponibile a una sorta di austerità anche morale, che concentra e precisa la ricerca di un proprio equilibrio, di uno stile. Egli narra dapprima storie di studenti e di impiegati, che lo spingono negli anni trenta ad affrontare temi quali la disoccupazione e le differenze di classe. Le gag, gli equivoci, gli effetti di sorpresa e rivelazione all’interno delle sceneggiature, in un primo momento comici, diventano malinconici, amari. Cresce il grande tema ozuiano dell’umiliazione, della impossibilità di riscatto degli umili altro che nell’interiorità e nel cerchio degli affetti primari. Capolavori del periodo sono Tokyo no gassho (Il coro di Tokyo, 1931), Umarete wa mita keredo (Sono nato ma…, 1932), Dekigokoro (Capriccio passeggero, 1933), Ukigusa monogatari (Storia di erbe fluttuanti, 1934), Tokyo no yado (Una locanda di Tokyo, 1935), Hitori musuko (Figlio unico, 1936). Cresce l’attenzione al minuto universo della famiglia, a un ambiente ostile e miserabile, alla realtà di una società classista e crudele, ma anche a un bisogno di consolazione insopprimibile e lacerante, tuttavia narrato con la pacatezza di un minuzioso descrittore di comportamenti che mutano, di affetti che evolvono. Dopo lunghi anni di guerra nel corso dei quali si dedicherà al giornalismo, nel ’41 e ’42 Ozu, rientrato a Tokyo, dirigerà due dei suoi lm più intensi, chiavi d’apertura al suo dopoguerra (dal ’43, di nuovo richiamato in guerra e prigioniero a Singapore, tacerà no al ’47): Todakerno kyodai (Fratelli e sorelle della famiglia Toda) e Chichi ariki (C’era un padre). Narrava, il primo, lo sfaldarsi di una famiglia, e il secondo il difficile rapporto tra un padre e un glio nel corso degli anni. Con il 1949 prende avvio quella serie dei maturi capolavori, i cui titoli sono essi stessi una scelta e una dimostrazione dell’arte della variazione e del ritorno, una

volontà e uno stile, una poetica. Si chiamavano Banshun (Tarda primavera, 1949), Bakushu (Prima estate, 1951), Soshun (Inizio di primavera, 1956), Akibiyori (Tardo autunno, 1960), ma anche Kohayagawe ke no aki (Autunno della famiglia Kohayagawe, 1961); oppure Ochazuke no aji (Il sapore del tè verde e del riso, 1952) e Samma no aji (Sapore di samma, 1962, l’ultimo lm); oppure Higanhana (Fiori d’equinozio, 1958) e Ukigada (Erbe acquatiche, 1959); oppure Tokyo boshoku (Crepuscolo a Tokyo, 1957) e Ohayo (Buon mattino, 1959). Sono minuziose descrizioni di minuti cambiamenti, affascinanti descrizioni di relazioni che si modi cano. Ozu è un conservatore? Il suo tema è in realtà ciò che cambia, ma egli opera da osservatore di microprocessi attraverso i quali capire tantissimo, se l’occhio è attento e rispettoso. Nei lm d’anteguerra amava descrivere l’infanzia, in ambito di piccola borghesia urbana. La famiglia ne divenne il centro, la forza vitale, e i genitori davano tutto per i gli, i fratelli per i fratelli. Dopo la guerra la famiglia è ancora una forza, ma scardinata, aggredita, e Ozu sposta la sua attenzione alla condizione esistenziale determinata dal posto nella società, dalla funzione di rotella minima dell’individuo in un corpo collettivo non sempre amico. Il Giappone si occidentalizza, e ce ne accorgiamo dalle cose che compaiono nei piccoli appartamenti periferici, dai gadget dei ristoranti e dei bar, dalle insegne nelle strade, ma anche dai comportamenti negli uffici, per le strade, all’interno stesso della famiglia. Vengono al centro temi sinora di sfondo: la vecchiaia non più riconosciuta e la solitudine, la vecchiaia solitaria che prelude alla morte solitaria. I vecchi non contano più, come in ogni società occidentalizzata. In Tokyo monogatari (Racconto di Tokyo, 1953), un grande, un bellissimo lm, due vecchi vanno in città a trovare i gli, che hanno ormai altro a cui pensare… Le trame sono sempre lineari, in Ozu, gli incidenti minimi. Padri o madri spingono le glie al matrimonio, non vogliono che si sacri chino per loro (in Banshun, in Akibiyori), due giovani, marito e moglie, apprendono il loro nuovo ruolo da esperienze di adulterio o semplicemente di vita, di lavoro (in

Soshuri), bambini si ribellano col silenzio alla incomprensione dei grandi (in Ohayo), e il vecchio Chishu Ryu, alter-ego di Ozu, affronta il suo declino stoicamente e però dolorosamente in Samma no aji, una solitudine che non bastano le visite di una glia lontana a mitigare. La pietà liale è il primo dei doveri, ma quand’anche non lo si ripudii, è il modo di vivere, è la società, è il mondo come è cambiato nei cruciali anni cinquanta del nostro secolo, gli anni del nuovo sviluppo, a impedirla, a renderla inaffidabile. Come si vede, con lento aggirante concresciuto approccio, Ozu dice alla ne più di cento registi che non sanno vedere né narrare ciò che cambia perché del cambiamento sono le vittime, del cambiamento fanno parte. Il suo realismo ha basi minime e minima attrezzeria. La sua preparazione della scena, il senso armonioso e concreto dello spazio e dei rapporti sono essi stessi un modo di vivere una loso a senza il bisogno di doverla dichiarare. Ozu sapeva quel che voleva, e ha detto quel che gli premeva con un rigore austero e commovente, nel malinconico trapasso delle cose e dei sentimenti, determinati non soltanto da fattori naturali e biologici. La forma è la sua sostanza, lo stile è la sua dichiarazione d’intenti, la misura tra il detto e il nondetto la sua forma di grazia.

23. Kenji Mizoguchi Il cinema giapponese, ricchissimo in opere e nomi di rilievo, è poco conosciuto in Italia. Da questo universo emergono tuttavia, all’azzardo delle retrospettive e dei festival, alcuni nomi centrali: Mizoguchi e Ozu, tra muto e sonoro, tra ante e dopoguerra; Kurosawa, dagli anni quaranta a oggi; Oshima, negli anni sessanta e settanta. Attraverso essi, il cinema giapponese si illumina di una luce inadeguata, ma pure assai viva; e questi nomi trovano riscontro negli altri pochi che ci ha consegnato l’azzardo delle traduzioni per ciò che è della letteratura (Natsume Soseki, Tanizaki, Ogai Mori, Kawabata, Dazai, Mishima, Kenzaburo Oe ecc.). In una società di così vertiginoso cambiamento, è evidente come il problema centrale per un’arte così sociale come il cinema sia stato quello del rapporto tra vecchio e nuovo, tra tradizione e innovazione. Se Ozu è, in de nitiva, dalla parte della tradizione, predilige i suoi personaggi di vecchi, condivide la loro nostalgia venandola di una rassegnata religiosità - nendo per scegliere come gura emblematica del suo linguaggio la ssità della macchina da presa -, Mizoguchi è il regista che meglio ha saputo narrare dialetticamente questo rapporto: e predilige il piano sequenza, la lentezza della narrazione, il cesellamento dell’immagine e della psicologia dei personaggi, con rare e calcolate vampe di azione, di violenza, di tragedia. Il mezzo tecnico, la macchina, è piegato in questi registi ai bisogni e alla storia di una cultura che anche con la tecnica ha un rapporto ambivalente, per essi non risolto. La sapienza e raffinatezza pittorica, il calmo fraseggio letterario fanno sì cinema, ma un cinema di insolita autonomia espressiva, di radicata e per noi diversa cultura. Mizoguchi (Tokyo 1898-Kyoto 1956) viene dal teatro, dove fu interprete in ruoli femminili, secondo la tradizione, ma nel suo accesso alla regia cinematogra ca, nell’apprendistato degli

anni venti, tenterà subito un accostamento tra tradizione e nuovo, privilegiando il nuovo che è il cinema nei suoi insegnamenti occidentali: ecletticamente pescando dall’America e dalla Germania, e già con una riduzione dell’Anna Christie di O’Neill (tre personaggi, concentrazione di tempo e di luoghi, uso minimo delle didascalie, illuminazione contrastata ed «espressionistica» - il lm si intitola Kìri no minato, Il porto delle nebbie, 1923) dimostrando una attenzione al personaggio femminile che sarà segno distintivo di tutto il suo cinema. È toccato dai problemi sociali del tempo, e dalle tematiche che una sinistra montante pone sul tappeto, ma narra di proletari e di piccolo-borghesi e borghesi con eguale carica di partecipazione, cercando di vedere cosa, dentro queste condizioni sociali, si muove e privilegiando comunque l’ambiente contemporaneo rispetto alla ricostruzione storica. Titoli importanti, o più noti: Tokyo koshin kyoku (La vita di Tokyo) e Tokae kokyogaiu (Sinfonia dalla grande città di costa), per l’ampiezza del loro progetto. Ma è con gli anni trenta che Mizoguchi avrà perfettamente raggiunto il suo stile e de nito il suo mondo poetico, con l’intermezzo precipitante della guerra e la non convinta, obbligata parentesi di alcuni lm che non spiacessero del tutto al regime. I personaggi femminili diventano il perno di ogni lm, poiché attraverso essi Mizoguchi riesce a catturare meglio che in qualsiasi altro modo il con itto tra la tradizione e i suoi valori, da un lato, il progresso (o meglio: la trasformazione) e i suoi valori, dall’altro, attento a non misti care in scelta predeterminata questa compresenza, poiché in ciascuno di questi modelli si annida il buono e il malvagio. Anche nei lm di ambientazione storica (privilegiati negli anni di guerra), le donne fungono da elemento rivelatore di una società e dei suoi meccanismi, il loro stato rivela tutte le coordinate dell’ingiustizia. Con il fondamentale incontro e sodalizio con lo sceneggiatore Yoshikata Yoda - parallelo a quello tra Ozu e Noda - la stessa strutturazione del lm acquista una uidità e una profondità che sembravano appannaggio della letteratura (per esempio Tanizaki e il suo Neve sottile).

La protagonista di Naniwa hika (Elegia di Naniwa, 1936) percorre un cammino da innocenza a perdizione. In Gion no shimai (Le sorelle li Gion, 1936), considerato da molti il miglior lm giapponese degli anni trenta, il personaggio si sdoppia: delle due sorelle, geishe entrambe, l’una è tutta dentro la tradizione, l’altra tenta di ribellarvisi, no alla tragedia, e si direbbe che la maggior simpatia del regista vada alla prima che bensì nel nale egli osserva con particolare durezza. L’anno successivo, con Aien-kyo (La strada dell’amore e dell’odio) è introdotto il personaggio della donna che si sacri ca per amore, ispiratogli, dice il regista, dalla Katiusa di Resurrezione. Questa tipologia, con variazioni stupende per esattezza psicologica e per l’oggettiva presenza di uno sfondo crudele nel suo ritualismo, informa il resto della sua ricchissima opera. Ma non è forse un caso che, negli anni di guerra, con i lm in costume ambientati prevalentemente nella non lontana epoca Meiji, tra Otto e Novecento, prevalga quest’ultimo tipo di personaggio. Con la ne della guerra il con itto e la lacerazione tra vecchio e nuovo sono diventati davvero insanabili, ma Mizoguchi ha ormai raggiunto una sua maturità, e sa mostrarlo in composizioni controllatissime, ampie e distese gurazioni nelle quali la tensione e il dramma nascono da sottili spostamenti, dal fremito della natura e dei personaggi, dalla acuta e continua percezione del disagio del personaggio nell’ambiente. Come in Gion no shimai, in Yoru no onna tachi (Donne nella notte, 1946) due sorelle geishe vivono destini contrastati, rivali nello stesso amore per un uomo indegno, ma capaci di piena solidarietà attraverso il dramma. In Sansho dayu (L’intendente Sansho, 1954), un capolavoro ispirato a una ricostruzione storica di Ogai Mori, è il legame tra madre e glia a venir inteso, nella disgrazia, come superiore a ogni altro. Nei grandi capolavori di questi anni, conta poco che l’ambiente sia storico o moderno. La O’Haru di Saikaku ichidai onna (La vita di O’Haru, donna galante, 1952), passa di caduta in caduta, in ambienti sociali tra loro diversissimi attraversati da una stessa logica che fa comunque della donna un oggetto.

Yokiki (La principessa Yang Kwei-Fei, 1955), che aggiunge il colore alle possibilità espressive e pittoriche di Mizoguchi, è il tragitto di un sacri cio per l’uomo. Chikamatsu monogatari (Una storia di Cbikamatsu, 1954) è una tremenda storia d’amore in cui, in ne, la rivolta è comune ai due amanti, ma è la donna a osare tuttavia di più abbandonando la sua classe per un sottoposto, per un amore proibito. Uwana no onna (La donna crocifissa, 1954), storia di prostituzione contemporanea, ha qualche cedimento melodrammatico, che si risolve nell’ultimo lm girato da Mizoguchi, Achasen chitai (La strada della vergogna, 1956), in una calorosa e amara galleria di personaggi di prostitute. L’ultima immagine di questo lm, la vestizione di una prostituta bambina, è tra le più indignate e terribili che il regista abbia dato, ma è forse in Ugetsu monogatari (I racconti della luna pallida d’agosto, 1953) che dovremo cercare il suo risultato più alto e complesso, nella storia di due illusioni maschili. Il contadino che lascia la moglie per farsi samurai la ritroverà in un bordello violentata da briganti, distrutta la sua casa, e riprenderà con lei la via dei campi; il contadino che si lascia affascinare dal fantasma di una donna assetata d’amore, anche lui, nito l’incantesimo, ritrova la via di casa, torna alla moglie: il bisogno d’amore e la tragedia della donna sono contrapposti alle risibili ma travianti capacità d’illusione degli uomini, in un disperato anelito a un ordine paci cato che - Mizoguchi non si illude - non c’è mai stato, e che certo non potrà mai più essere «quello di una volta».

24. Luis Buñuel Quando nel 1928 e ’30 gira a Parigi i suoi primi lm, Un chien andalou e L’àge d’or, Bunuel (Calanda, Aragona, 1900-Città del Messico 1983) de nisce d’impeto la sua poetica, con le sue contraddizioni. Del primo, anche se la regia è di Buñuel, può dirsi coautore Dalí. Del secondo, cui Dalí collabora al soggetto ma di cui rinnega il risultato, possiamo dire autore il solo Buñuel. E tra i due c’è differenza. Nel primo, «appassionato invito all’omicidio», la provocazione e la novità sono estreme, ma non senza il sospetto di autosoddisfarsi in se stesse. Nel secondo, a suo modo più lineare e «narrativo», esplode maggiormente la tendenza di Bunuel alla «constatazione» della realtà che a lui più interessa: quella dello scontro tra l’istinto e la realtà sociale con le sue norme e convenzioni. In questo caso è la passione amorosa a confrontarsi con le regole di una società eminentemente borghese, ma stupisce oggi che i surrealisti lo abbiano letto come esaltazione dell’amour fou pronto ad abbattere ogni convenzione e freno, quando esso dice, ai nostri occhi lontani, anche l’impossibilità di una vera liberazione, i segni di una costante repressione, e nanche la derisione dello stesso «misticismo» bretoniano. Se il surrealismo ha liberato le energie creative di Bunuel, gli ha insegnato come sprigionarle, tuttavia la loro canalizzazione è autonoma e decisamente in uenzata dalla sua infanzia cattolica, dalla cultura spagnola di cui è erede. Sade, Freud e Marx - la forza del desiderio contro le convenzioni, i meccanismi provocati dalla frustrazione del desiderio, i meccanismi dell’oppressione sociale borghese - si coniugano in modo del tutto personale, non diventano né dogma né nuova convenzione. Ed è in de nitiva Freud a contare di più, Sade a contare di meno. Per Bunuel il cinema «è lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell’istinto. Il meccanismo creatore delle immagini

cinematogra che è, a causa del suo funzionamento, quello che tra tutti i mezzi di espressione umana ricorda meglio il lavoro dello spirito durante il sonno; il lm sembra un’imitazione volontaria del sogno, […] sembra essere stato inventato per esprimere la vita del subcosciente, le cui radici penetrano così profondamente nella poesia…». L’intuizione della speci cità del cinema, della sua azione non distanziarne ma coinvolgente, scatenante le identi cazioni e le associazioni più personali, liberante l’inconscio, che certamente molti altri hanno avuto ma di cui i più si sono serviti per addomesticare lo spettatore dirigendolo dove a loro piaceva, ha consentito a Buñuel un uso non misti cante del mezzo, nella continua e perseverante attenzione alla messa in crisi delle acquisizioni dello spettatore, della facilità delle sue risposte. E ha nito per ciò stesso per essere distanziante, per turbare lo spettatore, per additargli la relatività delle sue convinzioni e la loro non rispondenza alle sue più intime pulsioni. Tuttavia, prima che Bunuel possa permettersi un libero uso delle sue idee sul cinema, già tutte presenti in L’âge d’or, passeranno anni. Tra questo lm (1930) e Los olvidados (I figli della violenza, 1950) c’è la guerra di Spagna, l’oscuro esilio americano e, alla ne della guerra, il passaggio in Messico, dove Buñuel può tornare alla regia sia pure con innocui lm di genere. Ma dopo Los olvidados, spietata e terribile descrizione del mondo del sottosviluppo e delle sue leggi interne, anche l’esercizio nel genere è fruttuoso, perché in esso Buñuel apprende a giocare da maestro nelle e sulle convinzioni narrative più viete, inoculandovi i suoi umori, la sua libertà. Non c’è lm in cui non vi siano sequenze decisamente oniriche. Alcuni di essi appaiono alla distanza già come dei «classici»: Subida al cielo (1951), all’apparenza bozzetto da neorealismo rosa e nella sostanza quète prodigiosa di un giovane che la sorte premia non perché sacri ca cattolicamente il desiderio, ma perché lo afferma ed esaudisce; El (1952), sulla patologica gelosia in un cattolico possidente; Ensayo de un crimen (Estasi

di un delitto, 1955), ironico esame delle irrealizzate manie omicide e misogine di un intellettuale borghese. All’amour fou (al negativo) è dedicata una versione messicana di Cime tempestose, Abismos de pasion (1953), e sono di questi anni le pacate, serene rivendicazioni di una positiva utopia. Fuori dalla storia più non contano, in piccole comunità isolate, o addirittura in piccole isole, i contrasti di classe, razza, religione, sesso, generazione, che però ricompaiono non appena si ritorna nella «società» - Las aventuras de Robinson Crusoe (Le avventure di Robinson Crusoe, 1952), La mort en ce jardin (La selva dei dannati, 1956) e La joven (Violenza per una vergine, 1960). Formano in qualche modo una trilogia anche Nazarin (1957), Viridiana (1961) e Simon del desierto (Simone del deserto, 1965, incompiuto), tre «vite di santi mancati». La scon tta del modello cristiano che, nel mondo contemporaneo, quando perseguito senza mediazioni, provoca guai e fallimento, è preludio per Nazarin a una diversa comprensione della carità tra umili, per Viridiana all’accettazione di modelli più vili (un rapporto a tre), e in Simone lo stilita, in ne, al crollo dell’orgogliosa colonna della sua ascesi nella bolgia terrestre della newyorkese «carne radioattiva». Con gli anni sessanta la fama di Buñuel diventa grandissima, ma la stima e il mito di cui viene circondata non ne appiattiscono certo il vigore e la carica di originalità e irriverenza. La sicurezza economica di cui ormai gode gli permette la realizzazione - a anco di lm che hanno a centro intensi e cupi personaggi femminili come Le journal d’une femme de chambre (Il diario di una cameriera, 1963), Belle de pur (Bella di giorno, 1966), Tristana (1970), Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), grandi e complesse costruzioni di eccezionalissima vitalità d’invenzione. El angel exterminador (L’angelo sterminatore, 1962) e Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia 1972) sono una ri essione spregiudicata, più ossessiva e claustrofobica la prima, più ironica e disinvolta la seconda, sull’impotenza della classe dominante, al culmine del suo

tragitto, in un paese «sottosviluppato» come il Messico o nella squisita Francia - e le differenze pesano. La voie lactée (La via lattea, 1969) è una sorta di «storia della chiesa» attraverso le sue eresie, e conclude sull’ambiguità del messaggio cristiano e la sua incapacità di parlare in modo chiaro all’uomo di ieri e di oggi. Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà, 1974) tratta di un’altra ambiguità, quella della speranza politica della trasformazione del mondo, e della relatività del concetto stesso di libertà. Ciò che negli altri suoi lm era inserito comunque dentro una storia, una narrazione, è in queste opere liberamente espanso. Associazione, antifrasi, sogni, inconclusi misteri, apparente casualità degli incontri e delle deviazioni, incastri di episodi rimandano sì alla lezione surrealista e freudiana, ma anche a una peculiare «tradizione» spagnola, da Cervantes e Quevedo al polacco-spagnolesco Manoscritto trovato a Saragozza, dal romanzo picaresco alle «greguerias» di Ramón Gómez de la Serna, de nendo uno stile che resta tuttavia corposo e immediato nei singoli dati narrativi, elusivo e bizzarro nelle sue continuità. Nella perfetta coerenza di questo regista, sembravano scomparsi negli ultimi due decenni i riferimenti a una possibilità dell’uomo di uscire dai suoi condizionamenti, di «superarsi». Ogni utopia era morta e al suo posto, di fronte all’orrore della storia, in storie vieppiù prive di tempo storico de nito, restava una distaccata, più saggia che sapiente, morale di vecchio. Pochi artisti del nostro secolo hanno, come lui, così mirabilmente e anticamente descritto le passioni umane e le loro miserie, l’impossibilità delle liberazioni individuali (e le mitizzazioni di queste), così come l’impossibilità di soluzione dei con itti che oppongono la realizzazione individuale alla società, a qualsiasi società organizzata, di per sé costrittiva e oppressiva, così come l’inanità degli slanci migliori dell’individuo alla solidarietà e alla trasformazione. Restava in lui, o ritornava, qualcosa di un pessimismo in de nitiva cattolico. L’uomo non ha riscatto. Gli inutili scontri tra umani nel nale di Il fantasma della libertà sono osservati dal regista

che voleva diventare entomologo attraverso lo sguardo distantissimo di uno struzzo destinato, forse, a sopravviverci.

25. Orson Welles Welles (Kenosha, Wisconsin, 1915-Los Angeles, California, 1985) è regista e attore, e ha saggiato oltre al cinema altri mezzi di comunicazione di massa (teatro, radio, televisione, disegno, romanzo, giornalismo), giostrando in essi con la prorompente vitalità dell’artista che non rinuncia a essere personaggio, e che non tanto ricerca la coerenza quanto la possibilità di esprimersi, con un forte fondo di narcisismo. «Uomospettacolo», dunque, ma così americano da concentrare contraddittoriamente, quantomeno per una logica europea, pregi e difetti di chi con i mass-media sa giocare alla pari. È l’autore, in de nitiva, di un’unica opera compiuta, lungamente meditata ed elaborata pignolescamente con adeguata profusione di mezzi: quel Citizen Kane (Quarto potere, 1940) di cui Hollywood non gli perdonerà gli eccessi e soprattutto l’insuccesso economico. Dopo d’allora, il suo cinema è un cinema d’occasione: progetti improvvisati, commissionati, recuperati, quasi mai controllati dal loro autore no alla de nitiva stesura e presentazione. E un Don Chisciotte più volte ricominciato, con attori diversi, in nazioni diverse, e mai portato a termine. Non si tratta soltanto di costrizioni economiche. Welles ha dimostrato, quando ha voluto, di poter lavorare in economia; e ha sempre guadagnato ciò che voleva come attore disponibile a ogni proposta. Si tratta dunque, più probabilmente, di una incapacità, di una difficoltà a costruire, dopo la prima, un’altra opera de nita e conclusa. Americano di questo secolo, formatosi nell’aura del pragmatismo di James e di Dewey e in quel balordo incrocio di darwiniana e spengleriana logica della «struggle for life» rivisitata dai Dreiser e dai London, ha sempre subito il fascino contrastante dell’America e dell’Europa: della prima, la sicurezza spavalda del connubio imperialismo-democrazia; della seconda, la cultura, Shakespeare, la raffinata coscienza

intellettuale. Titanismo e umanesimo, barbarie e civiltà, vitalismo e rigore tentano vanamente di conciliarsi nei suoi lm. Senza una raggiunta chiarezza e una serenità dello sguardo, egli non può che avanzare brandelli di comprensioni parziali, sovrapposte. La costruzione a puzzle del progetto non realizzato del Cuore di tenebra conradiano, di Citizen Kane, di Confidential Report (Rapporto confidenziale, 1956), incrociata col pretesto poliziesco di e Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, 1974), e stranger (Lo straniero, 1946), Touch of Evil (L’infernale Quirlan, 1957), per no de Le procés (Il processo, 1952) da Kaa, non conduce a una verità, alla scoperta di un colpevole, ma rimanda a più verità contraddittorie. Questo anche negli adattamenti shakespeariani di Othello (1952), Macbeth (1949), Falstaff (1966), e anche in Une histoire immortelle (1968, per la Tv) da un racconto della Blixen, e in ne in F for Fake (1974), curiosa «conferenza» sul rapporto tra arte e falsi cazione, tra vita e falsi cazione (interpretazione) di una vita. Nel nale di Citizen Kane si assiste contemporaneamente alla dimostrazione del feticismo della merce (l’immane raccolta del magnate) e a una larvata citazione dell’Ecclesiaste (attraverso il pretesto narrativo dello slittino con la misteriosa parola il cui signi cato il giornalista e lo spettatore hanno ricercato, l’ultima detta dal magnate morente). L’investigazione conduce sempre a una conclusione inattesa, ma pur sempre ambigua. I personaggi grandiosi e malvagi (Kane, l’avvocato e la Signora di Shanghai, lo straniero, Macbeth, Othello, Arkadin, Quinlan…) dimostrano la fascinazione che i potenti - coloro che incidono nella storia, che se ne fanno o vogliono farsi dominatori - esercitano su Welles, ma insieme la loro interna fragilità, di vittime delle proprie passioni o di un gioco che comunque li sovrasta e li incastra. Al lato opposto ci sono tanto l’impiegato Josef K., incapace di capire l’ingranaggio in cui è preso, che il marinaio O’Hara, che invece riesce a districarsi dalla fascinazione del capitale e a scoprirne la realtà di una «lotta tra pescicani» dietro l’apparenza (e in questo senso La signora di Shanghai, per molti il miglior lm di Welles, è anche una ri essione sul cinema hollywoodiano, con Rita Hayworth

al centro e le sue due facce), e c’è la lucida coscienza di scon tta di un Falstaff umanista, che fallisce nei confronti di un allievo, Enrico V, che sceglierà le orme ascetiche e repressive di Enrico rv. C’è scon tta nel tentativo di interpretare una totalità, il mondo del capitale e la società contemporanea dai due lati dei potenti e dei soggetti, nell’elaborazione di un messaggio che aspiri a dire il senso della vita e della storia, e c’è scon tta anche nella ricerca di una funzione dell’arte. Il corposo commerciante di Una storia immortale «mette in scena» una leggenda, vuol rendere realizzata una fantasia, e dalla messa in scena è distrutto, ché essa lo coinvolge facendone, da regista quale egli si voleva, invece protagonista e vittima. Il conferenziere Orson Welles di F for Fake scopre che l’arte (il cinema) è falsi cazione incapace di restituire la realtà, ma anche che i con ni tra arte e falsi cazione sono labilissimi, e che forse essi si sovrappongono e uni cano. Il messaggio nale di La signora di Shanghai (la voce fuori campo di Welles-O’Hara che s’allontana dal lunapark e dai giochi di specchi al cui interno ha assistito alla mortale lotta tra due «pescicani», uno dei quali è la donna di cui è innamorato e che egli lascia morire senza batter ciglio) afferma, parafrasando Shakespeare, che l’importante è invecchiare bene, è una solida maturità, una raggiunta serena conoscenza. Ma quest’ideale non è dei più facili da conquistare, e Welles sembra invece sopraffatto, nelle sue opere tarde, dalla difficoltà, forse impossibilità, di raggiungerlo, e sembra insieme estremamente ironico nei confronti della propria maturità e sulla funzione del regista. L’impatto autobiogra co della sua opera è assai forte, e si sovrappone decisamente alle scelte di stile. Se il gioco degli specchi, il puzzle, l’inchiesta ne sono elementi costanti, pure essi non soltanto prevedono il ricorso al montaggio, la profondità di campo, il panfocus, le scenogra e deformate. Possono anche ricorrere alla linearità del Macbeth, e in parte del Falstaff tra allegria e severità sfumate l’una nell’altra, al piano-sequenza di Pride of the Ambersons (L’orgoglio degli Amberson, 1942) che ha incantato i registi della nouvelle-

vague, e alla sinuosità notturna di Una storia immortale. Ma se è centrale un certo violento barocchismo, consono alla visione del mondo come teatro di illusioni, tuttavia colpisce in Welles la capacità di riannodare con esperienze che il classicismo degli anni trenta, tanto quello levigato di Hollywood che quello realista francese che quello del realismo socialista sovietico, erano andati negando. Citizen Kane riapre un discorso che il sonoro sembrava aver chiuso, e riallaccia con la sperimentazione tedesca e americana e sovietica (l’espressionismo, ma anche Griffith e Stroheim, e anche Ejzenstejn). Ma troppo personale e irregolare era questa strada, perché Hollywood potesse accettarla, e il suo insegnamento è rimasto assai parziale anche altrove. L’isolamento di Welles è l’estrema riprova delle difficoltà di una forma d’espressione come quella cinematogra ca, così legata all’industria e alle regole del successo, ad accettare artisti troppo personali, troppo costosi, e troppo poco consolatori.

26. Roberto Rossellini Rossellini (Roma 1906-1977) ha riconosciuto, nella nascita del neorealismo, gli apporti del documentario di guerra sul quale si è formato e degli attori del cinema più popolare (innanzitutto la Magnani e Fabrizi): da essi determinato più che da registi o sceneggiatori. Ma questo secondo apporto sarà soltanto iniziale, nel suo cinema, e l’attore - o meglio l’attrice: Magnani e Bergman, la prima coi personaggi popolari, la seconda coi personaggi borghesi, e in particolare la seconda sarà l’occasione di una ricerca tutta diversa, non più perno o momento di una coralità, ma confronto individuale con la realtà, con una realtà che in Rossellini verrà, via via, solo super cialmente storicizzata e datata. La coralità è frutto di una precisa e evidente circostanza collettiva («la guerra è corale in sé»: La nave bianca, 1948; L’uomo della croce, 1943; Roma città aperta, 1945; Paisà, 1946), ma già Germania anno zero (1948), lm del dopo la guerra e dopo la scon tta (ogni guerra porta alla scon tta chi vi è coinvolto davvero), de nisce una nuova e peculiare strategia del regista. Il personaggio vi campeggia, seguito e scrutato in una sua ricerca spirituale, una volta sconvolta la sua vita da una circostanza collettiva o individuale: la guerra per il ragazzo Edmund, l’incontro col nto San Giuseppe della pazza di Il miracolo (1947), il suicidio del glio per la borghese Irene di Europa 51 (1951-52), la lettera ricattatoria di La paura (1954), la condanna a morte per il nto generale della Rovere nel lm omonimo (1959); ma anche una inquietudine e una insoddisfazione, che attendono le occasioni giuste, anche minute e appena percettibili, per rivelarsi (Stromboli, 1949; Viaggio in Italia, 1953), purtuttavia in uno spostamento di situazione per le abitudini del personaggio. Ma mai si tratta di folgorazioni sulla via di Damasco, poiché anch’esse hanno lunghe incubazioni. Lo straordinario nasce dall’accumulazione

dei momenti ordinari e dei loro disagi, la coscienza è presa ai momenti di svolta, quando tutto in ne si fa chiaro, si fa chiara cioè l’insostenibilità della situazione quotidiana, o l’insostenibilità della rivolta alla situazione quotidiana e di una nuova e diversa accettazione. La «curiosità per l’individuo» e la ricerca di «intelligenza delle cose», in una chiave che è eminentemente cattolica ma che non si pone neppure in chiave cattolica problemi di trasformazioni collettive bensì solo individuali e d’anima, portano al disinteresse per la trama («il soggetto è il mio nemico») e all’attenzione per quello che Rossellini chiama «il fatto», e cioè la situazione in cui la rivelazione avviene, in cui il confronto del personaggio con la verità (non tanto la sua verità, quanto la verità in assoluto quale egli può avvertire e comprendere) si fa concreto, avvertibile, comunicabile allo spettatore che non sia deformato dai canoni e dall’abuso delle strutture evidenti. Di qui la discontinuità del cinema rosselliniano, non tanto tra lm e lm (anche se le cadute e le volgarità non mancano) quanto tra sequenza e sequenza, inquadratura e inquadratura dello stesso lm. I raccordi non reggono, i pretesti sono pesanti o super ciali, l’aneddoto scade spesso a bozzetto. Ma dove le tensioni, per quanto in partenza programmate, sembrano costruirsi da sé, e la macchina da presa scruta il banale per trovarvi le stridenze più umili e le insigni canze più stridenti, allora l’ovvio scopre le sue carte nascoste, e la scommessa è vinta. Questi momenti fanno di Rossellini un regista unico, paragonabili forse soltanto a quelli, determinati da una più precisa visione, del cinema di Ozu in un contesto culturale assolutamente diverso impregnato di zen. Momenti, in de nitiva, che solo una rara letteratura d’equilibrio intimopubblico, spirituale-sociale, sembrava in grado di dare. Ma essi non sono frequentissimi, e non sempre appaiono assolutamente sinceri: vuoi perché «la grazia non scende» o vuoi perché la sua attesa è troppo predeterminata, e dunque la sua venuta prevedibile. L’odiato soggetto rispunta, e svela l’ideologia. Che resta nella sostanza ambigua, cattolico-

didascalica, disattenta alle ragioni della storia. Si veda India (1958), dove il confronto tra il cattolicesimo del regista e una cultura così estranea al cattolicesimo dimostra l’insufficienza e la inadeguatezza del regista a interpretare realtà più complesse. Si vedano anche quei lm nei quali l’incombenza del Peccato (e non del Male) grava su una umanità incapace di sentire e cercare la grazia (Amore, 1948; La macchina ammazzacattivi, 1949; Dov’è la libertà, 1953: lm stridenti, imperfetti, nuovi, irrisolti; ma anche il riuscito, per altri versi, La prise de pouvoir par Louis XIV, del 1966, che, a parte i tre capolavori dell’immediato dopoguerra, è l’unico lm in cui, su presupposti «documentari» applicati alla storia, Rossellini riesce a «captare» la storia). Si vedano quei lm dove tutto vorrebbe essere grazia ed esaltazione di grazia (e ci riesce solo il bellissimo Francesco giullare di Dio, 1950, capolavoro di essenziale adesione, lm esemplare e rivelatore quanto Viaggio in Italia). Si vedano soprattutto i lm o le serie televisive che più super ciali, trasandati, disattesi ma non per questo meno vitali - pretendono alla ricostruzione storica, da Viva l’Italia (1961) a La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (1970), da Socrate (1971) a Pascal (1972), o quelli che addirittura vorrebbero documentare l’intervento della Grazia (della Provvidenza) nella storia (Gli atti degli Apostoli, 1968; Agostino di Ippona, 1972; Il Messia, 1976). Il tentativo di una ricostruzione documentaria della storia si dimostra un controsenso, le giusti cazioni pedagogiche addotte dal regista una volontaristica forzatura. È nel presente e nel suo scavo sottile e obbligatoriamente drammatico che Rossellini è riuscito a rendere il suo progetto non ideologico, aprendo così al cinema la strada per altre sperimentazioni, per altre interpretazioni, a partire dalla dimostrazione che egli ha dato della disponibilità della macchina da presa a dire ciò che il montaggio può dire solo in modo autoritario.

27. Luchino Visconti Una gura come quella di Visconti è ormai davvero lontana, consegnata alla storia, priva di continuatori che a lui si siano rifatti - a meno di non voler considerare tali certi decoratori di qualche fama. Non sono stati suoi continuatori neanche Bertolucci, che pure ha provato in Novecento e La luna, e qua e là altrove a raccogliere la bandiera lasciata da Visconti, e neanche i Taviani, con il loro inutilmente complicato Allonsanfàn. E Rosi ha rapidamente piegato la lezione di Visconti ad altre esigenze. Paradossalmente, è dall’America che è giunto l’omaggio più serio alla tradizione detta viscontiana, con L’età dell’innocenza di Martin Scorsese. Visconti (Milano 1906-Roma 1976) è dunque inattuale, consegnato al passato? Il suo non è stato il caso di un «autore» dalla personalità prepotente e indiscussa, ma piuttosto, come spesso succede nel cinema e anche altrove (nel romanzo, nella pittura), quello di un artista attraversato dalle contraddizioni e dalle spinte di un’epoca, e di esse partecipe, rappresentativo. I suoi capi d’opera sono pochi, forse solo quattro: Ossessione, La terra trema, Bellissima, Senso. La terra trema (1948) è un grande lm, impossibile dubitarne, ed è un lm coraggioso e rigoroso, ma non nuovo quanto gli altri: melodramma familiare e familista molto «viscontiano», seguito di splendide inquadrature ritmate dall’angoscia, dalla paura dello sfaldamento di un’unità e di una speranza. Il regista vi è onnipresente, autorevole e autoritario, pieno di coscienza storica, e nonostante gli aspetti documentari e gli attori rigorosamente dalla vita, nonostante l’aspro dialetto di Aci Trezza e il senso durissimo della fatica e quello amaro dell’ingiustizia, il neorealismo ci sembra qui un discorso a latere, se confrontiamo questo controllato rigore con la libertà di un qualsiasi lm di Rossellini degli stessi anni, capace di sguardo radicale e radicalmente nuovo sulla realtà, o per no

con i compromessi di certa commedia populista quanto a sintonia «politica» con il tempo. Visconti aveva esordito nel cinema, dopo un breve apprendistato di aiutoregista in Francia con Renoir, con Ossessione (1943), in cui era evidente l’in uenza del Renoir più naturalista e dell’americanismo dei Vittorini e Pavese. Il soggetto era rubato al romanzo di James M. Cain Il postino suona sempre due volte. Storia di passione, avidità e morte, vi si esaltavano corpi e paesaggio, e corpi dentro il paesaggio. Sensuale e sovraccarico, rivelatore di ambienti inusitati per il blando cinema del ventennio fascista, a suo modo esasperato ma mai esteriore (lo interpretavano Clara Calamai e Massimo Girotti, divi di regime, affrancati dai modelli dei «telefoni bianchi», riconquistati all’afrore dei desideri) Ossessione irritò il regime e fu avanguardia del nascente neorealismo prima di Roma città aperta. Dopo aver fatto molto teatro - la sua seconda attività fu di regista di prosa e di lirica, specialmente efficace nella lirica e solo altamente professionale nella prosa, dove fu esteriormente realista, anzi iperrealista - e dopo aver diretto alcune scene documentarie per un lm di montaggio sulla Resistenza, cui aveva preso parte, lui nobile, forse in ragione della sua forte coscienza di classe e del fascino esercitato su di lui dai comunisti (Giorni di gloria, 1945, in collaborazione con Giuseppe De Santis e il montatore Serandrei), il giovane Visconti affrontò l’impresa di un libero adattamento dai Malavoglia di Verga girato sui luoghi dell’azione tra mille difficoltà e per lunghi mesi. La terra trema narrava le vicende di una famiglia di pescatori che si metteva in proprio, e nel fallimento di quest’impresa moriva come famiglia. Tensione romanzesca, occhio documentario, tendenza melodrammatica e «verdiana», dirompenza del dialetto, antipopulismo, godimento dei corpi e di una perfezione d’immagine n leccata in inquadrature invece ampie e saldissime, coacervo di in uenze e di aspirazioni, ri uto della commozione, aristocraticismo di fondo: tutto questo sembrò coesistere in un

lm che resta maestoso di stracci e di scogli, di magni ci volti veri su un paesaggio oscurato. In una ideale classi ca dei «migliori lm» del cinema italiano, Bellissima (1951) viene per noi al primo posto, per il miracolo di una misura nata da una commistione spuria, anzi sporca addirittura, di «luoghi comuni» del tempo: Zavattini e il suo neorealismo a venatura cattolica e il post-neorealismo di «Cinema nuovo», la rivista teorica «lukacsiana» che proponeva il superamento del neorealismo «dalla cronaca alla storia» vedendo in Visconti il suo scout, la diva Magnani mai più così brava e la cialtronaggine operosa di Cinecittà, le osterie romane delle becere riunioni di famiglia e le arene estive dell’avanspettacolo, senza dimenticare Donizetti e Walter Chiari, i cori delle matrone tiberine e «Iris», la protagonista di due o tre celebri lm neorealisti ritornata nell’ombra, e per no Hollywood e Howard Hawks quando alla Magnani estasiata nell’arena davanti alle scene di transumanza del Fiume rosso replica il saggio marito muratore: «Ma so’ solo vacche!». Il perno è un aneddoto tanto neorealista quanto di critica del neorealismo: il regista Blasetti cerca una bambina per un suo lm e la popolana Magnani s’illude possa essere la sua, che reputa (e non lo è) «bellissima». Critica del neorealismo con i modi del neorealismo, Bellissima è la preveggente analisi di una trasformazione antropologica che va iniziando, e che aspettava soltanto il boom per poter esplodere. È la verità sul «popolo» teorizzato da Gramsci, ma un popolo che già sfugge a Gramsci. Ed è qui - assai più che in Senso - che la cronaca si fa davvero romanzo, poiché Senso (1954, da una novella di Camillo Boito, in splendido technicolor) è un lm all’indietro sulla storia passata invece che opera storica sul presente come appare Bellissima. I protagonisti di Senso sono aristocratici degli anni del Risorgimento, ma al proscenio non c’è il patriota Ussoni (Girotti) bensì la contessa Livia Serpieri (Alida Valli) e il suo amante austriaco Franz Mahler (Farley Granger), personaggi negativi e a tutto tondo. Per l’inetto tenemmo delle truppe occupanti, Livia tradisce la causa in un dramma romantico di

lussuria e di morte che trova nel veloce nale (la fucilazione di Franz su denuncia di una Livia tradita e disfatta, votata alla pazzia) una chiusa ultra o antiromantica. La bellezza formale del lm - a suo tempo molto discusso - non contrasta con l’intensità melodrammatica dell’assunto, anzi la sposa pienamente. Le notti bianche (1957, da Dostoevskij) parla dell’impossibilità dell’amore in un moderato dramma dell’illusione piccolo-borghese, della solitudine di un umile e umiliato - ma la piccolezza e intimità della storia è collocata in una teatrale e magica ricostruzione di studio, che cerca di incontrarsi a contrasto, con i caratteri di un protagonista meschino. Dopo di allora, ci furono i grandi successi di Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il gattopardo (1963, technicolor). Il primo, un dramma di famiglia sovraccarico di risonanze e signi cati: l’emigrazione dalla Lucania a Milano, la madre da tragedia greca, le varie strade dei gli chi demone e chi santo e chi normale operaio dell’integrazione, omas Mann e Dostoevskij e Carlo Levi, e ancora Verdi con Pratolini e Testori tra gli sceneggiatori, amore e morte e società, nostalgia del mondo contadino e speranza nel progresso - il tutto costruito, gridato ed esteriore. Il secondo lm era la trasposizione fedele e grandiosa del romanzo di Tornasi di Lampedusa sull’unità d’Italia vista dalla Sicilia, con bellissime scene, stupende vedute, magni ci costumi, eclatanti ambientazioni, battaglie da Oscar e un senso di mone e corruzione del tempo della storia della politica, che per il paese continua a voler dire «che tutto cambi affinché nulla cambi». E il resto? Un cinico episodio sul cinismo dei ricchi in Boccaccio ’70 (Il lavoro, 1962); Vaghe stelle dell’orsa (1965), sui misteri e incesti di una famiglia intellettuale; La caduta degli dei (1969), melodrammone sull’avvento del nazismo in Germania narrato a colpi di zoom, di grandi attori e grandi citazioni, che dà immensa nostalgia dei melodrammi hollywoodiani dei Minnelli e dei Sirk; Morte a Venezia (1971) da Mann, con Dirk Bogarde, di massima raffinatezza esteriore e di minimo coinvolgimento interiore per uno spettatore non

sdilinquito da oggetti liberty e da stoffe pastose; Ludwig (1973) su Ludovico di Baviera interpretato da Helmut Berger, re giovane ed esteta furioso, il migliore dei tardi lm viscontiani per l’intensità del rapporto regista-attore e per una funebre adesione alla morbosa e mortuaria decadenza di Ludwig; Gruppo di famiglia in un interno (1974) su un vecchio intellettuale affascinato e poi corrotto da giovinastri ricchi e di destra dentro salotti buonissimi mai davvero a rischio; e L’innocente (1976), mimentico e inerte da/su/per D’Annunzio, con un nale suicidio inesistente nel libro, come alibi, forse. Visconti si era andato trasformando in divulgatore dell’Ottocento per i palati buoni di nuovi ricchi, «metteur en scène» sovraccarico di indiscussa sapienza. Personaggio imponente, scarsamente amabile, rispettabile quasi sempre, Visconti ha avuto qualcosa da dire, è stato un grande artista, ntanto che - in un’epoca di speranze collettive cui anche un aristocratico come lui poteva aderire, forte della spinta, della protezione e in qualche modo «supervisione» togliattiana, e di una sorta di «super-io gramsciano» - ha trovato i modi di discutersi e superarsi mettendo a frutto la sua cultura di classe e la sua storia, confrontate però con un’etica e un’esperienza davvero altre. Alcuni giovani critici auspicavano, a metà degli anni cinquanta, dopo il XX congresso, che Visconti, liberato dal super-io comunista, conquistasse una autenticità da grande borghese e grande decadente. La delusione fu per loro notevole nel vedere che non c’era in lui alcuna disperata coscienza della crisi borghese ma restava solo un vago compiacimento dannunziano, una ricca pro uvie di esteriorità. Il super-io politico gli era appartenuto solo a metà, come presenza in tempo di forti con itti sociali di un’idea di progresso nazionale e popolare la cui voce ascoltare e cui aderire coi propri modi e mezzi; caduto, gli restava non la personalità artistica di un aristocratico con alta coscienza del proprio mondo e della sua crisi, bensì la matrice più ovvia e antica della decadenza borghese o piccolo-borghese, con il suo seguito di gestualità e di processionale ricchezza dei luoghi e delle cose, con la ricca esteriorità delle apparenze. Non più Gramsci o Verdi, dunque, ma gli epigoni di Verdi e gli epigoni di D’Annunzio.

28. Akira Kurosawa È il più noto dei registi giapponesi, in ragione della sua pienezza di narratore, arte ce di storie d’immediata attrazione svolte con una sapienza appresa, più che dalla tradizione giapponese, dal romanzo ottocentesco europeo e dal cinema russo e statunitense. Ma lo è anche per un motivo più casuale la sua longevità di artista amato e rispettato universalmente - e per uno più serio: la vena umanista, paci sta e solidale del suo messaggio. Nato a Tokyo nel 1910, quando negli anni settanta cambiato enormemente il sistema dello spettacolo nel suo paese, e incapace egli di mantenervisi - tentò il suicidio, si mobilitò per lui un sostegno internazionale che gli ha permesso la realizzazione di nuove opere di grande impatto e successo, tutte a modo loro testamentarie dimostrazioni di ciò che l’artista ha potuto capire della vita, esortazioni all’uomo sui valori che devono fondarla. L’ultima immagine del suo penultimo lm, Rapsodia in agosto, è quella che meglio lo rappresenta: la vecchia che ha avuto i suoi cari uccisi dall’atomica di Nagasaki, avanza oggi coraggiosa, indefessa, armata di un fragile e inutile ombrello contro la tempesta della storia, a combattere lo storto e il male della storia. Ma tutti i suoi lm hanno un «messaggio» e non se ne vergognano, hanno la sicurezza della convinzione e il pudore della semplicità, si rivolgono a chi ha ancora occhi per vedere e orecchie per intendere. Prima che Rashómon (1950) diventasse il «caso» attraverso il quale l’Occidente scoprì il cinema giapponese e la sua storia ricchissima, Akira Kurosawa era nel suo paese un regista apprezzato e affermato. Il lm di samurai, il genere che lo rese celebre in tutto il mondo, non era il solo che praticasse, ma era tuttavia quello che l’aveva reso celebre - il debutto Sugata Sanshire (1943), un po’ «fumettistico», e il vivace «kabuki» Torā no o Fumu Otokatachi (Quelli che camminano sulla coda della

tigre, 1945). Alla ne della guerra aveva diretto anche lm di riferimento sociale come Waga seishun ni kuinashi (Non rimpiango la mia giovinezza, 1946) rievocazione degli scontri degli anni trenta in ambiente studentesco, sotto il dominio del regime militarista che aveva portato alla guerra di Cina e di Corea e al con itto mondiale, mentre Yoidore tenshi (L’angelo ubriaco, 1948) e Nora-inu (Cane randagio, 1949), già potenziati dal volto amaro del grande attore Toshiro Mifune, parlavano di malavita, di periferia, di un dopoguerra che prospera di truffe e dolori, di ingiustizie e violenza, di piccola e grande corruzione con un’attenzione partecipe ai destini spesso obbligati e alle scelte non facili di ribellarvisi, alle condanne senza rimedio che lo sfacelo di un paese ha prodotto - e il pretesto poliziesco è un pretesto, tuttavia di appassionato e convinto mestiere. Hakuchi (L’idiota, 1951) fu un adattamento da Dostoevskij che si poneva tutto dalla parte dell’«idiota» e della sua scon tta (meno convincente fu nel ’58 Donzoko, adattamento da I bassifondi di Gor’kij: appesantito dal modello, liberato da ogni manierismo letterario o tentativo di macchiette ma non dallo schematismo della pièce). Fu però il lm di samurai, il lm in costume e d’azione riferito al leggendario eroico del paese (il XV e il XVI secolo delle lotte di clan), a dargli la fama, per la strabordante vitalità e per l’immaginosa e abesca capacità di far rivivere quelle vicende come un moderno cantore di gesta, e magari un geniale regista di western (due suoi lm, La sfida del samurai e I sette samurai, vennero «copiati» per rifacimenti magniloquenti da Sergio Leone in Per un pugno di dollari e da John Sturges in I magnifici sette). Ma Rashomon era qualcosa di diverso: i racconti di Akutagawa da cui si dipartiva erano usati per una poliedrica sinfonia narrativa, una stessa vicenda cupa di lussuria e delitto era narrata diversamente dai suoi spettatori e attori, ma nell’incomprensibilità del mondo e nella diversità delle lingue ciò che restava di positivo era la generosità verso l’altro, verso chi ha bisogno e chi soffre; ed essa è un fatto di umili e non di grandi. Schichi-nin no samurai (I sette samurai, 1954) era l’avventura di sette samurai, diversissimi per carattere, sette aspetti dell’animo giapponese, che accettano di difendere un

villaggio da una banda di razziatori. Epico quanto picaresco, eroico quanto straccione, consegna alla ne un messaggio chiaro di superiorità del mondo contadino - e della sua perennità (ancora ci si credeva!) e naturalità e paci cità - su quello dei guerrieri: sono i contadini a essere i veri vincitori, ancora una volta, dirà alla ne il samurai più saggio. Kumonosu-jo (Il trono di sangue, 1957) adattava il Macbeth in modi splendidamente visionari e ossessivi (Shakespeare, insieme ai grandi scrittori russi, è sempre stato tra i massimi amori del regista). In realtà, con I sette samurai, sono pochi i lm «di samurai» del regista e, pure nella riconoscibilità della «mano», con netta differenza tra loro. Kakushi toride no san akunin (La fortezza nascosta, 1959) era davvero ariostesco nei suoi incontri e scontri, in ngimenti e rivelazioni, beffe e sortite, odii e passioni calibrati con una sorta di irritato, veloce, sbalordente controllo. Yojimbo (La sfida del samurai, 1961) era un sinuoso e sontuoso muover di pedine su una scacchiera notturna e imbrigliata. Per no il seguito di questo lm, Tsubaki Sanjuro (Sanjuro, 1972) aveva un ritmo e una luce tutti suoi, e faceva perno sull’ironia con cui è visto e si vede il protagonista (Mifune) nel suo compito di solutore di problemi politicomilitari. A questi titoli Kurosawa amava alternarne altri di piena attualità. In Ikiru (Vivere, 1952) un vecchio impiegato (Takashi Shimura) scopre il senso da dare alla vita solo quando si sa condannato dal cancro; un altro vecchio è ossessionato dalla paura atomica in Ikimono no kiroku (Vivere nella paura, 1952). Tengoku no jigoku (Anatomia di un rapimento, 1963) è un poliziesco «dostoevskijano» che intreccia dilemmi e sorprese morali dentro una storia di ricatti e di confronti tra alto e basso, potere ed esclusione, tra vittime ricche scosse dal dubbio e fanatiche rivolte giovanili. Era interpretato da Mifune, come Akahige (Barbarossa, 1965), un lm in costume pieno di pathos nella storia di uno strano medico benefattore capace di subitanei eroismi per difendere la sua impresa, ma conscio di praticare in questo modo quella violenza che ha ripudiato. Ma il lm di svolta, l’esperimento più curioso, l’apertura a una nuova stagione dopo il tentato suicidio (causato proprio dal

fallimento di questo lm) fu Dodes’ka-den (1970), diviso in otto episodi, affresco della città contemporanea traverso le pene dei suoi abitanti, per la prima volta un lm a colori, di immediata originalità nel loro uso. Questo lm ha molto dei vecchi, ma ha già la semplicità e varietà che è di Sogni. Dopo un lungo silenzio, Kurosawa poté tornare a girare, ma in Urss, in Mongolia, Dersu Uzala (1975), l’affettuoso ritratto en plein air di un «uomo di natura» che non sa adattarsi alla civiltà, un uomo con un senso della realtà incompatibile col nostro tempo. Per un tempo, Kurosawa ha certamente pensato di essere un sopravvissuto, un uomo di ieri incapace come Dersu Uzala di capire il nuovo e di agirvi. Poi ha deciso di passare ancora all’attacco, stupendoci dapprima con due immensi spettacoli a colori in cui lo splendore formale è sostegno alla presentazione dei dilemmi affrontati e poi con tre lm latissimamente «autobiogra ci», più semplici nella proposta di ri essione rivolta a un pubblico da cui egli si aspetta ancora qualcosa. Il suo virtuosismo continua a eccellere nel piccolo (certi episodi di Sogni, un lm fatto davvero di suoi sogni) o nel massimo di battaglie e di mischie, ma è più che mai a servizio d’altro, della tensione dell’autore a comunicare. Konna yume wo mita (Sogni, 1990) è un riepilogo di temi. Non tutti gli episodi trascinano il consenso: alcuni sono abe d’infanzia, altri storie di guerra o di paura atomica e di un futuro post-atomico. Là dove è più predicatorio o più spettacolare Kurosawa delude (come a tratti accade nell’eccesso coreogra co di Kagemusha) ma nel Tunnel vi è una perfetta immagine della guerra (un soldato inseguito da un cane rosso incontra in un tunnel i suoi commilitoni, morti, fantasmi) e nel nale Villaggio dei mulini, descrizione idilliaca del mondo com’era vi è nel corpo e nel sorriso del centenario interpretato da Chishu Ryu (che fu l’attore-feticcio di Ozu), nel suo elogio della vita semplice e poi nella descrizione del suo funerale religioso-e-pagano, la straziante nostalgia di un’età dell’oro, di un’utopia perduta, non più realizzabile. Anche Madadayo (Il compleanno, 1993), girato da Kurosawa nel suo 83° anno di vita, è costruito per episodi, ma è più unitario e in sottotono. A distanza di anni gli allievi di un professore universitario si

radunano per onorarlo. Piccoli tocchi di diversità, nelle grandi trasformazioni del mondo. Conta la fedeltà - ai valori, alle persone, alla vita anche animale (nel bellissimo episodio del gatto). In Kagemusha (1985) un principe è sostituito nel Cinquecento da un sosia, per ingannare il nemico. Il soggetto non è nuovo, ma è trattato con scenogra ca grandiosità: la vanità ne è il tema vero: delle apparenze e della storia. Ran (1985) è tratto dal Re Lear, e Ran vuol dire caos. La perennità del male, la pochezza dell’uomo «senza Dio e senza Buddha». «Abbiamo sbagliato strada», dice il re (Tatsuya Nakadai); e il buffone (Peter Hisashi Igawa): «Gli esseri umani sbagliano sempre strada». Il caos di Ran è l’urlo e il furore della favola cieca della vita, dell’uomo in società, della Storia. Al tempo di Ran non c’era certo l’atomica, che è l’incubo di A chigatsu no kyohshikyoku (Rapsodia in agosto, 1991), ma è come se a essa si dovesse ineluttabilmente arrivare. La molla e il gioco del potere concludono sempre sul massacro, sembra dire il vecchio patriarca giapponese. Ma in Ran si nisce con l’agghiacciante immagine del cieco che si muove a tentoni in cima a una scogliera, emblema di una umanità alla deriva, mentre in Rapsodia la vecchia vedova - il vecchio regista! - dice che bisogna opporsi, e si oppone. Le differenze tra Ran e Re Lear non sono maggiori di quelle tra Il trono di sangue e Macbeth: il rispetto è massimo, nella sostanza. Ammirevole nella libertà della rilettura, inserita nel contesto giapponese, e magni camente interpretato (Kurosawa vi si conferma un direttore d’attori che li esalta estraendone il massimo), l’arte delle immagini si unisce a quella dei suoni con contrappunti tra colore e rumore cui il cinema ci aveva disabituato, il godimento dell’occhio va di pari passo con l’orrore della storia, la bellezza di insegne, castellli, armi, vesti, prati, montagne, luce e movimento con la purezza della vicenda, dell’apologo, della lezione sulla tragica farsa della vita. Tra incendi e complotti, lusinghe e battaglie il vecchio capo scopre la verità nella solitudine. Troppo tardi. E il gioco continua: i ciechi che siamo continuano a s orare l’abisso né

può fermarli lo splendore della natura e dell’arte. L’arte, anzi, come fece un altro suo segreto maestro, Tolstoj, egli in Rapsodia quasi la respinge, sacri cando la bellezza alla purezza del messaggio.

29. Billy Wilder Il cinismo che a Wilder è stato da ogni parte attribuito è ben reale, ma è tuttavia quello dei grandi conoscitori della natura umana e non di coloro che - legioni nel nostro tempo e in ogni tempo - pretendono conoscerla per farne giusti cazione alle proprie colpe o viltà. Alla lunga, ci si è pur accorti che Wilder è uno dei più acuti narratori della perdita di peso della morale individuale nelle spire della storia e nelle leggi dell’economia, che è insomma un grande moralista, e che dalla conoscenza delle umane debolezze egli non deriva una misantropica ripulsa dell’uomo, di cui anzi sa cogliere la delicatezza, tenerezza, solidarietà e dignità, ma semmai una sempre disincantata e a volte affettuosa partecipazione. Conoscere non vuol dire approvare, ma neanche ripudiare in una superba dichiarazione di distanza o di differenza. Maestro del dramma e della commedia, Wilder non ha lesinato giudizi e opinioni; talora conquistando immediatamente l’adesione del grande pubblico statunitense e talora invece - anche se l’aggressività non era maggiore e l’intelligenza dell’analisi e dell’accusa non era minore - irritandolo oltre modo perché toccava i suoi più radicati pregiudizi, il suo puritanesimo. Nato a Vienna nel 1906, Wilder fu ballerino, giornalista, gagman e in ne sceneggiatore a Berlino, per l’Ufa. Ebreo, si rifugiò all’avvento del nazismo a Parigi, dove co-diresse una commediola qualsiasi, e a Hollywood dove, quasi sempre alla Paramount, fece coppia con uno sceneggiatore statunitense suo coetaneo, Charles Brackett, scrivendo commedie per maestri come Lubitsch e Hawks (dai quali poté imparare tantissimo mediando in uenze e sintonie europee con mestiere e vivacità americane) e per Leisen. Quando passò alla regia, la collaborazione con Brackett non s’interruppe, ma se ne affiancò un’altra con I. A. L. Diamond, più congeniale a Wilder il primo nei drammi e il secondo nelle commedie. In ogni caso, Wilder

mise sempre mano alla sceneggiatura dei propri lm. Essi si divisero nettamente in commedie e drammi ma i secondi andò via via abbandonandoli dopo quattro titoli di altissimo livello: Double indemnity (La fiamma delpeccato, 1944) è prototipo di un «noir» peccaminoso e tesissimo, per l’interpretazione perfetta di una Barbara Stanwyck bionda e cattivissima (un debole viene spinto all’omicidio da una per da «dark lady»); e lost weekend (Giorni perduti, 1945) evoca giorni e incubi di uno scrittore alcolizzato (Ray Milland, sinora mediocre attore di commedie); Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) è la prima grande ri essione di Wilder sul mondo del cinema e sulla sua crudeltà - veri cata nel crollo dei divi, nella passione della fama e nell’ossessione della decadenza: Gloria Swanson, diva del muto recuperata «dal vero», Stroheim come suo ex regista nito suo autista, William Holden come giovane aspirante sceneggiatore che si lascia irretire dalla diva e in ne, quando vuol liberarsi, ne è ucciso (è lui a narrare in ashback tutta la storia: un cadavere che galleggia nella piscina della villa); e big carnival (L’asso nella manica, 1951) dimostra la possibilità del moderno giornalismo di creare «casi» e mostri, nella sua ambizione a sfruttare la morbosità del pubblico, che vuole eccitarsi e il calcolo dei politici che vogliono voti, e dei giornalisti che vogliono vendere, che vogliono potere e celebrità. L’aneddoto: un poveraccio agonizza prigioniero di una miniera, e un reporter capace di tutto (Kirk Douglas) scatena attorno «un gran carnevale». A parte due o tre lm d’occasione e un passabile esercizio di abilità come e Spirit of St. Louis (Aquila solitaria, 1956) sulla mitica trasvolata senza scalo dell’Atlantico di Lindberg nel ’27; a parte due «polizieschi» di sovrana eleganza e humour, volti entrambi verso la commedia - Witness for prosecution (Testimone d’accusa, 1957) da Agatha Christie, squisitamente convenzionale, e e private life of Sherlock Holmes (La vita privata di Sherlock Holmes, 1970), che nell’ironia dell’approccio e nella sottile polemica antirazionalista ha qualcosa di autobiogra co e di malinconico; a parte una nale Fedora (1978, girato in Europa perché ormai Hollywood gli aveva voltato le spalle) - tutti gli altri lm di Wilder sono commedie,

feroci o sentimentali, e le sentimentali (come Sabrina, 1954 o Arianna, 1957, entrambe in gloria di Audrey Hepburn nello stile delle eleganti lezioni di regia degli anni trenta) venate di piccoli nascosti veleni. Era una commedia già il lm di esordio, e major and the minor (Frutto proibito, 1942) sull’attrazione sessuale di un adulto per una ragazzina, ma naturalmente lo spettatore sa che la ragazzina è in realtà una donna. E però con A foreign affair (Scandalo internazionale, 1948) che si ha la misura dell’allegra ferocia di Wilder, su un tema che gli è decisamente congeniale: nella Berlino occupata dagli americani, una bigotta inviata dal congresso, scopre (come Ninotchka in un lm scritto anch’esso da Wilder) il fascino della dolce vita a borsa nera, in un contesto di immensa ipocrisia e durezza dove la lotta per la sopravvivenza fa dimenticare ogni criterio morale e occupanti e occupati s’ingannano a vicenda sapendo di ingannarsi. Visione più oltranzista ed eterodossa della «Germania anno zero» non avremmo potuto avere, e in essa c’è anche un sospetto di vendetta da parte di Wilder su una nazione che ha sterminato ebrei come lui, e suoi amici e familiari (in Stalag 17, 1953, vi è, conseguente, la più aperta difesa dell’«arte di arrangiarsi» e di sopravvivere in circostanze estreme, senza per questo doversi vendere al nemico; e il lm è, diciamolo, tra i suoi più discutibili, forse per no un po’ listeo nel personaggio interpretato da William Holden). La stessa sapida, scatenata intelligenza politica e lo stesso sapore di vendetta di Scandalo internazionale ritroveremo in One, two, three (Uno, due, tre, 1961), sulla guerra fredda, sul muro di Berlino, sui prodromi di coesistenza paci ca e integrazione economico-morale; stavolta oltre che con l’ipocrisia tedesca e la brutalità della morale yankee Wilder se la prende con l’ipocrisia e ottusità comunista. Commedie-farsa niscono per essere e seven year itch (Quando la moglie è in vacanza, 1955) e Some like it hot (A qualcuno piace caldo, 1959), le due con Marilyn Monroe nel pieno del suo fulgore, e Irma la douce (Irma la dolce, 1963), più meccanica e scontata, con la coppia Lemmon-MacLaine. Come A qualcuno piace

caldo, anche e front page (Prima pagina, 1974, quindici anni dopo) è ambientato negli anni venti, nell’età del jazz e dei gangsters, e anche dell’esplosione del giornalismo più cinico e amorale. La vecchia farsa a fondo poliziesco di Ben Hecht e Charles McArthur sul mondo dei giornalisti, tante volte proposta, è servita a puntino da una coppia maschile d’interpreti, Jack Lemmon e Walter Matthau, che Wilder lanciò e usò ancora in e fortune cookie (Non per soldi… ma per denaro, 1966), sul mondo delle assicurazioni ma soprattutto sull’avidità della specie umana e i pochi modi possibili di contrastarla (l’amicizia solidale oltre il ceto e il colore della pelle), e nel suo ultimo lm, remake piuttosto inerte di una commediola francese, Buddy Buddy (1981), che non fu un successo. Non lo era stato neanche, vituperato dai sostenitori statunitensi del buoncostume offeso, Kiss me, stupid (Baciami, stupido, 1964), con mogli vere e nte allegramente consenzienti nel sacri carsi al mito del successo nella fonda provincia dell’America; e il fatto che non vi fosse un’adeguata coppia di attori maschili nocque al lm quanto la distruzione del mito moralistico della coppia che resiste alla lusinga del denaro. Più sentimentale e bon vivant, Avanti! (Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, 1972, girato in Italia) tornava a irridere bonariamente il puritanesimo Usa, a vantaggio della saggezza epicurea dell’Europa, come in una qualche commedia di Lubitsch. Tutti questi lm smontano clichès, a volte anche rivitalizzandoli, ma il massimo di gioiosa cattiveria è forse rintracciabile in Quando la moglie è in vacanza, distruzione dell’americano medio infrollito dalla società di massa, incapace di afferrare la vita anche quando si presenta nei panni e nelle carni di una disponibile Marilyn Monroe. Citazioni e omaggi costellavano il lm, tra le commedie più perfette che il cinema abbia dato come, peraltro, ma ora al con ne tra commedia e melodramma e anzi dramma, accadeva con e apartment (L’appartamento, 1960), sulla prostituzione come legge di società nella civiltà del capitalismo. Wilder non si era mai spinto più avanti, nella dimostrazione dei meccanismi che sovrintendono ai rapporti tra gli uomini (e naturalmente tra gli

uomini e le donne), ma lo ha fatto con affettuosa e delicata ruvidezza, con rispetto delle vittime e del loro modo di arrabattarsi, dei loro poveri tentativi di ribellarsi. Cinismo, questo? Piuttosto comprensione dolente, che ha saputo distinguere tra dominio, complicità, sudditanza e la ricerca quasi impossibile di sfuggire alle leggi d’economia e di cultura che reggono un sistema. Con Fedora, lm-testamento suo malgrado, Wilder ha narrato di nuovo il mondo del cinema, che conosce così perfettamente nella sua miseria, e da cui ormai si sentiva esautorato. Film di morte, Fedora è tuttavia un lm sereno, che sembra capire e perdonare tutti i personaggi, vittime e complici di un meccanismo che li sovrasta. Wilder ha raccontato con magistrale perfezione di tecniche narrative e con eccezionale brillantezza di stile il secolo XX uscito da due con itti mondiali e assestato, in Occidente, nella logica del benessere e nelle leggi del pro tto, ma lo ha fatto a partire dai tanti modi di calarvisi o di soffrirne di personaggi comuni, imbrigliati nelle strette spire della morale familiare e sessuale, nel conformismo ipocrita delle convenzioni che a quelle leggi corrispondono. Il suo eroe è un homo oeconomicus ma anche un uomo o una donna, una persona che, qualora l’inautentico non l’abbia devastata e trasformata, è dotata di aspirazioni e sentimenti che le portano una opaca e non riscattata capacità di soffrire.

30. John Huston Morto a 81 anni a Newport, Rhode Island, nel 1987 (era nato a Nevada, Mo., nel 1906) John Huston aveva appena nito di girare un nuovo lm tratto da uno dei più bei racconti della letteratura del secolo, e dead (I morti) di James Joyce, dalla raccolta Gente di Dublino. Con l’Irlanda Huston aveva una lunga storia d’amore. Anche con la letteratura aveva a che fare da anni, e aveva bensì portato sullo schermo romanzi, racconti o testi teatrali notissimi o quasi ignoti, cercandovi il conforto per le sue idee e l’eccitamento per le sue regie. Aveva bensì fallito - terzultimo lm - quello che avrebbe potuto e dovuto essere il suo capolavoro, cui lungamente aveva ruotato attorno e che aveva attratto prima di lui Buñuel e Losey, il disperato e magni co Under the volcano (Sotto il vulcano, 1984) di Malcolm Lowry, straziante storia ubriaca di un’autodistruzione amorosa sullo sfondo di un Messico magico e opprimente. Forse quel romanzo, specchio della pulsione di morte del protagonista, quella vicenda e quel modo di vedere non gli erano più congeniali come un tempo, forse la vecchiaia di Huston esigeva meno esasperazione romantica, più per da distanza (L’onore dei Frizzi) o più pudica malinconia (I morti). John Huston amava diffondere di sé un’immagine di irregolare e anarcoide avventuriero; molto «personaggio» e molto «divo» era perciò molto amato dai media. I suoi meriti artistici sono probabilmente inferiori alla fama e alla stima di cui ha goduto poiché, come diceva Truffaut, faceva «parte di quei tipi che avendo qualche difficoltà con la regia, ngono di preferirle la vita». A leggere l’autobiogra a dettata da Huston nel 1980, non risulta sempre simpatico: d’un egoismo scoperto e spavaldo, ha seminato vittime tra familiari e amici con serena indifferenza; e si vantava di avventure che in realtà qualunque ricco e privilegiato come lui era ( n dalla nascita: il padre era un grande e famoso attore, Walter Huston, interprete premio

Oscar del suo Il tesoro della Sierra Madre) poteva permettersi (i safari di cui narrava bastava pagare per farli). Nei confronti della propria opera, poi, non dimostra certo l’accanimento e la passione di altri registi: non si conservava affatto integerrimo di fronte al compromesso ben retribuito, e uno dei suoi lm che avrebbe potuto essere tra i più belli, e red badge of courage (La prova del fuoco, 1951) fu rimaneggiato dalla Mgm senza che egli si desse molto da fare per impedirlo. L’opera di Huston risente di tutto questo, del suo vitalismo come della sua cedevolezza: è discontinua, a tratti casuale, con molti ton , e senza punte davvero eccelse. (Suo contemporaneo, ugualmente egocentrico e però molto autodistruttivo, Orson Welles fece pochissimi lm ma nessuno mediocre o indifferente, e anche i suoi fallimenti furono sotto il segno di una coerente ambizione.) Ciò nonostante, la lmogra a di Huston è varia ed entusiasmante. Quando si cercò in passato di individuare nella varietà dei titoli e dei generi della sua carriera un lo tematico, delle costanti e ossessioni d’autore, li si trovò nell’esaltazione di imprese eroiche destinate quasi sempre alla scon tta, trattate spesso con un humour beffardo, o nella descrizione del sottile con ne che divide coraggio e viltà, nella «prova del fuoco» di personaggi alla ricerca di se stessi nell’avventura e nella s da, o costretti alla s da dalle circostanze. Ma la genericità di alcune regie toglie sale all’avventura come alla s da, e le varianti sono troppe e contraddittorie per indicare una scelta morale ed estetica de nita. Se una base comune a tutta l’opera possiamo trovarla, essa va cercata in una formazione tipicamente «anni trenta» sia nel modello umano che appare dominante nella vita di Huston, quello del suo amico Hemingway con il suo «machismo», i suoi eroi scon tti ma «real men» anche di fronte al declino e alla morte. Quando poi si trovò a anco sceneggiatori di talento e attori amici e ricchi di aura (Bogart, Gable, Gar eld, Mitchum, Brando, Cli, Nicholson, Burton, Newman, la Hepburn, la Gardner, la Taylor, la Kerr, Marilyn…) anche la sua più prosaica pigrizia poteva venir superata dal gusto

evidente, captabile dall’elettricità dell’azione e della recitazione, di fare brigata, dal gusto della lavorazione del lm vissuta come avventura collettiva. Se dunque gli si perdona con sforzo la super cialità di opere anche famose, come per esempio Moulin Rouge (1952), biogra a di Toulouse-Lautrec riscattata solo dalla magni cenza del colore, e roots of heaven (Le radici del cielo, 1958), d’ambiente africano, ecologico e scombinato, e barbarian and the geisha (Il barbaro e la geisha, 1958) sul primo incontro storico tra Usa e Giappone, distrutto da un John Wayne intollerabile, Freud (Freud, passioni segrete, 1962), lunghissimamente predisposto con Sartre e nito in rozzo melò, e su su con altri titoli no a Sotto il vulcano; gli si è però grati, al contempo, per altre opere di superba «tenuta». Già il lm di esordio - alla Warner, dove aveva scritto per Wyler e per Walsh - aveva dimostrato un’intuitiva padronanza della narrazione, l’intelligenza dello stringer situazioni e de nir personaggi a tutto tondo. Era e maltese falcon (Il mistero del falco, 1941) da Hammett, prototipo del moderno «noir» poi imitatissimo, con una galleria di personaggi minacciosi ambigui bizzarri capitanati da un Humphrey Bogart nalmente e de nitivamente assiso nel suo ruolo di disilluso, ironico, disinteressato anti-eroe che ne ha viste troppe, ma è ancora capace di resistenza e di attacco. Dopo documentari di guerra di agghiacciante precisione realistica e di virile adesione alle sofferenze dei combattenti, il ritorno a Hollywood lo consacrò regista da Oscar: e treasure of the Sierra Madre (Il tesoro della Sierra Madre, 1948) da B. Traven, su un gruppo di disperati cercatori d’oro sulle montagne messicane; tutti uscivano scon tti dall’impresa, tutti gabbati dal caso e dalla vita, ma tutto niva con una grandiosa risata. Perdente impresa di gruppo come quella di e asphalt jungle (Giungla d’asfalto, 1950), bellissimo, ironico, commosso lm di gangsters, galleria di personaggi ora patetici ora sordidi, prototipo stavolta dei lm di rapina che illustrerà tra gli altri il Kubrick di Rapina a mano armata; e come quella, politica, di We were strangers (Stanotte sorgerà il sole, 1949), che però si rivelerà vincente nonostante tutto: fallisce un attentato a un

dittatore cubano preparato tra claustrofobici pericoli, ma la rivoluzione scoppia lo stesso. Fallisce in modo comico l’impresa sgangherata e parodistica di Beat the devil (Il tesoro dell’Africa, 1954) scritta da un Truman Capote molto spiritoso e recitata da Bogart e C. con il gusto della presa in giro anche di sé, e riesce invece pienamente l’epica-picaresca impresa di due anziani reietti (Bogart e la Hepburn) in e African Queen (La Regina d’Africa, 1951) da Forester e sceneggiato da Agee, sulla cui avventurosa lavorazione Peter Viertel ha scritto un romanzo da cui Clint Eastwood ha tratto un lm in cui ha riservato a se stesso il ruolo di Huston. Il delicatissimo Heaven knows, mr. Allison (L’anima e la carne, 1957), che vede lo strano e irrealizzabile incontro in un isolotto del Paci co in guerra tra il rude marine Mitchum e la monaca Deborah Kerr, e A walk with love and death (Di pari passo con l’amore e la morte, 1969) che vede spudoratamente nella Francia del Trecento un mondo attualizzabile di pericoli in cui la gioventù deve avventurarsi da sola, sono i lm di «coppia» di Huston, e dispiace non ne abbia fatti altri. Dopo l’ambiziosissimo Mohy Dick (1956), grandiosamente blasfemo (Moby Dick è il Dio cui Achab si ribella, ossessionato superuomo), dopo l’impresa incontrollabile di un e Bible (La Bibbia, 1966) il cui brano migliore resta quello dell’arca di Noè (e Noè era interpretato dallo stesso Huston), dopo un lm lungamente sognato ma stavolta, per esser venuto troppo tardi, per niente sminuito nel suo ardore e nella sua tesi, e man who would he king (L’uomo che volle farsi re, 1975) da Kipling, su due soldati che vogliono impadronirsi del tesoro di Alessandro e vengono innalzati a dèi presso una selvaggia tribù orientale, è ai lm di ambigua e distruttiva esplorazione di tensioni e repressioni sessuali che bisogna accostarsi per capire Huston. Egli è rispettoso delle tendenze (o repressioni, o anche perversioni) d’ognuno. Ma c’è distanza nel caso del Marion Brando di Reflections in a golden eye (Riflessi in un occhio d’oro, 1967), dal romanzo di Carson McCullers su un piccolo campo militare del Sud degli Usa e su un omicidio compiuto da un maggiore che, in un contesto di varie esasperazioni, non osa rivelare a se stesso la propria omosessualità, e c’è affetto in e

night of the iguana (La notte dell’iguana, 1964) nel caso dell’ex prete Richard Burton, circondato da strane donne che vivono ognuna diversamente la propria sessualità in un Messico di turisti. Era tratto da Tennessee Williams, ma Huston ne tolse ogni morbosa cupezza. e misfits (Gli spostati, 1961), scritto da Arthur Miller, narrava l’impossibilità d’incontro di personaggi ormai vinti, dalle parti di Reno, Nevada, città di divorzi e di s brati cowboys (gli interpreti morirono tutti di lì a poco: Clark Gable, Marilyn Monroe, Montgomery Cli); e il lm, coi suoi toni autunnali e malinconici, sembra prevederlo. Resta da dire di due western, e unforgiven (Gli inesorabili, 1960), bel «romanzo» umanistico, di incontro bianchi-indiani, anti-razzista ma pur tuttavia in ottica bianca, e e life and times of Judge Roy Bean (L’uomo dai sette capestri, 1972), parabola dell’individualismo del West senilmente esasperata e in ne cinica, non riscattata dall’ironia e dall’antifrasi della costruzione a ballata. Degli ultimi lm occorrerà ancora citare l’hemingwayano Fat City (Città amara, 1972) per i bei ritratti di pugili falliti, e Wise Blood (La saggezza nel sangue, 1979) da Flannery O’Connor, ancora una scrittrice dal profondo Sud, storia del fanatico fondatore di una «Chiesa di Cristo senza Cristo». È un lm pessimista, cupo, violento, mortuario, tentato - e qualcosa di più che tentato - dal blasfemo, ma stavolta con freddo sarcasmo e senza nulla di superomistico. Sarcastico ma sfacciatamente comico e cinico, parodia della ma a e delle sue «famiglie», pieno d’oltranza nella descrizione di un mondo di oltranza e volgarità, Prizzi’s honor (L’onore dei Prizzi, 1985) non rispetta nessuno. Il vecchio Huston poteva pienamente permetterselo, e questo è uno dei suoi lm più liberi sfrenati riusciti. Il penultimo. E poi c’è l’ultimo, il lm d’addio, e che sia tale l’autore lo sa. Huston deve ormai rendere conto soltanto ai morti, e se ha potuto coi Frizzi permettersi di svillaneggiare la ma a come metafora dei modi di vivere di tutta una società e un’epoca, aiutato da attori sovreccitati e ipertro ci (Nicholson e sua glia Anjelica Huston), ha voluto però rispettare i morti al cui numero si apprestava ad

appartenere. Vecchia volpe egoista, egli non aveva dato sinora che approcci al capolavoro, a volte veri e propri capolavori mancati, lm non ri niti per fretta e smania di vita. Maestro di fatti e di azioni, è riuscito in punto di morte a superarsi. Non si è mosso dalla descrizione e dal concreto, ha rispettato alla lettera Joyce, abbassandosi lui dall’eroico drammatico o eccezionale al banale, però caricando lentamente il banale di una tensione, di una sorta di crescente sospeso sereno magnetismo da medium. Qui sembra davvero di avvertire, tra i vivi interpreti del lm, la presenza dei loro morti, fantasmi.

31. Elia Kazan La sua è forse, con le sue stesse contraddizioni, la più straordinaria biogra a artistica del dopoguerra americano, tutta dentro i fatti e le cose, coraggiosa e corruttibile a un tempo, prima segnata da una giovane militanza, in seguito trionfalmente accolta nel generico democraticismo della 20th Century Fox, poi con la «caccia alle streghe» e McCarthy traditrice del passato e rinnegatrice delle vecchie convinzioni, e protervamente egocentrica nell’autogiusti cazione, e in ne, con la maturità, placata nella ricerca delle più profonde radici, quelle proprie e quelle della civiltà americana, senza per questo farsi cauta o paci cata. L’itinerario di Kazan (Istanbul 1909), privo di quelle mediazioni culturali che anche i più tormentati registi europei hanno pur avuto, inizia negli anni trenta, con l’esperienza del Group eatre che unisce insegnamenti stanislavskiani e impegno politico all’insegna degli ideali rooseveltiani, corretti però con un’adesione, tipo «fronte popolare», al comunismo. C’è negli stessi anni il suo primo approccio al cinema, con documentari non indegni del magistero di Paul Strand e Leo Hurwitz e che oggi de niremmo di «cinema militante», e con curiose apparizioni in veste di attore in melodrammi sociali per la Warner. Dopo essersi affermato negli anni di guerra come uno dei massimi registi teatrali di Broadway, cui tornerà irregolarmente con regie che sancirono il successo delle opere solide e mediocri di Tennessee Williams, Arthur Miller e William Inge, tra decadenti, cechoviane e di denuncia (più tardi di controdenuncia) politica, Zanuck lo attira a Hollywood nel ’45. Dai suoi primi lm ricava onori e successo, anche se A tree grows in Brooklyn (Un albero cresce a Brooklyn, 1945), Boomerang (1946), Gentlemen’s agreement (Barriera invisibile, 1947), Pinky (Pinky, la negra bianca, 1949, un copione abbandonato da Ford malato) sono esposizioni corrette, e sovente banali, di temi

sociali affrontati all’interno di generici limiti progressisti, e messi in scena in termini di buon melodramma di genere. I poveri immigrati irlandesi di Brooklyn, gli ebrei di Barriera invisibile, Pinky e sua nonna sono visti in toni di paternalismo dalle in essioni più o meno illuminate e dentro le convenzioni del cinema ufficiale del tempo, certamente non del più azzardato. Poi viene il tradimento e l’ansia di giusti carlo, l’impossibile rivendicazione delle sue ragioni. Ma per farlo, mentre cresce all’Actors’ Studio, con Lee Strasberg, suo vecchio collega del Group, una nuova leva di attori segnati da un peculiare stile di recitazione, egli si fa più aggressivo e riempie di barocca e autobiogra ca violenza le sue storie. Panic in the streets (Bandiera gialla, 1950) va a girarlo in una New Orleans claustrofobica, più impressionante di quella, morbosa e letteraria, di A streetcar named Desire (Un tram chiamato Desiderio, 1951); Viva Zapata (1952), scritto da un altro exprogressista, John Steinbeck, ri ette con intelligenza sulla «impurità» della rivoluzione che, una volta al potere, stalinianamente macina, con i suoi intellettuali divenuti in di commissari politici, le istanze libertarie delle masse, e non solo dei peones messicani; e man on the tight rope (Salto mortale, 1953) invece affronta di petto il tema della guerra fredda, l’oppressione comunista nei paesi dell’Est, esaltando nei modi di una rozza suspense propagandistica le scelte di libertà verso occidente. On the waterfront (Fronte del porto) è il trionfo del ’56 e dell’ambiguità kazaniana. Tramite lo scaricatore di porto interpretato da Marion Brando che, dopo una faticosa presa di coscienza, denuncia alla polizia il sindacato dei portuali perché corrotto e criminale, Kazan parla di sé e dei comunisti imbrogliando le carte. Gli risponderà Arthur Miller col dramma Uno sguardo dal ponte, privo però del vigore del lm di Kazan e basato su un’ideologia troppo generica. Al tormentato Brando fa seguito, con modi ancor più radicalmente da Actors’ Studio, talora precocemente invecchiati nei loro tic di «interiorizzazione», il James Dean di

East of Eden (La valle dell’Eden, 1955) che, maleamato Caino in rivolta contro il padre e il fratello, raggiunge oltre i tormenti dell’adolescenza una nale ed equivoca conciliazione, promettendo di diventare un self-made man dei più temibili. In Kazan si pongono però già altri temi che superano l’ambito autogiusti catorio, ideologicamente così intricato e povero; e, dopo Baby Doll (id., 1956), affascinante «numero» di attori calato in quella decadenza meridionale in cui sguazza Williams, con A face in the crowd (Un volto nella folla, 1957) egli narra la carriera di un malfattore, un cantante folk vagamente ispirato a Will Rogers e alle sue fortune, che tribuniziamente, tra corruzione e intrighi, dà grazie a radio e Tv la scalata alla politica. Il ruolo dei mass-media e della tv, le forme della lotta politica americana, il demagogico populismo dei conservatori sono mostrati con una spietatezza e forza realistica inusitate che solo la giusta prevenzione contro Kazan, ancora assai forte, non permise a suo tempo di valutare obiettivamente, anche nel senso di chiusura di un periodo controverso. Con la sua ideale trilogia americana, America, America (Il ribelle dell Anatolia, 1963), Splendor in the grass (Splendore nell’erba, 1961) e Wild river (Fango sulle stelle, 1960), opere della maturità, Kazan prospetta una ri essione che, oltre il terreno dell’io, sa scavare su quello comune di una civiltà e delle sue complesse e originali radici. L’America cui mira il contadino anatolico Stavros è un sogno che può essere raggiunto solo tramite il sacri cio di altre persone e la rinuncia ai propri valori e ideali. Ciò nonostante, afferma Kazan, è possibile attraversare questa caduta mantenendo intatta la speranza, il sorriso. E la caduta è comunque il costo da pagare obbligatoriamente per sopravvivere e affermarsi. Dopo l’immigrazione di inizio secolo sono i grandi momenti di crisi collettiva a essere perlustrati a ritroso: in Splendore nell’erba l’euforia degli anni trenta e la sua nevrosi, in un cambiamento di valori messo alla prova dalla «depressione» e per il tramite di un’appassionata e triste storia d’amore; in Fango sulle stelle il vecchio e il nuovo che, nell’esperienza del New Deal, trovano un provvisorio accordo: l’intellettuale (Montgomery Cli),

venuto a portare il progresso e costretto a distruggere un mondo e una tradizione, comprende il loro signi cato e con essi cerca di mediare. Film distesi, di ampio respiro romanzesco, alternati di furore e di calma, sono espressioni di una sofferta analisi dell’identità americana, dei suoi sforzi, o illusioni, per il raggiungimento di aspirazioni individuali conservando, nonostante tutte le compromissioni e nanche i tradimenti degli ideali di partenza, una coscienza chiara, una pulizia interiore; e questo in un universo che fa di tutto per annichilire il singolo e di cui tuttavia ognuno è partecipe a pari responsabilità. Questa rivendicata ambiguità è in ne produttiva. E i larghi movimenti di questi lm, derivati dall’amore di Kazan per i russi, soprattutto Dovzenko, e per l’umanesimo di Ford o di Donskoj, con un senso però più dialettico e amaro, gli sono valsi un rispetto e un’attenzione che non sono stati scossi da e arrangement (Il compromesso, 1965), faticosa sintesi da un suo romanzo- ume, a un tempo sincero e commercialmente abile, scritto per tornare a galla dopo il disastro economico del suo lm più complesso, Il ribelle dell’Anatolia. Il compromesso è un lm ricco di brani possenti come il folgorante inizio, e eccellente nella costruzione di personaggi signi cativi quali i vecchi immigrati, la famiglia del protagonista, o la moglie borghese resa da Deborah Kerr. L’apertura che il lm dispone per il protagonista, cioè per Kazan, è già dentro la nuova America degli anni sessanta, la sua sensibilità e il suo ri uto di conformismo. Si tratta, ancora una volta, di una storia di rinascita, e di faticosa ricerca di fedeltà a se stessi nonostante tutto. Nei nuovi ideali Kazan si getterà in pieno con un lm girato addirittura a sedici millimetri, a riprova della sua capacità di partire ogni volta daccapo, e visitors (I visitatori, 1972), che narra i dilemmi vecchi e nuovi, e sempre gli stessi della difficoltà di essere americani - di un gruppo di giovani reduci dal Vietnam, da una guerra che è motivo di nuove crisi e lacerazioni delle coscienze. Su commissione del produttore Sam Spiegel e su sceneggiatura di Harold Pinter, nel 1976 Kazan dirige e last tycoon (Gli ultimi fuochi), dal romanzo incompiuto di F. Scott

Fitzgerald ispirato alla gura del produttore hollywoodiano Irving alberg. È un lm di sorvegliata eleganza, ma senza concessioni alla nostalgia e all’archeologia della moda rétro, rigorosamente sdrammatizzato, notevole per il suo equilibrio tra coinvolgimento romantico e distacco critico che riesce a tratti, solo a tratti, a tradurre in immagini l’incanto e il senso della prosa tzgeraldiana.

32. Robert Bresson «Un lm non è uno spettacolo, è innanzitutto una scrittura». E anche: «È l’interiore che comanda. So che può apparire paradossale in un’arte in cui tutto è esteriore. Solo i nodi che si annodano e si sciolgono all’interno dei personaggi danno al lm il suo movimento, il suo vero movimento. Il lm è il tipo stesso dell’opera che esige uno stile. Ci vuole un autore, una scrittura». Bresson (nato a Brémont Lamothe, Auvergne, nel 1907) è, come Dreyer, autore soltanto di quelle opere che non gli chiedono compromessi. Non ha rapporti col «cinema» come industria dello spettacolo o come contingenza creativa. Si può permettere, di converso, una assoluta padronanza sulle sue opere che sono, tutte, come egli le ha volute. Spesso la sua prima ispirazione è letteraria (Diderot, due volte Bernanos, due volte Dostoevskij, e in ne Tolstoj, ricorrendo solo alla prima parte di un racconto che parla della maledizione portata dal denaro e propone però, nella seconda, la possibilità del riscatto), ma anche in questo caso legge il testo a suo modo, e ne fa altro. Non ha usato attori se non nei primi tre lm, poiché lo avrebbero condizionato con la loro «esteriorità». Distanzia, non distrae, non consola, esige l’attenzione e il rispetto per il contenuto attraverso la massima possibile nudità e precisione della forma. I suoi personaggi sono mossi, dapprima, da un forte anelito volontaristico nonostante tutto - Les anges du peché (La conversa di Belfort, 1943), Les dames du Bois de Boulogne (19’45), Journal d’un curé de campagne (Diario di un curato di campagna, 1951), e ancora Le proces de Jeanne d’Arc (Il processo di Giovanna d’Arco, 1961) -, da una ricerca di verità, o di vendetta, o di libertà, o di fedeltà. Tentano la grazia, la provocano - Pickpocket (1959). Ma poi, semplicemente, vivono - l’asino di Au hasard, Balthazar (1965), Mouchette (1966) concludendo nella assurdità della morte, nella scelta del

suicidio di fronte all’orrore del mondo, o ripiegando sul sogno, come il sognatore di Quatre nuits d’un rèveur (1971). Cercando di capire, a partire da una scon tta che è data in partenza - il suicidio della «mite» in Une femme douce (Così bella, così dolce, 1968), il fallimento nella conquista del Graal (la ricerca dell’assoluto, cioè della conoscenza) in Lancelot du Lac (Lancillotto e Ginevra, 1973) per Lancillotto e i suoi amici, nudi in ne delle loro armature, e incapaci di accettare questa nudità. O giovani, perduti in un mondo sempre più terribile, dove più nulla può offrire speranza, ancora scegliendo il suicidio come in Le diable, probablement (Il diavolo, probabilmente, 1977). O, senza apparentemente scegliere, accettando come l’operaio di L’argent (1983) di seguire il destino di maledizione e abiezione che il caso gli ha approntato nella gura di una banconota falsa che qualcuno gli ha ri lato. L’azzardo, il rischio è un modo di cercare. Se loro non cercano, cerca il regista: scrutando le loro mani, i loro gesti, i loro volti, ascoltando le loro scabre parole, percorrendo i loro ambienti, ossessivamente procedendo per ellissi, per litoti. Ma tuttavia senza lasciar loro una vera libertà. La grazia di Bresson è diversa da quella tentata da un Rossellini, il suo mondo è più concreto di quello di un Dreyer. C’è sempre un dato di partenza, preesistente, e c’è sempre un ne che, autoritariamente nella sostanza, liberamente nei modi, Bresson ci prospetta. I suoi lm si concatenano per spazi determinati, essenziali. Depurando via via il super uo, abolendo le maschere, scarni cando le anime. È un cinema che non si concede nessun appello pietistico, nessuno slancio sentimentale, nessuna trappola drammatica. Un cinema che chiede allo spettatore di interrogarsi. Anche in Bresson c’è un cambiamento, da lm a lm, dal ’43 a oggi. Il suo spiritualismo, de nito da subito come «giansenista», procede nel ri uto della convenzione e nella crescente scarnita. Vuole essenzializzarsi, frenare anche la sua pena, ridursi a dialogo interno - del regista con se stesso, del personaggio con se stesso, dello spettatore con se stesso - sulle domande ultime, sul perché del dolore, della solitudine e in ne

del male. Le converse, Giovanna, forse anche Ginevra, trovano una loro verità, ma è dubbio che quella del sognatore o del «pickpocket» o di Lancillotto possano esserlo, neanche univocamente per loro, e certo la verità della morte per Balthasar, Mouchette, la mite, il giovane del Diavolo… è una verità obbligata, la rinuncia a cercare soluzione. Il vento poteva, un tempo, soffiare dove voleva. Da anni Bresson sembra non avvertirne più attorno a sé il soffio. La grandezza di questo regista è qui, nella disperazione di un mondo in cui anche Dio si tace; il suo spiritualismo non ha nulla di bamboccescamente edi cante, è anzi concretamente ancorato alle cose del mondo: la violenza della miseria e della fame, quella sica e primordiale della guerra, della brutalità sica, quella morale dell’egoismo e della indisponibilità agli altri, quella sociale delle regole stabilite, fondate sul possesso e sul denaro. Non c’è facile consolazione, ma solo riaffermazione della crudeltà del mondo fatto dagli uomini, e chissà se fatti a loro volta da qualcun altro, e chissà se questo qualcun altro non è, come sembra chiedersi Il diavolo, probabilmente - che è anche una delle più chiare presentazioni della disperazione giovanile, oggi - il Diavolo (il Male), invece che Dio. Negazione assoluta, prodotto di una assoluta coerenza, il cinema di Bresson è tra i pochi a oltrepassare veramente il cinema, anche se la tragedia che indica esclude sempre più qualsiasi speranza di un riscatto dell’uomo e della storia.

33. Ingmar Bergman È la Fame, origine della conoscenza, ma sotto specie meta sica e non sica, la molla che secondo Bergman sta anche all’origine dell’arte, quantomeno della sua: «La creazione artistica, per me, ha sempre rivestito i panni della Fame, ma non mi sono mai domandato perché questa Fame sia nata, e perché strepiti per essere soddisfatta. Una curiosità insaziabile, sempre nuova, insopportabile, che mi spinge avanti, che non mi lascia mai in pace…». Fame è il titolo di un celebre romanzo del norvegese Hamsun, ma lì la «fame» è s da, è provocazione di conoscenza, combattimento con la morte e con la società, mentre nel regista svedese essa è processo di apprendimento inesausto e, nella sua necessità di espressione, impossibile da saziare, è un processo ne a se stesso. È forse in questo, nella impossibilità di trovare approdi, che Bergman ha nito talora per stancarci, come se della sua fame ci interessasse sempre meno, catturati da altre fami o da altri modi di soddisfarle. Nato a Uppsala nel 1918, autore di una quarantina di lm tra la ne della guerra e la seconda metà degli anni ottanta, nella sua frenesia di autore egli è stato anche sceneggiatore (da giovane per Sjöberg, per Molander, e da vecchio per i suoi gli e allievi e a partire dalla sua stessa biogra a), è stato regista di teatro per una sessantina di spettacoli drammatici o lirici e ha diretto anzi teatri importanti, ha fatto radio e Tv, ha scritto libri e memorie. È diventato personaggio pubblico discusso, amato e detestato dai media, dai connazionali, dai giovani critici e registi delle «leve» successive alla sua. Ha lasciato un segno nella storia del cinema, come continuatore e divulgatore dell’opera dei grandi autori nordici (Dreyer, Sjöstròm, Stiller, Christensen, Blom) e «traduttore» in immagini del pensiero di Kierkegaard, e di quello di Strindberg, suo vero maestro. Di Strindberg egli fu però meno intensamente nevrotico, o più abile nel gestire la propria nevrosi: la propria Fame.

La sua tentazione dialettica è in una sorta di nordico barocchismo, di esteriorità che macina le interrogazioni spirituali ed esistenziali in spettacolo, e varia ecletticamente le scelte secondo un narcisismo incostante. Il suo lavoro può essere diviso per comodità in quattro periodi: quello iniziale (1945-53) sui giovani di fronte al mondo degli adulti e alla società, un secondo (1953-58) sulla maturità e sulla coppia, un terzo sui massimi problemi della condizione umana (1959-73) e in ne, con opere televisive e appartate e poi con il grande e sontuoso romanzo, televisivo prima che cinematogra co, Fanny e Alexander, un quarto in cui ha affrontato una autoanalisi ora spietata e ora compiaciuta (o le due cose insieme), la propria autobiogra a e quella dei suoi. La sua base iniziale è bensì l’esistenzialismo, quella forma peculiare di interrogazione che da Kierkegaard ha dilagato nella cultura europea - in particolare in quella protestante - e si è rafforzata in seguito agli orrori della seconda guerra mondiale. Come Stig Dagerman, il giovane Bergman avvertirà il fascino di Camus, ma preferirà rinchiudersi in una sorta di protetta prigione privata, disinteressata alla storia e alla politica prima ancora di affrontarle, perché convinta della loro intrinseca negatività o, meglio, della loro secondarietà. Ecco i suoi primi lm: lotte di giovani con se stessi e con un ambiente indifferente o ostile, Hamnstadt (Città di porto, 1948) in cui s’avvertono echi di neorealismo; Fdngelse (Prigione, 1948), turgido repertorio di suggestioni teoriche e teologiche; Sommaren med Monika (Monica e il desiderio, 1953), squisito idillio appartato che soffre il tempo e gode la grazia del momento e dell’amore; Sommarlek (Un’estate d’amore, 1951), no al repertorio di «casi» femminili - in un autore che alla donna dedicherà l’attenzione maggiore, all’interno di una vastissima galleria di personaggi: Kvinnors vhntan (Donne in attesa, 1952), Kvinnodrhm (Sogni di donna, 1955) - raccolto in Nara livet (Alle soglie della vita, 1958), ambientato in una clinica di maternità e ovviamente interessato alle domande sulla continuità della vita, non solo a quelle sui rapporti tra le persone e tra i sessi.

Le svolte fondamentali dell’esistenza sono per Bergman traumi della coscienza, vanno oltre la storia, vengono collocati in una dimensione di solitudine del singolo, nell’impossibilità di un’autenticità di rapporto tra il sé e l’altro, tra il sé e il mondo. La storia passa ai margini di tutto questo, e gura al più come angoscia collettiva, per esempio quella atomica, o come elemento collettivo incontrollabile dal singolo, estraneo alla coscienza e bensì capace di farla de agrare con la sua contagiosa violenza. La rivolta dei suoi giovani, proletari o borghesi, è contro adulti conformisti, che non capiscono la tensione della loro ricerca, è contro un paese che si vuole ottimista e socialdemocratico, ducioso nella soluzione di ogni problema, confortato da una religione che tende a rassicurare piuttosto che a inquietare. Bergman parla insomma di un vuoto di civiltà, locale e mondiale, epocale e bensì duraturo, senza vie di soluzione attiva e positiva. E concentra la sua attenzione nei limiti e sui limiti dell’esperienza privata, della ricerca intima e tragica di ognuno in rapporto al proprio istinto e alla propria necessità di fede, alla delusione della speranza di una comunicazioneintegrazione con l’altro. Nel meglio, Bergman semina dubbi, provoca inquietudini, genera sospetti. Nel peggio, gioca baroccamente e retoricamente con tutto questo. Il suo pessimismo esistenziale a livello espressivo ha forse il suo primo culmine in Gycklamas aon (Una vampata d’amore, 1953), squarcio di dolore e abiezione che confronta i membri di un misero circo con la gente normale, o nella malinconica presa di coscienza della crisi individuale a contrasto con i lirici ricordi di un antico idillio da parte della giovane danzatrice di Un’estate d’amore. Dopo Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1956), allegorico e medievale viaggio di un cavaliere e del suo scudiero in un paese devastato dalla peste, tutto percorso da un’ansia di interrogazione sull’aldilà; Smultronstàllet (Ilposto delle fragole, 1957), dove accadimenti, sogni, ricordi, incubi di un vecchio professore (Victor Sjòstròm) si fanno parabola sulla morte che si nasconde dietro le apparenze della vita; Ansiktet (Il volto,

1958), il più barocco e affascinante dei suoi lm, fondato sulla contrapposizione dialettica tra fede, inconscio, vitalità, artemagia, amore e ragione-scienzapotere, aridità borghese in una ricerca spettacolare di verità ultime; e Jungfrukallan (La fontana della vergine, 1959) che visualizza una saga medievale di sangue e miracolo, si arriva alla fase più essenziale e depurata del suo lavoro, alla cosiddetta «trilogia della fede», intesa come «ricerca di Dio dentro di noi», come superamento dell’egoismo. Concentrati nella forma del «cinema da camera» e su pochi personaggi, con nati in uno spazio chiuso e lontano dal mondo (un’isola ventosa, una chiesa in un villaggio sperduto del Nord, un albergo in un paese straniero e misterioso) e studiati nelle minime sfumature e variazioni, i lm della trilogia sono Shsom i en spegel (Come in uno specchio, 1961), ri uto e ricerca di un padre arido e cinico in nome di un’attesa, di voci che chiamano, di un Dio-amore; Nattvardsghsterna (Luci d’inverno, 1962), scarno e intenso resoconto di una giornata di un pastore protestante in totale crisi di fede e di morale di fronte al male e alla propria impotenza; e Tystnaden (Il silenzio, 1963), radiogra a di malattia tra isterismo e agonia, sesso come violenza e morte, incubo che due sorelle e un bambino vivono in un paese straniero, incomprensibile, percorso da simboli minacciosi. A ideale aggiunta, Skammen (La vergogna, 1968) affronta di petto l’orrore, l’assurdo della storia nella sua fondamentale creatura, la guerra. Uomo di spettacolo e di teatro che tutto o quasi riporta a un suo fondo egotista, Bergman usa questi temi con la perizia di un barocco gioco di rimandi tra maschera e volto, esistenza e teatro, farsa (carnale) e dramma (sacro). Meno convincente nelle astrazioni dreyeriane e bressoniane, sa come inseguire il mistero dietro le apparenze del Gran Teatro dove un Dio ormai incomprensibile, e di fatto progressivamente negato, si ostina, tuttavia, a mettere in scena il mondo. Delle maschere di cui Dio si serve il regista continua a mettere a fuoco quelle che coprono i misteri essenziali: nascita e morte, male e sesso. Sono maschere il cui supporto è fatto di scherzo, violenza, gesti e

realtà quotidiane, sogno, incubo, memorie, saghe, transfert, psicosi. Bergman ha trattato questa materia con grande varietà di approcci, con sensibili differenze tra lm e lm, con interne contaminazioni e ritorni. Non così rigoroso come si è preteso, ha saputo usare forme e in ussi diversi, dal naturalismo di partenza all’espressionismo allegorico di Vampata d’amore, ma anche di Il silenzio e di Vargtimmen (L’ora del lupo, 1966); dal teatralismo elegante e «classico» di Sommarnattens leende (Sorrisi di una notte d’estate, 1955), commedia di cinismi e magie con un fondo funereo nel suo carosello di coppie male assortite, al pastiche simbolista e divertito di Djdvulens òga (L’occhio del diavolo, 1960) e di For att inte tala om alla dessa kvinnor (A proposito di tutte queste signore, 1964); dal luminismo pittorico di Il settimo sigillo e di La fontana della vergine al barocchismo svariante di Il volto; dal rigoroso e ascetico kammerspiel della trilogia della fede alle cesure straniami di Persona e En passion (Passione, 1968); dal linguaggio aggressivamente coinvolgente, da psicodramma, di Riten (Il rito, 1969) sino alle minuzie comportamentistiche della nevrosi di coppia in Scener ur ett aktenskap (Scene da un matrimonio, 1974), entrambi connessi con l’uso del mezzo televisivo, no al sapiente, raffinato e sontuoso cromatismo di Viskningar och rop (Sussurri e grida, 1973) o di Fanny och Alexander (Fanny e Alexander, 1982). Più che raccontare vicende, ormai Bergman preferisce esporre «situazioni». Da Beròringen/e touch (L’adultera, 1971), suo primo e piccolo lm in lingua inglese, a Ansikte mot ansikte/Face to face (L’immagine allo specchio, 1976), quadro quasi clinico del crollo e del tentato suicidio di una psichiatra, Bergman orchestra sondaggi interiori in un male di vivere le cui insorgenze lacerano una realtà agiata e apparentemente solida, e sono sondaggi spogli, oggettivi, rotti da incubi e allucinazioni. Centro morale di questo mondo bergmaniano è rimasto la donna, e non a caso - dentro una visione tematico-formale come la sua, in cui l’attore ha un peso decisivo cosicché si è

formata una «sua» compagnia di attori affiatati - a tenere il campo non sono i pur grandi interpreti maschili (Gunnar Bjòrnstrand e Max von Sydow in testa a tutti), ma le attrici: Eva Dahlbeck, Bibi e Harriet Andersson, Ingrid ulin, Liv Ullman. Figure cui Bergman, estraneo alla misoginia pur così straziata di Strindberg, continua a devolvere lo stesso compito di rappresentare istinto e natura, tramiti del mistero (essenza dell’esistenza) che coincide sovente con la maternità o col suo ri uto. Caso estremo è Sussurri e grida (1973), in cui Bergman prosegue a porte chiuse l’esplorazione dell’angoscia di fronte alla vita. Descrizione sica dell’agonia e della morte più che ri essione sulla morte, ne tenta un superamento in un piacere e in una solidarietà di sapore infantile, utili a dimenticare cultura, società, borghesia e male, ma entrambi (piacere e solidarietà) consolatori e fuggenti. La materna popolana che accompagna alla morte la protagonista è ancora il segno di un’unica certezza (di morte e di nascita insieme, naturali, dati da donna) di fragile capacità di convinzione. Non c’è risposta al suo pessimismo circa l’essere umano se non nella coscienza del fare artistico, nel suo incessante riproporsi in forme diverse. Sotto il segno di una serena e stoica accettazione della vita di tutta la vita con le sue molte maschere: commedia, dramma, tragedia, magia, sogno - si pone la grande e sontuosa saga di Fanny e Alexander, con cui Bergman ha dichiarato di congedarsi dal cinema, intendendo proseguire il suo lavoro a teatro e in televisione, come ha fatto col tele lm Eer repetitionen (Dopo la prova, 1984). Filmtestamento, riepilogo di un lungo cammino, contrassegnato da un alto magistero narrativo, appena s orato dall’ombra dell’accademia, Fanny e Alexander è una vulgata del Bergman più vitale, tra Sorrisi di una notte d’estate e Il volto, tra Hjalmar Bergman e il grandguignol, tra commedia familiare di famiglia-clan e i grandi temi della vita e della morte ai limiti del magico. La sua famiglia di artisti al volgere del secolo è una dimostrazione quasi utopica (ma di un’utopia al passato) della possibilità di vivere naturalmente anche la morte e le passioni, ma è sconvolta

dall’intervento esterno e repressivo di un pastore protestante (quasi caricaturale) contro cui si concentra l’odio del regista per i padri puritani della cultura nordica. Il piccolo Alexander, affascinato dal teatro e dalla lanterna magica, è una proiezione chiara dell’autore; egli però sa liberarsi, al contrario di Bergman, del padre negativo, e potrà crescere privo dei tormenti e dei sensi di colpa che hanno segnato il regista, potrà forse crescre serenamente dialettico e capace di meglio godere la vita, di affermare la vita anche nelle sue contraddizioni.

34. Federico Fellini Federico Fellini (Rimini 1920-Roma 1993 - e tra Rimini e Roma si è svolta la sua vita, tra una provincia e una capitale che gli sono bastate per capire e narrare il carattere del paese Italia e della italica specie) veniva dai giornali umoristici, dall’avanspettacolo, dalla radio, dalle sceneggiature scritte in collaborazione per i «generi» un tempo portanti del nostro cinema, il comico e il dramma passionale. Ha frequentato, conosciuto e narrato le forme dello spettacolo popolare di un tempo, per no il circo, nella loro evoluzione o nella loro agonia, e questo molto gli ha giovato, ma ha anche scritto per Rossellini (da Roma città aperta a Europa ’51) imparandone quella libertà che però, nevroticamente, egli ha preferito spostare dalla regia del plein-air rosselliniano al chiuso delle lavorazioni di studio a Cinecittà, un luna-park di cui essere principe e domatore. Ha scritto anche per Germi e per Lattuada ed è stato Lattuada a farlo esordire nella regia, facendogli rmare con lui Luci del varietà (1951), patetica tournée provinciale di una compagnia d’avanspettacolo. Il tema e le situazioni sono già felliniani, ma la regia è a mezzadria. Lo sceicco bianco (1952) è il primo lm di Fellini, autore anche di una divertita sceneggiatura scritta con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli (che resteranno con lui no a Giulietta degli spiriti), ironica e funambolica, ora amara ora bonaria, sul viaggio di nozze a Roma di una stolida coppietta provinciale, e la ricerca, da parte di lei, dello «sceicco bianco» eroe dei suoi fotoromanzi prediletti. Il lm è più agro che dolce, ma la sua mancanza di spessore sociale irrita la critica neorealista e fa subito di Fellini un outsider nel panorama italiano dell’epoca. I vitelloni (1953) e l’episodio Agenzia matrimoniale (per lo zibaldone zavattiniano Amore in città, dello stesso anno) sembrano riavvicinarlo alla tendenza egemone in quegli anni, ma il lungometraggio è già

uno scanzonato omaggio, distanziato ma non troppo, alla propria città natia e alla propria adolescenza, denso di notazioni e conoscenze autobiogra che; e l’episodio scivola nella vaga mostruosità dei casi bizzarri più che nella normalità quotidiana del lm, antesignano in molte parti - ma non certo con Fellini - del cinema-verità. Lo squallore e le miserie de I vitelloni risparmiano uno solo di loro, Moraldo (cioè lo stesso autore) su cui inutilmente il regista mediterà un Moraldo in città, ossia a Roma, progetto che ssa i suoi due poli narrativi: Rimini e Roma, infanzia ed età adulta, partenza e arrivo, passato remoto e presente (che con Roma diventa anch’esso passato, e poco prossimo). I vitelloni ha successo. Racconta con piglio inedito un’Italia inedita, l’accidiosa piccola borghesia di sempre e fa di Fellini un regista affermato. La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957), pur confermando alcune particolarità del regista (l’amore per un mondo di reietti, per i guitti, per le periferie), si spingono, come in un’ideale trilogia (legata, tra l’altro, dalla presenza della moglie Giulietta Masina, protagonista), su un terreno nuovo e drammatico, nonostante le ventate ironiche e grottesche. Tema di questi tre lm è, in sostanza, la Grazia, cattolicamente ma anche terrestramente intesa, afflato di solidarietà. Esseri di coscienza primitiva, e ai margini della società, ladri, puttane, vagabondi di scarso intelletto, brutali o svagati girovaghi, sono condotti attraverso il contatto con gli altri e la propria ricerca di opaca sopravvivenza a rivelazioni disperate ma anche a speranze di salvezza. Il binomio Gelsomina-Zampanò resta esemplare di questo periodo, e La strada è il migliore dei tre lm. L’ottusità di Zampanò giunge all’uccisione del Matto e all’abbandono di Gelsomina, ma anni dopo l’ascolto casuale della canzone che Gelsomina suonava sulla sua tromba d’«artista» risveglia in lui desolazione e rimorso: il suo pianto solitario sulla spiaggia notturna è già indizio di salvezza, anche se così tremendamente ottenuta. Il bidonista Augusto muore solo come un cane, ucciso dai compari lungo una scarpata di campagna, ma verso di lui avanzano bambini ed egli sorride. La puttana Cabiria è derubata e quasi assassinata

dall’impiegato che le aveva promesso di sposarla, ma un gruppo di giovani la ridesta lungo la strada alla vita e al sorriso. Ma più del messaggio di questi lm, che nei due ultimi suona programmatico, colpiscono momenti e personaggi di scorcio, situazioni grottesche o incontri patetici, paesaggi dell’Appennino o della periferia romana per la loro dimensione di irrealtà ottenuta a partire da dati reali. La poesia Fellini la coglie ancora, a volte, dove probabilmente meno aveva pensato di trovarla, e la perde dove era certo di averla raggiunta, magari alla massima altezza. Nel 1960 La dolce vita consacra Fellini regista di successo mondiale, di critica e di pubblico. Grandiloquente ma amara panoramica su una metropoli mondana, caotica e corrotta, riassume i risultati sociali e antropologici di un decennio di politica retrograda e bigotta ed è, in questo senso, anche un lm storico che interpreta con acutezza un’epoca del nostro passato recente. Si direbbe che Fellini v’abbia ripreso alcuni temi di Moraldo (divenuto qui il giornalista-scrittore Marcello interpretato da Marcello Mastroianni -, ancora in qualche modo Fellini stesso): nel pantano della capitale governativa ed ecclesiastica la sua crisi è ormai disincanto senza speranza, viaggio attraverso il disgusto. Anche se un’ultima scena riconduce ai tipici nali precedenti (dopo l’orgia, su una spiaggia autunnale pescatori traggono a riva un pesce mostruoso; Marcello è chiamato dall’altro lato di un umiciattolo da una angelica e semplice servetta che ha incontrato tempo addietro, ma non la riconosce né distingue quel che ella gli grida), dal lm è esclusa ogni prospettiva di salvezza. Conta la costruzione ad affresco: ampi episodi che, mediatore Marcello, portano dal mondo delle borgate a quello della nobiltà, da via Veneto ai palazzoni di periferia, dal mondo del cinema al Vaticano, dalla superstizione religiosa delle campagne alle crisi esistenziali e alla presenza di un irrazionale cui si risponde con angoscia o suicidio. Al disgusto per una civiltà non si oppone rivolta, ma disperazione. Film-cerniera nell’itinerario felliniano, La dolce vita rinnega la costruzione tradizionale dei lm precedenti; i suoi blocchi narrativi

rivelano la ricerca di un linguaggio decisamente nuovo, diverso. Da questo momento in avanti i suoi lm sono brani di autobiogra a colti con visionaria sregolatezza. Dopo la divertente satira contro la censura di Le tentazioni del dottor Antonio (per Boccaccio ’70, 1961), Otto e mezzo (1963) e Giulietta degli spiriti (1965) sono momenti di confronto tra il regista e la sua realtà, intendendo per realtà anche i ricordi (veri o immaginati, simil-veri), ossessioni, fantasie, misti cazioni. Ma mentre in Otto e mezzo Fellini, giunto al suo ottavo lm e mezzo, narra se stesso con estrema ispirazione e sapienza nel disordine di realtà-ricordo-fantasia, Giulietta racconta la liberazione dai propri fantasmi di un personaggio femminile - piccolo-borghese, cattolico, represso - attraverso una sorta di caotica e catartica psicoanalisi, e convince meno per la sovraccarica freddezza di scenogra e liberty e surreali in cui il regista sembra bearsi e perdersi. E tuttavia un lm che rivela più di Otto e mezzo l’in uenza determinata dalla psicanalisi di Jung sull’autore. Negli anni sessanta Fellini è ormai regista-personaggio tra i più noti. Una soggettività onirica e vistosa domina le sue costruzioni, sempre più slegate nell’insieme ma, blocco per blocco, spesso di potenza sconcertante. Toby Dammit, da Poe, episodio di Tre passi nel delirio (1968), apre la stagione della maturità, spesso con nata in un passato che non intende - o non sa - dialogare efficacernente col presente. Affiora, per la prima volta in modo così ossessivo, un tema ormai fondamentale nella sua opera, quello della morte, aggiungendosi al tema della decadenza che non è più ancorata storicamente e socialmente solo alla realtà italiana, ma è decadenza della civiltà occidentale in senso lato. Dopo Roma (1972), scritto con Bernardino Zapponi, perlustrazione dell’anima di una città becera e barocca, che alterna sequenze bellissime (la Roma degli anni del fascismo, vista attraverso i ricordi di un Moraldo-Fellini: il teatro d’avanspettacolo, la trattoria, la pensione) ad altre troppo scenogra che (la s lata di moda per ecclesiastici, il bordello

dei ricchi, la Roma contemporanea), sono signi cativi Satyricon (1969) e I clowns (1970), realizzato per la Rai-Tv. Nella sua struttura di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di documentario fantastorico sulla Roma imperiale al tramonto, alla ne di un’epoca e all’inizio di un’altra (che, però, non si sa che cosa sarà, che «novità» potrà dare), Satyricon non nasconde le sue ambizioni di essere anche un lm sull’oggi. Fellini si sdoppia nel giovane Encolpio, una sorta di Moraldo dell’antichità, e nel vecchio Eumolpo, rètore più o meno bidonista e cialtrone sul cui funerale chiude il lm e che fa obbligo testamentario agli eredi di divorare il suo cadavere. Pur frammentaria, Satyricon è un’opra di straordinaria ricchezza gurativa, funerea e notturna. In I clowns Fellini è protagonista assoluto che vaga con una bizzarra troupe (i clown sono dappertutto e l’assurdo è dappertutto, perciò è decaduto lo spettacolo dei clown) alla rievocazione di un tempo scomparso. L’ultimo dei clown è lui, Fellini, che si dà a spettacolo nello spettacolo della società di consumo e che sa cogliere nel funerale svaccato dell’ultimo clown il senso di una morte diventata essa stessa spettacolo e, così, solo apparentemente neutralizzata. Vent’anni dopo I vitelloni Fellini ritorna con Amarcord (1973) in Romagna, alla Rimini che aveva già rivisitato con I clowns e con le scene iniziali di Roma. Sceneggiato con Tonino Guerra, al posto dell’attualità e della crudezza ancora naturalistica che erano de I vitelloni c’è un dolceamaro naturalismo a tinte vagamente gogoliane o, meglio, da russi minori dell’Ottocento, che stempera le punte grottesche, visionarie e aggressive nel ventre disagevole e fastidioso di una nostalgia regressiva. Film in tono minore, ma tra i più coesi e riusciti, apparente ritorno a un narrare «regolare», col suo borgo da una primavera a un’altra primavera, Amarcord è sintomaticamente ovattato, incline non verso la modernità del Fellini clown, ma verso la consolazione sentimentale del Fellini umorista. E tuttavia prospetta una lettura del passato fascista assai acuta, smontando il mito dall’interno e mostrando la mediocrità del regirne e del popolo che lo ha accettato. Amarcord è un lm-chiave per capire il nostro paese, la sua

storia e la sua politica, la mediocrità della sua cultura, in senso precisamente antropologico. È un lm, in questo senso, che servirà da manuale per far capire chi eravamo - o chi ancora essi saranno - ai nostri gli e nipoti, se ce ne saranno. Con Casanova (1976) Fellini cambia registro, e non soltanto perché il lm si contrappone all’elegia di Amarcord: per la prima volta gioca fuori casa, si cimenta con l’Europa attraverso un personaggio cosmopolita del Settecento. Punta, abbassandola, su quella dimensione erotica che ha fatto passare il nome di Casanova in antonomasia, riducendo il libertinismo del personaggio storico alla nozione più angusta e corrotta di dongiovannismo, e ne fa un Casanova cialtrone, piagnone, disperato, ossessionato, teatralissimo, atleta del sesso, così murato nella sua ottusa maschilità da essere un mezzo uomo. Il lo rosso che attraversa il lm è il suo rapporto nevrotico con le donne, col sesso femminile visto come qualcosa di oscuro, soverchiante, divoratore: il sesso come gorgo, maelstrom. E anche una libera e rabdomantica reinvenzione di ciò che fu il Settecento. La città delle donne (1980) è un lm sullo stesso tema, ma in cui il protagonista è in fondo l’autore, e in cui Fellini sembra riversare anche materiali e ossessioni del lm-fantasma Il viaggio di G. Mastorna, covato per un decennio e mai realizzato perché un lm sulla morte, anzi sulla propria morte. Calcolato, nel suo apparente disordine, è una ricognizione onirica del proprio inconscio attraverso l’universo femminile, visto in modo discutibile e riduttivo, ma anche una ri essione sul cinema, pur nella consueta chiave di ricordi d’infanzia e adolescenza mescolati a quelli dell’avanspettacolo e dei fumetti. Prova d’orchestra (1979), che lo aveva preceduto, prodotto a basso costo dalla tv, era invece un apologo leggibile a diversi livelli (politico, etico, estetico). Suscitò in nite discussioni, plausi e ripulse, poiché cadeva in un particolare momento di tensione della società italiana e di essa denunciava non troppo indirettamente la disgregazione. La sua ambiguità mostrava l’autore allineato su posizioni conservatrici, ma non si può

dimenticare del lm l’insolita tensione e coesione formale e la preoccupazione del voler provocare una reazione positiva. E la nave va (1983) torna al passato e alla nostalgia, in modi ambiziosamente alti. Vi è in questione, infatti, la ne di una civiltà (all’alba della prima guerra mondiale), con evidenti richiami alla nostra. Un personaggio di giornalista segue e commenta una crociera di melomani che accompagna alla sepoltura marina le ceneri di una grande cantante, e la musica vi ha grande posto, ma più ancora il cinema (e la televisione, l’informazione). Dopo questo lm, malinconico e funereo, anti-solare, anti-luminoso, il regista trova difficoltà a realizzare i suoi progetti (in genere assai costosi) dopo gli insuccessi commerciali degli ultimi lavori, e accetta di dedicarsi alla pubblicità. La sua fantasia si è fatta col tempo più cupa, e i suoi tentativi di ritrovare una sintonia con una società e un pubblico enormemente mutati non sembrano più funzionare. Ginger e Fred (1986) è stato lanciato come un lm critico nei confronti della televisione, ma non dice nulla di particolarmente nuovo su questo mezzo. Il gran carnevale che Fellini ci mostra è una super ciale galleria di «mostri», simile a quella mostrata in altri lm del riminese sul circo, sul cinema, sulla rivista ecc. Ginger e Fred trova il suo cardine per quel primario, semplice ritorno di Fellini a una narrazione da racconto, da novella breve. È infatti un lm di senilità sulla senilità cui aggiungono tono e calore le identi cazioni degli attori (Mastroianni e Masina) - ma anche del regista - coi personaggi, e il loro spaesamento di più che sessantenni di fronte alla incomprensibilità e volgarità del mondo di oggi come al proprio decadimento biologico e alla nostalgia che li invade della gioventù e del sogno di armonia che la loro gioventù portava con sé, misero ed esile e a suo modo anch’esso «volgare», ma di una volgarità più povera, ingenua, poetica rispetto alla contemporanea. Intervista (1987) è un altro esercizio, più sciolto e divertito, di cinema sul cinema (Cinecittà) di cui mostra con ritmo festoso retroscena e incantesimi, ma anche le pratiche artigianali, i legni, i chiodi, i trucchi, la cartapesta, insomma l’attrezzeria, nella consueta mescolanza di malinconia e allegria, sincerità e

prestidigitazione, senza nascondere un fondo di disincanto: le antenne televisive attorno al set somigliano a croci di cimitero. L’ultimo lm di Fellini è stato, ed è a ritroso, molto signi cativo e n simbolico. La voce della luna (1990) contrappone, in mezzo a ridondanze abituali e ripetizioni poco efficaci, due pazzi gentili (Roberto Benigni e Paolo Villaggio) a un’umanità italica vieppiù confusa, vociante, volgare, ricca e consumista. È una dichiarazione di s ducia molto cruda nella società italiana, che forma una specie di trittico con Amarcord (l’Italia povera sotto il fascismo) e La dolce vita (l’Italia del boom e della Dc). È anche una dichiarazione dolce-amara di dolorosa solitudine. Non vale rimproverargli limiti, imprecisioni, lungaggini. In quella piazza del paese-Italia invasa a terra da automobili fetide e sui tetti da antenne, piena di vetrine sgargianti e di chiese come silos, di Banche di Reggiolo e Tucson e di palchi festaioli (la «sagra dello gnocco»), le folle sono sguaiate, ridanciane o irose, esibizionistiche e metodiche portatrici di distruzione, i vigili urbani tutti capelloni e i sindaci untuosi, e immigrati da ogni luogo vendono ogni cosa, e padroni nani osteggiano proletari senza proletariato né politica. Ovviamente nei margini, nei sottoscala, negli anfratti si nascondono i disadattati, gli espulsi, quelli-che-non-ce-l’hanno-fatta. Poche scene più avanti, ecco i giovani di una maxidiscoteca che somiglia a una fabbrica come operai trascinati da una musica ossessiva a gesti ossessivi e senza scopo, obbligati al divertimento. Ed ecco però, nell’ombra, la sola speranza di una aba rassicurante, quella antica leopardiana dell’ascolto della natura, della «voce della luna». Fellini non dà risposta e non sta a lui darne. Ci ha detto «di chi la colpa» o «che fare» ma, col suo ultimo lm, ci ha mostrato più e meglio che mai come siamo, noi italiani di oggi, e soprattutto lo ha fatto con una malinconia e un dolore condiviso con i più coscienti, con i pochi coscienti.

35. Il cinema italiano dopo il ’45 Quintali di carta sono stati consumati per scrivere in Italia del cinema italiano, con una proliferante grafomania, sbilanciatissima a svantaggio di altre arti, forme espressive, mezzi di comunicazione. La ragione è forse questa, che col cinema si è giocata una partita di contrapposte politiche culturali (quella marxista, in realtà crociano-gramsciana, e quella cattolica) e che il cinema ha avuto (insistiamo sull’«ha avuto», per dire che non ha più) la capacità di inserirsi nella storia della cultura e del costume italiani con una veloce rispondenza e rappresentatività, assente in altri campi. Rari sono stati, no agli anni settanta e al disorientamento collettivo di cui hanno nito per essere portatori, gli autori non «socializzati» o socializzabili, isolati, estranei alle suggestioni dell’immediato (con l’eccezione di un Rossellini, mentre in letteratura c’erano, per esempio, i Gadda, Landol , Savinio, Morante, in pittura i Licini, in musica i Dallapiccola e Petrassi). E la frammentazione industriale della produzione (anche qui con poche eccezioni: la Lux di Gualino, da cui vengono Ponti e De Laurentiis, la Titanus di Lombardo) e la qualità delle combinazioni hanno in uito anch’esse sulla non piani cata o piani cabile risposta del cinema all’attualità delle mode e all’evoluzione politica e sociale del paese, spingendo registi e sceneggiatori a quell’oscillazione tutta particolare tra volontà di autore e logica di mercato. Di qui la rappresentatività sociologica (come sistema di proiezioni immaginarie e collettive) del cinema italiano, nel suo «alto» (autori e tendenze «colte») e nel suo «basso» (autori e generi «popolari»), strettamente intrecciati in un unico sistema produttivo e in un retroterra tecnico unitario. Di qui, anche, il peculiare «opportunismo» degli autori, nel bene e nel male, come ricerca di attualità e di presenza o come ripetizione delle mode e sensibilità commerciale. Cesare Zavattini, gura

indubbiamente centrale, teorico del neorealismo e sceneggiatore di lm ardui e rigorosi come Umberto D., è anche sceneggiatore di dozzine e dozzine di lm d’ogni genere e livello. Un regista colto e intelligente come Alberto Lattuada ha potuto passare da lm di personale coerenza a operine d’occasione o adattamenti di opere letterarie le più diverse, alla pari e forse più disinvoltamente di un regista colto e intelligente di Hollywood. E sulla scia dei «bisogni» del pubblico nascono e muoiono, nella ripetizione, i generi (cappa e spada, storico, feuilleton, melodramma, comico, mitologico, antico-romano, horror, western-spaghetti ecc.), o si affermano e spariscono registi, autori di uno o due lm interessanti agli inizi (Gora, Paghero, Gregoretti, Marchi e Malerba, Frezza, Baldi…). Oltre al successo di cassetta, conta la capacità di sopravvivere nel coesissimo, nonostante le apparenze, piccolo mondo a parte del cinema, e nelle sue «leggi» di continuo modi cate eppure sempre le stesse. La rispondenza del cinema italiano alle trasformazioni sociali è straordinaria in almeno due periodi di grande sommovimento: quello dell’immediato dopoguerra e quello dei primi anni sessanta. Ma prima, col cinema di regime; tra l’uno e l’altro periodo, col cinema della guerra fredda; e dopo, no a oggi, con la perdita della capacità di utare il nuovo e interpretarlo, il cinema dimostra una supina secondarietà, e arriva - se arriva - in ritardo e malamente. Né è possibile parlare di una capacità degli autori maggiori di attraversare decentemente questi periodi aprendo al dopo, se non in rarissimi casi (Rossellini, Antonioni e Fellini negli anni cinquanta, Bellocchio e Bertolucci nel ’64). Ma a volte si chiuderanno (Antonioni, Fellini, Visconti) in logiche di «autori» ai margini o dentro il divismo dell’autore, fenomeno nato, non solo in Italia, con gli anni sessanta. Il neorealismo è preparato dal disagio sociale e intellettuale degli anni di guerra, che si esprime nei modi che resteranno, sostanzialmente, tipici della storia successiva del nostro cinema: l’evasione dal presente attraverso l’adattamento di opere letterarie soprattutto ottocentesche minori (Soldati,

Lattuada, Poggioli, Castellani: i «calligra », ma il termine fu usato in senso dispregiativo e oggi non pare più giusto); la piccola commedia populista (con Fabrizi e la Magnani, poi interpreti di Roma, città aperta); il documentario di guerra con un lo narrativo (De Robertis, Rossellini); il dramma passionale d’impronta naturalistica (anzitutto Ossessione, 1943, di Luchino Visconti, che si rifa a Renoir e che rovescia le convenzioni del cinema fascista scoprendo una realtà inedita, cupa, «irregolare» e un paesaggio concreto). Ma radici del dopo si trovano anche nelle affettuose commedie di Camerini e in De Sica, su una piccola-borghesia prigioniera di miti irraggiungibili, e in qualche lm di Blasetti (da 1860 a Quattro passi fra le nuvole), un regista disponibile a ogni impresa, eroica o populista, abesca o documentaria, che attraverserà il dopoguerra con le stesse un po’ tron e vitalità e disponibilità alla conciliazione di ogni opposto ideologico in chiave umanitaria. Lo sconvolgimento della guerra, l’esperienza dell’occupazione, il soffio della Resistenza, nonché le generali carenze tecniche portano a una scoperta della realtà che invade gli schermi con opere di forza immediata, ma tuttavia costruite mescolando il nuovo a schemi di tradizione (Roma, città aperta, 1945; Sciuscià, 1946, di un De Sica già strettamente associato a Cesare Zavattini; Il sole sorge ancora, 1946, di Aldo Vergano; Caccia tragica, 1946, di Giuseppe De Santis; Senza pietà, 1948, di Lattuada). Il neorealismo è una bandiera che copre cose disparate, teorie contrastanti. La più rigorosa, quella del «pedinamento» zavattiniano del personaggio, non fu mai davvero applicata se non parzialmente in alcuni episodi di lm collettivi degli anni cinquanta, come L’amore in città, 1953. L’attore preso dalla strada fu usato conseguentemente solo da De Sica-Zavattini e da Renato Castellani nelle sue commedie populiste che il neorealismo più politico rinnegava (tra di esse un lm crudelissimo e affascinante, Due soldi di speranza, 1951), da Visconti in La terra trema o da un regista della vecchia scuola internazionale, Augusto Genina, per la cattolicissima e «calligra ca», ma forte vita di una giovane santa contadina (Cielo sulla palude, 1949) in un contesto di

coerente estetismo. I più preferirono usarne per dar verità ai ruoli secondari dei loro lm, accanto ai vecchi attori professionali, come Fabrizi e la Magnani, Nazzari e Girotti, la Calamai e la Del Poggio, e alle nuove dive prese piuttosto dai concorsi di bellezza (la Mangano e la Bosé, la Pampanini e la Lollobrigida). In realtà, il neorealismo trova la sua unità in altri fattori: la contemporaneità dei soggetti alla storia del paese; la sensibilità alla cronaca; l’uso acquisito con le distruzioni della guerra a girare in ambienti reali - strade e piazze, case e uffici, campagne e paesi - ormai generalizzato; lo spontaneismo di regie pronte ad adattare sceneggiature pur elaboratissime e rmate da staff di personalità eterogenee alle suggestioni degli ambienti e dei volti; l’interesse predominante per la vita del «popolo» (contadini, artigiani, piccolissimi borghesi, proletariato marginale, mai operai), che il cinema del ventennio aveva affrontato raramente (Blasetti, Camerini, ma anche Matarazzo, Mattoli ecc.). E un generale afflato di sapore collettivo («nazional-popolare» volente o no, cosciente o no) che permetteva comunque uno sguardo non profondo bensì, nei suoi dati di fondo, sincero, su un paese dilacerato dalla guerra, su un paese in ricostruzione. Si mescolano, in tutto questo, la tradizione di una letteratura minore, naturalista e verista, di un teatro dialettale dal passato vivacissimo sopravvissuto a suo modo nell’avanspettacolo; il populismo del «fascismo di sinistra»; le prime letture di Gramsci; la volontà di fare lm che raccontino la realtà del popolo al popolo stesso (al pubblico). Negli uni conta più il pubblico che il popolo, negli altri pubblico e popolo devono identi carsi: per esempio in De Santis, il più accanito in un progetto pedagogico che intende mescolare appendice e fumetto col realismo e la politica, «Grand Hotel» e il cinema sovietico, la semplicità riduttiva delle psicologie e dei con itti e una raffinata elaborazione delle immagini e dei movimenti: Riso amaro, 1948, Non c’è pace tra gli ulivi, 1949 ecc. Più aristocratico, il populismo di Rossellini (Paisà, 1946), ancora oscillante tra personaggio (e bozzetto) e tragica coralità;

di De Sica (Ladri di biciclette, 1948), che traccia perfettamente con humour sentimentale un rigoroso itinerario di speranze frustrate eppure non vinte di un individuo che è in sé massa e paese; di Luchino Visconti (La terra trema, 1948-49), tra sfondo documentario e ampia ed elaborata costruzione romanzesca; indicano atteggiamenti e scelte tuttavia contrastanti, pur nella descrizione di realtà consanguinee, e indicano anche le strade diverse che questi autori seguiranno in futuro. I veri successi di pubblico sono però quelli in cui la realtà del dopoguerra è narrata secondo moduli di commedia e di dramma tradizionali (Zampa, Lattuada, Germi, Castellani, De Santis) o che, messa da parte l’attualità, ripropongono l’avventura (Freda, Camerini…), il melodramma (Gallone), il comico (Totò, Macario), con sapiente o solo astuta pregnanza spettacolare. Il neorealismo resta un’etichetta critica transitoria che copre una vivace diversità e un’eccezionale oritura di talenti: come un’inchiesta collettiva, diversi cata ma unita da una cocente necessità di narrare il presente. Con la scon tta delle sinistre nel ’48 il neorealismo è di fatto già scon tto. Mentre la politica culturale della sinistra coltiverà i suoi autori e le loro ideologie e si occuperà ben poco di strutture, i cattolici penseranno a quest’ultime e affermeranno un potere concreto, di produzione noleggio censura. Gli «autori» seguiranno strade le più personali e lontane le une dalle altre. Visconti, dopo Bellissima (1951) che è già critica del cinema e del neorealismo, approderà attraverso Senso (1954) non già al «romanzo» ma al grande melodramma di gesti e passioni. Rossellini, dopo Germania anno zero (1948), che contiene le pagine più alte del suo cinema, cercherà un cinema «della durata» e della crisi, illustrato dalla trilogia con la Bergman, (Stromboli, 1949, Europa ’51, 1950, Viaggio in Italia, 1953). De Sica oscillerà tra la féerie di Miracolo a Milano, 1951, la ricerca di un rigore zavattiniano assoluto di Umberto D., 1952, e il de nitivo ritorno al bozzetto sentimentale di blando umanesimo. Mentre si affermano Michelangelo Antonioni, che fu tra i primi, col documentario Gente del Po

(1943), a scoprire il paesaggio come fattore estetico fondamentale e che parlerà di psicologie borghesi (Cronaca di un amore, 1950, I vinti, 1952, Le amiche, 1955) prigioniere della loro solitudine, ma anche, con Il grido (1956), che oserà mostrare psicologia e solitudine di un operaio; e Federico Fellini, che batterà la provincia piccolo-borghese delle sue origini (Lo sceicco bianco, 1951, I vitelloni, 1953) per approdare transitoriamente a una fantasiosa, bizzarra e poetica descrizione della sete di comunicazione dei reietti (La strada, 1954, Il bidone, 1955, Le notti di Cabiria, 1957). La descrizione del popolo si farà arcadia e commedia sentimentale volentieri allegra (da Castellani a Emmer, da Comencini a Risi), affronterà una piccola borghesia familista e conformista (i primi lm in cui si afferma il personaggio di Alberto Sordi, specchio dei minuti cambiamenti comportamentali e morali dell’Italia democristiana), e il «popolo» più represso scaricherà con Totò le sue frustrazioni. La svolta del ’60 - la più grande trasformazione sociale della breve storia d’Italia (urbanizzazione violenta, ne del mondo contadino, conseguente riassetto del potere col centrosinistra nel provvisorio boom economico, di portata bensì radicale sui consumi e il costume) - avrà i suoi effetti anche nel cinema. Nel giro di tre anni si assiste a una nuova esplosione del cinema, liberato dalle cappe più pesanti della censura andreottiana, e in grado di parlare nuovamente del presente cogliendone le novità e gli umori in sintonia con le trasformazioni e le aspirazioni del pubblico. La dolce vita di Fellini è una summa aggressiva, attraverso la Roma dei papi, della Dc, dei massmedia insorgenti, dei nobili e dei borgatari, di un cambiamento violento e traumatico, nelle sue valenze costanti: un lm che chiude e che apre confusamente, che registra e accusa più che riuscire a interpretare. Rocco e i suoi fratelli parla della Milano degli immigrati dal Sud con empito più verdiano che balzachiano, a un passo dal feuilleton; L’avventura di Antonioni è la lenta e sottile descrizione di una borghese e intellettuale «crisi dei sentimenti» (crisi, anche, di motivazioni) con più di un sentore d’impotenza; Accattone (1961) di Pasolini torna alle borgate romane con una originalità cupa e mortuaria; Salvatore

Giuliano (1962) di Francesco Rosi inventa un cinema da grande giornalismo e scava nelle piaghe di un passato recente. Al passato resistenziale possono rifarsi dozzine di lm, dopo gli anni della censura. E altre dozzine descrivono il mondo cangiante di un paese che sembra davvero scoprire per la prima volta se stesso, in tutte le sue contraddizioni, ancora una volta con l’esclusione dell’industria. Nel primo lone Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, e nel secondo Il sorpasso (1962) di Dino Risi sono i titoli più memorabili. Si afferma come genere principe la «commedia di costume», retta da sceneggiatori avvertiti (Age e Scarpelli, Sonego, Maccari e Scola, Benvenuti e De Bernardi), attori rappresentativi (Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi) e solidi registi (Comencini, Risi, Monicelli, Gregoretti, Salce, un Germi più moralista di tutti, un Pietrangeli di rara attenzione ai personaggi femminili). Debuttano nuovi registi (Petri, Vancini, Olmi, De Seta, i Taviani, Brass, Leone…) con opere diversamente interessanti, e altri (Zurlini, Bolognini…) danno in questi anni i loro lm migliori, mentre è tornato dalla Spagna, provvisto di un salutare humour nero, Marco Ferreri (L’ape regina, 1962, La donna scimmia, 1964), e Lattuada può liberare del tutto la sua più vera natura, borghese ed erotica (I dolci inganni, 1960). Ma ancora una volta, questa esplosione lascerà ben presto il posto, mutata l’agitazione del boom in acquiescenza al nuovo assetto, e fattine propri, se non i valori, i comportamenti, alle individualità maggiori e al loro personale travaglio di autori o a una ssazione dei generi nella stanca ripetizione della commedia di costume e del poliziesco-politico di denuncia. Dopo Otto e mezzo (1963) e il suo scostante rovescio femminile (Giulietta degli Spiriti, 1965), Fellini parlerà di sé e dell’Italia in un’autobiogra a immaginaria e ripetitiva, tra una Rimini e una Roma fantasmagoriche e mitiche, pacioccone e crudeli. Visconti si dedicherà alle grandi messe in scena (Il gattopardo, 1964) prive di riferimenti a nessun presente. Antonioni ripeterà drammaticamente la sua estetica della solitudine, passando dal contesto nazionale a quello internazionale con solitario e improduttivo rigore. Rosi darà

con Le mani sulla città (1963) l’illustrazione efficace di una battaglia politica, di cui non riuscirà a ritrovare la forza nei lm successivi. Pasolini proseguirà, negli ondeggiamenti autobiogra ci di speranza terzomondista, vitalità sottoproletaria, riscoperta del mito, fascinazione eroica e favolistica, e in ne disperazione assoluta, un discorso confuso ma di una indubbia portata provocatoria e spesso di acuta semplicità formale. Ermanno Olmi si de nirà come interprete cattolico di una minuta realtà di riscoperta di minuti e primari valori, prima di sentirsi in dovere di losofeggiare del Massimo. I Taviani aspireranno alle grandi metafore su Utopia Rivoluzione e Storia. Mentre due giovani canteranno in lm del ’64 la gioventù in modi da educazione sentimentale borghese (Bertolucci con Prima della rivoluzione) o da rivolta contro la famiglia e la cultura della provincia piccolo-borghese (Marco Bellocchio con I pugni in tasca), per cercare poi il primo una pervicace ricerca del successo attraverso un eclettico coacervo di in uenze, con indubbio talento di regia, e il secondo per muoversi vanamente nella prima prigione, riuscendo a uscirne solo in documentari di calda partecipazione e di analisi esatta, girati in collaborazione con Petraglia, Rulli e Agosti. Il ’68, di cui il cinema italiano è stato incapace di cogliere prima i sintomi e poi le novità, metterà in crisi molti registi accostandoli alla politica e alle tematiche di movimento in modi spesso pateticamente subalterni. Il lo diretto con la realtà si direbbe essersi spezzato un po’ per tutti a partire dalla «congiuntura» del ’64, e non resta allora che la scelta (per molti la fuga) della metafora. Se la cronaca non riesce più a esprimere signi cati generali, e se è sempre di più a questi che i registi mirano in un’ansia di dire il massimo, di diventare loso più che narratori; se il «romanzo» sembra risultare per il cinema ormai impossibile (ma a una ampiezza e totalità da romanzo riescono tuttavia a giungere in modi originali, in questi anni, lm disparati come La recita o La cerimonia o Nashville); se gli strumenti sociologici e politici di comprensione della realtà sono messi in crisi dalla velocità e dalla profondità incontrollabile dei cambiamenti, e di quegli

strumenti, comunque, nessun regista e sceneggiatore sembra disporre; se si vive come un obbligo l’essere «in», «moderni», apprezzati a Parigi, Londra, New York, sovranazionali, in ne «spettacolari» nel più fantasioso dei modi, poiché la concorrenza è, in giro, grande; se, nel meglio, si vuol far dire al cinema altro e di più da quello che l’occhio parziale dell’obbiettivo non riesce a dire e le immagini della realtà di per sé a esprimere, allora il ricorso alla metafora diviene obbligato, e in questo senso, sì, si può dire che il cinema italiano, con una sua certa super cialità sociologica e loso ca, ha anticipato a modo suo lo scialo di «altro», di misterico, di insondabile, di «crisi» che la seconda metà degli anni settanta ha fatto esplodere nella cultura italiana più apparentemente ardita. Ed è allora indubbio che lm come Blow-up di Antonioni (1968), Teorema (1968) e altri di Pasolini, il Satyricon di Fellini o Il seme dell’uomo di Ferreri, o per no Sotto il segno dello scorpione dei Taviani (tutti del ’69) non possano dirsi precursori, come, magari a malincuore, va loro riconosciuto. A controllare l’ambizione metaforica in una direzione ancora «sociale» riusciranno, e parzialmente, poche opere isolate: quelle dell’«estremismo» clinico o provocatorio di Ferreri - da Il professore (1965) a Dillinger è morto (1968), dal citato Seme dell’uomo a L’udienza (1971), da La grande abbuffata (1973) a L’ultima donna (1976) - pur se spesso arruffate, rette da acute intuizioni più che teoricamente controllate e coerenti, sì che quelle a esse successive ci sembrano prive del passato mordente; Nel nome del padre di Bellocchio e San Michele aveva un gallo dei Taviani, entrambe del 1971; o anche una commedia di costume come Lo scopone scientifico di Comencini e Sonego (1972). Ma negli stessi anni si è assistito al successo di lm che sono, a ben vedere, varianti un po’ separate di questi e di precedenti, italiani e stranieri (Ultimo tango a Parigi, 1972, di Bertolucci; Portiere di notte, 1974, della Cavani; Allonsanfan, 1974, dei Taviani; Non toccare la donna bianca, 1973, di Ferreri; La proprietà non è più un furto, 1973, di Petri; il Casanova,

1976, e in ne Prova d’orchestra, 1978, di Fellini; per non parlare, ed è meglio, di Lina Wertmüller e tanti altri ancora). Negli stessi anni si è assistito a un progressivo involgarimento del pubblico e dei generi: il già orrendo lone del «giallo politico», aperto dagli adattamenti da Sciascia, è diventato, a partire da Lizzani, «poliziottesco»; la commedia ha annaspato tentando strade diverse, mescolando anch’essa giallo, politica, metafora (con qualche confuso soprassalto morale, o con amari ribaltamenti), e scivolando in parte nella farsa semipornogra ca o nei nuovi «telefoni bianchi»; nite le bizzarrie degli Ercoli e Maciste, ultime abe contadine per gli immigrati, o l’altrettanto bizzarro «horror» di Bava e Freda, sono arrivati i lm della violenza più gratuita e imbecille. Basso moralismo o plateale cinismo si sono confusi, mentre moriva una tradizione di buon artigianato professionale e il pubblico sceglieva altri media, che pongono al cinema problemi di trasformazioni e adattamenti grandissimi. Il cinema italiano sembra condannato alla ripetizione di moduli di sostanziale immobilismo, nonostante, talvolta, la frenesia spettacolare delle apparenze. Si sono scontati in esso, prima che in altri campi, il disorientamento di una società e di una cultura prive di progetto, incapaci di scelta e di un sistema dello spettacolo che non sa più descrivere o interpretare ciò che cambia né tantomeno prevederlo, condannato alle sue commedie di costume complici e in ngarde, al suo cinema politico (poliziesco e avvocatesco) che riduce i grandi scontri del paese e del suo occulto ad arringhe di funesto semplicismo e reiterata demagogia. I due generi portanti del nostro cinema hanno riempito il mercato con mille super ue variazioni, variamente consolatorie del bisogno collettivo di falsa coscienza. Esso è risultato vivo soprattutto nella imperizia e super cialità di una intellighenzia che ha amato pensare di non essere corresponsabile della corruzione del «palazzo» analizzata e indicata da Pasolini nei suoi ultimi scritti. Via via si sono s brate energie nella pratica mediocre del sottopotere attorno a cui è cresciuta una generazione di autori più scialbi dei loro padri - dentro un sistema che è rimasto a

lungo romano e familista e «televisivo». La novità è rappresentata, e non è così scarsa, da giovani che dai margini e dalle province, hanno avanzato proposte non sempre ardite ma quantomeno oneste e preoccupate di comprendere i cambiamenti del paese nell’evidente e nel profondo delle coscienze. Cresciuto Amelio no a poter affrontare progetti in ne personali e non di comando (Il ladro di bambini, 1993; Lamerica, 1994), si sono fatti avanti dopo l’incerto e sciocco predominio dei «nuovi comici» tutti di parola e di blanda satira delle super ci, autori come Nanni Moretti, romano, forse troppo narciso per portarsi al fondo delle sue intuizioni ma autore con Caro diario (1993) di un trittico autobiogra co sincero e provocante nella sua semplicità; Silvio Soldini, milanese, analista sottile di comportamenti e turbamenti del nuovo ceto medio (L’aria serena dell’Ovest, 1990; Un’anima divisa in due, 1993); Antonio Capuano, descrittore di una Napoli «sottoproletaria» fuori dalle convenzioni e durissima, con modi quasi godardiani (Vito e gli altri, 1991); Mario Martone, napoletano venuto dal teatro, la cui Napoli ha ampiezza storica e radici politico-culturali mai compiaciute, ostili ai modi del cinema «romano-napoletano» (Morte di un matematico napoletano, 1992; L’amore molesto, 1995); e con loro il padovano Carlo Mazzacurati (Un’altra vita, 1992), il napoletano e bizzarro Pappi Corsicato, allievo dello spagnolo Almodóvar ma presto emancipatosi (I buchi neri, 1995), il pugliese Pasquale Pozzessere (Verso Sud, 1992) scrutatore di insicurezze giovanili e di irrequiete disperate marginalità; i siciliani Daniele Ciprì e Franco Maresco, venuti dalla provocazione televisiva di «Blob» ma con la forte autonomia di una bianco-e-nera visionarietà da « ne del mondo» (Lo zio di Brooklyn, 1995), il lm certamente più diverso e meno digeribile per i gusti del grande pubblico e dei critici e giornalisti omologati. Il cinema italiano continua a risultare vitale, ma fuori dalla cadaverica consunzione dei «vecchi» e dei loro «giovani» seguaci. In un paese e in un tempo in cui la separatezza della politica ha accolto e rinchiuso i media nella sua ottusa specialità incapace di esprimere delle masse se non la volgarità

e di contribuire ad accrescerla, il sociale è costretto alla difensiva dagli attacchi del potere (che ha cambiato alcuni nomi e volti, ma è sempre lo stesso). Solo allora che lo spazio dell’arte (e del cinema) ritorna a essere indispensabile per poter dire l’altrimenti non dicibile: il negativo e la critica dell’esistente o la solitudine e mediocrità degli esseri dietro le colorate ridondanze delle pubblicità, il sico e il meta cico; il positivo e il bisogno di utopia; la speranza di poter resistere attivamente cercando spazio e proposta, tra minoranze tuttavia risorgenti e di cui il paese ha più che mai bisogno.

36. Andrzej Wajda L’eclettismo di Wajda, nato a Suwalki nel 1926, la sua scelta di narrare a seconda del soggetto - privilegiando ora uno stile intensamente romantico, dunque espressionistico o barocco, caricato, rotto da violenze improvvise, con una cupa accentuazione degli elementi scenogra ci, una propensione alla deformazione, alla esagitazione del gesto e del movimento, e con squarci intensamente lirici; ora una quasi accademica perfezione gurativa, che valorizza lo sfondo e lo contrappone alle psicologie; ora per no (in uno dei tre lm che compongono L’uomo di marmo) qualcosa da documentario televisivo - gli tolgono in unità e rigore: ma nei lm migliori il rigore sta dentro la scelta, nel partito preso del tema, e sta, soprattutto, nella coerenza dell’insieme. Dopo Gombrowicz, Witkiewicz, Schulz, autori che non gli appartengono certamente perché troppo «d’avanguardia» e perché troppo prepotenti rispetto alle sue possibili scelte e interpretazioni di regista, è con Wajda che la discussione su cosa vuol dire essere polacco, sulla difficile identità di una nazione e di una cultura, ha il suo più adulto rappresentante negli anni difficili del «comunismo» imposto dall’Urss. È anche il cinema dei paesi del «socialismo realizzato» ad avere in lui il suo autore più esemplare - pregi e difetti. Il cinema russo (insistiamo sul «russo», intendendo il cinema di Mosca) è un cinema del cuore dell’impero, ma di un impero assai poco idealizzato, al contrario dell’America per quel che è dell’occidente, dagli intellettuali dei paesi che a esso sono stati sottoposti. Il proposito wajdiano è una ri essione sulla storia polacca, da dentro la generazione a cui appartiene (il suo lm di debutto, nel 55, si chiama Pokolenie, Generazione) e che ha vissuto la guerra, il laceramento interno di un paese, la speranza rivoluzionaria, le sue contraddizioni, il suo fallimento, il suo faticoso barcamenarsi tra stalinismo e

imperialismo sovietico e la ricerca di una identità nazionale delicata e frustrata da sempre. Per questo Wajda ha durato, tra alcuni compromessi e grandi coraggi, mentre quelli venuti dopo di lui, nati da lui - dapprima i Polanski e gli Skolimowski, più di recente gli Zanussi e gli Zulawski - se ne sono andati o si sono rifugiati in una dialettica ambigua del quotidiano e del meta sico. Solo Kieslowski, con il suo Decalogo, ha saputo, in de nitiva, superarlo, farne sentire tutta la vecchiaia. Questa continuità è forse stata la sua forza maggiore, anche di fronte al cinema, fatto ancora da generazioni continuamente frustrate, ungherese o cèco. Pokolenie, Kanal (I dannati di Varsavia, 1957) e Popiól i diament (Cenere e diamanti, 1958) formano una sorta di «trilogia della guerra», scavano nella formazione di un nuovo che nasce malato, sono lm in cui la potenzialità rivoluzionaria della generazione si scontra con l’orrore della storia (storia come guerra e oppressione) e con la drammatica difficoltà delle scelte. Congiungono epico e tragico, volontà di spazio e di azione e claustrofobico e nevrotico obbligo al ripiegamento. L’utopia si deforma, si devia; ogni progetto individuale non può che essere collettivo, e la scon tta collettiva non può che incenerire il progetto individuale, lo spazio individuale. Il protagonista di Ceneri e diamanti, uomo di destra, partecipa della stessa contorta, obbligata ambiguità, perché è già prodotto della contraddizione interna della storia polacca. Alla guerra Wajda tornerà ancora con Lotna (1959), con Samson (1961), con Krajobraz pò bitwie (Paesaggio dopo la battaglia, 1970), a mostrarne la angosciosa assurdità, e in ne i limiti e le difficoltà di un ruolo individuale che si vede costretto all’impossibilità di rispondere o a un mero ri uto morale, che nell’ultimo lm è ri uto di uscirne, dall’assurdità… Nel ’60 Wajda ha dato con Niewinni czarodzieje (Ingenui e perversi), seguito dall’ancor più esplicito episodio Warszawa di L’amore a vent’anni (1963), una presentazione dell’irrequietezza giovanile di quegli anni, gli anni del dopo-Stalin. Autoironica presentazione della propria difficoltà a capire il nuovo romanticismo «disimpegnato» della generazione emergente

(del primo è co-sceneggiatore Jerzy Skolimowski, che debutterà nella regia con lm intensamente soggettivi, di una ribellione che si è espressa in disagio sico, in voglia di vivere compressa), ma anche ironico e affettuoso tentativo di descriverlo. Gli farà da specchio rovesciato, dalla parte dei giovani, il lm di un altro suo allievo, Roman Polanski, già interprete di Ingenui e perversi: Nóz w wodzie (Il coltello nell’acqua, 1962). Alla gura dell’intellettuale polacco Wajda dedicherà ancora Polowanie na muchy (Caccia alle mosche, 1969), ma stavolta questa commedia sembra riguardarli tutti, impaniati nella stessa vischiosa ragnatela, e soprattutto Wszystko na sprzedaz (Tutto è in vendita, 1968), interrogazione in prima persona sull’attore preferito di Wajda, Zbigniew Cybulski, morto tragicamente, fedele all’intensità nevrotica con cui era vissuto, specchio di una generazione. Ormai i lm di Wajda, che quasi tutti hanno un punto di partenza in un romanzo o dramma polacco, classico o contemporaneo, si muovono secondo tre direttrici: la ri essione sulla storia; quella sull’incerta contemporaneità polacca e le sue radici; o, astraendovi solo in apparenza, quella sui con itti psicologici che esplicitano la dialettica erosthanatos senza fortunosamente sbilanciarla, come è di tanti, in senso solo mortuario. A quest’ultimo lone appartengono Sibirska ledi Magbet (Una lady Macbeth siberiana, 1962, da Leskov) e soprattutto Brzezina (Bosco di betulle, 1970, da Iwaszkiewicz), di una raffinatezza e di una unitarietà stilistica n estenuata. Al secondo, i grandi affreschi di Popioíy (Ceneri, 1965, da Zeromski), Wesele (Nozze, 1972, da Wyspiahski), Ziemia obiecana (Terra promessa, 1975, da Reymont), tutti di turgida, traboccante ricchezza, scavi e interrogazioni di una esaltata plasticità e di un pessimismo conturbante; ma anche, al presente, e per una volta fuor di barocco, Dyrygent (Il direttore d’orchestra, 1980, con John Gielgud). Lo stesso che si ritrova in due irrisolte «favole» storiche fuori dalla Polonia e fuori dalla storia, Gates to Paradise (Le porte del Paradiso, 1967) sulla «crociata dei bambini», e Pilatus und andere (Pilato e gli altri, 1971) dall’episodio sul Cristo di Il maestro e Margherita di Bulgakov. Al primo, in ne, quel Czlowiek z marmuru (L’uomo

di marmo, 1978) che alterna la mimesi del realismo socialista, il lm televisivo, e l’inconfondibile romanticismo dialettico di Wajda per darci uno spaccato di storia polacca del dopoguerra attraverso la vicenda di un dimenticato «eroe del lavoro», eroe invero della resistenza al regime, un lm che dopo il massacro di Danzica del ’70, era un atto di ducia nella possibile continuazione di una lotta che proprio Danzica doveva, a distanza di poco, comprovare - tanto che Wajda gli dette un seguito, di interesse forse più politico che artistico, ma pur sempre di notevole vitalità morale, Czlowiek z zelaza (L’uomo di ferro, 1981). In essi si riannodano i li dell’individuale e del collettivo, la difficoltà di una scelta di fronte a una storia che è forse sempre nemica ma rimanendo attivamente, implacabilmente, necessariamente dentro la storia. Peccato solo che l’ultimo Wajda, nello sforzo di restare centrale anche nella nuova situazione politica, abbia dato lm «internazionali» e bolsi come il Danton (1982, da Przybyszewska) o Eine liebe in Deutschland (Un amore in Germania, 1983) e abbia davvero annaspato in patria, senza più vera originalità e autonomia di creatore.

37. Joseph Losey Losey fa parte della generazione (è nato a La Crosse, Wisconsin, nel 1909, è morto a Londra nel 1984) cui il cinema deve Welles e Ray, Kazan e Aldrich, cresciuta nel teatro, partecipe delle grandi speranze degli anni trenta, e, per Losey più che per gli altri, a diretto contatto con esperienze importanti della sinistra teatrale (Piscator, il teatro sovietico, Brecht). Alla sua partecipazione al movimento culturale degli anni di prima e durante la guerra dovrà l’esilio, causato dalla persecuzione maccartista. Ma, dopo alcuni documentari, aveva già girato cinque lm notevoli. I primi due sono, con l’inglese Blind date (L’inchiesta dell’ispettore Morgan, 1959), i soli che predichino o rivelino un nale ottimismo. Il tema è la tolleranza, che può essere una conquista, dopo l’insegnamento della barbarie bellica. Ma sono ancora lm esili, nel loro progressismo. Con e prowler (Sciacalli nell’ombra, 1951), il rifacimento di M (1951) e e big night (1951), qualcosa è cambiato. Si precisa un distacco e si afferma una personalità. In vario modo, il poliziotto corrotto del primo, il pazzo criminale del secondo, l’adolescente vendicatore del terzo imparano, nello sviluppo della vicenda di cui sono o si fanno prigionieri, a conoscere se stessi e il mondo. Prendono conoscenza, e «conoscere è soffrire». Nell’esilio inglese, i primi lm che Losey riesce a rmare, a cinque anni di distanza, si riannodano a questo tema. Il padre ubriacone di Time without pity (L’alibi dell’ultima ora, 1958) ha poco tempo per salvare il glio, condannato per un delitto ingiusto, ma gli basta per scoprire la logica del potere e dei potenti. Il giovane pittore di L’inchiesta… si districa da un’altra vicenda criminale in cui è stato incastrato da una donna altoborghese, per l’aiuto di un poliziotto di origine proletaria come

lui. La conoscenza non è, per una volta, distruttiva dei valori e della ducia di chi l’acquisisce. Losey ha intanto de nito uno stile. Sinuosi movimenti di macchina costringono gli attori in una scenogra a sempre oppressiva, dove gli oggetti contano quanto le presenze umane, le rappresentano e ne sono rappresentati, si direbbe, in una comune rei cazione. Spazi monotoni o chiusi delimitano l’azione. Il deserto di Sciacalli…, il garage di M, la pista da corse automobilistiche di L’alibi…, l’appartamento e il commissariato di L’inchiesta…, sono ambienti in cui si giocano rapporti di classe. Anche nei lm più irrisolti di questi anni e gypsy and the gentleman (La zingara rossa, 1957), e damned (Hallucination, 1961), e Eva (1962, sbrindellato dai produttori) - si rimanda dalla violenza latente o esplosiva nei rapporti a quella generale, esterna. Non si tratta solo di rapporti di classe, i giochi del potere si stringono sadomasochisticamente anche nei rapporti tra i sessi. La corruzione è onnipresente, insita nella società narrata, e denaro e sesso ne sono le esplicitazioni, violenza ne è il risultato. e servant (Il servo, 1963), nella sua raffinatissima, barocca regia, che va dall’ovattata e cauta progressione alla esasperazione del tema e dello stile, rovescia i ruoli, stavolta tra padrone e servo (un grandissimo Dirk Bogarde). La gabbia si stringe, opprimente, frutto di un’ossessione di status e di una falsa coscienza che tutto coinvolge. L’apporto di Pinter a questo lm, come ai successivi Accident (L’incidente, 1967) e e gobetween (Messaggero d’amore, 1970), è determinante nella corrosiva perfezione della sceneggiatura, nei suoi ambigui risvolti, nella sua letteraria precisione. King and Country (Per il re e per la patria, 1964), sceneggiato invece da Evan Jones, scopre e mette a confronto nella trincea, altro luogo chiuso in cui si riproducono i rapporti di classe esterni, la risibile giustizia borghese con quella parodistica dei soldati ai danni di un topo. L’incidente, più sottile e meno claustrofobico nella descrizione di ambienti intellettuali (un college) dove serpeggia la frustrazione, dove la violenza scoppia improvvisa, casuale, annunciata dalle sue ritualizzazioni, ma per cambiare ben

poco, porta a controllata perfezione un morboso gioco di psicologie tutte rigidamente de nite da un’appartenenza sociale. Dopo d’allora, annunciati dal decadentistico Boom (La scogliera dei desideri, 1968), sceneggiato addirittura da Tennessee Williams e zeppo di simbologie banali, e dal grottesco sadismo fumettistico di Modesty Blaise (1966), Losey non raggiungerà più questi risultati, e il suo cinema offrirà solo un ricordo di essi, nonostante, ma non sempre, la cura formale e i parziali, incerti successi di Secret Ceremony (Cerimonia segreta, 1968), Figures in a landscape (Caccia sadica, 1970) e Mr. Klein (1976), certo il miglior lm degli ultimi tempi, aiutato da una sceneggiatura complessa di Franco Solinas che concede una conoscenza solo parziale al suo protagonista, travolto in un gioco mortale di identità durante la persecuzione degli ebrei nella Francia occupata dai nazisti, ma che ne giudica l’incapacità di capire come prigione e destino della coscienza borghese. Sono molto banali e assassination of Trotsky (L’assassinio di Trotsky, 1972), Les routes du Sud (Le strade del Sud, 1978), A doll’s house (Casa di bambola, 1973, da Ibsen), e solo elegante il Don Giovanni, mozartiano, opera lmata (1979). La «presa di conoscenza» di Losey ha accentuato il suo pessimismo, la sua freddezza verso il personaggio, la sua propensione al sado-masochismo di psicologie n volgari o una sua non sufficientemente aristocratica propensione a un distaccato estetismo. La traiettoria aveva forse raggiunto il suo punto culmine col Servo: un massimo di lucidità, ma anche di misantropico pessimismo.

38. Dalle avanguardie «storiche» al cinema underground L’avanguardia entra nel cinema con un ritardo notevole rispetto alle sue prime affermazioni in altre arti. Per di più, dà al cinema occasioni formali, risultati sperimentali di cui ci si serve per innovare il cinema, non per fare avanguardia. E la cosiddetta «prima avanguardia» francese (scritti o lm di Canudo, Epstein, Delluc, Dulac ecc.) altro non fa che cercare uno «speci co» del cinema da nobilitare come arte, ricorrendo all’arsenale più immagini co e facile del simbolismo. Altro è Dada, la più radicale delle avanguardie, che ri uta il progetto, ogni progetto, e parte nichilisticamente dalla negazione di ogni ideologia, a cominciare da quella dell’arte. La progressiva espropriazione del lavoro intellettuale quale era tradizionalmente inteso verso forme di industrializzazione di esso e con conseguente, volente o nolente, proletarizzazione della gura dell’artista, è una realtà avvertita pesantemente già nell’Ottocento (Schiller, Schopenhauer, Baudelaire, Rimbaud, Nietzsche ecc.) e spinge l’artista verso il ri uto sdegnato dello stesso sviluppo industriale o, più tardi, verso l’aspirazione al recupero della propria funzione in un contesto diverso, dove i bisogni non siano più falsi cati e manipolati, dove cioè sia possibile realizzare una nuova armonia tra bisogni reali e arte in un contesto sociale mutato, rivoluzionato. Questi i dilemmi davvero centrali. Il ri uto vuole che l’opera sia «irrecuperabile», e l’artista sposterà il tiro in avanti dopo ogni avvenuto recupero in una logica di mercato. L’avanguardia non è caos, perché se il caos è dominante essa si farà ordine, e viceversa. La sua irrazionalità, contrapposta alla irrazionalità del sistema borghese, può darsi come vera razionalità. Si tratta, in ogni modo, di ri utare la riduzione a merce e consumo dell’arte.

Da Kandinskij a Dada il passo non è lungo. Dada implica l’impossibilità del recupero, l’assolutezza del ri uto del senso. Nega il «racconto», il «gusto», l’«umano», la «coerenza», il «progetto», la «logica», la «morale», in de nitiva tutte le possibili mascherature dell’ideologia. E anche la meta sica del «nuovo» e del «moderno». È a Parigi che, dalla Germania e dalla Svizzera come dall’America, si concentrano negli anni venti le esperienze dadaiste, in quella Parigi in cui per prima si è avuta coscienza del con itto tra una civiltà massi cata e l’arte, mentre altrove (Berlino) si ingloba l’espressionismo, in cinema, in un nuovo progetto o in una nuova merce, o (Mosca, Leningrado) ci si divide tra sperimentatori di una nuova forma, o di una nuova forma da costruire assieme a una nuova società. Tuttavia, a Berlino, Hans Richter o Viking Eggeling sentono, in sintonia con Parigi, la necessità di conquistare il cinema come movimento, campo necessario alla concezione dinamica dei loro «rotoli». L’avanguardia è anzitutto cinema «astratto» (la Diagonale symphonie di Eggeling, 1920, i Rytmus 21, 23 e 25 di Richter, l’Opus 1 di Ruttmann, 1922). A Parigi, il Retour a la raison di Man Ray (1923) si vuole un prodotto del «caso», come il successivo Emak Bakia, e come Anemie Cinéma (1925) di Duchamp. Ma già nel ’24 quello che gura come una specie di grande catalogo dell’avanguardia cinematogra ca, Entr’acte di René Clair e Francis Picabia (1924) sembra invero unire un «caso» già programmato (ribaltamento dell’estetica e della morale tradizionali) con l’affermazione di una nuova estetica e di un nuovo immaginario. Il cinema veri ca le sue resistenze all’avanguardia: è innanzitutto tecnica e merce (anche se si vuol farne prodotti «inutili»), e l’avanguardia veri ca quanto di utopico c’è nel suo ri uto assoluto. Dalla «diffidenza nei confronti della comunità» e dallo «zero» di Tzara, si giunge al nuovo progetto di liberazione dell’inconscio di Breton, con il suo «andare oltre». Il surrealismo (il primo Manifesto è del ’24) in uenzerà ormai gli stessi Richter (Filmstudie, 1926, Vormittagspuk, 1927) e Man Ray (Le mystère du chateau des dès e L’étoile de mer, 1929),

mentre intorno continuano le sperimentazioni, utili a dare al cinema uno statuto di arte e a costruirne la dignità culturale, oltre che a offrire ai registi un’ampiezza di linguaggio che le sue origini letterarie o teatrali, i suoi «obblighi» narrativi, gli bloccano. Per Breton il cinema permette il dispiegamento delle energie nascoste dell’immaginario, anche contro quegli artisti dell’avanguardia che di fatto arrivano, col loro «cinema puro», a fare del nuovo simbolismo poetico. L’occhio tagliato che apre Un chien andalou di Buñuel e Dalí (1928) provoca lo spettatore borghese, mette in discussione i suoi valori e i suoi sistemi di riferimento estetici, ma afferma un nuovo sguardo e, in de nitiva, una nuova morale. Anti-borghesi. Invoca per Vigo la trasgressione morale e un diverso sguardo sulla realtà, provoca per Bataille la messa in causa delle più interne e nere pulsioni. La sua lettura resta aperta ma, come preciserà L’àgë d’or (1930), riafferma con la necessità della liberazione dell’inconscio dai condizionamenti borghesi anche la difficoltà di questa liberazione, il peso estremo dei condizionamenti, in un’ottica già tra meta sica e sociale. Certo il surrealismo permette il dispiegamento di molte energie represse, apre strade produttive, per l’arte e per il cinema, prima di diventare, nel recupero delle mode, anche roba da «vetrinisti». L’appello congiunto a «cambiare la vita» e a «cambiare il mondo» deve tuttavia fare i conti col modo di produzione del cinema, con la sua tecnica e i suoi obblighi economici, con una logica ancora di mercato. Robert Desnos nei suoi scritti (come, in altre lande, Ejzenstejn nella sua pratica) già cerca, allora, di spingere al massimo sul pedale dell’attivizzazione dello spettatore, visto quale soggetto dell’esperienza della creazione artistica - così come il collage di brani di lm diversi (e di preferenza i più «volgari») teorizzato dallo spettatore Breton, o gli occhiali prismatici con cui Man Ray guardava un lm, creano un nuovo lm, fatto di associazioni e tagli imprevedibili. Il «caso» assume una sua razionalità, di cui il cinema può e dev’essere stimolatore ri utando ancora una volta la bella scrittura della tradizione ma affermando la priorità dei contenuti latenti.

La scon tta dell’avanguardia cinematogra ca si consuma rapidamente; il surrealismo diventa un nuovo gusto; gli esperimenti servono ad autori «tradizionali» che vogliono o possono usufruirne per integrarli in opere tutte dentro il sistema industriale del cinema. Si consuma la grande ondata del ri uto dell’arte borghese in un nuovo disagio che, qualora si esprime, lo fa in un linguaggio diventato a sua volta tradizionale. Eppure il problema resta aperto, e riaffiorerà altrove, benché in modi diversi. È ancora, lo sarà forse sempre, un problema aperto. Se nel 1946 Dreams that money can buy (I sogni che il denaro può comprare), riunendo attorno a Richter Ernst e Duchamp, Léger e Calder, non è che un tentativo in qualche modo postumo di ridar vita a un cinema di avanguardia, l’opera contemporanea di Maya Deren, di netta impronta surrealista, «cinema dell’angoscia e dell’esperienza», fa da cerniera più concreta tra le esperienze passate e quello che sarà il cinema underground americano, cioè la maggiore e più vitale esperienza dell’avanguardia nel cinema dei nostri anni. È in America infatti, e più a New York che a San Francisco, che si assisterà a un altro tentativo radicale di sovvertimento della logica capitalistica nell’arte, nel cuore della società di massa. La varietà di questa esperienza imporrebbe messe a punto e de nizioni precise, ma in breve: la pesantezza dell’alienazione denunciata dai Mills, Riesman, Goodman, Reich, Marcuse produce il «diverso» e lo ghettizza, ma il diverso è spia del funzionamento dell’intero sistema; e il diverso può esaltare la propria diversità facendo della sua diversità arma di demisti cazione del sistema e di proposta alternativa al sistema. La cultura che esso si dà intende essere progetto globale di vita, rivoluzione culturale: liberazione della libido, ride nizione di ciò che è «normale», droga come allargamento della coscienza, socializzazione per piccoli gruppi minoritari, misticismo di impronta anti-cristiana e invece orientale, nomadismo, ri uto della macchina e, ovviamente, nuova comunicazione. Alle spalle dell’underground americano c’è

latente un progetto complessivo, quali che siano le parzialità di cui i suoi artisti si faranno portatori. Il cinema dei film-makers si lega profondamente a questo progetto e, ben più di quanto non sia avvenuto con l’avanguardia «storica», è parte di un rinnovamento complessivo del linguaggio dell’arte (in pittura: action painting, new dada, pop art; in musica: le esperienze post-dodecafoniche ma anche il jazz, il be-bop, il rock, il pop; in letteratura e poesia: i beat). Se il presente si mostra come totalità alienata, la comunicazione tra i diversi è un insieme che non può trascurare questa o quella sua speci cazione, può essere parziale solo dentro un progetto che è totale. La merci cazione dei rapporti sociali di comunicazione impone il loro smantellamento e la costruzione nel presente, senza rinvii, di un diverso sistema di comunicazioni. La critica del vedere è perno di tutto: se il cinema è la più misti cata rappresentazione della realtà, la più consona all’ordine stabilito, la più merci cata, la più alienante, allora distruggerne le forme e farne il luogo di una pratica alternativa globale è un compito centrale e non secondario. Si intrecciano qui un certo feticismo del cinema e un certo misticismo del cinema, ma ci penserà la storia a ridimensionarli. Il fenomeno del cinema underground si presenta dapprima confuso con quello del cinema indipendente - Shirley Clarke, John Cassavetes, Sidney Meyers, Lionel Rogosin ecc. - e l’ambiguità resterà anche con la fondazione newyorkese dei Nacg (New American Cinema Groups) attorno a Jonas Mekas e alla rivista da lui diretta, «Film Culture». Documentario sociale, sperimentazione e avanguardia si confondono, a indicare bensì una pluralità di modi che si evolverà precisando due direzioni: quella che sarà della new le nel suo intreccio con la cultura hippy, e quella dell’avanguardia vera e propria, essa stessa volta a volta sensibile alle istanze di fondo di quel progetto e delle sue due correnti. I Nacg, a riprova di questo, promuovono incontri, creano un circuito alternativo, si vogliono avanguardia di un movimento culturale, e cercheranno il legame con il movement.

Individuare, nel grande magma, alcune personalità, è utile a vedere la interna diversità di un fenomeno. Jonas Mekas si lega strettamente a Allen Ginsberg, per quel Guns of the trees (I fucili degli alberi, 1962) che sarà per breve tempo un punto di riferimento collettivo, una summa della loso a beat fatta, per Mekas, di «pensieri, sentimenti e angosciosi tentativi della mia generazione di fronte alla perplessità morale del nostro tempo». Scorpio rising (1964) di Kenneth Anger ha un andamento cerimoniale, con la vestizione di un gruppo di motociclisti, arte ci e succubi di un mito (il Marion Brando del Selvaggio, l’adorazione della Harley Davidson) sadomasochista e feticista, e procederà avanti con lm che sono quasi delle messe nere. Gregory Markopoulos, di origine greca, dà con Twice a man (1963) la scomposizione di un mito greco ma cerca l’armonia del maschile e femminile, la ricomposizione di un usso armonico distrutto tra l’uomo e i suoi impulsi, l’uomo e la natura, l’uomo e il mito. Stan Brakhage cerca retroterra culturali non nella Grecia bensì forse in Whitman, ma vanta anch’egli, dal centro della sua coscienza di cui il lm libera le visioni, un legame con la natura, col cosmo: Dog Star Man (1961) è il più rappresentativo dei suoi lm, con e Art of Vision (1961-65), d’un misticismo orientale in cui vita e morte, individuo e cosmo vorrebbero compenetrarsi e risolversi. Ma è Andy Warhol il nome più celebre e quello che più si distacca da queste concezioni troppo nere o troppo rosa. La sua macchina da presa è ssa su un oggetto o un’azione: il sonno di Sleep (1963), il bacio di Kiss (1963), l’Empire State Building di Empire (1964) come le chiacchiere e i giochi sessuali di Blow job (1963) e Couch (1964) ecc. Sono opere che ri utano il soggetto, si vogliono oggetto che sveli, in quanto tale, la merci cazione della realtà circostante, eros compreso, la riduzione a cose, sia pure - come nei suoi quadri - di una colorata, illusoria apparenza. Anche la sensibilità dell’artista è stata investita dall’universo delle cose, diventa cosa. Con le opere successive, no al ’68, più varie e dinamiche, Warhol ripiega su uno sperimentalismo in cui il cinema torna a essere, nonostante tutto, «narrazione» del banale, più che cosa tra cose

che rivela la sua natura di cosa e aggredisce il processo che le sta a monte. L’impatto con la mutante realtà dell’America degli anni sessanta non può che mettere in crisi la generazione dei filmmakers e dei loro seguaci, provocandone la diaspora. Con la scon tta del progetto politico del movement, essi vengono ricondotti a una logica di sperimentazione o di poetica individuali (in questa direzione va ricordato almeno Michael Snow, canadese e il suo Wavelenght, 1967, cinema di eventimetafore, che si de nisce come «cinema strutturale») o vengono recuperati nel grande mare del consumo e del divismo di massa, come Andy Warhol. Dal proli co fenomeno dell’underground è nato bensì anche un cinema «militante» americano, che ha seguito i destini del movement, e che ha dato con Robert Kramer il suo più cosciente regista, autore, assieme a John Douglas, col movement in re usso, di quel Milestones (1975), che è un lungo poema narrativo di interrogazione complessiva sul fallimento di una generazione e sulla natura dell’America, certo non privo di suggestioni venute dai beat. I tentativi europei di introdurre qui il soffio di questa «scuola americana» non potevano avere successo. In Italia, con la breve e intensissima esperienza cinematogra ca di Carmelo Bene - aggressione alle mitologie mediterranee, autodistruttivo narcisismo, poetica della negazione e dell’assenza -, si è già fuori da questi riferimenti, e l’esperienza della Cooperativa Cinema Indipendente ha avuto breve vita. Vanno ricordati comunque i nomi di Schifano e Lombardi, autori delle opere più interessanti e originali, e quelli di Leonardi, Bacigalupo, De Bernardi, e di Bargellini. A Vienna Peter Kubelka ha proseguito in un arduo sperimentalismo, né l’inglese Steve Dwoksin sembra meno isolato. Godard, che deve agli americani molte scoperte del suo periodo più pop, si è dedicato per molto tempo alla sperimentazione televisiva. E Jean-Marie Straub ha proseguito indefessamente in un astratto tentativo di ride nizione materialista del cinema, di accigliato rigore. Anche le avanguardie hanno bisogno, per orire, di un humus

sociale che le sostenga, di una parzialità che non sia solo marginalità. Il clima restauratorio dei tardi anni settanta e quello beatamente conformista e televisivo degli ottanta non si è certamente dimostrato il più propizio per il loro sviluppo, mentre nei novanta, grazie anche alla diffusione di nuove tecnologie e all’uso semplice ed economico del video, una miriade, anche pletorica, di nuovi piccoli centri ha movimentato e complicato felicemente il paesaggio dell’espressione visiva non sottoposta agli imperativi del commercio e della storia.

39. Satyajit Ray Tuttora uno dei più proli ci al mondo, il cinema indiano diviso in lingue ed etnie - aveva solo applicato formule di genere, di derivazione teatrale e sempre di teatro con musica, e tentato con sforzo, con scarsi risultati artistici, una strada vagamente documentaria o «neorealista», prima che Satyajit Ray lo venisse a svegliare, ponendosi immediatamente, con il suo debutto, tra i nomi eccelsi della storia di un’arte. Nato a Calcutta nel 1921 (dove morirà nel 1992), di famiglia benestante, avviato alla pittura, musicista, spesso direttore della fotogra a dei suoi lm, colto e curioso della cultura occidentale ma orgoglioso della tradizione indiana e ad essa saldissimamente ancorato, egli aveva avuto la fortuna di poter seguire come aiutoregista la lavorazione del Fiume di Jean Renoir, che esplorava con delicata sintonia e aperta, larga, commossa meraviglia del mondo e del suo ritmo il confronto tra una famiglia inglese e l’India - e la società, la ora, la fauna concresciute sulle rive del grande Gange. Era anche stato lettore assiduo di Tagore, il più aperto all’Occidente tra gli scrittori indiani, e sapeva che la comprensione tra culture è possibile, nonostante tutte le divisioni, le lingue, le economie, le montagne, le caste, le classi, i pregiudizi, gli interessi. Conosceva altresì, per quello che era possibile, il cinema di maestri dai quali apprendere i modi di narrare il mondo contadino (Dovzenko o Donskoj come Ford) o la grande città (Vidor, i tedeschi). Conosceva le opere più signi cative del neorealismo. E, giornalista, eccelleva nell’invenzione di novelle a fondo fantastico, brevi e rivelatrici, di taglio occidentale, anzi inglese, che sapevano congiungere come in una buona sceneggiatura il detto e il mistero. Personaggio dunque d’eccezione per biogra a, talento e cultura, Ray lo fu anche per umanità e misura, per la capacità di parlare a pubblici i più lontani senza affatto rinunciare alle

proprie radici e alla propria storia. Un suo solo lm venne distribuito nelle nostre sale, dopo il Leone d’oro a Venezia, il secondo della «trilogia di Apu» tratta dal ciclo romanzesco di B. B. Bandapaddhay. Pather Panchali (Il lamento sul sentiero, 1956) è l’infanzia di Apu, in un villaggio, a anco della madre; Aparajito (L’invitto, 1957) narra gli studi di Apu a Calcutta, mentre al villaggio la madre va morendo e non lo vedrà tornare in tempo per assisterla; Apur sansar (Il mondo di Apu, 1959) narra la giovinezza dell’eroe, afflitta dal bisogno e dalla morte per parto della giovane consorte. Dopo un doloroso pellegrinare per l’India, Apu avrà capito le leggi dell’esistenza, la realtà della miseria e della morte, i doveri dell’individuo, l’importanza degli affetti, il rapporto con la natura e con gli altri, l’accettazione e la conciliazione col mondo. Lenta e ampia come i sacri umi che la attraversano, la «trilogia di Apu» può ricordare al lettore occidentale la maestosa semplicità delle opere di Tolstoj e allo spettatore un’altra trilogia, quella di Donskoj: per Apu come per Maksim, dall’infanzia alla giovinezza, la vita è scuola a se stessa; è nel rapporto diretto e intenso, bevuto e sofferto con la vita che le interrogazioni si sciolgono e, pur non avendo risposte de nitive, insegnano l’essenziale. Ma in Donskoj (marxista e occidentale) l’insegnamento è anche di rivolta, di azione, di assunzione di responsabilità verso la società; mentre in Ray non sono necessarie grandi rotture, ma lenti cambiamenti, e il saper stare nel uire lento e partecipe della vita degli altri e della natura, nella vita del cosmo. Anche il dolore e la morte hanno la loro ragione e necessità, né sono eliminabili né sono esorcizzabili, fanno parte anch’essi della vita. Sono eliminabili, invece, gli scontri determinati dall’intolleranza, dal pregiudizio, dalla chiusura tra gruppi e tra fedi. Il grande desiderio di narrare l’India del proprio tempo o del passato non lontano, tra Otto e Novecento, per capirla e mostrarla al mondo, tuttavia rispettandone i valori della sua tradizione e la sua differenza, è stato il progetto portato avanti indefessamente da Ray per quasi quarant’anni, non sempre nelle migliori condizioni, attraverso opere diverse tra loro ma tutte segnate da quel

chiaro progetto. Affascinato dalla musica tradizionale, Ray ha dedicato a essa un lm bellissimo e «di genere» come Goopi gyne Bagha dyne (Gupi il cantante e Bagha il ballerino, 1969), forse il più estraneo al gusto occidentale. Alla passione per la musica dedica la sua vita e gli ultimi averi di maharaja scon tto dai nuovi tempi il protagonista di Jalsagar (La sala della musica, 1957), che si illumina, pur nella sua cupezza, di splendidi numeri musicali. Il tema dell’arte dell’India e la gura sociale, complessa, per certi versi ancora sacrale dell’artista saranno al centro di Hirak rajar deshay (Il regno dei diamanti, 1980). E Charulata (1964), da Tagore, metteva al centro il rapporto tra due intellettuali di ne Ottocento, una coppia unita e divisa dalla scrittura - lui sul versante del giornalismo e della politica, lei su quello dell’introspezione e della narrativa nel quadro di una società mossa da molte contraddizioni ancora, quelle di lingua (tra inglese e bengali, tra Occidente e tradizione orientale), e quelle di caste e di ceti. Un altro bellissimo personaggio femminile, in un regista che non ne ha certo lesinati, ancora una volta ispirato a Tagore, compariva in Devi (La dea, 1960), ma ora nel fondo delle campagne, là dove ancora accadeva che una ragazza venisse presa per la reincarnazione di una dea e restasse vittima della superstizione religiosa. In Mahanagar (La metropoli, 1963), in ambiente tutto diverso, una donna cerca di inserirsi nel mondo del lavoro confrontandosi con più tipi di pregiudizio e ostilità. Ma altre bellissime gure femminili, ora remissive e scon tte o semplicemente accettanti, ora cautamente o dolorosamente alla ricerca di un proprio spazio e di una propria dignità, compaiono nella maggior parte delle opere di Ray. Sempre, un delicato e inavvertibile equilibrio si espande in queste opere, nel loro ritmo, nel loro uso del tempo, nel loro cauto e rispettoso prender per mano lo spettatore orientale o occidentale per mostrargli nella calma evoluzione di una storia qualcosa d’altro e di più, per mostrargli in de nitiva la necessità di quell’equilibrio come modo di leggere i con itti e di reagirvi.

Negli anni di Ray bensì il mondo cambia, l’India cambia. L’occidentalizzazione assume toni più aperti e più forti - il denaro, la dipendenza, i nuovi ricchi, il consumo, la città che si espande - mentre la tensione interna sale e talora esplode tra etnie e caste, con crisi anche terribili, che de niscono nuovi assetti di potere. L’opera di Ray si fa sotto molti aspetti più dura, meno conciliata, e ricorre - con il bagaglio culturale che ne sta alla base - a modelli più sociali, più attenti alle de nizioni di classe dei personaggi. Questa tendenza investe di sé lm di assoluta contemporaneità, il più bello dei quali è forse Aranyer din ratri (Giorni e notti nella foresta, 1970), in cui quattro uomini della nuova classe burocratica cittadina passano quattro giorni di vacanza nei pressi di un villaggio, in una casa forestale: dal confronto tra di loro e con gli abitanti del luogo, ricchi e poveri, non derivano molta comprensione, prigionieri di una chiusura che li indurisce, e poco scossi dall’esterno, ma almeno uno bruciato nella sua sensibilità forse per sempre. È nei comportamenti e nei rapporti che Ray illustra l’attenzione alle psicologie, in un lm che appare come una sorta di romanzo «lukacsiano» in grado di spiegare la trasformazione dell’India in anni decisivi per la sua «modernità», ogni personaggio rinviando senza nessuno sforzo, nessuna accentuazione didascalica, al ceto da cui proviene, alla sua origine e appartenenza sociale. In Pratitwandi (L’avversario, 1971) il protagonista è un ex studente carico di risentimenti, in Seemabaddha (Società per azioni, 1972) è un nuovo manager spregiudicato, mjana aranya (L’intermediario, 1975) un mediatore arruffone e capace di tutto, ecc. Su questa strada non appare sconcertante che Ray si sia rivolto n a Ibsen, adattandolo all’India (Ganashatru, Il nemico del popolo). È come se Ray, di fronte a un mondo più materialisticamente pesante e lacerato, si fosse posto il compito di capire e far capire ciò che si muove, e dove il nuovo può portare, nel rischio di perdita dell’identità di una cultura. Nel 1977 un lm al passato, Shatranj ke khilari (I giocatori di scacchi) esprimerà con ambigua attenzione la rivolta o fuga di due personaggi che si chiudono nella passione del gioco

mentre intorno la storia si muove e travolge, al tempo dell’occupazione da parte degli inglesi. La scelta è criticata, ma è in qualche modo capita. Tra le ultime opere del maestro, quelle degli anni ottanta, molte delle quali non è facile conoscere, almeno una ne va ricordata, ancora a fondo storico: Ghare baire (La casa e il mondo, 1983) è tratta ancora una volta da Tagore (alla cui vita Ray dedicò due lunghi documentari televisivi) e ambientata nel 1905. In un ambiente chiuso ed essenziale il con itto si annuncia, la divisione riguarda indù e musulmani, indiani e inglesi, nonviolenza e violenza, tradizione e innovazione. Anche qui Ray insiste nel suo scopo vagamente didascalico, che è quello, insieme, di un grande moralista e di un grande narratore. Nessuno come lui ha saputo offrirci le chiavi di un’immensa nazione e della sua storia recente, e farcela amare senza in ngimenti estetizzanti o idealistici nella sua realtà varia, contraddittoria, appassionante, nella loso a che ha impregnato per secoli i suoi comportamenti e determinato la sua sapienza, nella sua radicale crisi di trasformazione conseguente a una modernizzazione disuguale e confusa.

40. Le nouvelles vagues dall’Occidente all’Est europeo e al Terzo Mondo Uni cano le nouvelles vagues degli anni sessanta più somiglianze tecniche che non tematiche o per no linguistiche. La ricerca di un linguaggio aderente a una realtà in cui la soggettività del regista sia prepotentemente affermata è ormai permessa da apparati tecnici di ripresa (cineprese leggere) e di registrazione del suono (magnetica e in sincrono) e dalla sensibilità della pellicola alla luce. Fare cinema costa meno, molto meno che in passato; si può girare praticamente dovunque, «catturare» la realtà o ricrearla con pochi agili mezzi, relativamente con pochi soldi (un quarto, per un lm «normale», del costo del passato). Lo sviluppo tecnico contribuisce all’affermazione di nuove scuole; il potere e l’organizzazione della grande industria del cinema vengono scalzati dalla logica interna di sviluppo del capitale: nuove merci, nuovi consumatori, nuovi mezzi, nuova informazione. E possibilità di nuova comunicazione. Il cinema continua a riproporsi come industria del cinema. È la stessa industria del cinema a necessitare di un ricambio. L’acquisizione delle nuove tecniche è preceduta spesso da una profonda esigenza di uscire dalle strade battute. Due sentieri si intersecano, da subito: quello di un nuovo sguardo sulla realtà, in de nitiva di un nuovo realismo annunciato da pochi «padri» riconosciuti (Bazin, Rossellini e, per alcuni, certi lontani documentaristi); quello di una possibilità di espressione per una nuova soggettività, che esprima se stessa come parte di una realtà che l’as ttico cinema degli anni cinquanta (salvo quello, mediatissimo, dei «grandi autori») non è in grado di raccontare. Si arriva alle nouvelles vagues in modi diversi.

In Inghilterra: col free cinema (1956) - Lindsay Anderson, Karel Reisz, l’operatore Walter Lassally, Lorenza Mazzetti ecc. coetaneo degli «arrabbiati» in letteratura e in teatro (Sillitoe, Wesker, Osborne, Storey, Littlewood, Delaney, Peter Brook ecc.). Nel cinema, signi ca attenzione per una realtà operaia (per la nevrosi operaia), per le lotte paci ste, per il mondo dei marginali, e signi ca critica del potere, del lavoro, dell’istituto familiare. In America: con il candid eye televisivo dei Drew, Leacock, Pennebaker, Maysles, che scruta la realtà, soprattutto «ufficiale», nei suoi recessi nascosti; con l’estrema soggettività delle avanguardie e del Nac; con il cinema off-Hollywood, tra documentario e nzione, dei Cassavetes, Clarke, Meyers ecc. In Francia: con il cinéma-verité, tra etnologia e psicodramma, di Morin e Rouch, ma anche dei Marker, Allio, Ruspoli, Reichenbach, Rozier; con il gruppo detto degli «amici di Alain Resnais» (Resnais, Varda, Duras, Robbe-Grillet, Colpi…), che uni ca ricerca di una oggettività nuova (determinata bensì da una soggettività nuova di artisti) e istanze di sinistra; e coi «disimpegnati» dei «Cahiers du cinéma» (Godard, Truffaut, Rohmer, Rivette, Chabrol e un loro padre quasi dimenticato, Jean-Pierre Melville, e al loro seguito la parabola Jean Eustache). Quest’ultimo è il gruppo più celebre, sia per la indubbia capacità di provocare e agire, sia per una maggiore immediatezza di linguaggio, e in de nitiva per la maggior coscienza sia storico-critica (preparata dall’esercizio critico sui «Cahiers») sia linguistica del mezzo e delle sue possibilità tecniche. È questa la nouvelle vague ufficiale, quella di cui più si parla, e che più riuscirà ad avere in uenza (è ben forte, dal dopoguerra, una sorta di imperialismo culturale francese, di cui è stata succube anche l’Italia). Attraverso i «Cahiers», usufruirà di un centro di potere «parigino» che determinerà spesso l’accettazione o il ripudio dei lm venuti da altrove. L’ambiguo concetto di «autore» permette ai «Cahiers» una politica culturale empiricamente sussultante, capace di aperture e chiusure improvvise e di violenti giri di boa. Per costoro, importa un generico «splendore del vero» e come

rappresentarlo più che come leggerlo. Il linguaggio del cinema conquista (riconquista) la prima persona singolare ed esplicita la sua natura di cinema, si vuole straniarne, contro il cinema ottuso e naturalistico che in Francia li ha circondati e contro quella sua falsa oggettività che mirava al coinvolgimento e al plagio dello spettatore. Contano meno le ideologie, ì movimenti, la politica. I lm sulla realtà francese degli anni della guerra d’Algeria e di De Gaulle saranno altri: quelli di Alain Resnais, da Hiroshima mon amour (1959) allo stupendo Muriel (1963); quelli di Chris Marker, soprattutto Le joli mai (1962), inchiesta-verità sulla Francia del ’62; quelli di Agnès Varda, soprattutto Cléo des cinq a sept (Cleo dalle cinque alle sette, 1961). E, forse unico sul versante «rive droite», il langhiano e «irrealistico» Paris nous appartieni (1959) di Jacques Rivette. La «politica degli autori» fa sì che la «rive droite» si diversi chi immediatamente in esperienze tra loro lontanissime. Anche se Truffaut dirà (e da parte di questo cantore di una piccola borghesia «bien française» è formula di comodo): «siamo tutti anarchici, di destra o di sinistra», di sinistra c’è in realtà poco, ma vale per tutta la generazione cresciuta dopo la seconda guerra mondiale, non solo in Occidente, stanca dei ricatti della guerra fredda e dei ricatti dell’impegno, ostile al super-io collettivo di cui ha vissuto la repressiva ipocrisia, dotata di qualche potere d’acquisto, che ambisce a poter dire nalmente, nelle arti, «io» e nella vita «ionoi» contro «loro», gli adulti. Godard, Truffaut, Rohmer, Rivette, Chabrol hanno, anche come «autori», ben poco in comune. E tuttavia è la loro nouvelle vague a fungere da detonatore per le nouvelles vagues in giro per il mondo. Dal Giappone (Oshima, Teshigahara, Hani, Imamura ecc.) all’Italia (Bertolucci, Baldi), dalla prima ondata tedesca (gli Schamoni, Kluge, Reitz, Schlòndorff) al Belgio (Delvaux), dai paesi dominati dall’Urss all’America Latina, dall’Africa (Hondo, Ecaré, Sembène Ousmane…) ai paesi nordici (Wideberg, Sjòman, Donner), persino dall’India (Sen) all’Egitto (Abd al Salam, in un paese dove è però stato

Yussef Chahine a dimostrare la più sovrana vitalità tra commercio e sperimentazione), al Canada anche (con Lefebvre, Jutra, Carle, Groulx) dopo una prima affascinante oritura di cinema-verità (Perrault, Brault, il primo Jutra). Cadute ben presto le novità inglesi - più tematiche che formali: Saturday night and Sunday morning (Sabato sera, domenica mattina, 1960) di Karel Reisz, e loneliness of the long distance runner (Gioventù, amore e rabbia, 1962) di Tony Richardson, is sporting life (Io sono un campione, 1963) di Lindsay Anderson… - e dilacerate tra avanguardia anche sociale e recupero hollywoodiano quelle americane, sono i paesi dell’Est e dell’America Latina a dare le opere più consistenti. In Polonia, dopo Munk e Wajda, saranno Roman Polanski coi suoi cortometraggi e il suo primo lm Nóz w wodzie (Il coltello nell’acqua, 1962) e Jerzy Skolimowski con quella specie di trilogia sul disagio giovanile (il suo disagio, innanzitutto) formata da Rysopis (Segni particolari: nessuno, 1964), Walkover (1965) e Bariera (Barriera, 1966) e proseguita con il vietatissimo Rece do góry (Mani in alto, 1967), a dimostrare, nell’aggressività più a freddo del primo e più ciclotimica del secondo, una critica al mondo più che al cinema in cui si trovano a crescere. Entrambi si faranno «adulti» fuori dalla Polonia. In Ungheria, che ha vissuto il ’56, gli esasperati pianisequenza di Miklós Jancsó sono un’investigazione sulla storia di cui il risultato è immediatamente evidente, e sembra acquisito dall’autore prima ancora di far lm come Szegénylegények (I disperati di Sandor, 1965), Csillagosok katonak (L’armata a cavallo, 1967), Csend és kiáltás (Silenzio e grido, 1968). Sono già lontani i tempi, per lui, in cui si trattava di «sciogliere e legare», sciogliere col passato stalinista e legare con il progetto kadariano, al quale cercano invece ancora di credere nonostante tutto registi come András Kovács con Hideg napok (Giorni freddi, 1966), István Szabó con Apa (Il padre, 1966), Peter Bacsó, Ferenc Kósa, mentre István Gaál seguirà le orme jancsiane in Magasiskola (I falchi, 1970). La rottura del ’56 ha segnato comunque questo cinema che sa analizzare con durezza incisiva, lasciando poco spazio alla speranza. L’ombra dei Lukács e dei Dery dà loro un’acuta

coscienza della durezza del travaglio storico, ma, con Jancsó, la storia è tutta e solo nemica, riproduzione statica del potere sempre e dovunque. Tra 1984 e 1990, vanno ricordati i Tre Diari di Marta Mészáros di ri essione sul passato comunista della nazione; Napló gyermekeimnek (Diario per i miei figli), Napló szerelmeimnek (Diario per i miei amori) e Napló apámnak, anyámnak (Diario per mio padre e mia madre). La nouvelle vague cecoslovacca è diversa, in quanto legata strettamente alle grandi aperture dubcekiane. Oscilla tra un’agile, ironica perlustrazione della realtà quotidiana - i lm di Milos Forman, poi abilissimo a capire i meccanismi del successo hollywoodiano, di Jifí Menzel, di Jaromil Jires, di Ivan Passer, e di Véra Chytilová in ne, fantasiosa cantatrice di personaggi femminili reali o immaginari alla ricerca di un’altra liberazione oltre quella politica - e ampie metafore di sapore kaiano, di nero pessimismo con i lm di Pavel Jurácek e Jan Schmidt, e soprattutto di Jan Nemec, autore di Demanty noci (I diamanti della notte, 1964) e, assai meno preoccupato di una connotazione realistica, O slavnosti a hostech (Sulla festa e gli invitati, 1966). Evald Schorm, con Kazdy den odvahu (Il coraggio quotidiano, 1964) esprime il disagio degli operai, un pessimismo determinato che verrà confermato dalla tragedia del ’68, che chiude de nitivamente la storia di questo cinema. Anche la Romania, con Lucian Pintilie e il suo Reconstituirea (Sopralluogo, 1968) dà per un attimo l’illusione di un nuovo cinema, radicato nella critica del presente poststalinista, mentre la Jugoslavia, con gli scavi nei sentimenti di Bostjan Hladnik, il ritorno alla storia passata nelle ballate amare di Purisa Djordjevic, le rabbie sottoproletarie di Zivojin Pavlovic, gli accenni di contestazione giovanile di Zelimir Zelnik, ha avuto una sua nouvelle vague illustrata all’estero dal più virulento e personale dei suoi rappresentanti, Dusan Makavejev. Dal signi cativo debutto «realistico» di Covjek nije pica (L’uomo non è un uccello, 1965) a Sweet Movie (1974, girato all’estero), passando per Ljubavni slucaj in tragedija slozbenice P.T.T. (Un affare di cuore, 1967) e W. R. Misterije organizma (W. R. I misteri dell’organismo, 1971), che affrontano

sarcasticamente, con uno spericolato uso del montaggio e del collage, le impossibilità di «volare» nel contesto socialista ed esprimono una rivolta vitalistica, individualistica, sessuocentrica, Makavejev esce da correnti e scuole e si vuole autore internazionale, come un Polanski o un Forman, ma meno irreggimentabile di loro. Dall’altra parte dell’emisfero, il cinema latino-americano (che è in realtà brasiliano, cubano, cileno, boliviano, e solo parzialissimamente argentino e messicano) è segnato dalla speranza «fochista» e guerrigliera o da quella delle costruzioni castriste o aliendiane, tuttavia rivoluzionarie. È un cinema, quasi obbligatoriamente, anche «militante». È un cinema naturalmente anticolonialista, che cerca l’elaborazione di un’estetica autonoma - come quella «della fame» e della violenza «liberatoria» teorizzata dal «cinema novo» brasiliano legata al progetto di liberazione nazionale e subcontinentale. A Cuba, luogo della speranza perché della rivoluzione realizzata, il cinema degli anni sessanta è in realtà condizionato dalla politica culturale castrista, che se dapprima permette ri essioni parziali sulla storia recente e sul presente (Tomas Gutierrez Alea, Julio Garcia Espinosa), e validi documentari politici di Santiago Alvarez, si chiude ben presto nella celebrazione o nello sguardo al passato meno prossimo secondo modi non da «realismo socialista» (benché vi siano anche quelli) quanto da esasperato ed esteriore formalismo (Solas, Gomez, Fraga ecc.). Ma è il cinema brasiliano il più vivace e ricco di proposte, sin dall’inizio del decennio, pro ttante delle aperture riformistiche del «janguismo». Cinema di una intellighenzia borghese di ricca cultura, attentissima (nonostante certe dichiarazioni) alle novità europee e insieme sorretta da una tradizione letteraria, musicale, teatrale, nonché socioantropologica di ampiezza e profondità eccezionali. Non è certo un caso che molti di questi giovani registi si rifacciano a opere letterarie o letterario-antropologiche per le loro creazioni, tuttavia segnate da una logica nuova di denuncia e di rivolta. I tre capolavori di questo cinema, tutti del ’63-64, si

rivolgono al Nordeste della siccità (Vidas secas di Nelson Pereira dos Santos), delle rivolte millenariste religiose o banditesche (Deus e o Diabo na terra-do sol, Il dio nero e il diavolo biondo di Glauber Rocha), della tremenda sospensione e attesa di una rivolta di cui ci sono tutte le condizioni e che non esplode (Os fuzis, I fucili di Ruy Guerra). La realtà del sottosviluppo vi trova tre de nizioni concomitanti, di cui oggi la seconda, più esasperata e perciò più celebrata, ci appare come la più «letteraria». Rocha è stato il nome più famoso del «cinema novo», ma quello che anche ne ha incarnato con più evidenza la forza e la debolezza. I suoi limiti sono più evidenti in Terra in trance (1967), parossistica ri essione sulla gura dell’intellettuale brasiliano e i suoi dilemmi, e nei lm successivi di Rocha, europei loro malgrado. Anche Guerra, che è nato nel Mozambico, realizzerà in Europa, dopo I fucili, lm «decadenti» come l’ipersimbolico e raffinatissimo Sweet hunters (1969), e il barocchissimo Os deuses e os mortos (1970), opere comunque di un’intensità formale e tematica conturbante; e non vanno certo dimenticati registi come Paulo César Saraceni, Gustavo Dahl, Joaquim Pedro de Andrade (autore di una divertita e scatenata versione del Macunaima di Mario de Andrade nel 1969), Carlos Diegues (autore di quell’Os herdeiros, 1970, che riusciva in ne, ricorrendo alla tradizione teatrale più povera ed evasiva ma più popolare della metropoli brasiliana, a fare opera didascalica e a suo modo «brechtiana» sulla storia della borghesia nazionale). Una piccola pleiade variegata e a tratti scomposta, di una sorprendente vitalità, destinata a crollare anch’essa ai primi ritorni di repressione e reazione «gorillesche», e soprattutto al disimpegno della generazione successiva, che le volterà freddamente le spalle. Scarsa, in situazioni assai diverse, è la presenza di un cinema giovane di qualche novità in Messico (nonostante verso la ne del decennio i debutti favoriti dal «Frente nacional» del cinema fondato da alcuni cineasti dopo il ’68, il migliore dei quali sarà quello di Paul Leduc, nel ’71, con John Reed Mexico insurgente) e in Argentina, dove però, nel ’68, già in fase di

aperto con itto preludente il ritorno inutile di Peron, Fernando Solanas e Octavio Getino daranno con La hora de los hornos (L’ora dei fuochi, 1968) il manifesto teorico della sinistra rivoluzionaria argentina, un lm fatto e in via di farsi, direttamente militante, da rileggere oggi non solo per l’uso didascalico del documentario e del montaggio, con modi da alta pubblicità, quanto come sintesi delle illusioni del tempo in una loro versione nazionale destinata a un rapido e tragicissimo fallimento. In una situazione politica di quelle che si de nivano un tempo «di transizione», il cinema cileno esiste, si può dire, a cominciare da Allende: Raul Ruiz con Tres tristes tigres (1968), feroce quadro della borghesia cilena (Ruiz ancora negli anni novanta proseguirà in Europa la sua instancabile attività di autore di piccoli lm provvisori, raramente elaborati al punto giusto); Miguel Littin con El chacal de Nahueltoro (1969) e con La tierra prometida (La terra promessa, 1973), Helvio Soto e Aldo Francia parteciperanno in vario modo alle speranze e alle lotte del periodo di «Unidad Popular», stroncate dal golpe del ’73. In Bolivia, il cinema indio (spesso parlato e recitato in quechua) di Jorge Sanjines (Yawar Mallku, Sangue di condor, 1969), è anch’esso al limite del pamphlet politico, tra documentario e ricostruzione e nzione, piegati a illuminare e a intervenire su una realtà andina oppressa e dimenticata. In molti, troppi paesi, ma in particolare in quelli dell’America Latina, la storia del nuovo cinema si è intrecciata profondamente con quella della storia politica del decennio. Solo in Europa (e non dovunque: si pensi alla Spagna, dove la solitaria ri essione di Carlos Saura attraversa gli anni sessanta e settanta, seguita solo alla morte di Franco da una oritura incontinente e bizzarra che si vuole soprattutto europea; o al Portogallo, dove sarà un vecchio come Manoel de Oliveira a dare i lm più ambiziosi e più «nuovi» del dopo-Salazar) il nuovo cinema avrà possibilità di crescere e diversi carsi, autoselezionandosi nei nuovi al eri del sistema o in raffinati «autori» a tutto tondo estranei a problematiche collettive e

tantomeno giovanili o in ne in indefessi sperimentatori e/o narratori «ai margini». Questa «crescita» ci sembra invero assai discutibile. Da qualsiasi punto la novità fosse giunta, essa esprimeva una irrequietezza generazionale, non solo «cinematogra ca». Il bisogno di esprimere la propria incerta soggettività contro i codici di un sistema che si pretendeva risultato di oggettive necessità, è andato di pari passo con il disagio collettivo di un mondo in movimento, frutto della crisi di un assetto internazionale che, da guerra fredda a coesistenza, sembrava non più reggere all’urto delle volontà di liberazione collettive come alle proprie interne contraddizioni. Ma il «sistema» del potere e dei poteri, nonostante scosse e contorsioni, ha pur retto, e ha continuato a gestire la sua crisi pur sempre sull’orlo dei disastri ancora no al ’90. Il ’68 è, in questo quadro, un momento anche simbolico di esplosione collettiva; ma il ’68 è nito, scon tto dal potere come dalle sue contraddizioni e pochezze. La forza delle nouvelles vagues e consistita nell’aver preannunciato un nuovo, oggi prematuramente sorpassato e scon tto. Solo provvisorie vampate si sono ancora sviluppate, là dove prima non si era avuta rivolta come in Svizzera (con le opere dei Tanner, Soutter, Goretta, Schmid, Yersin, Körfer) o là dove la rivolta era stata più velocemente annientata o controllata come in Germania, permettendo bensì un orire inconsueto di talenti (Wenders, Herzog, Fassbinder, Kluge, Fleischmann, Schroeter, e la seconda giovinezza di Edgar Reitz). Ma la loro è stata la dimostrazione amara dell’assenza di un legame con un movimento collettivo che non c’era più, e di questo ha portato il segno.

La novità si è incanalata o è stata incanalata per strade sapute e battute. Il cinema venuto dopo è stato un cinema di conservazione o, nel migliore dei casi, di temporeggiamento. A metà degli anni settanta ha anche avuto, con O thiassos (La recita, 1975) di odoros Anghelopoulos il suo canto del cigno. Dalla «decentrata» Grecia ci è giunta la più matura sintesi e ri essione non solo sulla storia e la cultura e la sinistra greca, ma anche sul cinema degli anni sessanta, inglobato, digerito e riproposto con una formidabile capacità di sintesi (Godard e Brecht come i vicini e lontani maestri del cinema che le nouvelles vagues hanno più amato). Ma si è trattato di un canto di morte e non di vita, di un atto di chiusura alla storia di una speranza, così come, in Francia, Le fond de l’air est rouge di Chris Marker (1978) è stato, coi modi del cinema militante, un lucido e appassionato consuntivo di quel tipo di cinema e della ne di tutto un periodo storico (esplicitato dal sottotitolo: Scenes de la troisième guerre mondiale 1967-1977). Il cinema che oggi si vuole nuovo non fa che ripercorrere orme del passato, canti già cantati. Raramente, in Europa, ha proposto novità di sostanza, ed è stato allora in Gran Bretagna con il cinema d’ispirazione documentaria e proletaria di Ken Loach, con la provocazione «malvagia» (Naked, 1993) o «buonista» di Mike Leigh, con la poesia di Terence Davies, con la follia di Terry Gilliam e dei Monty Python, con l’eclettismo di Stephen Frears, con la miscelazione interetnica di Hanif Kureishi, e non sempre con l’eleganza cerebrale dei Greenaway e Jarman o quella esangue di James Ivory o quella di modernizzatore scenogra co di Shakespeare che è di Kenneth Branagh. Nell’Europa centrale tra comunismo e capitalismo, l’unico grande nome emerso è stato quello di Krzysztof Kieslowski, continuatore, con il suo Decalog (Decalogo, 198788) ma sul versante più surreale e meta sico, di tutta una cultura. Emir Kusturica si è affermato con forza (e con politica ambiguità) in Jugoslavia, prima che la Jugoslavia diventasse «ex». Dalla Finlandia è venuto il bizzarro e algidamente nuovo Aki Kaurismaki. Dalla Francia André Téchiné, Olivier Assayas, Eric Rochant, Claire Denis… e poi Michel Bena, Pascale

Ferrara, Laurence Ferreira-Barbosa… l’irriverente Pedro Almodóvar.

Dalla

Spagna

In questi casi la novità c’era però già stata, e si è trattato di continuazione, di variazione, di innesto di sensibilità dominate sovente dall’angoscia del «no future», e in questo soprattutto diverse da quelle degli anni sessanta delle grandi speranze di «gioventù (e di immaginazione) al potere». Il cinema ha però con la novità degli enormi sviluppi tecnologici — visto affermarsi e risorgere altre cinematogra e. Si è spostato su altri media (il video, innanzitutto) e altri spazi, o anche in altre nazioni, ed è stata questa la vera novità degli ultimi decenni del secolo. Se il mondo arabo ha dato, con opere signi cative anche dentro la rivisitazione dei «generi» e con incerti tentativi di rottura, un impasto non sempre nuovo di poesia e politica, peraltro spesso soffocato o incanalato su vie conformiste dai poteri e dallo strapotere religioso; se l’Africa nera ha suscitato speranze che non ha saputo mantenere con le opere di «pionieristiche» di Sembène Ousmane (Senegal), e con quelle più vivaci e libere di Djibril Diop Mambety (Senegal), Souleymane Cissé (Mali), Gaston Kaboré (Bourkina Faso) e soprattutto Idrissa Ouédraogo (Bourkina Faso), ma scontando la crisi tutta di un continente lacerato da con itti portati dall’esterno e da interne faide da olocauso; se l’America Latina ha incertamente vivacchiato, proponendo raramente opere signi cative (soprattutto in Messico, con Paul Leduc, Arturo Ripstein, Jaime Hermosillo, Maria Novaro); se il Canada ha imposto nuove speranza con l’opera di Atom Egoyan, e l’Australia con Jane Campion (dal piccolo Sweetie, 1989, al grande Portrait of a Lady, Ritratto di signora, 1996); è dall’Asia che la novità è arrivata: non dal Giappone ricco di tradizione e capolavori ma chiuso in mode appariscenti e in autodistruttive celebrazioni del suo disagio (Takeshi Kitano, Ryu Murakami, Shn’ya Tsukamoto) ma dal Sud Est asiatico, con le grandi opere di Chen Kaige e Zhang Yimou (Cina), King Hu, Hou HsiaHsien, Tsai Ming-Liang, Edward Yang (Taiwan), Ann Hui, Tsui Hark, John Woo e Wong Kar-wai (Hong Kong).

Mentre in India, nell’immenso paese attraversato da antiche e nuove contraddizioni, è nelle opere di maestri come Ritwik Ghatak, Mrinal Sen, Adoor Gopalakrishnan che va cercato il segnale di un’attenzione rinnovata a un rapporto difficile, talora tremendo, tra tradizione e rottura, innovazion e ricerca di un equilibrio delicato quanto indispensabile. Un nuovo realismo si impone frattanto dentro il cinema che cerca vie nuove per rinnovarsi. Dopo i grandi documenti sulla società statunitense di Frederick Wiseman, sarà bene ricordare che il documentario langue, aggredito dal cronachismo televisivo, ma che vi sono autori come i fratelli Dardenne in Belgio (La promesse, 1996), alcuni inglesi sulla scia di Loach, i russi Palesan e Sakurov, alcuni giovani francesi, tra cui Sandrine Veysset, che battono felicemente la strada di un cinema fortemente radicato nel presente duro e confuso di ne secolo.

41. Alain Resnais Resnais è un «uomo senza biogra a» (nel senso di prepotenza intellettuale trasformata in confronto drammatico col tempo); è un anti-eroe; è un «professionista» che giunge a condizionare la sua individualità e il suo individualismo in un confrontocollaborazione con co-autori intellettuali come lui, ma intellettuali della penna e non della luce-pellicola. Non ha mai scelto tra questi i più grandi, ma quelli più disponibili a lasciarsi integrare nel suo progetto, volta per volta trovando egli una dimensione di integrazione rispettosa con la loro opera e la loro poetica. Soltanto per Providence e Voglio tornare a casa si è confrontato con una cultura che non era quella francese, le sue scelte e la sua cultura essendo tra quelle più lucidamente «francesi» che sia possibile constatare oltre l’imperversare delle mode stagionali, radicate nei dilemmi e nelle acquisizioni degli anni trenta. L’ambito di riferimenti in cui egli si è mosso è restringibile tra due modelli contrapposti, tra i quali la sua opera oscilla: il poetico-patetico-sociale di un Eluard, l’ironico-bizzarro-analitico-pata sico di un Queneau. Con correttivi, certamente, che vanno da Sartre a Giraudoux. «Occorre trattare l’immaginario all’interno del quotidiano». «Mi piace porre allo spettatore le stesse domande che mi pongo io stesso. E nelle risposte che do inserisco tutto quello di cui dispongo come elementi di informazione. Lui e io abbiamo la stessa quantità di conoscenze. In questa esplorazione, ci troviamo sempre allo stesso stadio di comprensione. Autori, personaggi e spettatori ne sanno in ogni momento esattamente lo stesso». «Credo a una forma di cinema che si avvicini al romanzo senza averne le regole». «Ho voluto realizzare l’equivalente di una lettura, lasciare allo spettatore la stessa libertà d’immaginazione che ha il lettore di un romanzo».

Il progetto di Resnais, nella sua indubbia originalità, ha tuttavia delle affinità con quello di altri registi che si sono interrogati sulle potenzialità del linguaggio cinematogra co, ma anche sulla difficoltà di piegare e scon ggere i condizionamenti realistici dell’immagine, la convenzionalità delle strutture narrative primarie, e soprattutto la prigionia dell’immaginario dentro il processo della proiezioneidenti cazione dello spettatore col personaggio. In breve, sull’autoritarismo del lm (del regista), su ciò che rende il lm in de nitiva più nemico della libertà dell’immaginario che non il romanzo e la poesia, che non il teatro e la musica e la pittura. Ma in questa ricerca di liberazione del cinema dal suo potere obbligante, dalla sua azione di oppressione e non di liberazione dello spettatore, Resnais si colloca su un versante tutto proprio e, se vogliamo, «alto-borghese». Perché privo di un progetto rivoluzionario e di un « ne sociale» e per no, come vedremo, di una carica di indignazione morale, sia pur venata di narcisismo, quale quella del suo contemporaneo Godard. D’altra parte, non sembra essere un suo ne neanche quello caro agli utopisti del ’68 di «liberare l’immaginario», ma piuttosto quello di studiarlo, di approfondirne e veri carne i meccanismi, di vederlo in azione e farlo entrare in azione. Sin dai primi lm, la critica notò come il tema centrale della sua opera fosse la memoria, e Tonte la mémoire du monde (Tutta la memoria del mondo, 1956) s’intitolava un suo documentario sulla Biblioteca nazionale di Parigi e il vortice e la vertigine della memoria contenuta nei libri, lo stesso anno in cui Nuit et bruillard (Notte e nebbia) era un invito a non dimenticare la tragedia immane dei campi di sterminio, con grande lucidità espressiva e con una insolita e apprezzabile capacità di mostrare il necessario fermamente e insieme pudicamente. E ancora l’esordio nel lungometraggio con Hiroshima mon amour (1959) su testo di Marguerite Duras, metteva di fronte due modi di aver vissuto la guerra e di viverne (o negarne) la memoria: una giovane attrice francese a Hiroshima si confrontava con la memoria della guerra dell’uomo amato, un giapponese, e cioè con la memoria dell’atomica. Solo così poteva rievocare la sua, di innamorata di

un tedesco a Nevers, accusata di collaborazionismo, e «rapata» come alla liberazione fu d’uso. La memoria è anche il tema del più frigido e rigido L’année dernière a Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1961) ma al contrario, ché in esso si voleva convincere il protagonista ad accettare una memoria come promessa di futuro. Lo aveva scritto un autore di punta della «scuola dello sguardo», Alain Robbevrnllet. Ma Hiroshima era ben altro, nella sua giustapposizione di temi contrastanti che si serviva del documentario e del quasi documentario, del monologo e del dialogo (e si parlava anche troppo, in questo lm), della poesia e della prosa, mentre si evocavano due passati che sembravano diversissimi, e si invitava lo spettatore a partecipare emotivamente ma anche a non perdersi, a ragionare, a rimettere insieme i pezzi, a farne cosa sua. Insieme a Muriel, ou le temps d’un retour (Muriel, il tempo di un ritorno, 1963) scritto da Jean Cayrol, e a La guerre est finie (La guerra è finita, 1966), scritto da Jorge Semprun, Hiroshima mon amour compone un’originale trilogia politica, di taglio fortemente umanistico, nel cinema di Resnais. Fatta salva la novità di Hiroshima, è Muriel tra questi il titolo più convincente, per il colore, per l’intreccio dei temi, per l’articolazione in personaggi vari e molteplici, in un contrapporsi di possibilità accettate o evitate, di accadimenti minimi che rinviano ad altro, di banalità dette e fatte con ritorni e scambi quasi inavvertiti di grandi problemi morali, di grandi tensioni sociali. In questo brulichio, sullo sfondo di una paci ca città di provincia molto piccolo-borghese, il ricordo del giovane protagonista (la Muriel torturata che mai vedremo) è ben presto incubo e lettura di tutto. Muriel ha al suo centro la presenza, nascosta e ossessionata, di una memoria che tutta la Francia vuol censurare, quella della guerra di Algeria e della tortura come metodo di guerra comunemente applicato. La guerra è finita è un elogio delle «vere virtù» del rivoluzionario: la pazienza e l’ironia, veri cate e accettate per forza dal protagonista, Diego, un militante comunista spagnolo che passa tra Spagna e Francia da anni per la sua attività clandestina. L’interrogazione è qui sulla politica, sui modi di

agirla, sulla vicinanza o distanza alla politica di chi si accosta a Diego. La politica è la presenza nascosta dell’opera di Resnais no alla metà dei settanta, e sarà ancora con un testo di Semprun che vi tornerà nel ’75 per Stavisky (Stavisky, il grande truffatore), sulla gura di un avventuriero nanziere degli anni trenta che nì malamente dopo uno scandalo che travolse con lui un sistema economico e mostrò la miseria di una borghesia al potere. Ma la storia di Stavisky è intrecciata dagli autori a quella del breve esilio di Trockij in Francia: due ebrei, due esuli, ma come diversi!, e una terza ebrea, attrice, è il punto che lega le due vicende, ché entrambi, Stavisky e Trockij, amano il teatro. Tre provvisorietà si intersecano macchinosamente, negli anni trenta delle dittature e delle viltà democratiche. Stavisky è una specie di attore, in ne, che recita la ricchezza come riscatto dalla miseria di origine. Con Je t’aìme, je t’aime (1968), su testo di Jacques Sternberg, scrittore di cose fantastiche, assistiamo al ritorno al passato di un suicida fallito nito nelle mani di scienziati che gli propongono il viaggio nel tempo, per ash, brani di passato e di presente come di tempo e di non-tempo, con liberazione fantastica, con pulsione mortuaria. Un bizzarro esercizio borgesiano che preannuncia i molti esercizi del Resnais degli anni ottanta. Providence (1977) è il lm «inglese» di Resnais, scritto da David Mercer (l’autore di Morgan matto da legare) e interpretato da John Gielgud, dio-letterato di un piccolo regno proprio, dove domina su due gli, l’illegittimo e ribelle e il fedele e banale, e una piccola corte. Vicino alla morte scrive di loro, e osservandoli li reinventa come in un romanzo immaginato. La vertigine del gioco e della struttura, e l’angoscia da suspense accentuata dalla musica di Miklós Rózsa, la tensione delle psicologie, la sottile e iper-borghese intelligenza di una amata-odiata cultura borghese (da Mercer più che da Resnais) rendono questo lm uno degli esercizi più tesi ed eleganti di Resnais. Persi ormai i riferimenti a una tensione politica di cui la Francia e l’Europa non sembrano più capaci, egli gioca il gioco dell’intelligenza e l’astuzia delle costruzioni formali e costruisce

provocatori affreschi che risvegliano l’intelligenza e lasciano da parte il cuore, meditazioni nonostante tutto «cartesiane». Il suo «surrealismo dolce» si affina ma non riesce più a incatenarci: la grande arte borghese di cui sembrava uno degli ultimi rappresentanti ed eredi si esaurisce nell’intelligenza e nell’abilità delle strutture, nello scetticismo della visione. Scritti da Jean Gruault, Mon oncle d’Amérique (1980), con e attorno alle teorie del biologo Henri Laborit, è una lezione sui comportamenti umani, confrontati con quelli d’altre specie animali; La vie est un roman (La vita è un romanzo, 1983) parla di pedagogia e di utopia, e il suo didascalismo comunica solo freddezza; L’amour a mort (1984) torna al tema surrealista dell’«amour fou» con una protagonista che cerca e teorizza il ricongiungimento coll’amato scomparso cercando a sua volta la morte. Ormai Resnais si vuole più che artista della memoria, esploratore di forme dell’immaginario. Mèlo (Melò, 1986) è un’elegante messinscena di un vecchio copione teatrale «di boulevard» di Henry Bernstein, degli anni trenta; I want go home (Voglio tornare a casa, 1989), scritto da Jules Feiffer, dice banalità sul rapporto Usa-Europa e descrive il mondo dei fumettisti e dei loro cultori intellettuali secondo un humour tutto di testa. Il doppio lm - stessa storia con elaborazioni diverse, sull’esile pretesto tradizionale dell’adulterio - composto da Smoking e No Smoking (1993) è altrettanto del udente. Resnais non ha mai avuto ducia nella storia, neanche ai tempi di La guerra è finita, ma sperava nell’uomo; che vede ora solo come cavia di possibilità combinatorie. Il ricorso alla scienza è relativo, e gli resta solo il conforto di una morale priva però di tensioni emotive, affettive. L’esigenza di elaborare modi di far cinema e di narrare storie diversi da quelli abituali e autoritari del cinema corrente è signi cativa e lodevole. Ma la sua cultura, sovranamente scettica e borghese, si rivela incapace di destarci, provocarci, persuaderci. In Resnais veri chiamo il fallimento di uno dei modi di vedere più ambiziosi della cultura borghese del secolo.

42. Jean-Luc Godard La nouvelle vague nasce dalla «politica degli autori» propugnata dai giovani critici (sotto il magistero baziniano) dei «Cahiers du cinéma» dei tardi anni cinquanta. Si tratta di privilegiare nel cinema il fattore personale, ricercandone la permanenza o le progressioni da un lm all’altro di uno stesso regista. Alla nozione di metteur en scène si sostituisce quella di poeta, in ciò stesso privilegiando gli aspetti personali della creazione cinematogra ca, a detrimento di una connotazione di scuola. Sin dall’inizio, con l’accesso dei critici alla regia attraverso nuove formule produttive, queste sì comuni, si perde la connotazione di scuola, di progetto unitario. Tra i primi lm di Rivette, Chabrol, Truffaut, Godard, Rohmer poco c’è di comune, e le loro strade andranno rapidamente differenziandosi in modi radicali, con la brevissima e non convinta parentesi dell’euforia del Maggio. Da subito l’opera di Godard (nato a Parigi nel 1930) si caratterizza per una varia e accanita critica e ri essione sul cinema, sul linguaggio delle immagini e la loro portata. Gli importa riconquistare allo sguardo una nuova verginità ricorrendo a procedimenti abbandonati, inventandone di nuovi, spesso in corrispondenza stretta, talora felicemente casuale, con le ricerche emergenti in altri campi dell’espressione artistica. L’unità di quest’opera, tta di titoli e di esperienze, sta soprattutto qui; il resto è, a ritroso, accidente, autobiogra a, dialogo col proprio tempo e la storia. Questa ossessività ha dato i suoi frutti. Godard è indubbiamente il nome chiave del cinema degli anni sessanta, provocatorio punto di riferimento per le altrui ricerche. Come Vertov - da lui scoperto attorno al ’68 - è un autore che pare lavorare più per gli altri autori che per il pubblico, teso a un rinnovamento delle forme, alla loro perlustrazione e

sperimentazione, alla loro invenzione. Qui la sua prima importanza, la sua originalità. Ma non solo qui, perché Godard è anche «autore» e si scopre e si mette in questione, de nendo da un’asserzione all’altra, da una contraddizione all’altra un suo «discorso poetico». L’evidenza della macchina da presa, il ri uto del campo-controcampo, la citazione visiva o sonora, la didascalia, l’attore che parla direttamente allo spettatore, la ripetizione, la voce fuori campo spesso in discordanza con le immagini, il racconto, l’intervista, il teatro, la Tv, le tecniche della pubblicità, lo smontaggio delle parole, la cancellazione improvvisa della voce o dell’immagine, i tempi morti, il passaggio da attore a personaggio o viceversa nella stessa inquadratura, la lettura di brani di libri, l’assemblaggio imprevisto di materiali apparentemente disparati, il collage visivo e/o sonoro, i momenti «classici» e quelli «straniami» - tutto ciò si dispone, nello scorrere della pellicola, anche secondo un progetto volta a volta più o meno coerente ma indubbiamente sempre «personale». Agli inizi, c’è una certa assonanza con le ricerche della école du regard, poi entra in campo Brecht, c’è, col ’68, una ricerca di «immagini materialistiche» legata da un lato alle ideologie marxiste-leniniste di allora e alla loro teorizzazione linguistica in gruppi come «Tel Quel» o in una delle tante trasformazioni dei «Cahiers», e in ne il ritiro nella ricerca tecnico-linguistica i cui risultati restano un quasi segreto work in progress agganciato più alla Tv che al cinema, con rari ritorni a un tentato dialogo con un pubblico. Ma dentro questa periodizzazione un’altra è possibile, più privata. Dopo cortometraggi in cui si avverte il peso di una collaborazione (con Rohmer, con Truffaut), Godard si presenta nel ’59 con Charlotte et son Jules, ancora un cortometraggio, girato in un giorno e nella sua stanza, e con A bout de soufflé (Fino all’ultimo respiro), in modo prepotentemente autonomo. La indiscutibile novità di queste opere gli crea un consenso o dissenso di portata vastissima nella cultura non solo cinematogra ca di quegli anni. Da allora no al ’68 non

mancherà di esaltatori e denigratori sfrenati. Sono gli anni del nouveau roman e della nouvelle vague, ma anche quelli della guerra d’Algeria e dell’Oas, e certamente la presunta apoliticità di Godard, de nita ben presto da alcuni come «anarchismo di destra», lo rende incapace di cogliere i fenomeni più vistosi di trasformazione della Francia. Le petit soldat, l’anno dopo - un lm in cui si parla di Algeria e c’è una scena di tortura, ma sono degli algerini a torturare un francese - non può certo conquistargli le simpatie di una sinistra che si riconosce piuttosto in Hiroshima mon amour di Resnais o in Le joli mai di Marker. E Una femme est une femme (La donna è donna, 1961) è solo una ri essione sul musical, venata di una misoginia non troppo sottile. Nel ’62 Vivre sa vie (Questa è la mia vita) già impone una revisione del giudizio. Questa descrizione del passaggio alla prostituzione (e alla morte) di una ragazza (Anna Karina) si costituisce come un risultato nuovo e diverso, per la ricchezza di implicazioni narrative come sociologiche che mette in gioco. Les carabiniers (1963) è una ri essione alquanto misti cata sulla guerra e il suo assurdo; Le mepris (Il disprezzo, 1963) aspira a una confusa saggezza nel ragionare di cinema con Fritz Lang, come più tardi Alphaville (Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, 1965) vuol parlare di un mondo futuro in realtà assai vicino, dominato dalla logica totalitaria dell’industria. Questi lm, come Bande a part (1964), che è una critica rilettura del lm americano di gangster, valgono più per le innovazioni o gli stravolgimenti formali che Godard vi attua che per la loro disordinata e in de nitiva provvisoria, diaristica ideologia, risultato di una solo conclamata disponibilità aideologica. Ma Une femme mariée (Una donna sposata, 1964) riannoda efficacemente con Questa è la mia vita, ed è un referto fenomenico spesso acuto sulla condizione femminile piccolo-borghese, in cui la misoginia godardiana comincia lentamente a stemperarsi in un cosciente sforzo di comprensione dell’altro, come in Masculin Féminin (Il maschio e la femmina, 1966) e soprattutto in Deux ou trois choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei, 1966), dove «lei» è la

regione parigina ma anche una donna parigina (Marina Vlady). Pierrot le fou (Il bandito delle 11, 1965) era già stato un lm di svolta, disperata dichiarazione di disorientamento. Nel 1967 La chinoise (La cinese) è un preveggente discorso sulla gioventù, le sue irrequietudini, la sua rivolta e la sua ricerca. Ormai i brandelli di mondo che Godard mostra acquistano un senso, si legano tra loro, oltrepassano il contingente e la Francia, si pongono i problemi che tutta una generazione va ponendosi, anche se il nale di La cinese è aperto a più soluzioni (il suicidio, la scelta della sinistra tradizionale, il terrorismo, il «lavoro sociale» semi-istituzionale). Il cinema non serve più a cercare soltanto la verità del cinema, bensì la verità delle cose, dei rapporti, dei con itti. Week-end (1967) diventa la più cupa critica del presente che il cinema di quegli anni abbia forse dato, coi suoi due protagonisti nel loro assurdo viaggio, tra massi cazione, consumo, etero-direzione, verso il baratro di una cannibalica autodistruzione di tutto un sistema, sia pur rappresentata da guerriglieri-hippies di metaforica ambiguità, partecipi dello sconquasso del futuro prossimo venturo. Godard è pronto per il ’68 e la sua adesione a esso è documentata da numerosi lm che si vogliono ormai militanti, di committenza televisiva (italiana, tedesca, inglese) come Le gai savoir, One plus one (1968), Vento dell’est e Lotte in Italia (1969), e da lm che militanti lo sono davvero, ma senza pubblico, realizzati in collaborazione con una sorta di alter ego, Jean-Pierre Gorin, che nisce per funzionare da «commissario politico marxista-leninista» altrettanto determinato nella ricerca di una verità formale (le «immagini di sinistra») frutto di una «verità» tutta ideologica. Questo lavoro risulta ben presto, e più pervicacemente che in passato, un discorso sul cinema assai più che sulla politica e sui destini e le contraddizioni del dopo ’68, e in esso si fallisce innanzitutto il rapporto con un pubblico, che dovrebbe essere diverso (proletario, militante, giovane) e che invece ri uta l’ermetico propagandismo di Godard, accettando discorsi più sempli cati

e certamente banali, ma più riconoscibili alla sua esperienza, nello stesso momento in cui l’intellighenzia che sino al ’68 lo aveva applaudito gli volta rapidamente le spalle. Né il tentativo di ritorno alla distribuzione normale attuato con Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1971) che coniuga provocazione politica e divismo, soddisfa alcuno di questi due pubblici. Le «immagini chiare» della cultura borghese continuano a contrapporsi alle «idee confuse» della sinistra, ma è assai dubbio che il cinema basti in sé a chiarire queste ultime. Il Godard degli anni settanta si è chiuso in una sperimentazione i cui risultati non sono stati sufficientemente diffusi, e si è rivolto innanzitutto alla televisione, dapprima in collaborazione con un tecnico di genio come Boviola e poi da solo. Il suo studio si chiamava Sonimage, e lo aveva impiantato a Grenoble con la sua compagna Anne-Marie Miéville. Gli dobbiamo Numéro deux (Numero due, 1975) che è un ben strano «seguito» di Fino all’ultimo respiro, sperimentatore di rapporti video-cinema, suono-immagine, alto-basso e politicasesso. Ancora una volta: rapporti di classe esempli cati nel rapporto tra immagini e forme, tra linguaggi. Con France tour detour deux enfants (Francia giro deviazione due bambini, 1979) la sperimentazione raggiunge il suo top, e Godard ritiene possibile rientrare nel «sistema» o ai suoi margini metropolitani con Sauve qui peut (la vie) (Si salvi chi può (la vita), 1980) che è un singolare ritorno al passato e un lamento sulla propria solitudine di maschio e di artista, ma anche con Prénom: Carmen (1983) che vince il Leone d’oro a Venezia, dove si riprendono le la della ri essione sui sessi, con Je vous salue, Marie (1984) che stupisce per la rispettosa vena «teologica» e una religiosità di fondo, con Détective (1985) che ritorna all’amore per il noir hollywoodiano di serie B ma in modi più bizzarri e approssimativi che in passato, con King Lear (1987) ovviamente dedicato a se stesso, con Soigne ta droite (Cura la tua destra, 1987) che è forse il più coerente/incoerente dei suoi repertori di idee e di tic, e la sua confessione privato-pubblica più testamentaria (tra l’altro, Godard vi si presenta come un ritrovato «idiota» dostoevskiano), con la serie didascalica delle Histoire(s) du

cinema, con il bellissimo For Ever Mozart (1996), un tardo capolavoro che affronta la viltà europea, politicointellettualeumana, nei confronti della tragedia jugoslava, con l’ultimo JLG/JLG (1997), ovviamente da e su JLG. Eccetera. Godard non ha mai smesso, testardamente narciso e testardamente innovatore, di cercare immagini se non materialistiche certamente necessarie, accettando e/o scegliendo coscientemente l’emarginazione, continuando in de nitiva a sperimentare il possibile ma avocando a sé anche la nzione romantica di un’eterna nevrotica adolescenza stupita dal mondo e affranta o spaventata o nauseata dagli uomini. Al ere e messia, scienziato pazzo e cavia volontaria, si è messo a nudo e ha messo a nudo la difficoltà, forse l’impossibilità, di leggere e cambiare, con i mezzi del cinema, l’esistente.

43. François Truffaut Pochi registi come François Truffaut (Parigi 1932-1984) sono stati così conosciuti, amati e apprezzati dalla giovane critica franco-italiana degli anni settanta-ottanta. Certo più di Godard, troppo scontroso, sperimentatore, appartato, provocatore; più di Resnais, troppo colto e distante; più di Rivette, troppo protestante e austero; più di Rohmer, troppo freddo e ripetitivo. Rispetto a questi contemporanei e/o amici, Truffaut era più sentimentale, riconoscibile, normale. Somigliava, quantomeno nelle mozioni degli affetti e nell’attenzione a una quotidianità esaltata come centro di tutto (all’esperienza di pochi rapporti essenziali e profondi e magari nevrotici), al suo pubblico e ai suoi cultori, era pienamente comprensibile e accettabile per la loro cultura e visione del mondo. Se una colpa è possibile attribuirgli, è quella di essersi presto riconciliato con una società i cui valori non venivano messi in discussione, un mondo di cose e di fatti privi di grandiosità e, perlopiù, di crudeltà, contenuti nel segno di un disagio che consiste solo nella difficoltà di tutti a capirsi e accettarsi nel rapporto con l’altro, nel bisogno non nascosto di idealizzarsi e di considerarsi centro ed emblema dell’umano. Il rapporto con l’altro era ovviamente, essenzialmente, quello interno alla coppia, quello amoroso. Quando Truffaut ha cercato di andare oltre, per esempio, con Fahrenheit 451 (1966) il risultato non è stato eccelso: egli ha preso da Bradbury, fondamentalmente migliorandolo ed europeizzandolo, un umanesimo un po’ dolciastro, una riduttiva anti-utopia post-orwelliana centrata su Amore e Libri. E non ha osato più avanti. Le storie con un’ambizione culturale più ampia di quelle de la tranche de vie sentimentale che gli è stata cara o del gioco poliziesco, egli le ha riportate su un terreno personale, in con ni volutamente controllati. È accaduto con alcuni dei suoi lm come per esempio Le garçon

sauvage (Il ragazzo selvaggio, 1970), Adele H. (1972), La chambre verte (La camera verde, 1978, il capolavoro della maturità), tre lm di grande interesse per ampiezza del tema e per l’uscita dai generi come per l’investimento che il regista sembra avervi gettato, sia affettivo che teorico. Storie arrischiate e scommesse vinte. Il primo e il terzo, anzi, i più azzardati dei suoi lm, su due temi eterni e propri di ogni società, che Truffaut ha rivissuto sulla scia di opere preesistenti (la memoria di Itard, il racconto di Henry James) in modi estremamente personali. La camera verde è una ri essione sul nostro rapporto coi morti, secondo l’eccesso di morbosità comprensibile e nota a chiunque abbia avuto un morto molto caro (sullo stesso tema, più freddamente, ha ri ettuto anche L’amour à mort di Resnais). Il ragazzo selvaggio parte dalla vera storia - verso la ne del Settecento - del recupero di un «bambino lupo». Qui forse Truffaut ha troppo concesso al proprio umanesimo e alla propria vocazione pedagogica (o anche, se si vuole, alla propria identi cazione di ex «ragazzo selvaggio» con il ragazzo della storia, nonché con il suo rieducatore, che ha voluto interpretare lui stesso), nascondendo e censurando le difficoltà del recupero ben oltre le indicazioni del testo itardiano. È signi cativa questa calorosa menzogna sull’infanzia (in un lm del ’69) e sulla «diversità» e «disumanità» del piccolo protagonista, specchio di molte altre diversità e di altri stati di handicap, di fronte al vortice (nero) in cui il rapporto coi morti conduce, no all’accelerazione della propria morte, nel racconto di Henry James come nel rispettoso lm di Truffaut. È signi cativo che in entrambi i lm Truffaut guri come protagonista. Egli è apparso altre volte in veste di attore, ma delle sue interpretazioni due in particolare vanno ancora ricordate: quella del regista, saggio narratore e osservatore alla seconda potenza nel suo La nuit américaine (Effetto notte, 1973), delizioso lm sulla lavorazione di un lm ma anche deliziosa misti cazione e idealizzazione del mondo del cinema, che risulta alla ne più dolce del vero, meno contraddittorio del vero; e quello dello scienziato che sogna la comunicazione con gli alieni nella favola di Spielberg Incontri ravvicinati del

terzo tipo. In queste quattro gure, troviamo altrettanti aspetti dell’umanesimo di Truffaut, che solo in La camera verde de ette di fronte alla contraddizione ultima, irrisolvibile anche per il più ottimista, per il più umano e umanista dei poeti. Gli esordi del regista sembravano promettere, pur nella costante tenerezza del tocco, una crudeltà maggiore, una più asprigna volontà di scavo. Si pensi a Les quatre-cent coups (I quattrocento colpi, 1959), lm molto autobiogra co di esordio, sull’infanzia male amata, sulla sua sete di affetto (di cui Truffaut è stato poi ampiamente risarcito dagli adulti, a cominciare dal suo maestro e mentore André Bazin, anche se le ferite dell’infanzia…) e di libertà (che non si è mai più in lui espressa con la semplicità e assolutezza del nale di questo lm). Si pensi anche a Jules et Jim (Jules e Jim, 1961) lm di nevrosi e di cinema, di gioco e di passione di distanza e di vicinanza, di divertimento e di dolore nel quale Truffaut, molti anni prima delle liberazioni sessuali, del ritorno del femminismo, dei tentativi di utopia vissuta da parte della generazione del ’68, ha descritto la scon tta di proposte troppo in anticipo nel legame tra amicizia e amore, in un rapporto a tre liberato dall’ipocrisia borghese, nella volontà di una padronanza di sé da parte della donna. Oggi, dopo l’ondata delle liberazioni e il loro rientro, Jules e Jim appare come un incunabolo di cose a venire, come una conclusione già scontata: la previsione della (parziale ma vasta) scon tta della rottura collettiva di una cappa d’ipocrisia. In questi due lm si avvertiva un bisogno di apertura commovente; altrove, e soprattutto nei lm non polizieschi, più quotidiani e sentimentali, Truffaut si è invece limitato a prendere atto della difficoltà dei rapporti e a restringere la possibilità di rotture. Perché non vi credeva, o perché si accontentava delle poche e ovvie, le cui difficoltà già erano così grandi per il suo alter-ego Antoine Doinel e per se stesso, come per i loro spettatori e cultori? Antoine Doinel era il bambino di I quattrocento colpi, di cui Truffaut ha seguito la crescita e le minime avventure affettive e (ancor più minime) sociali in altri lm, tutti interpretati ancora

da Jean-Pierre Léaud: l’episodio Antoine et Colette di L’amour a vingt ans (L’amore a vent’anni, 1962), Baisers volés (Baci rubati, 1968), Domicile conjugal (Non drammatizziamo… è solo questione di corna, 1970) e in ne il malinconico L’amour en fuite (L’amore fugge, 1979). Anche la precisione della descrizione ambientale, borghese o preferibilmente piccolo-borghese, non appare del tutto convincente, troppo attenta a smussare, a non far esplodere, a non rompere l’equilibrio faticato di vite cui, quando non se ne può più o quando l’amore si fa passione nevroticamente compensatoria e dirompente, eccessiva, intollerabile, non resta che il margine molto stretto del suicidio (o dell’omicidio-esuicidio), una via di fuga di cui altri personaggi di Truffaut sembrano scontare l’insufficienza, nella difficoltà di aprirsi e di aprire. È per questo che di Truffaut si possono prediligere i lm «sèrie noire», da Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960, da Goodis) a La mariée était en noir (La sposa in nero, 1967, da Woollrich), a La sirène du Mississippi (La mia droga si chiama Julie, 1969, da Woollrich) o anche - perché, a ben vedere, somiglia un po’ a Jules e Jim per la difficoltà del protagonista a «uscire dai limiti» - L’homme qui aimait les femmes (L uomo che amava le donne, 1977); o ancora, nel tragico, La femme d’a còte (La signora della porta accanto, 1981) e, nell’ironico-poliziesco, Vivement dimanche! (Finalmente domenica, 1982), che parlano d’amore e soprattutto di morte. La vicinanza della morte (Truffaut era malato di cancro) sembra rendere il regista meglio disposto alle ragioni di una qualche rivolta. Le contraddizioni non si sanano più, il sentimento non basta a tenere il controllo. L’estremizzazione dei soggetti rende le opere più aperte e non più chiuse. Truffaut è stato anche co-produttore dei suoi lm, sempre attento alla risposta del pubblico. Ha sempre lavorato per il pubblico, ma in questi lm (e massimamente in La camera verde) lascia che le «cose della vita» non rientrino nell’ordine della commedia realistica, spazio comune della presunta vita. Dove Truffaut è meno conciliatore e lotta con la sua tendenza a una paci cazione protetta, a un’accettazione conforme, e si

ricorda della solitudine e della scon tta, è lì che ci appare più vicino. Nei polizieschi, paradossalmente per un cultore così accanito di Hitchcock, lo sentiamo allora più vicino a Lang (e ci appare Chabrol a essere più hitchcockiano, quantomeno nel cinismo; e inoltre Chabrol ha saputo narrare con durezza sarcastica la Francia del suo tempo, mentre Truffaut l’ha consolata e in ne esaltata), nel ri uto programmatico del cinismo e nella «inesorabilità» (la qualità narrativa con cui Truffaut ha de nito il cinema di Lang) con cui il destino del singolo si esplica, per il tramite della convenzione e della rigidità che reggono la società. A convincere di più è insomma il Truffaut più nevrotico e ossessivo e più sotterraneamente amaro, il meno rassicurato e rassicurante. Il suo successo è invece dipeso dalla capacità di esprimere il bisogno di sentirsi cantata e amata di una piccola borghesia nuova e diffusa. Anima buona della nouvelle vague, estraneo alla polemica, all’impegno, alla rivolta Truffaut ha nito per diventare un modello per molte altre scelte e ha agito da cerniera tra il cinema «ben fatto» che la nouvelle vague aveva attaccato e quello nuovamente «ben fatto» che ha dominato la Francia di Pompidou, Giscard, Mitterrand. È stato lo strumento di un ritorno all’ordine che si è servito del suo convincente esempio. Quando per interna forza di coscienza e di dolore si è sottratto a questo progetto, ha dato allora le sue opere più signi cative.

44. Stanley Kubrick A ventun anni, un giovinotto del Bronx (siamo nel 1949, è nato a New York nel 1928) che ha la passione degli scacchi, della fotogra a e del cinema realizza da sé un documentario sulla boxe e riesce a venderlo alla Rko, che gliene nanzia un altro su un prete che si sposta, per visitare i parrocchiani, su un piccolo aereo personale. Nel 1953 realizza un piccolo e un tantino cervellotico lm di guerra, Fear and Desire (Paura e desiderio), poi un Killer’s kiss (Il bacio dell’assassino, 1955) che, come il successivo e killing (Rapina a mano armata, 1956), è un lm «nero», ma mentre il primo controlla a fatica i meccanismi del genere e a fatica vuol distaccarsene esasperandoli, col secondo Kubrick è diventato Kubrick. Vi riscontriamo infatti la geometrica e ricorrente, contrapposta logica di ascesa e caduta - la preparazione di una rapina, il suo casuale insuccesso - e una clamorosa e sofferta ironia sui «moventi» (i sentimenti, le passioni). Alla «attualità» Kubrick dedicherà ancora Lolita (1962), lm intellettuale, doloroso e «on the road», ma soprattutto favola loso ca, con itto tra una passione (europea e «malata») e una raccapricciante salute americana pervasa da ben più violente minacce. E l’inizio della originale e titanica «follia» registica kubrickiana se consideriamo Spartacus (1960) lm di commissione. Paths of glory (Orizzonti di gloria, 1957) era stato letto alla sua uscita come lucido lm antimilitarista ma, come Lolita, è piuttosto una favola loso ca, una dimostrazione a freddo della logica della guerra tutta giocata sulla contrapposizione tra il caos della prima linea e l’ordine del castello settecentesco dove risiedono i generali e con loro risiede l’ipocrisia di un sistema di potere. Ascesa e caduta, ordine e caos, passioni e ragione si costituiscono a poli fondamentali di un’opera che, d’ora in avanti, abbandona molto spesso il presente per rivolgersi o al

futuro o alla storia, con un’ossessiva capacità di stupire, con un’ossessiva capacita d’invenzione tecnica, con una acutissima capacità di spingersi oltre. Doctor Strangelove (Il dottor Stranamore, 1963), 2001: a space odyssey (2001: odissea nello spazio, 1968) e A clockwork orange (Arancia meccanica, 1971), una sorta di trilogia fantascienti ca, e poi il Settecento di Barry Lyndon (1975) e l’horror di e Shining (1980) e la guerra del Vietnam di Full Metal Jacket (1987) (abortito il mastodontico progetto di un Napoleone, sul ruolo dell’individuo nella storia), sono imprese che, per investimenti, durata di lavorazione, professionalità maniacale, tecnica innovativa, non hanno confronti nel cinema contemporaneo. Kubrick vi si getta con tutto se stesso, vive in essi, piega a essi, servendosene no in fondo, la possibilità tutta contemporanea di fare del cinema un super-super-spettacolo (ma anche, al contrario, per altri autori, qualcosa di semi-marginale), mentre è morto il cinema di serie o di genere. Barry Lyndon getta sugli altri lm una luce chiari catrice, la cui intensità sarà superata dal modernissimo e claustrofobico Shining. Il Settecento del primo è una sorta di perno ideologico che spiega la volontà di Kubrick di parlare della nostra civiltà e della sua fondamentale dicotomia: tra passione e ragione, appunto, o meglio: tra l’irriducibile incapacità dell’uomo a migliorarsi e la necessità di un ordine sociale che regoli le passioni, tuttavia condizionato dalla prima e portato in ne ad assumere una irrazionalità tutta «di ragione». La possibilità di mediazione sembra inesistente. Da dentro una cultura americana pragmatica, messa in crisi dalla sua stessa evoluzione, alla scoperta dell’Europa nel secolo che per primo ha posto quest’esigenza e ne ha visto il fallimento. Barry Lyndon si chiude su un atto puramente «economico» - la lettera con cui la protagonista e il suo gliastro attribuiscono al decaduto Lyndon una qualche sovvenzione - di cui la macchina da presa mostra appena la data: 1789. Ma ci pare non casuale il ricorso a un romanzo ottocentesco sul Settecento quale quello di ackeray, e insomma il dilemma kubrickiano è

quello che l’Ottocento ha espresso nel con itto HegelNietzsche, da cui Kubrick si tiene novecentescamente equidistante, pessimisticamente equidistante. Se soluzione potrà esserci, questa è rinviata, niccianamente, alla nascita del superuomo venuto dalla tecnica (in 2001 l’astronauta morente in una perfetta scenogra a Luigi XVI glia il super-baby del cosmo, l’occhio superatore del futuro), ma intanto lo spettro concreto della perfezione tecnica è l’atomica di Stranamore, la macchina impazzita a misura d’uomo di Stranamore e di 2001, l’incatenamento e il condizionamento totalitario degli istinti attuato con perfezione dalla macchina psicologica di Arancia meccanica, la dispiegata follia del distruttivo narcisismo del padre-orco, frutto e sintesi di una civiltà, che è il Nicholson di Shining, l’addestramento alla morte e la schizofrenia di una gioventù che sogna la pace e la guerra allo stesso modo e con la stessa super cialità, manipolata da un’adulta criminalità, di Full Metal Jacket. In un mondo sempre senza madri, perché la storia è stata, è ancora storia di padri e di gli. Poco importa allora che Barry Lyndon e Shining siano storie del «privato» e che gli altri siano lm del «pubblico» e dell’immaginario da esso prodotto. È il bambino (il futuro) e in Shining anche il nero, però vittima predestinata, ad avere domani o già oggi la «luccicanza», la fusione del vecchio istinto e di una nuova ragione diversa da quella degli adulti (il presente, il passato). La persistenza di un tema può anche bagnarsi in una cultura a volte approssimata, il tema resta nondimeno centrale ed è affrontato nell’unico modo, forse, pienamente moderno che sia possibile nella società massi cata: quello del cinema inteso come «visione», fascinazione, effetto, geniale sollecitazione loso ca, provocazione collettiva.

45. Arthur Penn Arthur Penn (Philadelphia, Pennsylvania 1922) è il regista che meglio è riuscito a conciliare Hollywood e New York (restando pur sempre un easterner) con un profondo senso dello spettacolo e del cinema come creazione destinata al pubblico del proprio tempo, e con una profonda intuizione dei dilemmi della cultura americana nei suoi processi di evoluzione/involuzione. Le capacità di costruzione e di sceneggiatura (ritmo, souplesse di montaggio, diramazioni e sviluppi della storia, scene forti trattate col massimo di tensione), di direzione degli attori noti o nuovi, di controllo e uso del colore e del movimento gli vengono anche da una buona frequentazione dei classici, oltre che dalle esperienze teatrali e televisive. Con il cinema Penn ha espresso le sue idee sull’America, e di lm in lm ha affrontato una ri essione di tipo etico e sociale sulle connotazioni e gli sviluppi di quella società. Anche nella sbandata intellettualistica di Mickey One (1964), il più «europeo» dei suoi lm, che mal conciliava simbolismo e naturalismo e sottofondi kaiani, ma pure è stato tra i primi lm a dare corpo all’ansia e al disagio individuali in un mondo incontrollabile e spesso incomprensibile: i «loro» che ossessionano il giovane enterteiner Beatty sono forse la ma a dello spettacolo, ma anche dei «loro» interiori non meno minacciosi. Il suo lm di debutto era stato un western molto eastern su soggetto di Gore Vidal e sceneggiatura di Leslie Stevens, e lehanded gun (Furia selvaggia, 1957). Affrontava con indubbia originalità per quegli anni la gura di un Billy the Kid adolescente (un Newman come James Dean) alla ricerca di padri e di morte. È una gura che tornerà nel coro di giovani di Alice’s restaurant, ma qui, in scena western, il contesto è più astratto, leggendario, ed è la fisicità del personaggio a commuovere, il suo non saper dove mettere il proprio corpo, la

sua incapacità di esprimere il proprio bisogno di comunicazione se non con esplosioni di inconsulta vitalità, quasi infantili. Questa fisicità è caratteristica di tanti suoi personaggi, e si direbbe di tutto il suo cinema. In e miracle worker (Anna dei miracoli, 1961), la rieducazione di una ragazza cieca e sordomuta è scontro sico con l’istitutrice (la Bancro), di una violenza ai limiti del sostenibile, in interni rigidamente borghesi. Una violenza goffa e adolescenziale si esprime anche in Bonnie and Clyde (Gangster story, 1967) con Warren Beatty e Fave Dunaway e un contesto di eccellenti caratteristi, tra cui la «rivelazione» Gene Hackman. È già una delle sue opere della maturità, cui faranno seguito due dei più rappresentativi lm del cinema americano negli anni del suo maggior sconvolgimento: Alice’s restaurant (1969) e Little big man (Il piccolo grande uomo, 1970). Immaturi, disadattati, ribelli, il modo di esprimersi e di essere di Bonnie e Clyde vien fuori in una violenza che è frenesia, in un disarticolato e perlopiù allegro gioco di atti e gesti, in una esagitata esuberanza sica. L’impotenza di Clyde, sul fondo delle immagini di una società avvilita dal suo crollo più grave (la Grande Crisi del ’29), è quella di un’epoca assai più che di un individuo, e il trasferimento impotenza-mitra è freudiano quanto anarchico. Una forma di realizzazione diviene così quella individuale e romantica del mito, no ai limiti dell’autodistruzione; ma contrariamente alla tradizione romantica delle coppie ribelli e disperate di Lang, N. Ray, J. H. Lewis, Walsh, il regista non fa credito ai suoi personaggi di una convinzione della rivolta, il loro resta gioco, tragico ma gioco, interno a una società che li sovrasta e scontrandosi con la quale né capiscono né maturano. In rapporto a una realtà, a una società si de niscono invece nella loro ricerca gli hippies del ristorante di Alice e il Jack Crabb «piccolo grande uomo». Crabb (Dustin Hoffman) è uno Schlemihl che ondeggia a lungo, picarescamente - in un’indecisione accresciuta dalla calcolata disinvoltura del regista nel collocarlo in situazioni comiche e poi tragiche, che è la stessa di Bonnie and Clyde, tra bianchi e indiani, giungendo solo alla ne a scegliere la sua parte, quella del «popolo degli

uomini», i Cheyenne. Non si possono tenere i piedi in due staffe, far parte di due culture; la storia cade addosso al protagonista e lo obbliga a scegliere, ma egli non sceglie mai no in fondo: lascia così che a uccidere Custer sia il pazzo, l’estremista del popolo oppresso (il black panther, lo weatherman) adeguandosi invece alla saggezza del vecchio capo indiano, alla sua lezione di non resistenza al male e alla storia, di sottile autoironia. Gli hippies di Alice’s restaurant, da parte loro, fondano una comunità che ha sede in una chiesa e cne si mantiene con un piccolo ristorante. La loro utopia non fallisce per ragioni sociali (anzi, Penn fa opera di mediatore ottimista, dà ai riti hippy - musica, erba, «vibrazioni» - una connotazione religiosa e perciò con un suo posto all’interno della stessa eretta storica americana), ma per ragioni interne, inerenti alle difficolta di ogni utopia: il complesso rapporto con gli altri (quello, ad esempio, del più disastrato del gruppo con le due gure di adulti che dai loro ruoli di padre e madre vorrebbero rifuggire); la malattia e la morte; le droghe forti; la ciclotimica tendenza alla fuga. Il Vietnam, però, è sullo sfondo, e qualcosa pur pesa. Penn fa regolarmente i suoi conti con la storia. In e chase (La caccia, 1965), aveva tentato un grande affresco romanzesco e corale sul profondo Sud dopo l’assassinio di Kennedy di cui, a suo modo, spiegava le cause. In Night moves (Bersaglio di notte, 1975), bellissimo lm noir notturno, di ombre che si muovono in un mondo sotterraneo, a doppi fondi, nervoso, ellittico nelle sue continue rotture di racconto, il detective privato Gene Hackman vive le incertezze del dopo-Watergate e scopre, più che dei colpevoli, realtà di perdita, di disagio collettivo e ambiguamente bruciante. Con e Missouri Breaks (Missouri, 1976) Penn dà ancora un western originale e nevrotico, con una sua precisa ri essione storica, tra proprietari allevatori, piccoli banditi disadattati e nevrotici e un bounty killer degno di Antonio das Mortes, proteo dalle mille facce, «male» americano che uccide gli inutili alla storia, che è da uccidere. Dopo anni di silenzio, ché la nuova Hollywood non gli ha lasciato gran posto, è tornato nell’81 con un altro grande, pacato romanzo sull’America. Four friends (Gli amici di

Georgia, 1981) è l’apprendistato di una generazione - ma con personaggi di proletari e non di intellettuali -, è la sua rivolta e le sue tentazioni, la sua dispersione, che il regista però recupera ricongiungendo tra loro i personaggi in un «dopo Vietnam» non del tutto scon tto. In una società di gruppi, clan, comunità, minoranze, ma anche corporazioni e poteri, in una società senza comunicazione e senza perno davvero comune, i suoi quattro amici, « gure del movimento» sia nel senso del movement che di una peculiare instabilità di luoghi, di lavori, di affetti che non ha, a ragione, ne (e tanto meno ce l’ha con la coppia), ci dicono che la «generazione del ’68» è stata vinta, ma ha preservato, ricorda Penn, qualcosa dei valori che l’hanno attraversata e può ancora dare qualcosa all’America. L’insuccesso di pubblico di questo bel lm dimostra che forse Penn s’illude anche su quella generazione, lui che era stato (ed è anche qui) così critico nei confronti delle soluzioni estreme e così spesso sottoculturali, e che così sanamente ha messo in guardia dai rischi dell’utopia, pur dentro la ricerca della realizzabilità dell’utopia. Questo vecchio radical non rinuncia al suo umanesimo anche se venato di lucido pessimismo, e sa cogliere dell’America le persistenze, le nevrosi di fondo, le difficoltà a ritrovare un’identità pulita. Ben pochi lm come i suoi hanno saputo così efficacemente spiegarci il suo paese, e in futuro serviranno a ripercorrerne i dilemmi essenziali. Ma è forse proprio questo che la volgarità spettacolare e le mille mode dei nostri anni non gli hanno perdonato, allontanandolo dal cinema dopo due operine casuali e solo ben fatte, il thriller Target (1985) e il «giallo» Dead of Winter (Omicidio allo specchio, 1985), alcune esperienze non banali su e con bravi attori: Penn & Teller Get Killed (Con la morte non si scherza, 1989) e e Portrait (Ritratti, 1993), e in ne Inside (1996), che si sposta con giovanile coraggio nel nuovo Sudafrica.

46. Sam Peckinpah Sam Peckinpah si è spento precocemente, ucciso dall’alcol (Ingelwood, California 1984; era nato a Madera County, California 1926), dopo aver girato un ultimo lm estremistico. Non era un western, da anni il western non andava più, e il terreno ideale per la rappresentazione della sua loso a negativa, o meglio antropologia, non poteva più esser battuto. Nel cinema di Peckinpah, i rapporti tra gli uomini sono comparati, nel preambolo a Il mucchio selvaggio, il più possente e controllato dei suoi lm, a quelli tra scorpioni stimolati al combattimento e poi uccisi per divertimento da un gruppo di bambini, dalla insensatezza innocente e misteriosa di dei lontani e nemici. Dei dieci lm da lui realizzati tra il ’61 e il ’74 sei sono western, due sono western moderni e Cane di paglia trova nella struttura western i suoi elementi di forza. Il primo, e deadly companions (La morte cavalca a Rio Bravo, 1961), era una lenta storia di inseguimento e vendetta, con una Maureen O’Hara non più fordiana e con l’irruzione improvvisa di furia e violenza (l’assalto notturno degli indiani) che era il preludio a brani ripetuti, anzi dominanti nei suoi lm successivi. È però Ride the High Country (Sfida nell’Alta Sierra, 1962) a imporlo. Narrava l’ultima impresa di due vecchi sopravvissuti ad anni più eroici, Randolph Scott e Joel Mc Crea, l’uno tentato dall’altro, tra humour e amarezza di anziano scon tto, a una tardiva rinuncia all’onestà. Con un realismo preciso che ricupera da fonti minoritarie un Ovest insolito, di corse di cammelli, di accampamenti minerari, di prime automobili, e con un’elegia rotta da brani di crudele verismo, Peckinpah investe con un’ottica moderna topoi in fondo classici, ché non erano vere novità né lo schema né il gruppo dei nefasti fratelli che ricordava la famiglia di Sfida infernale, e neppure la virile

(e patetica) descrizione del tramonto degli eroi, losers di stampo hemingwayano. È con Major Dundee (Sierra Charriba, 1964), sebbene tartassato dalla produzione, che Peckinpah scopre appieno le carte, e con una così impressionante forza da dover rinunciare, a causa dell’ostracismo degli studios, a girare altri lm per cinque anni. Lo sfondo era storico. Un gruppo malandato ed eterogeneo comandato da un Charlton Heston ambizioso e fanatico no alla follia e chiuso in un rancore universale, oltrepassa il con ne del Messico alla caccia di indiani e si trova invischiato in una guerra combattuta da eserciti messicani, francesi, tedeschi, americani, apache, briganti. Tutti contro tutti. In una costruzione disordinata quanto vasta, in una logica assai relativa, con azioni accavallate in una vicendevole negazione. In un assurdo concerto di orrori. Più lineare e controllato, e Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969) si apriva e chiudeva con un massacro in un universo crudele dove la necessità provoca la violenza. Inseguiti e inseguitori, militari, banditi, poliziotti sono tutti mossi da un istinto di morte; a salvarsi sono i contadini, eco di una radice naturale, soli degni di sopravvivere alla grande carne cina. Questi lm, il secondo di enorme successo, erano in fondo la risposta di Peckinpah al western italiano, alla sua retorica cinica; ugualmente violenti e «sporchi», erano però retti da una visione davvero tragica dell’esistenza e della storia, e da essa giusti cati. Il western è per Peckinpah un terreno astratto, il luogo di una mitologia ormai morta; in ne, zona contemporanea di ri essione sulla insensatezza dell’esistenza e «l’urlo e il furore» che la dominano. Dopo e ballade of Cable Hogue (La ballata di Cable Hogue, 1970) che, in chiave umoristica no al grottesco, narra a suo modo la vera storia dell’Ovest, emblematizzata in un altro perdente campione e vittima dell’accumulazione capitalistica, in Pat Garrett and Billy the Kid (Pat Garrett e Billy the Kid, 1973) c’è sul fondo l’indicazione precisa delle ragioni di tutto: i grandi proprietari monopolisti, le banche, il capitale che invade il West e tutto muove.

Soprattutto, però, domina una costruzione di nuovo violentata per opposti, confusi movimenti. Come il maggiore Dundee, Garrett è un traditore risentito, che vuole distruggere l’immagine lontana di una disponibilità alla vita, Billy the Kid, da cui è stato attratto. Ma Billy non è che un insigni cante ragazzo, non all’altezza del mito, e la sua comune è una comunità di sbandati senza coesione e progetto. Non c’è che una violenza continua, in queste praterie senza contrade. Casuale, immotivata. In una scena di folgorante silenzio (l’improvviso silenzio e l’improvviso uso del ralenti sono in Peckinpah i momenti della massima astrazione e verità, risibilmente imitati da tanti registi western), i due stanno per uccidersi e rinunciano, subitaneamente consci dell’assurdità dei loro gesti. In più c’è pietà, pudicissima, per i bambini che osservano, per i vecchi rimasti, come Cable Hogue, da un epoca diversa, che sanno come si deve morire. Getaway (1972), da Jim ompson, mette in scena l’America contemporanea: prigioni, autostrade, banche, poliziotti, e grandi organizzazioni politico-ma ose. La coppia protagonista si mette contro ed è inseguita; la sua logica non è però diversa da quella degli altri, è quella della ricerca di uno spazio economico dentro una giungla. Come in Pat Garrett erano presenti polemici rimandi a personaggi di Penn, cosi qui c’è come una risposta a Bonnie e Clyde e alle coppie di banditi romantici: sono un Bonnie e Clyde di oggi, coscientemente dentro le leggi del sistema, e che non sono distrutti solo per frutto d’azzardo. È il caso - nella persona di uno di quei vecchi che Peckinpah ama - a dar successo alla loro impresa criminale dentro un contesto criminale. Moderno è anche Straw dogs (Cane di paglia, 1971), illustrazione delle tesi di Ardrey sull’Uomo «scimmia omicida», omaggio alla diffusa voga etologica secondo una meta sica pseudodarwiniana. Un piccolo uomo, l’intellettuale inetto Dustin Hoffman, deve difendere la casa (la tana) e la moglie (la prima soprattutto, più signi cativa), dall’assalto di giovani bruti. Lupo contro lupi. Più astuto dei lupi, la lotta lo vedrà vincitore. I piccolo-borghesi d’America, coi loro vigilanti

e i loro sogni di rifugi atomici, si riconoscono e applaudono. Tanto che Peckinpah dirà poi di aver detestato questo lm, in realtà di una violenza molto sua e di una logica non incoerente con quella degli altri lm. Gli è che in Peckinpah coesistono un’angoscia di fronte alla brutalità dell’esistenza nel mondo di oggi (il suo West è l’America contemporanea, impossibile ingannarsi) che descrive spietatamente nella sua apparente o reale insensatezza e violenza, e un’anima invece tenera, nostalgica. Ecco allora i peones del Mucchio selvaggio, i vecchi di Sfida nell’Alta Sierra o di Pat Garrett e, nel suo lm crepuscolare ed elegiaco, strana ma signi cativa parentesi nella serie delle stragi, Junior Bonner (L’ultimo buscadero, 1972), la famiglia, il rapporto padre- glio. Chiede il padre, ex-campione di rodeo, al glio tornato a casa: «Se questo mondo è tutto per i vincitori, che cosa rimane ai perdenti?», e Junior risponde che «qualcuno deve pur tener fermi i cavalli». Junior accetta le norme della società con lucida amarezza: ma la parte di autonomia e di integrità che si propone di preservare è davvero sufficiente? E il risvolto più nero, secondo quella dialettica che è sua, torna a vincere in un altro «western» moderno, Bring me the head of Alfredo Garcia (Voglio la testa di Garcia, 1974), con un Warren Oates esule in un Messico di disperazione e miseria e la cui unica possibilità di «tornare a casa» è legata all’uccisione di un uomo. Ormai Peckinpah sa di avere perso la sua battaglia d’autore e di uomo, e si consegna alla logica spettacolare della violenza, che avrebbe voluto far scoppiare. Gli ultimi lm di Peckinpah non sono western: Killer Elite (1975) è un lm di spionaggio, e Cross of iron (La croce di ferro, 1977) un lm di guerra. Sono anch’essi barbarici e violenti, ma ormai maniera e delirio. Convoy (1978), in ne, è una storia di camionisti solidali tra loro contro i politici e la legge, una storia virata al comico e al pop in cui si rivela un Peckinpah, come in Cane di paglia, di un anarchismo di tentazioni destrorse e demagogiche. Forse in questo adeguare la sua forza, spesso visionaria, a operazioni plateali, stava l’ultima risorsa del regista di fronte all’assurdo, la sua unica possibilità di sopravvivenza non solo artistica. Sarebbe stato un peccato se il suo «viaggio al termine della notte» fosse nito sui

supercamion di ridicoli superuomini. Osterman Weekend (1983), se non è meno manierista e barbarico dei lm precedenti, applica però la sua confusione e caoticità di racconto a un mondo contemporaneo di insensatezza e massacro, di sospetto e controllo come forma ordinaria di vita, in cui tutto è inganno («la verità è una menzogna non ancora scoperta», dice uno dei protagonisti) e ogni realtà è annullata, non esiste in sé, ma solo ltrata (come il lm stesso) attraverso le immagini elettroniche degli in niti videoregistratori.

47. Andy Warhol Ci sono immagini che hanno segnato il nostro passato prossimo, con la forza dell’evidenza più ancora che della provocazione. Molte di esse sono di Andy Warhol (Pittsburg 1928-New York 1987), questo triste ometto albino che pareva asessuato, che pareva un alieno caduto da un altro pianeta nell’America della solitudine o nell’Europa dei miracoli economici, smaniosa da tempo e ora nalmente pronta a diventare America - quell’Europa che i nonni o i genitori di Warhol avevano lasciato contadina e miserabile. La zuppa Campbell (disegnata perché «ho continuato a mangiarla per vent’anni»), la Jackie Kennedy eternamente vedova, la Marilyn eternamente vamp - così transitorie, fragili, consumabili - furono il segno di una riproducibile freddezza, di una disincantatissima distanza che si contrapponeva, in quegli anni, con più chiarezza in Warhol che in qualsiasi altro pittore e forse anche cineasta, a coloro che nel moderno e nei suoi colori ancora volevano credere, o a coloro, destinati a muoversi in massa, che credevano ancora possibile indirizzarlo in modo positivo ed egualitario, riconquistandogli una puri cata autenticità. Quello di Warhol non era neanche sperimentalismo, era factory (factory e non atelier, la distinzione faceva scandalo…), era lavoro potenzialmente anonimo, quasi sempre da lui avviato e da altri realizzato, era riproduzione tecnica, era produzione nuda. Ma il processo di ri uto estetico (del ricatto estetico) che egli faceva subire all’opera realizzata, nel momento e nel modo della realizzazione, non si ritrovava poi eguale nel momento della «distribuzione» e della fruizione - quando l’estetica tornava a prevalere, e senza di essa (o la misti cazione di essa) non vi sarebbero stati merce, mercato, clienti. La macchina e il caso svelavano la natura di merce dell’opera, ma il mercato la riportava ad arte. In questo

paradosso, Warhol si mosse senza particolari cedimenti, soltanto, da ultimo, ripetendo stancamente ciò che non era più nuovo e perciò non più così radicale. Quel che vale per la pittura non vale però per il cinema. Se nella prima il mercato continuava a imporre le sue leggi, nel secondo Warhol era semplicemente ri utato, assente o talmente minoritario da non contemplare nessuna vera forma di guadagno. I lm di Warhol - ne ha girati molti tra il ’63 e il ’68, poi limitandosi a contro rmare quelli di Paul Morrissey e altri seguaci, o a investire del denaro nella loro produzione - gli permettono quel che la pittura ha escluso: l’estetica non può tornare a far da padrona determinandone prezzo e valore. Rispetto all’ottimismo ancora whitmaniano del gruppo Mekas (il New American Cinema), così vicino alle posizioni dei beat, o rispetto alla variante «nera» di questo proposta da Kenneth Anger, o al cinema più politico degli indipendenti Cassavetes, Clarke, Rogosin ecc., o ancora a quello «televisivo» e di cinemainchiesta e verità dei Drew, Leacock e Pennebaker, il cinema di Warhol appare come il più irrecuperabile ed estremo, perché il più fortemente a-ideologico. La sua macchina da presa è ssa su un oggetto o un’azione: il sonno di Sleep (1963) che dura più di sei ore, i baci di Kiss (1963) etero o omo ma vari e simili ad nauseam, l’Empire State Building immobile nel cielo per otto ore (1964) le chiacchiere o i giochi sessuali di Blow job (1964) o di Couch (1964), ecc. Questi lm, queste operazioni ri utano il soggetto, si vogliono oggetto che in quanto tale mostri e dimostri l’alienazione e la merci cazione nanche dell’eros (ché poi si tratta assai spesso, nei lm della factory, di «marchette» e «marchettari», di pura compravendita di sesso, mai di amore). Anche la sensibilità dell’artista è stata investita dall’universo delle cose, è divenuta cosa. Nel lavoro di pubblicitario, ha detto Warhol, ancora interveniva un po’ di sentimento, nei quadri e lm della factory non più. Le opere successive lasceranno che la narrazione torni a far valere qualche diritto, per quanto sconclusionata nelle cause ed effetti (e Chelsea girls, 1966; Lonesome cowboys, 1968; Blue

Movie, 1968; ecc.), aprendo a quel cinema di Paul Morrissey la cui matrice è - taciuta in Warhol - dichiaratamente cattolica, di un disperato cattolicesimo da malato che vede il mondo come malattia, da peccatore che vede la vita come sequela di peccati di cui il maggiore, il centrale, è quello che vede l’eros accoppiato al denaro. E questo forse l’unico embrione di atteggiamento «caldo» che nella desolazione delle opere cinematogra che è possibile ritrovare in Warhol, ma per il tramite delle opere dei suoi allievi e seguaci e non delle sue. Contrariamente a quelli di Morrissey, i lm di Warhol non hanno avuto distribuzione commerciale normale, sono stati visti solo nelle piccole cattedrali del cinema underground, nei festival, nelle rassegne. L’«alieno» non si è espresso, ha detto poco, ha lasciato che a parlare fossero - estraniati - le sue zuppe, i suoi birilli, le sue pubblicità, le sue star di carta, o il volto di un qualsiasi ragazzo dormiente, il gesto meccanico del blow-job, il grattacielo massiccio e inerte, l’incontro ossessivo delle labbra… Osservatore antropologico del nostro quotidiano più disumanato, ma davvero senza posizione e senza giudizio? C’è da dubitarne. Lo sguardo di ghiaccio di Warhol era certamente cinico, ma a noi è sempre sembrato, nonostante tutto, uno sguardo giudicante, freddo e solitario, e forse doloroso, di distacco dagli umani e dalle loro creazioni per impossibilità, ormai, di amare sia gli uni che gli altri, per la loro nonamabilità. Dietro il successo, dietro la fama, dietro la messe di insegnamenti che è stato possibile ricavare dal suo radicalismo - oggi moneta così rara, atteggiamento così poco amato da tutti - resta un mistero (umano e «teorico») che forse Warhol non ha mai svelato, o su cui non ha mai insistito, semplicemente perché tutto gli sembrava ovvio e palese. Ma a ripercorrere oggi le sue opere, a collegare segni e tracce, la visione di Warhol artista anti-artista si arricchirebbe forse di molto, anche se il signi cato della sua opera è chiaro, benché già per buona parte rimosso.

48. Pier Paolo Pasolini I registi di cui si può dire che i loro lm, nella storia del cinema italiano, non somigliavano a nessuno dei precedenti sono molto pochi. Forse solo Rossellini, Fellini e Pasolini hanno avuto il dono dell’invenzione e della diversità - della «novità». Il caso di Pasolini sta a sé, rispetto a Rossellini e Fellini (il secondo allievo del primo) anche perché egli non è stato solo un regista. Ha scritto romanzi, teatro, poesia; è stato saggista e critico letterario; teorico della letteratura e del cinema; e polemista, studioso combattivo e partecipe della vita di una società, coniugando «passione e ideologia», indignazione e proposta; ma le sue opinioni non avrebbero avuto lo stesso impatto se non fosse stato anche artista, noto alla maggioranza dei suoi connazionali per il tramite del cinema. Pasolini (Bologna 1922-Ostia 1975) aveva amato il cinema sin dall’infanzia e sognato da sempre di diventare regista, ma fu solo attorno ai quarant’anni che individuò nel cinema il mezzo più congeniale alle proprie necessità espressive. Anche nel cinema portò la capacità di una ri essione teorica costante, la forza della provocazione, l’indissolubile intreccio tra arte e biogra a, ma portò anche una spregiudicata pulsione narcisistica che poté appieno sfogarsi grazie al cinema e alla sua centralità (almeno spettacolare) negli anni sessanta. D’origine cattolica e piccolo-borghese, egli aveva attraversato nel lontano Friuli contadino le esperienze entusiasmanti e traumatiche della Resistenza; aveva studiato lingua e letteratura a Bologna con grandi maestri; aveva compilato preziose antologie, scritto saggi e recensioni, co-diretto riviste letterarie; aveva scritto poesie civili bellissime (Le ceneri di Gramsci) che intendevano mediare tra spinta esistenziale e ducia politica, ma ben sapendo, dalla sua condizione di omosessuale, cosa fossero colpa e riscatto, ansia di liberazione personale e collettiva, difficoltà di armonia tra artista e partito.

Aveva anche scritto romanzi (Ragazzi di vita, 1955; Una vita violenta, 1959) che mimavano il linguaggio dei giovani di borgata romani, narrando le loro povere imprese. Il sottoproletariato era già allora al centro di un’attenzione non solo sociologica, luogo della marginalità, luogo di speranza e maledizione di un mondo contadino che veniva pian piano sgretolato dal «miracolo economico». Accattone (1961), il lm di esordio, venne dopo l’apprendistato di sceneggiatore, in particolare su ambienti e personaggi sottoproletari, per Fellini (Le notti di Cabiria) o, in modo più completo, con testi che avrebbero richiesto ben altra regia e anzi la sua regia, per Bolognini (La notte brava, 1959; La giornata balorda, 1960) o Franco Rossi (Morte di un amico, 1959). Accattone fu un lm scabro, asciutto, estraniato, quasi ieratico, con scarsi movimenti di macchina, e una musica che rubava a Bach e accentuava l’aspetto conturbante di una «sacra rappresentazione» a partire da una qualsiasi vita maledetta e profana. Un mondo chiuso, quello della borgata e del sottoproletariato, un mondo tragico e austero - estraneo a quello borghese o piccolo-borghese, ovviamente nemico, quanto a quello proletario, in cui Pasolini non credeva e non credette neanche quando ebbe a confrontarvisi in alcune parti del lm documentario militante 12 dicembre (1972). L’incoscienza (o diversa coscienza) del sottoproletariato è protagonista in altri lm. In Mamma Roma (1962), egli la confronta con l’immagine di un’altra e più «storica» Roma, che è la Magnani, in un lm che rinnova allargandolo il tema di Accattone: vi si narrava la vita persa di un cupo ragazzetto di malavita, ma qui la protagonista era una donna, una prostituta che non può sfuggire al suo ambiente e che perde il glio, trascinato dall’ambiente e bensì da un’ingiustizia di fondo, dall’ingiustizia sociale e di classe. L’urlo della Magnani è un urlo, nel nale, di denuncia e di scandalo, oltre che di dolore. La ricotta (1966) è un breve lm-saggio interpretato da Orson Welles, un regista che in un pratone della periferia di Roma sta girando, nel caos di una troupe svogliata e di fastidiosi curiosi, una croce ssione di Cristo: sarà la comparsa Stracci, padre di

famiglia e buon ladrone, a morire sulla croce per un’indigestione di ricotta dopo molta fame. In immagini a colori si mimava la Deposizione di Rosso Fiorentino, e sempre il sacro (l’agonia di Stracci, riferita al Vangelo) e il profano (il mondo del cinema, i borghesi e i giornalisti in visita, la vitalità scomposta delle comparse e della troupe) si confrontavano spostando bensì gli accenti, con grande scandalo del pubblico perbenista e di qualche giudice e prete. La tragedia del sottoproletariato può esprimersi anche in contesto acremente comico, se a narrarla è un autore di autentica tensione, un autore morale. Comizi d’amore (1964) fu un interessante e a tratti costernante documento-inchiesta secondo la moda del tempo, ma affatto priva di compiacimenti giornalistici, sulla conoscenza e la morale sessuale di un popolo alla svolta del benessere e del cambiamento. Fu una parentesi. Molto prima della croce ssione di La ricotta è l’intero Vangelo di Matteo che Pasolini è riuscito a narrare, in un lm di altissimo respiro religioso, certo il migliore dei tanti ispirati alla vita di Gesù. Il Vangelo secondo Matteo (1961) parla della riscossa del Terzo Mondo, dei poveri del mondo, e non solo della vita di un profeta « glio di Dio», portatore di novità rivoluzionaria. Con il suo sincretismo formale, i riferimenti pittorici, la scabra luminosità, il ritmo epico e grandioso nella povertà e sontuoso nella semplicità, il Vangelo pasoliniano è una delle punte più alte del nostro cinema, ed è stato accolto con entusiasmo da una generazione di giovani registi del Terzo Mondo che, non sbagliando, l’hanno considerato loro. Due racconti e un lm (spezzato da racconti), interpretati da Totò con molti partner e «spalle», da Silvana Mangano a Franchi e Ingrassia, ma più costante di tutti Ninetto Davoli, si muovono poi, con libertà estrema e insofferente di canoni dati e di obiezioni di critici, sul terreno della aba, del mito, del saggio, del pamphlet. In La terra vista dalla luna (1967) una piccola famiglia sottoproletaria vive tra baracche colorate e gentili e bensì affamate, dove «la vita e ia morte» viste dalla luna «sono la stessa cosa»; e in Che cosa sono le nuvole? (1968)

le marionette interpretano l’antica storia di Otello, condannate ai loro ruoli di sempre, prima di venir buttate nella spazzatura. A Totò-Jago spetta il compito di spiegare a Ninetto-Otello «che cosa sono le nuvole», quello che non sappiamo, il mistero del mondo e, però, la sua bellezza e il suo splendore, così breve per l’uomo. Questi due misteriosi racconti o apologhi o abe, che non cessano di incantarci, vanno oltre La ricotta, abbandonano la realtà e hanno qualcosa a che spartire con Uccellacci e uccellini (1966) che li precedeva e, con modi invero assai liberi, narrava il viaggio di un padre e di un glio incuranti di storia e pur tuttavia nella storia (e nella geogra a del presente). È più nel viaggio di Totò e Ninetto che nel « oretto» d’omaggio al Rossellini di Francesco giullare di Dio - in cui i due, diventati frati di un medioevo di scarsità, hanno il compito di imparare la lingua degli uccelli - che l’uscita dal marxismo e dalle sue illusioni progressiste si fa evidente e decisiva. Essi sono accompagnati, nel lm, da un corvo che parla con la voce della coscienza storica dell’intellighenzia marxista italiana, un corvo che alla ne mangeranno. A chiusura di un discorso, di un ciclo, di una polemica, di una convinzione che non ha più bisogno di provocazione, ché ormai l’Italia e davvero cambiata, la mutazione è avvenuta, il proletariato si va trasformando in piccola borghesia e il sottoproletariato si è rifugiato altrove, nel mondo (e là è maggioritario) dei poveri del Terzo Mondo. Dalla aba al mito. E poi di nuovo alla aba, ma a quella consegnata nei libri, nelle sillogi nazionali più classiche. Quattro lm per il mito: Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969), Medea (1970), nessuno entusiasmante, salvo forse - per sincerità e sofferenza autobiogra che esplicite l’inizio e la ne di Edipo re: lontani dalla Grecia, nella famiglia delle proprie origini e sugli scalini della Piazza Maggiore di Bologna a cantare inascoltato, Edipo-Pasolini, la condanna dell’uomo. Teorema è più intrigante almeno per il soggetto, che fa entrare in una famiglia borghese un misterioso studente, dioniso che attraverso l’eros cambia la vita dei suoi ospiti, ma che solo una cameriera contadina saprà capire, trasformandosi in santa. L’esperienza del sacro, e il sacro nell’eros, travolge consuma distrugge la borghesia, incapace bensì di farne vita.

Teorema era un lm didascalico e tutto sommato greve, come Porcile (1969) nei suoi due episodi antico e moderno, con un giovane cannibale condannato a venir sbranato dalle ere sul bordo dell’Etna, e un giovane ricco tedesco del post-nazismo divorato dai porci con cui ama accoppiarsi. Il mito in cui Pasolini si rifugia - mescolando suggestioni autobiogra che e letterarie, più che etnologia e antropologia - gli è servito per quel distacco dal presente detestato e ri utato, di cui ormai non riesce a comprendere le ragioni e la novità (celebre la sua poesia contro il movimento degli studenti del ’68). Sono lm alla ricerca di verità e provocazioni ultime, lm assai decadenti, e purtroppo esteriori quanto sarà, dopo, la «trilogia della vita», che sposta in un altrove metastorico il sogno di una pienezza di vita, contro l’irrealtà del presente. Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1973) esaltano eros e vita, il primo in modo più vivace e coinvolgente (l’epoca d’oro dell’affermazione della borghesia narrata da Boccaccio, la sua gioia di essere, fare e godere), il secondo il più inerte e n noioso, il terzo il più sereno e poetico, poiché al confronto con la favolistica araba Pasolini non avverte alcuna remora storica, alcun obbligo di resa di conti culturali. Fuori del tutto dalla storia, restano i sentimenti, alle prese col fato. Non più natura e cultura, solo natura; non più storia e antistoria, solo aba. Ma ben presto la realtà si impone di nuovo all’artista, e il suo ultimo lm, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), uscito postumo dopo la sua tragica morte (Ostia 1975), nacque sotto il segno dell’abiura della «trilogia della vita», e di una più profonda s ducia e disperazione. Tutto dentro una maniacale e ossessiva cupezza, esso ha momenti di tenerezza fuggevole per le vittime, ma propone un confuso quanto odioso legame con i carne ci come se solo questo potesse ormai offrire la storia, la politica, la società. Tra Marx e Freud, ma soprattutto tra un’epoca della storia e un’altra (la «mutazione» antropologica che ha sconvolto l’Italia con il benessere, e prima o poi tutto il mondo comunicando ovunque una stessa smania distruttiva, una stessa fregola di

irrealtà), Pasolini ha visto e vissuto con acuta sofferenza come il mondo diventasse inaccettabile, invivibile per chi non fosse anche lui «mutato» e non avesse accettato i nuovi modelli di frigida massi cata disumanizzazione. Anche di questo egli è morto. Resta un fatto paradossale ché negli ultimi anni la sua opera cinematogra ca diventasse vieppiù divagante e corresse appresso a proposte parziali e insoddisfacenti innanzitutto per l’autore stesso, mentre i suoi articoli e i suoi «scritti corsari» diventavano sempre più chiari, duri, pregnanti. A essi bisognerà continuare a tornare per capire cosa è successo e ci è successo, mentre in cinema sarà bene rifarsi ai grandi lm dei primi tempi, la cui novità stilistica e la cui intensità «religiosa» sono ancora in grado di insegnare e sconvolgere.

49. Andrej Tarkovskij Il «caso Tarkovskij» è stato importante, negli anni del declino dell’Unione sovietica, quasi quanto quello di Solženicyn scrittore e profeta, massimo denunciatore con Šalamov dell’abominio del gulag - e quello di Sakharov - sico e politico, sensato e pratico quanto coraggioso nel comportamento verso il potere. Tarkovskij (Zavroze, Ivanovo 1932-Parigi 1986) ha abbandonato ufficialmente e de nitivamente la sua patria nel luglio del 1984, quando ancora nessuno avrebbe potuto immaginare la caduta dei muri, la ne precipitosa di un impero. Regista di cinema, fu però qualcosa di più di un regista, poiché dette alla storia della cultura russa uno dei suoi più alti capolavori in decenni in cui i capolavori certo non abbondavano, Andrej Rublev (1966, ma presentato in Europa occidentale nel 1970 e in patria soltanto un lustro dopo). Era stato preceduto da un saggio di regia in una scuola molto ufficiale, frequentata con passione dal giovane glio di un noto poeta, rampollo di una delle rare grandi famiglie passate quasi indenni attraverso regimi e rivoluzioni e restaurazioni (come quella dei fratelli Michalkov, il più anziano dei quali fu cosceneggiatore del Rublëv, assai più abili di Tarkovskij nello sbrigliarsi dalle maglie dell’establishment sovietico e assai abili, loro, nell’ingraziarsi via via l’establishment occidentale, in particolare statunitense). Si intitolava Katok i skrypka (Il rullo compressore e il violino, 1960): ed era il regista, a ben vedere, il violino della poesia di fronte al rullo compressore della burocrazia. Ivanovo detstvo (L’infanzia di Ivan, 1962) fu un’opera prima sconcertante, per eccesso di poesia, per eccesso di forma, per eccesso di sentimento. Entusiasmò, al festival di Venezia, JeanPaul Sartre che la difese a spada tratta contro tutto e tutti, vedendovi giustamente la vera prima rottura artistica radicalmente controcorrente in Urss negli anni del «disgelo»,

ma anche qualcosa di accettabile alla logica del «disgelo» e di un’arte di sinistra. Le accuse ostili di formalismo ed estetismo, di simbolismo e sentimentalismo non erano del tutto infondate. La storia del bambino Ivan che è travolto dalla violenza della guerra, che vivo è già come fosse morto, era morbida e irrazionale, ma priva d’ogni minimo segno di ottimismo; il modo di narrarla era eccessivamente estetizzante; ma c’erano tuttavia, a denotare la nascita di un vero artista, una maestria straordinaria nella regia, una rivolta straordinaria nel signi cato profondo del lm. Andrej Rublëv fu un lm grandioso e perfetto, la biogra a ricostruita e reinventata del pittore che ha aperto la strada in Russia all’arte del Rinascimento, che ha promosso e permesso la fondazione di un’identità culturale per un popolo e una nazione. Inizia col fallimentare tentativo di volo di un patetico inventore, che si schiaccia al suolo con la sua macchinaccia, in un prologo privo di riferimenti immediati con il resto: per la Russia, il Rinascimento è lontano, interminabile il Medioevo. Andrej è monaco in più monasteri; lotta con il maestro Teofane, il pittore che vede nella storia il peso del male e dalla storia si è ritirato, non credendo possibile cambiarla. Rublëv crede invece nel popolo e nel messaggio cristiano, nella possibilità di sostituire un potere crudele con un potere arte ce di giustizia. Ma ecco la guerra, la violenza, ed è tale il suo carico di orrore che Rublèv, piegato, si chiude nel mutismo e ri uta di dipingere ancora. La sua ducia nell’uomo è crollata, Teofane aveva ragione, non fa più per lui l’accettazione del mondo com’è, meglio tirarsene fuori. E però un incontro gli fa cambiare parere. Un ragazzo, glio di un artigiano ucciso dalla guerra, sostiene di conoscere il segreto della fabbricazione delle campane e gli si chiede di costruirne una. Andrej assiste muto al suo sforzo e al suo trionfo, alla presenza di un popolo dente, e assiste al suo sfogo, quando la campana suona, contro i padri che non hanno voluto trasferirgli la loro scienza, costringendolo a reinventarla. Il ragazzo-popolo creatore e l’artista-prete si rimettono in cammino assieme, nel presente e nella storia. Poche immagini

a colori chiudono il lm: paci ci cavalli pascolano, la Trinità di Rublèv risplende in tutto il suo pacato splendore: la divinità pare ora vicina all’uomo, alle genti. Gli eccessi formalistici, la sensibilità morbosa di L’infanzia di Ivan sono alle spalle, Rublèv è un capolavoro che sembra indicare al potere sovietico un’alternativa, nell’incontro tra il popolo e i suoi artisti, artisti bensì tali anche perché religiosi, portatori cioè di una visione dell’uomo e della storia che trascenda l’uomo e la stona pur restandovi concretamente, materialmente attaccata. Per il suo lm successivo, forte della risonanza di Rublëèv e dell’ambiguità del potere nei confronti del regista, anzi nei confronti del suo successo all’estero, Tarkovskij sceglie un romanzo di Stanislaw Lem, uno scrittore polacco di fantascienza. Solaris (1972) è un pianeta misterioso, un’entità misteriosa verso cui si sta dirigendo un’astronave con a bordo alcuni scienziati. Solaris ha il potere di entrare nei loro sogni, di permettere la materializzazione dei loro ricordi, delle loro fantasie. Solaris è Dio, e noi il confuso ri esso della sua intelligenza? Rotto da improvvisi squarci lirici, misterioso e avvolgente come la trama del suo viaggio, Solaris prelude a Zerkalo (Lo specchio, 1975), divagazione poetica tutta personale, nella quale l’autore si trasfonde e precipita, senza rinunciare a nulla, con grandi mezzi tecnici devoluti all’illustrazione di una propria fantasia, di un proprio sogno, di una propria vicenda pur entro la vicenda di una famiglia, di un paese - e squarci assai duri rievocano lo stalinismo, ma niscono per contare assai meno di quelli intimi e personali. C’è qui l’eccesso di poesia che fu dell’Ivan. Solaris prelude anche e soprattutto a Stalker (1979), ancora una storia di fantascienza, o di mistero. C’è sulla terra una Zona che racchiude una casa, una casa che racchiude una stanza nella quale, pare, i sogni dell’uomo possono venir ascoltati, esauditi. Agli uomini la Zona è vietata perché troppo sconquasso ne verrebbe all’equilibrio di tutti. Ma uno stalker, uno strano uomoguida, uomo del passaggio, può introdurvi uno scrittore e uno scienziato. Essi però, quando sono sulla soglia della stanza, nei pressi del magico tabernacolo

esauditore, arretrano e rinunciano, non se la sentono di affrontare quella verità, la verità e anche la propria verità, suscitando con questo la disperata invettiva dello stalker, che nella Stanza ripone la sua fede, e sa che è tutto quanto rimane a chi, come lui, non ha altre chiavi di rapporto col mondo che non siano brutalmente riduttive. Lo stalker e la sua famiglia (una moglie, una bimba minorata) sono gli umili, sono la povera gente evangelica (e dostoevskiana), in contrapposizione all’aridità degli intellettuali, per non dire dei politici che stanno altrove, assenti, presenti solo in quanto emettitori di divieti, chiusure, li spinati. La parte della Stanza è, nel lm, a colori, come la breve parte nale sulla famiglia dello stalker. Anche questo vuol dire qualcosa, in un lm che gioca di simboli con una sfumata, complessa misura e maestria, ben oltre lo scialo vistoso di Lo specchio e, più tardi, di Nostalghia (1983), il lm italo-russo di Tarkovskij, che ha pagine mirabili ma soffre di nuovo di poeticismo, di simbolismo, di «artisticità». È stato il destino di Tarkovskij quello di oscillare tra la poesia e la «Poesia», tra la religiosità e il decadentismo, tra il cenno austero della verità e il comizio in versi della Verità. Per nostra fortuna il suo ultimo lm, Offret (Sacrificio, 1986, girato in Svezia) è all’altezza di Stalker, si accosta, mutati i tempi, a Rublëv, e recupera le suggestioni più intense e pro cue di Lo specchio. È un ultimo capolavoro, certo confuso e non esplicito, ermetico e misterioso nella sua linearità visionaria. In un nordico paese d’acqua e di piana, un anziano intellettuale (Erland Josephson) apprende che la guerra è scoppiata: la guerra atomica. Fa voto di bruciare la casa per veder salvi i suoi cari - un sacri cio a quale deità della storia, del male, della punizione? La notizia era però falsa, la guerra non c’è. Ma il voto va rispettato, la casa brucia, l’uomo è portato via come pazzo. L’acqua, dopo il fuoco riparatore: un bambino bagna la fragile pianta che aveva aiutato l’uomo a piantare all’inizio del lm. Non muore la speranza, non nisce la storia, ma di qualcosa il nostro mondo deve pur liberarsi se vuole continuare, e la fede deve rifondarsi in una sorta di liberatoria,

sacri cale follia se si vuole passare il testimone ai nuovi nati, ai giovani, ai bambini - in un rinnovato atto di fede e di rispetto per la natura e per il vivente. Film intensissimamente religioso, che mescola suggestioni nordiche (anche bergmaniane, ma non sul versante delle idee e delle credenze) e rimandi ben russi (Tolstoj soprattutto, ma anche il losofo spiritualista Berdjaev), che parla di paure assai vere (Cernobyl, e ancora la guerra, altre guerre a venire), che mostra e non dimostra con lontana precisione di gesti e parole ed equilibrio di cose e di luoghi, il suo senso sta certamente tutto nel titolo. Sacrificio è il lm il più esplicito e chiaro che Tarkovskij, già vicino alla morte, e cosciente di questo, ci abbia consegnato. Poesia e religione sono ancora, no alla ne, la sua dimensione; il suo cinema ne è impregnato più di ogni altro cinema. Quali che fossero i suoi limiti, i suoi annaspamenti, le sue presunzioni, la sua aristocratica alterità, è in questo la sua grandezza, ed è quanto molta critica non ha saputo o voluto perdonargli: la sua qualità di profeta che sa di esserlo, che ha scelto di esserlo con i mezzi della più comune e forse volgare delle arti del secolo.

50. Vasilij Šukšin Il più libero e il più «diverso» dei registi sovietici degli anni sessanta-settanta, nonostante un radicamento nella cultura contadina che nessun altro regista dopo Dovzenko ha mai avuto, è senza dubbio Vasilij Šukšin, scomparso nel 1974 (era nato nel 1929, in Siberia, da famiglia contadina). È stato anche con Tarkovskij, ma in modi più semplici e chiari, il più autentico poeta tra i registi suoi contemporanei e ha potuto, grazie alla ricchezza creativa e alla poliedrica attività di scrittore, attore e regista, esprimersi in opere che superano ogni con ne di genere o di stile, di un’immediatezza che è vita ed esperienza, di una libertà narrativa che non è mai stato possibile irreggimentare nei canoni e nelle strutture del cinema sovietico. Quest’immediatezza, che si mantiene quasi miracolosamente anche negli ultimi lm, i più elaborati e conchiusi, corrisponde al suo spirito come a quello dei personaggi di cui egli narra: contadini, giovani o vecchi, donne o uomini, «strana gente» come recita il titolo di un suo lm, alle prese con la concretezza di scelte pratiche e morali continue, ma in continuo rapporto con la natura e con una comunità «naturale» e refrattaria ai grandi discorsi, così come il regista è refrattario alle metafore e alle allegorie, ai grandi problemi e ai grandi messaggi. Quello di Šukšin è un cinema in cui il rapporto tra autore e opera si supera in una dimensione autobiogra ca (ma mai narcisistica) vissuta con uno spavaldo e spontaneo ri uto delle norme, ma nella quale anche si evidenziano sentimenti, disagi, problemi di una grande massa della popolazione dell’Urss, che ha trovato espressione, per la prima volta con così grande chiarezza, attraverso i suoi lm. Essi hanno, tra l’altro, fatto scuola solo nella proposta di personaggi irregolari, la «strana gente» che dopo di lui ha

cominciato a popolare il cinema sovietico, benché per lo più reincanalata in un genere e reintrodotta nelle norme. Šukšin apparve sullo schermo per la prima volta in Dva Fëdora (I due Fëdor) di Kuciev, nel 1959, quando era ancora studente al VGIK, e comparve in altri lm che, come il suo saggio diploma del ’60, Iz Lebjaž’ego soobsajut (Ci comunicano da Lebjaž’ij), ancora convenzionale nel soggetto (i problemi di un comitato regionale di partito nelle campagne), gli servirono a de nire una maschera e un personaggio inconfondibili, e mai disgiunti dalla spontaneità della persona. Benché poi accettasse di comparire in altri lm (per Bondarcuk, per Pan lov ecc.), lo si rivide in lm da lui diretti solo con gli ultimi due, e con ben altra forza. Al VGIK era stato allievo di Romm, che lo assistette anche nei debutti di scrittore, avvenuti sotto un altro padrinato rilevante, quello di Tvardovskij, su «Novy Mir». Nel suo saggio di regia debuttava come attore anche Leonid Kuravlëv, quasi un suo alter ego, protagonista di Živët takoj paren’ (Così vive un uomo, 1964, vinse a Venezia nella sezione dei lm per ragazzi nello stesso anno), nel ruolo di un giovane camionista estroverso e sbruffone, che s’aggira per le campagne conquistando ragazze e facendosi passare per moscovita, che accetta e sollecita piccole complicità e servizietti marginali, che non esita a far da ruffiano per due anziani solitari, che piglia baldamente in giro la bella giornalista venuta dalla città (e già Šukšin prende le sue distanze dall’intellighenzia metropolitana), ma che è anche capace di piccoli eroismi quotidiani e di ascoltare le voci di una saggezza contadina che non rinvia al domani né il godimento della vita né l’assolvimento dei propri impegni. Furbo e truffaldino, allegro e generoso, istintivo e balordo, il giovane Paska non è un personaggio del tutto inedito nel cinema di quegli anni - né la regia di Šukšin ha ancora quella originalità nella libertà che acquisterà via via - ma è il primo rappresentante di quella «strana gente» che si muove ai margini della norma, e che pure è un prodotto di una civiltà antica e resistente. In Vaš syn i brat (Vostro figlio e fratello, 1965), che ricevette parecchie critiche astiose, Šukšin tornò più ampiamente alla

sua polemica antiurbana, giocando su più personaggi nella cronaca calorosa di una famiglia e di una cultura contadina che eruppe sullo schermo nella chiassosa allegria di una festa in cui sembravano rivivere le più belle feste contadine della grande letteratura ottocentesca. Le storie s’intrecciano, ma hanno il perno in una vicenda comune, col giovane che va in città a trovare il fratello inurbato e più tardi con l’arrivo in visita di questi e della moglie cittadina, e più ancora con l’inatteso arrivo del fratello minore (ancora Kuravlëv) fuggito dal riformatorio tre mesi prima della ne della pena, così, per semplice nostalgia di casa, e con la presenza muta di una sorella che sembra la magica incarnazione di un benigno spiritello della natura. Il con itto campagna-città è a tutto vantaggio della campagna, dei suoi rapporti privi di maniere, dei suoi legami e della sua verità contrapposti alla smanceria, alla innaturalezza, alla fragilità dei rapporti urbani (e verso la ne del lm, il fratello cittadino, lottatore, è ruvidamente battuto dal fratello boscaiolo). Nella chiusa qualcuno parlando del glio giovane tornato in riformatorio dice qualcosa come: «Ben gli sta, doveva vivere come si deve», e un altro gli chiede: «Ma com’è che si deve?». Gli episodi di questo lm sono legati tra loro in un comune uire, mentre quelli di Strannye Ijudi (Strana gente, 1969) sono a sé stanti. Nel primo, Fratello mio, un giovane si reca in città a far visita al fratello maggiore, e vi si trova a disagio, ma per poco, ché i veri disagi sono del cittadino, malato e alcolizzato e in perenne con itto con la moglie; tanto che, al ritorno a casa, il giovane deve mentire per non fargli fare mala gura. In Colpo fatale un vecchio accetta di non esser pagato dalle persone che porta a caccia purché ascoltino per l’ennesima volta la storia che non si stanca di raccontare, di un attentato a Hitler che egli avrebbe potuto compiere ma che non gli riuscì di compiere: e il suo racconto è un confuso miscuglio di bugie, verità, fantasticherie che trascina l’attenzione in un crescendo di simpatia. L’ultimo episodio, Meditazioni, è il più sottile, e il primo in cui compaiono quelle premonizioni di morte che invaderanno Viburno rosso: un altro vecchio sente la morte avvicinarsi e si rifugia nei ricordi e nelle fantasticherie, irritato

con le nuove generazioni dalle quali si sente superato, e soprattutto dal suono serale del violino di un ragazzo. Una sera il violino tace, ed egli comprende quanto quel violino lo aiuti nel suo rimuginare e nel dialogo con se stesso, con la propria vita e la propria morte. Pečki-Lavocki (1972, presentato dalla Tv italiana con il titolo Il viaggio di Ivan Sergeevic, ma l’originale è un modo di dire traducibile con quello italiano «culo e camicia») segue il viaggio di un colcosiano (Šukšin) e della moglie, ingenua e duciosa (la vera moglie dell’autore, Lidija Fedoseeva), sulla Transiberiana, per raggiungere una località di vacanza sul Mar Nero, passando per Mosca dove è stato invitato a fermarsi da un professore di linguistica conosciuto in treno e incantato dal suo vocabolario, perché parli di fronte ai suoi studenti. Non c’è molto d’altro nel lm, che è certamente il meno convenzionale dei lm sovietici degli anni settanta, il più incurante di strutture e codi cazioni, il più magmatico e a suo modo esplosivo. Nel trattorista Vanja e nella sua dignità, nella sua semplicità ritrosa, Šukšin ha messo molto di se stesso, e nel coro variato di piccolo-borghesi che incontra la sua critica per modi di vivere, e ormai di pensare, che hanno riempito non solo le città sovietiche ma via via, che egli lo sappia o no, il mondo. Gli intellettuali che egli descrive, soprattutto, sembrano i portatori del non-autentico e di una vera e propria falsi cazione del senso della vita e dei rapporti umani. E non dimenticheremo facilmente la scena dell’incontro con gli studenti, con Šukšin-Vania che racconta le sue storielle allo schermo più che agli studenti, e s’accorge di trasformarsi in una sorta di giullare per degli intellettuali che non possono capirlo. In questa scena si avvertiva il disagio del poeta contadino di fronte a un mondo che non può capirlo né capire i suoi valori. Pur se lo apprezza, come molti intellettuali del cinema con un po’ di intellettuale superiorità hanno pur fatto. Nell’ultimo lm, Kalina krassnaja (Viburno rosso, 1973), l’aria di tragedia la si legge sulla faccia stessa di Šukšin, e sappiamo subito che questo piccolo malavitoso uscito dal carcere - che vorrebbe farsi capire e accettare e non sa farlo, che

vorrebbe esser buono e non vi riesce, che vorrebbe far della sua vita qualcosa di utile a tutti e non ha forse la convinzione e la forza per riuscirvi o ha il sospetto che, forse, non ne vale più la pena - è destinato alla morte. Non per suicidio (il regista si rimproverò pubblicamente di non aver osato portare il personaggio no in fondo, no a questa soluzione), ma per mano di alcuni ex compari i cui piani egli ri uta. Sono tuttavia delinquenti di città che lo uccidono, quando la «strana gente» della campagna cominciava ad accettarlo. La lacerazione di un campagnolo divenuto intellettuale (ha scritto: «a quarant’anni mi ritrovo in bilico, non cittadino no in fondo, e non più uomo di campagna») e vivente ormai più tra cittadini e intellettuali che tra campagnoli, non doveva essere per lui semplice da reggere. E con essa la convinzione, così chiaramente espressa nel lm, che non basta il socialismo e tanto meno quel socialismo a rendere felici, a rendere vivibile la vita. Il grande successo del lm dimostrò che il dilemma di Šukšin non era solo suo. Viburno rosso uscì nel ’74: lo stesso anno Šukšin moriva prematuramente a soli quarantacinque anni. Pozovi menja v dal’ svetluju (Chiamami in una luminosa lontananza, 1977) era stato scritto da lui unendo diversi racconti, ma è stato girato sullo schermo con fedeltà e piattezza dall’attore Stanislav Ljubsin e dall’operatore German Lavrov. Una sua sceneggiatura, Zemljaki (Compaesani) è stata anch’essa realizzata da altri; prevedeva, per Šukšin, il ruolo di un uomo «né cittadino né contadino», autodistruttivamente incapace di soluzione. Un’altra sceneggiatura già pronta, basata su lunghe ricerche storiche, riguardava invece Stepan Razin, eroe contadino di tre secoli fa. L’aveva scritta nel 1967, non gli fu permesso di realizzarla e ne trasse così un romanzo pubblicato nel 1974, l’anno della morte.

51. Glauber Rocha La breve vita di Glauber Rocha (Stato di Bahia 1938-Rio de Janeiro 1981) si è posta sotto il segno di un romanticismo originale e diverso, che trasferiva nel cinema le passate e presenti tensioni degli artisti brasiliani i più d’avanguardia e i più popolari, macinava in uenze internazionali con una selettiva intensità, scopriva e faceva suoi modelli lontani (Rimbaud, Artaud) e vicini (le nouvelles vagues teatrali, musicali, letterarie, pittoriche sue contemporanee), i loso dell’opposizione e della rivolta. Rocha si mosse al limite di un irrazionalismo vitalismo estremismo che possiamo dire epocali, tanto seppe rappresentare in sé acuendola a dismisura l’ansia di una generazione di giovani cineasti del Terzo Mondo di «cambiare il mondo», cominciando con il denunciarne anzitutto l’assurdo sociale, l’ingiustizia. Nato nel Nordeste, la regione dell’arido sertào della siccità e della fame ma anche del mare, del dominio padronale ma anche di un’inedita mescolanza razziale tra Africa, Portogallo e indios della selva, ne derivò - dopo l’esordio in Barravento (1961), il più pacato dei suoi lm e il più antropologico nella descrizione di povera vita e sincretici riti di una piccola comunità di mare, i pescatori neri di Bahia, la coscienza di una «estetica della fame» che teorizzò e difese, come risposta all’estetica borghese europea o statunitense, l’estetica del mondo (minoritario) del consumo e del benessere, del mondo senza fame. Estetica della fame, estetica della violenza. Ne trovò un riscontro nel Fanon dei Dannati della terra, ma seppe fortunatamente mantenerle una connotazione nazionale, e anche se seppe rubare («cannibalicamente») da Brecht e Godard, da Sartre e Visconti, da Pasolini e magari dal Living, come ovviamente dal Bu uel più d’avanguardia o più messicano, i suoi riferimenti centrali erano brasiliani: Gilberto Freyre, l’Andrade di Macunàima, Euclydes da Cunha, il grande Guimaràes-Rosa, Villa-Lobos, il

samba e la chanchada (sorta di sceneggiata con musica), la pittura naive e le canzoni dei cantastorie… La «nouvelle vague» brasiliana, il cinema novo, non rinunciò affatto a una speci cità che fu in Rocha addirittura aggressiva nelle sue posizioni - ma di traino e di riferimento per tutti. Rocha privilegiò i momenti della rottura di un ordine, non si fermò a spiegare quelli della normalità e dell’oppressione subita. La sua estetica della violenza (o della crudeltà) seppe mescolare una carica mitologico-popolare con una nalità politica, anzi apocalittica e messianica. Il suo fu un cinema poetico ed esaltato, sintesi di danza e racconto, di musica e grido. Il suo secondo lm rimane il più noto e migliore, Deus e o Diabo na Terra do Sol (Il dio nero e il diavolo biondo, 1964). Si ispirava alla storia già narrata sul lo del documento da Euclydes da Cunha in Os sertòes e ripresa molto più tardi sul lo del romanzo da Mario Vargas Llosa in La guerra della fine del monda. Qui si proponeva bensì in chiave metastorica, di rappresentazione popolare sacra e politica. Un contadino del Nordeste si fa seguace di un profeta millenarista in guerra con lo stato, che l’emissario dei padroni della terra Antonio das Mortes uccide, e di cui prende il posto, diventando poi un temibile cangaceiro, un capobrigante che viene a sua volta inseguito ma non ucciso dal giustiziere e killer, protagonista centrale di un altro lm di Rocha, O Dragào da maldade contra o Santo Guerreiro (Antonio das Mortes, 1969). Nel nale del Dio nero e il diavolo biondo l’ex contadino incontrava un cantastorie per il quale il mondo non è né di Dio né del diavolo ma dell’uomo, per il quale verrà il giorno in cui il mare diventerà sertào e il sertào diventerà mare. Ma diversa sembrò la morale di Antonio das Mortes, forzosamente «dialettica». Ora anche lo stile cambiava, la macchina da presa a mano e le accensioni barocche, «tropicaliste», il gusto delle improvvise spaziature fantastiche o visionarie si attenuavano a vantaggio di una schematicità densa di simboli, molto teatrale, della dimostrazione di una «giustizia storica» immanente al ruolo del giustiziere Antonio, insieme killer mercenario e portatore di un senso della storia che vede come perdenti le

rivolte religiose o banditesche prive di piano politico. Prima di questo lm c’era stato, ugualmente impressionante per furia interpretativa ed espressiva e per provocatorietà teorica, Terra em transe (Terra in trance, 1967) che aveva il suo centro nell’ambiguità obbligata della gura dell’intellettuale nel sistema di potere e di classe del Terzo Mondo. Qui erano evidenti le in uenze sartriane, però c’era molto meno dialettica, e il lm era visceralmente autobiogra co di un’autobiogra smo generazionale e di ceto. Raccontava i tormenti di un intellettuale marxista nella realtà della politica sud-americana, in un paese immaginario di nome Eldorado. Se vuole agire e in uire, non essendo egli capace di diventare fondatore di movimento o partito, sarà solo al seguito di politici ambigui e divisi all’apparenza, identici nella sostanza modelli espliciti di modi precisi di fare politica, legati alla storia recente o contemporanea del Brasile. Per l’intellettuale ci sarà un nale di morte, a causa della sua indecisione e incapacità di buttarsi di qua o di là, o di cercare altrove. La gura dell’intellettuale merita il suicidio, se non si mette a servizio della rivoluzione (ma chi guiderà la rivoluzione, se non altri intellettuali?). Dentro il ashback, virulenza espressiva e deformazione barocca sono a servizio di una lirica e lacerata partecipazione affettiva al lm da parte del regista, che mette in scena i propri dilemmi mettendo in scena quelli degli intellettuali di sinistra nell’America Latina dei suoi anni tormentati, ma non rinuncia ad affermare tra le righe il ruolo tuttavia centrale dell’intellettuale-artista per ogni futura liberazione. Creare disordine per contribuire alla nascita di un nuovo ordine può essere un progetto poetico, ma politicamente non può che risultare incerto e rischioso. Nei lm successivi Rocha si sposta dall’Eldorado immaginario di Terra in trance a un’Africa vista con involontario neo-colonialismo intellettuale dall’Europa, anzi da Roma-Parigi in Der leone have sept cabeças (Il leone a sette teste, 1970): il titolo originale è formato con le parole di cinque diverse lingue di paesi imperialisti); a un altro mondo immaginario latino-lusitanoamericano in Cabezas cortadas (Teste tagliate, 1970), un lm ridondante ripetitivo confuso

dentro un delirio scarsamente controllato e istruttivo. Più godardiano il primo nonché, per un recupero delle teorie del «montaggio delle attrazioni», ejzenstejniano, più tropicalista il secondo, entrambi dimostrano come lontano dal Brasile Rocha non riesca a nutrire la sua rivolta di un humus vitale; qui la confusione non paga, la rivolta poetica basta a se stessa, tanto più in quanto (nel Leone) si vorrebbe per no essere didascalici e leggere la contemporaneità politica di tutto un continente che si conosce assai male. La generosa follia di Rocha è consistita nel pensare utile alla rivoluzione un’esplosione di poesia e fantasia che individuasse il giusto rapporto tra arte e rivoluzione, che non sminuisse rispetto alla politica il peso il valore l’incidenza dell’arte. Fallita quest’ipotesi, mentre fallivano in giro per il mondo e prima di tutto in America Latina tanti progetti rivoluzionari, Rocha si chiuse in un malato silenzio, rotto da una provocazione delirante montata a Cuba, O câncer (Il cancro, 1968, ma mostrato anni dopo); da A historia do Brasil (La storia del Brasile, 1974), girato in una patria che era andata mutando e che lo aveva lasciato da parte, progetto iperdidattico sulla storia del paese dal Seicento a oggi, lm lungo e molto parlato di cui si ricorda positivamente l’efficacia della dimostrazione storica ottenuta a tratti con brani dei lm del cinema nôvo che avevano ripercorso e narrato la storia del paese; da Claro (Chiaro, 1975), dichiaratamente «underground» secondo modi di certe avanguardie e marginalità Usa dei primi anni sessanta; da Di Cavalcanti (1977), su un amico pittore scomparso, canto funebre per un alter-ego di parallelo delirio e parallela invenzione. Resta grandioso nonostante la confusa sregolatezza, un frammentario esploso ri uto dell’ordine, visione criticomessianica di una rivoluzione totale, religiosa e nazionalista, politica e poetica, economica e sensuale: A idade da terra (L’età della terra, 1980), opera «rochana» estrema, senza puntelli tradizionali e razionali evidenti. Rocha aveva tentato l’impossibile: una nuova poesia del cinema per la rivoluzione, terzomondiale e povera, che fosse esasperatamente autoctona ed esasperatamente dialettica, una ipersoggettiva nuova

razionalità che da tante altre parti contemporaneamente si ricercava in più paesi e in più arti. Il suo fallimento lo travolse spingendolo verso una sorta di follia che perdeva via via d’intuizione e genialità, ma che restò tuttavia rispettabile e fondamentale perché dai fallimenti si spera che generazioni future possano pur imparare qualcosa, perché la sincerità dell’artista fu autentica e lasciò almeno tre lm di grande portata, suscettibili di echi e richiami nella storia del cinema del Terzo Mondo, e perché pagò di persona il suo titanico, magniloquente, barocco, invasato, impossibile progetto di rottura e di novità, la sua personale utopia dentro un’utopia che non fu solo sua.

52. Nagisa Oshima La rivolta di Oshima è contro il Giappone dei padri, anche contro i padri del cinema giapponese «oggettivo», umanistico, di tentata armonia della forma pur nella frustrazione e nella scon tta. È Oshima, nato a Kyoto nel 1932, a rivendicare una soggettività che spazzi via le vecchie convenzioni, quelle della generazione più antica (Mizoguchi, Ozu, Kinugasa, Naruse…), come di quella intermedia (Kurosawa, Kinoshita, Kobayashi, Shindô…), certo più varia, ma tuttavia più incerta. A rivendicare un cinema in cui la rivolta diventi lotta politica, ri essione sulla realtà giapponese e sulla sua de nizione patriarcale e imperialistica (di qui l’estrema attenzione, quasi identi cazione, per gli oppressi dalla nazione giapponese, in particolare i coreani), ma in cui tutto questo si coniughi con, sia determinato da, le soggettive pulsioni del desiderio (del suo desiderio), dai ricorrenti fantasmi di vita ma più ancora di morte, e più ancora suicidi che omicidi. Nella convinzione progrediente di una consonanza tra queste pulsioni e quelle profonde e autentiche della cultura giapponese. Nel vedere in ne nella propria biogra a di artista una rappresentatività che passa dal radicale tentativo di distinguersi, pagando e lottando contro il potere, no a riconoscersi, scon tte le speranze di palingenesi politica, nel più profondo di quella cultura, o meglio di quella radicale crisi di una cultura piena tuttavia di intime sopravvivenze, di archetipi angosciosi. Fin quasi al silenzio, all’abbandono del cinema, al cinismo dei totalmente disillusi che è dei suoi anni novanta. La presa di posizione iniziale contempla, a ben vedere, il successivo sviluppo. È proprio la soggettività dell’artista a determinare la fragilità della sua visione politica, più conseguenza della collettiva perdita d’identità culturale e affannata ricerca di affermarne una nuova e ribellistica, che non analisi «oggettiva» delle forze e delle classi. In questo il

paragone con Godard, da molti avanzato, è solo parzialmente calzante: Godard passa da una ribellione dentro il cinema a una ricerca di oggettività, a una richiesta di cinema militante, a una rinnovata e più chiusa volontà di esplorazione di tecniche e linguaggi; per Oshima la ribellione è subito politica, che cerca dialogo con l’esperienza di una generazione segnata dalla rivolta politica e poi dalla sua scon tta, di cui impersona le ambiguità e a cui reagisce con un’adulta scelta di negazione. Il suo cinema è per lungo tempo nuovo nella forma, ma perché ridiscute e ri uta ogni forma per affermare la prevalenza di nuovi contenuti, no ad approdare, nell’isolamento degli anni di caduta del movimento rivoluzionario giovanile di cui ha fatto parte e di disimpegno culturale (la nuova leva di registi dopo-Oshima - ché non si è giovani e nuovi che per una breve stagione - è aridamente legata al cliché sesso-e-violenza, diventato specchio commerciale e compiaciuto dell’impotenza a scavare oltre), a una sorta di alto-borghese, tormentata interrogazione dove le ragioni della rivolta sono uno degli aspetti di una storia complessa e sfaccettata, e dove eros e thanatos sbilanciano tutto verso il thanatos, verso un’ossessiva astrazione di nuovo investita dal predominio della forma. Il rito, la recitazione, la «messa in scena» dei suoi giovanili personaggi, quelli per esempio di Seinshun zankoku monogatari (Racconto crudele della giovinezza, 1960), sono da subito un segno che distingue il cinema di Oshima, il quale ne dimostra una sorta di obbligata necessità anche nei lm più politici, come quel Nihon no yoru to kiri (Notte e nebbia del Giappone, 1960) che ri ette sulla lotta contro il trattato di sicurezza nippo-americano. Ed è un rito anche il sacri cio del prigioniero nero in Shiiku (L’addomesticamento, 1961), o il suicidio di Kakuchu no torima (Il demone in pieno giorno, 1966). Ma questi riti, queste cerimonie, questo saper di recitare qualcosa che sovrasta o sottintende le azioni della realtà, hanno ancora un segno di disperata volontà di liberazione - dai fantasmi propri e di tutti. Con Koshikei (L’impiccagione, 1968) l’elaborazione cerimoniale raggiunge la sua prima rigorosa de nizione in questo senso: il potere cerca di spiegarsi le ragioni di un omicidio commesso da un coreano, e le

ricostruisce, le mima in un parossismo grottesco di incomprensione che porta però alla riaffermazione della logica del crimine di cui il potere è di per sé arte ce e prigioniero. Teatro e realtà si scambiano le parti freneticamente in Sbinjuku dorobo nikki (Diario di un ladro di Sbinjuku, 1968) e già si mostra, in un forzoso nale di scontri di piazza, un distacco: ciò che c’è di «politico» comincia a perdere la sua connotazione affermativa (al contrario che nelle regie televisive e documentaristiche degli anni precedenti, di puntuale provocazione), tentando soluzioni, in quel Shonen (Il bambino, 1969), di una tenerezza cui il regista sembra vietarsi, ma che scaturisce da ogni scena di questa nuova «messa in scena»: quella attuata da un bambino (ancora coreano) per la propria sopravvivenza. La ripetizione, la recitazione, sono come non mai frutto di una costrizione maggiore. Con Tokyo senso sengo hiwa (Storia segreta del dopoguerra dopo la guerra di Tokyo, 1970, che ha per sottotitolo «Racconto di un giovane morto lasciando come testamento un lm»), è tutta la crudeltà della scon tta della «guerra di Tokyo» (lo scontro mortale tra un movimento studentesco ormai diviso in sette e il potere, 1967-70) a venir rivissuta nella ripetitività del gesto suicida del protagonista. Si ricostruisce una presa di coscienza avvenuta attraverso la recita, che afferma la propria ne con la recita di un lm. Gashiki (La cerimonia, 1971) è forse l’ultimo capolavoro del cinema «classico» giapponese: ambiziosa e personalissima rivisitazione di venticinque anni di storia del paese, tta di controllatissimi ashback e deviazioni signi cative, strutturata rigidissimamente nel suo coro di personaggi tutti rappresentativi, nella vicenda di un clan che si riunisce ogni anno a celebrare se stesso (il Giappone) oltre ogni differenza di colore politico e di sentimenti, in una trama di rapporti ttamente incestuosa e disperata. Masuo, il protagonista (Oshima stesso, in ne) si interroga, interroga disperato il proprio passato, i propri morti, i propri fantasmi. Un cauto ritorno alla politica in Natsu no imoto (Sorellina d’estate, 1972) è solo apparente, ché il lm è una (splendida)

appendice del precedente e ne ripete la logica di teorema labirintico e stupefatto. Con Ai no corrida (Ecco l’impero dei sensi, 1976) e il più «normalizzato» Ai no borei (L’impero della passione, 1978) Oshima concentra invece su due personaggi l’autodistruttiva voluttà suicida di un’esperienza sessuale condotta all’estremo. Regista ormai del «negativo», abbandonato il programma di una «autonegazione» socializzata di artista poiché il polo della vita, debole da sempre, si è del tutto sfaldato, Oshima ha in realtà seguito un percorso disperatamente lineare: la scon tta della giovinezza tradita, ma tradita anche da se stessa, non gli dà che una maturità scontenta, l’età non porta certo serenità, non porta saggezza, non porta che età; e semmai il ricupero di un’insoddisfatta, acre conquista formale. Furyo (1983) lascia la cupa e claustrofobica furia autodistruttiva della coppia eterosessuale per narrare una fascinazione omosessuale all’interno di un corale campo di concentramento giapponese, tra un ufficiale giapponese (Ryuichi Sakamoto) e un ufficiale inglese (David Bowie). La crudele ritualità e il gioco morboso dei doppi caricano e avvelenano questa storia di fascinazione Oriente-Occidente diretta con una partecipazione che non si sa se più lucida o più malata, o di lucida malattia. Mentre Max my love (Max amore mio, 1986), triangolo borghese maritomoglie-scimpanzè, è soltanto una delle tante sceneggiature molto parigine di Jean-Claude Carrière, da cui non si poteva estrarre granché. Il dittico ambiguo Ecco l’impero dei sensi e Furyo è il canto estremo del cigno Oshima, che ha detto una volta «Io non posso fare altro che lm, in silenzio, sognando il giorno ancora lontano in cui lo Stato si estinguerà». Poi ha anche smesso di fare lm, mentre la morte ha continuato a vincere.

53. Robert Altman Altman è forse il più esemplare autore degli americani sessanta e settanta, un periodo in cui si scompone e ricompone un sistema dello spettacolo, e in cui il cinema ancora agisce, se non da catalizzatore, certo da uno dei punti di riferimento vissuti come ancora indispensabili al sogno collettivo, e alle sue frustrazioni. Si rompe l’universo chiuso dei generi; il divismo ha presa solo immediata e temporanea; cambiano i modi di produzione. La disarticolazione degli stereotipi agisce dapprima dentro i generi, presentandone l’inanità, ribaltandone i messaggi. Il cinema ri ette sul cinema - ora come nostalgia, ora come citazione e copia, ora come necessità di riconversione e ora, più in profondità, come ri essione sul complesso di valori e modelli sin lì dominanti, in esso e attraverso esso. Non muore: cambia e si rinnova. Lo spettacolo continua, si dilata, assorbe nuove tecniche, nuovi modelli, nuovi media. e show must go on, e l’America pure. Di questa crisi di trasformazione, Altman è interprete esemplare. Con lui, la story non ha più strutture rigide; un protagonista equivale a un altro; la regia è un happening, a volte quasi ne a se stesso; i punti di forza vengono dislocati, modi cati; non si dà sintesi ma appena traccia; l’imprevedibilità e la casualità sono padrone, le attese frustrate; lo spettacolo dev’essere evidente in quanto tale, non illudere per realismo consequenzialità suggestione. È dal ’45 che Altman (nato a Kansas City nel 1925) lavora per il cinema e la Tv (del ’57 è un lm di interviste e materiali di repertorio su James Dean) ma è solo dal ’69 con at cold day in the park (Quel freddo giorno nel parco) che il suo cinema «decolla». Di esso, M.A.S.H. (1970), McCabe and Mrs. Miller (I compari, 1971), e long good-bye (Il lungo addio, 1973),

ieves like us (Gang, 1973) costituiscono rivisitazioni del cinema hollywoodiano «classico» - il lm di guerra diventato lm comico, smoderata farsa alla Comma 22, il western con fragili anti-eroi scon tti dall’arrivo del grande capitale, il poliziesco alla Chandler ironicamente spiazzato, il lm di gangster anni trenta, che sono qui, però, ritorno alla coppia proletaria in rivolta e fuga senza speranza. Dovunque vi è la presenza, talvolta ossessiva, dei media: radio, pubblicità, cinema, televisione, musica. Dovunque, la libertà anarchica della costruzione sottrae e disgiunge, scruta la realtà con uno sguardo diverso da quello ssato nei canoni della narrazione hollywoodiana, ma nisce per fare ancora della nzione, pur disvelata, il suo canone. Non contano progressioni drammatiche e psicologie, ciò che era primario diviene secondario, o è internamente svuotato, svagatamente discusso. È forse California split (California poker, 1974) a portare più a fondo questo metodo, liberandosi ormai della rivisitazione per affermare uno stile, preludio a Nashville (1975), sulla città dei discogra ci, enorme rappresentazione della rappresentazione, spettacolo dello spettacolo, dove sistema della politica e sistema dello spettacolo si equivalgono e attori incerti o disperati si aggirano alla ricerca di una loro immagine, di un provvisorio «divismo», di una impossibile originalità. Ancora più estremo, il progetto (non il risultato, manipolato da De Laurentiis) di Buffalo Bill and the Indians (Buffalo Bill e gli indiani, 1976) pone di fronte nel grande circo del West i fantasmi dei pionieri con le «lezioni di storia» di Toro Seduto, ed è spettacolo dello spettacolo dello spettacolo. In A wedding (Un matrimonio, 1978) è il rito, la cerimonia, a raggruppare generazioni di americani e loro incertezze, con tutto il risvolto di una tragedia neutralizzata dalla mediocrità dei valori. Accanto a questi lm ve ne sono però altri in cui Altman sembra lasciare l’improvvisazione e cercare la struttura, la regia, il discorso d’«autore» intellettualmente «profondo». Annunciati da Brewster McCloud (Anche gli uccelli uccidono, 1970), di irrisolta ma appassionante commistione, lm come

Images (1972), ree women (Tre donne, 1977), Quintet (1978) pretendono alla favola con ambizioni totalizzanti, meta siche, e rivelano una para-junghiana propensione al grande discorso che è la cosa meno viva e meno interessante di questo regista: nebulosa e rivendicata incertezza sulle condanne dell’uomo all’irrealizzazione (e vieppiù della donna), e dell’ordine sociale a ricostituirsi sempre in ruoli e fantasmi di ruoli. La crisi del «doppio» cinematogra co e spettacolare, la perdita d’identità, chiedono allo stesso Altman un ricorso a «verità» eterne e metastoriche. Ma Altman, che ha fatto dell’imprevedibilità la misura aperta del suo cinema, è autore imprevedibile. A perfect couple (Una coppia perfetta, 1979) è ancora un ritorno al genere, stavolta la commedia so sticata, con musica, dilatazione di un riuscito incontro tra due personaggi-attori di Un matrimonio; Health (1979) è un mini-spettacolo della politica; Popeye (Braccio di ferro, 1980) un omaggio carnevalesco e confuso al mondo del fumetto e alla sua capacità di costruire dei mondi. Il fallimento di molti di questi lm e, forse, una crisi più intima e profonda, hanno spinto negli anni ottanta Altman a realizzare piccoli lm da piccole piéces teatrali appartenenti al peculiare lone, un po’ stucchevole, del naturalismo psicanalitico statunitense, lm a basso costo e con ottimi attori, sul male di vivere di piccoli americani qualsiasi, dentro e fuori le istituzioni. Sono esemplari tra questi Come back to the dime and five, Jimmy Dean (Jimmy Dean, Jimmy Dean, 1982), Fool for love (Follia d’amore, 1985, da e con Sam Shepard) e Streamers (1983), su un claustrofobico campo di addestramento per reclute dell’esercito. Con gli anni novanta, Altman si è ripresentato al grande pubblico con grandi lm, nuovamente corali, riannodando con una tradizione di spontaneità nella regia, con la fama di provocatore di situazioni improvvisate, di domatore di set vasti e popolosi. Ma se e players (I protagonisti, 1992) descrive banalmente e non senza malignità un intero studio cinematogra co servendosi di un pretesto esilissimo per intrecciare allegramente vicende e ritratti al limite della

macchietta o del paradosso, se Prèt-à-porter (1995) sposta il tutto, e il pretesto è ancora più esile e n insensato, al mondo delle grandi s late di moda parigine, con mancanza di rispetto, e con una stralunata assenza di morale o estrema super cialità dello sguardo, almeno Short cuts (America oggi, 1993) risalta come uno dei suoi lm migliori, e quello in cui più evidente è il suo progetto di descrivere una collettività nei suoi riti e nei suoi tormenti, nella sua rozzezza e nel suo dolore, nella sua stolidità e nella sua inutile rimozione della morte. Ma Altman aveva ora a disposizione un grande «sceneggiatore», e non ha fatto che mettersi il più intelligentemente possibile a suo servizio. Ha infatti preso i racconti di Raymond Carver, maestro del «minimalismo» più intenso (e più ricco di indicazioni non minimali), e li ha intrecciati con grande abilità lasciando che ne scaturisse, nei confronti e negli scambi, nelle deviazioni e nei ritorni, una lezione amara e tremenda. Ecco dunque episodi che si legano tra loro no a comporre una sorta di romanzo sulla nostra epoca, ecco una galleria di gente comune e situazioni comuni assediate da un lo di altrettanto comune assurdità, bizzarria, esagerazione dei comportamenti dei più nata dall’insoddisfazione, dalla frustrazione, dalla solitudine, e con la morte in agguato a ogni angolo di strada. Ecco una società senza obiettivi, che ha confuso benessere e felicità, ecco una brulicante umanità piena d’ansie: che non è solo statunitense, che è occidentale, e anche più che occidentale.

54. Francis Ford Coppola L’avventura professionale, artistica e umana di Coppola è forse la più appassionante e mirabolante del cinema degli anni settanta, proprio per la fusione in una sola persona di competenze e quali che: artista, regista, produttore, sceneggiatore, inventore, capitano d’industria, avventuriero (guastatore e rinnovatore) dello show-business. È dunque opportuno, prima di parlare di prodotti niti, cioè dei suoi lm, parlare in sintesi di tutta la carriera. Figlio di immigrati italiani (è nato a Detroit, nel 1939; padre musicista), dirige lmetti amatoriali n da ragazzo, poi frequenta la scuola di cinema dell’Ucla a Los Angeles, vi dirige dei so-core in semiclandestinità, vi vince un premio Goldwyn per la sceneggiatura. Ingaggiato da Corman, può girare in Irlanda nel 1963 il suo primo lm, un piccolo «horror», utilizzando i resti di un lm di Corman e investendovi soldi suoi. Litiga con Corman, ma vende sceneggiature alla Seven Arts, e collabora al testo di Questa ragazza è di tutti, di Parigi brucia? del Grande Gatsby e di Patton. La stessa casa nel ’67 gli produce (ma perché si è assicurato i diritti sul romanzo) una commediola su un adolescente alla scoperta delle donne: Big boy (Buttati Bernardo). Il lm ha un certo successo, e la Warner gli nanzia un musical girato in Irlanda, Finian’a rainbow (Sulle ali dell’arcobaleno, 1967) con un Fred Astaire ancora in piena forma, ma il prodotto nale è manipolato dai produttori che ne cambiano persino il formato. e rain people (Non torno a casa stasera, 1969) è un road-movie girato davvero on the road con una piccola équipe di cui fa parte Lucas. È costato poco e Coppola è riuscito a mantenerne il controllo: interpretato da Shirley Knight è il viaggio di una donna incinta e il suo incontro con uno sportivo sballato. Il tema è già prefemminista, ma Coppola vi mostra un’incertezza nel reggere il

personaggio femminile che è caratteristica di tutta la sua opera, eminentemente «maschile». Ora Coppola tenta la produzione, fonda la Zoetrope per realizzare L’uomo che fuggì dal futuro di Lucas, malamente distribuito dalla Warner che poi ri uta a Coppola il suo sostegno e lo costringe a chiudere la Zoetrope. Coppola ha così sperimentato tutte le fasi della realizzazione di un lm. Il successo gli arriva con e Godfather (Il padrino, 1972) e il suo seguito, Il padrino II (1974). Vi è nito per caso, per una certa fama di sceneggiatore e perché d’origine italiana. Questo trionfo gli consente di acquistare una radio, una rivista, stabilimenti di produzione, e di entrare in partecipazione in una società di distribuzione. Con Bogdanovich e Friedkin, reduci dai successi di L’ultimo spettacolo e L’esorcista, fonda una società di produzione sostenuta dalla Paramount, e Director’s Company, cui si devono due lm di Bogdanovich, uno di Friedkin e e conversation (La conversazione, 1974). L’insuccesso di questi lm ne provoca la chiusura; ma Coppola è ricco e ha credito e mette in cantiere un vecchio costosissimo progetto di John Milius, sceneggiatore e poi regista destrorso, per Lucas, Apocalypse Now che, iniziato nel ’76, è presentato a Cannes ’79 con due diversi nali. Nel frattempo ha ridato vita, grazie al Padrino, alla Zoetrope e ha acquistato i General Studios, ha messo in piedi una struttura e un apparato tecnico e commerciale che produce tra l’altro Black Stallion di Carroll Ballard e la serie Tv che ne deriva, e Hammett di Wenders; che permette a Kurosawa di nire Kagemusha, e distribuisce il vecchio Napoléon di Gance rimodernato tecnicamente. Ma l’impresa successiva, One from the earth (Un sogno lungo un giorno, 1980), costosissima e nella quale mette a frutto tutte le possibili ultramoderne invenzioni tecniche (alcune di suo brevetto), è un asco di proporzioni colossali. Ipoteca i suoi beni, vende gli studios, chiude la Zoetrope. Ma Coppola non è uomo da arrendersi facilmente. Per pagare i debiti gira lm per altre produzioni, lm su commissione, lm di comando. Gira in provincia, a Tulsa,

Oklahoma, un lm di budget modestissimo, e Outsiders (I ragazzi della 56ª strada, 1982) sulla delinquenza giovanile degli anni cinquanta, che lancia molti divetti adolescenti, da Matt Dillon a Tom Cruise a Rob Loewe e Patrick Swayze ecc., e conquista gli adolescenti, anche se è distrutto dalla critica. Poi un altro piccolo lm dello stesso tipo, Rumble Fish (Rusty il selvaggio, 1983), che la critica esalta. Torna al successo e dirige, controllando ancora lui l’operazione, Cotton Club (1984), costosissimo e inviso a pubblico e critica. Seguono Peggy Sue get married (Peggy Sue si è sposata, 1986), commediola brillante e fantastica, alquanto pesante, e Gardens of stone (Giardini di pietra, 1987), commovente melodramma sui reduci dal Vietnam, e il conto è nalmente saldato con Tucker (1988) e Il padrino II (1990). Coppola ha recuperato le avversità, ha potuto tornare ai suoi amati e ambiziosissimi supercolossi volentieri sperimentatori. Coppola è pienamente «autore» nel senso europeo del termine. Ha capito però presto che per esserlo davvero, nel sistema americano, doveva controllare tutte le fasi del lm, dall’ideazione alla distribuzione. È sceso a patti con le majors e il grosso capitale, è diventato egli stesso un grande capitalista. In questa fase, la sua megalomaniaca aspirazione al lm dei lm lo ha trascinato troppo avanti, e certamente Un sogno lungo un giorno è un’opera in cui l’innamoramento per la tecnologia ha preso il sopravvento sulle qualità d’autore. Ma il cinema gli deve Apocalypse Now, e non è poco, e lm del peso e dell’interesse del Padrino, della Conversazione (certo il lm in cui, senza problemi economici e senza smania di capolavoro, ha detto di più all’America sua contemporanea, quella dell’insicurezza politica e morale), di Rusty il selvaggio. Dei suoi primi lm, Sulle ali dell’arcobaleno era il de nitivo addio, per il regista, al mito di Hollywood e alla adolescente fascinazione che, come tanti, ne aveva subito. Non torno a casa stasera, semmai, mostra la fascinazione del cinema europeo: storia di viaggio e di incomunicabilità, di sottile rapporto di dipendenza maschio-femmina, di visione intellettuale dell’America giocata sull’immediatezza ma anche la lentezza della progressione e molto al tavolo di montaggio. È la piccola

America quotidiana e nevrotica che Coppola ci mostra, mentre col Padrino e Apocalypse Now allarga l’obiettivo sui grandi fenomeni storico-sociali. Tratto da un romanzo assai fasullo di Mario Puzo scritto in descrizione e lode non troppo nascosta del sistema ma oso, Il padrino è sì (come è stato letto dalla maggioranza del pubblico) la storia di un sistema familiare e di clan con un sottofondo nostalgico nei confronti della forza di quei legami che nell’America attuale sembrano svalutati, è sì un lm in qualche modo adeguato agli umori nixoniani della maggioranza del tempo, ma la sua ambiguità è profonda e decisamente produttiva. C’è questo, e c’è altro: c’è soprattutto il progressivo parallelismo ma a-politica, che diventa equivalenza nella Parte seconda, mentre nella Parte terza entra in ballo la Chiesa, ma il terzo lm è dei tre certo il più grossolano. E c’è la magistrale ricostruzione di un’epoca e di una «morale» del crimine, e di una struttura patriarcale più italiana che americana. L’occhio di Coppola è in realtà più distante che affascinato: sa di cosa parla, e ne sa le ragioni, ma a queste ragioni non aderisce. Film oscuro e notturno, Il padrino diventa rapidamente tragedia mitica e rituale, e soprattutto una metafora dell’America e della sua storia fatta da un americano che ha vissuto sulla sua pelle e nella sua famiglia la fatica dell’apprendistato all’America. Apocalypse Now è senza dubbio l’opera più complessa di Coppola e forse la più complessa degli anni settanta statunitensi. È anche il più forte lm sul Vietnam prima che Kubrick dirigesse il suo. Le corrispondenze di Michael Herr e Cuore di tenebra di Conrad ne sono all’origine. Affronta il Vietnam sui luoghi stessi e non nelle risonanze in America come gli altri hanno preferito fare, e per prendere di petto l’immane tragedia Coppola sceglie un lo narrativo capace di affondare nel mito il viaggio nelle tenebre, in un «cuore» che è l’assunzione del male della storia e dell’uomo da parte di un Brando, che come un oscuro dio primitivo, si è fatto incarnazione del male. «e horror, the horror», conclude morendo, come il Kurtz di Conrad. Muore per mano di un giovane militare in incerta missione (Martin Sheen), ma ha il

suo alter-ego nel generale Kilgore di Robert Duvall: il pazzo che ama la guerra e distrugge villaggi coi suoi elicotteri al suono della Cavalcata delle Valchirie. Il lm, però, è il viaggio, più che la sua conclusione. Dire l’orrore è meno facile di quanto pretendano tutta una schiera di giovani registi col gusto del sangue e del macabro. Coppola, appunto, ci si accosta meglio nelle scene del viaggio che nella conclusione, la parte più delicata e quella in cui il lm osa intellettualmente di più. Inoltre, gli riesce di dire l’orrore di una guerra che è anche spettacolo, non sempre però provocando nello spettatore l’orrore: lo spettacolo, anche lo spettacolo dell’orrore, può affascinare, e sia Coppola che lo spettatore ne restano a tratti affascinati. La conversazione, come si è già detto, è un lm sull’ossessione della cospirazione, vissuta da un Gene Hackman esperto in intercettazioni, trascinato dalla sua mania nella paranoia, ma una paranoia che ha pur ragione di essere negli anni del Watergate. Hackman è un uomo comune, un «professionista» senza grandi idee; la sua ossessione progressiva (trattata tenendo d’occhio i modelli di Hitchcock e Blow-up) sposta il lm in una sorta di incubo o di sogno, in una dimensione di «realtà irreale», una realtà che fa sentire la sua minaccia, ma si camuffa, retta da elementi occulti, incomprensibile. È questo un piccolo lm, se confrontato ai due cui fa da intermezzo, eppure è possibile preferirlo a quelli, per l’estremo controllo del regista sulla «macchina» del cinema, impossibile agli altri progetti per ragioni produttive o per l’enormità dell’impresa. Non così Un sogno lungo un giorno. Qui l’invaghimento per la tecnica, per l’elettronica, per la «macchina» che Coppola cerca di reinventare godendo di un’assoluta libertà, ha il sopravvento sull’ispirazione. Data l’aleatorietà dell’impresa e la necessità di realizzare un prodotto di successo che recuperasse gli enormi investimenti, Coppola ha scelto per questa sperimentazione (come tale quasi geniale) un tema semplice cui non è riuscito a dare sostanza. La blanda nevrosi dei due mediocri protagonisti e del loro lasciarsi e ritrovarsi

nell’universo assurdo di una Las Vegas città del gioco e delle apparenze interamente ricostruita in studio; i simboli; le citazioni (dal musical a Fellini), non bastano a sostenere l’impresa. Più che una critica della medietà americana e dell’alienazione che permea personaggi comuni, il lm, sopraffatto dallo sfoggio e dallo sforzo della tecnica, diventa una favoletta assai cauta, incapace di dire quel di più che era forse nelle intenzioni del regista. I ragazzi della 56ª strada e Rusty il selvaggio non sembrano un dittico nonostante i tratti comuni: gli attori ragazzi; due romanzi di un’unica, pessima scrittrice; il cast tecnico; i luoghi decentrati di lavorazione; il tema dell’adolescenza e delle bande giovanili. Il primo è a colori, il secondo in bianco e nero; il primo più vistoso, il secondo più pudico e segreto; il primo somiglia ai fumetti dell’«Intrepido», il secondo è forse un capolavoro. Rusty il selvaggio, confronto tra tre personaggi maschili (un ragazzo che idealizza come un omerico Achille un fratello maggiore che ha vissuto da leader l’epoca eroica delle bande; questo fratello, scon tto e distrutto dalla coscienza del non-eroismo della sua e delle altrui vite; un padre sfasato che accetta la sua marginalità ubriacona e per il quale Coppola ha voluto come interprete l’Hopper di Easy Rider), dimostra con partecipe misura il fallimento dell’idea di gioventù nel nostro mondo alienato. Giardini di pietra parte da un soggetto di comune melodramma, anzi vagamente patriottico, e ne fa un melodramma vero, una storia di sentimenti-e-politica sentita e commossa. Coppola ha il dono, anche partendo da pochi personaggi (il vecchio reduce disilluso, il giovane idealista, la giornalista di sinistra che s’innamora ricambiata del reduce), di «fare romanzo», di costruire attraverso incontri e scontri semplici e signi cativi un’accorta ri essione e piani cazione di sceneggiatura storie credibili ché conquistano l’attenzione e l’adesione. Nel suo girovagare tra i generi, Cotton Club è un massiccio omaggio a un’epoca della storia statunitense, del jazz e di Hollywood, che imita e rifà coscientemente Hollywood per

mostrarne la vitalità. Tra età del jazz e Grande Crisi, quando il sonoro salvò il cinema dalla crisi, è in lode alla Warner e ai suoi due generi portanti, il lm di gangster come melodramma metropolitano, e il lm musicale alla Berkeley. Vicende si accumulano, personaggi maggiori e minori si avvicendano dentro una falsa, riverente, distaccata, spiritosa, dinamica esaltazione delle mitologie nazionalpopolari degli Usa, con un piglio ironico-romantico e una velocità del ritmo senza i quali il lm sarebbe forse intollerabile. L’ambizione allo spettacolo unico e totale cui Coppola torna sovente trova qui un’espressione originale nei toni del grande divertimento «disimpegnato». Più trito il Tucker inventore e industriale fallito perché il sistema lo ha ri utato (ma senza mettere in dubbio la forza, la vitalità del capitale e dell’iniziativa individuale: Tucker come fantasma negativo di Coppola, e con nemici - i trust - molto affini), e l’imponente ombroso intelligente morboso eccessivo (e in ne patetico nel suo sforzo di rivitalizzare un tema sfruttatissimo con i massimi mezzi tecnici e con una massima congerie di riferimenti intellettuali e cinematogra ci), il Dracula (1992) costosissimo che dimostra come sia difficile cavare ancora sangue da quel mito ottocentesco, mortuario e si direbbe immortale, cui Coppola presta un’adesione reazionaria nel volerlo vedere come una sorta di Angelo Caduto che la Donna può salvare. In attesa di un Pinocchio che si annuncia anch’esso super e super. Il mistero Coppola è tutto qui: un autore dentro il sistema tecnico-economico-spettacolare statunitense come pochi, in grado di cadere e risorgere, di investire energie in progetti «facili» o per no sciagurati salvandoli (Il padrino) o perdendovisi (I ragazzi della 56ª strada), di spender tutto su sperimentazioni ardite ma troppo mitizzate, di osare l’inosabile (Apocalypse Now) e di tornare al piccolo e al minimo senza problemi. Un regista più manager che autore e d’una cinica abilità, che sa giocare con la sorte e che per ora si ferma al massimo, ma non è detto che durerà.

55. Woody Allen Woody Allen (New York 1935) iniziò vendendo battute e gag fulminanti a spettacoli televisivi, si fece le ossa nel cabaret e nel teatro, scrisse per il «New Yorker» ed esordì come regista con una serie di lm di successo anche europeo, costruiti per stripes, per accumulo di trovate più verbali che visive. Attore oltre che regista, divenne ben presto una gura stranota e, nel comico, sostituì nell’interesse degli intellettuali europei il più aristocratico amore per Jerry Lewis, attore e regista diversissimo da lui. L’inadattabilità di Lewis è estroversa, caricata, collettiva e riguarda l’uomo-massa americano, non l’ebreo intellettuale newyorkese. Allen è più riconoscibile agli intellettuali dalle cui schiere proviene e parla per loro, mentre Lewis parla per tutti (per l’uomomassa e, per esempio, per il pubblico dei bambini, che Allen trascura o al quale, più semplicemente, è incapace di parlare). Allen recita se stesso con molta autocommiserazione e molto narcisismo e impersona così, estremizzandone la goffagine, il disagio di una generazione, la sua nevrosi. In Allen ci si riconosce anche se con fastidio, e ci si compiange, si ride di noi e dei nostri simili; ma si può anche talora detestarlo, così come si può detestare il noi piagnone e spaccalanima. Vuol dire che comunque Allen ha colpito nel segno. I lm che vanno da Take the money and run (Prendi i soldi e scappa, 1969) a Love and Death (Amore e guerra, 1975) mettono a confronto con la famiglia, con l’ambiente, con i miti del tempo, con la psicanalisi, con il sesso e le donne un personaggio minimo, uno Schlemihl oppresso da sensi di colpa, insicurezze e fobie che «si cita addosso» e si caccia nei guai disadattato e verboso, incapace di controllare il proprio destino e di crescere adulto, e perciò rigettato nell’analisi, negli in niti tormenti della coppia, nelle povere e inefficaci consolazioni dell’egotismo. Irrimediabilmente newyorkese, anzi di

Manhattan, il personaggio Allen ricalca spesso e volentieri la biogra a dell’attore-regista Allen, il quale va aumentando col tempo le sue ambizioni, e sa di aver trovato in Europa un pubblico fedele che aspetta e ama i suoi lm più di quanto non accada negli Usa. Da Annie Hall (Io e Annie, 1977) in poi, la sua produzione si fa sempre più ambiziosa e si differenzia. Si confronta ora con i classici della commedia hollywoodiana, la sex-comedy (Lubitsch, di cui alla lunga può gurare come una sorta di erede, e Cukor e i minori e più so; mantenendo tuttavia la modernità di situazioni diverse, di morali più larghe, di personaggi dalla personalità più frammentata), con i grandi amori del cinema europeo, soprattutto Bergman e accessoriamente Fellini (tenta anche lui il suo Otto e mezzo con Stardust Memories, 1980, in verità stucchevole) e più tardi con i classici della Mitteleuropa tra muto e sonoro, magari riletti attraverso la Mitteleuropa immaginaria e kitsch dei lm di terrore della Universal; e in ne azzarda, in opere spesso memorabili, un impasto suo e nuovo, e mette le ali per dire grandi cose su grandi temi e però con la difesa e il distacco dell’ironia e dell’apologo vagamente didascalico. Le sue imprese più caduche sono le «bergmaniane» (o strindberghiane) coi grovigli familiari di Interiors (1978), più alla O’Neill o alla dopo-Cechov in September (Settembre, 1982), con le ronde erotiche di A midsummer night’s sex comedy (Una commedia sexy di mezza estate, 1982), con il mondo dello spettacolo come mondo di famiglie e famiglia essa stessa di Hannah and her sisters (Hanna e le sue sorelle, 1986), con le angosce di coppia e la psicanalisi del chiuso opprimente serioso Another woman (Un’altra donna, 1989), con la tentazione di raccontare la donna - che era poi la moglie di Allen (Mia Farrow) - come una Giulietta degli spiriti ricca e yankee di Alice (1989), con l’autobiogra smo di clan e personale di Husbands and wives (Mariti e mogli, 1992). Gli ultimi di questi titoli sono più personali e meno presuntuosi, ma urtano spesso contro una sorta di barriera morale opposta dallo spettatore esigente, che non se ne da e vi vede la chiusissima giusti cazione di un’umanità tanto privilegiata quanto scontenta. Le maschere della vita sociale della

borghesia intellettuale e artistica, e le insoddisfazioni scontrose, autoreferenziali e compiaciute di questa parte non ampia di una ricca élite, niscono per limitare la portata del giudizio e in qualche modo anche l’interesse per operazioni abili e serie, profonde e sofferte, ma presuntuose e soprattutto ingenerose. Molto più efficaci sono le commedie-commedie, le commedie che ironizzano il disagio e prendono in giro questa stessa fascia di umanità. In Io e Annie (1977) il dialogo di una coppia-tipo di intellettuali di mezza tacca era spassoso e profondo; e in Manhattan (1979) il gioco o il girotondo delle frustrazioni erano affrontati con una levità spiritosa e precisa, con una regia di inusitata eleganza, in bianco e nero sontuoso, invero degna dei maestri passati. Radio Days (1987) era in ne un Amarcord delicato e sornione, e nella rievocazione dei fasti della radio negli anni trenta portava il confronto tra la falsità degli addetti a quel medium (uno strano divismo oggi quasi incomprensibile) e l’affettuosa simpatia di una famiglia numerosa e rami cata di piccoli ebrei periferici, che ha al centro il piccolo Joe (proiezione dei ricordi d’infanzia dello stesso Allen) dentro una nostalgia di rapporti umani ancora calorosi, di famiglie ancora non sfasciate, di rapporto con la storia di persone normali non ancora iperintellettuali. Ma è in un piccolo lm divagante e insolito come Broadway Danny Rose (1984) che Allen ha dato probabilmente il meglio di sé, quando, con un minimo di mezzi e di ambizioni apparenti, è riuscito a coniugare volgarità e grazia, lasciando rievocare da un gruppo di vecchi comici in ritiro la gura svagata confusionaria dolce ed entusiasta di un piccolo agente ebreo di artisti improbabili e fenomeni da music-hall, Danny Rose (Woody Allen), alle prese con una sguaiata «pupa» della ma a (Mia Farrow) e con la ma a medesima. Lo s gato Danny è qui una gura salvi ca, o che cerca in tutta modestia e senza pensarci di essere tale, un Giobbe paziente alle prese, senza pretese, con la normale cattiveria del mondo.

Questo lm era stato preceduto da Zelig (1983), considerato da molti il suo capolavoro. Stavolta il modello risaliva lontano, al proteico Uomo di fiducia di Melville che ha attraversato la cultura statunitense, ma in Allen non come capacità ingannatrice del male, piuttosto come impossibilità di de nirsi e accettare una sola faccia nell’epoca della perdita d’identità, dell’uomo medio e dell’uomo comune, che non sa o non può più essere «uno». E Zelig è un nto documentario che evoca e investiga il «mistero» di un uomo-camaleonte che per paura di solitudine assume automaticamente aspetto e psiche di chi l’attornia. Virtuosismo artigianale e dell’intelligenza dentro i modi della cultura di massa e dei suoi media, Zelig mette il dito sulla piaga originaria e centrale di una civiltà, affidando a interviste con noti intellettuali (Bettelheim, Bellow, la Sontag, Howe…) l’approssimata spiegazione di un fenomeno immaginario, ma talmente ben inventato e ricostruito da sembrare (ed essere!) più vero del vero. Dagli anni venti a oggi, Zelig cambia e muta, disposto a tutto pur di essere conforme e accettato. E l’uomo comune del «dovunque avanzato» in cui tutti viviamo, è il rappresentante estremo di una non-classe, la piccola borghesia, che si è dilatata a inglobare le altre, perno di ogni sistema di potere, lusingata e potente e tuttavia sempre manipolata, insicura, paurosa di non-essere. Zelig è nostra spia e nostro fratello. Più «pirandelliano» è Purple rose of Cairo (La rosa purpurea del Cairo, 1985). Mimando lm di serie B degli anni trenta, Allen immagina un attore che scende dallo schermo per accogliere la venerazione di una giovane donna della Depressione, e uno scambio-ri essione degli attori dello schermo (immagini, emblemi, proiezioni, marionette, macchiette) con la realtà di chi li vede e sogna. Dopo la radio e il cinema di ieri, anche il teatro. Con Bullets over Broadway (Pallottole su Broadway, 1994) Allen si rifà tuttavia ai piccoli lm sul mondo dello spettacolo e parla di un artista che non lo è, un commediografo che può esordire grazie alla presenza nel cast della pupa di un gangster e che viene assistito nel rimediare a un copione insincero dalla guardia del corpo di quella, trucido banditello che s’innamora di un’arte no a

morirne, ma portando il testo al successo. Manhattan Murder Mystery (Misterioso omicidio a Manhattan, 1993) voleva invece mischiare la newyorkese commedia di coppia al suspense, risultando solo acco e petulante. Ultimo tra questi «divertimenti», piuttosto seri, Mighty Aphrodite (La dea dell’amore, 1995), mentre Everybody Says I love you (Tutti dicono I love you, 1996) mostra indizi di un pericoloso manierismo, e vacuità. Ecco in ne, per ora, due lm tra i più ambiziosi. Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti, 1990), d’ambiente ricco newyorkese, non era certo una commedia senza pretese e affrontava la quotidianità e banalità del male in termini tragici, tutti nella «normalità» dell’oggi dei sazi, ma anche oltre e di sempre; parlava del Male e non del malessere, commedia e tragedia vi si fondevano, attorno ai personaggi di un documentarista frustrato nel lavoro e negli amori (Allen) e di un oculista di successo (Martin Landau) che un’amante nevrotica importuna e ricatta. Misfatti o crimini sono la loro scelta, e la domanda che Allen si fa e ci fa è quella eterna del «sono forse io responsabile per mio fratello?». Più vicende e risposte ci vengono mostrate, e alla ne il meschino può continuare a piangersi addosso nella sua meschina commedia, l’uomo di chiesa accettare dolorante lo stato delle cose e il mistero del mondo e del male, mentre l’oculista (assassino per interposta persona) elabora un facile ipocrita lutto e torna a orire. E il saggio che ha insistito su un approccio positivo alla vita, invece si uccide. Shadows and fog (Ombre e nebbia, 1991) insiste sul tema del Male attraverso la rievocazione di un’immaginaria Mitteleuropa notturna da cinema hollywoodiano. Nella notte uno strangolatore misterioso semina morte e molti personaggi si incontrano o si s orano in un andirivieni rotto a tratti dall’irrompere di folle vogliose di linciaggio. La vita è d’ombre che s’agitano nella nebbia e su essa incombe l’irrazionalità del male o la normale cattiveria degli umani: la legge, l’avidità, la prepotenza, la lussuria, l’istinto di morte. Sesso lontano dall’amore, chiesa lontana dalla religione, legge lontana dalla

giustizia. Piccola «Leggenda di Ognuno», a tratti di sapore bergmaniano, però leggera giocosa profana, Ombre e nebbia non dà risposta alla domanda su Dio, ma dà una ricetta, due aiuti per la sopravvivenza e per la lotta contro il Male: l’arte, sia pure come mera illusione; l’amore e la solidarietà nella coppia che si formi non chiusa in sé ma per dar sicurezza e rifugio a un bambino abbandonato, la sola famiglia che può, quasi evangelicamente, proporre un futuro. Autore polivalente, sicuro dei suoi mezzi, Allen porta la sua critica dentro il cuore della società e va oltre, indicandone qualche non transitoria via d’uscita. Gli si possono perdonare le deviazioni, le ipocrisie, le scese a patti; e si può ancora attendere molto dalla sua traballante, ma in de nitiva simpatica saggezza.

56. Rainer Werner Fassbinder È curioso come il paese che, negli anni del dopoguerra e dell’opaco benessere adenaueriano, aveva visto ancora un Brecht o un Adorno con la loro analisi del processo economico della storia, o con la loro analisi della frigidità dei rapporti nella società capitalistica (in qualche modo, per entrambi, della rei cazione) si trovasse ad avere, negli anni settanta e dopo la loro morte, autori così sfrenatamente passionali come un Fassbinder o un Herzog, o comunque attratti dai sentimenti e narranti sentimenti come un Wenders. Scherzo dialettico della storia o giusta rivendicazione della vita di fronte alle astrazioni della «politica» e della loso a, era comunque una reazione necessaria. Ma, in ogni caso, di cosa parlavano Fassbinder e il Wenders del suo breve buon momento se non, ancora, di rei cazione? Di Brecht e Adorno, maestri della generazione cresciuta all’analisi del sociale e alla politica nel corso degli anni sessanta, si erano sottovalutati gli aspetti meta sici e deistici del primo, e la distanza aristocratica del secondo. Così come era stata sopravvalutata la possibilità della liberazione con l’eterno rinvio di quella individuale a quelle collettive, appunto «politiche». In qualche modo, era stata questa anche la formazione di Fassbinder (Bad Wòrishofen, Baviera 1946 - morto a 36 anni per overdose di droga e di alcol, Monaco 1982), nato brechtiano, ma troppo «diverso» per accettare no in fondo la politica e la dialettica sulla sua pelle tormentata e dolorante di «diverso». L’incontro con Douglas Sirk fu per lui decisivo, con la coscienza che gliene derivò dell’importanza delle passioni e della necessità di parlare per il loro tramite, come il melodramma hollywoodiano era riuscito a fare, al pubblico più vasto. Il melodramma fassbinderiano ha però ben risentito di Brecht (se non di Adorno), e ha saputo collocare le passioni in contesti de niti socialmente ed economicamente, spostando

però l’accento non tanto sui rapporti di classe (e ancora meno sul progetto politico: della politica egli ha analizzato i rapporti tra individui che essa produce nel suo farsi professione e modello, le passioni) quanto sui rapporti di potere giocati a livello di simboli. Ha raccontato il dominio e il potere nel loro incarnarsi in sentimenti: quelli del bianco sul negro, dell’uomo sulla donna, del «regolare» sul «diverso», del dotato di beni sul privo di beni, del bello sul brutto, e quegli stessi che, all’interno di un gioco chiuso di rapporti interpersonali (ma ogni gioco di rapporti interpersonali profondi è un gioco chiuso) divide, anche tra «diversi» ed emarginati, chi più ha da chi meno ha, chi è più forte da chi è più debole. Forse il più acuto lm sui rapporti omosessuali mai girato - e uno dei migliori di Fassbinder - è proprio Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte, 1974), poco gradito ai sostenitori dell’utopia omosessuale. Ha narrato, sempre, la «politica dei sentimenti». L’incontro con Sirk, in un’epoca di crisi e superamento delle nouvelles vagues che ha visto lo sbandamento di tanti autori, lo ha spinto anche alla rivisitazione di un modo «classico» di narrare come bisogno di un ordine in cui inserire la propria turbolenza. Ma naturalmente Fassbinder, molto «più autore» di Sirk e in de nitiva assai poco hollywoodiano (meno che in alcuni lm tardi e decisamente mediocri, come Lili Marleen, 1980), si è servito di quest’ordine classico per affermare un discorso molto più moderno, e quindi narrando in modo molto più moderno. Le convenzioni del melodramma assumono nel suo cinema valenze nuove, non solo tematiche e strutturali. Le nouvelles vagues avevano portato nel cinema la soggettività dell’autore: la soggettività e, nel suo aspetto più incontrollato (e alla ne anche nefasto), il narcisismo. Dal narrare in terza persona al narrare in prima persona. Con la differenza che la macchina da presa è una mediazione che costringe al distacco, a una qualche oggettività. A Fassbinder furono più cari i personaggi femminili che i maschili e le sue donne sono più «diverse» che i suoi omosessuali, esprimono più compiutamente le contraddizioni della soggezione a un potere e dei pochi possibili modi di

reagirvi. Le sue Effi Briest, Petra von Kant, Lola, Nora, Lili Marleen, Veronika Voss ecc., sono vittime anche quando, reagendo, niscono per essere dominatrici, e Maria Braun in particolare, nel suo lm forse più controllato, Die Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun, 1978), che accetta la rei cazione pensando di controllare lei la situazione, e scopre che i suoi uomini l’hanno «trattata», fatta oggetto, «spartita» - con preciso corrispettivo monetario. Si ammazza, o è una disgrazia?, ma il risultato è lo stesso, la rivelazione c’è stata, la ne ne consegue. Anche l’amore è un valore di scambio. Tanto più in una società - delineata per «interni», perlopiù casalinghi - che passa dalla scon tta della guerra e dalle urgenze della fame al miracolo economico e al trionfo della compravendita di tutto. La legge borghese dice che l’avere conta più dell’essere, e nisce per coinvolgere tutto, per corrompere tutti. Restano solo, ai suoi margini, spazi-ghetto che essa bensì condiziona, luoghi di diversità tormentate e utopie di difficilissima realizzazione. Maria Braun si è spostata dai margini al centro, volendo però continuare a gestire uno spazio ai margini, non toccato dal centro. È l’amore a fregarla: quello del ricco, che «compra» il suo uomo per allontanarlo da lei. E questo che ella non tollera, è lì che crolla la sua presunta autonomia, la padronanza, che presumeva di aver raggiunto sul proprio destino. Anche la sua diventa, come quella di tutti gli eroi ed eroine fassbinderiani, una vita persa. Occorrerà fare dei titoli, proporre delle periodizzazioni. La fase dell’Antitheater e del «formalismo informale», di piccoli lm di gangster, che conchiude con l’autori essione anche «professionale» di Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa, 1970). I melodrammi «freddi» o «raffreddati»: annunciati da Katzelmacher (Terrone, 1969), sul potere del tedesco sull’immigrato, ed evolutisi con Angst essen Seele auf (Tutti gli altri si chiamano Alì, 1973), amore tra una tedesca d’età e un immigrato solo, un amore scandaloso, o con Il diritto del più forte, storia di omosessualità e di potere sui corpi. Gli adattamenti letterari - il bellissimo Effi Briest da Fontane (1974) modello di come si dovrebbe adattare un classico letterario, l’eccessivo Despair da Nabokov (1977), il

mediocre Lola da Heinrich Mann (e da Sternberg, 1977), la Nora Helmer da Ibsen per la Tv (1973), il provocatorio e teatralmente sontuoso Querelle da Genet (1982), il movimentato e diversi cato sceneggiato Tv da Berlin Alexanderplatz di Dòblin (1980) affascinato e affascinante nella ricostruzione di un’epoca, e su questa scia anche Mutter Kusters fahrt zum Himmel (Il viaggio in cielo di mamma Kiister, 1976), omaggio al lm di Piel Jutzi molto «berlinese» del 1929), e anche un altro lm «di donne» come Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss, 1981). Tra gli altri ritratti di donna si deve ricordare Die betteren tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant, 1972), girato in dieci giorni, molto teatrale, molto acuto, a tratti esplosivo nell’analisi di un confronto tra donne. Ma questo era cinema povero, di «prima del successo» come poveri, frenetici, controllati, freddi, aggressivi, «cattivi» furono Chinesisches roulette (Roulette cinese, 1976), d’ambiente borghese, o Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana, 1978), quasi autoparodistico. Attorno alla politica e alla cronaca ruotavano In einemjahr mit 13 Monden (Un anno con 13 lune, 1978) o Die dritte Generation (La terza generazione, 1979), aggressivo e benvenuto demisti catore delle logiche del terrorismo, come altrettanto inatteso era il suo episodio per il collettivo Deutschland im Herbst (Germania in autunno, 1978) una autocoscienza di gay, in mezzo a sollecitazioni alle prese di coscienza politiche. Il cinema di Fassbinder è sregolato, viscerale, autobiogra co ma ha vissuto da ultimo il rischio di un rientro nella norma del sistema economico e linguistico dello spettacolo in cui la morte improvvisa gli ha impedito di assestarsi. Ma il suo cinema migliore - bello o brutto, freddo o caldo - è comunque un cinema di passione e la sua macchina da presa è essa stessa passionale. È un cinema di estrema partecipazione ai sentimenti dei personaggi mostrati e oggettivati dalla macchina. Questi personaggi la vincono su tutte le teorie e i progetti. Ci sono, suscitano il nostro amore o la nostra ripulsa, la nostra

tenerezza o la nostra antipatia come quelli del melò sirkiano, del feuilleton e del romanzo dell’Ottocento. Ma questo perché sempre abbiamo la coscienza che essi sono nostri specchi (e quanti specchi, nei lm di Fassbinder!). Non ci sembrano stereotipi che mimano, ma realtà in azione. Un’azione senza sbocco. Vite perse, come si è detto, private soprattutto della possibilità di esprimersi e di espandersi, di trovare attorno a sé la possibilità di vivere e non solo di farsi vivere, di essere soggetti e non oggetti di un ordine. Il Male non è in loro, è in un’organizzazione del mondo che li schiaccia e costringe, che tarpa loro le ali. (Gli uomini alla lunga più veri e sentiti, capiti dalle donne che in Fassbinder, salvo forse Maria Braun, risentono di una tenerezza e di un bisogno materno che è assenza e condanna: ma è forse un caso se, nonostante tutto, ci appaiono più vere le sue donne che le eroine, mettiamo, della von Trotta?). «Si può dire con Rousseau che è la socità a renderci malvagi», ha detto una volta Fassbinder. Si può non esserne convinti, ma certamente questa è la dimostrazione di una tensione e di un’aspirazione «politiche» del regista, qualora si intenda per «politica» qualcosa di diverso da una mera logica di potere (e di violenza, menzogna, sopraffazione), e insomma la critica attiva della politica in tutti i suoi effetti.

57. Wim Wenders Alle spalle del nuovo cinema tedesco, a dargli solidità e teoria, ci sono loso e sociologi e una ricca oritura letteraria e teatrale; c’è insomma una radicale coscienza delle maggiori contraddizioni. Anche di quelle dell’operare culturale e artistico. Pur diversi per ispirazione e scelte, i registi sono uniti in un progetto tecnico-organizzativo comune. Si potrebbe distinguere i loro prodotti tra un prima e un dopo l’esplosione e caduta del ’68. Prima, le opere più fragili, ma anche quelle più ardue e «teoriche». Tra queste, soprattutto Nicht versöhnt (Non riconciliati, 1965) di Jean-Marie Straub e Die Artisten in der Zirkuskuppel: ratios (Gli artisti sotto la tenda del circo: perplessi, 1968) di Alexander Kluge, ancora, in modi propri, «dialettiche» e «brechtiane». Dopo, dentro la crisi di una generazione scon tta, quelle più mediate e comunicanti, neoromantiche, socializzanti. La difficoltà del vivere tedesco vi trova accenti gravi e dolenti, sia nel melodramma di un Fassbinder sia nell’estremismo volentieri barocco di un Herzog, nella registrazione di comportamenti al punto di scoperta di un Handke o nella descrizione dei meccanismi più interni e ambigui della sinistra di uno Schneider sceneggiatore di Hauff ecc. L’«autunno» della Germania ha cantori anti-naturalisti, a loro modo portatori di una dialettica pur dopo la crisi (e, per alcuni, la ne) della dialettica. Dopo, ci sarà per Reitz la possibilità di fare i conti, di tirare le la della storia. Wim Wenders trova posto in queste pagine grazie a tre lm della prima metà degli anni settanta, perché è un regista molto rappresentativo di quegli anni. Nato a Dusseldorf nel 1945 è stato l’autore di una trilogia che ha acquistato forza di riferimento collettivo anche fuori della Germania, per tutta una generazione: Alice in den Städten (Alice nelle città, 1973), Falsche Bewegung (Falso movimento, 1974, lettura moderna del «giovane Meister» goethiano) e Im Laufe der Zeit (Nel corso del

tempo, 1975). Preceduta da un adattamento da Handke, Die Angst des Tormans beim Elf meter (La paura del portiere prima del calcio di rigore, 1971) e seguita da Der amerikanische Freund (L’amico americano, 1977, un giallo da Patricia Highsmith) e da uno struggente lm-documentario sulle ultime settimane di vita di un vecchio regista del «romanticismo» americano, Nicholas Ray, Lightning over water. Nick’s Movie (Lampi sull’acqua. Nick’s film, 1979). La mediazione con l’America - «gli americani hanno colonizzato il nostro inconscio», dice uno dei due protagonisti di Nel corso del tempo, e allude soprattutto al cinema e alla musica - avviene attraverso Fritz Lang, un tedesco. E certo una riconciliazione, una scelta di campo, una dichiarazione di appartenenza a un’area culturale. In L’amico americano l’amicizia dei due protagonisti (Bruno Ganz e Dennis Hopper) non è paritaria: il secondo ha il potere, è in de nitiva il corruttore. L’America che si presenta allo sguardo vergine dei protagonisti di Alice nelle città, una bambina e un giornalista, è fascinante e repellente, già consumata, parte di lì il tentativo di un «ritorno a casa» dopo la veri ca della sua consistenza solo immaginaria. E l’«inconscio americano» di Bruno (Rudiger Vogler) e Robert (Hanns Zischler) in Nel corso del tempo non li libera certo da un es e un super-io tutti europei. È questo il lm più celebre e più maturo di Wenders. La trilogia è insieme storia di viaggi (road-film, reise-film) e di apprendistato; il viaggio è in zone di frontiera, l’apprendistato non quello a una «presa di coscienza» ma a come sopravvivervi dentro da «adulti», dopo la caduta delle illusioni nel grande cambiamento. Nei primi due lm, viaggio e apprendistato sono più critici angosciati dilacerati. Ritrovarsi è ben difficile, la casa dove tornare semplicemente non c’è più. Nel terzo, l’itinerario è ancora morale, come in Lang, ma cerca la mediazione. Si tratta insomma di de nire come vivere in una vita impossibile da vivere. Bruno ha scelto (il camion, il cinema, la frontiera) la sospensione della scelta: se non esiste pienezza storicamente raggiungibile, stare il meno peggio che si può nella non-pienezza. Per Robert il viaggio è la parentesi, il

modo di ri ettere veri carsi prepararsi a un ritorno ad affrontare, vivendole, le contraddizioni. Non contano più le differenze di classe, né può più esistere per alcuno un’utopia. Il viaggio tedesco, di sala cinematogra ca in sala cinematogra ca (un cinema che muore), veri ca un’afasia (la perdita della comunicazione, anche del cinema), l’inquietudine del ’68, la difficoltà dell’incontro con la donna (grande presente-assente nella vita dei due). Si tratta in de nitiva di elaborare modi di vivere nel presente, pessimisticamente determinati ma pur vivi. Sopravvivere senza rinnegare. «Nel corso del tempo» qualcosa può cambiare, la ricerca può portare a nuove scelte. La conoscenza non deve uccidere («la morte non è una soluzione», diceva Lang, e un protagonista minore del lm aggiunge: «esiste solo la vita, la morte non esiste»). Con questi lm Wenders sembrava proporre difficoltà ben reali all’attenzione dei suoi stretti contemporanei, cioè della sua generazione, e cercare assieme a loro lo spazio di una sopravvivenza non misti cata. Avrebbero potuto essere un punto di partenza signi cativo per una positiva uscita degli anni settanta dalla crisi e ne dei movimenti. Ma Der Stand der Dirige (Lo stato delle cose, 1982) accentuava con la ri essione sul cinema la tentazione del losofeggiare e lo sbocco nel metacinema, Hammett (1983), prodotto da Coppola e girato negli Usa, fu uno stilizzato confronto tra letteratura e cinema, tra un Hammett «vero» secondo i canoni del cinema (quindi personaggio) e un Hammett «vero» secondo quelli della letteratura da lui elaborata e illustrata; fu un esercizio contrastato e alla ne super uo. E con Paris, Texas (1984) l’America non è più cinema ma terra aperta di una ricerca misticheggiante, percorsa da simboli e allegorie come tutta l’opera successiva, che lo ha consacrato autore di culto per un’intellighenzia ripiegata e disimpegnata, narcisisticamente devota all’arte come via di scampo da una realtà che non si riesce più a capire e ad agire. Wenders vuol ora ri ettere sul destino dell’umanità. Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987) è il primo tassello di un’ideale seconda trilogia che comprende Bis ans Ende der Welt (Fino alla fine del mondo,

1991, girato per buona parte in Australia) e In welter ferme, so nah! (Così lontano, così vicino, 1993), che mischia il Vangelo di Matteo, Gorbaciov, Celentano, Lou Reed e Dostoevskij - molto «poetica» e molto «meta sica», ma anche vieppiù trasandata nella forma, confusa e presuntuosa nelle affermazioni e nelle ambizioni. E le ultime operazioni, sempre più magniloquenti, non aggiungono ma continuano a togliere al rispetto che in altri tempi si era conquistato (e End of violence, 1997). Le difficoltà o impossibilità della coppia, le difficoltà o impossibilità del cambiamento sociale e culturale hanno spinto Wenders, guru vieppiù convinto del proprio ruolo, a cercare rifugio in una caccia al sublime e al profondo che usa e logora le più spiritualistiche nostalgie della forza del sé come medium di sentimento e pensiero, vaso di futuribili intuizioni sacre e profane, teologiche e scienti che: i più vistosi riporti di un kitsch post-romantico assai gradito alla viltà della cultura borghese e piccoloborghese della ne del secolo e del millennio, più che mai bisognosa di giusti cazioni e nobilitazioni.

58. Martin Scorsese Quando la cine lia s’innesta su un’esperienza forte di vita, il cinema che ne deriva può essere l’arte che riesce a indicare al suo tempo di quali dilemmi esso si nutra, quali sono le sue profonde contraddizioni. Non è una ricetta a priori, è una lezione a posteriori che ben si adatta a Martin Scorsese. Egli (nato a Long Island, New York, nel 1942) è cresciuto nelle strade della metropoli glio di immigrati siciliani, come il suo futuro amico e coetaneo Robert De Niro, e aveva come lui, quale futuro possibile, la scelta tra «diventare gangster o diventare prete». Li ha salvati entrambi l’amore per il cinema, frequentato dalle parti della New York University, dove si sono conosciuti. Cresciuti dunque nella strada e non nell’ovatta del benessere, il cinema è stato il loro modo di conoscere, il loro modo di affrancarsi da un destino probabile. Il peso della realtà era però troppo grave perché essi potessero dimenticarlo. In Scorsese la fascinazione del cinema, luogo dell’immaginario, ha dovuto fare i conti con l’esperienza precoce della difficoltà del vivere. Il cinema non è solo il mondo del sogno. Come introiettando l’antico dilemma Lumière-Méliès, la sua opera oscilla tra l’immediatezza del reale e l’impellente bisogno di narrarlo e il piacere della deformazione inventiva. Anche per questo vi è così presente, sullo sfondo dell’amata città di New York, di cui è stato il maggior narratore degli ultimi anni (Allen ha raccontato solo la Manhattan degli intellettuali) e a anco della descrizione del mondo dei gangsters più normali e più veri, e non per questo meno crudeli, e con il controcanto del rovello religioso, ha posto nella sua opera il richiamo al fascinoso, ambiguamente fascinoso mondo dello spettacolo. Tra il dovere di narrare e rivelare la realtà e il piacere di trasfonderla in spettacolo, Scorsese ha scelto una via mediana di rischioso equilibrio,

trovando quasi sempre il tono giusto e sollecitando il nostro rispetto e la nostra curiosità anche quando non ci è riuscito. Dopo alcuni cortometraggi tra i quali, fortemente autobiogra co, It’s not just you, Murray (Non sei tu, Murray, 1964) che ci appare come un primo abbozzo di Mean streets, ha debuttato nel lungometraggio con un lm in più fasi: Who’s that knocking at my door? (Chi sta bussando alla mia porta?, iniziato nel ’65 e completato nel ’69), vagabondaggio di tre ragazzi, uno dei quali è cattolicamente messo in difficoltà dalle donne e si rifugia in una religiosità quasi fanatica. Tra una fase e l’altra di questa lavorazione, Scorsese è stato in Europa e ha lavorato in Olanda per il cinema e la Tv. Al ritorno, completato il lm cui dà una forma frantumata, «d’avanguardia», collabora con Wadleigh (suo amico del corso di cinema, come Mardik Martin, suo assiduo sceneggiatore, e Brian De Palma) per Woodstock (1970), e partecipa alla realizzazione di un lm militante. Poi Corman lo chiama nel suo gruppo a lavorare nel cinema professionale. Boxcar Bertha (America 1929: sterminateli senza pietà, 1972) non doveva esser niente più che una variante del Clan dei Barker di Corman, ma Scorsese, anche se non molto a suo agio, vi sa immettere un che di bizzarro e abbondanti elementi di cine lia. Soprattutto impara a reggere un lm, a costruire una storia. Del ’73 è Mean streets, il lm che davvero lo impone. Qui la cine lia passa in second’ordine, quel che conta è la descrizione di una vicenda collettiva, di un ambiente: la Little Italy che egli ben conosce, descritta con dolorosa e profonda comprensione. È la storia di giovani la cui cultura è cattolica e maschilista (e ma osa), interpretati da due amici, Harvey Keitel e De Niro. In Keitel troviamo il personaggio chiave di Scorsese: il cattolico che tenta di salvare l’amico pazzoide, che è tormentato da crisi religiose, che non sa comportarsi con la sua ragazza se non secondo gli usi dell’ambiente. Il cinema ha già raccontato storie del genere, ma dentro i canoni di Hollywood, Scorsese li supera perché quello è il suo mondo e quella è stata la sua cultura. Quadro

impressionante di sottoproletariato urbano, ne mette in luce l’autodistruttività, la chiusura, le ossessioni. Alice doesn’t live here anymore (Alice non abita più qui, 1974) è nuovamente «hollywoodiano», prodotto dalla Warner. Un road-movie, ma in cui sono migliori le scene d’interni e un ritratto di donna sulla scia di tanti woman’s pictures del passato. A disagio nel paesaggio e in parte con il soggetto, Scorsese se la cava puntando sul personaggio, una Ellen Burstyn vedova con glio che insegue il suo sogno di cantante (modello Alice Faye e i suoi lm) e vi rinuncia per una sistemazione sicura non concludendo il suo viaggio verso la California. A New York, Scorsese dirige Italianamerican (1974), lunga intervista ai genitori sul loro passato che, assieme ad American boy (Ragazzo americano, 1978), ritratto di un amico, un comune american boy, formerà American scrapbooks (Brani di vita americana). Con Taxi driver (1974) rinuncia, invece, alla storia del suo mondo che ha trattato per no in termini di storia orale, ma non rinuncia a New York. Le sue ambizioni si fanno più grandi. Fa scrivere la sceneggiatura a Paul Schrader che vi porta la sua cultura europeizzante, il suo esistenzialismo (uno dei modelli per il lm è stato La nausea di Sartre), una formazione religiosa di tipo calvinista. Il tassista De Niro è un santo fallito, un personaggio dostoevskiano, un reduce del Vietnam la cui follia omicida di vendicatore non ha, però, nulla a che vedere con quella di tanti lm di quegli anni. Vittima di un’impossibilità a realizzarsi, spettatore solipsistico di un mondo allo sfacelo, egli vi interviene coi modi della pazzia, del rituale, della rigenerazione nel sangue attraverso l’eliminazione di chi insozza la purezza primigenia, la verginità del mondo e dell’uomo. La realtà che vediamo, la vediamo coi suoi occhi. Ma Scorsese è assai lucido nel tenere le distanze, sa portarci alla comprensione, senza identi cazione, e forse nemmeno compassione. L’intellettualismo di Schrader è stato ottimamente metabolizzato da Scorsese. La differenza tra loro era, dice il regista, che «Schrader pensava ai samurai, io alla cronaca nera del “Daily News”».

La New York del lm successivo è di nuovo hollywoodiana, nella rivisitazione di un genere ma anche di un’epoca, rigorosamente ricostruita in studio: New York New York (1977) gioca sulla convenzione del melodramma, sullo show-business e sulle «mogli dell’orchestra», come sul con itto tra l’integrazione nello show-business e la difesa della creatività musicale ai margini. Sfoggio di regia affascinante, è seguito da un altro lm «musicale», quel e last waltz (L’ultimo valzer, 1978) che entra in un genere recente, il lm su un complesso o su una performance (ne è protagonista e Band), ma al contrario di Woodstock e dei suoi epigoni trascura totalmente il pubblico, penetra nei rapporti dei musicisti tra di loro e con la loro musica. Dopo la musica dei padri che i gli hanno vissuto solo attraverso Hollywood, viene quella della sua generazione, una generazione la cui creatività giovanile va esaurendosi e che lo sa. A un altro genere classico, il lm di boxe, sembra rifarsi Raging Bull (Toro scatenato, 1980), ma non ne rispetta affatto le regole. È in realtà il ritorno, più distanziato e maturo, al mondo più vero di Scorsese: quello degli italoamericani, quello della lotta per la sopravvivenza e l’affermazione. Interpretato da un De Niro impressionante per commistione di Actors’ Studio e nevrosi contemporanea con vecchie lezioni naturaliste, racconta vita e carriera di Jake La Motta, perfetto ritratto del maschilismo italiano, e il suo difficile trapianto americano nel quale il «nuovo» non intacca la chiusura autodifensiva del «vecchio». Dietro il quadro socioantropologico che Scorsese traccia sulla base di una sceneggiatura che, non a caso, vede uniti Schrader e Martin, il suo notturno non-eroe ripropone bensì dilemmi più ardui, quelli stessi del Keitel di Mean streets, del De Niro di Taxi driver, su un fondo dichiaratamente cattolico: il problema dell’esistenza, del proprio posto nel mondo. Quell’oscillazione che è stata tipica di Scorsese, tra la Hollywood di un tempo (e di oggi), trionfo dello spettacolo e dell’immaginario, e la realtà di una storia propria e collettiva, comunitaria, trova qui la sua sintesi e soluzione. Vengono dopo due appassionanti «commedie»: il duro e preciso e king of comedy (Re per una notte, 1982), che affianca a un Jerry Lewis

grande divo il fan scatenato - De Niro, e con alcuni tratti del «taxi driver» ribaltati - e che mostra tutta l’alienazione del consumatore di media nella volgarità della odierna cultura di massa, l’interna malignità del sistema e il costo dei suoi miti, e il più modesto nelle ambizioni ma non meno efficace, e a suo modo formidabile e intelligentissimo, Aer hours (Fuori orario, 1985), che segue un giovane «colletto bianco» nella sua notte brava a Soho, il quartiere degli artisti e degli irregolari, e che, nelle cadenze di una farsa eccentrica, a spirale, stridente allucinata senza messaggi, si fa racconto di frustrazione e paura metropolitane, in una New York espressionisticamente deformata da questo grande cineasta della città e dei suoi recessi sici e morali. Alla ne del suo «calvario» piccoloborghese ed edonista il protagonista sa cosa capita a chi esce dai suoi binari e si concede sortite pericolose come nel vecchio La donna del ritratto langhiano. Si ritrova coperto di gesso, plasti cato, scambiato suo malgrado per un’opera d’arte alla Segai. E qui il cattolico Scorsese sembra incontrare l’umorismo dell’ebreo Kaa, e non è dir poco. L’episodio di New York Stories (1989), ispirato ai diari dell’amante di Dostoevskij, è acutissimo nel tornare sul tormento di coppia e sulla sicità della creazione artistica (evoca il combattuto e violento rapporto di un pittore con la sua allieva e amante), ma è anche un nuovo omaggio, una nuova perlustrazione della grande e amata città. Film in sottotono appare anche e colour of money (Il colore dei soldi, 1986), che riprende con lo stesso attore (Paul Newman) il personaggio di Lo spaccone di Rossen in termini crepuscolari, confrontandolo con un irrequieto e stolido allievo della nuova generazione, e valorizzando senza isteria la forza della persuasione e tensione intima dell’individuo nei confronti della corruttibilità cinica di un ambiente. E un altro lm a suo modo divagante fu per Scorsese il remake de Il promontorio della paura, di Jack Lee ompson, un lm del ’62 diretto con relativa correttezza ma magni camente interpretato da Robert Mitchum e Gregory Peck (storia di un cattivo soggetto, in do, ossessivo, che vuol vendicarsi poco a poco dell’avvocato che

l’ha fatto condannare e della sua borghese famiglia), rifatto da lui nel ’91 (Cape Fear, Il promontorio della paura) come mero esercizio di regia e di suspense che dovrebbe essere riscattato e non lo è dall’interpretazione di De Niro, assassino insidioso e «male» estremo della follia criminale, con un diabolico fascino che può irretire. Furono invece due ritorni in grande stile a New York il freddo reperto di vita quotidiana di piccoli gangsters italiani Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990), manovali del crimine, «picciotti» in tutto simili ormai ai loro colleghi italiani, con gusti consumi mogli piccolo-borghesi, di una banale volgarità e diversi dagli altri abitanti della loro strada, del loro quartiere, semplicemente perché il loro mestiere è il delitto. Nei cui confronti non hanno remore, alcuni no a una sorta di sguaiata follia. Riannoda con Mean streets, questo lm, ma tra i «bravi ragazzi» di oggi non ce ne sono con dubbi morali, con tormenti esistenziali o religiosi, ci sono solo funzionari e impiegati del crimine, bassi professionisti il cui cinismo è giusti cato solo dal contestuale cinismo di tutta una civiltà cui è consonante, di cui è frutto e conseguenza. In Casinò (Casinò, 1995), perlustrazione della volgarità ma osa e istituzionale di Las Vegas e del modo in cui una civiltà ha al suo centro, oggi più che mai, il feticcio e moloch del denaro, questa durezza di sguardo, ma con venature sarcastiche e pop, si allarga a un contesto più metaforico e totalizzante. In e age of innocence (L’età dell’innocenza, 1993) c’è la consueta abilità di Scorsese nel descrivere i comportamenti di un gruppo, ma rivolta a ben altro ambiente. Tratto da un romanzo di Edith Wharton sulla borghesia newyorkese degli anni settanta dell’Ottocento, il lm è un miracolo di tessitura e di immagini, malinconico struggente raffinato meglio di un Visconti nel rievocare un’epoca e i suoi ambienti, i suoi usi e costumi - una borghesia nel suo trionfo e nella sua peculiare prigione, diversa dall’europea perché puritana, autodifensiva per necessità, durissima nei confronti di chi può metterla in crisi nelle regole del comportamento privato perché sa che la deroga potrebbe aprire ad altre crisi e più vaste. I suoi modi di agire da clan e da élite non sono meno complicati strati cati avvolgenti di quelli

dei delinquenti di Quei bravi ragazzi. Leggi non scritte proteggono il gruppo, chi ne fa o ne vuole far parte non può derogarne e deve adeguarsi - la moglie ebrea del ma oso di Quei bravi ragazzi alla pari della donna chiacchierata, separata, europeizzata di L’età dell’innocenza. Nella Wharton Scorsese ha inaspettatamente trovato una congenialità, quella di due studiosi del costume e analisti sociali e insieme di evocatori di atmosfere e sentimenti, nell’attenzione all’intreccio di riti signi cativi e di repressioni e deviazioni del cuore. Il lm più discusso di Scorsese è stato a tutt’oggi L’ultima tentazione di Cristo (e least temptation of Christ, 1988), adattamento da Nikos Kazantzakis che ha provocato l’ira delle chiese. La «tentazione» è quella che Cristo in croce immagina di seguire, scendendone per scegliere una vita comune al anco di Maddalena e fondando con lei una comune famiglia. È la tentazione della normalità, del togliersi dalle spalle il peso del mondo. Visionario e affascinante, un po’ isterico nel voler intrecciare alti temi religiosi e una cultura tutta di oggi, questo lm è tuttavia determinante per la comprensione di Scorsese e della sua poetica, qui un po’ imbrigliata dalla collaborazione con Schrader. Grande narratore della più cruda e profonda realtà del nostro tempo, rivelatore delle sue norme più abiette e dal basso dei suoi proletari incanagliti da una società basata sul denaro e sul successo, Scorsese ha l’immenso pregio di una visione tuttavia religiosa dell’esistenza e si pone le eterne grandi domande mentre narra con sconsolata durezza, non priva di empiti di rivolta, la ricerca del singolo di una via di speranza, resa assai difficile dalla pochezza delle proposte e dei progetti che l’epoca offre. Ragiona sui destini di nostri comuni contemporanei dal cuore della metropoli capitalistica, ragiona cioè sul nostro comune destino.

59. Gianni Amelio Gianni Amelio (S. Pietro Magisano, Catanzaro, 1945) viene dall’esperienza dell’aiutoregia (per autori di western all’italiana, per il De Seta di Una vita a metà…) ed è forse, nella storia del cinema italiano, uno degli ultimi ad aver fatto questa gavetta; ma è stato anche uno dei primi a rompere la tradizione dell’aiutoregista-allievo di un regista, suo continuatore. Era un cine lo accanito, voleva diventare «autore» secondo i dettami della nouvelle vague, ma, come i francesi, trovava i suoi idoli più in America che in Europa. Già questa era una contraddizione, che i francesi avevano ben presente: avere a modelli gli uomini degli studios e volersi servire della camérastylo. In Italia, per di più, dove una vera nouvelle vague non c’è stata e i giovani registi degli anni sessanta dovevano coniugare tra loro troppe esigenze, non si potevano permettere una piena libertà (eccetto Bertolucci e Bellocchio, il primo dei quali è stato di diretto e con ittuale riferimento per Amelio, che girò sulla lavorazione di Novecento il suo Bertolucci secondo il cinema). D’altronde Amelio non sembrava amare troppo gli italiani, e neanche i francesi, ma proprio gli americani. Altra contraddizione: tra cinema e televisione. Gli esordi di Amelio avvengono in televisione (La fine del gioco, 1970: un regista televisivo e un dodicenne di riformatorio, in treno, e il regista va in crisi di ruolo; La città del sole, 1973: attorcigliata lenta sensuale divagazione su Campanella; La morte al lavoro, 1978: malato di cine lia; Effetti speciali, 1978: come il precedente e peggio; tutte opere in via di de nizione, tormentate da biogra a e cine lia e alla ricerca confusa di una strada personale, troppo dentro il testo o troppo oltre il testo). Alla televisione tornerà per I ragazzi di via Panisperna (1988), sul gruppo di giovani sici degli anni trenta attorno a Fermi e Majorana - e alla diversità degli approcci di questi due: metodo contro intuizione, etica contro passione. Film misurato, via via

più serio e profondo, su un nascosto con itto di personalità e morali, e anche con itto di atteggiamenti tra un quasi padre e un quasi glio. Eccolo il tema forse centrale del cinema di Amelio, anche se è più esplicito altrove: il rapporto tra gli e padri o tra giovani e adulti. Esso permea il suo cinema, da La città del sole (1973) a La fine del gioco (1970), dal Piccolo Archimede (1979) - tratto da un racconto di Aldous Huxley messo in scena con attentissima calibratura ambientale e soprattutto affettiva, psicologica - a I velieri (1983, da un delicato racconto di Anna Banti), ma soprattutto è centrale nei lm più personali di Amelio, Colpire al cuore (1983), e i due lm della maturità, Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994). In mezzo, diverso e «sciasciano», Porte aperte (1990) lascia anch’esso spazio a un dialogo marginale, in una scena aggiunta dal regista e però fondamentale, tra il vecchio giudice e un ragazzino, essenziale non alla trama ma al sapore stesso del lm. Porte aperte ricostruisce una vicenda giudiziaria nella Palermo degli anni trenta ed è un lm contro la pena di morte, ma non è questo che più interessa l’autore, che distanzia sia Sciascia che Volonté per riacquisirli in una sensibilità più dolente, sotterraneamente scon tta, oltre il pamphlet o la protesta, su convinzioni che nascono «tra le righe», «nelle pieghe» di una società ombrosa e mortuaria; ed è un dialogo con la morte quello che il giudice impersonato da Volonté instaura con il lm, lottando contro la morte delle speranze e del futuro, e ovviamente contro la morte per legge. Era un’opera di commissione anche questa. In partenza anche Colpire al cuore doveva essere qualcosa di diverso da ciò che è diventato, un lm sul terrorismo e non un lm sul rapporto gliopadre, sul sospetto di un glio nei confronti del padre. Le oscure proiezioni del ragazzo di Colpire al cuore; il «piccolo Archimede» che se non morisse potrebbe diventare forse un Majorana; il delinquentello di La fine del gioco; il giovane sceneggiatore di Effetti speciali; come i bambini del Ladro di bambini hanno tutti bisogno dell’adulto anche quando non vorrebbero, ma è soprattutto l’adulto ad aver bisogno di loro. Il regista può placare la sua inquietudine e il suo «rimosso»

d’infanzia solo quando mostra il non-detto del rapporto «pedagogico» e «biologico» tra le generazioni e la sua necessità e ambiguità, e lo ssa come un modo di sfuggire all’insoddisfazione dell’irrealizzazione, alla sete dell’armonia e dell’utopia, al desiderio di fusione innocenza-maturità. Il ladro di bambini è stato il lm in cui Amelio si è spinto più avanti in questa direzione, ed è quello che lo ha affermato come il miglior regista della sua generazione e, probabilmente, il miglior regista italiano sul nire del secolo. La contraddizione tra «sistema» e «fuga dal sistema» è in lui vitale, è dialogo tra una ricerca personalissima e talora in ombra, e una cinematogra a tuttavia spettacolare e mediocre come l’italiana, dentro una società corrotta e moralmente e intimamente sbandata. Nella storia di un giovane carabiniere che deve trasferire da Milano al Sud per consegnarli a un istituto una ragazzina e il fratello minore, strappati alla madre che prostituiva la glia, il regista conserva una libertà di costruzione e di accostamento al soggetto permessa da una solida struttura di riferimento, e mentre ci mostra un paese evidente tuttavia non visto dai più riscopre per noi la verità reale del paesaggio, di un paesaggio sconciato. Dopo la scena del ristorante in Calabria, dove più generazioni sembra si siano succedute «evolvendo» verso una progressiva disumanizzazione e una banalizzazione dell’ambiente e delle coscienze, il lm si apre al sogno e all’utopia, e il rapporto tra il giovane carabiniere e i due bambini offesi dalla vita sembra l’embrione di una famiglia non abituale e non chiusa, non necessariamente basata sulla procreazione, non obbligatoriamente «sessuata», una strana famiglia che può essere vera, ma che il mondo e la legge non possono accettare. Lamerica, l’anno dopo, ci ha portati in Albania al seguito di un furbo imprenditore che lascia lì un suo giovane scherano a coltivarsi un vecchio prigioniero politico, che potrebbe diventare la chiave di volta di una truffa «legale». Ma il vecchio è in realtà italiano, fermo in Albania dal ’45, che fugge smemorato, convinto di essere ancora nel ’45, alla ricerca della casa perduta. Nel rapporto tra il giovane italiano di oggi -

immemore, mediocre, corrotto ormai n nell’anima, vecchio - e il vecchio contadino che è rimasto quello dei vent’anni, che è l’ingenuità del popolo d’allora, confuso, generoso, giovane, e che sogna «Lamerica», è del dilemma del nostro paese che Amelio parla, per squarci grandiosi di storia ricostruita a ridosso del suo farsi. L’Albania è anche il nostro ieri che abbiamo dimenticato e ucciso. E l’Albania reale è corrotta non solo da mezzo secolo di dittatura stalinista ma anche dal mito del benessere «all’italiana» che le abbiamo comunicato via Tv. Film irrisolto e straordinario, primo lm di una nuova possibile storia del nostro cinema, di apertura sui dilemmi del nuovo secolo e di consuntivo doloroso e spietato su quelli del morente (la grande mutazione denunciata da Pasolini è il suo tema reale, soggiacente), Lamerica è meno controllato e armonico di Il ladro di bambini e meno aperto all’utopia, ed è però il punto d’inciampo di una storia, oltre il quale potrebbe esserci soltanto la dimostrazione dell’impossibilità del nostro mondo di proseguire, avendo ancora qualcosa da dire. Cipri e Maresco con Lo zio di Brooklyn ipotizzano semplicemente la ne dell’umanità, l’impossibilità di una nuova partenza.

60. Abbas Kiarostami Se il cinema ha un futuro, è grazie a registi come Kiarostami, capaci di reinventarlo partendo di nuovo dal grado zero dell’espressione, ma caratterizzati da ingenuità e da sapienza, da purezza e da malizia, da scoperta e da progetto che tengono ben conto di cent’anni di storia, e non incantati, non ricattati dalla novità della tecnica, dalle lusinghe del mercato. Kiarostami è tentato dal ruolo di demiurgo del regista-autore e pure ne arretra. Dialetticamente? diciamo piuttosto come chi comprende appieno il «peccato» che questa «tentazione» comporta, se realizzata, e allo stesso tempo la necessità che questa tentazione permanga, il bisogno di questa tentazione affinché il miracolo del cinema si realizzi, ancora una volta, come specchio di realtà e oltre la realtà, come registrazione e intervento, come rispetto e provocazione. Nato a Teheran nel 1940, originario della regione del Gilan dove ha ambientato alcune sue opere, impiegato alla polizia stradale, pittore e gra co, autore di lm pubblicitari e in ne, per molti anni, di documentari pedagogici per conto di un istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e dei giovani («Kanun»), Kiarostami è passato indenne dai tempi dello scià a quelli di Khomeini e del dopo-Khomeini, sa muoversi nella sua realtà con astuzia e pudore, e la sua ambizione di autore è altissima e tuttavia «modesta». È riassumibile forse - se è vero che l’opera prima di un grande è sempre rivelatrice delle sue tensioni originarie e primarie - nei soggetti del primo cortometraggio, Nar va kucheh (Il pane e la strada, 1970) e del secondo, Zang-e tafrih (La ricreazione, 1972). Nel primo, un bambino deve trovare il modo di schivare un cane, sulla strada che lo riporta a casa con un pane sotto il braccio e nisce per dargliene un pezzo; nel secondo, un bambino che è stato punito a scuola per aver rotto un vetro con una pallonata, deve trovare il modo di superare, per tornare a casa, un gruppo di

bambini che bloccano la strada giocando appunto a pallone, la sua passione, e l’unico modo di riuscrivi è di entrare transitoriamente e surrettiziamente nel gioco a costo di irritare il gruppo, la comunità che ha di fronte… In Mosafer (Il passeggero, 1974) un altro bambino, assistito da un amichetto, può recarsi solo con mille fatiche a vedere la grande partita della squadra amata, ma giunge alla meta morto di stanchezza, si addormenta e non la vede, anche se è poi pronto a raccontarla all’amico, a inventarla. Una qualche forma di menzogna può essere necessaria per non uccidere la speranza. Anche il cinema è, nella ricostruzione e nell’invenzione di una realtà, una menzogna, legata al desiderio di una realtà migliore. O, come nel lungometraggio Namay-e nazdik (Primo piano, o Close-up, 1990) al bisogno di inventarsi un’altra identità perché scontenti, dall’alto in basso della scala sociale, di quella che si possiede. Tutto questo Kiarostami lo presenta e lo «attua» senza il ricorso alla grande macchina del cinema, con il minimo dei mezzi che gli offre un paese povero e dentro la difficoltà, anzi, di un paese che è anche rigidamente censorio nei confronti dell’espressione artistica. Uno dei cortometraggi di Kiarostami, girato mentre lo scià cadeva e Khomeini trionfava, è vietatissimo, e racconta le reazioni di varie personalità di fronte a due «casi» di infrazione e punizione di bambini a scuola. E l’abilità con la quale Kiarostami ha dovuto imparare ad aggirare la censura potrebbe essere d’insegnamento ai registi dei paesi democratici che non riescono ad aggirare nessuna censura di mercato, o ad avvelenare nessun prodotto accettato, o per no a pensarne di non accettabili… Anche l’interesse per l’infanzia può apparire un pretesto, in questo quadro; un modo di dire cose da e sui grandi, a partire dalla condizione più rivelatrice di tutte dello stato di una società. Dei quattro lungometraggi a 35 millimetri girati da Kiarostami tra il 1987 e oggi, il più insolito è Close-up, già ricordato. Qui il cinema agisce dentro la realtà e cita se stesso, rubando, come nel neorealismo, dalla cronaca e ri-mettendola in scena. Un truffatore si è fatto passare per regista ingannando

una famiglia borghese, ed è stato scoperto e arrestato. Il regista lo intervista e intervista i testimoni e i truffati, reinventa la truffa con coloro che l’hanno vissuta, con i truffati e con il truffatore, e riprende il processo mostrando, insieme alla spinta del protagonista a voler essere altro e da più di ciò che è, la scontentezza di tanti dentro la società, che vorrebbero essere altro o da più anche loro. La nzione (la « ction») sta nella vita e delle sue debolezze, la «ripetizione» è chiusura, è l’insistenza della morte nella vita, e la ripetizione è una gura chiave di un cinema che può uccidere. I bambini di Kiarostami cercano, nell’ossessione della ripetizione sociale, una via di uscita, una crepa nel muro, guidati soltanto dal loro desiderio, dalla loro spinta di vita. La nzione (la « ction») è una risposta, ma di questa risposta non si può abusare, ché la realtà esige strategie più avvertite, ché la « ction» deve servire la realtà e non deviarla sul sogno, sulla manipolazione «autoriale» dell’altrui desiderio (ed economica, «produttoriale», delle frustrazioni dei pubblici). In Kh aneh-ye doost koyast? (Dov’è la casa del mio amico?, 1987), il lm che lo ha rivelato all’Occidente come all’Oriente dei ricchi (il Giappone), un complesso itinerario lega due bambini, l’uno che ha preso per sbaglio il quaderno dell’amico e ne cerca la casa, incontrando persone e perdendosi e in ne rinunciando, davanti alla casa, a penetrarvi, preferendo fare in casa sua anche il compito dell’amico. La semplicità non esclude, nella tortuosità del percorso, la progressione di un itinerario che ha qualcosa di misterioso e di ermetico, quasi di mistico. L’Amico è quello di una poesia che il lm cita, di Daryush Shayegan, ed è molto di più che l’amico concreto, allude a una ricerca più alta o profonda. Va Zendegi edameh darad (E la vita continua, 1992) è l’itinerario su una vecchia macchina di un regista e suo glio verso le zone colpite dal terremoto, verso il villaggio dei bambini del lm precedente, per sapere qualcosa del loro destino. Film limpidamente semplice e perfetto, il più rosselliniano di tutti, in esso la tortuosità del tragitto è a suo modo iniziatica, prova dopo prova, deviazione dopo

deviazione, ripetizione dopo ripetizione, blocco dopo blocco, nché non una rivelazione ma un’apertura si prospetta, concreta e insieme alata, realistica e non, che permette in ne al regista di consegnare gli attori al loro paesaggio, che permette loro di reimmergersi in esso in nali di splendente chiarezza e purità. Come accade anche in Zir-e Derakhtan-e zeytun (Sotto gli ulivi, 1994) dove si tratta della lavorazione di un lm a soggetto (e cioè di menzogna) e del corteggiamento cui il protagonista maschile sottopone la protagonista femminile, in ne conquistandola. Qui il regista narra gli adulti, e narra il desiderio e l’amore, ma dimostra anche, in qualche modo, la possibilità e la tentazione dell’intervento sulla realtà, della pressione sulla realtà. Il paesaggio nale con i protagonisti che vi si perdono è posto però sotto il segno di una rinuncia dell’autore e di una liberazione delle sue creature. Essi hanno trovato il proprio percorso, e il compito del regista-educatore è consistito nell’additarglielo, seminando, come nella vita (riproducendo la vita) il loro cammino di prove. La crepa esiste e il cinema deve aiutare a trovarla. Oltre lo specchio, è impresa di vita se riparte dal vero e contribuisce a liberare il vero dalla morte. Ta’m e guilas (Il gusto della ciliegia, 1997) parte dalla morte, anzi dalla tentazione del suicidio, per cercare di tracciare pazientemente e incertamente nuovi sentieri di vita.

Finito di stampare il 10 giugno 1997 per conto di Donzelli editore s.r.l. presso la StilGraf della San Paolo Tipogra ca Editoriale Via di Vigna Jacobini, 67/c - 00149 Roma