Clint Eastwood 888101808X, 9788881018086

Un nuovo libro su un autore classico. Un libro che affronta in forma imprevista e sorprendente uno dei grandi registi de

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Italian Pages 296 [250] Year 2012

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Table of contents :
Introduzione : la potenza dei nomi propri - De Gaetano, Roberto
Adozione - Cervini, Alessia
Amicizia - Dottorini, Daniele
Esemplarità - Venzi, Luca 1973-
Icona - Bruno, Marcello Walter
Inattuale - Canadè, Alessandro
Incarnazione - Roberti, Bruno 1955-
Perseveranza - Azzali, Alessandra
Spettralità - Cappabianca, Alessandro
Tragico - De Gaetano, Roberto
Filmografia -
Indice dei nomi e dei film -
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Clint Eastwood
 888101808X, 9788881018086

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Collana diretta da Roberto De Gaetano

Serie

Nomi propri

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CLINT EASTWOOD a cura di Alessandro Canadè e Alessia Cervini

Introduzione di Roberto De Gaetano

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Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di gennaio 2012 da Pellegrini Editore Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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indice

Introduzione. La potenza dei nomi propri di Roberto De Gaetano pag. 7 Alessia Cervini Adozione » 15 Daniele Dottorini Amicizia » 37 Luca Venzi Esemplarità » 61 Marcello Walter Bruno Icona » 85

Alessandro Canadè Inattuale » 107 Bruno Roberti Incarnazione » 119

Alessandra Azzali Perseveranza » 151 Alessandro Cappabianca Spettralità » 175 Roberto De Gaetano Tragico » 199 Filmografia » 221 Indice dei nomi e dei film » 243 5

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“Il giorno in cui avrò paura di rischiare non sarò più adatto a fare il leader”

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Introduzione La potenza dei nomi propri

C’è una sola condizione per cui oggi vale la pena occuparsi di un autore, e cioè non trattarlo come tale: non farne il punto d’origine, la fonte e il principio di unificazione di un corpus testuale. È necessario ribaltare la prospettiva, e trattare l’autore come il nome proprio di un mondo che lo sovrasta, lo eccede e lo origina. Nomi propri come etichette di mondi singolari, irripetibili: questi sono gli autori. Partendo da ciò, si possono e per certi versi si devono disegnare le coordinate di questi mondi. Il disegno tracciato nel presente volume è concettuale, e passa per la costruzione di un lessico (da “adozione” a “tragico”) a partire dal quale individuare la singolarità di un mondo, identificato da un nome proprio. Una singolarità che, misurata dalla generalità del concetto, assurge ad una potente universalità, cioè diviene esemplare e paradigmatica. I tratti singolari che compongono un mondo sotto la potenza generalizzante del concetto diventano universali. Quella che si definisce la posizione anomala di Eastwood rispetto al classico e alle forme generiche è esattamente questa: il suo cinema è un esempio unico di conversione singolare e specifica di un immaginario classico, e questa singolarizzazione passa per un processo di (ri)simbolizzazione: le forme si caricano di una forza simbolica che le sottrae 7

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Clint eastwood

al loro carattere immaginario, e alla declinazione ludica che questo assume nella contemporaneità (Tarantino). Se pensiamo al motivo della vendetta, centrale da sempre del cinema americano, che ne evidenzia il fondamento tragico, vediamo come la vendetta in Tarantino (Kill Bill) diviene il motore che alimenta in forma anche pretestuosa un pirotecnico intreccio di immaginari; in Eastwood invece tira in ballo la dimensione tragica dell’esistenza, cioè l’aspirazione mortifera del soggetto da parte di un passato traumatico al quale non riesce a sottrarsi, e dal quale potrebbe uscire solo riaprendo il tempo con la scelta di perdonare (Invictus) o di sacrificarsi (Gran Torino). Le storie di vendetta perseguita, riuscita, mancata, trascesa, non esibiscono solo l’immaginario “eroico” di chi, ignorando la legge, prova vanamente a ripristinare un equilibrio infranto, ma concernono la possibilità del costituirsi o meno di un’esperienza e dunque di un cambiamento, a partire dall’adesione o dal rifiuto di un atto ritorsivo da parte del soggetto (Mystic River, Gran Torino). Il fondamentale processo di iscrizione simbolica dell’immaginario classico che compie Eastwood lo colloca in una posizione unica nel panorama contemporaneo: nessun flirtaggio con i dispositivi di frammentazione ludica delle forme, contaminazioni ed effetti-specchio, ma una composizione che costruisce (perlomeno a partire da Gli spietati, ma con alcuni grandi esempi anche precedenti) un mondo dove immagine e azione sono sempre orientate ad esercitare tutto il loro peso simbolico nell’affermazione di una verità. Ora, la verità in Eastwood è sempre la verità del soggetto, che messo in situazioni eccezionali ha la 8

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Introduzione

possibilità di perdersi o ritrovarsi. In fondo Eastwood non fa film sull’America (a parte il fatto che ogni grande film americano è sempre anche un film sull’America), ma lascia emergere con una forza unica come l’America contenga in forma radicale, nei suoi valori, nelle sue pratiche di vita, nei suoi sogni, forme e condizioni, naturali e storiche, per cui un soggetto possa divenire tale, cioè realizzarsi, e dunque anche perdersi (dietro ogni perdita c’è comunque la possibilità di una ripresa), o – il che è notevolmente peggio – rinunciare a tutto questo e smarrirsi in una deriva ipermoderna e consumistica. Detto altrimenti, Mystic River, Gran Torino sono storie americane, ma non film sull’America, cioè ci dicono di come la giovane nazione americana, saltando le complesse forme di mediazione che regolano la vita sociale, ponga i soggetti alla prova dell’azione, e dunque in situazioni più vicine alla tragicità della condizione umana, che più che con il carattere formale della legge (che non ha rilievo in Eastwood), vengono a rapportarsi con la presenza di una regola, la necessità di una scelta, il carattere selettivo dell’“adozione” e dell’“amicizia”, quello fondativo della “perseveranza” e via dicendo. L’unicità dell’opera eastwoodiana è quella di mettere in immagine il processo che inscrive nella generalità di una situazione la singolarità di un processo. Questo processo, attivato da un evento traumatico o felice, definisce la verità di un soggetto nei confronti di se stesso e di chi gli sta intorno. Da Million Dollar Baby a Gran Torino, da Changeling a Hereafter non è in gioco null’altro che il percorso di un soggetto che nella solitudine o nell’incontro con l’altro cerca la strada che trasformi la sua singolarità contingente in qualcosa di universale, che per effetto di una scelta trascenda la condizione umana 9

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Clint eastwood

ferita, dolorosa e smarrita, e diventi tale, affermando una fedeltà irrinunciabile a se stesso e al proprio desiderio. L’incontro della boxeur e dell’allenatore, del vecchio operaio e del giovane ragazzo orientale, della giornalista francese e del veggente americano sono le occasioni esemplari che permettono ad un soggetto di scoprire se stesso attraverso il riconoscimento dell’altro: realizzarsi o redimersi, riscattando il presente e il passato (proprio e dell’altro) e aprendo il futuro. L’alternativa a questo è l’assoggettamento abbrutito ai dispositivi di potere che si fondano sulla violenza, esercitata su se stessi e sull’altro (Potere assoluto, J. Edgar), anche nelle forme di riconoscimento coatto (Changeling), o di costruzione paranoica del nemico (ancora J. Edgar). La singolarità contingente dell’incontro (quello e non altri, con un nome proprio e non comune) diventa occasione per far emergere la verità in un soggetto, che esclude ogni peregrinazione consumistica nel regno delle equivalenze generalizzate e degli oggetti intercambiabili. «Sei tu che io voglio» dice la pugile Maggie a Frankie: vuole un nome proprio e non un allenatore quale che sia, un “padre” e non semplicemente un agente che possa rispondere ad una mera logica di interessi. Nessuna economia dei corpi in Eastwood, semmai la loro restituzione come spirito, “fantasma”: il fantasmino-Casper che nel finale di Un mondo perfetto fa di Butch il padre che entrambi non hanno mai avuto. La cartolina dell’Alaska, dove risiede il padre di Butch, diventa segno del potere di alienazione immaginaria dell’“iconico” in cui si inscrive la mancanza. Un luogo viene ad essere l’“incarnazione” di un’assenza, come il fiume-lavacro di Mystic River o il nulla dove scompare il Frankie di Million Dollar Baby. 10

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Introduzione

Il cinema di Eastwood costituisce un esempio unico nella contemporaneità, e nel cinema americano, perché si colloca al di là di ogni adesione al carattere ludico, citazionista, frammentario del cinema postmoderno, e di ogni visione critica e apocalittica sul presente. Eastwood in un esercizio di tessitura simbolica dell’immaginario classico, che ne spiega il suo essere “inattuale”, ci fa vedere all’opera il costituirsi o il dissolversi di un soggetto alle prese con la vita colta nei momenti che mettono alla prova, e dunque che mettono in condizione il soggetto di cambiare o perdersi (fino a morire). La solitudine dell’eroe eastwoodiano non è altro che la condizione per far emergere, nella frattura con la situazione, la verità possibile di un soggetto, anche nel rapporto con l’altro (amicizia, amore, odio). Questa verità è quanto di più contrario alla circolazione e allo scambio indifferente della modernità “liquida”, anzi vi si oppone fortemente (come in Gran Torino fa Walt nei confronti di figli e nipoti naturali). Un cinema che diviene paradigmatico per il modo in cui, collocato all’interno del sistema hollywoodiano, riesce a svuotarne l’interna dimensione immaginaria e seduttiva a cui si dispone l’azione ridotta a cliché (e ancora presente negli esempi meno felici del suo primo cinema), per affermarne una pienamente veritativa: non c’è azione che non metta in gioco la totalità del soggetto e la sua verità, quando quest’ultimo si trova nella condizione di rispondere ad un evento eccezionale. E non c’è lavoro della forma che non debba corrispondere a tale esigenza di verità. Non c’è violenza in Eastwood che non risponda ad una qualche sacralità, alla determinazione di un senso (traumatico o meno) dell’esistenza, l’affermazione 11

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Clint eastwood

del quale contrasta spesso con la vita, con la continuità indifferente del vivere (Million Dollar Baby); con l’eccezione della violenza anonima, impersonale e abbrutente dei dispositivi di potere, nella costruzione del nemico, nel suo controllo attraverso l’archiviazione segreta di dati (J. Edgar). Vendetta, sacrificio, scelta, morte sono i tanti motivi di una costellazione del “tragico” come dimensione propria della condizione umana, che non rinuncia a sfidare con l’azione la naturalità del vivente e della posizione (sociale) assegnata per una reinvenzione e un riscatto della vita in nome di un senso ad essa assegnabile (Million Dollar Baby, Gran Torino, Hereafter). Un esempio, dunque, Eastwood, di una profonda tradizione, che va ben oltre il cinema e che trova nell’azione (gli acta), i rischi che implica e il peso simbolico che l’accompagna, la via maestra di resistenza ai data della natura e dei dispositivi sociali. E che indica per ciò stesso una via alternativa, anche di carattere politico, all’azzeramento contemporaneo del soggetto, smarrito nella “liquidità” delle relazioni o nelle risposte puramente operative e automatizzate ai dispositivi. Il cinema di Eastwood (forse con la sola eccezione di J. Edgar) ruota tutto intorno al potere trasformativo di un evento singolare (incontro d’amore, I ponti di Madison County; violenza originaria, Mystic River; battaglia decisiva, Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima) sulla vita di un soggetto, per il modo in cui lo pone a decidere di se stesso e dunque ad universalizzarsi. La forza del cinema di Eastwood sta dunque nel suo mettere in immagine situazioni che, attraversate e segnate da eventi (incontri o traumi), assurgono ad esemplarità e paradigmaticità, trasformando l’identità 12

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Introduzione

(problematica) di un individuo determinato nell’universalità di un soggetto, la posizione minoritaria, marginale, isolata del primo nella potenza del desiderio, della scelta e della fedeltà del secondo. Ed è dunque la singolarità universale del cinema di Eastwood quella che questo volume vuole mettere in gioco, trasformando la generalità di un autore nell’esemplarità del nome proprio. È intorno ai nomi propri, presi come esempi (e non nell’ipotetica e rassicurante identità autoriale), che è possibile costruire un campo di discorsività nuovo, in cui il cinema diviene luogo di esperienza e di pensiero, che riguarda profondamente le nostre esistenze. Questo libro, primo di una serie di nomi propri, non è una raccolta di contributi vari, scritti da esperti e appassionati, ma nasce da un gruppo di studiosi che hanno scelto di condividere momenti di discussione e di scambio sul nome proprio in questione, senza essere animati da alcun intento ricostruttivo, ma solo dal compito di evidenziare la potenza paradigmatica del cinema di Eastwood, mettendo in rapporto la singolarità di un’opera con l’universalità del concetto. Potenza paradigmatica individuata anche in alcune frasi emblematiche, che accompagnano una selezione di immagini che compongono un apparato iconografico con una sua autonomia di lettura. Del carattere allo stesso tempo singolare e universale, e dunque paradigmatico, di tutto un cinema, questo volume ci auguriamo che porti la traccia. Roberto De Gaetano

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Clint eastwood

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Adozione

Alessia Cervini

ADOZIONE

Un treno arriva alla stazione ferroviaria di Los Angeles. Una donna corre, guarda attraverso i finestrini del treno, aspettando fiduciosa di scorgere la figurina di suo figlio. La polizia l’ha rassicurata che è stato ritrovato dopo giorni di assenza e che lo riabbraccerà presto. Dal treno scende un bambino, la donna si arresta, lo guarda e non lo riconosce. «Lui non è mio figlio», dice. Il poliziotto che l’accompagna è sicuro che si sbagli. Ma lei risponde: «Non mi sbaglio, riconoscerei mio figlio». Il bambino dice di chiamarsi Walter Collins, ma la donna scuote la testa perché sa che quello non è il suo Walter. Può accadere che la vita allontani una madre da suo figlio, che un bambino modifichi il suo aspetto, proprio come il poliziotto in una delle sequenze centrali di Changeling vorrebbe far credere a Christine Collins, ma non può accadere che una donna non riconosca o addirittura scambi per qualcun altro il sangue del suo sangue. È questo mancato riconoscimento che dà avvio alla lotta ostinata e decisa di una donna per il ritrovamento di suo figlio, una lotta che la vedrà opporsi con tutte le sue forze a un mondo corrotto, in cui i dispositivi funzionali alla mera gestione del potere – il governo centrale, le forze di 15

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Alessia Cervini

polizia, il sistema carcerario e non ultimi i mezzi di informazione – gestiscono e irreggimentano la vita della popolazione. J. Edgar, smaschera, mettendone in luce ancora più evidentemente gli artifici – primo fra tutti la costruzione di un nemico che non esiste (secondo una logica che è esattamente opposta a quella inclusiva dell’adozione) – i meccanismi di un potere che rivela la sua sconcertante vuotezza nell’esistenza di un uomo totalmente incapace di vivere. A quella gestione del potere che si esaurisce nell’esercizio cieco della forza, una donna oppone, in Changeling, l’ostinazione della sua “verità” atavica e naturale, fino al punto di accettare di assumere per sé l’ignominia della follia. In questa “verità” risiede infatti il senso più profondo dell’esser madre, genitrice di una vita che, anche essendo “altro”, non smette di appartenere essenzialmente a chi l’ha creata. Si può partire da qui per cominciare a riconoscere, sebbene per via negativa, una delle figure più ricorrenti e persuasive del cinema di Clint Eastwood. La sequenza che abbiamo descritto racconta infatti di un’adozione impossibile, di una pratica inclusiva che non può aver inizio per il fatto semplice, ma cogente, che la donna, di cui il film narra la storia realmente accaduta, la rifiuta dal momento che la percepisce come frutto di un’imposizione, capace di annientare la possibilità di ogni libera scelta. Changeling dice ciò che un’adozione non può mai essere: il risultato di un atto di forza o di una necessità. Essa infatti, in virtù della sua capacità di sostituirsi al legame naturale che tiene uniti, per esempio, una madre e un figlio, richiede che alla logica della necessità, da cui dipende la trasmissio16

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Adozione

ne del patrimonio genetico da genitore a generato, subentri la logica, affatto scontata, della contingenza e dell’incontro fra due persone che liberamente si scelgono. Da questo punto di vista, le dinamiche di inclusione a cui risponde un fenomeno come quello dell’adozione assomigliano molto di più alle regole che sottostanno a un rapporto d’amicizia che non a una relazione parentale. E questo semplicemente perché l’adozione di qualcuno a opera di qualcun altro richiede la costruzione di un “noi” che non preesiste alla fondazione della relazione stessa, ma ne è anzi il frutto più avanzato, ciò a cui il sostanziarsi di un rapporto non necessario, ma deliberato, è finalizzato. Ora, tale assunzione carica l’adozione di un significato politico che appartiene, allo stesso modo, ai rapporti d’amicizia1, e che invece non può trovare la sua esplicazione all’interno dello spazio privato di un rapporto parentale. La politica inizia, infatti, laddove le leggi di natura lasciano emergere il vuoto necessario all’instaurazione di una legislazione umana che è il risultato contingente dell’integrazione fra istanze diverse, sempre di nuovo negoziabili. La necessità di natura è dunque quella che lega l’uomo al suo destino, al quale egli è consegnato deterministicamente, esattamente come un figlio è legato al proprio padre. Antigone è forse l’esempio più pregnante di questa inconciliabilità: la necessità dei rapporti parentali, a cui la natura ci

  Si pensi, a questo proposito, al volume di J. Derrida intitolato proprio, Politiche dell’amicizia, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1995.

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Alessia Cervini

“Ha detto che mio padre se ne è andato perché non gli piacevo” “Tesoro, tuo padre non ti ha mai visto... come potevi non piacergli?” “Allora perché se ne è andato?” “Beh, perché il giorno in cui sei nato tu, è arrivata un’altra cosa per posta. Era in un pacco più grande di te. E sai cosa c’era dentro? Una cosa che si chiama responsabilità e per certe persone la responsabilità è ciò che spaventa di più al mondo”

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Adozione

assegna, opposta alle leggi umane che sostituiscono a quella della natura la forza dello Stato. La perentorietà di un destino immodificabile costituisce lo sfondo in cui si inscrive un genere come la tragedia. Mystic River è, in questo senso, la grande tragedia eastwoodiana: ciascuno dei personaggi del film è infatti vittima e artefice della violenza che regola ogni rapporto umano, semplicemente perché a loro non è data la possibilità di modificare il corso di un destino a cui sembrano necessariamente assegnati. Non stupisce, allora, che proprio in Mystic River sopravviva l’ultima grande figura paterna che il cinema di Eastwood abbia conosciuto. Quello di Jimmy Markum è un personaggio tragico perché egli è insieme colpevole e non colpevole del crimine di cui si macchia, alimentando – senza che una reale alternativa gli sia veramente offerta – una catena di violenza senza uscita. L’uomo, che qui è icona di una cultura americana giunta al suo punto di non ritorno, risponde ciecamente all’unica legge che sia in grado di riconoscere: la legge di natura, quella che regola il rapporto di un padre con sua figlia e che, allo stesso tempo, consegna le sue azioni alla necessità di un destino che è tragico, nella misura in cui non può essere differente da quello che è. Ma perché tale necessità si rompa e si esca dall’orizzonte asfittico della tragedia, è necessario che alla legge di natura si sostituisca la legge dell’uomo, che non ci siano più padri naturali, ma padri adottivi. È necessario quindi che un vuoto si crei perché esso possa non essere lasciato vuoto, ma riempito con un contenuto che da tragico diventa politico nel senso che andremo definendo. È in questo spazio che troverà dimora 19

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Alessia Cervini

una comunità nuova, capace di assumere su di sé la responsabilità di ripensare peso e forma di ciò che sono il passato, la tradizione, l’eredità. È ciò che accade nel cinema di Eastwood, almeno da Million Dollar Baby in poi. Fa eccezione Changeling, per le ragioni che abbiamo detto e che ribadiremo. Anche qui un padre manca, ed è assente perché è venuto meno alle proprie responsabilità. Quando il bambino chiede a sua madre perché suo padre sia andato via, lei risponde: «Il giorno in cui sei nato tu, è arrivata un’altra cosa per posta. Era in un pacco più grande di te. E sai cosa c’era dentro? Una cosa che si chiama responsabilità. E per certe persone la responsabilità è ciò che spaventa di più al mondo». Una donna prende coraggiosamente il suo posto, facendosi portatrice di una verità che risulta inconfutabile, perché dettata dalla natura stessa. Per combatterla, i dispositivi di potere non possono, infatti, far altro che riconoscerla come folle, in virtù della sola pretesa che essa avanza di opporsi a un sistema di cose, imposto con la forza. Quel sistema, infatti, non ha dalla sua che la violenza di cui si nutre e finirebbe per sgretolarsi di fronte alla dimostrata illegittimità di quella stessa violenza. È ciò che accade nel finale di Changeling. Una madre prende qui il posto lasciato vuoto da un padre troppo debole per farsi carico delle responsabilità che un figlio comporta: e lo rimpiazza ribadendo proprio la necessità del legame naturale a cui l’uomo si è sottratto. Un’altra logica può però sopperire alla stessa mancanza: una possibilità che non è concessa alla madre di Changeling, dal momento che le è preclusa l’opportunità di scegliere. È la logica dell’adozione che tanta parte 20

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Adozione

assume negli ultimi film di Clint Eastwood. Ciò che essi mettono in scena è infatti quella che potrebbe essere definita l’«evaporazione del padre»2. Ma se non c’è dubbio che questi film (il già citato Million Dollar Baby e Gran Torino soprattutto, ma non solo) suggeriscano al loro spettatore la necessità di riconoscere la fine del privilegio accordato per millenni «all’autorità simbolica del padre», dal momento che questa «non può più appoggiarsi su alcun fondamento teologico-valoriale», è allo stesso modo certamente vero che tale autorità «non si limita a dissolversi senza lasciare resti». Essa, infatti, «lascia il resto dell’atto singolare, il resto della testimonianza»3. Sulla scorta di un ragionamento analogo a questo, bisogna precisare come non sia mai intenzione di Eastwood denigrare o ridimensionare sovra misura il ruolo dei legami familiari. Il suo sforzo è casomai quello di mettere in luce la centralità di questo legame, anche se per farlo deve necessariamente sganciare questo legame da ogni ipoteca naturalistico-religiosa. Il legame familiare viene perso e poi riconquistato a un altro livello rispetto a quello genealogico della discendenza naturale. In questo modo Eastwood rivela tutto il suo carattere contingente ed extrabiologico. Il legame familiare permette la trasmissione di un’eredità ma

  Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011. A Clint Eastwood, Recalcati dedica, nello specifico, il capitolo conclusivo del suo volume. 2

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  Tutte le citazioni si riferiscono a ivi, p. 171.

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Alessia Cervini

non è qualcosa che si eredita di per sé, poiché non è un dato di natura4. Questo “sganciamento” è, lo abbiamo detto, presupposto essenziale a quella che, parafrasando Derrida, potremmo definire una “politica dell’adozione”, fondata sullo sfaldarsi progressivo di una concezione naturalistica della discendenza, oltre che dell’eredità. Quest’ultima non è, infatti, un “dato di natura”, ma è piuttosto il risultato di un processo a-venire, di un faticoso lavoro di costruzione. Dal ripensamento dell’idea di eredità, intesa non come ciò che necessariamente ci sarebbe destinato, e a cui saremmo a nostra volta destinati, quanto piuttosto come orizzonte a cui prospetticamente si decide di aderire, dipende con ogni evidenza la forza eminentemente politica del cinema di Eastwood, che pone chiaramente al suo centro la questione etica della scelta, quando questa entra a interrompere per sempre il nesso necessario di causa-effetto che determina la naturalità dei rapporti parentali. Ora, la scelta consente, nello spazio lasciato vuoto dal venir meno dell’autorità simbolica della figura paterna e dallo sfaldarsi dei rapporti di parentela, la costruzione di relazioni che possono definirsi etiche, in virtù della loro capacità di creare un ponte con ciò che si propone alla relazione stessa come radicalmente “altro”. Allo stesso modo, che questo “altro” sia “uno”, o che sia già “plurale”, la relazione che è in grado di includerlo è sin da subito politica, poiché non si fonda sulla naturalità del rapporto fra i soggetti in essa coinvolti. Il cinema di Eastwood ci offre esempi 4

  Ivi, p. 173.

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Adozione

di entrambi le circostanze in questione. Nel primo caso, come accade per esempio in Million Dollar Baby, l’eticità del rapporto fra un padre e il suo figlio adottivo si sostanzia nell’autorevolezza che l’uno acquista agli occhi dell’altro, non più in conseguenza del privilegio assegnato al primo sulla base della semplice precedenza in una linea di discendenza determinata dalla natura, bensì in relazione alla forza dell’esempio che egli porta in sé e di cui può essere testimone solo agendo, e non semplicemente “essendo” padre. Nel secondo caso (l’esempio è qui Gran Torino), la messa in discussione della naturalità dei rapporti familiari è condizione essenziale per la costruzione di una comunità nuova e politica, in quanto risultato di un processo costruttivo del tutto contingente e non dettata da alcuna prevedibile necessità. In Million Dollar Baby Maggie, una giovane pugile con una famiglia assente e a tratti ingrata alle spalle, sceglie Frankie come suo allenatore. Lui, inizialmente restio ad abbandonare le sue convinzioni tradizionaliste («Io non alleno ragazze», risponde alla prima richiesta di Maggie), finisce poi per cedere alla domanda insolente della giovane. Sceglie in questo modo di abbandonare il suo sistema di valori universali ed aprirsi alla pura contingenza di un incontro che però gli si presenta sin dall’inizio come la possibilità di costruire per sé, e per la ragazza che ha di fronte, una nuova esistenza. Lei sceglie un allenatore, lui un’allieva, ma evidentemente i due si riconoscono, l’uno per l’altra, come qualcosa di più di questo. A lui si offre, per esempio, la possibilità di lasciare a lei un’eredità che sua figlia sembra aver rifiutato, rispendendo simbolicamente al mittente le lettere 23

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che il padre ostinatamente negli anni le ha inviato. A Maggie, l’incontro con Frankie regala la possibilità di apprendere una lezione di caparbietà e rigore che nessuno prima aveva saputo offrirle. Il legame fra i due si sostanzia, dunque, solo alla luce di un progetto comune che richiede dedizione e impegno, oltre che il rispetto di regole che non sono scritte una volta per tutte, ma sono al contrario il risultato di una continua rinegoziazione e che finiscono per comprendere anche la possibilità di scegliere della propria morte. A Frankie, Maggie può affidare il compito di mettere fine alla sua esistenza, perché con lui ha condiviso un progetto che include, solo perché progetto di vita, l’eventualità per nulla naturale dell’anticipazione della morte (l’adozione è qui, dunque, anzitutto il risultato di una scelta esistenziale, ma non può non assumere già una connotazione politica, nel senso che andiamo definendo, opponendo le leggi della politica a quelle della natura). Solo un rapporto che ha allontanato da sé ogni retaggio di ingenua naturalità e che ha il suo punto d’origine in un atto espressamente volontaristico può includere anche la “scelta” più radicale: quella della morte. Ancora una specie di natura malvagia, aveva condannato Maggie alla vita vegetativa, ma è il rapporto che la ragazza ha costruito con Frankie a darle il coraggio per operare uno scarto rispetto al destino che le era stato dato in sorte. Lo stesso tipo di dinamica regola il rapporto che, in Gran Torino, Walt progressivamente costruisce con il giovane Thao. L’anziano si erge ad esempio per l’adolescente, solo perché riconosce in lui, e in ciò che può lasciargli in eredità, la possibilità di un 24

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riscatto personale da un passato che si porta silenziosamente sulle spalle come un fardello di cui poco sappiamo. La Gran Torino che custodisce gelosamente nel suo garage è, in questo senso, solo la punta di un icerberg di non detti che potranno, liberandosi da colpe personali e collettive, tornare a vita nuova quando saranno consegnati in mani nuove. Anche in questo caso, Walt può scegliere di sacrificarsi e porre fine anticipatamente alla propria vita, soltanto perché, precedentemente, aveva liberato la sua esistenza da quanto di già dato, necessario e naturale essa avesse previsto: una famiglia (non la moglie scomparsa che egli aveva eletto a compagna di vita, ma i figli e nipoti che non ha potuto scegliere) incapace di comprenderlo e un insieme di valori stantii che lo avrebbe condannato alla chiusura nei confronti del nuovo e alla solitudine. Qualcosa di ulteriore rispetto a Million Dollar Baby accade però in Gran Torino. Walt non adotta, infatti, soltanto il giovane Thao, ma con lui tutta la sua famiglia e la comunità in cui essa viene ad inserirsi. Il sacrificio di Walt, in questo modo, non salva soltanto la vita di Thao, ma restituisce a un’intera comunità la facoltà di uscire dalla spirale di violenza cieca e vendicativa in cui era finita, per ripensarsi e concedere a se stessa la possibilità del futuro. È a partire da qui che il cinema di Eastwood fa sempre più propria una poetica dell’adozione che diventa la base per la costruzione di ogni comunità politica e che convoca il cinema e le sue forme come propri testimoni. Forse è Invictus il film in cui, più chiaramente che altrove, emerge quel nesso fra adozione e politica che già chiudeva emblematicamente Gran Torino. 25

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Nel finale del film e nella morte di Walt, è possibile rintracciare infatti, simbolicamente, il momento di passaggio attraverso il quale l’adozione, che nella relazione a due fra Maggie e il suo allenatore (o anche in quella fra Walt e Thao) conservava ancora il carattere della scelta esistenziale, diventa questione eminentemente politica, nell’attimo in cui a essa è connessa la possibilità di rifondare una comunità (ciò a cui è funzionale il sacrificio di Walt) o addirittura di fondarne una totalmente nuova. È in questa prospettiva che Nelson Mandela diviene, nell’immagine che Clint Eastwood e Morgan Freeman ce ne restituiscono, il punto di riferimento, il padre adottivo di una comunità che, fino al momento in cui il grande leader della lotta all’apartheid non ne comprese in maniera lungimirante le specifiche peculiarità, aveva fondato se stessa e la propria legittimità soltanto sulla contrapposizione fra gruppi etnici differenti, l’uno radicalmente inconciliabile con l’altro. Ancora una volta, la grandezza di Mandela sembra dipendere, nel film di Eastwood, dalla puntuale capacità che egli ebbe di comprendere che all’idea di razza, sulla quale gli afrikaner fondavano la loro volontà di escludere i neri dalla vita sociale e politica del Sudafrica, non bisognava rispondere, in modo eguale e contrario, con la difesa della propria identità. Combattere per il riconoscimento dei propri diritti, vivendo per anni e con estrema dignità in condizioni di crudele reclusione, significava infatti, proprio come fece Mandela, combattere per costruire una comunità che data non era e che avrebbe smesso di essere sogno soltanto quando alle leggi naturalistiche della razza si fossero sostituite le leggi della 26

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politica. Tale politica deve allora, ancora una volta, far propria la logica inclusiva dell’adozione, piuttosto che limitarsi a replicare infruttuosamente la logica esclusiva dell’appartenenza per nascita ad un gruppo, la cui legittimità risiede unicamente nel suo essere già-dato. Non è dunque sulla rivendicazione dei torti subiti in passato che i neri del Sudafrica avrebbero potuto fondare la speranza di vedere riconosciuti i propri diritti, quanto piuttosto sulla promozione di una nuova idea di futuro che passasse attraverso la costruzione di una nuova comunità, risultato della confluenza di istanze e portati culturali diversi. «Il processo di unificazione di un Noi è dunque una identificazione, un’organizzazione e una unificazione della diversità del passato della comunità che permettono la proiezione del suo avvenire». Un’affermazione come questa suppone per di più, aggiunge Stiegler nel suo volume dedicato al cinema, «che questo passato del Noi non è mai stato vissuto dal Noi, né da coloro che lo compongono attualmente, né dai loro avi» e che di un Noi si può veramente parlare solamente qualora questo esso sia in grado «di proiettarsi in avanti […] di desiderare un avvenire comune, dal momento che il passato che lo apre non è realmente comune»5. Ora, tale meccanismo di proiezione, dal quale direttamente dipenderebbe la possibilità della co-

  Tutte le citazioni, riportate qui nella mia traduzione dal francese, sono tratte da B. Stiegler, La technique et le temps, vol. 3. Le temps du cinéma et la question du mal-être, Galilée, Paris 2001, p. 146. 5

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struzione di un “noi” che non può ricavare dal passato le ragioni della propria esistenza, ma anzi deve differirle in un futuro a-venire, chiama in causa una questione che è stata sottesa sin qui ai nostri discorsi e che ora richiede di divenire centrale: la questione dell’immagine e dunque anche del cinema, come forma espressiva che più e meglio di altre si è fatta carico, nel corso del Novecento, di pensare e produrre immagini. Il cinema di Clint Eastwood l’ha affronta in sedi e modalità differenti. In Invictus, per esempio, tale questione è centrale per ragioni diverse. Nel film emerge infatti, con ogni evidenza, la necessità che tutti i processi d’adozione si catalizzino attorno alla figura di un “padre” che, avendo perso, come abbiamo detto, ogni possibile legittimazione di ordine “teologico-valoriale” deve delegare la costruzione della sua autorevolezza alla riconoscibilità assoluta della propria funzione. Un padre, che non veda assegnarsi dalla natura il suo ruolo, deve dunque costruirlo ergendo se stesso ad esempio, deve cioè far sì che la propria immagine venga riconosciuta in quanto immagine paterna. Il che può accadere nel caso in cui questa stessa immagine si trasformi in icona. È ciò che ha fatto Mandela, il quale ha saputo trovare negli anni trascorsi in carcere la strada per trasformare la sua vita di lotte e rigore in una vera e propria icona del suo tempo e del popolo che in seguito avrebbe guidato. È perché Eastwood riconosce l’autorevolezza di questa icona che inserisce, alla fine del film, le immagini del “vero” Mandela, in modo che i suoi spettatori possano tornare, ancora una volta ad autenticarle, sulla scorta di un racconto che ha assunto i tratti e i toni della grande narrazione epica 28

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a cui è affidato il compito di restituire il momento fondativo di una comunità nascente. E icona diventa anche Walt, nel finale di Gran Torino, morendo con le braccia aperte come Cristo, pur non potendo pretendere più di assurgere a nuovo Cristo, se il padre che dimostra di essere ha smesso di fondare la sua autorevolezza su presupposti “teologici”. Walt non può risorgere come Cristo, ma al suo posto sorgerà la comunità che egli ha adottato e che l’ha riconosciuto come “esempio”. Il valore di tale esemplarità si condensa nel cinema di Eastwood in un sapiente e “originalmente” classico uso delle immagini, nella cui composizione precipita il gesto politico di cui un film può farsi carico. La classicità della posa di Walt/Cristo non fa da sponda a una composizione stereotipata e chiusa in se stessa: nell’apertura delle sue braccia siamo infatti indotti piuttosto a ricercare quella volontà di inclusione che rende possibile ogni adozione e può fondare, sulla base di questo, la comunità che verrà6. In questo senso si può dire che il cinema di Eastwood è un cinema “classico”: non semplicemente perché usa forme e modi “classici” della composizione, ma perché fa in modo che ogni sua immagine diventi “esempio” di uno stile assolutamente riconoscibile. E la costruzione di immagini esemplari è il modo che è dato al cinema per assumere su di sé un compito dichiaratamente politico: non perché semplicemente sceglie di affrontare argomenti politici, ma   Rimando, per l’approfondimento di questi temi, a G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 6

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perché contribuisce attivamente alla costituzione di un “noi” che non preesisteva al cinema, ma che nasce con esso. Una comunità non si aggrega, ha detto Stiegler, recuperando un passato che, in quanto tale, nessuno ha mai realmente vissuto, ma proiettando in avanti l’immagine di ciò che essa desidera essere. Il cinema non è stato mai nient’altro che questo: proiezione immaginifica del mondo che sarebbe venuto e che è venuto proprio grazie al cinema. Già Griffith lo sapeva, mostrando con i mezzi di un linguaggio appena nato, la “nascita di un’intera nazione”. Non è un caso, allora, che proprio a Griffith Eastwood si richiami, facendo uso, per esempio, di un montaggio parallelo che è “classico” soltanto nel senso politico che stiamo descrivendo. Invictus racconta dunque la nascita di una nuova nazione, il Sudafrica, mostrando come un uomo dell’intelligenza di Nelson Mandela avesse compreso che una comunità sudafricana poteva sorgere solo proiettando in avanti la propria immagine, sostenendo cioè il sogno di una vittoria. Attorno all’immagine per certi versi utopistica della squadra sudafricana, vincitrice del campionato mondiale di rugby, si è addensata la forza di un progetto politico arrischiato: la costituzione di una società in cui la discriminazione razziale fosse solo un lontano ricordo. Attorno all’immagine di un bandiera issata dai marine americani come stendardo della loro vittoria a Iwo Jima, si raccolse, durante la Seconda Guerra Mondiale l’America intera. Di questo racconta un film come Flags of Our Fathers. L’uso strumentale di un’immagine, divenuta anch’essa icona, è stato funzionale al rafforzamento di un “noi” che poteva 30

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andare disperso sotto i colpi inferti a milioni di vite umane, arruolate in una guerra in cui la popolazione degli Stati Uniti avrebbe smesso di credere, se qualcosa non fosse intervenuto a rialimentare quell’orgoglio patrio su cui, sin dalla sua origine, la cultura americana ha fondato uno dei propri punti di forza. Quel “noi” ha mostrato di essere nei secoli, almeno dalla fondazione degli Stati Uniti in poi, il risultato di una pratica consolidata d’adozione che ha coinciso con un progetto di integrazione e che passa «attraverso il consumo: precisamente ciò che si definisce “americanizzazione”»7. Il cinema, in quanto grande industria di prodotti di consumo, ha contributo in prima persona al rafforzamento di questo processo di americanizzazione delle culture mondiali. La posizione a cui Stiegler fa riferimento è evidentemente quella di Horkheimer e Adorno8: Hollywood è diventata la capitale dello schematismo mondiale perché il cinema è una tecnica d’adozione […]. Gli Stati Uniti l’hanno scoperto più che altri paesi – seguiti dall’Unione Sovietica, dall’Italia fascista e dalla Germania nazista – dal momento che essi hanno dovuto integrare flussi permanenti di migranti, ivi compresi quelli che vi furono forzati come gli schiavi e quelli che in se-

  B. Stiegler, La tecnique e le temps, vol. 3. Le temps du cinéma et la question du mal-être, cit., p. 163.

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  T. Adorno, M. Horkheimer, L’industria culturale, in Id., La dialettica dell’illuminismo, tr. it., Einuadi, Torino 1997, pp. 126-181. 8

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guito furono “integrati”, e anche perché essi hanno dovuto costruire per intero un paese selvaggio, se non addirittura vergine9.

Gli Stati Uniti d’America hanno utilizzato, cioè, il cinema come strumento attraverso cui imporre al resto del mondo l’adozione di uno stile di vita noto, appunto, come the American Way of Life. Per identificare se stessa e, contemporaneamente, imporsi al mondo intero come cultura dominante, la cultura americana ha costruito sapientemente negli anni figure di “nemici pubblici” che meritavano di esser combattute con tutti i mezzi a disposizione di un potere giudiziario, politico e mediatico, tanto ottuso, quanto determinato alla propria incondizionata affermazione. Evidentemente, il cinema ha avuto un ruolo rilevante in tutto questo: lo dice bene J. Edgar, in cui Eastwood inserisce, non a caso, le immagini di un film come Nemico pubblico, che avrebbe contribuito, immediatamente dopo la sua uscita sugli schermi, a legittimare l’uso spregiudicato e disinvolto della violenza da parte di un organismo come l’FBI, che confuse irrimediabilmente la lotta per la sicurezza con l’aspirazione totalitaria al controllo. Il processo di americanizzazione di cui stiamo parlando è passato, dunque, attraverso il dispiegamento di una vera e propria «guerra psicologica, ideologica e commerciale», che è stata anzitutto

  B. Stiegler, La tecnique e le temps, vol. 3, Le temps du cinéma et la question du mal-être, cit., p. 160.

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«guerra di immagini»10. Una guerra che si è combattuta parallelamente a quella che più tradizionalmente ha previsto l’uso di armi capaci di annientare l’intera popolazione mondiale: una sovrapposizione esemplarmente messa in luce da un film come Flags of Our Fathers. Ma il cinema di Clint Eastwood avanza un’idea di adozione diversa da quella che abbiamo appena visto esposta nelle parole di Stiegler e capace di rimpiazzare la logica capitalistica e imperialista dell’integrazione, in cui l’“altro” è costretto ad accogliere le istanze del più forte, con quella più complicata dell’incontro, in cui sono le due parti a scegliersi e arricchirsi vicendevolmente. Tale sostituzione si presenta dunque, non a caso nel cinema di Eastwood, come la necessità di ripensare in profondità quegli elementi della cultura americana che progressivamente l’hanno condotta all’auto-implosione, facilmente riconoscibile, per esempio, nelle storture ormai insanabili del tardo-capitalismo. È perché non riconosce nella sua famiglia nessuno dei valori a cui si sono ispirati i padri fondatori degli Stati Uniti d’America che Walt decide di avvicinarsi a una cultura che percepisce, almeno inizialmente, come profondamente distante dalla sua. Egli non adotta la famiglia di Thao con l’atteggiamento dello yankee dominatore, ma con l’apertura di chi riconosce in sé e nel proprio modo di vivere le ragioni di una profonda arretratezza, ammantata di benessere e arroganza. Ripensare la storia e la cultura americane non 10

  Ivi, p. 177.

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significa però, a ben vedere, semplicemente sbarazzarsene, non significa smettere di riconoscere in chi ha combattuto per la difesa degli Stati Uniti, come i giovani soldati di Iwo Jima, il “padre” di una grande nazione democratica. Significa, in modo molto più responsabile da un punto di vista politico, andare a scandagliarne, come avviene in J. Edgar, anche le pagine più oscure e inquietanti, o affermare come fa Flags of Our Fathers che “padri” della nazione americana non furono gli eroi da cartolina che il più forte sistema mediatico del mondo aveva artificiosamente voluto costruire, ma uomini in carne e ossa, che solo in virtù delle loro azioni e dei loro errori avrebbero potuto avanzare la pretesa di divenire esempio per qualcun altro. Significa, insomma, pensare a dei padri diversi da quelli che la narrazione storica “ufficiale” ci ha restituito, i quali furono in molti casi uomini senza scrupoli come J. Hoover. Proponendosi come fuori campo perfetto del racconto dispiegato in Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima diventa forse, costituendo con il primo dei due film un dittico inscindibile, la punta più avanzata di tale progetto di riscrittura storica, correlata simbolicamente alla inequivocabile dichiarazione di una poetica, coraggiosa e azzardata, dell’adozione. Con un gesto ancora una volta esemplare, Eastwood costruisce il più imponente “raccordo di sguardi” che la storia del cinema classico ricordi, mostrando con l’uso sapientissimo della forma cinematografica cosa dobbiamo intendere quando parliamo di adozione. Prendere il posto di chi è radicalmente altro da “noi” non è un modo per porre entrambe le posizioni (la mia e quella dell’altro da me) nella condizione di 34

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Adozione

risultare indiscernibili fra di loro e conseguentemente privarle del loro valore intrinseco. Significa piuttosto riconoscere che tutti e due gli sguardi appartengono allo stesso orizzonte, quello del possibile; che nessuna precedenza logica è concessa a una delle due parti, che dunque non esiste un “padre” capace di vantare sul proprio figlio un diritto d’autorità concessogli per natura. Un figlio, come progetto a-venire, non è così il frutto di ciò che un padre gli lascia in eredità, quanto piuttosto l’apertura a possibilità tutte ugualmente attuabili. Si può partire da qui, dove il cinema di Eastwood finisce, per ripensare ciò che più intimamente definisce la cultura americana: l’idea di democrazia. Forse la sostituzione del singolare “padre” con il plurale “padri” può corrispondere alla possibilità non tanto di riconoscere lo stato di marcescenza in cui versa ormai la democrazia occidentale, quanto piuttosto di concepire una nuova idea di democrazia, capace di includere in un progetto condiviso i soggetti che “decidono” di farne parte, piuttosto che convincerli della necessità della delega e della rappresentanza11. Il cinema di Eastwood ci offre qualche esempio di questa possibilità, il resto spetta alla politica.

  Mi permetto di rimandare, per l’approfondimento di questi temi, a AA.VV., In che stato è la democrazia, tr. it., nottetempo, Milano 2010. 11

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Amicizia

Daniele Dottorini

AMICIZIA

Assolvenza da nero. Inquadratura in campo lungo della periferia di una città. Panoramica dall’alto, uno scenario di case povere, cortili interni, nascosti. Due uomini parlano di una partita di baseball. Un ragazzino dai capelli rossi aspetta qualcuno. Da una porta esce un altro ragazzino della stessa età con i capelli neri; tutti e due hanno i bastoni da hockey. «Andiamo», dice il secondo ragazzo. E i due correndo vanno verso la strada principale. Ora i ragazzini sono tre, intenti a giocare a hockey in strada. La macchina da presa è con loro, si immerge nel vortice della partita, inquadra tutto ad altezza di bambino. Ad un certo punto la palla sfugge e va a finire dentro il canale di scolo di un tombino. I tre ragazzi non possono più giocare e la loro attenzione viene calamitata da una piastra di cemento fresco su cui decidono di incidere i loro nomi – «così rimarranno per sempre» – Johnny e Sean sono i primi, poi tocca a Dave. Il ragazzo però riesce a scrivere solo le prime due lettere del suo nome, perché una voce li interrompe. Un uomo vestito di nero, accanto a una macchina nera con un altro uomo all’interno, li sta chiamando. Dice di essere un poliziotto e di volerli punire per aver rovinato la proprietà del comune. Dice a Dave (è quello che abita più lontano) di 37

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entrare nell’auto, perché ora verrà portato da sua madre. Il ragazzo è titubante, ma l’uomo gridando lo spinge all’interno. L’altro uomo, seduto sul sedile anteriore si volta lentamente e lo guarda con uno strano sorriso congelato. Inquadratura dall’interno della vettura, semi-soggettiva di Johnny e Sean che guardano silenziosi Dave entrare nell’auto. La vettura parte. Campo-controcampo di Sean che guarda dal lunotto posteriore i suoi amici fermi in mezzo alla strada e dei due ragazzi che vedono Sean allontanarsi: ora le inquadrature sono in soggettiva. Dissolvenza in nero. È la sequenza d’apertura di Mystic River o, meglio, l’inizio della sequenza d’apertura, che è in realtà un blocco di sotto sequenze (il rapimento di Dave a cui segue l’allarme dato dai genitori; le sevizie a cui è sottoposto, la sua fuga nel bosco, e il ritorno del ragazzo a casa, ritrovato dalla “vera” polizia, osservato a distanza da Johnny e Sean che non osano avvicinarsi). Il cinema come sopravvivenza. Questa potrebbe essere una definizione con cui aprire un saggio sul cinema di Clint Eastwood. Sopravvivenza di cosa? Del cinema stesso? Di un modo particolare di fare/ pensare/immaginare il cinema? Sopravvivenza di un mondo di eroi e di avventure, di temi e forme del grande racconto classico hollywoodiano? Sopravvivenza di un corpo divistico che fino all’ultimo si è esposto alla macchina da presa, documentando, film dopo film, in un certo senso, la propria mortalità, la propria decadenza materiale? Certo. Tutto questo e anche di più è il cinema di Eastwood. Ma di questo 38

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si è già detto, è stato già scritto, occorre fare un passo in più, attraversare le immagini di Eastwood da una prospettiva diversa. Partiamo da un esempio, da una prospettiva di lettura particolare e recente. In uno studio dedicato a Clint Eastwood, la filosofa Drucilla Cornell scrive: Eastwood ci conduce attraverso alcune delle grandi immagini, dei grandi simboli della vita americana grazie al suo stretto rapporto con i generi classici del cinema americano, dai film di cowboy ai thriller polizieschi, fino ai film pugilistici ed eroici. In un mondo in cui sembriamo aver perso il nostro rapporto con i nostri simboli condivisi e con la comunità stessa, i film di Eastwood lavorano su questi simboli frammentati, simboli che ancora rimangono al fine di intrecciare profondamente il tema della mascolinità con le questioni etiche e morali più profonde della contemporaneità1.

Ciò che Cornell coglie immediatamente è la portata filosofico-etica del cinema di Eastwood: il fatto cioè che il suo cinema, attraverso il recupero dei simboli dispersi della classicità hollywoodiana sia impegnato in una lotta, in una lotta etica contro le derive della contemporaneità. Cornell legge tutto questo però all’interno di una difesa dei valori etici dell’American Way of Life, di cui la mascolinità di Eastwood si fa interprete preferenziale. Dunque, in   D. Cornell, Clint Eastwood and Issues of American Masculinity, Fordham University Press, New York 2009, p. 4.

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“Dal melo non nascono ciliegie”

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un certo senso, anche per la sua forma, il cinema di Eastwood, cinema classico per antonomasia (ma forse, come vedremo qui, è proprio il concetto di classico a dover essere rimesso in discussione), viene visto da Cornell come una difesa di un sistema di valori della “mascolinità”, intesa come valori fondanti la cultura e la società statunitense. Ma è proprio così? È all’interno di queste categorie che la classicità di Eastwood può essere individuata, definita? Con il riferimento esplicito ad una tradizione cinematografica e culturale (il grande cinema di genere hollywoodiano)? In che senso, ad esempio, si può dire che la sequenza di Mystic River descritta in apertura rievochi uno spazio del cinema classico? Proviamo a rispondere affermando che in Eastwood il classico è molto più che un rimando ad una forma, a un linguaggio o a uno stile del cinema. Quello di classico è un concetto che riguarda un modo di ripensare, attraverso le forme, il tempo e la storia, di sospenderle e di farle diventare universali2. Il termine classico subisce allora qui uno slittamento di significato; non più ciò che indica una fase della periodizzazione interna alla storia del cinema, ma qualcosa di più complesso, legato alla forma di un cinema che attinge la sua forza, la sua potenza in grandi concetti teorici, grandi concetti che fondano uno sguardo e un pensiero; soprattutto, il classico è la forma del cinema che riflette sul senso e sull’origine   Mi permetto qui di rimandare al mio Million Dollar Baby. Sul concetto di classico, in “Filmcritica”, n. 554 (2005), p. 161.

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della comunità. Il cinema di Eastwood si configura allora come una sopravvivenza del classico. Procediamo con ordine. Il cinema di Eastwood è classico nel momento in cui la narrazione al suo interno sospende la storicità, la contingenza di cui si nutre per assumere una forma riconoscibile. Il cinema è classico, dunque, quando esso lascia emergere – dalla sua stessa forma – il pensiero che lo anima. Torniamo allora alla sequenza citata in apertura. I campi lunghi che inaugurano il film, aprono lo sguardo ad una comunità, una comunità parziale, ai margini di una città, uno spazio determinato, chiuso, intimo in un certo senso. La panoramica aerea però scende verso il basso, verso, appunto, l’interno della comunità, il reticolo di cortili retrostanti le case. È qui che avviene lo stacco. È qui che la scelta registica cambia drasticamente. Nel momento in cui lo sguardo cade su uno dei ragazzi la macchina da presa non scende gradualmente all’altezza dei corpi, ma c’è uno stacco, da un campo lungo a un piano americano. Stacco, non passaggio graduale dal più grande al più piccolo. Certo, il rapporto tra le inquadrature è quello già codificato del cinema classico: ad una serie di establishing shot, di inquadrature d’ambientazione che contestualizzano l’ambiente, segue poi il piano americano, il primo piano, l’individuazione del personaggio. Ma questa discesa, drastica, da uno spazio aereo verticale, caratterizzato da movimenti lenti e fluidi, ad uno spazio ad altezza terra, caratterizzato sempre di più da movimenti rapidi, mobilissimi (fino all’uso della macchina a mano durante la partita di hockey dei tre ragazzi in strada), radicalizza il rap42

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Amicizia

porto, costruisce attraverso la forma, la radicalità di un rapporto di amicizia situato, quasi gettato in uno spazio, in un luogo determinato, in una comunità. Ecco, l’amicizia. È intorno a questo termine che ruota, spesso, il cinema di Eastwood. Non solo tematicamente3, ma anche come forma possibile del cinema, come forma possibile del racconto della contemporaneità, di un mondo fondato e formato sulla pratica (più che sull’idea dell’amicizia). Ma quale amicizia? Amicizia pratica si è detto, cioè amicizia come forma etica, come forma alla base di una comunità, oltre che alla base di un rapporto tra individui. È su questa forma di amicizia che riflette il cinema di Eastwood: l’amicizia «è una virtù o è accompagnata da virtù, ed è inoltre radicalmente necessaria alla vita»4, secondo la celebre affermazione di Aristotele. La riflessione di Aristotele, legando profondamente il concetto di philía a quello di comunità e di giustizia si distacca infatti sia dall’interpretazione di amicizia come energia, forza connettiva dell’universo (come in Empedocle) sia dal concetto di philía platonico, cioè di desiderio del bene, aspirazione5. Né forza originaria, né aspirazione ideale,

  Che i personaggi di Eastwood siano accomunabili secondo una serie di classificazioni delle forme dell’amicizia è un aspetto evidente nel cinema del regista americano, ma ciò che qui ci interessa maggiormente è sapere come e in che senso sia la forma stessa dell’immagine a rimettere in gioco un particolare modello etico-politico dell’amicizia.

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  Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VIII, 1155a.

  Colpisce il continuo slittamento di significato che nella scena

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l’amicizia è per Aristotele la dinamica costitutiva della vita stessa, del rapporto tra le persone. Per questo essa è legata all’idea e alla pratica della comunità e della giustizia: Sembra poi, come s’è detto all’inizio, che l’amicizia e la giustizia abbiano i medesimi oggetti e risiedano nelle medesime persone. Infatti, si ritiene comunemente che in ogni comunità ci sia una forma di giustizia ma anche amicizia [...]. Quanto si estende il rapporto comunitario, altrettanto si estende l’amicizia, giacché tanto si estende anche la giustizia6.

Amicizia, giustizia, comunità: è in questa dinamica che si sviluppa una pratica dell’amicizia come elemento strutturante una società, in cui dall’individuo si sviluppa un rapporto con l’altro che solo può dare pienamente senso all’esistenza. L’amicizia come forma di elaborazione dell’essere-con: nella philía questo essere-con se stessi si amplia ad essere-con l’altro, in un movimento che non è inessenziale, poiché la comprensione di sé dell’uomo richiede necessariamente il rapporto con l’altro, e per compiersi esige la relazione con gli altri e

platonica del Liside subisce il termine “amicizia”, fino ad aprire lo spazio per un senso ultimo che va al di là di ogni pratica dell’amicizia. È Socrate stesso a dirlo: «In verità va a finire che l’unico vero amico è colui nel quale hanno termine tutte quelle che sono definite amicizie», Platone, Liside, (220a). 6

  Aristotele, Etica Nicomachea, 1159b.

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precisamente quel tipo di relazione che è appunto l’amicizia7.

L’individuo non è dunque mai solo, o meglio, la solitudine non è il fine dell’esistenza: il soggetto è sempre un soggetto collettivo. Paradigma critico di ogni soggettivismo, l’idea di amicizia – ripetiamolo, soprattutto nell’opera aristotelica – si basa sulla sua “necessità” dell’amicizia stessa per la vita, per la vita dotata di senso. Nella cultura Greca, nella cultura fondatrice del pensiero occidentale, il rapporto tra amicizia e comunità è basilare: alla base dell’esistenza sta il comune, la dimensione collettiva, sociale, la dimensione della Polìs, che è il fine ultimo del vivere. L’amicizia è, da questo punto di vista, il movimento orizzontale attraverso cui si fonda una comunità. Non è possibile allora dire che questa visione orizzontale dell’amicizia come fondamento del comune è ciò che caratterizza anche problematicamente uno dei movimenti tipici del cinema eastwoodiano? E che questo avviene proprio attraverso una personale ripresa del cinema classico, come si diceva sopra? Infine, come si può pensare questo rapporto tra la classicità eastwoodiana e le forme orginarie del pensiero se molti dei personaggi del cinema del regista de Gli spietati sono invece portatori e rappresentanti di una vita isolata, solitaria, apparentemente anti-sociale? Prima di rispondere andiamo avanti facendo il pun  C. Danani, L’amicizia degli antichi. Gadamer in dialogo con Platone ed Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 249.

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to su un aspetto importante. Il pensiero Greco dell’amicizia è pensiero fondante, pensiero d’autorità. Ma esso non si è tramandato identico a se stesso nel corso del tempo, anzi. Nella contemporaneità l’amicizia come fondamento della comunità si disperde in mille eccezioni, in mille rivoli interpretativi. Essa viene messa in forma e deformata, si trasformerà in aspirazione al trascendente con Agostino, con Tommaso; giungerà al suo rovesciamento in Nietzsche e in Carl Schmitt. Ma di quale rovesciamento si sta parlando qui? Il gesto dell’amico L’amicizia si fonda sul gesto, afferma Aristotele. Sul gesto d’amare, è il significato, complesso, articolato, del termine philía a testimoniarlo: amicizia, amore, desiderio, aspirazione. Tutti questi termini traducono (anche se solo in parte) il gesto più che il sentimento della philía. È l’azione che spinge alla vita pratica, alla trasformazione del mondo. Il gesto, cioè l’immagine-azione di cui parla Deleuze, l’immagine della vita pratica, fondata appunto sul gesto trasformatore, su un atto più che su una situazione: «L’amicizia consiste nell’amare, è vero, è un modo d’amare, certo. Conseguenza, implicazione: è dunque un atto prima di essere una situazione, l’atto di amare, piuttosto, prima dello stato di essere amato, un’azione prima della passione»8. Il cinema   J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 18.

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di Eastwood è una grande enciclopedia dei gesti (come ogni forma classica), ma in tali gesti non è solo concentrata la capacità di trasformare il mondo, di superare gli ostacoli; nei gesti è anche iscritta la sconfitta possibile dei personaggi, nei gesti sono visibili i loro limiti, le loro negazioni. Il gesto d’amore dell’allenatore Frankie Dunn in Million Dollar Baby, che posiziona lo sgabello sul ring proprio quando la sua atleta cade a terra e vi sbatte la testa, così come l’atto di staccare la spina all’apparecchio che la tiene in vita, sono gesti d’amore che si rovesciano di senso, che annullano se stessi pur affermandosi come tali. Amore e morte si confondono, si compenetrano. L’amicizia si torce in se stessa nel sacrificio, come in Un mondo perfetto o in Gran Torino, dove i due protagonisti maschili si sacrificano facendo finta di compiere un altro gesto, o diventa atto sospeso, gesto che si nega, come la mano di Francesca – ne I ponti di Madison County – stretta sulla maniglia del furgoncino, pronta a scendere dal veicolo per riunirsi all’uomo che ama: un gesto che non verrà mai portato fino in fondo, Francesca rimarrà all’interno dell’auto, con suo marito, vivendo fino in fondo la sua vita matrimoniale. L’amicizia è un atto sorprendente, può avvenire perché un uomo politico decide di offrirsi come modello per una riconciliazione impossibile, come Mandela in Invictus; o può assumere i tratti del fantasma, dello spettro che accompagna i gesti di un individuo – come Eddie Scrap che appare (letteralmente) dal nero in Million Dollar Baby o che viene esposto come cadavere che ossessionerà il pistolero Will Munny in Gli spietati. I gesti dell’amicizia dunque sono molteplici, assu47

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mono molteplici significati. Clint Eastwood nei suoi film sembra esplorarne a sua volta le molteplici occorrenze, sempre e comunque all’interno di quella problematica costellazione di parole chiave – Amicizia/ Giustizia/Comunità. Problematica perché è il cinema classico del regista americano ad interrogare, con le sue forme e le sue narrazioni, i suoi personaggi, spazi e tempi, il rapporto stesso tra l’amicizia individuale e il corpo sociale, rapporto ora non più tanto chiaro né trasparente. Eastwood riattraversa quindi tutte queste parole chiave, a partire dal suo corpo di attore per poi scomparire dietro la macchina da presa, attraverso i suoi gesti, per mezzo di una cinepresa che riprende le forme del classico per mostrarne la contemporaneità. La contemporaneità, appunto. Se il punto di partenza è in Eastwood la consapevolezza dell’amico come fondamento dell’essere in comune, dell’esserecon, la contemporaneità dello sguardo (che si realizza nella forma classica del cinema), porta con sé il necessario rovesciamento del rapporto, la capacità di arrivare al limite delle dinamiche dell’amicizia, di quelle politiche dell’amicizia spesso sin troppo esibite e propagandate come illusoria autorappresentazione di una società. L’amico fantasma Torniamo allora alla sequenza di Mystic River citata in apertura. È proprio nel momento in cui i tre ragazzi sanciscono (firmano) con i loro nomi sull’asfalto fresco la loro amicizia come immediato piacere nello stare insieme, come piacere di agire, 48

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giocare, vivere insieme, che la frattura ha luogo, si verifica sotto forma di violenza. Dave non fa in tempo a scrivere il suo nome, verrà interrotto dai due falsi tutori dell’ordine che lo rapiranno sotto gli occhi attoniti e impotenti dei suoi due amici. La frattura è evidenziata da un particolare campo-controcampo. Quando la macchina con dentro Dave si muove assistiamo ad una doppia soggettiva in movimento: la macchina che si allontana vista dai due ragazzi rimasti in strada, e i due amici che diventano sempre più piccoli visti da Dave. Il campo-controcampo qui, più che mettere in relazione due sguardi, sancisce una separazione, una separazione fisica, certo, ma soprattutto una separazione etica. La giustizia è infranta, così come l’amicizia e la possibilità di una comunità a venire. Una figura classica del cinema, appunto il campo-controcampo, giunge al suo limite con una torsione (che è parte integrante della sua storia, certo), e si rovescia nel suo contrario: non più unione, di corpi e sguardi, ma separazione, perdita, morte. Dave ritorna nella sequenza successiva, ormai adulto e padre di un bambino a cui insegna i segreti dell’hockey, ritorna nella stessa strada della prima sequenza, ma ciò che egli era una volta ora non è più, non può più esserlo. L’amicizia tra i tre ragazzi, ora adulti, non è più possibile a causa di quell’atto sancito dal controcampo radicale. Dave è ora il fantasma dell’amico, presenza scomoda, non conciliata; dopo la violenza, l’amicizia immediata, spensierata e naturale tra i tre9 scompare, è irripetibile e, al tempo 9

  Sembra quasi la scena del Liside di Platone, in cui Socrate si

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stesso permane come un’immagine non cancellata. L’amico è un fantasma, può esserlo, a volte deve esserlo. L’amico assente è ciò che deve essere ritrovato per Walt Kowalski in Gran Torino, che rimarrà per sempre sulla superficie della Luna in Space Cowboys, o che insidia, minaccia la perfetta finzione in J. Edgar, dove Hoover e Clyde Tolson mettono in scena la simulazione di un’amicizia per mascherare il loro rapporto d’amore. Per questo allora, l’amico è anche, rovesciando radicalmente i termini, il nemico necessario. In Debito di sangue, il profiler FBI Terry McCaleb – che ha subìto un trapianto di cuore e quindi porta con sé un intruso, per usare le parole di Jean-Luc Nancy – ha bisogno di un nemico che lo faccia vivere, che gli dia un senso per esistere. E il nemico è proprio il suo migliore amico, Jasper Noone, figura che assume su di sé il ruolo di termine ideale della caccia all’uomo che da anni McCaleb sta portando avanti. Noone – no one, nessuno – non è un uomo ma una funzione della narrazione, o meglio, una finzione necessaria e allo stesso tempo assurda, oscena, orribile. In Debito di sangue, quindi, Eastwood mette in scena l’antagonista come puro strumento della finzione e lo smaschera come tale. Un altro meccanismo della narrazione classica si rivela come tale, mostrando però al contempo di poter dire di più, di poter essere qualcosa di più. L’amico è un fantasma anche perché in fondo, ed

intrattiene tra gli adolescenti che giocano e vivono la loro amicizia come qualcosa di spontaneo, naturale, e in cui è Socrate a domandare loro da dove viene tale sentimento.

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è anche questo il segno della modernità di Eastwood, l’amicizia non è naturale, essa è un processo, una costruzione necessaria, sempre aperta però al suo disfacimento – come in Mystic River, appunto – al suo rovesciamento. In fondo, l’essere in comune, la comunità sono concetti illusori, direbbe Nietzsche, il terreno su cui posano è un terreno fangoso, scivoloso: «quanto insicuro è il terreno su cui posano tutti i nostri legami e le nostre amicizie, quanto vicini sono i freddi acquazzoni e le intemperie, quanto è isolato ogni uomo!»10. È qui, in questa posizione nietzscheana, che si colloca probabilmente il punto di rovesciamento della dimensione dell’amicizia nella modernità: dove l’amicizia è il valore che si costruisce a partire dagli aspetti principali della sensibilità contemporanea, cioè l’individualità, la separatezza tra gli esseri umani, la confessione, e il porre in comune sono le forme attraverso cui si “costruisce”, ancora una volta la pratica dell’amicizia11. 10   F. Nietzsche, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, Libro primo, §376, tr. it., Newton Compton, Roma 1990, p. 168.

11   «Se uno comprende questo, e comprende inoltre che tutte le opinioni, il loro genere e la loro forza sono, nei suoi simili, altrettanto necessari e irresponsabili che le loro azioni, se acquista occhio per questa intima necessità delle opinioni che nasce dall’inestricabile intreccio di carattere, occupazione, talento, ambiente – si libererà forse dall’aspro e amaro sentimento con cui quel saggio gridò: “Amici, non ci sono amici!”. Piuttosto egli ammetterà: sì, ci sono amici, ma a portarli a te fu l’errore, l’illusione su di te; e per restare tuoi amici, devono aver imparato a tacere», ibidem. Sulla caratteristica moderna dell’amicizia come incontro tra individualità isolate, cfr. D. Konstan, Friendship in

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Nella modernità, l’uomo è una monade isolata che non deve dare per scontato il rapporto di amicizia, né si deve illudere sulla sua potenza. Porre come punto di partenza l’individuo più che la collettività significa per Nietzsche porre in primo piano non la comunità naturale degli uomini, ma le figure che fuoriescono dalla comunità, che non ne fanno parte, ma che la attraversano e la determinano con il loro eccesso e la loro follia, con la loro capacità di fare doni, che vanno al di là di ogni logica di scambio. Sono un’altra figura dell’amicizia, quella dell’amico solitario, della singolarità che ama allontanarsi, ma che attraverso la sua diversità, la sua alterità, attraversa una comunità, la fonda, la protegge, la rinforza. Dona ai suoi membri la salvezza. Una comunità particolare, quella degli amici solitari: «quelli che amano soltanto sciogliersi a questo modo sono amici intrattabili della singolarità solitaria. Vi invitano a entrare in questa comunità dello slegamento sociale, che non è necessariamente una società segreta»12. La figura del viaggiatore errante, dell’anacoreta, che non fa parte della comunità sociale ma la custodisce, la salva, la mette alla prova, come un eroe solitario che emerge dalle tenebre, dal nero e lì ritornerà: è l’immagine di John Wayne in Sentieri selvaggi, è l’immagine di Eastwood nei personaggi interpretati in film come Impiccalo più in alto, Il cavaliere pallido, Honkytonk Man, Brivido nella notte, e via dicendo. the Classical World, Cambridge University Press, New York 1997, pp. 14 e sgg. 12

  J. Derrida, Politica dell’amicizia, cit., p. 51.

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Personaggi che attraversano comunità disperse non per farne parte (sarebbe per loro impossibile), ma per rinforzarle, metterle alla prova. Eppure Eastwood è andato al di là di questo. Ha attraversato la comunità delle singolarità solitarie e l’ha superata, soprattutto nel suo cinema più recente, a partire da Gli spietati, come lui stesso ricorda: Forse non si tratta tanto di un elemento autobiografico, quanto di una forma di penitenza che mi sono imposto per tutti i film western che ho realizzato in passato. Il personaggio di William Munny rappresenta certamente un individuo alla ricerca di una redenzione per ciò che ha combinato nella sua vita passata e infatti continua a ripetere: “non sono più lo stesso uomo, sono cambiato”13.

Personaggi solitari, anti-eroi, comunità della singolarità assoluta. Il rapporto tra amicizia e comunità diventa, nella modernità, molto più complesso. Nella dinamica dell’amicizia, quindi, non c’è posto per l’ingenua illusione dell’universalità e assolutezza di un sentimento; non c’è per Nietzsche, come non c’era per i Greci (Aristotele non fa altro che ammonire sulle forme di amicizia transitorie, unilaterali, basate sull’utile o su altri sentimenti fugaci e deboli). Soprattutto, non c’è per Eastwood, i cui personaggi, le cui storie sono, soprattutto nei suoi ultimi lavori, sempre di più sospese sulla dialettica mobile   AA.VV., Incontro con Clint Eastwood, in “Filmcritica”, n. 461-462 (1996), p. 7.

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dell’amicizia, quella che accanto alla costruzione dell’amico, invita alla altrettanto finzionale costruzione del nemico. Amico/Nemico Il paradigma del nemico come costruzione necessaria è, come si sa, il paradigma inaugurato da Carl Schmitt in un testo chiave della filosofia politica contemporanea, Categorie del politico, come ricorda Derrida: «Che il politico come tale, che l’esser politico del politico sorga, nella sua possibilità, con la figura del nemico, costituisce l’assioma schmittiano nella sua forma più elementare»14. Il nemico è per Schmitt non una categoria ontologica, ma una costruzione necessaria, per quanto essa determini un conflitto reale, non astratto: Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite

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  Ivi, p. 104.

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né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”15.

È in questo ambito che la pratica dell’amicizia in Eastwood costituisce un’opposizione radicale e necessaria. Non perché Eastwood metta in scena una lettura umanista del mondo, non perché quindi egli elimini dai suoi film la figura del nemico, anzi. La forma classica del cinema, basata sull’immagineazione ha bisogno per definizione della contrapposizione del conflitto e il cinema del regista americano è perfettamente dentro tale logica, lo si è ripetuto fino alla nausea. È all’interno delle dinamiche del classico che la contemporaneità esplode in tutte le sue contraddizioni, e Eastwood lo sa bene. Il dittico Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima diventa in questo senso un caso esemplare. Si è spesso scritto che i due film costituiscono l’uno per l’altro una sorta di controcampo più ampio, la stessa battaglia, lo stesso momento visti da due prospettive opposte: dunque, in apparenza, il dispiegamento chiaro, esemplare appunto, della logica classica della guerra, della divisione tra amici e nemici. Ma proprio all’interno di questa divisione si crea il paradosso. Proprio rovesciando da un film all’altro la prospettiva, proprio parificandola in un certo senso, Eastwood finisce per mostrare l’assoluta impossibilità di stabilire chi sia e dove sia il nemico:

  C. Schmitt, Le categorie del “politico”, tr. it., il Mulino, Bologna 1972, p. 109.

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Il rimettere in scena quindi l’immagine del nemico, pensarlo uguale a se stesso, viene vissuta da Eastwood come (l’ipotesi di una) mutazione dell’immagine della propria organizzazione militare e bellica. Lettere da Iwo Jima non è la rivelazione banale dell’alterità del nemico o, peggio!, l’apertura compassionevole al rimosso. No: è la dichiarazione semplice e sconcertante che non esiste nessun nemico, perché non esiste un altro luogo del nemico16.

L’annullamento del controcampo – come anche, lo si è visto il rovesciamento del senso del rapporto campo-controcampo in Mystic River – è l’operazione interna al classico che ne mostra la contemporaneità. Come? Evidenziandone la finzione attraverso le figure del cinema, non attraverso la dinamica del moderno, la messa in mostra cioè dei meccanismi della finzione cinematografica, ma per mezzo di una narrazione che, pur non uscendo fuori dalle “norme”, ne mostra il limite, il punto in cui esse si rovesciano nel loro opposto. Quello che Eastwood mostra con una chiarezza sibillina è ciò che è esplicito anche nel discorso teorico di Schmitt: il nemico è una finzione (per Schmitt necessaria). Finzione come costruzione: Mandela, in Invictus, costruisce un’ipotesi politica attraverso una doppia finzione, in primo luogo negando la logica del nemico, istituendo la commissione Truth   G.A. Nazzaro, L’epifania dell’altro, in “Filmcritica”, n. 573 (2007), p. 125.

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and Reconciliation come rovesciamento inaspettato della logica della vendetta. Se un Paese è stato vessato per decenni da una firma di politica razzista e discriminatoria come l’apartheid, logica vorrebbe che, nel momento in cui sono le vittime a prendere il potere, sia la vendetta a dominare, la resa dei conti come pareggiamento politico. È la logica del nemico, chiara e semplice. Ma Mandela rifiuta questa logica e la rovescia, annullando non i nemici, ma la possibilità che il nuovo Sudafrica si fondi su questa logica. In secondo luogo, Mandela, facendosi tifoso della squadra nazionale di rugby, taglia trasversalmente ogni logica della contrapposizione (straordinariamente e quasi didascalicamente rappresentata dalla sequenza d’apertura in cui sono visibili i due campi da gioco, quello da calcio dove giocano i neri e quello da rugby dove giocano i bianchi). Ma i film in cui il regista americano mostra con chiarezza le estreme conseguenze della logica schmittiana del nemico è proprio J. Edgar. Accompagnati dalla voce over dell’ormai anziano direttore del FBI che detta le sue memorie, vediamo concretizzarsi di fronte a noi una scena primaria, quella in cui, nel 1919, un poco più che ventenne Hoover, la notte degli attentati radical contro figure dell’establishment politico degli Stati Uniti, vagando come sonnambulo da una parte all’altra della città, decide di aver finalmente trovato (costruito) un nemico. Hoover sceglie infatti, quella notte, che la sua vita, lo scopo della sua vita è scagliarsi contro quel nemico (ritrovato), perché è a partire da questo che, direbbe Schmitt, il politico può essere formato, che uno Stato può essere difeso. 57

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Tutto il film ruota intorno a questo evento o, meglio, intorno a questa decisione. E il nemico non è astratto, ma concreto, J. Edgar Hoover darà vita ad una guerra reale, il cui principale artefice/creatore sarà proprio il direttore del FBI. In questo senso, il personaggio di Edgar Hoover è l’estremo limite della finzione politica. In J. Edgar non c’è nessun limite al potere come finzione, come autorappresentazione della dinamica amico/nemico, eroe/malvagio. Tutto viene sacrificato in questa finzione assoluta, anche la vita, anche l’amore (e questo vale per Hoover come per Clyde Tolson e per Helen Gandy, la segretaria privata del famigerato direttore). Hoover, quasi fosse regista di se stesso, si incarna nel personaggio dell’eroe, si rifiuta di accettare il verdetto della commissione che lo esamina e che gli fa notare che tutti i crimini sventati non siano opera sua, ma dei suoi agenti. In due sequenze centrali del film, il direttore del FBI si trova al cinema, e assiste prima al trailer di Nemico pubblico di William Wellman (nel 1931) e poi alla proiezione La pattuglia dei senza paura di William Keighley (nel 1935). Il passaggio tra i due film è significativo. Entrambi interpretati da James Cagney, i due film rovesciano lo stesso corpo d’attore in due ruoli opposti: nel film di Wellman, Cagney interpreta la parte di un gangster le cui vicende sono ispirate alla vita di James Dillinger, mentre in “G” Men l’attore interpreta la parte di un agente FBI. Lo stesso corpo rovescia il suo senso, si trasforma nel suo opposto17. Come di fronte allo 17

  Si sa che il film di Keighley – in cui un’icona del gangster

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Amicizia

schermo, Hoover si immedesima nella parte e partecipa alle azioni d’arresto, mettendosi in prima fila al momento opportuno, mostrandosi (anzitutto a se stesso) come eroe. La finzione si estende anche al potere, alla necessità di mettersi in scena come amico pubblico, contrapposto al nemico pubblico di turno. Il nemico è sempre pubblico, ricorda Schmitt, perché solo così esso è realmente capace di compattare un popolo, di costruire una nazione. J. Edgar dunque va ben al di là di Potere assoluto dove Luther Withney può alla fine contrapporsi alla follia del potere del Presidente Richmond; ancora una volta, il dispositivo del cinema classico rivela tutta la sua attualità. È in questo che il cinema di Eastwood può ancora porsi come forma contemporanea. Dunque si ritorna al discorso dei Greci. Qui ha avuto inizio il percorso, qui giunge al termine. La torsione che Eastwood fa compiere al concetto e alla pratica dell’amicizia è straordinariamente complessa e trasparente al tempo stesso. Alla fine di Mystic River, il campo-controcampo iniziale ritorna, ma è un movimento mancante. Da una parte ci sono i due ex ragazzi, ora adulti, in mezzo alla strada. Immobili mentre la macchina da presa si allontana come, molti anni prima, si era allontanato Dave a bordo dell’auto dei rapitori. Ora però nessuna macchina è visibile, se non come ricordo immagine-fantasma. Lo stesso mo-

movie come Cagney interpreta la parte dell’agente FBI – fu fortemente voluto dalle autorità del Governo Americano e dal FBI stesso, proprio per contrastare il fascino di una serie di film dalla parte del “nemico”, come Piccolo Cesare o Scarface.

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Daniele Dottorini

vimento marca un’assenza (Dave è morto ora, ucciso dall’amico che lo ha ritenuto erroneamente l’artefice dell’assassinio della figlia). L’amico scomparso è ora totalmente un fantasma, dopo essere divenuto nemico (nemico privato certo, non pubblico) e, come tale, eliminato. La dinamica dell’amicizia si è rivelata allora nel cinema di Eastwood come messa in gioco, sopravvivenza (come si diceva all’inizio) di quei concetti che dall’epoca dei greci hanno ossessionato, attraversato in mille forme, il pensiero e le forme espressive. Una dinamica aperta, come aveva compreso bene Nietzsche, che ne aveva mostrato l’intima follia, per quanto necessaria: «“Amici, non ci sono amici!”, gridò il saggio morente. “Nemici, non ci sono nemici!” grido io, il pazzo vivente»18.

  F. Nietzsche, Umano troppo umano, Libro primo, § 376, cit., p. 168.

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Esemplarità

Luca Venzi

ESEMPLARITÀ

Un uomo e un bambino ai piedi di un albero, uno vicino all’altro. Intorno a loro la natura e, a distanza di tiro, una fitta schiera di agenti di polizia, e la madre del bimbo. L’uomo è un malvivente fuggito di prigione. Il bambino è il suo ostaggio. È nel lungo, dilatato segmento che lo conclude che Un mondo perfetto, senza dubbio uno dei vertici assoluti del cinema del tardo Eastwood, non soltanto porta a pieno compimento tutte le direttrici configurative che lo percorrono – in accordo con una inclinazione compositiva propria del cosiddetto cinema della classicità –, ma si fa carico di esibire i luoghi immaginativi e formativi profondi che lo lavorano e che determinano la sua stessa conformazione. Mi riferisco alla macrosequenza, distesa lungo un arco temporale di circa venti minuti, in cui il protagonista, Robert “Butch” Haynes, evaso da un carcere in Texas nella notte di Halloween del 1963 e costretto a rapire un bambino di otto anni per continuare la propria fuga, riconsegna il piccolo alla polizia poco prima di essere ucciso. Si tratta di una sequenza di eccezionale pregnanza e densità, di una poderosa e complessa scena madre. Di più, si tratta di una sequenza in tutti i sensi esemplare attraverso cui il film conduce al punto di massima incandescenza 61

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Luca Venzi

il proprio impianto discorsivo e narrativo. Si può riconoscere, all’interno del segmento, un nucleo irradiante determinato: il momento della separazione e poi del ricongiungimento tra il piccolo Phillip e Butch, quello in cui appunto, il bambino, ricevuto il via libera dall’uomo, prima si congeda da lui per dirigersi verso sua madre e verso i poliziotti, poi, improvvisamente, ritorna da Butch, per incamminarsi, questa volta assieme a lui, nella stessa direzione. Nella macrosequenza complessivamente intesa e, soprattutto, nella sottosequenza cui ho appena fatto cenno – ma il film ha lungamente preparato questo momento, con il quale risuonano ovunque tracce, rime, rimandi – si compone in modo emblematico – esemplare, dicevo – una dinamica importante del cinema maggiore dell’Eastwood della tarda maturità: il (plateale) rovesciamento nell’orizzonte del simbolico dei materiali che compongono l’universo narrativo lavorato dal film e, più in generale, di modi e forme di certo cinema americano della classicità. Occorre tuttavia andare con ordine. Quando la macrosequenza ha inizio, la disperata fuga di Butch, di fatto, è finita. Il piccolo Phillip, che lungo il viaggio ha intrecciato con l’uomo un legame intenso e profondo, è stato da poco costretto a compiere un atto estremo e per lui dolorosissimo: ha dovuto sparare a Butch, nel tentativo di salvare, in un altro ampio segmento di eccezionale drammaticità1, la famiglia

  Su quel segmento è da vedere V. Buccheri, Un mondo perfetto, in G. Carluccio, a cura di, Clint Eastwood, Marsilio, Venezia 2009, in particolare pp. 80-85. 1

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Esemplarità

di contadini che li aveva ospitati. Ora il bimbo, in aperta campagna, è salito in cima a un albero e Butch, gravemente ferito, si accascia contro il tronco di quello stesso albero. Dice al piccolo che in Alaska (era lì che, secondo un disegno ideale e assurdo, gli aveva detto che stavano andando) vive il proprio padre e che la cartolina spiegazzata che egli possiede di quel luogo gli era stata inviata da lui. Quindi, stremato, si stende a terra. Phillip scende dall’albero e si distende su Butch. Un campo stretto li mostra quasi abbracciati e di qui in avanti saranno rare le inquadrature dell’uno che non comprenderanno anche la presenza dell’altro. L’uomo pare sorpreso di trovarsi il piccolo addosso: «Ci credo eccome nei fantasmi… ­­– afferma – È la prima volta che mi sparano». Dice così perché esattamente dalla metà del film il piccolo indossa un costume di Halloween del fantasmino Casper, che ha rubato in un negozio e che non si è tolto più. Phillip si mostra addolorato per il gesto che ha dovuto compiere. E l’uomo gli crede. Intanto decine di auto e di uomini armati – tra cui il ranger Garnett e i suoi, che per tutto il film hanno dato la caccia a Haynes – appaiono all’orizzonte e si fermano a qualche centinaio di metri dai due. Butch è disarmato. Arriva anche la madre del bimbo e con il megafono implora il fuggiasco di lasciare andare suo figlio. Butch sa di non avere scampo e così – ecco il momento della separazione – annuncia a Garnett di prepararsi a ricevere il piccolo. Purché lo accolga con i dolcetti di Halloween. Phillip non li ha mai avuti e non ha mai celebrato quella festa poiché la sua religione glielo impedisce. «Trovami i dolcetti – dice al ranger – e io ti consegno il fantasma». Per Phillip 63

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“Una cosa è certa adesso... ci credo eccome nei fantasmi. È la prima volta che mi sparano”

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Esemplarità

e Butch è giunto il momento di dividersi. Un primo piano dell’uomo, di profilo, sulla destra dell’inquadratura, e le mani dei due che si stringono, nel centro, in segno di saluto. «Ciao Phillip. Ci siamo divertiti un sacco». Primo piano del bambino che comincia a piangere, poi un’inquadratura dall’alto, sui due. «Ok capitano! – urla Butch – Fate largo a Casper il fantasmino... l’amico più grande che ho». Vestito da fantasma, con tanto di maschera sul volto, Phillip si avvia incontro alla madre e ai poliziotti. D’un tratto – ed ecco il momento del ricongiungimento –, il bimbo si ferma. La madre gli urla di correre e lui lo fa, ma verso Butch, che, carponi, sta tentando disperatamente di allontanarsi. Torna da lui perché teme che i poliziotti lo uccidano. Quattro rapidissime inquadrature descrivono e quasi mimano, avvolgendo i due personaggi, l’abbraccio tra l’uomo e il bambino. Attraverso la soggettiva del tiratore scelto che guarda nel suo mirino, osserviamo il bimbo aiutare l’uomo a sollevarsi da terra. Quindi il dettaglio della piccola mano di Phillip, sulla destra del quadro, nella mano dell’adulto, sulla sinistra. Le due mani si tengono occupando il centro dell’inquadratura. La sequenza sta per chiudersi e il film con essa. Garnett si fa incontro ai due, Butch può parlare un’ultima volta al bambino, prima di consegnarglielo e di consegnarsi alla legge. Vuole dargli la cartolina dell’Alaska e fa per estrarla dai pantaloni. Il tiratore, che osserva da lontano, è spaventato dal gesto e gli spara un colpo nel petto. Il bimbo piange disperato ma è libero e sua madre, che è corsa da lui, lo raggiunge. Dal suo costume strappato scivolano via i soldi che l’uomo gli aveva detto di portare con sé. 65

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Butch muore, ma ha ancora tempo per sentire che Phillip viene condotto via, a bordo di un elicottero. Ce ne danno conto delle inquadrature, suggestive ed essenziali, del tutto simili ad altre comprese nei titoli di testa del film: vi compaiono Butch disteso a terra, la maschera del fantasma alla sua destra, le banconote che volteggiano su di lui. Poco più avanti, su una straordinaria inquadratura aerea che si allontana da tutto e si fa solo paesaggio, giungono i titoli di coda. Dunque, una scena madre che costituisce un vero e proprio blocco narrativo – la fine di Butch e del film – in cui il film si incarica di raccogliere gli elementi configurativi portanti che informano il suo intero lavoro costruttivo. E, insieme, una sequenza esemplare, che si fa capace di totalizzare la definitiva precipitazione nel simbolico del complessivo processo di elaborazione narrativa sviluppato dal film. Fin dall’inizio e lungo tutto il corso di Un mondo perfetto, tale precipitazione – qui esemplarmente e definitivamente messa in immagine – si articola essenzialmente su due livelli: un livello, per così dire, di superficie, vale a dire molto evidentemente esibito dal testo, e un livello profondo, più astratto e insieme più radicale. Il livello di trasformazione simbolica di superficie è quello che consente di leggere la vicenda del film, quella di un fuggiasco che rapisce un bimbo di otto anni e si lega a lui di un intenso sentimento di vicinanza emotiva, come la storia dell’incontro tra un padre e un figlio. È nel momento del ricongiungimento tra Butch e il bambino, nella sequenza finale, che questo livello di simbolizzazione pare conoscere il suo punto di incandescenza. Il livello di simbolizzazione profondo è, per contro, quello che consente di 66

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Esemplarità

leggere la storia di Un mondo perfetto come la storia di un uomo che viaggia incontro alla morte accanto al fantasma della sua infanzia perduta. Il punto di incandescenza di questo più radicale e complesso livello di simbolizzazione pare raccogliersi, nella sequenza finale, nel momento della separazione tra Butch e il bambino. 1. Concentriamoci dunque sul primo livello, il più evidentemente esposto dal testo e il più semplice in termini di articolazione compositiva. Mano a mano che il racconto procede, Butch diventa agli occhi dello spettatore “il padre” di Phillip, si sostituisce idealmente al padre naturale del bimbo, che questi praticamente non conosce, essendo stato da tempo abbandonato da lui. Ma Butch si trasforma presto anche nel padre che egli stesso non ha mai avuto, diventa il padre che gli è mancato. E Phillip non è che la rifigurazione, agli occhi dell’uomo, del bambino infelice che egli è stato. Per tutto il film questo motivo viene sviluppato in modo insistito ed evidente. Come un padre, Butch protegge il piccolo Phillip, gli insegna quello che sa, lo rassicura. Fin dal loro primissimo incontro – l’irruzione improvvisa nella casa del piccolo, la notte di Halloween –, ha nei suoi riguardi un atteggiamento protettivo, racchiuso nel tentativo di rovesciare in un quadro ludico irreale la situazione altamente drammatica che li mette di fronte2. Lì domanda al piccolo di puntare contro di   Cfr. B. Benoliel, Clint Eastwood, tr. it., Cahiers du cinéma Sarl, Paris-Milano 2010, p. 60.

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lui la pistola e di intimargli di tenere in alto le mani. È il gioco con cui lo protegge da Terry, l’altro evaso che Butch ucciderà più tardi proprio per difendere il bimbo. Haynes è qui «un padre piovuto dal cielo»3 che difende l’infanzia di Phillip. Molto più avanti, il bambino punterà ancora l’arma su Butch, ma stavolta per sparargli davvero, portando a termine il gesto sospeso nel suo primo incontro con l’uomo4. L’uscita dall’innocenza e la fine di ogni illusione, che è il grande orizzonte in cui il film iscrive il suo intero lavoro di curvatura simbolica dei materiali e delle forme discorsive e narrative, pretende l’uccisione dei padri. Questo livello fortemente esibito di simbolizzazione dell’istanza narrativa o, ed è lo stesso, questo livello simbolico evidentemente dichiarato dal testo, può più precisamente descrivere l’intero film come il cammino di un figlio incontro a suo padre. È questo, in ultima analisi, il cammino intrapreso da Butch, che molto presto inclina la concretezza tragica della sua fuga sul movimento puramente ideale verso l’Alaska, inarrivabile casa del padre, da raggiungere possibilmente con una Ford («Mio padre guidava solo le Ford, lo sai?», dice a Phillip)5. Egli sa che la sua fuga può coincidere con la fine e prima della fine occorre tentare l’impossibile e trovare il padre che non ha mai

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  Ibidem.   Ibidem.

  E fin dalla fuga notturna dal carcere di Huntsville, nella primissima parte del film, egli ripete a Terry che ciò che occorre loro per stare al sicuro è proprio una Ford. 5

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avuto vicino. «Un giorno – legge nella cartolina che il padre gli ha scritto – potresti venire a trovarmi, così noi due potremmo conoscerci meglio». Ma il padre di Butch è un posto vuoto e impassibile, una perfetta chimera. Allora l’evaso potrà almeno trasformarsi lui stesso nel padre che non ha avuto. E cercherà, come può, nell’impossibile spazio di sospensione in cui la sua vita e quella del bambino che ha rapito si trovano, di essere per Phillip tutto ciò che suo padre non è stato per lui. In quello stesso spazio, che coincide in tutto con un percorso adozionale, Butch cerca dunque di colmare una doppia assenza: quella di suo padre e quella del padre naturale di Phillip. Agisce per Phillip e così facendo sostituisce all’autorità genealogica del padre che si è fatto assente l’autorevolezza del padre adottivo, extrabiologica, contingente, interamente costruita su un atto etico singolare6. Diventare il padre di Phillip (e sostituirsi disperatamente al proprio stesso padre) è quest’atto, ed è ciò che consente a Butch di costruire con il piccolo il rapporto contingente che li unisce e che pure reca i tratti del paradigma sentimentale, dell’esempio affettivo di ciò che significa amarsi come padre e figlio. Questa esemplarità è raggiunta fuori dalla discendenza genealogica, fuori da ogni modello educativo (Butch è un bandito e non smette di comportarsi come tale), fuori da qualsiasi

  Su questi temi si veda M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, cui qui si fa esplicito riferimento. L’ultimo capitolo del volume è, tra l’altro, dedicato a Eastwood (a Million Dollar Baby e a Gran Torino).

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principio di normalità e fuori, infine, da qualsivoglia istanza normativa. È un’esemplarità fuorilegge. Il fuorilegge Butch Haynes non troverà il padre che cerca in fondo al suo cammino, ma un figlio che ha trovato suo padre. Occorre tornare alla sequenza finale e in particolare al momento del ricongiungimento tra Phillip e Butch. Qui, in un solo momento e una volta per tutte, Phillip fa ciò che lui e il suo rapitore hanno fatto per l’intero corso del film: cerca suo padre, cammina incontro a lui, e lo trova, o più esattamente lo riconosce. È l’abbraccio di un padre e di un figlio quello che lega Butch e Phillip poco prima della morte dell’uomo, quello in cui essi diventano ciò che per tutto il film ci hanno dato l’impressione di essere. La straordinaria messa in immagine di quell’unione (le quattro rapide inquadrature avvolgenti in cui, direi in modo ejzenštejniano, le forme modellano plasticamente l’idea del legame che avvince i due personaggi) rivela l’attenzione e la concentrazione di Eastwood attorno a un momento così decisivo. Padre e figlio, trovatisi nel solo modo in cui qui è possibile farlo, vale a dire scegliendosi, camminano insieme e, come un padre e un figlio, si tengono per mano. Di nuovo, la mise en scène mette in forma il rilievo di ciò che mostra. Il gesto che sancisce il loro andare insieme è restituito in dettaglio e collocato (classicamente) nel centro dell’inquadratura. La sequenza che chiude il film, allora, diviene il luogo in cui in modo esemplare e definitivo la storia dell’ardua empatia tra un galeotto e un bambino si trasforma nel cammino di un figlio incontro a suo padre. Qui e solo qui lo spettatore ne è certo: ciò che gli è parso di poter cogliere lungo il 70

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corso del film ha assunto emblematicamente una forma, si è cristallizzato in una scena di impressionante densità emozionale ed espressiva, si è in definitiva depositato in due gesti conchiusi e determinati: stringersi l’uno con l’altro, entrambi spaventati e soli, e andare per mano incontro al proprio destino. Di lì a poco Butch consegnerà al bimbo la sua cartolina gualcita, nella speranza, egli dice, che un giorno possa essere lui, il piccolo, a recarsi in Alaska, dal momento che insieme non ci sono riusciti. È ciò che fa un padre quando sa che la sua vita è finita. Chiede a suo figlio di completare, se può, ciò che a lui non è riuscito di fare. Ma Phillip in Alaska c’è arrivato già. Qui e per sempre, si trova accanto a suo padre. 2. È per il tramite del secondo livello di trasformazione simbolica dei propri materiali discorsivi e narrativi che Un mondo perfetto modella e mette in forma le dinamiche immaginative profonde del proprio processo costruttivo. Qui le zone di intersezione tra la vita del piccolo Phillip e quella di Butch vengono declinate, in modo perfino azzardato, nei termini di una atemporale coincidenza: in ragione di essa, Phillip non è, nel discorso fabulatorio profondo mobilitato dal film, soltanto una figura di Butch bambino, egli è, alla lettera, il fantasma di Butch bambino. Per un tempo pari alla metà del film, vi si accennava, il piccolo abita il racconto nelle vesti di un fantasma. Ed esplicitamente come a un fantasma, nel testo, si fa riferimento a lui. Nel negozio dove ruberà il costume poco prima di tornare a lanciarsi nell’auto di Butch, posa per la prima volta sul volto la maschera di Casper; la commessa, sorridendo, riconosce il personag71

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gio («Guarda… il fantasmino amico») ma nello stesso tempo assegna subito un nome alla connotazione simbolica più radicale che il film va costruendo attorno a Phillip. Quando, in cerca di cibo, Butch e il bimbo bussano alla porta di una casa di campagna proponendo fuori tempo (Halloween si celebrava il giorno precedente) il ritornello del dolcetto e dello scherzetto, la donna che compare sulla porta effettua la stessa operazione: «Sei proprio il fantasma più carino che io abbia mai visto». Anche attraverso i dialoghi, dunque, e cioè non soltanto attraverso quella che da un certo momento in poi è la definitiva modellizzazione dell’aspetto di Phillip, il film elabora il proprio minuzioso processo di simbolizzazione. In ragione della sua radicalità, evidentemente incompatibile con un film co-prodotto e distribuito da una major se non attraverso l’iscrizione in un genere riconoscibile (horror, fantasy, science-fiction, ecc.), tale lavoro di simbolizzazione è di fatto coperto o per così dire filtrato da motivazioni di ordine informativonarrativo. Insomma, che si parli di Phillip come di un fantasma e che per gran parte del film egli ci appaia letteralmente come l’emblema di uno spettro, è consentito dal fatto che il racconto è ambientato durante la notte di Halloween e nei giorni immediatamente successivi alla festa, la quale prevede il mascheramento dei bambini, spesso improntato a figure notturne, spettrali, ecc. Phillip, inoltre, che non può festeggiare Halloween e ha evidentemente desiderio di travestirsi come tutti i suoi coetanei, è stato rapito quando indossava poco più che una maglietta: è esattamente lungo queste tessiture informativo-narrative che il racconto legalizza pienamente la stessa prolungatis72

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sima, e perfino parossistica permanenza del bimbo con il vestito del fantasma indosso. È tale garanzia fabulatoria che tende a normalizzare, a collocare in una dimensione sottotestuale, il processo di elaborazione simbolica attivato dal film. Si pensi ancora, a questo proposito, al momento, nella grande sequenza conclusiva, in cui, come scosso dalla inaspettata presenza di Phillip accanto a sé, Butch afferma di credere ai fantasmi. Immediatamente dopo, il dialogo normalizza l’ennesima nominazione dell’orizzonte simbolico del film dotandola di un importo sarcastico narrativamente motivato («È la prima volta che mi sparano»). Questa logica della necessaria motivazione di un qualsivoglia eccesso di ordine compositivo (in questo caso un potente processo di simbolizzazione) è, come è noto, uno dei tratti individuanti dell’impianto costruttivo del film americano classico7. L’identificazione simbolica tra Phillip e il fantasma è dunque motivata dal film e tuttavia il lavoro compositivo che Eastwood mobilita attorno a tale identificazione è evidentemente più complesso della dinamica eccessomotivazione in cui pure viene inscritto. Se è vero cioè che Eastwood, con sorprendente rigore formativo, sapienza stilistica, nitore espositivo, ecc., riscrive in forma postuma le forme e le figure del cinema classico americano, è egualmente vero che attorno a esse (e in generale a tutto un certo immaginario del film hollywoodiano della classicità) mobilita con costanza

  Cfr. D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Columbia University Press, New York 1985, p. 12 e sgg.

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dinamiche formative complesse che tendono a ispessire, a sovratensionare, e per ciò stesso a deformare quelle stesse forme e figure, e di fatto a perlustrarne i limiti e le potenzialità. La poderosa precipitazione nel regime del simbolico che interessa molti dei film maggiori dell’autore americano è forse la più riconoscibile di queste dinamiche8. Si dirà allora che la complessità del lavoro compositivo che il film dispiega attorno al motivo della presenza di Phillip come una presenza fantasmatica, o perfino allucinatoria, del bambino che Butch è stato, è pari all’importanza che essa assume nel film. Si tratta, come detto, di uno dei pensieri profondi del testo, di uno dei grandi nuclei generativi della sua immaginazione costruttiva, capace di collocarsi alla radice dell’intero processo configurante. Del resto Un mondo perfetto ne propone immediatamente, potremmo dire ancor prima di cominciare, una densissima concrezione visuale: mi riferisco alle inquadrature comprese nei titoli di testa, quelle in cui non compaiono che Butch morente a terra (ma lì lo spettatore non può saperlo), una maschera posta accanto al suo volto (la maschera del fantasmino), le banconote portate dal vento. Al loro

  Con ciò, è chiaro, non si vuole in alcun modo sottintendere che il cosiddetto cinema americano classico non conoscesse già processi elaborati di articolazione simbolica dei propri materiali – pur sempre inquadrati nelle regole che definiscono il suo codificato universo compositivo –, ma solo rilevare come proprio attraverso una consapevole perlustrazione della potenza del simbolico passino con costanza in Eastwood istanze di ripensamento, di rifigurazione, oltreché di vera e propria trasfigurazione di modi e forme del film classico americano.

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primo passaggio, queste immagini ci si presentano perfettamente sospese nella loro enigmatica afasia. E tuttavia nel momento in cui esse vengono riprese nel finale del film, e in particolare nella parte conclusiva della sequenza che abbiamo definito esemplare (cui spetta il compito ulteriore di dichiarare la natura circolare dell’intero racconto), rivelano per intero la loro pienezza tematica ed espressiva. Il processo profondo di simbolizzazione che il film ha costruito si raccoglie qui in un unico blocco visuale, il cui valore e la cui pregnanza – ancora: il cui tratto di esemplarità – vengono evidentemente rimarcati dalla sua dimensione insieme ultimativa e inaugurale: tra la sua prima e la sua seconda occorrenza nel film, si posiziona l’intero tragitto compiuto da Butch, vale a dire l’ultimo viaggio di un uomo assieme all’ombra del bambino che è stato. Per intraprendere un viaggio del genere, non occorre una Ford, come egli crede, ma una macchina del tempo che materializzi al presente la sua infanzia e gli consenta di portarla con sé ovunque si tratti di andare. Anche questo il film lo dice molto presto: «Sei mai stato su una macchina del tempo? – chiede Butch a Phillip mentre attraversano la campagna in auto – E secondo te questa cos’è? Stiamo viaggiando nel tempo attraverso il Texas». Davanti all’automobile, afferma, c’è il futuro, e dietro il passato. Ma per Butch, nella macchina del tempo che il film ha costruito per lui, passato e futuro si confondono o si scambiano di posto9, in un autentico cortocircuito spazio-temporale.   Cfr. A. Pezzotta, Clint Eastwood, Il Castoro, Milano 2007, p. 119.

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La corsa dell’uomo, di fatto, non fa che tornare su unico punto, che ora è descritto come un cieco e impossibile avvenire (l’Alaska), ora come un irremovibile passato (suo padre). Butch crede di andare incontro a suo padre e invece muove incontro alla morte. Oppure crede di andare incontro alla morte e per questo vorrebbe tornare a vedere suo padre. In ogni caso, affronta il suo viaggio con lo spirito del bambino che è stato. E allora viaggiare nel tempo conta più di ogni approdo. La grande sequenza finale ritorna su questi motivi. «Ho bisogno di una macchina del tempo per andare dove devo andare», dice Butch al bimbo, ma il tempo è finito. È giunto il momento di prendere coscienza in via definitiva che il tempo dell’innocenza è perduto, e con esso tutte le illusioni, perfino le più segrete e implausibili che pure la vita non aveva fino in fondo oscurato, maturate durante un’infanzia triste e piena di sogni. L’ombra di quell’infanzia non ha mai abbandonato Butch. Lo ha accompagnato ancora una volta, in fondo alla sua fuga disperata e in fondo alla sua stessa esistenza. È giunto il momento di separarsene. «Trovami i dolcetti e io ti consegno il fantasma», vale a dire rendo alla vita quel niente che essa mi ha dato e che pure consiste in tutto ciò che possiedo. «Fate largo a Casper il fantasmino», urla Butch contro il mondo, privo di ogni speranza, ma con l’orgoglio di aver tenuto fede fino all’ultimo alla purezza delle proprie illusioni di ragazzino. Poco prima aveva detto al piccolo Phillip, decidendo di lasciarlo andare, di voltarsi verso i poliziotti e – la maschera dello spettro sul volto – di procurare loro uno spavento. Il fantasma dell’infanzia perduta può ancora fare paura, con tutta la sua radicale innocenza, 76

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all’incomponibile imperfezione del mondo. Ma poco importa. È il momento del distacco tra Butch e Phillip, o della separazione tra l’uomo e l’immagine del bambino che egli era. Ancora una volta, nella sequenza finale, è un gesto semplice e nudo, collocato nel centro del quadro, a farsi carico di restituire la vertiginosa densità emozionale e concettuale che lo attraversa: Butch e Phillip si danno la mano. È la forma esemplare e definitiva di una presa di coscienza. La sua infanzia triste l’uomo l’ha persa definitivamente e fino in fondo soltanto qui e soltanto ora. Per questo adesso è pronto a morire. 3. Un mondo perfetto è un film di rara complessità compositiva e non è semplice rendere conto per intero delle implicazioni, dei risvolti, delle pieghe che determinano quella stessa complessità. La sequenza su cui soprattutto si è lavorato fin qui, è, mi pare, una via privilegiata per indagare la stratificazione del film proprio in ragione del fatto che mentre rivela, ad evidenza, la centralità e il rilievo del suo stesso funzionamento, essa davvero convoglia in sé e scioglie ciascuno dei nodi tematici ed espressivi su cui il testo ha lavorato. Si può solo accennare, qui, per esempio, che in essa si compone in modo organico anche l’altro grande polo duale del film, quello tra Butch e il ranger Garnett. Anche quest’ultimo ha a che fare con il passato dell’evaso: nel tentativo di sottrarlo a un padre violento e di evitare che diventasse come lui, lo ha fatto rinchiudere poco più che ragazzino. Butch, che sta regolando i conti con tutta la propria esistenza, non può non trovarsi, nell’inclinazione totalizzante che attraversa l’ultimo grande blocco narrativo del 77

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Luca Venzi

film, di fronte all’uomo che lo ha reso quello che è. Garnett non ha saputo impedire che Butch andasse incontro al proprio destino di criminale, così come adesso, mentre gli va incontro lealmente, fronteggiandolo senz’armi, non sa impedire che venga ucciso dal tiratore dell’FBI. Le sue certezze – legalità, giustizia – lo hanno condotto a sbagliare due volte e ora certezze non ne possiede più. «Non so niente – dice alla psicologa che lavora con lui –. Non lo so e non lo voglio sapere». È l’ultima battuta del film. Ciò che più in generale occorre rilevare relativamente a quanto esposto fin qui è che la complessità di Un mondo perfetto va letta soprattutto a partire dalla sorprendente capacità di Eastwood, e del suo sceneggiatore John Lee Hancock, di comporre in un disegno perfettamente coeso i diversi piani su cui si articolano tutti i motivi che attraversano il film. È importante osservare, allora, come i due livelli di simbolizzazione mobilitati dal testo non si configurino mai come evidentemente distinti l’uno dall’altro, ma al contrario coesistano, si sovrappongano, si coappartengano in una stessa tessitura espositiva tanto stratificata quanto sorretta da una esibita organicità. La sequenza finale lo mostra ancora una volta in modo esemplare: il livello simbolico di superficie – il cammino di Butch (e Phillip) come un cammino in cerca della figura paterna – e il livello simbolico profondo – la figura di Phillip come lo spirito dell’infanzia di Butch – vengono condotti al loro punto di incandescenza, al più alto grado di formalizzazione e di esposizione nel testo, praticamente in un unico momento (la sottosequenza della separazione e del ricongiungimento tra i due), in cui di fatto essi 78

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Esemplarità

coesistono perfettamente l’uno accanto all’altro ma anche, evidentemente, si incrociano o si toccano in più punti. È l’intera struttura compositiva del film a lavorare in questa direzione. Si pensi, di nuovo, alla sequenza in cui Phillip indossa per la prima volta la maschera facciale di Casper. La commessa del negozio, lo ricordavo sopra, avvia l’insistito processo di nominazione di una delle figure simboliche del film («Guarda… il fantasmino amico») ma, riferendosi a Butch, che ha visto entrare insieme al piccolo, vi accosta immediatamente anche l’altra: «Se tuo padre ti compra il costume…». Convocati all’interno di un vertiginoso cortocircuito poetico, morale, spaziotemporale, in Un mondo perfetto Butch e Phillip sono in definitiva un padre e un figlio, ma anche, simultaneamente, una sola persona in tempi e in esistenze differenti. E tuttavia l’importo di senso dovuto all’elaborazione simbolica che il testo dispiega sui propri materiali non pregiudica in alcun modo la declinazione narrativa primaria, più immediata e riconoscibile, di quegli stessi materiali. Per tutto il film, cioè, e fin dentro la grande sequenza finale, i due protagonisti non smettono per un momento di essere un fuggiasco disperato e un bambino preso in ostaggio, i quali – solo un film che riattraversa le forme del classico, in fondo, può sostenerlo – diventano amici e lo diventano per sempre. Il motivo dell’amicizia virile (interamente declinata in un orizzonte maschile è l’educazione alla vita che Butch costruisce per il piccolo Phillip10), figura portante di certo 10

  Ivi, p. 118.

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Luca Venzi

grande cinema classico americano, è qui, si diceva, ispessito, sovratensionato, deformato da un processo di ripensamento e di rifigurazione (un processo di riscrittura11) che non ne cancella i tratti di riconoscibilità ma li precipita in un più vasto e articolato quadro di pensiero che ha nel regime del simbolico il suo principio di determinazione. Le figure, le forme, lo stile di tutta una certa tradizione della classicità cinematografica americana, ostinatamente percorsi dal cinema eastwoodiano, vengono così chiamati a con-tenere (cioè, propriamente, a comporre, a tenere insieme), fino al limite delle loro capacità, fino al punto in cui sia possibile verificare la loro stessa tenuta, processi complessi di composizione che ripensano quella tradizione (basti pensare all’articolato lavoro dell’autore californiano sui generi) e insieme si fanno carico di trasfigurarla. Sono spesso grandi scene madri – talvolta ultimative –, o più in generale grandi sequenze determinate, a incaricarsi di esibire in modo intenso il lavoro di riscrittura che Eastwood dispiega sul film classico americano. E spesso, come accade in Un mondo perfetto, a iscrivere quel lavoro nell’orizzonte definito dalla potenza del simbolico. Tale orizzonte assume in Eastwood configurazioni talora di assoluto rilievo testuale. Solo a titolo d’esempio, si pensi a Gran Torino e in particolare alla sequenza della morte di Walt Kowalski: anche

11   Sul ripensamento e sulla riscrittura eastwoodiani della nozione di classicità, si veda G. Carluccio, Il cinema di Eastwood. Questioni, paradossi, film, in Id., a cura di, Clint Eastwood, cit., pp. 7-24, e, in generale, i diversi saggi che compongono il volume.

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qui il film, che ha orientato i propri processi di simbolizzazione attorno alla trasformazione progressiva del vecchio reduce solitario nel padre “adottivo” dei due ragazzini orientali incontrati sul finire della vita, rivela, in sottofinale, l’altra poderosa iscrizione simbolica che segna il suo intero lavoro configurativo: Walt si sacrifica per Thao e Sue (e insieme trova la strada per redimere i propri peccati) e muore cadendo in terra con il corpo disteso in forma di croce; si pensi alla fine di Maggie in Million Dollar Baby, vale a dire al momento in cui Frankie Dunn, ennesimo “padre” ideale del cinema eastwoodiano – come Butch Haynes, come Kowalski, come Kuribayashi in Lettere da Iwo Jima, come lo stesso Mandela in Invictus –, trova il coraggio impossibile di uccidere per pietà la “figlia” paralizzata, rivelandole che il nome che le ha dato per la boxe significa «mio sangue, mio tesoro»; all’uccisione di Dave in Mystic River, perfetta creatura sacrificale di un mondo votato all’orrore; e ancora, alla grande sequenza finale de Gli spietati, in cui l’atroce William Munny, redento pro tempore dalle cure di una moglie perduta, ridiventa davvero ciò che è sempre stato: lì (e solo lì) torna ad essere «l’angelo della morte», il demone «dagli occhi di serpente» che, tempo prima, lui stesso aveva visto nel delirio della febbre, temendo fosse giunto il tempo di morire. In questa prospettiva, allora, Un mondo perfetto – che con Gli spietati inaugura una stagione evidentemente cruciale della pratica filmica dell’autore americano – sembra configurarsi esso stesso, vale a dire per intero, come un film autenticamente esemplare per comprendere e cogliere al lavoro alcune 81

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delle dinamiche compositive cardinali del cinema più compiuto e più grande dell’ultimo Eastwood. Il film pare insomma candidarsi a restituire in modo emblematico, e con estrema puntualità, tanto il complesso lavoro che Eastwood effettua sulle forme del classico (una riscrittura condotta fino al limite della loro tenuta) quanto l’inclinazione dell’immaginazione eastwoodiana a perlustrare il regime del simbolico (a farvi precipitare il farsi del discorso narrativo), inclinazione che spesso tende a orientare quello stesso lavoro. Occorre ancora notare che il doppio processo di simbolizzazione attivo nel film compone sul motivo primario dell’amicizia dei protagonisti, motivo ad evidenza proprio anche del cinema dello stesso Eastwood, paradigmi concettuali l’uno e l’altro fortemente ricorsivi nei lavori dell’autore: il rapporto elettivo padre-figlio, evidentemente, mai pacificato e invece sempre segnato da una ricerca, da un travaglio, da un cammino difficile e faticoso, ma anche la figura dello spettro, costantemente e variamente modellizzata. Più in generale, nel film è nitidamente rilevabile la tendenza della composizione eastwoodiana a iscrivere nella concretezza quasi minerale di personaggi e situazioni, e nella loro marcata consistenza emozionale, evidenti dinamiche di generalizzazione. La potenza del narrativo in Eastwood, la pienezza e la compiutezza dei suoi processi configurativi – che evidentemente egli deriva dall’orizzonte del classico ma che altrettanto evidentemente non cessa di rielaborare lungo tragitti del tutto personali – possono essere ricondotti a questo stesso elemento. Più esat82

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tamente, con la naturalezza dei grandi narratori (dei grandi narratori tout court, ben al di là delle forme del filmico), Eastwood lavora nello spazio che si apre tra l’irruzione di un evento singolare (un incontro, molto spesso, ma anche una ferita, un ritorno, una scomparsa, ecc.), sempre provvisto di un eccezionale potere di frattura, e la progressiva determinazione di unità di senso elaborate in termini di massima generalizzazione, la cui compiuta modellizzazione tende proprio a comporsi in porzioni di racconto drammaturgicamente cardinali, in grandi scene madri, si diceva, o in grandi sequenze esemplari. In Un mondo perfetto come in Gran Torino, ne I ponti di Madison County, come in Million Dollar Baby, ne Gli spietati come in Mystic River o in Changeling, il processo di configurazione narrativa disegna propriamente questo spazio. Un esempio direi contrastivo rispetto a questa tendenza si trova forse proprio nell’ultimo lavoro eastwoodiano, il recentissimo J. Edgar, dove di fatto il racconto effettua un movimento per certi versi contrario a quello appena descritto: qui Eastwood muove dalla rappresentazione di un concetto, e precisamente di un concetto del Potere, o di un modello di funzionamento del Potere – lo Stato di Polizia – e raggiunge la progressiva definizione di un ritratto individuale, di una figura singolare, pure descritta in tutta la sua wellesiana, malvagia monumentalità. La stessa configurazione della regia ne dà conto: ciò che primariamente interessa qui all’autore americano è cogliere al lavoro un’idea del Potere come controllo paranoide, persecuzione, sopraffazione, violenza e rintracciarla negli spazi chiusi e oscuri delle stanze 83

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del comando; così la mise en scène è come rinchiusa in quelle stanze, stretta nei corridoi, negli spazi angusti degli archivi, attorno alle poltrone e alle scrivanie. Ed è qui che trova Hoover, tormentato e cupo e, pur nel mosso e articolato mosaico temporale che il film compone, sempre uguale, unicamente intento nel territorio claustrofobico del suo dominio. Egli si affaccia appena sull’America che tiene sotto controllo, e intanto, quasi fuori campo Eastwood tratteggia cinquant’anni di (oscura) storia statunitense. La riflessione sulla storia americana, come un’ostinata rivisitazione dei suoi peccati, è certo un altro grande nodo del cinema eastwoodiano maggiore. Concludo dunque su questo stesso nodo, e torno, per l’ultima volta, su Un mondo perfetto, sulla sua complessità, sulla potenza simbolica che lo attraversa. Si può sostenere che tutto ciò che in esso si racconta è preso in una marcata curvatura simbolica il cui raggio d’azione più ampio e inglobante è quello definito dall’iscrizione storica e geografica della vicenda. Il Texas del novembre del ‘63 è il luogo e il tempo in cui si situa esemplarmente la fine delle grandi illusioni della storia politica e civile statunitense, il luogo e il tempo della fine di J.F. Kennedy. Il film è ambientato pochi giorni prima di quella fine: in una notte degli spettri della storia americana.

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Icona

Marcello Walter Bruno

ICONA

Quando passiamo in rassegna la storia delle immagini, in realtà passiamo in rassegna la storia della consacrazione. David Freedberg

Un uomo, Walt Kowalski, ex operaio della Ford ma anche veterano decorato della guerra di Corea, punta il suo fucile mentre, sullo sfondo, la bandiera a stelle e strisce, che carica di sacralità la proprietà privata del suo giardino del bene e del male, sembra promanare dal suo corpo. È in questa inquadratura di Gran Torino che è possibile trovare la sintesi estrema dell’icona americana. Inquadratura talmente ricercata nella sua connotazione – quell’effetto di co-appartenenza che Jacques Rancière chiama “montaggio simbolico” – da essere ripetuta con significative varianti: quando il prete va a parlare a Kowalski al bar, c’è ancora una bandiera che lo affianca subliminalmente; quando il prete torna alla carica nel cortile di casa Kowalski, per metterlo difronte ai suoi sensi di colpa, il vento sposta l’Old Glory dal peccatore all’uomo di fede; 85

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Marcello Walter Bruno

poi, le stelle e le strisce finiranno con lo spostarsi verso la ragazza hmong e suo fratello Thao, quasi a suggellare il passaggio di consegne dei valori statunitensi ad un’etnia diversa da quella wasp. Non esiste ideologia senza icone. La “complessificazione” eastwoodiana passa, negli anni Zero, attraverso un doppio confronto con l’iconicità: la rilettura analitica di alcune “formule di pathos”, da intendersi qui come simboli appartenenti all’immaginario collettivo statunitense; la presa in carico del lavoro cinematografico come “rimediazione” delle tecnologie iconopoietiche, segnatamente della fotografia e della televisione. Film come Flags of Our Fathers o Invictus sono icono-poiesi attuali e contemporaneamente rivisitazioni (non necessariamente decostruzioni) di icono-poiesi passate: il cinema, allora, vale come metalinguaggio per l’analisi del rapporto fra politica e fotografia, fra politica e televisione. Dal Charlie Parker di Bird all’Hoover di J. Edgar, passando per il John Huston occultato in Cacciatore bianco, cuore nero, l’american icon Clint Eastwood ha attivato un confronto diretto con la mitopoiesi della cultura statunitense, sia quella artistica (il jazz e il cinema come contributo d’eccellenza al Novecento occidentale) e più latamente industriale (la produzione automobilistica, segnatamente la marca eponima del sistema fordista, in Gran Torino), sia quella politica. D’altro canto, se «in termini di longevità sugli schermi, non esiste star o altra icona americana in grado di tenere testa a Eastwood»1, non è possibile   T. Schatz, Introduzione a D. Frangioni, Clint Eastwood l’icona,

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sconnettere la griffe registica dal carisma del corpo attoriale, il cui big bang si espande nel doppio universo del western postmoderno (generato dallo “spaghetti” di Sergio Leone) e del noir urbano post68 (linea Siegel). Il cinema easthollywoodiano è il contrario dell’iconoclastia: e in effetti film come Flags of Our Fathers e Invictus non mostrano la nascita dell’icona o del carisma, ma iniziano invece dal punto in cui il capitale simbolico dev’essere gestito per il raggiungimento di uno scopo che trascende la stessa potenza del simbolo. Non a caso sono film in cui lo stesso carisma di Eastwood – con tutte le sue ombre, comprese le antiche accuse di fascismo da parte di Pauline Kael – è messo al servizio di un cinema fortemente ideologico, perfino didattico, e che contemporaneamente decostruisce e ricostruisce (quasi per dovere autoreferenziale) la sua identità “autoriale” e “politica”. Icone di guerra: la bandiera di Iwo Jima Cos’è “la” fotografia per il cinema? Il rapporto di filiazione tecnologica stabilito da Walter Benjamin, per il quale la kinemato-graphia rappresenta l’inevitabile sviluppo delle icone indexicali, involge una conseguenza sulla teorizzazione dell’immaginemovimento fatta da Gilles Deleuze: il superamento della “posa” da parte dell’istante “qualunque” è già effettuato dall’istantanea fotografica, anche se Panini Comics, Modena 2009, p. 13.

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“L’informazione è potere”

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i ritratti di Nadar sono più “posati” di molti quadri del suo amico Manet. D’altro canto, la teorizzazione di un “istante decisivo” da parte di Cartier-Bresson – nonostante l’aura zen di cui è stata circonfusa – sembra ripristinare un concetto di “iconicità” come suprema sintesi delle componenti formali, con relativo passaggio del movimento “qualunque” a gesto simbolicamente significativo. Apparterrebbe a questa categoria la foto di Joe Rosenthal (Associated Press) con i marine che issano la bandiera americana sul monte Suribachi dell’isola giapponese di Iwo Jima (23 febbraio 1945). D’altro canto, cos’è “una” fotografia per il cinema? Umberto Eco, parlando del semema (unità semantica) come istruzione orientata al testo, ci ricordava che per Peirce il termine è una rudimentale asserzione e dunque, per una teoria testuale di seconda generazione, «il semema deve apparire come un testo virtuale e un testo altro non è che l’espansione di un semema»2. Spostando il ragionamento su un altro sistema semiotico, potremmo azzardare questa formulazione: una foto è un film virtuale (l’istante qualunque è un taglio nel flusso della durata), la narrazione cinematografica è l’espansione di un’immagine fissa. Questo è ciò che succede in I ponti di Madison County, dove la cornice narrativa introduce i protagonisti attraverso due foto: quella di una madre giovanile e allegra, colta di sorpresa, e il ritratto di un professionista su una copia del “National Geographic”; e il diario della   U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1988, p. 23 (in corsivo nell’originale).

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madre ricostruirà l’incontro fatale di una vita radicata con uno sguardo capace di scelte istantanee (ovvero di amori a prima vista: il gioco metonimico sulla città di Bari). Ma questo è anche esattamente ciò che succede con Flags of Our Fathers, film generato dalla foto di Rosenthal attraverso il montaggio parallelo/alternato degli eventi che precedono e che seguono il momento dello scatto. Joe Rosenthal non ha trovato posto nelle storie della fotografia: se si parla di reporter di guerra, il pensiero va piuttosto a Robert Capa (forse perché il miliziano morente è un’icona antifascista?). Ma la sua istantanea fu premiata col Pulitzer e divenne un’icona popolare di lungo corso, fino ad essere il modello per il monumento in bronzo noto come Iwo Jima Memorial (ufficialmente United States Marine Memorial) inaugurato nel 1954 nel cimitero nazionale di Arlington (Virginia). Nel secondo dopoguerra l’immagine della bandiera di Iwo Jima è un messaggio trionfante di liberazione e libertà, segnala la fine di un incubo – e l’avvento di un impero che vuole estendere la sua influenza su tutti i continenti in modo, questa volta, permanente. Essa marca un nuovo confine ideologico e di politica di potenza, in Europa e non solo; si accompagna e si contrappone con nettezza a un’altra immagine celebre, la fotografia dei soldati sovietici che alzano la loro bandiera, rossa con la falce e il martello, sul Reichstag di Berlino in fiamme il 2 maggio 19453.   A. Testi, Stelle e strisce, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 106. 3

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Già McLuhan, notando che la propaganda sovietica era capace di recuperare la tradizione russa delle immagini, aveva definito la guerra fredda “guerra delle icone”: «Inchiostro e fotografia stanno soppiantando carri armati e soldati»4. Ma Flags of Our Fathers si muove all’interno del paradigma della propaganda interna, dunque la guerra fra icone si gioca tutta sulla dialettica tra informazione democratica (libertà di stampa) e formazione dell’opinione pubblica: all’inizio del film il potere delle immagini è riassunto nella capacità di una foto-simbolo di far vincere una guerra (la bandiera di Iwo Jima, suscitatrice dell’entusiasmo popolare necessario per la raccolta fondi del settimo prestito di guerra) oppure di farla perdere (l’esempio citato dal personaggio è la foto-shock di Eddie Adams5, premio Pulitzer 1969, in cui il capo della polizia sudvietnamita spara in testa a un prigioniero filovietcong – ma avrebbe potuto essere lo scatto di Nick Út, premio Pulitzer 1973, con cui «la guerra del Vietnam acquista finalmente un volto e un nome»6, quelli della piccola urlante Kim Phúc che fugge nuda dal villaggio bombardato col   M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it., Garzanti, Milano 1976, p. 357.

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  Eddie Adams è autore del ritratto fotografico del regista che compare sulla copertina del volume di A. Castellano, Clint Eastwood, Gremese, Roma 2010. Tutte le foto premiate col Pulitzer, comprese quelle di Adams e di Rosenthal come quelle di Út e Filan citate più sotto, sono riprodotte nel volume di H. Buell, Moments, tr. it., White Star, Vercelli 2011.

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  H.-M. Koetzle, 50 icone della fotografia, tr. it., Taschen, Colonia/Modena 2011, p. 234. 6

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Marcello Walter Bruno

napalm). Eastwood – attenendosi al libro di James Bradley (figlio di uno dei sei marine fotografati da Rosenthal) pubblicato nel 2000 e rimasto in cima alla classifica dei bestseller per quaranta settimane – sceglie l’icona dell’unità nazionale, montando in parallelo il prima, il durante e il dopo lo scatto. Il prima è lo sbarco sulla sacra isola e il poi l’assalto al monte Suribachi; ma il logorio dell’attesa e l’angoscia del massacro sono piuttosto raccontati nel film gemello Lettere da Iwo Jima, coprodotto da quello Steven Spielberg che sembra aver avviato un nuovo tipo di realismo del film bellico con il seminale Salvate il soldato Ryan. Il “durante”, breve ma cruciale, coglie il grado di serendipity dell’iconopoiesi: salendo verso l’orlo del vulcano, Rosenthal incrocia il collega Lou Lowery (sergente fotografo per la rivista dei marine “Leatherneck”) il quale ha già documentato la bandiera issata; ma quando giunge in cima, l’inviato dell’AP scopre che la prima bandiera viene sostituita da una più grande. Fa un unico scatto, il nono di una pellicola Agfa da 12 – fotocamera Speed Graphic 4x5, obiettivo 127mm, apertura f16, otturatore a 1/400 di secondo – mentre il cameraman Bill Genaust gira 198 frames di una pellicola a colori. Quel quattrocentesimo di secondo durerà a lungo: Rosenthal s’è trovato a immortalare il godardiano “definitivo per caso” secondo una tecnica cara al regista Eastwood, noto per la rapidità del lavoro. L’istantanea soggiace al destino dell’inconscio ottico, che rivela la struttura dell’istante solo après-coup: non è l’artista che decide il valore dell’immagine, ma l’immagine stessa che s’impone come punctum a un intero popolo di sguardi. 92

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Il dopo, allora, si scinde in due tempi logici: l’arco dell’ascesa, orchestrata dall’alto (dal potere politico) come montatura propagandistica in cui ai tre marine sopravvissuti si chiede di “recitare se stessi” ma col sottinteso sbagliato che essi considerino se stessi degli eroi d’unità nazionale; l’arco della caduta quando, nel dopoguerra, tutti i ricordi saranno spenti e nessuna promessa di redenzione personale verrà mantenuta. Da un lato, sei soldati senza volto (e due praticamente “impallati” nella foto) assurgono a simbolo di una vittoria che sta tutta nella “primità” semiotica di un archetipo psicanalitico (il piantare la bandiera dei padri nella terra nemica, come in un rito di stupro collettivo); per cui i superstiti – testimonial di una campagna pubblicitaria (per il settimo prestito di guerra) – sono costretti alla ripetizione della performance in qualità di mimi teatrali, oratori pubblici, modelli scultorei, invitati speciali. Dall’altro lato, Eastwood sembra spostare l’attenzione dalla parte superiore della foto (la bandiera come vera icona, metafora della nazione) a quella inferiore, ridando volto e nome ai soldati non-eroi e dunque ricostruendo la Storia come insieme di microstorie mosse solo parzialmente da quella che John Searle chiama “intenzionalità collettiva” (we intentionality). Di tutte le rielaborazioni artistiche di quella che James Bradley chiama “La Fotografia”, ce n’è una raccontata dal libro Flags of Our Fathers ma non dal film: la partecipazione dei reduci John Bradley, Ira Hayes e Rene Gagnon al film di Allan Dwan, Iwo Jima, deserto di fuoco – titolo depistante per una storia che si apre con l’addestramento in Nuova Zelanda, prosegue con i combattimenti a Tarawa 93

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Marcello Walter Bruno

(documentati dal fotografo Frank Filan, premio Pulitzer 1944), la licenza alle Hawaii con siparietti sentimentali e solo alla fine si sposta nel luogo in cui verrà issata “Quella Bandiera”. In effetti «il ruolo di quelli della bandiera nel film fu marginale. Le loro due scene – una assieme a John Wayne mentre ricevevano gli ordini, l’altra un’immagine di sfuggita mentre issavano quel palo – richiesero soltanto una trentina di minuti di ripresa»7. Certo, Clint Eastwood non è Stanley Kubrick: mentre il regista di Full Metal Jacket prende di petto il modello autoritario del regista e interprete di I berretti verdi, il nostro ha evidenti punti di contatto con la veloce regia del classicista Dwan e col carisma attoriale del divo Wayne. Ma è chiaro che il sergente Stryker di Iwo Jima è solo l’epitome finzionale di tutti i sottufficiali duri-ma-buoni, mentre i veri marine sono relegati a comparse, cioè ancora a testimonial pubblicitari per il lancio della superproduzione hollywoodiana. Dwan usa i veri sopravvissuti come puro contorno memoriale alla star; invece Eastwood li sostituisce con attori, ma per fare di quei personaggi storici i veri protagonisti della sua ricostruzione. Flags of Our Fathers è ancora un monumento derivato da un’icona, ma con un’operazione ideologica di riconversione del mito in realtà: solo una piccola comunità di non-eroi può ancora testimoniare per l’America come home of the brave. Se si combatterà ancora, non sarà in nome della bandiera, ma nel nome dei padri aniconici.   J. Bradley, R. Powers, Flags of Our Fathers, tr. it., BUR, Milano 2004, p. 319. 7

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Icone di pace: Mandela e il rugby Nel grande gioco dell’arte contemporanea globalizzata, «se l’Africa non interessa a nessuno, essa affascina però tutti quanti»8. Ma perché un regista yankee dovrebbe essere affascinato dal Sudafrica? La risposta sta nella biografia di Nelson Mandela, o meglio ancora nell’autobiografia con prefazione di Barack Obama: ciò di cui parla Invictus è una storia di successo, dunque molto “americana”, ma che coinvolge le sorti di un intero paese nel passaggio dall’apartheid all’integrazione razziale. Si tratta, insomma, della nascita di una nazione: e Eastwood, lavorando di montaggio alternato griffithiano, prova a fare il suo Nascita di una nazione raccontando cosa succede quando la maggioranza nera prende finalmente il potere politico nel cuore di tenebra del colonialismo. Il compito gli viene facilitato proprio dall’icona Mandela, che qui viene seguito nel suo percorso di presidente della repubblica votato alla pacificazione interetnica. Il deuteragonista del film è il capitano della squadra di rugby, tutta formata da bianchi afrikaner (tranne il nero Chester, a cui esce la battuta «Io non penso») e di fatto simbolo dell’apartheid, per questo odiata dalla comunità delle bidonville (il film inizia con una panoramica da un elegante campetto d’allenamento rugby, “gioco da selvaggi giocato da gentiluomini”, ad un’accozzaglia di bambini neri impegnati in una partita di calcio, “gioco da genti  J.-L. Amselle, L’arte africana contemporanea, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 25. 8

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luomini giocato da selvaggi”). Il capitano è un coach nell’epoca in cui il coaching è l’ultima metamorfosi del management, una strategia vincente per affrontare una nuova tappa del percorso professionale; realizzare un cambiamento o una transizione nella propria vita; acquisire fiducia in se stessi; migliorare il modo di comunicare; raggiungere un obiettivo importante o un particolare livello di performance; seguire la propria strada; cambiare vita o orientamento; identificare i propri punti di forza; realizzarsi; affermarsi; trovare nuovi equilibri. Ogni volta, il percorso seguito dal coach è il medesimo e si sviluppa in due fasi: la prima consiste nel far prendere atto a una persona delle difficoltà in cui si trova e la seconda nel modificare le convinzioni, gli atteggiamenti e i comportamenti9. François Pienaar, il capitano degli Springboks, ha le sue tecniche per tentare una strategia vincente: canta con tutta la squadra una canzone prima della partita; quando perdono, costringe tutti a bere una birra pessima per materializzare organoletticamente il “gusto della sconfitta” da non riassaporare. Il gruppo, però, sembra aver bisogno di motivazioni più profonde: lo spirito di competizione richiede una vera opera di deprogrammazione e ri-programmazione. Il coaching professionale deve lasciare il posto al “coaching di vita”, che implementi la logica dell’impegno lavorando sui valori che determinano l’eccellenza. È a questo punto che s’inserisce Mandela come attante-destinatore. Il protagonista è un leader, dotato di una visione   M. Marzano, Estensione del dominio della manipolazione, tr. it., Mondadori, Milano 2009, p. 149.

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lungimirante, conoscenza del “nemico”, ferrea determinazione, dialettica socratica (è un avvocato!). Mandela è il coach del coach, lo stratega di quello che Michela Marzano chiama “management visionario” attribuendolo a Nicolas Sarkozy (il cui spot per le elezioni del 2006 conteneva fra l’altro l’immagine di una squadra di rugby come simbolo della compattezza nazionale). Quello che il presidente esercita sul capitano non è il potere di stampo edipico (nonostante sia evidente la possibilità di un rapporto padre/ figlio) ma, piuttosto, quella che Michel Maffesoli chiama “autorità iniziatica”, basata sulla legge dei fratelli (“fratelli” e “sorelle” sono i termini con cui Mandela/Mandiba si rivolge alle persone di colore – non scordando il termine “compagni”). «Il potere è verticale; l’autorità, quella del grande fratello, del guru, del coach, in una parola di colui che promuove l’iniziazione, è orizzontale»10. Clint Eastwood è affezionato ai ruoli di coach fin dai tempi di Gunny, dov’è il veterano di Corea e Vietnam che addestra truppe d’assalto, e La recluta, dov’è il poliziotto polacco che deve stroncare il traffico di auto di marca rubate (un’accoppiata, quella dell’origine polacca e delle automobili griffate, che tornerà in Gran Torino). Nella tragedia Million Dollar Baby, un film su come è possibile non diventare un’icona, il vecchio allenatore di pugili – che inutilmente spedisce lettere alla figlia – viene scelto da una bella trentenne sottoproletaria che ha deciso il riscatto   M. Maffesoli, voce “Sì, coach!” in Id., Icone d’oggi, tr. it., Sellerio, Palermo 2009, p. 198. 10

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sociale attraverso lo sport agonistico. Nell’epoca post-anti-Edipo, la funzione paterna si sposta dalle famiglie genetiche alle comunità virtuali delle palestre: «“Sarò il tuo allenatore!” In questo modo l’atto della paternità si produce non come installazione, ma come rottura di un ordine universale; l’ordine della morale normativa, l’ordine del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi»11. Il caso ha voluto che protagonista di Invictus sia Morgan Freeman, il quale – oltre a somigliare a Mandela e ad aver interpretato il ruolo di presidente nero degli Stati Uniti – era l’allenatore in seconda di Million Dollar Baby (premio Oscar 2005 come miglior attore non protagonista). La catena metonimica si chiude: se «l’attore Nelson Mandela, protagonista sul gran palcoscenico del mondo, possiede quell’aura misteriosa che nel mestiere si chiama “presenza scenica”»12, il vero coach del coach – il vero “manager visionario” – è il regista e produttore Clint Eastwood, il cui campionato è la storia del cinema. Quel cinema che qui si confronta con la Storia e le sue icone – e quella particolare iconopoiesi che è la televisione. È in televisione che vediamo per la prima volta il nuovo presidente del Sudafrica, in montaggio alternato con scene di violenza prese da materiale di repertorio; ed è in televisione che per la prima

11   M. Recalcati, Cosa resta del padre?La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 177.

  J. Lang, Mandela, tr. it., Piemme, Casale Monferrato (AL) 2008, p. 18. 12

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volta lo vede il rugbysta Pineaar, con in sottofondo il commento ironico di suo padre (in evidente, col senno di poi, concorrenza edipica). È il cronista sportivo della rete nazionale che sancisce la crisi della squadra afrikaner; è mentre Mandela compare nei servizi del tg che il giovane capitano riceve a casa la telefonata con l’invito del presidente, che in questa dissociazione fra audio e video sembra conquistare una forma di ubiquità. Mandela va in televisione per ricordare che anche lui giocava a rugby e per annunciare pubblicamente il sostegno alla squadra che rappresenterà il Sudafrica ai mondiali; e sarà il televisore acceso nella notte a raccontargli la favola di un paese che nella competizione sportiva ritrova il suo orgoglio. Certo, la partita finale può apparire priva di suspense, visto che il risultato è noto; ma qui il rapporto non è quello fra la diretta televisiva delle Olimpiadi di Berlino del 1936 e il gigantesco documentario di Leni Riefenstahl uscito dopo due anni di lavoro alla moviola. Qui il cinema si fa metadiscorso sul rapporto fra mass media e leadership: l’essenziale, ovvero l’integrazione, è visibile agli occhi. Anche se l’ispirazione viene da una poesia vittoriana, quelle parole ricevono dalle sovraimpressioni (nella scena della visita al carcere) il potere specifico dell’immagine: icasticità. Intericonicità 9/11: J. Edgar Considerare l’11 settembre «la metonimia del mondo contemporaneo, nel quale abbiamo scambiato 99

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la cosa (l’evento) con la sua portata simbolica» e dunque «la metafora del nostro futuro, l’indicazione di quale potrebbe essere il nostro destino»13 significa accettare la precessione dei simulacri. L’11 settembre è un’icona non tanto o non solo perché si tratta di un evento mediatico globale, il trionfo dell’immagine muta come macchina dell’orrorismo, ma perché l’impatto visivo di alcune scene comporta immediatamente – prima ancora che la richiesta di “giustizia infinita” – un fenomeno automatico di semiosi infinita. Se l’immagine delle Twin Towers colpite e crollanti rimanda alle fotografie dell’attacco a Pearl Harbor – associazione d’idee sottolineata dal titolo “Infamy”, utilizzato da molti giornali con riferimento al discorso del presidente Roosevelt dell’8 dicembre 1941 –, il fortunato scatto di Thomas Franklin a tre pompieri newyorkesi che issano la bandiera a stelle e strisce sulle rovine di Ground Zero (subito riprodotto fra l’altro su un francobollo intitolato “Heroes USA”, stampato in 128 milioni d’esemplari) ha una chiara analogia visiva con l’icona di Iwo Jima (anch’essa, ricordiamolo, immediatamente divenuta un francobollo, medium commemorativo statale per eccellenza). Ma la similarità del percorso di queste due icone non è spiegabile attraverso la comunanza del loro soggetto. Ogni cosa sembra piuttosto essere stata fatta in modo che la posterità dell’immagine di Franklin somigli a quella di Rosenthal. Il loro destino   L. Bonanate, Undicisettembre, Bruno Mondadori, MilanoTorino 2011, p. 34.

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comune non è dunque congetturale o fortuito, ma costruito14. Come l’intertestualità letteraria prevede (per usare i termini di Gérard Genette) che un ipertesto poggi connotativamente su un ipotesto già presente nella competenza enciclopedica del lettore modello, l’intericonicità prevede che un’ipericona poggi sul déjà vu di un’ipoicona, la cui funzione è quella di convocare la Storia. Fare un film su Iwo Jima dopo l’11 settembre significa allora attivare «il ripercuotersi dello sguardo verso il futuro su quello verso il passato fin nel cuore della conoscenza storica»15. Se la ricostruzione che Bradley ha effettuato sulla biografia paterna è il tentativo di ricondurre la finzione propagandistica alle dimensioni non eroiche della memoria individuale, il film di Eastwood non può che procedere su una strada paradossale: quella di ritrasformare la memoria individuale in memoria collettiva, la storia vissuta in un livello di fiction che aspira all’incontestabilità del documento – o, quantomeno, del documentato. Si riveda l’incipit onirico di Flags of Our Fathers: quella landa bruciata, percorsa da grida d’aiuto che sembrano provenire dal puro caos, non è già l’incubo di Ground Zero? Se il blockbuster Disney Pearl Harbor esce nel 2001 (sessantesimo anniversario dell’attacco giapponese) ma prima dell’11 settembre, il film Malpaso/Amblin arriva sugli schermi 14

  C. Chéroux, Diplopia, tr. it., Einaudi, Torino 2010, p. 82.

  P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare, tr. it., il Mulino, Bologna 2004, p. 7. 15

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nel 2006, quando ormai l’equazione di Bush Twin Towers = Pearl Harbor ha già prodotto l’invasione dell’Afghanistan: la ricostruzione dell’icona vittoriosa di Iwo Jima non è allora un dibattito in diretta sui problemi etici di una guerra comunque giusta? La sensazione si accentua se ci si sofferma su Lettere da Iwo Jima, un controcanto che è stato letto come sforzo di adesione interculturale alle ragioni degli sconfitti. Ma i kamikaze giapponesi non sono forse l’espressione di un fondamentalismo suicidario imparentato con la religione islamica come “spirito del terrorismo”? La contrapposizione tra la Foto e le Lettere diventa una sottile linea di demarcazione fra la civiltà occidentale votata alla valorizzazione “moderna” (cristiana) dell’immagine e una civiltà orientale chiusa nella cultura tradizionalista della scrittura: gli alti ufficiali giapponesi si sono educati negli Stati Uniti proprio come molti capi del terrorismo internazionale – ed è per una simbologia paradossale ma politicamente allusiva che la pistola con cui si suicida il generale Kuribayashi gli è stata regalata dagli amici americani. Se oggi le giovani generazioni giapponesi «mostrano scarso interesse per la loro storia nazionale, vivendo fuori dal flusso della memoria culturale, è perché la loro cultura è stata nel frattempo soppiantata da una koiné culturale anglo-americana»16. Dunque, un regista statunitense avrebbe il dovere di curare questa mancanza di postmemoria affron  A. Curcio, Le icone di Hiroshima, Postcart, Roma 2011, p. 112.

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tando contemporaneamente la propria inclinazione all’amnesia. Il controcanto dell’icona di Iwo Jima è l’icona di Hiroshima: il fungo atomico, puro grafismo di potenza senza nessuna rappresentazione delle sue conseguenze, è l’astrazione dello stesso concetto di vittoria associabile al piantare la bandiera – simbolismo fallico senza i segni della violenza. Il film da affiancare a Flags of Our Fathers, storia della disseminazione propagandistica di un’immagine, avrebbe dovuto essere la storia della sparizione – altrettanto progettata politicamente – delle foto relative al triste primato USA della prima bomba atomica sganciata su una popolazione civile. In fondo, ogni icona è un ideologema. Dunque, rivedendo Invictus come film ambientato nel 1994 ma prodotto nel 2009, non può sfuggire che il regista si serve del leader nero e dell’esposizione dei suoi valori soprattutto come di un messaggio subliminale: Mandela è una specie di body double che raffigura, agli occhi degli spettatori e dell’opinione pubblica americana, Barack Obama, l’altro presidente consacrato all’avvento di un ordine mondiale più umano di quello dei suoi predecessori17. Nella lunga parte dedicata alla partita finale, il momento di suspense è dovuto al montaggio alternato in cui un aereo punta verso lo stadio: si tratta solo di un fan particolarmente ricco, ma dopo l’11 settembre qualunque aereo fuori rotta fa scattare la sindrome dell’attentato.   B. Benoliel, Clint Eastwood, tr. it., Cahiers du cinéma Sarl, Paris-Milano 2010, p. 92. 17

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Dunque, anche l’ultima opera di Eastwood va inserita in questa categoria della retrospezione storiografica come contributo all’ontologia del presente: un film che si apre sulla bandiera a stelle e strisce sotto il primo titolo di testa e prosegue fra attentati, processi e scene seduttive in ambienti d’archivio, interroga lo “stato d’eccezione” come nucleo superegale della nazione – regola, non eccezione. Che il titolo J. Edgar sia presentato come firma autografa che sembra siglare un’imbarazzante “opera d’arte”, la maschera mortuaria del gangster John Dillinger ucciso dall’FBI, sta ad indicare il ribaltamento rispetto al modello Quarto potere: laddove Orson Welles firmava autorialmente una storia chiaramente ispirata alla vita del magnate della stampa Hearst, qui è il personaggio inventore dei dossier segreti che garantisce sulla veridicità del proprio dossier. L’impero cartaceo di Hoover è quello che segue e soppianta, in tempi di guerra fredda, l’impero cartaceo di Citizen Kane: il segreto come forma di potere e di difesa sostituisce la “pubblicità” come forma democratica di formazione ed espressione dell’opinione; ma anche negli attuali tempi di giornalismo embedded, è chiaro che il soggetto-supposto-sapere gode di un’influenza ben più subdola di quella dei media. Eastwood è cosciente che, se «il trauma resta traumatizzante e incurabile perché viene dall’avvenire»18, il passato va interrogato non tanto per il suo carattere di realtà (quale documento garantirebbe i fatti? quello   J. Derrida, Stati canaglia, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 153.

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in possesso degli enti governativi?) quanto per le formazioni immaginarie che ha generato. Hoover è l’epitome di una sindrome immunologica che allora prevedeva l’invasione dei comunisti e oggi scatta contro il pericolo del domestic terrorism. Il meccanismo di difesa non prevede solo una pars destruens, come i famigerati processi maccartisti qui riassunti nel caso Goldman, ma una pars construens costituita proprio dalla creatività dell’industria culturale: J. Edgar Hoover, che si fa fotografare abbracciato all’icona Shirley Temple, dopo aver assistito alla proiezione di un film ispirato alle gesta dei G-Men, è la testimonianza di una collusione fra cinema e politica che Eastwood non può che affrontare esplicitamente. Che cos’è dunque un’icona per la teoria del cinema? Nient’affatto una “primità” abbandonata ai suoi automatismi più o meno spirituali, ma un gioco di semiosi infinita, una “formula di pathos” che sutura la frammentazione della spettatorialità contemporanea con l’inconfessabile trascendenza di una tradizione. I livelli metatestuali crescono su se stessi: J. Edgar che si veste da donna è quasi Norman Bates dopo la morte di sua madre; Leonardo DiCaprio che in montaggio alternato invecchia e ringiovanisce come Welles/Kane è anche il remake dell’Howard Hughes di The Aviator; la claustrofilia della regia è l’indice di un’età avanzata ma anche la resa della mimesis praxeos al teatro della parola. Se alla fine Hoover ne esce bene, è perché dal cinema e dalla Storia non c’è modo di uscirne male: alla fine, il tempo trasforma il nome in griffe, il corpo in icona – e le immagini finzionali in voci di un dizionario. 105

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Bruno Roberti

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Inattuale

Alessandro Canadè

Inattuale

Due cowboy sono ai piedi di un albero in attesa di qualcuno. Li raggiunge una donna a cavallo che dona loro il bottino atteso. Il più anziano inizia a contare il denaro e comunica al più giovane l’intenzione di darne una parte all’altro loro complice, allontanatosi precedentemente. La donna gli rivela però che il loro amico è stato torturato dallo sceriffo della cittadina fino a costringerlo a rivelargli i nomi dei due fuggitivi, per poi ucciderlo esponendone il corpo fuori dal saloon. Il cowboy più anziano prende allora una bottiglia di whiskey dalle mani del più giovane e inizia a bere: è William Munny del Missouri, «un rinomato ladro e assassino, uomo dal temperamento notoriamente vizioso e violento». Un gesto che diventa un destino, denso di valore simbolico, è al centro di questa sequenza de Gli spietati. William Munny prende dalle mani di Schofield Kid una bottiglia di whiskey fino ad allora rifiutata perché sembrava esser riuscito a redimersi dall’alcool e a vivere nella fedeltà alla defunta moglie virtuosa1.   Lo confessa a Kid durante il loro primo incontro: «Io non sono più quello di una volta, Kid. Era il whiskey che mi teneva su più di ogni altra cosa. Non ne bevo una goccia da almeno

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Alessandro Canadè

Ora, dopo la morte dell’amico Ned Logan, il suo destino “vizioso e violento” ritorna e questo ritorno ha la forma di un gesto. È il gesto che segna il risveglio dell’“angelo della morte” tornato dall’origine dei tempi e animato da forze e pulsioni primordiali. L’inattualità del cinema di Clint Eastwood prende le forme di un ritorno al classico, privo però di ogni carattere citazionista, nostalgico, ludico o “immersivo” (e dunque non-coincidente con le pratiche dominanti della Hollywood contemporanea) per procedere a una sistematica trasfigurazione simbolica dell’immaginario classico e accedere così a una dimensione pre-classica, primitiva e, appunto, simbolica. Il gesto e, come vedremo più avanti, il montaggio alternato diventano le figure e le pratiche di questo ritorno alle forme originarie del cinema e gli strumenti privilegiati della complessa stratificazione simbolica messa in atto. Gli spietati, e in particolare gli ultimi venti minuti (quelli cioè che prendono avvio proprio dalla sequenza citata in apertura), rappresentano un caso paradigmatico all’interno del cinema di Eastwood del suo essere inattuale. Ma cosa significa inattuale? La riflessione di Giorgio Agamben sul contemporaneo contiene delle indicazioni preziose. Secondo Agamben, «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso dieci anni. È mia moglie che mi ha guarito da quel vizio. Mi ha guarito dall’alcool e dal peccato».

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questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo»2. Se pensiamo agli ultimi film di Eastwood, ritroviamo in questo scarto con il proprio tempo e con i suoi valori le caratteristiche di personaggi come il Walt Kowalski di Gran Torino («Papà vive ancora negli anni Cinquanta», dice uno dei suoi due figli nella sequenza d’apertura del film) e il George Lonegan di Hereafter (la cui solitudine è sottolineata dalla radice del cognome stesso, “Lone”). Personaggi che si presentano come fantasmi di un mondo estinto, estranei al presente capitalistico: in Gran Torino, la morte della moglie di Walt, con cui si apre il racconto, scatena nei suoi figli l’attesa avida dell’eredità (i nipoti di Walt ridicolizzano il rito funebre, mentre i loro genitori sono presi esclusivamente dai propri biechi interessi economici); in Hereafter, invece pensiamo alla contrapposizione tra George e suo fratello, che vuole utilizzare il “dono” di parlare con i morti di George a fini commerciali. Continua Agamben: «La contemporaneità si iscrive […] nel presente segnandolo innanzitutto come arcaico e solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può esserne contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arché, cioè all’origine»3. Ed è allora proprio il gesto, sui cui ci siamo soffermati precedentemente, questa “segnatura dell’arcaico” che sopravvive nel   G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, nottetempo, Roma 2009, p. 20.

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  Ivi, pp. 28-29.

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“È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha e tutto quello che sperava di avere”

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cinema di Eastwood ricollegandosi così al carattere primigenio del cinema classico4, al quale questo processo di simbolizzazione non è di certo ignoto. Il gesto di William Munny riecheggia, per contrasto, quello che spingeva l’alcolizzato vice-sceriffo Dude, in Un dollaro d’onore di Hawks, ad allontanare da sé il bicchiere di whiskey, fermando così il tremore delle sue mani e ritrovando il coraggio e la fiducia in sé. Il cinema di Hawks, apparentemente lontano da ogni “opacità”, e quindi cinema “trasparente” per eccellenza5, non è estraneo a questo processo di trasfigurazione simbolica affidata al gesto6. Nonostante Hawks abbia progressivamente scartato la dimensione «del gesto estetico in favore del gesto utile», il processo di trasfigurazione simbolica ha una centralità nell’organizzazione della sua messa in scena: pensiamo, sempre in Un dollaro d’onore,

4   Jean-Michel Frodon, a proposito dello stile eastwoodiano, utilizza la felice espressione di «classicismo di sopravvivenza o classicismo spettrale», Id., A Veteran with an Attitude, in L. Barisone, G. D’Agnolo Vallan, a cura di, Clint Eastwood, Il Castoro, Milano 2000, p. 189. 5   Nel 1953 Jacques Rivette scriveva: «L’evidenza è il segno della genialità di Howard Hawks», Id., Genialità di Howard Hawks, in A. Aprà, P. Pistagnesi, a cura di, Il cinema di Howard Hawks, La Biennale, Venezia 1981, p. 23.

  Non soltanto al gesto, a dire il vero. Pensiamo alla ricorrenza del segno grafico della “X” in Scarface (cfr. L. Gandini, Scarface, Lindau, Torino 1998, pp. 51-60), oppure, a proposito sempre dello stesso film, alla dichiarazione di Hawks, che pensava alla vicenda di Scarface come a una trasfigurazione della «storia della famiglia Borgia a Chicago ai giorni nostri», ivi, p. 19. 6

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alle pose «che assumono Chance e Dude […]: il primo in piedi e il secondo seduto, a indicare che nella loro amicizia l’uno fa da sostegno all’altro»7. Ed è sempre nel gesto che, secondo Godard, risiede il mistero e la fascinazione del cinema americano: «Come posso odiare McNamara e adorare Sergent la terreur, odiare John Wayne che appoggia Goldwater e amarlo teneramente quando solleva bruscamente con le braccia Nathalie Wood nella penultima bobina di Sentieri selvaggi?»8; oppure quando, sempre nello stesso film, il gesto di piegare amorevolmente un giaccone suggerisce un antico amore tra due personaggi. Il cinema di Eastwood costruisce una vasta tassonomia di gesti esemplari: dalla mano della moglie indiana di Ned, Sally, che, ne Gli spietati, tocca il fucile di William, portatore di sventura e di morte alla mano di Francesca che stringe la maniglia della portiera della macchina del marito in I ponti di Madison County (gesto che sintetizza la scelta da compiere: restare col marito o seguire Robert); dal bicchiere che cade dalle mani di Walt in Gran Torino nel momento in cui si trova di fronte al volto e al corpo sfigurato e violentato di Sue al gesto con cui Walt, nel finale dello stesso film, fingendo di estrarre dalla giacca una pistola, si dà la morte: il successivo dettaglio della sua mano rivelerà la presenza di un accendino,

  B. Grespi, Howard Hawks, Le Mani, Recco (Ge) 2004, p. 118.

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  J.-L. Godard, Tremila ore di cinema, in Id., Il cinema è il cinema, tr. it., Garzanti, Milano 1971, p. 267.

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“reduce” della guerra di Corea, che diviene simbolo del percorso redentivo del personaggio; per finire col gesto con cui Edgar Hoover, vestito degli abiti della madre morta, si strappa dal collo la collana di perle in J. Edgar9. Ritorniamo però alla sequenza dalla quale siamo partiti, concentrandoci in particolare sulla posizione occupata dai due personaggi all’interno della scena: da una parte, Kid seduto con la schiena appoggiata a un albero, oppresso dalla colpa per l’omicidio appena commesso; dall’altra, Munny in piedi, che domina sulla scena. È questo il momento in cui egli riguadagna quella posizione eretta che gli era stata sottratta nella sezione precedente del film. Sin dall’inizio, infatti, quello di Munny è un corpo che cade: cade nel recinto dei maiali, cade ripetutamente cercando di salire in groppa al suo cavallo, fino a strisciare sul pavimento del saloon dopo essere stato pestato dallo sceriffo Little Bill nella sua prima visita a Big Whiskey. Una caduta che prelude a una risalita (a un levarsi del corpo) ma non a una redenzione; perché è dalla sequenza presa in esame che Munny cessa repentinamente (e quasi senza una reale giustificazione narrativa) di essere l’«allevatore di maiali fallito» (come lo ha definito Kid), l’ex-pistolero redento che continua a ripetere (e a ripetere soprattutto a se stesso): «Non sono più come allora. Non sono più un ammazza cristiani» per ridiventare, nella parte

  Sulla ricorrenza del gesto nel cinema di Eastwood, cfr. L. Gandini, Gesti, sguardi, in L. Barisone, G. D’Agnolo Vallan, a cura di, Clint Eastwood, cit., pp. 230-234.

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finale del film, lo “straniero senza nome”, il “cavaliere pallido” invincibile, invulnerabile; l’uomo, sempre secondo le parole di Kid, «freddo come la neve e che non sa cosa sono i nervi e la paura». Se la parte iniziale del film procede a una demistificazione dell’epopea western e dei suoi “eroi” (pistoleri miopi, pistole che si inceppano)10, l’ultima sancisce il ritorno della leggenda. È dunque a partire da questa sequenza che si manifesta quel carattere primigenio del film, che, propriamente, Guglielmo Pescatore ha definito «arcaico»11. Una sequenza spartiacque, a partire dalla quale il film e il suo protagonista recuperano quei tratti leggendari, e primari, propri del genere d’appartenenza (così come anche l’attore Eastwood riacquista i tratti fondanti la mitologia della sua icona), a cominciare dalla vendetta, tema portante del film: è un desiderio di vendetta che innesta la trama (la vendetta cercata dalle prostitute) ed è sempre un desiderio di vendetta (la morte dell’amico Ned) che, scoperchiando il vaso di Pandora della violenza, determina il cambiamento di Munny, facendone

  «Negli Spietati il riferimento esplicito alle fonti leggendarie del West è costante: ogni fase della narrazione, ogni conflitto, ogni faccia a faccia si gioca sulla messa in questione del mito del pistolero […]. Il biografo è l’emblema del cinismo della nascente industria culturale; anche lui “spietato”, si contenta di vivere come un parassita, coltivando la violenza e trasformandola in leggenda», M. Grande, Il western: un’epopea moderna, in R. De Gaetano, a cura di, La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998, pp. 29-30.

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11   G. Pescatore, Gli spietati, in G. Carluccio, a cura di, Clint Eastwood, Marsilio, Venezia 2009, p. 54.

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l’emissario fantasmatico del Dio vendicativo del Vecchio Testamento. La vendetta rimanda a un mondo privo di leggi, tenuto insieme da rapporti di forze e quindi dalla violenza come unica modalità per risolvere i problemi e animato da contrapposizioni primarie: Bene vs. Male. Questa contrapposizione, ne Gli spietati, si manifesta nella sua (con)fusione, perdendo ogni carattere manicheo e configurandosi simbolicamente nell’alternanza dei due gruppi principali di personaggi, ascrivibili con varie sfumature, rispettivamente, al Bene (William, Ned, Kid) e al Male (Little Bill e i suoi aiutanti, Bob l’inglese). E arriviamo allora all’altra grande figura, ricorrente nel cinema di Eastwood, sottoposta a un’operazione di trasfigurazione simbolica: il montaggio alternato. Struttura fondante del cinema americano, qui il montaggio alternato si caratterizza, analogamente al gesto, come “segnatura dell’arcaico”, sopravvivenza di pratiche primarie nella contemporaneità. All’interno dei film eastwoodiani sono diverse le ricorrenze di questa pratica griffithiana del montaggio: dalla cavalcata dei cowboy, che piombano sui minatori sparando e distruggendone il villaggio nel prologo de Il cavaliere pallido al procedere alternato della fuga del bandito Butch e dell’inseguimento dello sceriffo Garnett in Un mondo perfetto; dal rifacimento quasi filologico del “salvataggio all’ultimo minuto” nella storia ambientata in epoca moderna di Intolerance in Fino a prova contraria12 all’incastro delle tre storie 12   Scrive Christian Viviani: «[...] perché Eastwood, ottant’anni dopo, crea un remake virtuale di quella scena nel finale pal-

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di Hereafter, in cui questo procedimento è ricondotto alla sua origine letteraria, Dickens; e infine all’alternanza di passato e presente in J. Edgar. Il montaggio alternato nel cinema di Eastwood (e in modo particolare dagli Spietati in poi) non risponde semplicemente a una logica d’azione, secondo l’uso che ne fa la produzione americana corrente, ma, insieme all’utilizzo dei generi, entra in un rapporto contrappuntistico con le storie messe in scena, diventando veicolo per il racconto di scelte morali e percorsi esistenziali. Se ne trova conferma ne Gli spietati, dove, all’interno di una cornice di genere, si affrontano questioni etiche e morali, in cui la morte è accompagnata sempre da una riflessione su di essa («È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha e tutto quello che sperava di avere», dice Munny al giovane Kid dopo che questi gli ha confessato che quello di Mike era il suo primo omicidio) e sulla difficoltà di dare la morte, come mostra esemplarmente la sequenza dell’uccisione del primo pitante di True Crime? Si tratta di un gesto passatista volto a dimostrare che, tutto sommato, non si è inventato niente? O di una nostalgia regressiva per una forma superata di cinema? Niente affatto. Lo spettatore sarà emotivamente coinvolto nella scena, indipendentemente da un sistema referenziale che del resto ignora; in quanto a Eastwood, non è certo un seguace della strizzatina d’occhio citazionista. Ciò che qui colpisce, prima di tutto, è invece l’aplomb stilistico di Eastwood, che ragiona con una logica sconvolgente: allo scopo di provocare una reazione viscerale (l’indignazione nei confronti della pena di morte), bisogna ricorrere a un procedimento viscerale (il montaggio alternato)», Id., Contrasti, in L. Barisone, G. D’Agnolo Vallan, a cura di, Clint Eastwood, cit., p. 241.

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dei due cowboy colpevoli di aver sfregiato, a inizio film, una prostituta: Ned, dopo aver ferito l’uomo, si rifiuta di ucciderlo, lascia il compito a Munny, che sbaglia il primo colpo, sbaglia anche il secondo ma non il terzo, che uccide il giovane mentre stava quasi per mettersi in salvo. Gli spietati rappresenta quindi un caso paradigmatico all’interno del cinema di Eastwood, il luogo in cui la sua inattualità trova compiuta espressione. Una inattualità, lo ripetiamo, che attraverso il ricorso al gesto esemplare e all’uso particolare del montaggio alternato scarta, sospende, la dinamica d’azione del cinema americano per costituirsi come un universo dal forte carattere simbolico. Esemplare in questo senso è la chiusura del film, ancora affidata al gesto. Una gestualità però non più esitante ma “spietata”. È la perfezione del gesto che dà la morte, la glaciale esecuzione di un cerimoniale di morte: «Tu sei William Munny del Missouri. Hai ucciso donne e bambini», dice Little Bill nell’incontro finale. «Esatto – risponde Munny – Ho ucciso donne e bambini. Ho ucciso creature che camminano o strisciano in tempi lontani... e ora sono qui per uccidere te, Little Bill». E poi ancora, dopo il massacro compiuto nel saloon: «[…] Se vedo qualcuno là fuori, l’ammazzo. […] non ammazzo soltanto lui, gli ammazzo anche la moglie e tutti i suoi amici e poi gli brucio anche la casa». E infine: «Voglio che facciate per Ned un bel funerale e non azzardatevi più a sfregiare prostitute, altrimenti torno e vi ammazzo tutti, figli di puttana». Sono queste le ultime parole di Munny, che chiudono il film, pronunciate in primo piano con sullo sfondo la bandiera 117

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a stelle e strisce13. Se il cinema americano, come ci ha detto Deleuze, non ha mai smesso di girare e rigirare uno stesso film, Nascita di una nazione, quest’immagine ci ricorda che sono la violenza e il sangue gli atti fondativi della nazione americana (il film, non a caso, è ambientato durante i giorni della festa dell’Indipendenza, come Little Bill ricorda a Bob l’inglese). È quindi un ritorno all’arché, agli elementi naturali che chiude il film: la pioggia che continua a cadere incessante, il fuoco delle torce che illuminano il cadavere di Ned esposto fuori dal saloon. Uno scenario infernale («Ci vediamo all’inferno», aveva detto Little Bill prima di morire) dal quale si allontana William Munny, il precipitato fantasmatico di un mondo inattuale.

  Sulla presenza della bandiera americana nel cinema di Eastwood cfr. infra, pp. 85-105.

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INCARNAZIONE

Alla fine della mia vita diranno: “Era l’uomo arrivato dal nulla... Se n’è andato come è venuto”. Clint Eastwood Questa venuta è anche un “andarsene”. La presenza non viene senza cancellare la Presenza che la rappresentazione vorrebbe designare (il suo fondo, la sua origine, il suo soggetto). La venuta è un “andare-e-venire”. Jean-Luc Nancy

Una donna e un bambino sono rannicchiati sotto le coperte della cuccetta di una barca, la donna sta bevendo, il bambino si è addormentato. La donna si alza e raggiunge un uomo, il detective McCaleb, che è a torso nudo davanti a uno specchio. La carne del suo torace reca la sutura di un trapianto di cuore; la donna gli accarezza le spalle, mentre l’uomo si accarezza il petto, la cicatrice. La donna continuando ad accarezzarlo fa voltare l’uomo, comincia a baciargli il torace, il segno della ferita nella carne. Gli sussurra: «Non la devi nascondere», e poi: «Mostrami il tuo cuore, mostramelo», 119

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quindi lo bacia sulle labbra. La scena continua a riflettersi nello specchio. Si tratta di una sequenza di Debito di sangue, che è anche l’unica scena d’amore del film, momento significativo se consideriamo che il corpo di McCaleb reca incarnato in sé il cuore di un’altra persona e che l’organo trapiantato apparteneva a una donna uccisa. Questa donna era di etnia meticcia, apparteneva all’enclave messicana di Los Angeles, la donna che accarezza quel corpo e quella carne è la sorella della vittima, il bambino che dorme nella cuccetta è il figlio della morta. Il tutto viene riflesso in uno specchio, ponendo en face il segno di quella incarnazione e ne fa scaturire un contatto d’amore, oltre che trasporre il cuore-corpo estraneo come cuore-corpo proprio attraverso un atto e un gesto-parola di disvelamento, spoliazione, esposizione di una ferita che mentre (si) espone, si rimargina in una incorporazione-reincarnazione («non la devi nascondere [...] mostrami il tuo cuore, mostramelo»). Si tratterà qui allora precisamente di mostrare come nel cinema di Eastwood la figura dell’incarnazione sia inscindibile da un movimento in cui “viene in presenza” nell’immagine il suo proprio invisibile, trasferito costantemente in un processo di interpenetrazione dei corpi, di contatto tra essi. L’incarnazione verrà qui intesa, tenendo conto anche delle riflessioni di Jean-Luc Nancy e di Georges Didi-Huberman, come movimento paradossale, momento di “dischiusura”, “spaziamento” che configura la venuta in quanto separazione nel movimento stesso della apertura. Nei film di Eastwood tale “di120

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Incarnazione

schiusura” assume una presenza invisibile dentro la “carne” di immagini, la cui evidenza racchiude in sé tanto la tattile e aptica presa, quanto qualcosa che resta circolante come invisibile, inudibile, intraducibile, irriducibile. Ad esempio in Million Dollar Baby il sussurrare all’orecchio di Maggie morente la parola gaelica Mo Cuishle (quasi un mantra inscritto sulla schiena della ragazza, e di cui lei stessa, nell’accappatoio che l’avvolge, diventa l’incarnazione), resta intraducibile e inudibile, e si fa, nell’atto del donare la morte al corpo “tracimato” della ragazza-boxeur, una promessa di resurrezione. Oppure in Hereafter, laddove la separazione spaziale del bambino, della donna e del sensitivo si dischiude in un tempo-luogo irriducibile e incommensurabile, parallelo e convergente (qui-dopo), ma anche istantaneo, che è quello della visione per contatto con un aldilà, dove corpi invisibili si fanno immediatamente presenti, agenti, parlanti nel cortocircuito del contatto delle mani, nell’accensione di luce che avviene come l’incarnazione di un invisibile nell’immagine corporea, e questo tempo si configura in uno spazio di incontro d’amore, contatto e intreccio di mani, nell’aldiquà incarnato del-nel mondo. Nancy decostruisce l’interpretazione corrente del termine incarnazione come entrata di un’entità incorporea (spirito, dio, idea) in un corpo. Lo spirito: «si mette fuori di sé con e in una creazione (che non è per niente una produzione, ma precisamente la messa-fuori-di-sé) [...] estensione, spaziatura, distanziamento dello svanire. Corpo come verità di 121

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“Una vita che riguarda solo la morte non è vita”

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un’anima che si sottrae (sottratta, denudata: messa a nudo di una fuga infinita)»1. In questo modo, è messa radicalmente in discussione l’idea che il movimento incarnativo si inscriva semplicemente in una figurazione. Così, nei film di Eastwood, a partire dall’uso di se stesso corpo-attore e poi nella scelta di attrici e attori (la figlia Alison ad esempio, ricorrente nei suoi film, o il corpo trans vero di Lady Chablis, aderente fino alla identificazione con il personaggio-persona vera in Mezzanotte nel giardino del bene e del male, ma anche una Angelina Jolie così vicina a una reale maternità in Changeling, oppure Freeman-Mandela in Invictus, o ancora la Swank in Million Dollar Baby, o Derek Jacobi nella parte di se stesso in Hereafter), si può ben parlare di incarnazione del personaggio, piuttosto che di interpretazione. L’incarnazione dal campo della semplice “trasposizione” o “rappresentazione”, cessa di opporre il corpo sensibile come ricettacolo esteriore che incorpora un’anima o uno spirito ad una interiorità: il verbo non penetra in una carne che sarebbe fuori di lui, ma esso stesso si fa carne, diventa incarnato. In questo senso, parlando del cinema eastwoodiano, ci si accorge, a ben guardare, come la pregnanza, la plasticità e insieme la luce epifanica dei suoi film2

  J.-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, tr. it., Cronopio, Napoli 2007, p. 121.

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  In questo senso vi si ritrova uno “splendore del vero” rosselliniano, cosa di cui Godard tra i primi si è accorto, quando ancora da noi Eastwood veniva letto ideologicamente o considerato unicamente una coniugazione, a seguito di Siegel, dei generi o

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solchino le due sponde del simbolico e dell’immaginario per accedere a una presenza reale della scrittura filmica. Se sul lato dell’immaginario l’incarnazione può figurarsi come apparizione, irruzione del fantasmatico, e se dal lato del simbolico può rappresentarsi come iconizzazione, riduzione dell’invisibile a cifra, a codice, a icona, a lingua, paterna o materna (comunque inscrizione in un retaggio), possiamo dire che, sebbene entrambi questi lati rispetto al movimento incarnativo dell’invisibile vengono lavorati da Eastwood, non si risolvono in se stessi, e piuttosto vengono rilanciati e fatti precipitare nel reale. Da un lato gli uomini “senza nome”, apparsi come fantasmi dal nulla, le ombre della psiche, tutte le insistenze della memoria e del passato fantasmizzate che percorrono senza tregua il cinema eastwoodiano, non approdano mai né al gotico né al visionario3, né alle ossessioni horror né tantomeno a una genealogia della mutazione in quanto allucinazione virtuale e

dell’immaginario americano, dal western all’action-movie o al thriller. Godard ha avuto modo di dichiarare: «Io, il realismo lo cerco, io sono come Brecht; e cerco un realismo migliore, un realismo diverso da questo. L’ideale per me sarebbe di fare i film di Clint Eastwood, però farli bene. Ma come si fa, appunto, a fare bene un film di Clint Eastwood?», J.-L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1982, p. 200.

  «Non è un cinema visionario quello di Eastwood, non prevede, ma fa i conti con un dato, un reale che spaventa, anzi forse di più, fa orrore, atterra corpi e volontà, proprio perché colto nella sua non equivocabile presenza», A. Cervini, Aut-Aut, in “Filmcritica”, n. 554 (2005), p. 200. 3

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immaginaria. Dall’altro, il suo costante inquadrare e disseminare nel paesaggio i segnacoli di un orizzonte simbolico americano (le bandiere, le armi, le auto ecc.), e il suo riferirsi al retaggio degli “our fathers” e al codice temporale e memoriale di una lingua che è quella del cinema classico4, non hanno mai spinto Eastwood verso un cinema revivalistico, citazionista, o a una pura decostruzione dei generi e delle narrazioni mitiche (come è accaduto ad esempio per Bogdanovich o Altman, e in parte per Scorsese e Spielberg). L’intruso incarnato e il corpo estraneo In Debito di sangue l’ispettore McCaleb subisce un trapianto di cuore e scopre che l’organo è appartenuto ad una donna vittima di un delitto dalle strane circostanze. Si è ricordato lo struggente momento in cui Eastwood si ri-guarda (in un effetto-specchio della carne e della ferita cristica al costato), mostrando la cicatrice dell’operazione sul petto del proprio corpo; ma bisogna considerare anche che, in più di una sequenza, il film è punteggiato da videoriprese di telecamere di sorveglianza, attraverso le quali la   «La forza e la potenza del cinema classico stanno proprio nella capacità dell’immagine di farsi sempre presente, di essere contemporanea a chi guarda, di mostrare l’inquietudine della chiarezza e dell’evidenza», D. Dottorini, Million Dollar Baby. Sul concetto di classico, in ivi, p. 162. Questa presenza gioca il cuore oscuro del classico nel suo rilancio contemporaneo, ed è il “simple game”, il semplice gioco di Eastwood. 4

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presenza dell’incarnazione e del transitare da un corpo all’altro si rivede per interposizione, “dischiusura” di una presenza “in assenza”: McCaleb ripassa più volte, fermando o rallentando i frames, il momento dell’omicidio della vittima, il cui cuore gli è stato trapiantato, batte ancora nel suo petto. La scrittura filmica di Eastwood, al pari della scrittura filosofica di Nancy (che in tal senso pensa anche il cinema), non dice della necessità di riassorbire e incorporare il corpo estraneo, ma al contrario di esperire l’incarnazione dell’altro, del fuori-di-sè, in quanto movimento del fuori: un venire-in-presenza proprio nel punto in cui questo avvento, questo venire è sul punto del suo svanire, o piuttosto del suo e-venire5. Per Nancy il cinema va inteso come movimento del reale, ancor più, o al di fuori di ogni pretesa di rappresentazione. L’intruso designa qui un’alterità irriducibile e ciononostante incorporata, dove il trapianto non forma altro che una figura al centro del processo più generale di trasformazione che intacca tutto ciò che crediamo possa essere designato naturale

  Si tratta di pensare a partire da un movimento come pensiero dell’estraneità, di un’intrusione che non può e non deve essere neutralizzata: «è questo che si tratta di pensare e quindi di praticare: altrimenti l’estraneità dello straniero viene riassorbita prima ancora che lui stesso abbia varcato la soglia; e non è più in questione. Accogliere lo straniero deve essere anche provare la sua intrusione», J.-L. Nancy, L’intruso, tr. it., Cronopio, Napoli 2000, p. 11. Cfr. inoltre, D. Dottorini, Jean-Luc Nancy. La critica come intrusione, in “Filmcritica”, n. 558 (2005), p. 385. 5

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e che entra all’interno di quel regno generale che abbiamo altrove chiamato ecotecnica6.

L’intrusione di un cuore reincarnato attraverso il trapianto in un corpo altrui, che relaziona la sua estraneità come empatia, come incarnazione dell’eterogeneo che mette in contatto corporeo e incorporeo, interpenetrandoli, possiede un movimento che viene nel film di Eastwood continuamente rifigurato in rapporto ai mezzi tecnologici di riproduzione e di controllo dei corpi “estranei”, “intrusi” nello spaziodispositivo ecotecnico, anodino, e cioè l’occhio meccanico delle telecamere di sorveglianza che hanno ripreso la scena del crimine. Allora l’indiscernibilità relazionale tra mondo naturale e mondo tecnologico delle immagini ritrasmesse, tra diretta e differita, viene trasferita alla presenza dai continui revisionamenti del video operati da Eastwood-McCaleb (tanto dall’attore quanto dal regista del film, incarnatosi nel personaggio di un detective destituito dalla sua giurisdizione e dalla sua licenza, che è diventato corpo estraneo, «cavaliere solitario», come si autodifinisce in risposta alla domanda: «Chi sei ?», un intruso rispetto alle indagini, ma si direbbe, rispetto allo stesso movimento dell’azione, in quanto nel suo petto batte un corpocuore estraneo). Lo stesso “movimento del reale” impresso al film, e che ne emerge, aderisce a tale condizione,

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  J.-L. Nancy, L’intruso secondo Claire Denis, in ivi, p. 371.

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a tale incarnazione di un invisibile. L’incarnazione non sta senza il suo fantasma, il disincarnato, lo straniero, l’altro che sparisce proprio nel momento in cui avviene l’incorporazione, e questo suo svanire è un “venire” in luce, l’avvento-evento di un incontro d’amore ed empatico, «l’assenza è luce gettata sulla presenza, la presenza è in funzione dell’assenza»7. Perciò il movimento dell’incarnazione di un invisibile, di una presenza nascente in diversi film di Eastwood si rivela nel contatto d’amore che riattiva, incarnandolo, colui che insiste dal nulla, che eviene dall’aldilà, e la cui alterità invisibile e fantasmatica riesce a imprimere movimento all’immagine incarnandovisi, facendo corpo con essa, entrando in contatto, in sintonia, in empatia, trasferendosi e precipitando nel reale, e facendolo secondo un cortocircuito tra i tempi e gli spazi, un loro intersecarsi paradossale e parallelo: ciò è evidente in Debito di sangue come in Hereafter, in Vanessa8 come in Mezzanotte nel giardino del bene e del male, in I ponti di Madison County come in Million Dollar Baby.

  J.-L. Nancy, Nascere alla presenza, in Id., Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, tr. it., Mimesis, Milano 2009, p. 104. 7

  Per la serie Storie incredibili, prodotta da Spielberg, Eastwood gira questa storia fantastica inscritta nell’archetipo dei “ritratti animati”, qui però il corpo ritratto non si anima “nel quadro” ma si trasferisce “nell’inquadratura”, scompare dal dipinto e si incarna nella realtà, che è lo spazio del film. A questo proposito, cfr. B. Roberti, Lo specchio scuro, in “Filmcritica”, n. 461-462 (1996), p. 41.

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Quando si parla di penetrazione senza designare la minaccia invasiva, militare o medica, significa che si parla d’amore. Nell’amore c’è presa (melée) senza assimilazione né lacerazione. Cioè corpo l’uno nell’altro e l’uno all’altro senza incorporazione né decorporazione. Amore significa il prendersi (la meléè) di due che eludono le trappole dell’uno9.

Nella scena d’amore di Debito di sangue avviene proprio questo: la presa è letteralmente una ripresa, per cui il corpo ferito, il costato entro cui si è incarnato il cuore dell’altro da sé, è riflesso, ripreso attraverso uno specchio, cui quello stesso corpo, in continuo corpo-a-corpo con la morte, sta di fronte, e ciò fa sì che Graciella gli si approssimi alle spalle, gli carezzi la ferita, e gli dica «mostrami il tuo cuore, mostramelo», riprendendosi il cuore della sorella come cuore dell’uomo amato, in una paradossale coesione tra proprio ed estraneo, tra visibile ed invisibile (il cuore si rivela nella sua presenza-assenza, un cuore che non c’è più eppure c’è ancora, battendo come proprioaltro) e che non a caso sfocia nell’atto d’amore. Questa empatia del tra, del due, sventa la “trappola dell’uno”, di quell’uno che è “nessuno” proprio perché vuole fagocitare la diversità in un’appropriazione, atto replicante del doppio. Cattiva dualità, cattivo debito, cattiva incarnazione (del code-killer) opposta al contatto, al debito di sangue, alla buona incarnazione (della vittima e degli amanti).   J.-L. Nancy, Indizi sul corpo, tr. it., Ananke, Torino 2009, p. 111. 9

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La sequenza è preceduta, infatti, da due scene che forniscono entrambe indizi significativi: nella prima il detective passa davanti alla barca dell’amico “Buddy Noone” e un breve dialogo segnala la relazione di debito/credito che c’è tra i due («Quante bottiglie di birra ti devo?... Domani ti faccio l’assegno». «Si dice sempre così»). Nella seconda l’ispettore sale sulla sua barca-rifugio dove un bambino (il figlio della donna uccisa che gli ha donato il cuore) gli fornisce casualmente la “chiave” del codice numerico che il killer senza volto, che intrattiene con lui un gioco mortale, lascia come traccia sulle scene del crimine: nella sequenza numerica non c’è nessun uno (no one, che è il nome “improprio” cui l’amico Buddy gli ha suggerito di intestare l’assegno). Ora, il fatto che l’amico sia anche questo “nessuno” è in connessione con l’identità vuota, o meglio la sottrazione di identità, del killer. Sarà lui a rivelarsi come killer infatti e al contempo come doppio oscuro dello stesso detective, e ciò viene suggerito dal nome della barca dove il killer vive: Double Dawn. L’identità dell’assassino si rivela dunque, come vedremo, attraverso una negazione, un vuoto, una sottrazione, una barra su una impossibile unità che viene contraddetta in un movimento di apertura del posto vuoto, di precipizio nel buco nero, che marca la duplicazione. E se il prendersi di due elude ed elide l’uno, è proprio qui il momento del film in cui McCaleb prende coscienza del semipalindromo “noone”, gioco nominale del “killer del codice”, che non immette mai l’uno nei messaggi numerici proprio per “tendere la trappola” dell’uno stesso. 130

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Il killer, nel suo sdoppiarsi, vuole instaurare una “reductio ad unum”, una assimilazione, una fagocitazione del corpo estraneo con cui sta giocando la partita mortale: anche lui “ama” a suo modo McCaleb, ma il suo amore tende a incorporarlo per distruggerlo, fino a identificarvisi, come un “doppio oscuro”. La rivelazione della trappola avviene nel film in un incontro simmetrico e rovesciato rispetto a quello con Graciella: entrambi su uno scafo galleggiante, entrambi con uno specchio sul fondo, entrambi a torace nudo. Ma qui è Buddy/Noone (il signor “nessun uno”, come lo chiama McCaleb) ad essere di spalle allo specchio, e a lui viene intimato di scoprirsi le spalle. Qui è la schiena di Buddy che deve essere mostrata e non il cuore («scopriti la schiena», gli intima McCaleb, su cui c’è il segno del proiettile). È il noone, questo “demone inverso”, che dice di sé: «Io sono il mare di poppa, quello dal quale ti devi guardare»: in altri termini, il “riprendersi” diventa un “rivolatarsi”, non un offrire il cuore-torace ferito, ma un guardarsi alle spalle, ed è alle spalle che McCaleb gli spara, quasi a instaurare un movimento di inversione-proiezione, così come il fascio di proiezione del proiettore è il proiettile che, “di spalle”, spara il film, rispecchiandoci in esso. Non a caso è da qui che prende le mosse quella discesa nel buio che è la sequenza finale, inseguimento e sparatoria nel “cuore nero” del naviglio in disarmo, della “nave morta”, i cui corridoi oscuri sono percorsi da improvvisi squarci di luci proiettate, di tagli luminosi, di fasci che solcano il buio, in cui si aprono e si chiudono porte e vetrate: una “nave faro” che somiglia sottilmente a un dispositivo cinemato131

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grafico, a una cabina di proiezione, a un labirinto che è quasi un panottico impazzito e deflagrato, dove non sai se vedi o sei visto, e comunque vedi l’invisibile e sei visto dall’invisibile. È altresì significativo come, ad esempio in tutti i film poco sopra citati, il cinema di Eastwood immetta questo cortocircuito incarnativo che è dato da un venire dell’immagine quasi come un gesto-cadenza musicale (le musiche composte da Eastwood stesso che fanno sì che l’immagine batta se stessa, il suo tempo, in quanto gesto di presenza, in uno spazio, di un corpo, «il ritmo di un pensiero sorpreso e sincopato, un pensiero anzitutto non occupato dalle sue idee, ma dal suo movimento, dalla sua andatura e dal suo dislocamento»10, ed è singolare come questa intrusione, questa immissione intesa come riprendersi la irriducibilità del proprio corpo estraneo abbia a che fare, nella presa di contatto dell’amore, con il suo contro-movimento che è la morte. In Eastwood il “morto che ritorna”, il fantasma “venuto dal nulla”, “lo straniero senza nome”, “il cavaliere pallido”, non viene assorbito dal lato dell’immaginario, e nemmeno viene messo in linguaggio dal lato del simbolico (anzi il codice del “potere assoluto” dei padri o del nome del padre tende ad essere messo in scacco dentro la sua stessa scena, rete il più delle volte del crimine, mentre viene redento solo in quanto precipita nella pietas, che dal figlio ritorna al padre, ma vi ritorna come puro   J.-L. Nancy, L’intruso secondo Claire Denis, in “Filmcritica”, n. 558 (2005), p. 372.

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Incarnazione

generato, come qualcosa che non è più corpo proprio, ma un donarsi e adottarsi/adattarsi alla stessa natura degli eterogenei, al paradosso di una stessa carne in persone diverse). L’incarnato e il visuale Ora, in Eastwood ricorre un vero e proprio regime del visuale, inteso come immagine oltrepassante, che si mette in presenza e si pro-mette, e perciò non può esaurirsi nello spettacolo idolatrico11: il disegno (Fino a prova contraria), il quadro (Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Potere assoluto), la fotografia (I ponti di Madison County, Flags of Our Fathers), la lettera (come segno della voce, scrittura di una parola che tende a farsi carne dell’immagine in I ponti di Madison County, Lettere da Iwo Jima, Million Dollar Baby), la stessa narrazione-poesia come retaggio della forma classica di rappresentazione nel contemporaneo (Yeats in Million Dollar Baby, Dickens in Hereafter, W.E. Henley in Invictus) sono altrettanti veicoli di incarnazione e si configurano come uno specchio del modo stesso di agire del cinema come processo paradossale di re-incarnazione attraverso il dis-incarnato.

11   Cfr. G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 76: «Il visivo caratterizza un mondo in cui l’immagine è contemporaneamente in presenza e in promessa – in breve, in aura, materia dell’anima».

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Perciò l’ossessione fantasmatica in Eastwood è spesso connessa con il proprio “negativo”, che è l’ossessione della presenza incarnata delle immagini, ancor più della ritualità o della corporalità, e per forza di cose tutto ciò fluisce verso una im-possibile ripresa del tragico. Una sorta di cristologia riferita costantemente a una crucialità dell’immagine incarnata rende in Eastwood il suo rapporto complesso e problematico con un cattolicesimo inteso come ontologia del nesso corporeo-spiritale, come teologia del verbo, e della mancanza, dell’oggetto perduto, incarnato, apparso, scomparso, e risorto, in quanto promessa di resurrezione della carne («Padre volevo chiederle dell’Immacolata Concezione» è la domanda che “insiste” da parte di Frankie al prete cattolico irlandese). Basti pensare a come le figure di sacerdoti ricorrenti, in Million Dollar Baby come in Changeling o in Gran Torino, siano in una dialettica rivelatrice e compresente con le figure sacrificali (le passioni di Maggie, di Christine, nomen-omen, di Walt). Basti pensare alle figurazioni di croci disseminate nei suoi film, al ciondolo con crocefisso come segno di presenza del fantasma d’amore in I ponti di Madison County e l’orecchino a forma di croce come sopravvivenza della vittima in Debito di sangue, e spesso inscritte nella carne: la croce tatuata sulla schiena in Mystic River12,

  In un film come Mystic River è il movimento del tragico in quanto incarnazione compresente di un retaggio passato a insistere e fluire: corpi capovolti, crocifissi a testa in giù, revulsione nella superficie dell’abisso sotterraneo, enucleazione del buco

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l’aprirsi del corpo eastwoodiano in forma di croce nell’offrirsi al colpo mortale in Gran Torino. La croce non è tanto segno quanto apertura, in modo da incarnare il momento di verità dell’immagine: «Apertura implica incarnazione. […] I cristiani hanno cercato la loro verità in un faccia a faccia perenne con la figura di un dio aperto, eretto su una croce, con le braccia allargate […], il petto gocciolante sangue. Questa figura si chiama appunto il “Verbo incarnato”»13. Si tratta di un movimento di visualizzazione, di messa in presenza dell’animico e dello spirituale che non può essere scisso dal movimento incarnativo. Il logos giovannèo è letteralmente connesso alla luce, al verbo-luce, alla sua epifania visiva. E la parola greca “nous”, che ha poi acquistato il significato di “mens”, “mente”, “intelletto”, “spirito” o “anima”, derivava da “noein”, “vedere”. Il “nous” veniva localizzato nel petto e dovrebbe essere tradotto con nero lungo il fluido fiume delle incarnazioni, vampiri non-morti che continuano a far fluire il sangue della vendetta, circuito del sacrificio tragico senza redenzione, laddove ciò che di mistico e trascendentale residua è la pura presenza dei corpi, esangui e sanguinanti insieme, come fantasmi vivi che non cessano di essere presenti, nel loro ritorno del rimosso, nel ritorno dalla terra dei morti (e la citazione di Carpenter in tv è eloquente in tal senso): «non corpi riemersi per compiere una missione, ma non-vivi brancolanti all’ombra di croci su cui è impresso il senso di colpa di ognuno. L’anello di uno dei due rapitori di Dave, i crocifissi appesi alle pareti degli interni, la croce tatuata sulle spalle di Jimmy», G. Paganelli, La linea retta, in “Filmcritica”, n. 504 (2003), p. 521.

  G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, cit., pp. 16-17. 13

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espressioni come “percezione” o “riconoscimento” o “campo visivo”. L’animico in questo senso viene costantemente alla vista e anzi si incarna nel costato, nel petto, nella possibilità del cadavere di ritornare alla vita, e di dare la vita, passando attraverso il crisma sacrificale: si tratta appunto del respiro14 stesso dei film eastwoodiani, sia quando il suo corpo si offre e si espone, proprio a petto aperto e nudo, alla visione sacrificale, come in Gran Torino o in Debito di sangue, sia quando il corpo è un incommensurabile agone tra carne e spirito, e si materializza venendo alla luce e provenendo dall’ombra, come in Million Dollar Baby. Ciò che Didi-Huberman definisce realismo dell’incarnazione dribbla i due lati, quello del dispositivo, il quadro, e quello dell’incarnazione del Verbo in quanto segno, secondo un ordine semiologico, linguistico, in altro modo scarta il lato immaginario e quello simbolico con il “colpo d’apertura” del reale, del realismo dell’incarnazione. In questo senso l’insistere della fotografia, come traccia dell’emergere

  La “potenza” del classico che mette in sospensione tempo e storia ha a che fare con la capacità del film «di far entrare lo spettatore, di accoglierlo dentro il suo tempo, di vivere e respirare in insieme a lui», D. Dottorini, Million Dollar Baby. Sul concetto di classico, in “Filmcritica”, n. 554 (2005), p. 161. Una tale evidenza è insieme un moto di apertura e di intrusione: entriamo nell’altro reale del film in quanto altro. In ciò consiste lo scarto che Eastwood opera, sottilmente, rispetto all’aderenza e all’evidenza della trasparenza del classico che lo ha preceduto, Hawks anzitutto.

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immaginario e del quadro-pittura come inquadramento del simbolico, assume nel cinema di Eastwood i sintomi di un tale scarto. E viene in luce una ulteriore insistenza più segreta, quella lacaniana della lettera15 (riferita appunto nelle ricorrenze eastwoodiane di questa figura a un atto di presenza-assenza, al lato del reale che suscita e fa precipitare nel film il corpo-carne non più e non solo come fantasma o come icona, come quadro o fotografia), come voce o apertura testimoniale attraverso cui il corpo incarnato non cessa di sanguinare, di testimoniare l’oggetto perduto nella sua venuta alla presenza per tramite di una autre chose, che è anche un corpo estraneo, sintomo inscritto nella carne del mondo. Eastwood opera, secondo le parole di Victor Hugo citate da Didi-Huberman, attraverso l’“incisione cruciale del mistero” che comporta un “vedere” attraverso la trafittura, attraverso la piaga, l’apertura, il movimento di apertura-intrusione del corpo estraneo. Il “mistero” dell’incarnazione attiene così a una “certa tecnica dello sguardo”, per cui la carne parla, attraverso l’apertura della ferita incarnata. Tecnica (e in Eastwood stile, proprio nel senso di incisione nel tattile dell’immagine) che ha:

  L’“istanza della lettera” ritorna spesso in Eastwood: I ponti di Madison County, Lettere da Iwo Jima, Million Dollar Baby, Hereafter (le voci trasposte da altrove funzionano come delle lettere dei morti), Debito di sangue (le immagini testimoniali dei video sono come trascritte da altrove).

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la forza di mettere in luce un’esperienza del non-sapere della carne. In questo non-sapere fiorisce una certa maniera di guardare l’immagine nell’apertura della carne, nel senso molto “realista” di un corpo percosso, straziato, squarciato, ferito. […] la piaga del costato è sistematicamente rappresentata come una bocca, così da suggerire che il Verbo non è discorso ma parole della sofferenza, piaga urlante del corpo sacrificato16.

In Eastwood assistiamo sempre al denudamento della presenza, al venire al mondo di un mondo, all’andare e venire dell’imminenza, una pre-venienza, ciò che Nancy riferisce al godimento nella formula del “godere della presenza”, presentia frui17. Naturalmente ciò avviene in praesentia del suo corpo proprio, che sempre è in un certo senso destituito paradossalmente di presenza: può essere il senza-nome, colui che è venuto dal nulla, un intruso che indaga o si vendica anche laddove è fuori dalla legittimità dell’indagine o della vendetta, outlaw (in Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio, Gli spietati, come in Debito di sangue), così come può essere un corpo malato, prosciugato, invecchiato, o addirittura indifeso fantasma (in Honkytonk Man, I ponti di Madison County, Space Cowboys, come in Debito di sangue, Gli spietati e Gran Torino), e cio-

16   G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, cit., p. 17, p. 20.

  Cfr. J.-L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, cit., p. 105.

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nonostante la flagranza del suo venire ha sempre la forza di una nascita, che paradossalmente precede e procede, avviene e proviene, e ciò anche in rapporto a una “icona” che è insieme “fantasma”, proveniente dopo gli eroi classici ma assumendone in certo modo lo “stato nascente”. Scartando il soggetto, il suo “venire” dal nulla è un incarnarsi dopo il soggetto: «questi viene, non fa che venire, e la presenza per lui non è altro che continua venuta: il che qui non vuol dire venuta (participio passato), ma consiste in una venuta (come azione del venire, arrivo)»18. Eastwood, in quanto corpo “venuto dopo” (l’“uomo senza nome”, il “monco”, il “biondo”, e poi Callaghan, da Leone a Siegel, fino alla appropriazione estranea di tali figure, presenti/assenti, nel suo stesso gesto registico-attorico) assume la consistenza del qui, la presenza dolorosa dell’“here” e dell’“after”, di qualcosa che procede, che si approssima nello svanire di un mondo, e riesce a farne carne e sangue, cortocircuito nel qui e ora. In tal senso il gesto violento trapassa immediatamente nella dinamica sacrificale, e tale dinamica si connette con il cinema stesso, con le sue immagini che “lavorano la morte”, in una mort au travail che accede da subito alla venuta, al levarsi, alla resurrezione. Il paradosso eastwoodiano è che la forza del suo corpo presente sullo schermo, è tanto maggiore quanto più questo corpo appare in affanno, in spegnimento, in trapasso, in ferita, e diventa perciò un corpo glorioso (può essere forse un caso che il corpo 18

  Ivi, p. 102.

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da cui viene estratto il cuore trapiantato nel petto di McCaleb appartenga a una donna che si chiama Gloria, se non è così il suo corpo-a-cuore è quello letteralmente di un “corpo di gloria”).«È questo vivere della fine a farne un nostro contemporaneo: il narratore privilegiato di un esilio dalla vita, che ci tocca da vicino. E, dunque, c’è tutta una vita dopo l’assenza: il cinema eastwoodiano vi si colloca con la semplicità di un gesto fordiano»19. Ma il venire in presenza di un invisibile nel visibile, o meglio del loro cortocircuito, passa anche nei film senza Eastwood attore, e anzi in almeno due di questi viene tematizzato in quanto tale: Mezzanotte nel giardino del bene e del male e Hereafter. L’apertura del primo film (dopo una ripresa aerea sul paesaggio paludoso ricorrente nei suoi film, e spesso riferita a paesaggi acquatici, marini, fluviali: da Mystic River a Flags of Our Fathers fino a Hereafter) è l’“appello” ai morti che continuano a vivere sotto altre forme, reincarnandosi. Dalla statua infantile che tiene in sospensione compresente le due “coppe” del bene e del male, del vivo e del morto, del visibile e dell’invisibile, dell’amante e dell’amato, del maschile e del femminile, del nero e del bianco20, si passa a   Cfr. G.A. Nazzaro, Note per una cinebodygrafia eastwoodiana, in L. Barisone, G. D’Agnolo Vallan, a cura di, Clint Eastwood, Il Castoro, Milano 2000, pp. 216.

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  Queste dicotomie sono appunto tenute in sospensione e in un certo senso compenetrate, messe in mélange, durante tutto il film, fatte transitare l’una nell’altra e trovano incarnazione nel vero corpo trans di Lady Chablis, che non cessa di perturbare il film, enucleandone la verità nascosta, il significante che si

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Minerva (colei che con gli occhi di civetta è capace di “vedere” nella notte i morti e di parlarci) che su una panchina si rivolge a uno scoiattolo, mentre “gli angeli cantano”, così: «Piantala di scrutarmi... ti conosco da quando andavi a battere per due soldi», alludendo a una metempsicosi (scoiattolo che rivedremo alla fine del film, forse reincarnazione di Billy, o di Jim). «Film completamente offerto alla vertigine dell’invisibile»21, Mezzanotte nel giardino del bene e del male agisce il visibile e l’invisibile nella forma del cortocircuito visuale: nel giro a Forsyth Park, il guinzaglio che mantiene un cane invisibile, il fantasma di un cane, si tende veramente, come se ci fosse una presenza; nella visita alla stanza dei restauri, il quadro di paesaggio è uno strano pezzo dall’impasto interessante e sotto una lampada a luce nera si rivela

sottrae e precipita nella Cosa: e ci pare pertinente usare un riferimento lacaniano, dal momento in cui è la stessa Lady a definire il suo sesso nascosto come S, esattamente la lettera barrata che insiste in Lacan. Ciò ci fa pensare come un’altra “s” quella di “straniero” percorra incessantemente il cinema di Eastwood, e ciò propriamente come “corpo estraneo” che, sembra dirci Eastwood, non va mai assimilato ma accolto in quanto tale, in quanto estraneo-familiare, perturbante. Dai messicani di Debito di sangue ai coreani di Gran Torino, dagli irlandesi di Million Dollar Baby, agli haitiani e meticci di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, ai giapponesi di Lettere da Iwo Jima, agli africani di Invictus, agli “stranieri” l’uno all’altro, in tre parti del mondo, di Hereafter fino a tutti gli “stranieri senza nome” del suo cinema.   E. Bruno, Un senso di magia, in “Filmcritica”, n. 484 (1998), p. 157.

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una sovrapposizione, immagine invisibile incarnata nel visibile. Durante la festa nella stanza privata di Jim viene aperto un tendaggio-sipario che incorporava in una presenza invisibile la musica suonata all’organo, John si trova inquadrato dalle foto sulla scena del delitto come un intruso. Tutto questo suscita un appello dell’invisibile nel visibile, e viceversa, diventando attivazione immediata di immagine: «l’appello dei morti attiva l’appello delle immagini, il corto-circuito della verità»22 (è un cortocircuito elettrico, scena apparentemente ininfluente che introduce John in una storia narrata dai morti). È proprio dell’inscrizione di una verità dell’immagine che si tratta, movimento del reale che incarna l’invisibile, lo rende presente eppure invisibile. Così come la parte ridipinta del quadro, che cela qualcosa che non sarà visibile se non nello scarto del fuori campo (un fuori campo che è insieme mentale e fisico), la realtà è interdetta alla visione, ma, nel suo fattore di verità, continua a darsi, anche al di là del volto, del voltarsi, svoltarsi, della presenza, è dentro e fuori di essa. Negli occhi bucati, nella bocca cucita (come nel sigillo magico di Minerva) che però rende visibile-invisibile il volto. Ed è un voltarsi verso l’incarnazione dell’invisibile, verso il suo sorriso, che chiude la storia d’amour-à-mort di Jim e Billy. L’apparizione finale non è tale, come non è un ritorno del fantasma. Ma è precisamente l’incarnazione nel di qua di ciò che lo trascina e supera, del di là che produce la materialità del territorio di qua, e del di qua che ne dà presenza, ragione e verità, testimonian22

  A. Cappabianca, L’appello dei morti, in ivi, p. 161.

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za, una opacità trasparente, la prossimità-lontananza della carne del reale che coincide e si sutura con la carne del cinema, e delle sue immagini ritornanti, che ri-vengono, che evengono. Questo movimento di inscrizione, di incisione nella carne, sottopelle («Vuol sapere cosa c’è sotto?», chiede Jim a John alludendo al quadro inscritto e celato nel quadro; «Inciditi queste parole nel cuore per riuscire a capire i vivi bisogna frequentare i morti», dice Minerva a John) è lo stesso movimento reale del modo di inquadrare di Eastwood, il procedere incarnativo di un film che incorpora l’intruso in sé, in quanto carne dell’immagine. Durante la festa d’avvento, il Natale, festa dell’incarnazione del Verbo, di cui il giornalista, corpo estraneo gettato a Savannah, deve testimoniare, Jim Williams ci tiene a fargli notare: «Io sono bravo a inquadrare le cose», ed è stato Jim ad averlo convocato, inserito nel quadro, e con lui stabilirà un contratto per fargli raccontare, con un libro, la verità, eppure tiene a precisargli che «La verità, come l’arte, è nell’occhio di chi guarda». Ciò produce un movimento di cortocircuito tra verità e finzione, non tanto una distinzione, ma nemmeno una confusione e una ambiguità in quanto tale, bensì una coalescenza che tiene in equilibrio precario il bene e il male, l’immagine fantasmizzata e l’immagine incarnata, ma che, in questa sospensione trova un precipizio, lo scivolamento nel reale, il cui movimento ha a che fare con una sutura, un risarcimento, e in cui il moto della vendetta produce in sé l’assolvimento tra grazia e colpa. Si tratta di quello stesso movimento che in Tertulliano, come fa notare Didi-Huberman, ossessionato dalle immagini 143

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idolatriche e dagli spettacoli, produce una lingua al contempo intensa e fragile, che eccede sé stessa senza diventare delirante, ma piuttosto incorpora in una lingua in stato di grazia, quel delirio, avvolge di chiarità il suo cuore oscuro. Proprio tale movimento produce in Eastwood un’etica delle immagini che connette il disvelato e il nascosto, l’evidenza e l’enigma, l’impossibile reale. E tale credenza nell’impossibile possiede un movimento resurrezionale. Moto contraddittorio, conflitto in atto “che include intensamente la contraddizione”, la agisce, per cui ciò che è invisibile lo è, benché lo vediamo. In Eastwood l’imitazione viene trascinata da una defigurazione: il riflesso, lo specchio, l’ombra e la rappresentazione en abyme vengono forzati da una insistenza dell’atto di presenza. In tal senso essi sono incorporati nella messa in scena senza che ci sia una assimilazione, o meglio mantenendone in sospeso i segni e trasformandoli piuttosto in indizi di verità (anche nel senso di una loro incarnazione effettiva nel plot narrativo, tanto nell’indagine che viene condotta, in corpore vili cioè sui corpi delle vittime o sulle scene del crimine, quanto nel training cui viene sottoposto il corpo, spesso un corpo-bambino, o, all’opposto, un corpo malato e invecchiato). È la verità del corpo dell’immagine che viene incarnato. La resurrezione della carne è una parusia continuamente pre-figurata e, nell’atto incarnativo, trascinata in una de-figurazione capace di far sanguinare le immagini23. Il movimento paradossale 23

  «Eastwood riscopre il senso tattile del guardare e del sentire.

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dell’incarnazione trascina l’infigurabile nella figura, l’incircoscrivibile nel luogo, l’invisibile nella visione. Il trasfigurare si connette con il defigurare. La presenza reale dell’immagine necessita dunque tanto di un sacrificio quanto della resurrezione di un corpo, corpo imminente, corpo parusiaco, carne eveniente, tale il paradosso della figurazione così intesa. Né troppo invisibile, paganesimo, né troppo invisibile, ebraismo. Ma soglia processuale tra visibile e invisibile, loro interpenetrazione. Si pratica dunque una Aufhebung della figurazione da entrambi i lati, del visibile e dell’invisibile. «Innanzitutto, esigendo dal mondo visibile qualcosa come una perdita, un danno sacrificale. Un rito di passaggio, un battesimo, una circoncisione dello sguardo»24. Con questo movimento il fattore di verità si transustanzia in corpo di gloria. In Hereafter il “qui-dopo” è l’aldiquà. L’accento posto sul fattuale presente che trascina il “dopo” aldilà di se stesso fa sì che i fantasmi siano presenze incarnate, testimoniate dai corpi e dai contatti, delle mani. Ma è anche la traccia scritturale, il processo della lettera, il libro scritto (dalla giornalista) e letto (dal sensitivo) che traspone su carta che brucia, nella L’incavo della mano che aderisce al cuore. Sguardo che tocca i corpi, li attraversa fino a scoprirne ferite altrimenti invisibili. [...] La ricerca di Eastwood è impervia, lacerante, a tratti sfuggente, eppure incessante perché l’immagine torni, a essere presente, ad avvenire, dopo la sua messa a morte», M. Moccia, Parusie, in “Filmcritica”, n. 611-612 (2011), p. 41.

  G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, cit., p. 144. 24

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presenza pellicolare, l’esperienza di una morte che permane nel passaggio, nel pre-morte (e Dickens ebbe davvero un’esperienza di quasi-morte in seguito a un incidente ferroviario nel 1865). Qui più che mai è ancora il cortocircuito tra visibile e invisibile che produce una visione incarnata che travalica tempo e spazio, allineandoli nella com-presenza, che diventa testimonianza nel verbo, parola-vocescrittura (dei morti-vivi e dei vivi che hanno fatto un passaggio nella morte, come il Dickens ascoltato in voce, in cuffia prima di addormentarsi), movimento paradossale: «il paradosso consiste nel fatto che le cosiddette prove della persistenza di qualcosa che sopravvive al corpo, si basano tutte (né potrebbe essere altrimenti) su esperienze corporee, di corpi in qualche modo tornati»25. In ciò consiste il «rendere materia l’invisibilità del visibile»26 del film, le voci dei morti sono inudibili ma diventano visibili, voce della carne27 molto più che voci fantasmatiche, nel

  A. Cappabianca, Visioni d’ombra, in “Filmcritica”, n. 611612 (2011), p. 36.

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  E. Bruno, Violente affinità, in ivi, p. 35.

  «La voce della carne, l’incarnato vuole dunque sorprendere sotto due aspetti: per quello che lascia intuire di soggiacente e per quello che impone di una superficie tesa al massimo, come in uno specchio, levigata, ma trasparente [...] un imperativo categorico dell’entre-deux: tra superficie e profondità. [...] Come se l’evidenza dell’incarnato, ciò che fa la parte manifesta della carne, fosse accessibile solo secondo l’oscillazione di un doppio attraversamento, dalla superficie alla profondità, e ritorno», G. Didi-Huberman, La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, tr. it., il Saggiatore, Milano 2008, p. 20 e sgg.

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Incarnazione

dialogo semplice che si instaura attraverso il contatto delle mani tra George Lonegan e i sopravvissuti, così come, a occhi chiusi e bendati, è attraverso il sapore corporeo del cibo che si stabilisce il contatto tra George e Melanie. In Hereafter sembra sostanziarsi il concetto di incarnazione secondo Tertulliano, che comporta non solo un farsi immagine visibile, ma, in più, tangibile, per cui il Verbo incarnato è aptico, e l’anima, l’animato, l’insistere invisibile delle anime, si convertono in sostanza, in presenza reale: «Così, le visioni, i fantasmi, erano considerati da Tertulliano come il reale stesso: quello dell’anima visualizzata»28. Si tratta di interpénétration (secondo la definizione di Jankélévitch): il quadro-schermo sarebbe già l’Unonell’-Altro di una superficie e di una profondità. L’incarnato è insieme troppo prossimo e troppo lontano. Il montaggio incommensurabile di Hereafter pone i corpi lontani-vicini, in contatto attraverso una dimensione filmica che li fa inerire a poco a poco secondo una emersione materiale, come se quell’andare a fondo sott’acqua dei corpi all’inizio fuoriuscisse in superficie secondo uno sviluppo visuale che li incrocia e li disloca, li incarna l’uno nell’altro, li intreccia come si intrecciano le mani, la presa di contatto è una impronta che testimonia e incarna l’oggetto perduto, ne fa spoglia e vestigia, che viene in presenza mentre svanisce. Si tratta di un corpo dell’immagine come incar  Id., L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, cit., p. 76.

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Bruno Roberti

nazione che costituisce propriamente la parola del film. Una parola che prende corpo come il grumo di un pensiero. In altri termini la parola, ogni volta articolata in un sistema complessivo di segni da decifrare, è una lingua “incarnata”. La parola, il verbo, si fa carne e bisogna crocifiggersi ai piedi della lettera per transitare nel “buco” del reale29, per incarnare

  Se la Cosa, Das Ding, secondo il termine heideggeriano usato da Lacan e riferito alla sua concezione del reale, è anche ciò che “si cancella proprio là dove si scrive”, il cinema, scrittura su carta che brucia, scrittura su corpi infiammabili, viene ad essere quel movimento del reale capace di connettere evanescenza e bruciatura, incarnando così ciò che mentre avviene svanisce, scrivendolo con la “lettera della carne stessa”, scrivendo, pasolinianamente, con pezzi di carne e di reale. Il cinema, come linguaggio, allora “lascia all’esterno e contorna la Cosa”. Cfr. J. Lacan, Conferenze sull’etica della psicoanalisi, in “La Psicoanalisi”, n. 16 (1994), p. 33. Si comprende come nel cinema eastwoodiano siano proprio le possibilità fantasmatiche e insieme il codice perduto del simbolico a costituire la venuta dell’incarnazione come corpo istoriato, tatuato, rivestito e insieme denudato, reso spoglia e carne, morto-vivo, in modo da aprire la “perdita” del godimento lasciandolo fluire, proprio attraverso il corpo abitato dall’Altro, incorporando un significante che a sua volta lo modella nella carne, lungi dall’esserne fagocitato. In tal modo, nel rapporto tra istanza della lettera, istanza dello sguardo spettatoriale, istanza della presenza, istanza dello svanire e della perdita si dà l’incontro sempre sorprendente con il cinema eastwoodiano, di fronte al quale si prova uno strano gioire, un singolare giubilo, e non tanto una nostalgia, dell’essere di fronte, in presenza, dell’oggetto perduto, ma ciò nel momento in cui si filma tale perdita, condizione «che dà al soggetto la possibilità di realizzare, a partire da questa sottrazione di godimento, un più di godimento» (A. Di Ciaccia, M. Recalcati, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano

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Incarnazione

in un lampo il significante: la lingua della comunità chiusa di Savannah, che è anche una lingua dei morti o dei fantasmi, la lingua coreana in Gran Torino, la lingua gaelica in Million Dollar Baby, la lingua/ lettera ideogrammatica in Lettere da Iwo Jima, la lingua delle immagini massmediali in Flags of Our Fathers, la lingua-contatto che travalica i mondi visibile/invisibile, e le rispettive appartenenze nazionali e linguistiche, in Hereafter. Certamente di tradimento, di ambiguità, di scollamento tra parola e immagine, di duplicazione si tratta in questi film, ma l’esito della loro filmicità è alla fine una presa, un’unione dei corpi che prendono la parola trasformandola in luce, appunto in qualcosa che si comprende e comprende corpo e parola, interpenetrazione della carne, eliminandone confini e demarcazioni reciproche. Se, insomma, tutto ciò in questi film tradisce e si sottrae al codice linguistico del luogo estraneo, nello stesso tempo fa sì, in un unico movimento, che i corpi vengano liberati proprio nel momento in cui c’è una presa che non è più di possessione e imprigionamento, ma di liberazione, una presa della parola da parte dei corpi: il verbo-luce si fa carne. 2000, pp. 190-191) un plus de jouir (un “plusgodere”). Eastwood opera dunque una “spoliazione” del corpo pulsionale in modo da immetterne quel “plus”, quella forza, ostinata, che solo deriva da tale perdita, e questo movimento è insieme un differimento, uno spostamento, e una transustanziazione, un farsi carne e corpo e sangue della Cosa e insieme dell’oggetto perduto, che in tal modo viene a re-incarnarsi (vedi la figlia perduta in Million Dollar Baby e in Mystic River, o il figlio perduto in Changeling).

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Bruno Roberti

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Perseveranza

Alessandra Azzali

PERSEVERANZA

Ogni cosa per quanto è in essa si sforza di perseverare nel suo essere. Baruch Spinoza

Un uomo visita la cella angusta di quella che fu una prigione e misura con l’apertura delle braccia lo strettissimo spazio tra una parete e l’altra. Guarda fuori dalle sbarre della piccola finestra e immagina nel cortile polveroso, fra tanti, un prigioniero costretto a spaccare pietre, poi lo immagina dentro la cella, seduto al tavolino mentre scrive e legge una poesia. I versi della poesia parlano di «un’anima invincibile» nella «notte nera come la fossa dell’inferno», di una testa che non si piega, pur «nella morsa feroce degli eventi», della forza di chi sa essere «imperturbato», padrone del proprio destino, capitano della propria anima. Il titolo della poesia è Invictus, «non vinto». Nell’omonimo film di Clint Eastwood le parole di questa poesia hanno sostenuto l’animo di Nelson Mandela durante i ventisette lunghi anni della sua detenzione nella cella 466-64 del carcere di massima sicurezza di Robben Island nel 151

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Alessandra Azzali

Sudafrica dell’apartheid. Le stesse parole vengono “consegnate” dal neoeletto presidente Mandela a François Pienaar, capitano della squadra di rugby, affinché possano servire d’aiuto, incoraggiare a resistere, “ispirare” il compimento di un’impresa inimmaginabile: partecipare per la prima volta al campionato mondiale di rugby, dopo la fine del bando sportivo imposto al Sudafrica dal Comitato Olimpico Internazionale a causa dell’apartheid, e vincere la coppa del mondo. «Abbiamo bisogno d’ispirazione, François, perché per poter costruire una nazione dobbiamo tutti cercare di superare le nostre aspettative», dice Madiba (come è chiamato dai suoi sostenitori), il nuovo presidente di un Paese che deve ancora nascere, al capitano boero della squadra di rugby degli Springboks, storico simbolo della supremazia bianca. Sono i versi del poeta inglese vittoriano William Ernest Henley: Dalla notte che mi avvolge/Nera come la fossa dell’inferno/Rendo grazie a qualunque dio ci sia/ Per la mia anima invincibile/La morsa feroce degli eventi/Non m’ha tratto smorfia o grido/Sferzato a sangue dalla sorte/Non s’è piegata la mia testa/ Di là da questo luogo di ira e di lacrime/Si staglia solo l’orrore della fine/Ma in faccia agli anni che minacciano/Sono e sarò sempre imperturbato/Non importa quanto angusta sia la porta/Quanto impietosa la sentenza/Sono il padrone del mio destino/Il capitano della mia anima.

Questi versi racchiudono esemplarmente il senso 152

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Perseveranza

della perseveranza, della tenace ostinazione che muove i protagonisti del cinema di Clint Eastwood. L’azione perseverante Se nel cinema eastwoodiano della prima fase (fondamentalmente gli anni ‘70) si aggiravano giustizieri, vendicatori, pistoleri, impassibili poliziotti, capaci in senso “classico” di modificare le situazioni con le loro azioni (personaggi identificati come «incarnazione della combattuta mascolinità americana»1, a cui è ascrivibile «la scomunica ideologica da parte della critica di sinistra»2 ), nei film diretti dal regista californiano negli ultimi vent’anni circa, a partire da Gli spietati (che per connotati crepuscolari e autoriflessivi rappresenta un vero e proprio spartiacque) e da Un mondo perfetto, l’azione diventa un percorso intimo, un movimento interiorizzato, assume una dimensione “esistenziale”, in cui la posta in gioco sembra essere la condizione umana. I film del primo periodo sono contrassegnati dall’ossessione persecutoria degli ispettori e dei cavalieri solitari (Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio, L’uomo nel mirino, Coraggio…fatti ammazzare, Il cavaliere pallido, La recluta), che cercano nell’altro

  D. Frangioni, Clint Eastwood, l’icona, Panini Comics, Modena 2009, p. 13.

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  G. Carluccio, Il cinema di Clint Eastwood. Questioni, paradossi, film, in Id., a cura di, Clint Eastwood, Marsilio, Venezia 2009, p. 8.

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Alessandra Azzali

“La regola è proteggersi sempre”

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Perseveranza

da sé il nemico da combattere, il capro espiatorio, inseguendo la realizzazione della vendetta come atto che possa sanare un originario torto subìto o un misfatto compiuto: la vendetta come «la naturale, automatica reazione alla trasgressione» che non consente mai al soggetto di liberarsi da ciò che fa e anzi lo vincola a un percorso obbligato, ad un’azione che «può essere prevista e anche calcolata»3. Nella seconda fase, che coincide con il riconoscimento del carattere “autoriale” del cinema di Eastwood, si delineano invece figure solitarie che si trovano a fare i conti con se stessi, ed agendo definiscono il senso della propria esistenza (Un mondo perfetto, I ponti di Madison County, Space Cowboys, Debito di sangue, Mystic River, Million Dollar Baby, Changeling, Gran Torino, Invictus, Hereafter). Attraverso l’agire esse rivelano ciò che sono e che scelgono di essere, svincolate dall’obbligo di compiere una vendetta o di portare a termine una missione. Operano una scelta. La scelta fa dell’ostinazione un’azione “umana” in senso pieno. «Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano»4. E se attraverso l’agire i personaggi trovano forma e definizione, la tenacia e la perseveranza sono le modalità di questo loro agire nel mondo. L’azione, spinta da ossessione compulsiva di vendetta, lascia il posto 3   H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it., Bompiani, Milano 1991, p. 177. 4

  Ivi, p. 130.

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Alessandra Azzali

ad un’azione sorretta dalla forza della perseveranza. L’azione diventa dunque un percorso esistenziale, un cammino, spesso durissimo, inaspettato e dagli esiti incerti, che è, al fondo, l’impresa stessa della propria esistenza, il cui punto di arrivo non è la vittoria, il successo, il lieto fine (elementi quasi totalmente assenti nei film di Eastwood). Il personaggio non si incanala nel manicheo pragmatismo americano della logica di winner or loser, ma, cimentandosi con forza e determinazione, sa essere “non sconfitto” (invictus), capace, anche di fronte al precipitare degli eventi, di operare una scelta e attuare una precisa volontà, fino ad esiti estremi (Million Dollar Baby, Gran Torino). C’è insomma al fondo di queste figure qualcosa di “irriducibile”. Sono soggetti che davanti alla sconfitta hanno deciso di non rassegnarsi e di perseguire una ricerca di senso e di dignità. Compiono allora una sorta di viaggio, iniziatico e definitivo al tempo stesso, nel quale si appropriano della loro esistenza5. Trovano “chi” realmente sono e scelgono di essere. Esemplare in questo senso è Million Dollar Baby: «Il problema è che mi sento bene soltanto quando mi alleno. Se sono troppo vecchia allora non mi resta niente». La tenacia e la fiera perseveranza sono perseguite come una forma di fedeltà radicale ed inflessibile a se stessi e a ciò che si è. Al contrario, i “duri” eroici e solitari, che rappresentano il volto originario del cinema di Clint Eastwood, non arrivano mai a compiere questo   G. Manzoli, Million Dollar Baby, in G. Carluccio, a cura di, Clint Eastwood, cit., p. 124.

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Perseveranza

scarto, non possono e non sanno conquistare la loro “umanità”. Bloccati in un percorso obbligato, nello stereotipo dell’azione punitiva, vendicativa, o ritenuta come dovere, finalizzano la loro tenacia ad un obiettivo esterno da sé, secondo la logica del nemico da combattere. Il loro percorso è una re-azione, che è non in grado di generare nulla di nuovo. Agire significa “prendere un’iniziativa”, “mettere in movimento”. Non solo l’inizio di qualcosa ma anche l’inizio di qualcuno: inizia e si definisce una identità. Questo carattere di cominciamento insito nell’agire6 è assente nelle dinamiche dei primi western e nei film dell’ispettore Callaghan. È invece perfettamente coerente con i percorsi iniziatici o palingenetici dei soggetti perseveranti, presenti nei film eastwoodiani degli ultimi vent’anni. Perseverare è un verbo denominale da severus che significa serio, austero, grave, rigoroso, con il prefisso intensivo “per”. Perseverante (perseverus) è colui che è “oltremodo rigoroso”. Un’aspirante pugile, un pensionato che ha perso la moglie, un uomo reduce da una dura prigionia e separato dalla famiglia, una madre sola, un bambino dalla famiglia devastata, una giornalista travolta da una catastrofe (spesso personaggi colpiti da un trauma o da un lutto) esprimono una capacità di resistere e di agire secondo una traiettoria retta, senza inclinazioni o cedimenti. Tale “rigore” può   H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, cit., pp. 128129.

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Alessandra Azzali

essere il motore di lotte impari contro il potere, nella certezza della verità (Changeling), di caparbie ricerche piene di ostacoli, nell’esigenza di chiarezza e comprensione (Hereafter), o di una dimessa e imperturbabile resistenza contro il persistere del pregiudizio (Invictus). Forme della perseveranza L’idea di costanza e fermezza contenuta nella perseveranza può assumere diverse forme. 1.  La resistenza In Million Dollar Baby l’aspirante pugile Maggie Fitzgerald, da sola in un angolo della palestra, torna ogni giorno ad allenarsi fino a tarda sera, anche se Frankie Dunn, l’uomo che lei desidera avere come allenatore fin dall’inizio del film, le dice di rinunciare, perché lui non allena ragazze. Ogni sera, con ostinazione, si sente il ticchettio insistente dei pugni di Maggie sul sacco, fino al giorno del compleanno che lei decide di festeggiare da sola in palestra. In Changeling Christine Collins, regolarmente, durante la breve pausa nell’orario di lavoro, telefona ai diversi organi di polizia per chiedere se è stato trovato suo figlio, che è nel registro dei bambini scomparsi. Anche dopo un calvario fatto di inganni, soprusi e drammatiche scoperte, di fronte alla mancanza di una prova definitiva e inoppugnabile della morte di suo figlio, Christine continua a telefonare agli uffici di polizia per chiedere informazioni, non smette mai di cercare suo figlio, come si legge nella 158

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Perseveranza

didascalia dell’ultima scena («Christine Collins non smise mai di cercare suo figlio»). In Hereafter un bambino londinese cerca da solo, in silenzio, giorno dopo giorno, tra cialtroni e millantatori di ogni tipo, qualcuno che sia in grado di metterlo in contatto col fratello gemello che ha perduto, con una parte di sé che non trova più. Non si stanca, non demorde, finché non incontra qualcuno. In Mystic River il poliziotto Sean Devine si comporta con i suoi colleghi come un uomo sposato, anche se sua moglie è andata via da sei mesi. Sean riceve tutti i giorni una telefonata anonima e silenziosa. Lui sa che è la moglie che lo chiama e non dice una parola. Eppure, anche se Sean sente solo silenzio dall’altra parte del telefono, sa che ritroverà sua moglie: «un giorno o l’altro il telefono squillerà, io risponderò, lei parlerà e mi dirà perché se n’è andata». È l’unico dei tre protagonisti del film che riuscirà a sottrarsi in qualche modo all’insanabile destino tragico che ha segnato la loro vita fin da bambini. In Invictus il presidente Nelson Mandela, dopo quasi trent’anni di prigionia, esce pronto a costruire e guidare un nuovo Paese. Nella detenzione, giorno dopo giorno, egli non si è “piegato”, come recita la poesia, ha resistito e ha trovato la forza. Sono solo alcune immagini esemplari di come l’azione perseverante dei personaggi di Eastwood assuma spesso la forma della tenace “resistenza” secondo il modulo della ripetizione (come indica etimologicamente il prefisso “re-”). La resistenza non è stoica sopportazione, non è vocazione al martirio, neanche quando gli esiti estremi potrebbero lasciarlo pensare (Million Dol159

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Alessandra Azzali

lar Baby e Gran Torino). I personaggi perseveranti non “sopportano” ciò che capita loro, esercitano una precisa volontà. Sanno perfettamente quello che vogliono e sono consapevoli dei rischi che ciò comporta7. «Se c’è una magia nella boxe è la magia di combattere battaglie al di là di ogni sopportazione, al di là di costole incrinate e reni fatti a pezzi e retine distaccate: è la magia di rischiare tutto per un sogno che nessuno vede tranne te», dice la voce narrante di Million Dollar Baby. Una metafora della vita attraverso la boxe, in questo senso particolarmente efficace, in quanto evidenzia la dimensione cruciale della volontà e del desiderio, di cui dolore e sofferenza rappresentano, in fondo, solo inevitabili, “irrilevanti” corollari. Ancora dalla boxe e da Million Dollar Baby una dichiarazione esplicita, un’immagine di tenacia: «tutti i pugili in un modo o nell’altro sono dei testardi; molti di loro sono convinti di saperne sempre più di te. In verità anche se hanno torto marcio, anche se insistere a volte può portarli alla rovina, se non tengono il punto fino alla fine, allora non sono dei veri pugili». La durezza e la forza insite nella capacità di resistere perseverando, sono accentuate dalla natura solitaria del soggetto. L’azione perseverante nella forma della resistenza non appartiene alla collettività ma è sempre raccontata come il percorso intimo di una singola   «Il giorno che avrò paura di rischiare non sarò più adatto a fare il leader», dice Mandela in Invictus.

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Perseveranza

persona. Anche quando si muove in relazione ad una collettività (Invictus, Changeling), il personaggio è sempre al fondo un individuo solitario, e ciò acuisce fortemente il carattere impari della lotta che si trova a combattere. Non è l’uomo comune di Frank Capra, sorretto dal solidarismo costruttivo e salvifico della sua piccola comunità. La famiglia, come comunità originaria legata alla nascita, è inesistente o devastata, i rapporti di consanguineità sono irrisolti, o dolorosi. Le narrazioni eastwoodiane sono popolate di orfani, di padri assenti (il fuggitivo e il bambino di Un mondo perfetto, il ragazzino di Debito di sangue, la protagonista di Million Dollar Baby, il figlio scomparso di Changeling, il ragazzo di Gran Torino, il bambino di Hereafter), di figli che respingono i genitori (la figlia del protagonista di Potere assoluto, la figlia dell’allenatore in Million Dollar Baby, quella di Mandela in Invictus) o di genitori e famiglie che non apprezzano i propri figli (la terribile famiglia di Maggie in Million Dollar Baby, il padre insoddisfatto e scontroso di Gran Torino). I rapporti decisivi che vengono raccontati sono per lo più percorsi elettivi, come l’amicizia e l’“adozione”, che appartengono alla sfera della scelta, un altro fondamentale tratto della perseveranza, che emergerà più avanti. Il ghènos non garantisce mai la tenuta del soggetto, la sua tenuta è garantita dal suo solitario, perseverante essere tenace (“tenace” dal latino tenacem, da “tenere” che significa “tener fermo”): Niente al mondo può sostituire la tenacia. Il talento non può farlo: non c’è niente di più comune 161

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Alessandra Azzali

di uomini pieni di talento e privi di successo. Il genio non può farlo: il genio incompreso è quasi proverbiale. L’istruzione non può farlo: il mondo è pieno di derelitti istruiti. La tenacia e la determinazione invece sono onnipotenti. Il motto “vai avanti!” ha risolto e sempre risolverà i problemi della razza umana.

Questa popolare frase di Calvin Coolidge, trentesimo presidente americano, in carica nei ruggenti anni Venti, prima dell’inizio della grande recessione (gli anni dei fatti di cronaca narrati da Changeling), ben sintetizza il pragmatismo volitivo dello spirito americano pionieristico, costruttivo, fiducioso delle proprie forze. Se a questo stesso spirito può risalire, in certa misura, l’atteggiamento tenace dei personaggi eastwoodiani, la dimensione profondamente esistenziale del loro percorso, ne fa qualcosa di radicalmente diverso dall’utilitarismo possibilista del sogno americano. I protagonisti di Eastwood non incarnano mai pienamente quel catalogo di valori americani che, sotto forma di emblemi, simboli o segni di una cultura e di una tradizione, compaiono nei film, restando però sullo sfondo. Essi non sono il combattente fordiano, né Il sergente York di Hawks, racconto di un figlio dell’America nelle più canoniche sfaccettature, dalla famiglia, alla terra, alla religione, al pacifismo, all’eroismo di guerra (film citato esplicitamente dallo sceriffo Red Garnett di Un mondo perfetto: «Non voglio vedere in giro gente che si mette a fare l’eroe tipo Gary Cooper nel Sergente York!»). Il rapporto tra la resistenza del personaggio e i 162

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Perseveranza

miti americani o i “pezzi” di storia d’America che scorrono accanto a lui, rimane qualcosa di rarefatto e sfumato. La parata del Columbus Day nel finale di Mystic River; la bandiera americana, la guerra di Corea, la Ford come cimelio, in Gran Torino; la premiazione degli Oscar come grande evento di interesse popolare trasmesso per radio in Changeling; la visita del presidente Kennedy a Dallas alla vigilia del suo assassinio e ancora la Ford come reliquia nostalgica in Un mondo perfetto («Voglio una Ford […] dobbiamo trovare una Ford […] mio padre guidava solo le Ford», ripete il fuggitivo Butch): sono frammenti, citazioni di uno scenario americano che appartiene ai personaggi e di cui essi fanno parte, ma da cui in qualche modo restano in disparte, rimangono defilati, mantenendo anche diegeticamente il loro carattere di outsider. Christine Collins non va con le sue colleghe a condividere e commentare la premiazione degli Oscar, ma sola, in disparte, ascolta la cerimonia alla radio e, contro il film favorito, Cleopatra di Cecil B. DeMille, tifa sognante per il Clark Gable di Accadde una notte di Frank Capra, chimera di un’America semplice e spensierata. La piccola storia di persone comuni contro il quadro romanzato della grande Storia. Le loro azioni, la loro perseveranza non sono frutto della mitologia americana. Ma non potrebbero altresì avere luogo che nel grande paese americano. Sono l’aspetto esistenziale e malinconico dell’individualismo americano, in cui l’unico sogno possibile sembra essere un vagheggiamento ingenuo e infantile, come la «lista delle cose che avresti voluto fare e che non hai mai fatto», il costume di Halloween, lo 163

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Alessandra Azzali

zucchero filato e le montagne russe negate al bambino testimone di Geova di Un mondo perfetto8. 2.  La verità Nel film I ponti di Madison County Francesca Johnson scrive ai suoi figli una lettera, da leggere dopo la sua morte, affinché conoscano una verità che non ha mai rivelato a nessuno: la loro madre ha amato per tutta la vita un uomo a cui non è potuta stare accanto, a cui ha scelto di rinunciare per restare con i figli e il marito: «Potrei far morire tutto questo insieme a me, ma diventando vecchi si ha paura di non essere conosciuti. Quello che per noi è importante più di ogni altra cosa è di essere conosciuti, conosciuti per ciò che si è stati durante questa breve vita e mi sembrerebbe molto triste lasciare questa terra senza che coloro che ho più amato mi riconoscano per quella che sono». In Hereafter la giornalista di successo Marie Lelay, il cui volto campeggia nei grandi manifesti che tappezzano Parigi, viene travolta da uno tsunami nel Sudest asiatico, sembra che sia morta, ma improvvisamente si rianima. Dopo questo evento traumatico decide di seguire un percorso di conoscenza e di verità, decide di raccontare la sua personale esperienza tra la vita e la morte, anche a costo di perdere la propria credibilità come giornalista, anche a costo di perdere tutto.

  «Come ragazzino americano hai il sacrosanto diritto di mangiare zucchero filato e andare sulle montagne russe!», dice il bandito Butch al piccolo Phillip.

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Perseveranza

In Changeling Christine Collins è la madre di un bambino scomparso. Quando le presentano un altro bambino dicendole che è suo figlio Walter che è stato ritrovato, lei non si rassegna all’inganno e continua a sostenere la verità: quel bambino non è suo figlio. Continua a sostenerlo davanti ai poliziotti, davanti ai giornalisti, davanti al dentista, davanti ai medici corrotti del “lager” psichiatrico nel quale viene rinchiusa per la sua caparbietà, davanti allo stesso bambino che finge un’altra identità: «Non importa cosa pensa la polizia, non importa cosa pensa il mondo, tu e io la conosciamo la verità, lo sappiamo che tu non sei Walter». In Debito di sangue Graciella Rivers si presenta al poliziotto Terry McCaleb, salvo dopo un infarto grazie a un trapiantato di cuore, e gli rivela di essere la sorella della donna che gli ha donato il cuore. La sorella è stata assassinata e Graciella chiede a Terry di aiutarla a scoprire la verità sulla sua morte. Ancora una figura femminile che rivela e persegue la verità. Una direttrice che emerge nitida e precisa è quella che mette l’azione perseverante in rapporto con la verità. La verità si delinea come un’istanza etica individuale insopprimibile in cui è in gioco ancora una volta la definizione stessa del soggetto. Per Francesca Johnson rivelare la verità, anche se in extremis, è il solo modo per poter essere “vera” davanti ai suoi figli. Per Marie Lelay, giornalista da sempre impegnata e combattiva, la verità è un’urgenza irrevocabile, anche e soprattutto quando riguarda la propria vita. Per Christine Collins continuare a dichiarare che 165

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Alessandra Azzali

quel bambino non è suo figlio, vuol dire continuare a poter essere la madre di Walter e quindi sé stessa. Queste figure femminili esercitano quello che in greco antico è espresso dalla parola parresia, la libertà di dire tutto (pan, tutto e resis, discorso). Essa è indissolubile dalla verità. Chi usa la parresia «dice ciò che è vero perché egli sa che è vero; ed egli sa che è vero perché è realmente vero […]. Egli dice ciò che sa essere vero»9. C’è sempre al fondo l’intima certezza della verità. Conoscere la verità e comunicare tale verità agli altri sono gli elementi fondamentali di questo percorso, strettamente connesso con la libertà e con il dovere. Il rischio che si corre, il prezzo che si paga nel perseguire la verità è sempre molto alto e il coraggio è una qualità morale indispensabile per questa forma di perseveranza10. Christine Collins subisce gravi soprusi, viene segregata in un istituto psichiatrico sotto la dicitura segreta di codice 12, perché la verità di cui è portatrice confligge con gli scopi della polizia di Los Angeles, dispositivo corrotto di potere, controllo e coercizione. Alla verità si oppone la “segretezza” come occultamento, come strumento di un esercizio di potere autoritario e spregiudicato. «L’informazione è potere!», dichiara il protagonista di J. Edgar, ossessionato dalla raccolta e catalogazione di informazioni da custodire in un archivio segreto. Edgar cela la 9   M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, tr. it., Donzelli, Roma 1998, p. 5. 10

  Ivi, pp. 6-9.

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Perseveranza

verità, costruendo una trama di dissimulazione che si apre già all’inizio del film con l’immagine esemplare della maschera mortuaria del gangster John Dillinger e percorre la vita privata e l’immagine ufficiale (la “maschera” pubblica) del fondatore dell’FBI. Una trama incessante di celamenti e falsificazioni che, nel finale del film, mette in discussione addirittura la veridicità stessa dell’intero racconto: la “storia senza titolo dell’FBI” che Hoover cerca di tramandare è un’ennesima manipolazione. Nella conversazione finale con l’amico intimo Clyde Tolson, J. Edgar apre un unico, inaspettato, estemporaneo squarcio di verità in cui riconosce l’importanza dell’altro e, in limine mortis, esprime il (mancato) sentimento di un’intera vita. E le parole d’amore nelle ultime battute del film, tratte da una lettera custodita da Hoover come frutto dei suoi metodi spionistici, risuonano come l’enigmatico e testamentario Rosebud wellesiano, unica traccita di un sentimento perduto, raccolto sul letto di morte. Ma se nella dimensione privata affiora in extremis un’intima verità, la verità pubblica è irrintracciabile, fino alla fine, perfino nella didascalia finale che dichiara che i contenuti dei fantomatici archivi segreti «non saranno mai conosciuti». L’esatto opposto dell’esigenza di verità che muove i personaggi perseveranti è anche la manipolazione operata dagli apparati della Propaganda istituzionale in Flags of Our Fathers, dove si ricostruisce, simulando, un’immagine falsificata di un glorificante emblema di guerra: la bandiera americana issata sul monte Suribachi a Iwo Jima. Simulazione (Flags of Our Fathers) e dissimula167

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Alessandra Azzali

zione (J. Edgar), usati come strumenti programmatici, raccontano nei film di Eastwood che la verità non può “eticamente” appartenere ai sistemi di potere. 3.  La scelta Maggie Fitzgerald nell’inizio di Million Dollar Baby vede Frankie Dunn che segue un pugile in un incontro di boxe, lo guarda e sorride. Sa già che vorrebbe essere allenata da lui. Lo ha già scelto. «Io voglio lei!» dice Maggie, quando lui, dopo averla rifiutata per l’ennesima volta, le propone di andare da un altro allenatore. A questa scelta corrisponderà poi un’altra scelta, quella di Frankie, che, derogando alla sua regola di non allenare ragazze, alla fine cede: «sarò il tuo allenatore!». In Hereafter George Lonegan fa l’operaio in una fabbrica di San Francisco e ha scelto di non fare più il sensitivo, ha scelto di non sfruttare più il suo “dono” che gli consente di vedere nell’aldilà. Ha scelto di cambiare vita perché «una vita che riguarda solo la morte non è vita». Anche quando rimane senza lavoro, nonostante le pressioni dell’insistente e avido fratello, sceglie di non fare più il veggente, di rinunciare a facili guadagni. Sceglie di «rivalutare le cose e rivedere le priorità». Sulle orme di Charles Dickens, il suo scrittore preferito, va a Londra, dove per una serie di kieslowskiane corrispondenze, fa degli incontri che forse possono cambiare la sua vita. In Invictus Mandela, un presidente neoeletto in un paese che è ancora tutto da costruire, sceglie di non fare quello che tutti si aspetterebbero da lui: estromettere i bianchi afrikaner dagli uffici governa168

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Perseveranza

tivi, abolire la squadra di rugby dei Boeri, simbolo dell’apartheid, disincentivare il rugby come sport nazionale. Anzi, al contrario, lavora nella direzione dell’integrazione e dell’accoglimento. Opera una scelta difficile e contraria al parere di tutti: contraria al parere di chi lo ha eletto, al parere dei suoi collaboratori, al parere del National Sports Council, dell’Africa National Congress, al parere dei giornalisti e commentatori politici. La scelta è una strada difficile. I personaggi perseveranti scelgono e perseguono sempre la strada più difficile e impervia, meno approvata e compresa dagli altri, una strada, come emergerà, necessariamente “imprevista”. Ma è altresì una strada necessaria e inderogabile, non è possibile fare altrimenti. Il compimento di una scelta porta alla definizione di ciò che il personaggio è: «L’alternativa non concerne termini da scegliere, ma modi di esistenza di colui che sceglie»11. Si tratta di scelte che possono essere fatte solo nella convinzione che non esista altra scelta, in virtù di una necessità che può essere, ad esempio, morale, cioè relativa al Bene (Gran Torino) o psicologica come quella relativa al Desiderio (Million Dollar Baby). «La figura di Maggie Fitzgerald di Million Dollar Baby è una figura del desiderio deciso»12. Maggie decide, dunque sceglie, di seguire il suo desiderio,

  G. Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it., Ubulibri, Milano 1984, pp. 137.

11

  M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 179.

12

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Alessandra Azzali

«il problema è che mi sento bene soltanto quando mi alleno. Se sono troppo vecchia allora non mi resta niente». Questa è la frase, già citata, in cui apertamente, disperatamente, lei dichiara la sua vocazione. Davanti a una realtà brutale e senza speranza Maggie, «venuta da un posto sperduto tra il nulla e l’oblio», la trentunenne che «sapeva solo una cosa: che era spazzatura», non si rassegna, sceglie il suo desiderio, intimo e insopprimibile, non il sogno americano di vittoria e di successo, il riconoscimento pubblico, la fama, la ricchezza, ma quel «sogno che nessuno vede tranne te». È il sogno di potere, per una volta, finalmente scegliere la propria vita, essere riconosciuta, guadagnarsi quella dignità e quel rispetto per cui ogni pugile combatte: «parlare di boxe è parlare di rispetto: cercare di ottenerlo per se stessi togliendolo al’avversario». Alla promessa di Frankie «sarò il tuo allenatore!» lei farà seguito con un’altra, forte promessa: «non la deluderò!». Senza essere legati all’adempimento delle promesse, non riusciremmo mai a mantenere la nostra identità, saremmo condannati a vagare privi di aiuto e senza direzione nelle tenebre solitarie della nostra interiorità, persi nelle sue contraddizioni e ambiguità13.

È la scelta a legare reciprocamente Frankie e Maggie, essi si scelgono, ricostruendo simbolicamente quel rapporto padre-figlia che entrambi hanno 13

  H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, cit., p. 175.

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Perseveranza

perduto: Frankie ha una figlia a cui continua a scrivere senza ricevere risposta, ricevendo anzi indietro le sue stesse lettere rispedite al mittente. Maggie ha perso il padre, l’unico membro della sua orribile famiglia che rappresenta per lei una figura affettiva. Frankie “scegliendola” la “riconosce” come pugile e, sottraendola all’anonimato della sua vita degradata, le dà una nuova vita, “donandole” un nome – Mo Cuishle – “mio tesoro”, il nome con cui la folla l’acclamerà. Alla scelta corrispondono fortemente i legami che assumono la forma dell’“adozione”: il fuggitivo Butch e il bambino Phillip di Un mondo perfetto, Frankie e Maggie di Million Dollar Baby, il vecchio Walt e il ragazzino asiatico Thao di Gran Torino. Sono processi opposti alla legge di natura inscritta nella consanguineità. I rapporti cruciali nei film di Eastwood sono, come è stato detto, prevalentemente quelli basati su legami elettivi, dunque scelti, in opposizione ai vincoli familiari, per lo più tra padri e figli, contrassegnati dal fallimento14. La scelta connessa a questi “incontri”, la scelta come atto di rigore e di perseveranza è qualcosa che è in grado di operare uno scarto profondo, di generare qualcosa di nuovo, di inimmaginabile, far in modo che le azioni che si compiono diano vita all’inaspettato. «Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile»15.   M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, cit., pp. 172-176.

14

15

  H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, cit., p. 129.

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Alessandra Azzali

È così che nel Sudafrica di Invictus si può compiere l’impossibile, vincere con una mediocre squadra di rugby un’impensabile coppa del mondo, ricongiungendo simbolicamente le diverse anime di un Paese che assiste unito alla partita finale. La scelta, operando uno scarto, crea l’imprevedibile, libera le persone dai percorsi segnati, da un’esistenza già decisa: la sottoproletaria Maggie dovrebbe continuare a fare la cameriera, o al massimo «trovare una roulotte usata, comprare una friggitrice e dei biscotti»; il ragazzino Thao dovrebbe essere lasciato al suo destino di violenza e criminalità in un quartiere ghetto dominato dalla malavita. L’incontro tra Maggie e Frankie e quello tra Walt e Thao creano invece una diversa possibilità: Maggie diventerà una campionessa e Thao si salverà dalla “perdizione”. La scelta ha in sé la forza di poter aprire un’altra strada. Fino alla scelta estrema, quella della morte: l’esito a cui approdano i protagonisti di Million Dollar Baby e Gran Torino. In questa prospettiva decidere la propria morte non ha nulla di nichilistico ma è un percorso di senso dell’esistenza. Essi sono fino all’ultimo “padroni del proprio destino”, “capitani della propria anima”. Essere capitani della propria anima in questo senso radicale fa del “Life, Liberty and pursuit of Happiness” della dichiarazione d’indipendenza americana qualcosa di profondamente esistenziale ed etico. «Non posso vivere così. Non dopo quello che ho fatto […]. Il pubblico ha inneggiato il mio nome, tifato per me, sono apparsa sui giornali […] ho avuto quello che volevo, ho avuto tutto […] non permettere che mi venga portato via», dice Maggie a Frankie, 172

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Perseveranza

quando è ormai destinata a vivere completamente paralizzata dopo un tragico incidente sul ring. Allo stesso modo Walt Kowalski in Gran Torino, andando a farsi uccidere per salvare Thao, non si immola, non compie un sacrificio di se stesso, ma dà compimento alla sua vita. E così facendo l’operaio della Ford che ha combattuto in Corea perdona se stesso delle sue colpe, fino all’ultimo inconfessabili, e, nel gesto infantile della pistola mimata col dito indice e il pollice della mano, ritrova la sua innocenza. In quel film dichiaratamente testamentario che è Gran Torino, l’ultimo “eroe” incarnato da Clint Eastwood depone dunque definitivamente le armi. È infine il perdono la scelta più forte. «Stavo pensando a come si fa a passare trent’anni in una piccola cella e uscirne pronto a perdonare chi ti ci ha rinchiuso», dice in Invictus il capitano della squadra di rugby dopo aver conosciuto Mandela e visitato il carcere in cui è stato imprigionato. «Perdonare è la sola azione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata»16. Attraverso il perdono, inteso nel senso “attivo” di scelta, si libera anche la coscienza di un intero Paese nel suo momento fondativo, si avvia un nuovo inizio, si può provare a raccontare la “nascita di una nazione”, come dice Mandela: «La nazione arcobaleno comincia qui […] anche il perdono comincia qui. Il perdono libera l’anima, cancella la paura, ecco perché è tanto potente come arma».

16

  Ivi, pp. 177-178.

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Alessandra Azzali

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Spettralità

Alessandro Cappabianca

SPETTRALITà

È quasi mezzanotte. Due uomini, nell’antico cimitero di Savannah, si aggirano tra le vecchie lapidi, come se cercassero o aspettassero qualcuno, nell’oscurità appena rischiarata dalla torcia elettrica che uno dei due (John Kelso) reca con sé, mentre l’altro (Jim Williams) porta una borsa. Finalmente sostano accanto a una tomba sulla quale è scritto il nome d’un certo dottor Buzzard. Da un’altra parte, sta arrivando qualcuno. Man mano che si avvicina, si vede che è una vecchia donna di colore (Minerva), che si trascina faticosamente al chiarore fioco di una lanterna. Ha un aspetto bizzarro e un bizzarro abbigliamento, porta occhiali scuri, parecchi giri di collane al collo e una grossa borsa legata a un bastone. Sembra che conosca Jim, perché lo saluta, e Jim gli presenta il suo compagno: una presentazione che suona un po’ incongrua in questa atmosfera da film horror, e Minerva non manca di prendere in giro John, che le porge la mano in modo formale. Poi la vecchia strega sistema sulla tomba alcuni oggetti che Jim le ha portato e prende per mano i due uomini. Ha luogo un esorcismo, tendente a rabbonire l’anima di un defunto, un certo Billy, già amante di Williams, da questi ucciso durante una lite. 175

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Alessandro Cappabianca

In Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Jim Williams, antiquario, miliardario, l’uomo più ricco di Savannah, ha sparato al suo amante Billy, lo ha ucciso, e vuol far credere che si sia trattato di legittima difesa. Sembra una persona razionale, capace di pianificare freddamente la messa in scena dell’assassinio a beneficio della polizia, che giustamente non è convinta della sua versione – eppure Jim sente il bisogno di ricorrere a Minerva, una vecchia strega di colore, perché lo aiuti a entrare in contatto con lo spirito del morto e a placare la sua ira. Così, va ad incontrarla in piena notte nel vecchio cimitero dei neri di Savannah, e per di più si porta dietro John Kelso, giornalista di New York e scrittore fallito, che si trova a Savannah per un’altra ragione: un servizio sul grande ricevimento di Natale che Williams organizza ogni anno nella sua villa. Ci si può chiedere come mai Jim decida di portare Kelso con sé, coinvolgendolo in una cerimonia occultistica, dal carattere decisamente regressivo; e si può rispondere che lo fa per parecchie ragioni: da un lato vuole prendersi il gusto di impressionarlo e scalfire la sua patina di superficiale sicurezza, dall’altro intuisce che Minerva sarà in grado di leggere chiaramente nell’interiorità del giovanotto e non mancherà di denunciarne i limiti e le inibizioni. La ragione principale, tuttavia, attiene all’economia narrativa del film: John Kelso assume cioè la funzione di terzo estraneo (relativamente estraneo) a cui la vecchia strega potrà spiegare, nel suo stile oscuro da oracolo, quale ruolo assumono i morti nell’economia dei viventi (e quindi nel cinema di Clint Eastwood). Gli dirà infatti: «Inciditi queste 176

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Spettralità

parole nel cuore: per riuscire a capire i vivi, bisogna saper frequentare i morti». Nel giardino notturno, presso la tomba del dottor Buzzard (famoso maestro di voodoo, del quale, come più tardi sapremo, Minerva è la vedova), i due uomini attendono l’arrivo della vecchia, che si intravede da lontano tra gli alberi come l’apparizione di un fantasma invalido, rischiarando il suo cammino alla luce di una lanterna. È buio, ci si vede appena, ma lei porta un paio di occhiali scuri e non li toglierà per tutta la sequenza, salvo alzarli un attimo sulla fronte per guardare bene in faccia John Kelso, che le tende la mano con ipocrita cordialità. Così John ha attirato l’attenzione della maga che, dopo averlo osservato con una certa ironia, conclude: «Mi fai una gran pena, figlio mio». Jim le chiede perché, e Minerva risponde: «È convinto che nessuno lo ami». Ma è tempo di affrettare i preparativi, di predisporre sulla tomba del dottore ciò che Jim ha portato con sé, secondo le istruzioni della maga (una banconota, una manciata di monetine lucenti, una bottiglia di acqua sorgiva, «non passata per nessun tubo»), perché dall’aldilà il ragazzo morto “sta operando pesante” contro Jimmy e vuole vederlo in galera. Inoltre, risuonano in lontananza i rintocchi dell’orologio di qualche campanile, e non resta gran che dell’ora dei morti. «Cos’è l’ora dei morti?» – chiede John; e Minerva risponde, offrendo nel contempo la spiegazione del titolo del film: «Dura un’ora esatta, da mezz’ora prima di mezzanotte a mezz’ora dopo. Mezz’ora prima per lavorare per il Bene, mezz’ora dopo per il Male. E 177

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Alessandro Cappabianca

“Per riuscire a capire i vivi, bisogna saper frequentare i morti”

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Spettralità

noi abbiamo bisogno di un po’ di tutti e due». Poi prende per mano i due uomini, e incita Jim a dire qualcosa di gentile sul morto. Jim ricorda l’amore con cui Billy lustrava la sua auto, la decorava, ci dipingeva sopra: pochi lo sapevano, ma era molto creativo, in fondo era un artista. Secondo Minerva, Billy ha sentito queste parole e le ha apprezzate. Lo ha sentito che “mollava la presa”. Per ogni evenienza, però, sarà bene che, un volta tornato a casa, Jim preghi ogni santo giorno quel ragazzo di perdonarlo, scriva il suo nome sette volte su un foglio di carta senza mai sollevare la penna, pieghi il foglio due volte e lo porti sempre in tasca. Inoltre, bisognerà che trovi una foto del morto, gli disegni una cucitura sulla bocca e buchi i suoi occhi. È qui, a chiusura della sequenza, che Minerva rivolge a John quel solenne monito: «Inciditi queste parole nel cuore: per riuscire a capire i vivi, bisogna saper frequentare i morti». È strano che, dopo l’uscita e l’inatteso “successo” del documentario Derrida girato in America nel 2002 da Kirby Dick e Amy Ziering Kofman, la moglie di Jacques Derrida, Marguerite, accusasse scherzosamente gli autori di aver fatto diventare suo marito “un Clint Eastwood”. Intendeva un divo, certo, ma è singolare che, tra tutti quelli che avrebbe potuto citare, ne abbia scelto uno che aveva così tenacemente bordeggiato, in quasi tutti i suoi film, lungo i confini della spettralità, di quella spettralità che Derrida considerava una delle specificità del cinema: dispositivo produttore di fantasmi e dunque campo di mediazione tra i vivi e i morti. Derrida stesso, d’altra parte, in un’intervista apparsa nel 2001 179

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sui “Cahiers du cinéma”1, aveva citato i western di Clint Eastwood come esempi dell’ossessione del cinema per i fantasmi di un’epoca in cui il cinema non c’era. Se Minerva, non la dea della Sapienza, ma la vecchia strega di Mezzanotte nel giardino del bene e del male fosse stata in grado di mettere per iscritto la sua filosofia, avrebbe potuto sottoscrivere quanto Derrida afferma in Spettri di Marx: Apprendre à vivre, se resta sempre da fare, non lo si può fare che tra vita e morte. Non nella vita né nella morte da sole. Quel che accade tra due, e tra tutti i “due” che si vorrà, come tra vita e morte, non può che intrattenersi con qualche fantasma. Bisognerebbe allora apprendre les esprits. Anche e soprattutto se lo spettrale non è. […] Bisogna parlare del fantasma, anzi al fantasma e con lui, dal momento che nessuna etica, nessuna politica, sia o meno rivoluzionaria, sembra possibile e pensabile e giusta, senza riconoscere al suo principio il rispetto per quegli altri che non sono più o per quegli altri che non ci sono ancora, presentemente viventi, siano già morti o non ancora nati2.

Rispetto per i morti, dunque, che è anche, per Eastwood, rispetto per i non-ancora-nati-al-cinema – ad esempio, per le leggende e le figure del West, dove

  J. Derrida, Le cinéma et ses fantômes, in “Cahiers du cinéma”, n. 556 (2001), pp.75-85.

1

  Id., Spettri di Marx, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1994, pp. 4-5.

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si è formata l’identità americana. Il cinema diventa, allora, elemento di mediazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti (cosa che risalterà pienamente in Hereafter). Anche Minerva fa il suo mestiere di mediatrice tra i vivi e i morti, ma sa benissimo che, a differenza dei morti, i vivi mentono. Mostra di credere alla versione di Jim Williams, ma resta dubbio se ci creda veramente. Per questo, nell’eseguire il suo esorcismo, sa di aver bisogno del Bene come del Male e di dover perseguire una sorta di equilibrio tra i due: quell’equilibrio simboleggiato dalla statua della fanciulla con una ciotola in ciascuna mano, che si vede all’inizio del film e si vedrà di nuovo alla fine, emblema di una paradossale giustizia, di un pareggiamento dei conti che porterà il ricco antiquario, vittima di un infarto dopo l’assoluzione, a raggiungere l’uomo da lui ucciso nel cimitero dei bianchi. Non senza che, stramazzato a terra dopo una vertiginosa rotazione della stanza, mentre rantola morente, gli appaia, disteso accanto a lui, sogghignando come in attesa, il fantasma di Billy. Le ciotole che la statua della fanciulla regge nell’una e nell’altra mano possono ricordare, certo, la bilancia in equilibrio della Giustizia – ma quella utilizzata nel film è la copia in vetro-resina di una statua originale in bronzo, nota come “Bird Girl”, in cui una scultrice di Savannah, Sylvia Shaw Judson, ai primi del Novecento, aveva raffigurato una ragazza che offre (nelle ciotole) mangime agli uccelli. Nel film, non si capisce bene di che materiale sia fatta la statua (ha uno strano aspetto sintetico, che stona con la posa rigida quasi ottocentesca). Tutto sommato, in 181

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un certo senso, siamo di fronte anche a un simulacro di statua. A Savannah, i fantasmi si moltiplicano. C’è anche un quadro/fantasma, proprietà di Jim, nascosto sotto un altro quadro che gli è stato dipinto sopra. Un tizio, stipendiato per portare a spasso un cane morto da tempo, se ne va in giro con un guinzaglio al quale è attaccata una bestia invisibile. Un altro va sempre in giro con una boccetta di veleno che minaccia di versare nell’acquedotto cittadino e ama circondarsi di mosche finte, insetti meccanici che gli ronzano intorno come fossero vivi. Nascosto, o incerto, è il genere sessuale di Lady Chablis, il giocoso travestito nero, sulla cui natura, all’inizio, anche John si inganna. E l’ingresso dell’ospedale è lo stesso dell’obitorio. Il film è tutto costruito sullo sguardo di John, l’estraneo – sul suo impatto con Savannah, gli strani tipi, i fantasmi che la abitano – ma con una vistosa eccezione. Non c’è lui, come non ci sono altri testimoni, quando la stanza comincia a girare attorno a Jim che muore, accanto allo spettro di Billy: c’è soltanto la macchina da presa, la muta testimonianza del cinema. I fantasmi assumono il rilievo e la consistenza della realtà, molto più che nel ricordo, nell’immaginazione o nel sogno, restando però fantasmi. Questo è sempre stato il problema della loro rappresentazione nelle pratiche artistiche basate sulla presenza del corpo, o sull’illusione della sua presenza. Nel cinema come in teatro, quindi, ma con notevoli differenze3. 3

  Per esempio, negli anni di forzata inattività dopo l’insuccesso

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Spettralità

Il problema, nel cinema, è sempre stato l’inverso di quello del teatro. Il cinema si fa o si faceva (salvo eccezioni) con corpi in movimento (sul set), ma a risultare poi (sullo schermo) era la loro assenza, erano fantasmi, ombre, larve, simulacri di corpi e di gesti – tanto che, se non da subito, almeno dopo la grande stagione del cinema fantastico nell’espressionismo tedesco (che aveva illuso Artaud sulle possibilità del

di Vampyr, C.Th. Dreyer collaborò ad alcuni giornali, scrisse note di cinema e recensioni di teatro. Una di queste, pubblicata nel ’39, e tradotta in italiano in Cinque film (tr. it., Einaudi, Torino 1967, pp. 381-387), riguarda la prima danese della piéce La madre di Karel Capek, messa in scena da Betty Nansen (regista, e interprete del ruolo della Madre). A un certo punto, compaiono in scena i suoi figli morti, che solo lei può vedere, e Dreyer rimprovera alla Nansen di averli rappresentati troppo realisticamente, allo stesso identico modo in cui sono messi in scena i personaggi “viventi”. Nasce una polemica col critico Mogens Dam, il quale fa notare che questa era una precisa indicazione di Capek, secondo il quale, nella visione della Madre, i morti dovevano essere uguali ai vivi (solo, dovevano fare meno rumore) e accusa Dreyer di cattivo gusto, come se avesse proposto di rappresentarli sotto forma di spettri dipinti di verde, spauracchi da spettacolo popolare (da cinematografo). La risposta di Dreyer è intitolata Quando i morti vivono. Stando alle parole di Capek, è vero che l’aspetto dei morti deve essere identico a quello dei vivi, ma l’osservazione che essi debbano fare meno rumore, apparentemente marginale, è gravida di conseguenze, soprattutto rispetto al ruolo giocato dalla luce: silenzio e buio sono fratelli, dice Dreyer. Non si tratta di mettere in scena fantasmi terrificanti, ma una regista sensibile non poteva non cogliere l’opportunità di immergere le figure dei morti almeno in una zona di penombra discreta: è una questione di fisica dei corpi spettrali, applicata al teatro, dove il problema è proprio la presenza reale, l’eccessiva concretezza (se così può dirsi) di questi corpi che dovrebbero essere fantasmatici.

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cinema), tutti gli sforzi furono diretti a nascondere questo versante spettrale, a restituire alle ombre corporeità, spessore, volume, voce e colore (ossia la famosa “impressione di realtà”), nei limiti in cui ciò era possibile. Operazione riuscita, bisogna dire, sulla quale, tra l’altro, si sono poste le fondamenta del cinema classico hollywoodiano. Nessuno direbbe che i western di John Ford, almeno a prima vista, siano popolati di fantasmi (le sue “ombre rosse” sembrano tutto meno che ombre). Che Clint Eastwood si riallacci ai “classici”, dunque, si può dire, ma le sue opzioni (anche nel western), cercando di recuperare in qualche modo proprio quell’istanza di spettralità che fonda il cinema, costringono quanto meno a una drastica riconsiderazione del concetto di classicità. In ogni caso, non credo si possa parlare di un suo periodo “autoriale”, distinto in modo troppo netto da un primo periodo di esclusiva attenzione ai “generi”. Eastwood ha girato western come ballate per pistole e spettri, contaminando per esempio l’arrivo del cavaliere solitario e misterioso, venuto a fare giustizia (tema tipico) col tema del ritorno dei morti. In un non-western come Mezzanotte nel giardino del bene e del male, che vira a un certo punto verso il dramma processuale, lo ha fatto esplicitamente (Billy torna, nell’allucinazione di Jim Williams morente) – altrove ha preferito seguire la strada di una feconda ambiguità. Lo fa senza bisogno di smussare la concretezza del suo corpo d’attore, anzi, di rocciosa icona, in questo aiutato dalla caratteristica taciturnitas dell’eroe western (anche se accompagnata dal fragore delle 184

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Spettralità

pistole), e come se non fosse più possibile, oggi, ricollegarsi al mito, senza risalire alle sue probabili origini esoteriche. Solo gli spettri aiutano, nella loro versione benevola e in funzione di giustizieri, dove ogni speranza viene meno. All’inizio dello Straniero senza nome, un cavaliere avanza in campo lungo frontale, viene verso la macchina da presa apparendo dal nulla, mentre attorno a lui pulsano le ondate di calore di un paesaggio ancora indistinto. Ed è esattamente quanto, in senso inverso, accade alla fine: il cavaliere venuto dal nulla torna verso il nulla, dopo aver compiuto la vendetta4. Non ha mai detto il suo nome, neppure al suo aiutante, il nano Mordecai, che glielo ha chiesto più volte. In fatto di nomi, si è limitato a cambiare quello del paese, da Lago a Hell (Inferno), dopo aver fatto ridipingere tutte le case (chiesa compresa) d’un rosso acceso5. Tuttavia, alla fine, concede questa risposta al nano, che sta ritoccando con la solita vernice rossa una lapide nel cimitero sulla tomba dello sceriffo Jim Duncan, ucciso anni prima dai banditi: «Hai scritto adesso il nome di mio fratello».

4   Scrivevo nel 1996 su “Filmcritica” (n. 461-462, p. 39, numero dedicato al conferimento del Premio Campidoglio – Maestri del Cinema a Clint Eastwood): «L’eroe viene sempre da molto lontano e riparte per molto lontano, in un intreccio non più (solo) spaziale di geografie al tempo stesso reali e immaginarie, per sentieri che si incrociano, e si sono incrociati, nelle radure del mondo o (ma è la stessa cosa) del sogno».

  Il lago presso il quale è stato girato il film fu scelto da Eastwood in quanto le sue acque salate scoraggiavano la presenza di pescatori, velisti ecc. Si trattava, in un certo senso, d’un lago morto. 5

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Non fantasma, sembrerebbe dunque il vagabondo degli altopiani, ma concreto vendicatore di un fratello che i tre banditi avevano ucciso a colpi di frusta, senza che nessuno degli abitanti del paese avesse mosso un dito per aiutarlo. D’altra parte, avevamo visto questo fratello in alcuni rapidi flashback e, malgrado abbia il volto segnato dalle frustate, ci era sembrato che somigliasse in maniera impressionante allo stesso Clint Eastwood, tanto da giustificare il dubbio che si trattasse proprio di lui. In realtà era Buddy van Horn, stuntman, abituale controfigura di Clint (e occasionalmente regista). Il fantasma dunque (fantasma nascosto) è una controfigura, fantasma d’attore, suo doppio occulto. Nel Cavaliere pallido, dopo che gli sgherri di LaHood le hanno ucciso il cane, durante la scorreria nel campo dei cercatori d’oro, la giovane Megan entra nella foresta, in quella foschia che sale dalla terra tra gli alberi, nella mattinata d’inverno, ombra che si inoltra nel regno delle ombre, portando in braccio il corpo del cane. Lo seppellisce, e pone sulla sua tomba (un cumulo di terra), come segnale di riconoscimento, un ramo spezzato che si biforca, quasi un segno runico. Poi prega, e la sua è una strana preghiera pagana: sembra che il Cavaliere Pallido sopraggiunga in risposta, inviato non si sa da chi. In ogni caso, egli le compare davanti proprio mentre lei sta recitando assieme alla madre i versetti dell’Apocalisse: «Il nome del cavaliere era Morte/e l’Inferno era dietro di lui». Più tardi, lo sconosciuto si sta lavando, a torso nudo. Inquadrandolo da dietro, la macchina da presa evidenzia cinque fori cicatrizzati di proiettili (fori 186

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Spettralità

d’entrata o d’uscita?) sulla sua schiena: un tipo di ferite alle quali di solito non si sopravvive (anche se manca il suggello finale del colpo in mezzo alla fronte, che invece spaccerà Stockburn, lo sceriffo criminale). In seguito, Stockburn chiede a LaHood (che lo ha ingaggiato), di descrivergli la figura di questo Predicatore inopportuno, e non può fare a meno di constatare che la descrizione gli ricorda un tizio che conosceva. Ma non è possibile: «Il tizio a cui pensavo è morto». In realtà, non sapremo mai se il Cavaliere Pallido sia un vero predicatore o un revenant – non sapremo nulla del suo passato, dal quale solo una voce lontana lo chiama, in una scena misteriosa: forse solo Stockburn lo riconosce, nel faccia a faccia finale, quando si trova davanti alle sembianze della Morte, e dell’Inferno dal quale forse viene. Per questo, non solo per convenzione western, il Predicatore si allontana, una volta esaurito il suo compito, e scompare, tra i singhiozzi disperati di Megan, mentre con i titoli di coda anche il film dolcemente si spegne nel bianco della neve. È essenziale che ogni cavaliere misterioso, Straniero o Predicatore che sia, non abbia Nome, come non ha origine, luogo di provenienza, di arrivo e neppure di fermata che sia qualcos’altro da una sosta temporanea. Al contrario del Dio della teologia negativa, cui non è possibile ascrivere alcuna qualità che non suoni inadeguata, e il cui unico adatto attributo, scriveva Derrida, è il Nome6, il conferimento d’un   Cfr. J. Derrida, Salvo il nome. (Post-scriptum), in Id., Il segreto del nome, tr. it., Jaca Book, Milano 2003. 6

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nome costituirebbe un punto debole per lo Straniero. Il Nome proprio individua, localizza, inquadra. Qualunque Nome, salvo appunto quello di Dio, limita l’onnipotenza, l’invulnerabilità del revenant, rischiando di compromettere il ristabilirsi della giustizia (o il compimento della vendetta) – a meno che, come si vorrebbe risultasse dai saggi di questo volume, esso non sia che l’etichetta riassuntiva (l’etichetta/Clint Eastwood, in questo caso) di mondi singolari e irripetibili, dei quali importa studiare le coordinate7. Revenant, certo, ma non vendicatrice, era anche Vanessa, larva più spielberghiana che eastwoodiana, morta in un incidente e riapparsa al marito, il pittore Byron, in un giardino che non è ancora quello del Bene e del Male, per tramite di un quadro che all’improvviso si anima8. Byron, impazzito dal dolore, brucia tutti i quadri che avevano per oggetto sua moglie, ossia, in pratica, tutti quelli che aveva dipinto; ma uno, nascosto dietro una tela vuota, se ne era salvato (il quadro di Vanessa in giardino, al quale lo avevamo visto lavorare all’inizio). Un quadro nascosto da un altro, dunque, come quello che Jim Williams regalerà a John Kelso in Mezzanotte nel giardino del bene e del male; ma qui si tratta di una

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  Cfr. l’introduzione di Roberto De Gaetano a questo volume.

  Bruno Roberti, a proposito di questo film, richiamava i “demoni meridiani” di Caillois, che non appaiono nell’oscurità, ma in pieno sole. Cfr. B. Roberti, Tempo filmico – tempo mitico, in E. Bruno, a cura di, Clint Eastwood regista, Progetti Museali Editore, Roma 1995.

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Spettralità

semplice (?) dimenticanza e il pittore stesso, come se ne accorge, vorrebbe bruciare il dipinto superstite – se non fosse che, quando gli si avvicina con una torcia accesa, fatta della carta da musica che Vanessa suonava sempre al piano, lei è sparita dal quadro, e lo chiama dal giardino. Si attua qui una vera e propria (meta)fisica dei corpi spettrali, che sono quelli della pittura, quelli che Byron torna a dipingere, ma anche quelli del cinema. Non solo Vanessa, una volta dipinta (al pianoforte, in giardino, nel letto), lascia il quadro e si materializza (al pianoforte, in giardino, nel letto), ma la stessa cosa accade a Byron, che può raggiungerla solo facendosi a sua volta pittura, cioè fantasma. In questo modo, potrebbero ritrovarsi insieme ovunque (perfino “su Marte”) – e insieme si ritrovano nella galleria newyorkese dove la mostra di Byron incontrerà grande successo. Qui succede qualcosa di strano, qualcosa di apparentemente incongruo, perché Vanessa e Byron sono insieme nei quadri e contemporaneamente davanti ad essi, come se, da fantasmi, contemplassero i propri simulacri dipinti. Vanessa non veste il suo solito vaporoso abito bianco (quello con il quale appare sempre nei quadri), ma è vestita di nero e una veletta gli copre interamente il volto, come fosse a lutto: è il lutto del fantasma per un altro fantasma? O è il lutto per un amore che può continuare a vivere solo in un simulacro di vita? Del resto, non è un’allucinazione a confortare gli ultimi momenti di Red Stovall in Honkytonk Man, che crede di rivedere ai piedi del letto di morte il fantasma del suo vecchio amore? Red è un vagabondo, uno sradicato, un senza-terra e un senza-casa, che insegue il sogno di farsi un nome come cantante e 189

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autore di canzoni – ma è soprattutto un morto che cammina (a causa della tisi e della vita sregolata che conduce). Morirebbe in un letto d’albergo, alla fine, senza nessuno ad assisterlo, se non ci fosse Marlene, una ragazza un po’ svampita, che lui scambia per Mary, il suo unico vero amore, sempre rimpianto – e se non ci fosse il nipote Whit, che ne eredita chitarra e cappello e provvede ai riti del lutto, suonando “Honkytonk Man” al suo funerale e seppellendo le chiavi della Lincoln decappottabile accanto a lui. È la macchina nella quale, all’inizio, l’avevamo visto arrivare nella fattoria della sorella, in Oklahoma, durante una tempesta di vento. L’auto era andata a sbattere contro la pompa dell’acqua, e Red, ubriaco, era crollato a terra scivolando dalla portiera aperta – tanto che qualcuno si chiedeva se fosse morto. La sua apparizione dunque, resa ancora più straordinaria dallo scatenarsi dell’uragano, è quella d’un fantasma, d’uno spettro portato dal vento, con tutta la sua forza e la sua fragilità. Anche I ponti di Madison County comincia con l’arrivo di una macchina lungo una strada di campagna, in campo totale, mentre in primo piano è inquadrata una cassetta per le lettere, con la scritta “Mr. and Mrs. Richard Johnson” (si noti: non solo la moglie acquista il cognome del marito, ma è come se non avesse più diritto neanche a un nome). La macchina è guidata da Michael, il figlio di Francesca, che sta tornando, assieme alla moglie, nella vecchia casa dei Johnson, per una sorta di riunione di famiglia. Francesca è morta da qualche giorno, e adesso è in programma l’apertura di una cassetta di sicurezza con le disposizioni testamentarie, alla presenza del 190

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Spettralità

notaio e della sorella di Michael, Carolyn, che sono già lì ad aspettarli. Tra i vari documenti, atti di proprietà, ricevute, c’è una busta, contenente foto di Francesca (che non si sa chi abbia scattato) e una sua lettera, indirizzata ai figli, nella quale chiede di essere cremata e che le sue ceneri siano disperse dall’alto del Roseman Bridge. Questo è il primo dei messaggi che i figli ricevono dalla madre morta, rimanendo sconvolti (specialmente Michael) dalla stranezza della richiesta. C’è anche una chiave, nella busta, una chiave che apre un baule sempre chiuso, conservato in casa da anni. Quando i figli lo aprono, vi trovano altre lettere, una macchina fotografica Nikon, alcuni numeri del “National Geographic” (uno con la foto di Robert), una collana con una croce e tre diari. I diari raccontano della relazione di Francesca col fotografo Robert Kincaid, arrivato in zona per fotografare i ponti di Madison County – e di come, alla fine, lei rinunciò ad andarsene con lui, per rimanere accanto alla famiglia, al marito, ai figli. Dalla lettura dei diari, scrittura del fantasma, parte il flashback, e rivivono, materializzandosi, i fantasmi di Robert e Francesca; ma non si tratta di un semplice esercizio di memoria. È come se la scrittura della madre morta riverberasse sui figli gli effetti della sua esperienza, come la voce d’un fantasma benevolo. Nel baule è conservato anche un vestito di Francesca (dono di Robert) che lei non aveva mai voluto mettere: ora lo indossa Carolyn. E Michael si convince che l’unica cosa da fare è compiere il rito richiesto dalla madre: sul ponte Roseman, le ceneri vengono gettate nel vento, si disperdono in aria, diventano il ricordo invisibile e impalpabile d’un atto d’amore. 191

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All’inizio di Lettere da Iwo Jima, uomini attrezzati come speleologi (con caschi, tute, lampade e pale) scendono nelle caverne dell’isola, ex-fortificazioni giapponesi, tra cannoni arrugginiti e vegetazione selvaggia. Non si sa bene quali reperti vadano cercando, dopo tanti anni – forse proprio le lettere scritte e mai spedite che i difensori di Iwo Jima chiusero in un sacco e nascosero sotto terra, poco prima che si scatenasse l’attacco americano. Lettere morte di morti, che si tratta di riportare alla luce. Gli speleologi scavano, nel buio della caverna, e il loro scavare si riconnette allo scavo delle trincee nel ’45, innestando (anche qui) il flashback. Fino a che, alla fine del film, si ritorna all’oggi, e alla scoperta delle lettere sepolte: il sacco che le conteneva viene aperto, e lo schermo è invaso da una pioggia di lettere – le lettere dei morti, che mandano i loro ultimi messaggi, volando nell’aria come le ceneri di Francesca sul ponte di Madison County. Bisogna credere agli spettri, parlare con essi e ascoltarli, dice Derrida, anche se non esistono. Parlare con loro, non equivale infatti a fingere l’esistenza di interlocutori immaginari. C’è materia, nello spettro, come c’è materia nella memoria e nel ricordo – una materia che non è carne, e neppure spirito, semmai carne trasfigurata, forma pura del corpo, figurazione del corpo glorioso. Dove cercarlo, comunque, lo spettro? Lo spettro si trova all’incrocio di due movimenti contrapposti (ambedue immaginari, certo). Da un lato: l’incarnazione9 ossia lo spogliarsi 9

  Cfr. infra, pp. 119-149.

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Spettralità

volontario del Dio di alcune sue prerogative, per indossare la veste corporea di un uomo – kenosis, ossia il movimento con il quale Dio «si svuota della sua divinità»10, per assumere il corpo come luogo di identificazione del visibile. Un Dio può assumere un corpo, come lo può un angelo (o un demone), a puri fini di riconoscimento – oppure, come accade nel Dio cristiano, per il Sacrificio in vista del riscatto degli umani (ma il Cristo, sosteneva Artaud, doveva forse oscuramente preferire l’incarnazione, per la pienezza di martirio che essa assicura). Dall’altro: la trasfigurazione dei corpi risorti (dopo il Giudizio finale), tale da assicurare la continuità e l’identificazione del vecchio corpo di carne, attribuendogli peraltro certe qualità “spirituali” che esso non aveva. Corpo/spirito, corpo sottile, agile, volante, incorruttibile, splendente, e tuttavia ancora, in qualche modo, definibile come corpo. La morte, in cui si riconosce la fine del mondo (ogni volta unica, diceva Derrida), implica che il vivo debba dare al morto un addio senza ritorno, «nell’implacabile certezza che l’altro non si volterà più indietro e non ritornerà mai più»11. Lo spettro (benevolo o malevolo che sia) si oppone a questa certezza: è spirito che si incarna, o corpo trasfigurato, capace di agire sulla materia, anche se bisognoso, per farlo, di certi supporti materiali (per esempio le

10   Cfr. il saggio di G. Granel, Lontano dalla sostanza: fin dove?, in J.-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, tr. it., Cronopio, Napoli 2007, p. 97. 11

  Ivi, p. 141.

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pistole, nei western, oppure, in Hereafter, il tocco delle mani, il berretto del gemello). Tra Vista e Tatto, ma anche Udito, e perfino (alcuni sostengono) Olfatto e Gusto. Lo spettro cinematografico, invece, è solo visibile/ udibile. Noi non possiamo toccarlo, né avere un’esperienza tattile, che non sia illusoria, del suo volume (malgrado il 3D). È però quest’illusione che ci fa credere nell’incarnazione, nell’ombra che incarna un corpo assente o (ammesso che ci fosse, sul set) non più presente. E contemporaneamente, l’incorporeità (relativa) dell’ombra lo rende glorioso, inscalfibile e invincibile, come fantasma vendicatore o protettore benevolo, anche quando per avventura (vedi Gran Torino) opti per un sacrificio volontario. Gli schermi, dunque, sono popolati da fantasmi, anche se i personaggi appartengono all’ordine del più rigoroso realismo. Rappresentare un personaggio come fantasma, o in bilico tra una condizione “realistica” e una di fantasma, esplicita perciò la sua natura profonda di personaggio cinematografico, ma è allo stesso tempo operazione tutt’altro che pacifica, nella misura in cui la pratica del cinema, sposando la narrazione “realistica” (realistica, si potrebbe dire, anche laddove sia “fantastica”), ha sempre fatto di tutto per camuffare la sua sostanziale spettralità. C’è sempre stata una sorta di preoccupazione, per i cineasti, che in troppi si accorgessero che il cinema, presentato come uno svago, potesse essere in realtà un’esperienza spiritica, analoga a quella che un film come Hereafter non esita a prendere a tema. Se si intende revenant come fantasma, in senso stretto, allora la giornalista Marie Lelay di Here194

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Spettralità

after non lo è. Tuttavia, essa torna, precisamente da un’esperienza di pre-morte, durante la quale ha provato inaudite sensazioni: grande serenità e quiete, assenza di gravità, visione a 360°, senso di onniscienza e compresenza – e, al contrario, nessuna sensazione di tempo o di moto. Tutto questo il film, saggiamente, si limita ad enunciarlo (soprattutto nel colloquio che Mary ha con la dottoressa che dirige la clinica in Svizzera), anche se non può fare a meno di visualizzare alcuni flash del preteso Aldilà, in cui figure indistinte, poco più che ombre, si muovono lentamente su uno sfondo di luce solarizzata. È uno sfondo, però, che conserva alcuni caratteri di affinità con l’universo subacqueo, in cui Marie è stata immersa – e dunque neppure qui Eastwood rinuncia a un’ambiguità generatrice di senso. A colpire in Hereafter non sono tanto questi flash (quelli di Marie, come quelli di George Lonegan, quando afferra le mani di soggetti che pretendono di ricorrere a prestazioni che lui vorrebbe fare a meno di fornire), quanto l’indagine sui meccanismi di ricaduta che l’esperienza di pre-morte può avere sui vivi che la hanno provata. Sui nuovamente vivi, possiamo dire? Ma è possibile, per loro, tornare a vivere nel senso usuale del termine, se non riconoscendosi e spalleggiandosi a vicenda, in quanto esclusi ed emarginati? Marie, in Hereafter, si trova a dover affrontare un’involontaria esperienza di morte in vita, nel senso che, come conseguenza di essa, perde il lavoro in TV, mette a repentaglio i suoi contatti editoriali, è lasciata dal suo compagno ed è considerata quasi pazza. Tristezza, malinconia di un dono che è una condanna (alla soli195

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Alessandro Cappabianca

tudine), senso di essere fuori-posto, di Marie, di George, del giovane Marcus, fuori-posto tra i vivi, come tra i morti; senso di perdita irrevocabile che assale Marcus quando muore il gemello Jason, lasciandogli come unica eredità un berretto (sia pure dotato di qualità quasi magiche). Anche Marcus è un “morto in vita”, in quanto è morta la sua parte/Jason, e non potrà esserci lieto fine, per lui, se non prendendo atto che ormai non esiste più nessuna distinzione possibile tra i due gemelli: Jason è Marcus, Marcus è Jason. O meglio: Marcus non può essere Marcus se non è contemporaneamente anche Jason – non può essere il vivo, se non è al tempo stesso anche il morto. Presenze spettrali percorrono dunque il cinema di Clint Eastwood, senza bisogno di ricorrere a giochi d’ombre o a effetti speciali12. È come se il corpo mitico, il corpo roccioso, di Clint, dovesse essere affetto da quei cinque fori di proiettile, che lo situano in un universo di paradossale vulnerabilità, come il masso apparentemente inscalfibile che il Cavaliere Pallido sgretola con l’aiuto (involontario?) di quel gigante mostruoso inviato dai cattivi. Oppure, è come se il lutto fosse da sempre iscritto nel volto malinconico di Frankie McLaren, l’attore che interpreta   I cimiteri notturni sono luoghi di spettri, nel senso che in essi più facilmente le ombre del cinema rivelano la loro natura fantasmatica. Perfino in J. Edgar, Eastwood non si lascia sfuggire l’occasione di ambientare in un cimitero la scena (tratta dalle cronache dell’epoca) in cui si tenta di entrare in contatto col rapitore di Baby Lindbergh – ma questi è inquadrato da lontano, appena visibile tra le tombe nell’oscurità, proprio come un fantasma, e poi si allontana senza dare risposte sulla sorte del bambino.

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Spettralità

Marcus, gemello di George McLaren (Jason) anche nella realtà. Crediamo significativo questo ritorno di doppi e pseudo-doppi (vedi anche Changeling), di gemelli (veri e falsi), nel cinema di Eastwood, per poter concludere (forse) che ogni corpo filmico, comunque, è doppio, è ombra, è spettro di se stesso, proiezione di un ultra-corpo fantasmatico, rimpianto e per sempre perduto.

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Alessandro Cappabianca

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Tragico

Roberto De Gaetano

TRAGICO

Il tragico è solo là dove domina lo “spirito”. Martin Heidegger

Un uomo si prepara, si veste bene, sistema alcune cose, sembra congedarsi da chi gli sta vicino, poi si avvia nella notte verso una casa, ne escono dei giovani dai volti minacciosi. L’uomo mette la mano nel giubbetto, sembra stia per estrarre qualcosa; i giovani, armati di pistola, gli sparano. L’uomo cade a terra, braccia allargate in una postura cristologica. Non aveva con sé una pistola, ma solo un accendino. È il sacrificio con cui si chiude Gran Torino, uno dei segni del tragico che attraversano il cinema di Eastwood e che non coincidono con la forma-tragedia, cioè con l’architettura narrativa e strutturale di un genere. Il sacrificio di Gran Torino ci dice subito una cosa: la morte viene sottratta alla sua datità naturale e viene inscritta in un ordine simbolico che le dà senso, che permette di convertirla in vita. La morte sarebbe giunta comunque presto, Walt era vecchio e ammalato, ma disporsi al sacrificio della vita per garantirne la continuità significa sottrarre la morte al 199

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Roberto De Gaetano

suo sopraggiungere imprevedibile e traumatico, e trasformarla in un atto assegnato: «La poesia tragica si basa sull’idea del sacrificio. Ma il sacrificio tragico è quanto al suo oggetto – l’eroe – diverso da qualunque altro ed è, insieme, primo e ultimo»1. Ultimo perché risolve definitivamente i problemi dell’eroe con se stesso, con la propria vita; primo perché dalla morte dell’eroe avrà inizio una nuova vita, una resurrezione in altro. Il movimento morte-rinascita, che contrassegna il sacrificio tragico, individua solo una specifica dimensione del tragico, dove il catartico riguarda, più che le emozioni di pietà e terrore, la vita stessa nella sua interezza e la possibilità di redimerla con la morte. La catarsi classica è sostituita dalla redenzione cristiana. Condizione affinché il sacrificio tragico possa funzionare è la sacrificabilità del “capro”, cioè il fatto che la sua morte non determini ulteriori scompensi e squilibri: Walt è un uomo vecchio e nessuno dipende realmente da lui, se non quel ragazzo orientale per cui decide di sacrificarsi. Walt si sacrifica da un lato per emendarsi dalle sue colpe («lei non si è mai perdonato», gli dice il prete), che sono colpe che coincidono anche con il suo essere un americano medio (la guerra in Corea e le uccisioni compiute) e che hanno trasformato la sua vita in una vita di trincea: è l’ultimo bianco a resistere in un quartiere oramai abitato dai Hmong, con la bandiera americana e una Ford Gran Torino in   W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it., Einaudi, Torino 1980, p. 100. 1

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Tragico

garage; dall’altro lo fa per interrompere un circuito di violenze che lui stesso aveva alimentato. Da questa seconda prospettiva, il sacrificio diviene alternativo alla vendetta, cioè ad uno scambio di violenze ritorsivo che avrebbe avuto fine solo nella distruzione totale: «Funzione del sacrificio è quella di placare le violenze intestine […]. Appena la violenza intestina rimossa dal sacrificio rivela un poco della sua natura, essa si presenta sotto forma di vendetta del sangue»2. Se la vendetta è la più “naturale” delle reazioni, perché crede di sanare un torto subìto con un atto equivalente, e quindi risponde all’alterazione dell’equilibrio con un suo presunto ripristino, questo atto “naturale” non avrebbe fine nel ciclo delle ritorsioni. Solo un atto simbolico potrebbe interromperlo, un sacrificio. Se c’è sacrificio significa che c’è possibilità di emendazione e questa possibilità esiste perché la colpa perde la sua naturalità e impersonalità e viene assegnata alla persona. Se la colpa è personale, e dunque morale, può essere soggetta a vendetta o a emendazione (oltre la mediazione della legge), altrimenti risulta inemendabile e assume la forma del destino. La vendetta è una reintegrazione del tempo, che viene arretrato al punto di inizio, prima dell’infrazione, e dove la ripetizione si afferma nel suo senso demonico come ciclicità ininterrotta di ritorsioni:   R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it., Adelphi, Milano 1980, pp. 30-31.

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“La cosa che tormenta di più un uomo è quella che non gli hanno ordinato di fare”

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Tragico

«Il giustiziere, quale che sia il valore morale della sua vendetta, reintegra il tempo iniziando un nuovo ciclo»3. L’isolamento e il silenzio iniziale di Walt, il suo disprezzo per figli e nipoti, che rappresentano interessi e stili di vita inconciliabili con il suo modo di esistenza, sono segni di un’estraneità del soggetto al corpo sociale, estraneità accentuata dalla morte della moglie che apre il film. L’isolamento dell’eroe è uno dei caratteri del tragico, perché indica l’allentamento dei legami sociali del soggetto, delle sue possibilità di interazione, che prelude alla maturazione della scelta. La decisione di salvare il ragazzo, interrompere la faida, riaprire il tempo, attraverso il sacrificio della vita, Walt la attua in un silenzio assoluto ed equivoco4. Ci aspettiamo che voglia vendicarsi ferocemente della violenza fatta alla sorella di Thao, invece Walt scarta, cambia imprevedibilmente, decide di liberare se stesso e il ragazzo, consegnandosi alla morte. In questo Walt ritrova se stesso, non rinunciando al suo compito che è in primo luogo un desiderio, quello di lasciare un’eredità (non solo materiale) a qualcuno che l’ha cercata; di occupare il luogo simbolico di una paternità adottiva, non avendo trovato riscontri in quella naturale. L’incontro con Thao permette a Walt di fuoriuscire dal suo bunker, di esporsi e

  N. Frye, Tempo che opprime, tempo che redime, tr. it., il Mulino, Bologna 1986, p. 89.

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  «L’eroe tragico ha soltanto un linguaggio che gli si addice perfettamente: il tacere», F. Rosenzweig citato in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 101.

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di scegliere di fare da guida. È un incontro con un ragazzo orientale, iniziato come contrapposizione e come difesa (lo caccia quando lo trova a rubare la sua Gran Torino), a consentire a Walt di ribaltare la sua esistenza dalla difesa alla scelta, e con questo di riscattare colpe passate e presenti. Il sacrificio per essere tale deve comportare la presenza di alcune condizioni, tra le quali la colpa che si fa personale e la possibilità di riscattarla. Il sacrificio deve servire, e un sacrificio serve quando permette la liberazione del tempo, la sua riapertura. E questa passa anche per l’aderenza del soggetto (singolare o collettivo) all’atto sacrificale che lo riguarda: il soggetto è tutto in quell’atto, si realizza in quell’atto. Non essere sacrificato né vendicarsi ma sacrificarsi è l’atto che libera. Cioè il sacrificio ha un senso quando la colpa è personale, quando non è il destino la traccia della colpevolezza. Se il destino è il «contesto colpevole di ciò che vive»5, ciò che condanna una vita indipendentemente dalla sua colpevolezza, allora significa che l’emendazione è impossibile, e il sacrificio senza senso. Se l’eroe è e non è colpevole, come nel tragico classico, perché non ha colpa morale e colpevole è la natura, gli viene sottratta ogni possibilità di emendazione, e il succedersi delle contingenze diviene la forma del destino, la forma cioè di un’inesorabile condanna senza colpa: una vita «prima è stata con  W. Benjamin, Destino e carattere, in Id., Angelus Novus, tr. it., Einaudi, Torino 1962, p. 35.

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Tragico

dannata, e solo in seguito è divenuta colpevole»6. È la vita dei tre protagonisti, prima bambini poi adulti, di Mystic River, segnati una volta per tutta da ciò che accade ad uno di loro nell’infanzia: la violenza subita da parte di due uomini, che si spacciano per poliziotti, segna non solo il bambino violato ma anche gli altri due amici. Ciò che ne deriva è una impossibilità di sottrarsi, se non parzialmente, è il caso di Sean, ad un destino inemendabile, e che anzi diviene sempre più inesorabile, per cui l’uccisione di Dave da parte di Jimmy, per vendetta a fronte di una colpa presunta, non fa che confermare ciò che era già segnato fin dall’infanzia, fin da venticinque anni prima, come dice Jimmy a Sean nel finale, cioè dal momento in cui Dave è stato sequestrato e violentato: e cioè l’impossibilità di trovare in alcun modo la felicità (il pursuit of Happiness della costituzione americana) da parte dei tre amici, per una colpa sovrapersonale, per un destino sbagliato, una natura matrigna che non dà freno a spinte pulsionali che, disarticolando comportamenti, sfociano in perversioni demoniche. A questa natura colpevole, che prende la forma di due figure del male assoluto, è difficile sottrarsi: «a volte penso che siamo saliti tutti e tre su quella macchina», dice Sean a Jimmy. Il destino non prende solo la forma del male assoluto ma anche quella della casualità nefasta, come nel caso della morte di Katie, la figlia di Jimmy. Rispetto alla ricostruzione paranoica nella ricerca del colpevole, la realtà si rivela ben diversa: nessun vero 6

  Ibidem.

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colpevole, ma solo la casuale irresponsabilità di due ragazzi, uno dei quali fratello di Brendan Harris, il ragazzo di Katie. Quest’ultimo amava la ragazza, ma era odiato dal padre di lei perché era figlio dell’uomo che l’aveva mandato in galera, e che lui aveva ucciso e gettato nel Mystic River una volta libero. Così come farà con Dave, in un ritornare inesorabile dell’atto violento, accusato di un crimine non compiuto. Il Mystic River è il fiume-lavacro, come dice Jimmy uccidendo Dave: «Qui si seppelliscono i nostri peccati, qui vengono lavati». Il fatto è che quei peccati in quel fiume non vengono realmente lavati, le colpe di cui si macchia Jimmy, l’inesorabilità di una vendetta alla quale non riesce a sottrarsi, non viene emendata, da un lato perché la sua colpa non è del tutto tale, cioè non è una colpa morale (Jimmy non è una figura del male, lo è più marcatamente la moglie con il suo cinismo), dall’altro perché la vendetta non lava, non emenda, non ripristina un equilibrio senza determinare ulteriori profondi squilibri. La colpa non del tutto colpevole di Jimmy lo rende anche vittima di un destino di cui non è del tutto responsabile. La sua colpa è nel suo status regale: «un re sa cosa deve fare, e lo fa», gli dice la moglie nel finale. Ma un re non può subire ferite senza reagire, non può non vendicarsi né è in grado di perdonare7 chi lo manda in galera (tenendolo lontano dalla prima moglie morente, una “regina” straordinariamente bella) né chi presume abbia uc  Jimmy non è il pastore di una comunità, come il Mandela di Invictus.

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Tragico

ciso sua figlia. Un re, se si pensa e viene considerato tale, non è libero, la sua azione è vincolata. La sua colpa originaria è nella sua posizione esposta che lo obbliga a compiere gesti o azioni che lo confermino nella sua regalità. La violenza fondativa che avvia il film è anticipata da un gesto di infrazione alla legge, di superamento di un limite, di un confine, che allo stesso tempo istituisce il re e ne fonda la sua colpevolezza. È il non rispetto di un divieto, la rottura di un nastro che perimetra un quadrato di cemento fresco, la colpa originaria di Jimmy, il cui prezzo viene pagato da Dave, violentato dai due uomini che, spacciandosi per poliziotti, si fermano per riprendere i ragazzi accusati di vandalismo. È la forma di una colpevolezza non colpevole quella di Jimmy, che lo istituisce come capo e dà avvio alla tragedia, che deriva e non deriva da quell’atto originario. Se Jimmy non avesse trasgredito il limite, la macchina non si sarebbe fermata; ma ciò che deriva da quella ragazzata è notevolmente più grave e più grande: sarà un trauma per Dave, ma in generale per i tre amici, e segnerà le loro vite future. La violenza “fondativa” e il suo carattere traumatico segnano inesorabilmente la vita dei tre, collocandoli in una “innocenza macchiata”, che li trascina in una deriva pericolosa, li inscrive in una ripetizione che perde, in un’iterazione della violenza che non li libera, ma li vincola inesorabilmente e fatalmente. Dave uccide un pedofilo che molesta un bambino, e in questo rivive il trauma della sua infanzia; Ray Harris junior uccide con la pistola del padre (di cui porta lo stesso identico nome) la figlia di Jimmy. L’uccisione di Katie potrebbe dunque sembrare una 207

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vendetta “involontaria” per il padre ucciso8, o un atto di gelosia nei confronti del fratello che stava per sposarsi con la ragazza. Niente di tutto questo, un gesto stupido, banale, di due ragazzi (Ray era accompagnato da un suo fedele amico), che prendono una pistola “ereditata” e da questo scaturisce una tragedia. Eppure, rimane una sospensione, un’incertezza, un’indecidibilità: certo l’uccisione di Katie da parte di Ray Harris junior è frutto di un pericoloso gioco da ragazzi, senza alcuna volontà “mirata”, ma è anche nello stesso tempo una vendetta e un omicidio per gelosia. Così viene sentita da Jimmy, quando seduto sui gradini di fronte casa, sente, ma non sa perché, che la morte di Katie riguarda profondamente qualche sua colpa («so che ho contribuito alla tua morte, ma non so come»); e così viene sentita da Brendan quando scopre che è stato il fratello ad avere ucciso la fidanzata, e lo accusa di aver agito per gelosia. È l’ambivalenza del tragico, della colpa tragica, che è e non è colpa (è colpa estetica, ma non morale9): Jimmy è colpevole anche senza esserlo direttamente, così come Brendan lo è per aver programmato di fuggire e sposare Katie senza dirlo a nessuno. Ma la colpevolezza è soprattutto quella di un destino la cui fatalità è pari alla sua impersonalità, che ha trasfor-

  Anche se la famiglia non sa bene che fine abbia fatto l’uomo, perché riceve mensilmente un assegno di 500 dollari dal giorno della sua scomparsa, ma ad inviarglielo è Jimmy.

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  Søren Kierkegaard insiste su questa differenza in Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Id., Enten-Eller, tomo secondo, tr. it., Adelphi, Milano 1990, p. 25.

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Tragico

mato un pomeriggio di gioco tra ragazzi in un trauma fondativo e dunque mai sciolto. La colpa è inscritta nel mondo e non è emendabile, quel fiume allontana i morti ma non cancella la colpa. Non riesce fino in fondo a seppellirli, perché i morti ritorneranno, come le colpe oscure che li accompagnano: l’azione è vincolata ad una ripetizione che non la libera, che tende a ripetere la violenza originaria, subita ed inferta, e in quella violenza si ritrova perdendosi. Se è il mondo ad essere colpevole, questa colpevolezza non può essere redenta, e allora non resta che precipitare per debolezza (Dave), difendersi con cinismo (Jimmy), o trovare una via, con un atteggiamento allo stesso tempo tenace e partecipe, riflessivo e distanziante, tenendo dritta la barra della propria vita (Sean), aspettando che la propria donna risponda all’altro capo del telefono, fiducioso che quella risposta arrivi, senza farsi distrarre da alcunché. Se il destino è colpevole, se c’è una colpevolezza inscritta nel mondo, allora la liberazione e la rinascita non sono immaginabili: né la vendetta né il sacrificio servono a far ripristinare l’equilibrio, a far riprendere il corso del tempo. La forma del destino aspira il carattere, la colpevolezza sovrapersonale lo abbandona in uno stato ambivalente, in una innocenza colpevole dalla quale risulta impossibile fuoriuscire. Il trauma, frutto di una violenza collocata all’incrocio fra brutalità di una pulsione (natura) e degrado ambientale (società), segna il mondo dei tre amici: un trauma non superato porta, abbiamo detto, Dave alla ripetizione di una violenza, nelle forme di una istanza vendicativa “indiretta”: colpisce fino ad ucciderlo 209

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un molestatore di bambini, lui che da bambino era stato sequestrato e violentato. Ma non lo confessa neanche alla moglie, e le sue ripetute risposte alla richiesta di spiegazioni per la mano ferita non si corrispondono, si contraddicono, rimandano ad una generica colluttazione, ad una ferita domestica. La moglie Celeste, fragile e scossa, si insospettisce, cerca conferme sui giornali, e il ritrovamento di Katie, la figlia di Jimmy, alimenta i suoi sospetti, che alla fine si trasformano nell’infondata certezza che Dave abbia ucciso Katie. Jimmy, convinto che ad uccidergli la figlia sia stato il suo amico Dave, che la sera dell’omicidio torna a casa con le mani insanguinate senza dare una spiegazione univoca, si vendica e lo uccide ingannandolo, chiedendogli una confessione che lo avrebbe potuto salvare. A falsa confessione estorta, Dave viene ucciso da Jimmy sulle rive del Mystic River. Quel fiume è mistico perché è come un gorgo da cui non si riesce ad uscire e a cui tutto torna. Il soggetto ne è continuamente aspirato, e per difendersene lo incorpora nell’edificazione di una maschera, quella regale che indossa Jimmy e che gli conferma la moglie, che si salda intorno al capofamiglia e rinsalda la famiglia, simbolo di una istituzione che tiene con il collante di un opportunismo cinico. Se il mondo è colpevole, le colpe personali sono di poco conto, e dunque o si soccombe come vittime del male del mondo, perché troppo deboli, o, partendo dalla colpevolezza del mondo, e dunque dalla sua irriscattabilità, ci si costruisce un sentimento cinico della vita. L’incombenza di un destino che piomba sotto forma di disgrazia senza alcuna possibilità di emen210

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Tragico

dazione e liberazione è presente anche in Million Dollar Baby. Ferite antiche e mai ricucite, colpe mai perdonate a se stessi (l’allenatore), e una vita condotta da ultimi della terra, da “spazzatura” (la pugile), nel momento in cui sembrano poter essere riscattate dalla boxe, cercata a tutti i costi da una ragazza “improbabile”, che sembra fuori tempo massimo, vengono ad aprirsi definitivamente per un trauma, a sanguinare fino alla fine, senza possibilità di sutura alcuna. Il nulla da cui proviene Maggie viene sollevato da un potente desiderio così come la scelta di corrispondergli: vuole boxare, ma soprattutto vuole che Frankie sia il suo allenatore e il padre che non ha più. E quest’ultimo, trascinato dalla forza di Maggie, collocato lì dalla domanda della ragazza, risponde scegliendo di occupare quel ruolo: «sarò il tuo allenatore», le risponde. Una pratica di soggettivazione passa attraverso una scelta e una corrispondenza, qualcosa che coinvolge un soggetto, la solitudine del suo percorso, ma anche l’altro del desiderio e dell’amore, l’altro che ci riguarda, che ci assegna e ci posiziona, e ci permette di ritrovarci (o di perderci). Ma qui il riscatto della vita passata, la sua possibile redenzione che risiede nella scelta di rimettersi in gioco (Frankie) o di darsi almeno una chance (Maggie) viene interrotto da una disgrazia: un colpo scorretto di una rivale brutale causa, durante un incontro, un incidente molto grave, che lascerebbe Maggie immobile in un letto per il resto dei suoi giorni. Ma Maggie anche questa volta opta per una vita più dignitosa di quella che la attende, anche se 211

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questa scelta coincide con la fine di ogni possibile desiderio, di ogni possibile scelta, e cioè con la morte. Ma ha avuto ciò che voleva, la presenza di Frankie e l’amore del pubblico, cose che non vuole perdere, e per cui rinuncia a vivere per preservare la dignità della vita, cioè quella vita che vale la pena di essere vissuta nel momento in cui risponde e corrisponde ad una scelta come unica pratica di soggettivazione. Qui la disgrazia prende la forma del destino, perché trasforma il contingente nell’evento tragico ed irreversibile. Il destino interrompe quello che era nato dall’incontro fra due “esclusi”, l’uno con una vita di dolore alle spalle, l’altra di fatto senza futuro. La crudeltà del destino sta nell’assegnare ad un soggetto senza colpa, o meglio non del tutto colpevole (la ragazza non ha seguito fino in fondo i consigli di Frankie, non si è protetta), una condizione di vita inaccettabile, che avrebbe implicato l’inesorabile, lento e progressivo spegnimento dello spazio di luce conquistato. Per l’eroe tragico, sia pur di un tragico bassomimetico e melodrammatico, come in questo caso, il senso della vita è più importante della vita stessa. E il senso della sua vita Maggie l’ha trovato, sia pur per un breve tempo, corrispondendo al suo desiderio di divenire pugile, di sottrarsi ad un anonimato nullificante. Se c’è un carattere specifico del tragico, questo risiede nella dominanza del senso sulla vita, sulla “nuda vita”, che non ha significato alcuno, e dunque è sacrificabile, se non è inscritta nell’ordine simbolico, e quindi se non corrisponde nel profondo alla realizzazione di una scelta, anche quella di farla finita 212

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quando le condizioni per andare avanti in forma degna non ci sono più. Maggie dice sì alla vita anche nel momento in cui decide di chiudere quella che sarebbe stata una forma di sopravvivenza sempre più dolorosa, lontana dalla potenza espressa dalla boxe e dall’incontro con Frankie. Quest’ultimo la accudisce fino alla fine e corrisponde al suo desiderio e alla sua scelta: l’aiuterà a morire, ma poi scomparirà nel nulla, la sua figura intravista, forse, dietro il vetro appannato di un bar dove era stato con Maggie, e dove lei a sua volta era stata con il padre. Il destino che incombe sui personaggi li sovrasta, la “ruota della fortuna” li conduce e non permette loro di sottrarsi al fato. Ma se Frankie, pur corrispondendo al desiderio di Maggie, alla fine scompare, si dissolve, colloca probabilmente la sua vita in una zona inidentificabile, in primo luogo per se stesso, tra la vita e la morte, Maggie con grande coraggio dice sì al suo destino, riconquista tutto, quando tutto sembra perso. Avendo scelto di non restare spazzatura, ora decide di non rimanere resto: di volere la sua vita nella pienezza del desiderio che l’ha animata e della corrispondenza che ha trovato. «Nel volere incontriamo noi stessi come veramente siamo»10, e la volontà di Maggie è quella di non restare là dove il destino l’ha assegnata: immobile su un letto a rimpiangere il momento di gloria passata. Million Dollar Baby presenta le forme della variazione (nietzscheana) di un tragico classico, nell’affermazione di un sì al destino, a tutto ciò che 10

  M. Heidegger, Nietzsche, tr. it., Adelphi, Milano 2005, p. 63.

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è accaduto e che permette di trasformare la disgrazia in conquista. L’inemendabilità della colpa, cioè il suo carattere impersonale, il suo coincidere con il destino fatale, con il girare infausto della “ruota della fortuna” trova sbocco in una unica soluzione: dire sì a quel destino, sottrarsi al suo carattere passivo per affermarlo come scelto. La vita è sempre, quando è affermata nella sua pienezza, oggetto di scelta e di volontà: «Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche “ma così volli che fosse!” – Finché la volontà che crea non dica anche: “ma io così voglio! Così vorrò!”»11. La trilogia tragica (Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torino), tale per il modo in cui ha posto il problema dell’azione e del suo senso in una inconciliabilità con la vita, è costituita di fatto come un percorso a tappe, con una progressiva personalizzazione che, allontanandosi dall’idea di destino, culmina col sacrificio cristologico di Walt. Se la “coralità” di Mystic River rispondeva ad una sorta di condizione universale di un’umanità offesa da un destino malevolo, dove una pena irriscattabile sommergeva tutti i personaggi del film, in Million Dollar Baby i due, di fatto tre, protagonisti del film, segnati da un destino avverso, sono orientati verso un più marcato processo di individualizzazione che permette a Maggie di dire sì al suo destino, di ribaltare la pena in una scelta che le permette di   F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. it., Adelphi, Milano 1983, p. 172.

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riconquistare tutto (anche se non la vita). Con Gran Torino il processo di individualizzazione è compiuto, la pena si è trasformata nel dolore e nel suo carattere riflessivo12: Walt si libera delle sue colpe, sacrificandosi e riaprendo il futuro per il giovane ragazzo. L’individualizzazione della colpa sancisce la sua emendabilità e dunque il ribaltamento del tragico nel “commedico”. Il finale del film da questo punto di vista è esemplificativo: il sacrificio di Walt sancisce l’individualizzazione compiuta e la liberazione possibile: il tragico greco finisce con la “commedia” cristiana. È con quest’ultima che viene a determinarsi una radicale torsione, perché la «redenzione cristiana si oppone alla coscienza tragica»13. O perlomeno si oppone alla coscienza tragica antica per inscriversi in quella moderna14. Gran Torino viene dunque a completare e a superare i fondamenti di una coscienza tragica attraverso una risoluzione “commedica”: il progressivo isolamento del personaggio (Walt rimane vedovo ad inizio film) è la precondizione per il suo riscatto redentivo, per il suo sacrificio salvifico, per la conversione della morte in vita. Il destino qui non ha più spazio, le determinazioni sostanziali (la famiglia, per esempio) nelle quali si muovevano ancora

  Sulla differenza tra pena e dolore, tragico antico e tragico moderno, cfr. S. Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, cit., pp. 17-50.

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13

  K. Jaspers, Del tragico, tr. it., SE, Milano 1987, p. 24.

  Cfr. S. Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, cit.

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i personaggi di Mystic River non sono decisive: la parabola che presiede alla costituzione del soggetto è completa, il processo di individualizzazione è compiuto, la responsabilizzazione diventa totale (e dunque nel processo di assolutizzazione stessa dell’individuo è inscritta la sua stessa comicità). L’eroe viene reso «responsabile di tutto; ma in tal modo si trasforma la sua colpa estetica in colpa etica»15. Ma la colpevolezza etica è emendabile, e il soggetto può redimersi, sottratto alla colpevolezza non colpevole del tragico antico. Gran Torino ribalta dunque dall’interno il tragico di Mystic River, giungendo con il sacrificio al completamento e al superamento dell’arco tragico: «[…] rovesciando il conflitto fra colpa naturale e innocenza personale nella scissione fra innocenza naturale e colpa personale, la morte di Cristo libera l’uomo dalla tragedia e rende possibile la commedia»16. Ed è infatti con Hereafter, dopo il superamento del tragico nella risoluzione “commedica” di Gran Torino, che la dimensione tragica si dissolve nell’intreccio romanzesco (non è un caso la presenza di Dickens), nell’incrocio di esistenze collocate al di fuori sia dell’istituzione familiare sia della solitudine radicale, ma sempre poste sotto il segno di un desiderio e di una volontà di dire una verità su se stessi che diventa una condizione imprescindibile affinché un soggetto possa divenire ciò che è, e dunque possa 15

  Ivi, p. 25.

  G. Agamben, Categorie italiane, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 17.

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anche aprirsi alla contingenza imprevedibile dell’incontro, come sigilla il finale. E se le potenzialità aperte dall’incontro contingente definiscono la libertà romanzesca di Hereafter, con J. Edgar, il “romanzo di una vita” conferma la chiusura con l’azione tragica e, nel racconto retrospettivo (in un’alternanza di presente e passato) di una esistenza contrassegnata dal nascondimento, dal segreto e dalla costruzione del nemico, ritroviamo all’opera i dispositivi polizieschi del potere moderno che, sottraendo l’esistenza alla sua singolarità (riducendola a documenti d’archivio), eliminano alla radice la possibilità del tragico e dunque anche le condizioni della felicità, se è vero che «solo quando ha il tragico che l’individuo è felice»17.

  S. Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, cit., p. 27.

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Filmografia

“Quello che è importante più di ogni altra cosa è essere conosciuti, conosciuti per ciò che si è stati durante questa vita”

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Filmografia

Elenco delle immagini e delle didascalie

Invictus (p. 6) Changeling (p. 18) Mystic River (p. 40) Un mondo perfetto (p. 64) J. Edgar (p. 88) Gli spietati (p. 110) Hereafter (p. 122) Million Dollar Baby (p. 154) Mezzanotte nel giardino del bene e del male (p. 178) Gran Torino (p. 202) I ponti di Madison County (p. 218)

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Filmografia

FILMOGRAFIA*

The Beguiled: The Storyteller Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Clint Eastwood. Interpreti e personaggi: Don Siegel (se stesso). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Company. Distribuzione: Universal Pictures. Origine: Usa. Durata: 12’. Anno: 1971. Brivido nella notte Play Misty for Me Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Jo Heims. Sceneggiatura: Jo Heims, Dean Riesner. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Carl Pingitore. Musica: Dee Barton. Scenografia: Alexander Golitzen. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Dave Garland), Jessica Walter (Evelyn Draper), Donna Mills (Tobie Williams), John Larch (sergente McCallum), Jack Ging (Frank Dewan), Irene Hervey (Madge Brenner), James McEachin (Al Monte), Clarice Taylor (Birdie), Don Siegel (Murphy), Duke Everts (Jay Jay). La presente filmografia fa riferimento solo ai film di cui Eastwood è regista, gli unici presi in considerazione in questo volume.

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Filmografia

Produzione: Clint Eastwood, Robert Daley, Jennings Lang per Universal Pictures e Malpaso Company. Distribuzione: Universal Pictures. Origine: Usa. Durata: 102’. Anno: 1971. Lo straniero senza nome High Plains Drifter Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Ernest Tidyman, Dean Riesner. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Ferris Webster. Musica: Dee Barton. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (lo straniero), Verna Bloom (Sarah Belding), Mariana Hill (Callie Travers), Mitchell Ryan (Dave Drake), Jack Ging (Morgan Allen), Stefan Gierasch (sindaco Jason Hobart), Ted Hartley (Lewis Belding), Billy Curtis (Mordecai), Geoffrey Lewis (Stacey Birdges), Scott Walker (Bill Borders). Produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per Malpaso Company. Distribuzione: Universal Pictures. Origine: Usa. Durata: 105’. Anno: 1973. Breezy Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Jo Heims. Fotografia: Frank Stanley. Montaggio: Ferris Webster. Musica: Michel Legrand. Scenografia: Alexander Golitzen. Interpreti e personaggi: William Holden (Frank Harmon), Kay Lenz (Edith Alice Breezerman), Roger C. Carmel (Bob Henderson), Marj Dusay (Betty Tobin), Joan Hotchkis 222

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Filmografia

(Paula Harmon), Jamie Smith Jackson (Marcy), Norman Bartold (l’uomo nell’auto), Lynn Borden (la donna in casa Harmon), Shelley Morrison (Nancy Henderson), Dennis Olivieri (Bruno). Produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per Malpaso Company. Distribuzione: Universal Pictures. Origine: Usa. Durata: 108’. Anno: 1973. Assassinio sull’Eiger The Eiger Sanction Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Rod Whitaker. Sceneggiatura: Hal Dresner, Warren B. Murphy, Rod Whitaker. Fotografia: William N. Clark, Frank Stanley. Montaggio: Ferris Webster. Musica: John Williams. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Dr. Jonathan Hemlock), George Kennedy (Ben Bowman), Vonetta McGee (Jemima Brown), Jack Cassidy (Miles Mellough), Heidi Brühl (Mrs Anna Montaigne), Thayer David (Dragon), Reiner Schöne (Karl Freytag), Micheal Grimm (Anderl Meyer), Jean-Pierre Bernard (JeanPaul Montaigne), Brenda Venus (George). Produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per Universal Pictures, Malpaso Company. Distribuzione: Universal Pictures. Origine: Usa. Durata: 123’. Anno: 1975. Il texano dagli occhi di ghiaccio The Outlaw Josey Wales Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dai romanzi The Rebel Outlaw: Josey Wales e The Vengeance Trail of 223

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Filmografia

Josey Wales di Forrest Carter. Sceneggiatura: Philip Kaufman, Sonia Chernus. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Ferris Webster. Musica: Jerry Fielding. Scenografia: Tambi Larsen. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Josey Wales), Chief Dan George (Lone Watie), Sondra Locke (Laura Lee), Bill McKinney (Terrill), John Vernon (Fletcher), Paula Trueman (Grandma Sarah), Sam Bottoms (Jamie), Geraldine Keams (Little Moonlight), Woodrow Parfrey (piazzista), Joyce Jameson (Rose). Produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per Malpaso Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 135’. Anno: 1976. L’uomo nel mirino The Gauntlet Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Michael Butler, Dennis Shryack. Fotografia: Rexford Metz. Montaggio: Joel Cox, Ferris Webster. Musica: Jerry Fielding. Scenografia: Allen E. Smith. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Ben Shockley), Sondra Locke (Gus Mally), Pat Hingle (Josephson), William Prince (Blakelock), Bill McKinney (Constable), Michael Cavanaugh (Feyderspiel), Carole Cook (Waitress), Mara Corday (Jail Matron), Douglas McGrath (Bookie), Jeff Morris (sergente). Produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per Malpaso Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 109’. Anno: 1977.

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Filmografia

Bronco Billy Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Dennis E. Hackin. Fotografia: David Worth. Montaggio: Joel Cox, Ferris Webster. Supervisione musicale: Snuff Garrett. Scenografia: Eugène Lourié (Gene Lourie). Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Bronco Billy), Sondra Locke (Antoniette Lily), Geoffrey Lewis (John Arlington), Scatman Crothers (Doc Lynch), Bill McKinney (Lefty LeBow), Sam Bottoms (Leonard James), Dan Vadis (Chief Big Eagle), Sierra Pecheur (Lorraine Running Water), Walter Barnes (sceriffo Dix), Alison Eastwood (bambina dell’orfanotrofio). Produzione: Neal Dobrofsky, Dennis E. Hackin per Warner Bros. Pictures, Second Street Films. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 116’. Anno: 1980. Firefox – Volpe di fuoco Firefox Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Craig Thomas. Sceneggiatura: Alex Lasker, Wendell Wellman. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Ron Spang, Ferris Webster. Musica: Maurice Jarre. Scenografia: Elayne Barbara Ceder, John Graysmark. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Mitchell Gant), Freddie Jones (Kenneth Aubrey), David Huffman (capitano Buckholz), Warren Clarke (Pavel Upenskoy), Ronald Lacey (Semelovsky), Kenneth Colley (Colonel Kontarsky), Klaus Löwitsch (generale Vladimirov), Nigel 225

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Hawthorne (Pyotr Baranovich), Stefan Schnabel (prima segretaria), Thomas Hill (generale Brown). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 136’. Anno: 1982. Honkytonk Man Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Clancy Carlile. Sceneggiatura: Clancy Carlile. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Joel Cox, Micheal Kelly, Ferris Webster. Musica: Steve Dorff. Scenografia: Edward C. Carfagno. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Red Stovall), Kyle Eastwood (Whit), John McIntire (nonno), Alexa Kenin (Marlene), Verna Bloom (Emmy), Matt Clark (Virgil), Barry Corbin (Arnspringer), Jerry Hardin (Snuffy), Tim Thompson (poliziotto), Macon McCalman (Dr. Hines). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 122’. Anno: 1982. Coraggio...fatti ammazzare Sudden Impact Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Charles B. Pierce, Earl E. Smith. Sceneggiatura: Joseph Stinson. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lalo Schifrin. Scenografia: Edward C. Carfagno. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Harry Callaghan), Sondra Locke (Jennifer Spencer), Pat 226

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Hingle (capo Jannings), Bradford Dillman (capitano Briggs), Paul Drake (Mick), Audrie J. Neenan (Ray Parkins), Jack Thibeau (Kruger), Michael Currie (tenente Donnelly), Albert Popwell (Horace King), Mark Keyloun (agente Bennett). Produzione: Clint Eastwood per Warner Bros. Pictures, Malpaso Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 117’. Anno: 1983. Il cavaliere pallido Pale Rider Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Michael Butler, Dennis Shryack. Fotografia: Bruce Surtees. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Edward C. Carfagno. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (il predicatore), Michael Moriarty (Hull Barret), Carrie Snodgress (Sarah Wheeler), Chris Penn (Josh LaHood), Richard Dysart (Coy LaHood), Sydney Penny (Megan Wheeler), Richard Kiel (Club), Doug McGrath (Spider Conway), John Russell (Stockburn), Charles Hallahan (McGill). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 116’. Anno: 1985. Vanessa Vanessa in the Garden – episodio di Storie incredibili (Amazing Stories) Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Steven Spielberg, Joshua Brand, John Falsey. Sceneggiatura: 227

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Filmografia

Steven Spielberg. Fotografia: Robert Stevens. Montaggio: Joe Ann Fogle. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Rick Carter. Interpreti e personaggi: Harvey Keitel (Byron Sullivan), Sondra Locke (Vanessa), Beau Bridges (Teddy), Margaret Howell (Eve), Thomas Randall Oglesby (Dr. Northrup), Jamie Rose (Mrs Northrup), Milton Murrill (cameriere). Produzione: David E. Vogel per Amblin Entertainment. Origine: Usa. Durata: 25’. Trasmissione: Nbc. Anno: 1985. Gunny Heartbreak Ridge Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: James Stinson. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Edward C. Carfagno. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (sergente Tom “Gunny” Highway), Marsha Mason (Aggie), Everett McGill (maggiore Malcom A. Powers), Moses Gunn (sergente Webster), Eileen Heckart (Little Mary Jackson), Bo Svenson (Roy Jennings, il propietario del Palace Bar), Boyd Gaines (tenente M.R. Ring), Mario Van Peebles (caporale “Stitch” Jones), Arlen Dean Snyder (sergente Major Choozoo), Vincent Irizarry (caporale Fragatti). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Company, Jay Weston Productions. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 130’. Anno: 1986.

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Filmografia

Bird Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Joel Oliansky. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Edward C. Carfagno. Interpreti e personaggi: Forest Whitaker (Charlie “Bird” Parker), Diane Venora (ChanParker), Michael Zelniker (Red Rodney), Samuele E. Wright (Dizzy Gillespie), Keith David (Buster Franklin), Michael McGuire (Brewster), James Handy (Esteves), Damon Whitaker (Charlie Parker giovane), Morgana Nagler (Kim), Arlen Dean Snyder (Dr. Heath). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Company, Warner Bros. Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 161’. Anno: 1988. Cacciatore bianco, cuore nero White Hunter, Black Heart Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Peter Viertel. Sceneggiatura: Peter Viertel, James Bridges, Burt Kennedy. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: John Graysmark. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (John Wilson), Jeff Fahey (Peter Verrill), Charlotte Cornwell (Miss Wilding, segretaria di Wilson), Noman Lumsden (George, il maggiordomo), George Dzundza (Paul Landers), Edward Tudor-Pole (Reissar), Roddy Maude-Roxby (Thompson), Richard Warwick (Basil Fields), John Rapley (impiegato dell’armeria), Catherine Neilson 229

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(Irene Saunders). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Rastar Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 110’. Anno: 1990. La recluta The Rookie Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Boaz Yakin, Scott Spiegel. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Judy Cammer. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Nick Pulovski), Charlie Sheen (David Ackerman), Raul Julia (Strom), Sonia Braga (Liesl), Tom Skerritt (Eugene Ackerman), Lara Flynn Boyle (Sarah), Pepe Serna (tenente Ray García), Marco Rodriguez (Loco), Pete Randall (Cruz), Donna Mitchell (Laura Ackerman). Produzione: Clint Eastwood, Howard G. Kazanjian, Steven Siebert, David Valdes per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Kazanjian/Siebert Productions. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 121’. Anno: 1990. Gli spietati Unforgiven Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: David Webb Peoples. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (William “Bill” Munny), Gene Hackman (Little Bill Daggett), Morgan Freeman 230

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(Ned Logan), Richard Harris (English Bob), Jaimz Woolvett (The Schofield Kid), Saul Rubinek (W.W. Beauchamp), Frances Fisher (Strawberry Alice), Anna Thompson (Delilah Fitzgerald), David Mucci (Quick Mike), Rob Campbell (Davey Bunting). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 131’. Anno: 1992. Un mondo perfetto A Perfect World Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: John Lee Hancock. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Kevin Costner (Robert “Butch” Haynes), Clint Eastwood (sceriffo Red Garnett), Laura Dern (Sally Gerber), T.J. Lowther (Phillip Perry), Keith Szarabajka (Terry Pugh), Leo Burmester (Tom Adler), Paul Hewitt (Dick Suttle), Bradley Whitford (Bobby Lee), Ray McKinnon (Bradley), Jennifer Griffin (Gladys Perry). Produzione: Clint Eastwood, Mark Johnson, David Valdes per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 138’. Anno: 1993. I ponti di Madison County The Bridges of Madison County Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Robert James Waller. Sceneggiatura: 231

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Richard LaGravenese. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Jeannine Claudia Oppewall. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Robert Kincaid), Meryl Streep (Francesca Johnson), Annie Corley (Carolyn Johnson), Victor Slezak (Michael Johnson), Jim Haynie (Richard Johnson), Sarah Kathryn Schmitt (Carolyn giovane), Christopher Kroon (Michael giovane), Phyllis Lyons (Betty), Debra Monk (Madge), Richard Lage (avvocato Peterson). Produzione: Clint Eastwood, Kathleen Kennedy per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Amblin Entertainment. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 135’. Anno: 1995. Potere assoluto Absolute Power Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di David Baldacci. Sceneggiatura: William Goldman. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Luther Whitney), Gene Hackman (Allen Richmond, il presidente degli Stati Uniti), Ed Harris (Seth Frank), Laura Linney (Kate Whitney), Scott Glenn (Bill Burton), Dennis Haysbert (Tim Collin), Judy Davis (Gloria Russell), E.G. Marshall (Walter Sullivan), Melora Hardin (Christy Sullivan), Alison Eastwood (studentessa d’arte). Produzione: Clint Eastwood, Karen S. Spiegel per Malpaso Productions, Castle Rock Entertainment. Distribuzione: Columbia Pictures. Origine: Usa. Durata: 121’. Anno: 1997. 232

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Mezzanotte nel giardino del bene e del male Midnight in the Garden of Good and Evil Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di John Berendt. Sceneggiatura: John Lee Hancock. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: John Cusack (John Kelso), Kevin Spacey (Jim Williams), Jack Thompson (Sonny Seiler), Irma P. Hall (Minerva), Jude Law (Billy Hanson), Alison Eastwood (Mandy Nicholls), Paul Hipp (Joe Odom), Lady Chablis (Chablis Deveau), Dorothy Loudon (Serena Dawes), Anne Haney (Margaret Williams). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Silver Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 155’. Anno: 1997. Fino a prova contraria True Crime Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Andrew Klavan. Sceneggiatura: Larry Gross, Paul Brickman, Stephen Schiff. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Steve Everett), Isaiah Washington (Frank Louis Beechum), Lisa Gay Hamilton (Bonnie Beechum), James Woods (Alan Mann), Denis Leary (Bob Findley), Bernard Hill (direttore Luther Plunkitt), Diane Venora (Barbara Everett), Michael McKean (reverendo Shillerman), Michael Jeter (Dale Porterhouse), Mary McCormack 233

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(Michelle Ziegler). Produzione: Clint Eastwood, Lili Fini Zanuck, Richard D. Zanuck per Malpaso Productions, The Zanuck Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 127’. Anno: 1999. Space Cowboys Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Ken Kaufman, Howard Klausner. Fotografia: Jack N. Green. Montaggio: Joel Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Frank Corvin), Tommy Lee Jones (Hawk Hawkins), Donald Sutherland (Jerry O’Neill), James Garner (Tank Sullivan), James Cromwell (Bob Gerson), Marcia Gay Harden (Sara Holland), William Devane (Eugene Davis), Loren Dean (Ethan Glance), Courtney B. Vance (Roger Hines), Barbara Babcock (Barabara Corvin). Produzione: Clint Eastwood, Andrew Lazar per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Clipsal Films, Mad Chance, Village Roadshow Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 130’. Anno: 2000. Debito di sangue Blood Work Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Michael Connelly. Sceneggiatura: Brian Helgeland. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel 234

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Cox. Musica: Lennie Niehaus. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Terry McCaleb), Jeff Daniels (Jasper “Buddy” Noone), Anjelica Huston (Dr. Bonnie Fox), Wanda De Jesús (Graciella Rivers), Tina Lifford (detective Jayne Winston), Paul Rodriguez (detective Ronaldo Arrango), Dylan Walsh (detective John Waller), Mason Lucero (Raymond Torres), Gerry Becker (Mr Toliver), Rick Hoffman (James Lockridge). Produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 110’. Anno: 2002. Mystic River Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di Dennis Lehane. Sceneggiatura: Brian Helgeland. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox. Musica: Clint Eastwood. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Sean Penn (Jimmy Markum), Tim Robbins (Dave Boyle), Kevin Bacon (Sean Devine), Laurence Fishburne (sergente Whitey Powers), MarciaGay Harden (Celeste Boyle), Laura Linney (Annabeth Markum), Kevin Chapman (Val Savage), Thomas Guiry (Brendan Harris), Emmy Rossum (Katie Markum), Spencer Treat Clark (Silent Ray Harris). Produzione: Clint Eastwood, Judie G. Hoyt, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Village Roadshow Pictures, NPV Entertainment. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 137’. Anno: 2003. 235

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Piano Blues – episodio di The Blues Id. Regia: Clint Eastwood. Fotografia: Vick Losick. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood, Ray Charles, Dave Brubeck, Dr. John, Marcia Bell, Henry Gray, Jay McShann, Pete Jolly, Pinetop Perkins (se stessi). Produzione: Clint Eastwood, Bruce Ricker per Malpaso Productions, Cappa Productions, Jigsaw Productions. Origine: Usa. Durata: 90’. Trasmissione: Pbs. Anno: 2003. Million Dollar Baby Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dalla raccolta di racconti Rope Burns di F.X. Toole. Sceneggiatura: Paul Haggis. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox. Musica: Clint Eastwood. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Frankie Dunn), Hilary Swank (Maggie Fitzgerald), Morgan Freeman (Eddie Scrap-Iron Dupris), Jay Baruchel (Danger Barch), Mike Colter (Big Willie Little), Lucia Rijker (Billie “The Blue Bear”), Brian O’Byrne (Father Horvak), Anthony Mackie (Shawrelle Berry), Margo Martindale (Earline Fitzgerald), Riki Lindhome (Mardell Fitzgerald). Produzione: Clint Eastwood, Paul Haggis, Tom Rosenberg, Albert S. Ruddy per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Lakeshore Entertainment, Albert S. Ruddy Productions, Epsilon Motion Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 132’. Anno: 2004. 236

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Flags of Our Fathers Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo omonimo di James Bradley, Ron Powers. Sceneggiatura: Paul Haggis, William Broyles Jr. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox. Musica: Clint Eastwood. Scenografia: Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Ryan Phillippe (John “Doc” Bradley), Jesse Bradford (Rene Gagnon), Adam Beach (Ira Hayes), John Benjamin Hickey (Keyes Beech), John Slattery (Bud Gerber), Barry Pepper (Mike Strank), Jamie Bell (Ralph “Iggy” Ignatowski), Paul Walker (Hank Hansen), Robert Patrick (colonnello Chandler Johnson), Neal McDonough (capitano Severance). Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Steven Spielberg per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Amblin Entertainment, DreamWorks SKG. Distribuzione: Paramount Pictures. Origine: Usa. Durata: 132’. Anno: 2006. Lettere da Iwo Jima Letters from Iwo Jima Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Iris Yamashita, Paul Haggis, dai libri Gyokusai Soshikikan no Etegami di Tadamichi Kuribayashi e Tsuyoko Yoshido e Chipuzo Kaneshiki di Kumiko Kakehashi. Sceneggiatura: Iris Yamashita. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens. Scenografia: James J. Murakami, Henry Bumstead. Interpreti e personaggi: Ken Watnabe (generale Kuribayashi), Kazunari 237

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Ninomiya (Saigo), Tsuyoshi Ihara (barone Nishi), Ryo Kase (Shimizu), Shidou Nakamura (tenente Ito), Hiroshi Watanabe (tenente Fujita), Takumi Bando (capitano Tanida), Yuki Matsuzaki (Nozaki), Takashi Yamaguchi (Kashiwara), Eijiro Ozaki (tenente Okubo). Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Steven Spielberg per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Amblin Entertainment, DreamWorks SKG. Distribuzione: Paramount Pictures. Origine: Usa. Durata: 141’. Anno: 2006. Changeling The Changeling Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: J. Michael Straczynski. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Musica: Clint Eastwood. Scenografia: James J. Murakami. Interpreti e personaggi: Angelina Jolie (Christine Collins), John Malkovich (reverendo Gustav Briegleb), Jeffrey Donovan (capitano J.J. Jones), Michael Kelly (detective Lester Ybarra), Colm Feore (commissario James E. Davis), Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Amy Ryan (Carol Dexter), Geoff Pierson (S.S. Hahn), Denis O’Hare (Dr. Jonathan Steele), Frank Wood (Ben Harris). Produzione: Clint Eastwood, Brian Grazer, Ron Howard, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Imagine Entertainment, Relativity Media. Distribuzione: Universal Pictures. Origine: Usa. Durata: 140’. Anno: 2008.

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Gran Torino Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Nick Schenk, Dave Johannson. Sceneggiatura: Nick Schenk. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens. Scenografia: James J. Murakami. Interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Christopher Carley (padre Janovich), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor), Brian Haley (Mitch Kowalski), Geraldine Hughes (Karen Kowalski), Dreama Walker (Ashley Kowalski), Brian Howe (Steve Kowalski), John Carroll Lynch (Barber Martin), William Hill (Tim Kennedy). Produzione: Clint Eastwood, Bill Gerber, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Double Nickel Entertainment, Gerber Pictures, Media Magik Entertainment, Village Roadshow Pictures, Warner Bros. Pictures. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 116’. Anno: 2008. Invictus - L’invincibile Invictus Regia: Clint Eastwood. Soggetto: dal romanzo Playing the Enemy di John Carlin. Sceneggiatura: Anthony Peckham. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens. Scenografia: James J. Murakami. Interpreti e personaggi: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon (François Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick Mofokeng 239

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(Linga Moonsamy), Matt Stern (Hendrick Booyens), Julian Lewis Jones (Etienne Feyder), Adjoa Andoh (Brenda Mazibuko), Marguerite Wheatley (Nerine), Leleti Khumalo (Mary), Patrick Lyster (Mr Pienaar), Penny Downie (Mrs Pienaar). Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Lori McCreary, Mace Neufeld, Kel Symons per Malpaso Productions, Revelations Entertainment, Spyglass Entertainment, Mace Neufeld Productions. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 134’. Anno: 2009. Hereafter Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Peter Morgan. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Musica: Clint Eastwood. Scenografia: James J. Murakami. Interpreti e personaggi: Matt Damon (George Lonegan), Cécile de France (Marie Lelay), Frankie McLaren (Marcus), George McLaren (Jason), Thierry Neuvic (Didier), Jay Mohr (Billy), Richard King (Christos), Lyndsey Marshal (Jackie), Bryce Dallas Howard (Melanie). Produzione: Clint Eastwood, Kathleen Kennedy, Roberto Lorenz per Malpaso Productions, The Kennedy/Marshall Company, Road Rebel. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 129’. Anno: 2010.

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J. Edgar Id. Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: Dustin Lance Black. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Scenografia: James J. Murakami. Scenografia: James J. Murakami. Interpreti e personaggi: Leonardo DiCaprio (J. Edgar Hoover), Naomi Watts (Helen Gandy), Josh Lucas (Charles Lindbergh), Armie Hammer (Clyde Tolson), Ed Westwick (Agente Smith), Lea Thompson (Lela Rogers), Damon Herriman (Bruno Hauptmann), Dermot Mulroney (Colonello Schwarzkopf), Dylan Burns (J. Edgar Hoover giovane), Judie Dench (Anne Marie Hoover). Produzione: Clint Eastwood, Brian Grazer, Ron Howard, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Imagine Entertainment, Wintergreen Productions. Distribuzione: Warner Bros. Pictures. Origine: Usa. Durata: 137’. Anno: 2011.

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Indice dei nomi e dei film

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Accadde una notte (It Happened One Night, F. Capra, 1934), 163 Adams, Eddie, 91 e n Adorno, Theodor W., 31 en Agamben, Giorgio, 29n, 108, 109 e n, 216n Agostino d’Ippona, 46 Altman, Robert, 125 Amselle, Jean-Loup, 95n Aprà, Adriano, 111n Arendt, Hannah, 155n, 157n, 170n, 171n Aristotele, 43 e n, 44 e n, 46, 53 Artaud, Antonin, 183, 193 Aviator, The, (Id., M. Scorsese, 2004), 105 Barisone, Luciano, 111n, 113n, 116n, 140n Benjamin, Walter, 87, 200n, 203n, 204n, Benoliel, Bernard, 67n, 103n Bogdanovich, Peter, 125 Bonanate, Luigi, 100n Bordwell, David, 73n Bradley, James, 92, 93, 94n, 101 Brecht, Bertolt, 124n Brivido nella notte, 52

Bruno, Edoardo, 141n, 146n, 188n Buccheri, Vincenzo, 62n Buell, Hall, 91n Bush, George, 102 Cagney, James, 58, 59n Caillois, Roger, 188n Capa, Robert, 90 Capek, Karel, 183n Cappabianca, Alessandro, 142n, 146n Capra, Frank, 161, 163 Carluccio, Giulia, 62n, 80n, 114n, 153n, 156n Carpenter, John, 135n Cartier-Bresson, Henri, 89 Castellano, Alberto, 91n Cavaliere pallido, Il, 52, 115, 153, 186 Cervini, Alessia, 124n Changeling, 9, 10, 15, 16, 20, 83, 123, 134, 149n, 155, 158, 161163, 165, 197 Chéroux, Clément, 101n Cleopatra (Id., C.B. DeMille, 1934), 163 Coolidge, Calvin, 162 Cooper, Gary, 162 Coraggio…fatti ammazzare, 153 243

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Cornell, Drucilla, 39 e n, 41 Curcio, Annarita, 102n D’Agnolo Vallan, Giulia, 111n, 113n, 116n, 140n Dam, Mogens, 183n Danani, Carla, 45n De Gaetano, Roberto, 114n, 188n Debito di sangue, 50, 120, 125, 128, 129, 134, 136, 137n, 138, 141n, 155, 161, 165 Deleuze, Gilles, 46, 87, 118, 169n DeMille, Cecil B., 163 Derrida, Jacques, 17n, 22, 46n, 52n, 54, 104n, 179, 180 e n, 187 e n, 192, 193 Derrida, Marguerite, 179 Di Ciaccia, Antonio, 148n DiCaprio, Leonardo, 105 Dick, Kirby, 179 Dickens, Charles, 116, 133, 146, 168, 216 Didi-Huberman, Georges, 120, 133n, 135n, 136, 137, 138n, 143, 145n, 146n Dollaro d’onore, Un (Rio Bravo, H. Hawks, 1959), 111, 112 Dottorini, Daniele, 125n, 126n, 136n Dreyer, Carl Theodor, 183n Dwan, Allan, 93, 94 Eastwood, Alison, 123

Eco, Umberto, 89 e n Empedocle, 43 Femmina contesa (Take the High Ground!, R. Brooks, 1953), 112 Filan, Frank, 91n, 93 Fino a prova contraria, 115, 116n, 133 Flags of Our Fathers, 12, 30, 33, 34, 55, 86, 87, 90, 91, 93, 94, 101, 103, 133, 140, 149, 167 Ford, John, 184 Foucault, Michel, 166n Frangioni, David, 86n, 153n Franklin, Thomas, 100 Freedberg, David, 85 Freeman, Morgan, 26, 98, 123 Frodon, Jean-Michel, 111n Frye, Northrop, 203n Full Metal Jacket (Id., S. Kubrick, 1987), 94 Gable, Clark, 163 Gagnon, Rene Arthur, 93 Gandini, Leonardo, 111n, 113n Genaust, Bill, 92 Genette, Gérard, 101 Girard, René, 201n Godard, Jean-Luc, 112 e n, 123n, 124n Goldwater, Barry, 112 Gran Torino, 8, 9, 11, 12, 21, 23-26, 29, 47, 50, 69n, 80, 83, 85, 86, 97, 109, 112, 134-136,

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138, 141n, 149, 155, 156, 160, 161, 163, 169, 171-173, 194, 199, 214-216 Grande, Maurizio, 114n Granel, Gérard, 193n Grespi, Barbara, 112n Griffith, David Wark, 30 Gunny, 97 Hancock, John Lee, 78 Hawks, Howard, 111 e n, 136n, 162 Hayes, Ira, 93 Hearst, William Randolph, 104 Heidegger, Martin, 213n Henley, William Ernest, 133, 152 Hereafter, 9, 12, 109, 116, 121, 123, 128, 133, 137n, 140, 141n, 145, 147, 149, 155, 158, 159, 161, 164, 168, 181, 194, 195, 216, 217 Honkytonk Man, 52, 138, 189 Horkheimer, Max, 31 e n Hughes, Howard, 105 Hugo, Victor, 137 Impiccalo più in alto (Hang ‘Em High, T. Post, 1968), 52 Intolerance (Id., D.W. Griffith, 1916), 115 Invictus, 8, 25, 28, 30, 47, 56, 81, 86, 87, 95, 98, 103, 123, 133, 141n, 155, 158, 159, 160n, 161, 168, 171, 173, 206n

Iwo Jima, deserto di fuoco (Sands of Iwo Jima, A. Dwan, 1949), 93 J. Edgar, 10, 12, 16, 32, 34, 50, 57-59, 83, 86, 99, 104, 113, 116, 166, 168, 196n, 217 Jacobi, Derek, 123 Jankélévitch, Vladimir, 147 Jaspers, Karl, 215n Jolie, Angelina, 123 Kael, Pauline, 87 Keighley, William, 58 e n Kennedy, John Fitzgerald, 84, 163 Kierkegaard, Søren, 208n, 215n, 217n Kill Bill (Id., Q. Tarantino, 2003-2004), 8 Koetzle, Hans-Michael, 91n Konstan, David, 51n Kubrick, Stanley, 94 Lacan, Jacques, 141n, 148n Lady Chablis, 123, 140n, 141n, 182 Lang, Jack, 98n Leone, Sergio, 87, 139 Lettere da Iwo Jima, 12, 34, 55, 56, 81, 92, 102, 133, 137n, 141n, 149, 192 Lowery, Lou, 92 Maffesoli, Michel, 97 e n Manet, Édouard, 89 Manzoli, Giacomo, 156n 245

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Marzano, Michela, 96n, 97 McLaren, Frankie, 196 McLaren, George, 197 McLuhan, Marshall, 91 en McNamara, Robert, 112 Mezzanotte nel giardino del bene e del male, 123, 128, 133, 140, 141 e n, 176, 180, 184, 188 Million Dollar Baby, 9, 10, 12, 20, 21, 23, 25, 47, 69n, 81, 83, 97, 98, 121, 123, 128, 133, 134, 136, 137n, 141n, 149 e n, 155, 156, 158, 160, 161, 168, 169, 171, 172, 211, 213, 214 Moccia, Michele, 145n Mondo perfetto, Un, 10, 47, 61, 66, 67, 71, 74, 77-81, 83, 84, 115, 153, 155, 161-164, 171 Mystic River, 8-10, 12, 19, 38, 41, 48, 51, 56, 59, 81, 83, 134 e n, 140, 149n, 155, 159, 163, 205, 214-216 Nadar, Félix, 89 Nancy, Jean-Luc, 50, 119-121, 123n, 126 e n, 127n, 128n, 129n, 132n, 138 e n, 193n Nansen, Betty, 183n Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, D.W. Griffith, 1915), 95, 118

Nazzaro, Giona A., 56n, 140n Nemico pubblico (The Public Enemy, W.A. Wellman, 1931), 32, 58 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 46, 51 e n, 52, 53, 60 e n, 214n Obama, Barack Hussein, 95, 103 Paganelli, Grazia, 135n Pattuglia dei senza paura, La (“G” Men, W. Keighley, 1935), 58 Pearl Harbor (Id., M. Bay, 2001), 101 Peirce, Charles Sanders, 89 Pescatore, Guglielmo, 114 en Pezzotta, Alberto, 75n Phúc, Phan Thị Kim, 91 Piccolo Cesare (Little Caesar, M. LeRoy, 1931), 59n Pistagnesi, Patrizia, 111n Platone, 44n, 49n Ponti di Madison County, I, 12, 47, 83, 89, 112, 128, 133, 134, 137n, 138, 155, 164, 190 Potere assoluto, 10, 59, 133, 161 Powers, Ron, 94n Quarto potere (Citizen K a n e , O . We l l e s , 1941), 104 Rancière, Jacques, 85

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Recalcati, Massimo, 21n, 69n, 98n, 148n, 169n, 171n Recluta, La, 97, 153 Ricœur, Paul, 101n Riefenstahl, Leni, 99 Rivette, Jacques, 111n Roberti, Bruno, 128n, 188n Roosevelt, Theodore “Teddy”, 100 Rosenthal, Joe, 89-91n, 92, 100 Rosenzweig, Franz, 203n Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, S. Spielberg, 1998), 92 Sarkozy, Nicolas, 97 Scarface (Id., H. Hawks, 1932), 59n, 111n Schatz, Thomas, 86n Schmitt, Carl, 46, 54, 55n, 56, 57, 59 Scorsese, Martin, 125 Searle, John, 93 Sentieri selvaggi (The Searchers, J. Ford, 1956), 52, 112 Sergent la terreur [vedi Femmina contesa] Sergente York, Il (Sergeant York, H. Hawks, 1941), 162 Siegel, Don, 87, 123n, 139 Socrate, 44n, 49n, 50n Space Cowboys, 50, 138, 155 Spielberg, Steven, 92, 125, 128n

Spietati, Gli, 8, 45, 47, 53, 81, 83, 107, 108, 112, 114n, 115-117, 138, 153 Spinoza, Baruch de, 151 Staiger, Janet, 73n Stiegler, Bernard, 27 e n, 30, 31 e n, 32n, 33 Straniero senza nome, Lo, 138, 153, 185 Swank, Hilary, 123 Tarantino, Quentin, 8 Tertulliano, 143, 147 Testi, Arnaldo, 90n Texano dagli occhi di ghiaccio, Il, 138, 153 Thompson, Kristin, 73n Tommaso d’Aquino, 46 Uomo nel mirino, L’, 153 Út, Nick, 91 Vampyr – Il vampiro (Vampyr, C.T. Dreyer, 1932), 183n Van Horn, Buddy, 186 Vanessa, 128, 188 Viviani, Christian, 115n Wayne, John, 52, 94, 112 Welles, Orson, 104, 105 Wellman, William, 58 Wood, Nathalie, 112 Yeats, William Butler, 133 Ziering Kofman, Amy, 179

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