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Italian Pages 172 [106] Year 2009
Clint Eastwood è considerato il più classico dei registi statunitensi contemporanei. Il suo cinema ha affrontato storie e generi tipicamente americani dando luogo a un universo narrativo e tematico più complesso di quanto l’apparente semplicità dello stile e un gusto classico del racconto possano far pensare; dentro la storia di un paese, dentro il suo immaginario, dentro le sue contraddizioni. GIULIA CARLUCCIO insegna storia del cinema presso l’Università di Torino. Ha pubblicato vari saggi e monografie e curato volumi sul cinema muto e sul cinema americano classico e contemporaneo. Tra le sue pubblicazioni, Scritture della visione. Percorsi nel cinema muto (Premio Limina – Carnica 2007 per il miglior libro di ricerca teorica e storiografica) e Otto Preminger, regista. Generi, stili, storie.
Clint Eastwood a cura di Giulia Carluccio Marsilio
elementi sequenze d’autore a cura di Paolo Bertetto
© 2009 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2015 ISBN 978-88-317-3964-1 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter
Indice Copertina Abstract - Autrice Frontespizio Copyright Il cinema di Clint Eastwood. Questioni, paradossi, film di Giulia Carluccio La questione della classicità Intorno a «Gran Torino», intorno al cinema di Eastwood Cinque film. Un percorso possibile Il cavaliere pallido di Matteo Pollone Da «Shane» a «Pale Rider» L’entrata in scena Evocazione Azione Apparizione Il doppio conflitto Il duello finale Gli spietati di Guglielmo Pescatore Revisioni e arcaismi Una costruzione in antitesi «Hic sunt leones» Un mondo perfetto di Vincenzo Buccheri Il film e la critica Le sequenze Dell’imperfezione Mystic River di Giulia Carluccio Preliminari Cornici: una tragedia americana. Intorno al prologo e all’epilogo
Forme: classico, postclassico Million Dollar Baby di Giacomo Manzoli La giusta distanza: elogio della classicità «Road to paradise» Una bella storia d’amore La pelle è l’anima Note al testo Apparati Biografia a cura di Matteo Pollone Filmografia a cura di Matteo Pollone Bibliografia a cura di Matteo Pollone
Il cinema di Clint Eastwood. Questioni, paradossi, film di Giulia Carluccio LA QUESTIONE DELLA CLASSICITÀ
Con una trentina di regie al suo attivo (trentuno, per l’esattezza, tra il 1971 di Play Misty For Me, Brivido nella notte, e il 2008 di Gran Torino, compreso l’episodio televisivo di Vanessa, 1985) e un percorso di attore significativamente intrecciato con quello di autore, Clint Eastwood è indubbiamente «un’istituzione. Ha la statura di un classico vivente, e si è imposto più di qualunque altro regista della sua generazione come coscienza e cantore di un secolo e mezzo di storia americana: dalla Guerra di Secessione de Il texano dagli occhi di ghiaccio alla Seconda Guerra mondiale del dittico Flags of Our Fathers/Lettere da Iwo Jima, dall’era Kennedy rivisitata retrospettivamente in Un mondo perfetto all’era Reagan celebrata in diretta in Firefox Volpe di fuoco. Ha portato sullo schermo pistoleri, poliziotti e soldati, ma anche eroi meno stereotipati, come un cantante country tisico (in Honkytonk Man), un regista (un alter ego di John Huston in Cacciatore bianco, cuore nero) e un musicista jazz (Charlie Parker in Bird)» 1. Così, per esempio, si legge in una recente (e ottima) monografia sul regista; così, in questi stessi termini, in generale, si definisce il cinema di Eastwood. In effetti, in sede di ricezione critica ricorrono, un po’ ossessivamente, espressioni come “istituzione”, “classico”, o meglio, “ultimo dei classici”, insieme all’ugualmente ricorrente definizione di “icona americana” (anche in relazione alla presenza come attore nella maggior parte dei suoi film, fino a Gran Torino, e agli altri ruoli di sexual cowboy 2, uomini dalla cravatta di cuoio o dirty harry interpretati in film altrui, da Leone a Siegel, nella modulazione progressiva di un personaggio tutto americano). Questa ascrizione all’orizzonte del “classico” ha contribuito senza dubbio a consacrare definitivamente l’opera di un regista che ha dovuto a lungo scontare il peccato originale di essere anche star di successo, così come superare la scomunica ideologica iniziale da parte della critica di sinistra (a partire da Pauline Kael) nei confronti della connotazione “fascista” dei primi personaggi interpretati, tra tutti Harry Callaghan 3; ma ha pure contribuito, tuttavia, a eludere una più attenta analisi di questa stessa classicità, che andasse oltre il luogo comune, così come a condizionare, fino a impedire, ogni tentativo di sistemazione e collocazione di questo cinema nel contesto della contemporaneità. Il ricorso alla nozione di classicità in qualche modo si è risolto in una sorta di assioma indiscutibile e soprattutto in un’etichetta lapidaria che non richiede ulteriori verifiche. Infatti, nonostante la posizione peculiare occupata da Eastwood nel sistema hollywoodiano anche dal punto di vista produttivo (produttore di se stesso, con la Malpaso, fin dal primo film, si rivolge alle Major per la distribuzione, girando quindi in condizioni di notevole libertà), e nonostante quella complessità tematica e ideologica della sua narrativa, tale da essere spesso tacciata di contraddittorietà e ambiguità («è un ossimoro vivente», dice giustamente Pezzotta 4), il suo percorso registico viene quasi naturalmente compreso nel territorio di una classicità atemporale, mai contestualizzata in riferimento al cinema statunitense coevo.
L’attribuzione dell’appellativo di “classico” sembra riconducibile perlopiù a due questioni, o meglio a due postulati di fondo. Da un lato, il riferimento costante nei film del regista ai generi classici del cinema americano; dall’altro un indubbio understatement registico, per cui le strutture fondamentali del découpage e dello stile classico non conoscono le forzature tecnologiche o le intensified continuity 5 di molte pratiche contemporanee, né si mostrano metalinguisticamente, o contrapponendo alle ragioni narrative quelle della mostrazione e dello spettacolo, come accade in molti blockbuster postmoderni o nel cosiddetto cinema postclassico 6. In questo senso, mentre la produzione di taglio critico su riviste e volumi monografici è piuttosto ricca e vivace nel fornire chiavi di lettura e precisi percorsi tematici 7, l’analisi dello stile e delle categorie strutturali e di genere si dà per scontata, o per superflua, già esaurita o esaudita dalla semplice constatazione dei postulati di cui sopra. Inoltre, se dall’ambito della critica ci si sposta a quello degli studi di taglio storiografico e teorico sul cinema statunitense contemporaneo, si può notare come il nome di Eastwood, o riferimenti ai suoi film, siano, clamorosamente, quasi del tutto assenti, considerati ininfluenti rispetto al panorama odierno, in ragione dell’estraneità di Eastwood alle pratiche emergenti. Se in alcuni studi, orientati a cogliere determinate tendenze del più recente cinema americano, come quello di Elsaesser e Buckland 8, non stupisce che il nome del veterano Eastwood sia totalmente assente, è tuttavia interessante notare come, per esempio, in un saggio quale quello di Geoff King, che affronta La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era dei blockbuster 9, il regista californiano sia chiamato in causa unicamente in merito a un discorso (sia pure articolato ed evidentemente di grande interesse) sul “potere delle star”, a proposito del lavoro di Eastwood sulla propria immagine, in Unforgiven, o dell’icona di una precisa mascolinità nei film da lui interpretati 10, mentre risulta assente ogni tentativo di definire più in generale il suo cinema. Altri lo citano solo en passant (Bordwell 11) o all’interno di una problematica di genre, dal punto di vista del revival western, per Pale Rider (Steve Neale), o dei trand produttivi degli anni novanta, per Unforgiven (Tino Balio) 12, senza entrare nel merito dell’approccio del regista. In questo senso, Eastwood non risulta interessare il contesto e la temperatura del cinema contemporaneo, se non marginalmente. Del resto, un percorso che prende avvio all’inizio degli anni settanta può avere radici e ragioni oggettivamente differenti rispetto a dinamiche e tendenze sviluppate nei decenni successivi. Ma anche se si guarda un po’ più indietro e si cerca una collocazione del percorso eastwoodiano all’interno degli studi sul cinema statunitense di quel periodo, si può constatare come questo percorso venga parimenti rimosso, escluso. Nell’ampio e fondamentale studio di Franco La Polla sul nuovo cinema americano tra il 1967 e il 1975 13, per esempio, non si cita Eastwood, che pure ha esordito come regista nel 1971, anche se lo stesso studioso, in una pubblicazione più recente, dedicata agli Stili americani 14, inserisce una bella analisi al suo primo film, Play Misty For Me, riconoscendovi «un carattere autoriale, nel senso che vi si scorge non solo un mondo organico che, con le dovute variazioni, ritroveremo nei suoi film più maturi, ma anche una concezione dell’immagine, della messa in scena, dei valori metaforici in funzione della storia che testimoniano in quel senso» 15. Qual è allora il posto di Eastwood, tra genere, autorialità e classicità? E in che modo la sua opera, articolata in più di trenta film, si colloca rispetto alla storia del cinema statunitense degli ultimi decenni, risalendone la cronologia con successo crescente, a partire soprattutto da Unforgiven, per cui un altro luogo comune della critica coincide sempre più frequentemente con la locuzione «non sbaglia un film»? Proprio la
progressiva acclamazione di Eastwood ad autore e il suo successo sempre più unanime, oggi, contrastano con l’idea che il suo cinema non sia un cinema contemporaneo, di oggi; contrastano con quell’aura atemporale, da evergreen, cui si accompagna l’etichetta di classico di cui si è riferito. Anche in questo Eastwood sarebbe un ossimoro vivente, riprendendo l’espressione di Pezzotta ed estendendola ulteriormente. In effetti, andando oltre quell’etichetta, o meglio, cercando di verificarla e di attribuirvi un senso meno ovvio, molti sono gli ossimori o i paradossi che possono complicare l’idea di una classicità lineare e semplice del suo cinema, come si vedrà nelle prossime pagine attraverso i film analizzati. Tornando sui due postulati base della definizione di Eastwood in termini di classicità, ovvero il riferimento ai generi e uno stile registico scevro da evidenze metalinguistiche o eccessi di spettacolarizzazione e tecnologia, occorre considerare come esattamente a questi livelli Eastwood abbia avviato un costante discorso di ripensamento delle forme e delle configurazioni offerte dalla retorica classica, giungendo a modalità personali di revisione e messa in discussione di queste. Si pensi da un lato al lavoro di riapertura, analisi e riscrittura del western (sia come epos che come pattern stilistico) 16 operato in film come Pale Rider o Unforgiven, per i quali si rimanda alle analisi che seguono, o alla contaminazione di generi differenti, caratteristica di molti suoi film e discorso evidente e portante dagli anni novanta in poi (compreso Unforgiven, fino a quel film summa che è Gran Torino, su cui si tornerà). Allo stesso modo, se è vero che l’universo tematico e ideologico di Eastwood è caratterizzato da complessità e, in alcuni casi, da ambiguità, queste non derivano astrattamente da un messaggio piattamente ricondotto alla storia o alle storie raccontate, quanto piuttosto da un utilizzo delle forme classiche in funzioni spesso differenti da quelle convenzionali, in qualche modo antifrastiche (come si vedrà nell’analisi dei singoli film), laddove l’understatement di cui sopra non deve fuorviare rispetto alla calibratura attenta, e non così trasparente, di una retorica che non è confezione, ma consapevole rapporto con la scrittura. Certo, né la contaminazione dei generi, né la dimensione antifrastica e talvolta ironica dell’uso del linguaggio classico (per cui si rimanda alle analisi in particolare di Un mondo perfetto e di Mystic River) hanno nulla a che fare con le pratiche di ibridazione, pastiche e riscrittura del cinema postmoderno, nell’accezione più ovvia e mainstream della definizione, né, almeno in apparenza, con quell’idea di classico-plus introdotta da Elsaesser e Buckland, nello studio già citato, a proposito del cinema della postclassicità 17. Ma non per questo l’approccio eastwoodiano alle risorse classiche è fuori tempo, in qualche modo meno contemporaneo o postclassico, anche se evidentemente in modi autonomi e tutti da considerare. Lo stesso rapporto ossimorico, paradossale che vi è tra un cinema apparentemente classico e una morale che sempre più non lo è, sempre più risulta aperta, discutibile, di per sé mina la struttura, classica o pseudoclassica, dall’interno. O forse, ancora, si potrebbe dire che di questa struttura va a cercare la dimensione aperta, contraddittoria, binaria e non univoca, non lineare. Da questo punto di vista è interessante la proposta, avanzata da Christian Viviani 18, di cogliere il rapporto di Eastwood con la tradizione classica non nel senso di una generica adesione al modello hollywoodiano consolidato, quanto piuttosto di un suo risalire non soltanto a John Ford o a Walsh, ma anche e più precisamente a Griffith, alla dimensione primitiva di un classico tutt’altro che semplice, in cui un preciso sistema di opposizioni e conflitti (piccolo/grande, vicino/lontano, mobile/immobile, insieme agli effetti di montaggio alternato e parallelo) regola conflitti e contraddizioni morali e ideologiche in modi che
non hanno ancora nulla di convenzionale. In questo senso, Eastwood risalirebbe all’origine del modello classico per ripensarne e radicalizzarne le risorse (e si pensi al lavoro condotto per esempio sulle strutture dell’alternanza in diversi film, come in particolare Mystic River). Risalirebbe alle strutture originarie delle forme classiche (e ciò all’interno di un cinema che anche ad altri livelli riflette sul mito delle origini), per giungere a esiti che si concedono il lusso di una libertà di pensiero al limite dell’ambiguità, come si è detto. Tornare quindi alle radici del cinema classico per un discorso morale contemporaneo è forse un altro ossimoro, o un paradosso, in cui tuttavia probabilmente risiede l’autentica modernità e contemporaneità di Eastwood, regista postclassico che ripensa la classicità, piuttosto che ultimo dei classici. INTORNO A «GRAN TORINO», INTORNO AL CINEMA DI EASTWOOD
È in ragione di questo essere contemporaneo, dal punto di vista cinematografico come da quello che si è definito un po’ genericamente “morale”, che il cinema di Eastwood ha saputo accogliere, all’interno delle sue strutture “classiche”, temi e questioni della storia e della politica (americana) sempre più avanzati e sempre più coraggiosi, al di là dell’ideologia dichiarata, presunta o reale, dell’uomo Eastwood. Il suo cinema più recente le ha affrontate con prospettive talvolta estreme (per esempio, come nota Pezzotta, in Letters from Iwo Jima, Lettere da Iwo Jima, 2006, il regista costringe il suo pubblico a identificarsi con il nemico giapponese 19), senza reticenze (come l’eutanasia in Million Dollar Baby, 2004, o gli abusi sui minori, da Mystic River, 2003, a Changeling, 2008), convocando talvolta strutture e convenzioni melodrammatiche che si trasformano spesso in quelle di tragedie senza catarsi, in dinamiche raramente riconciliate. Soprattutto, lo schema assiologico e le questioni morali in gioco mostrano tutta la loro complessità, la loro non semplice riconduzione a poli contrapposti di bene/male, la loro distribuzione strabica rispetto ai personaggi e agli eroi (o antieroi) delle vicende narrate, la loro contraddittorietà. E tutto ciò con sempre maggiore lucidità. Da questo punto di vista, l’ultimo film realizzato da Eastwood, il già citato Gran Torino, risulta esemplare, così come risulta esemplare anche per quanto riguarda un’evidente e straordinariamente lucida consapevolezza del regista rispetto al suo cinema, rispetto a tutto un percorso di autore (e attore) su cui, giunto alla soglia degli ottant’anni, sembra voler tirare le fila, al di là del luogo comune del “film testamento” di cui molti hanno parlato 20. Per questo il film può essere utile per riprendere in modo selettivo e mirato alcune ragioni e alcuni nodi che attraversano la sua opera. Non interessa, nell’economia e nell’impostazione di questo lavoro, una panoramica, necessariamente a volo d’uccello, sulle decine di film realizzati da Eastwood, quanto piuttosto soffermarsi su una serie di elementi privilegiati che possano costituire delle chiavi di accesso al suo cinema, così come un’introduzione alle analisi dei prossimi capitoli. Il film può infatti essere visto come una sorta di manifesto retrospettivo, al di là del valore testamentario che molti vi hanno riconosciuto anche in relazione a quanto ha dichiarato lo stesso regista, e cioè che l’interpretazione del personaggio di Walt Kowalski avrebbe coinciso con il suo congedo di attore. Certo, mai come in questo caso lo scambio tra attore e autore non va sottovalutato, e una certa dimensione metaforica di congedo è implicita nel doppio funerale che incornicia il film, quello iniziale della moglie di Kowalski, e in particolare quello finale, in cui Kowalski stesso (cioè Clint Eastwood) viene mostrato nella bara. Tuttavia, il film rappresenta non solo una summa,
ma anche un passo avanti rispetto all’intero percorso eastwoodiano, così come rispetto agli ultimi grandi film. Proprio l’evidente e intenzionale dimensione di riepilogo rispetto alla propria opera è occasione di ripensamento, di riapertura, e non solo di attualizzazione. Se è vero, come suggestivamente nota Gianni Canova, che il personaggio di Kowalski appare un po’ come il «revenant di Callaghan, verrebbe da dire, nell’era del disincanto e della globalizzazione» 21, il film si serve di Callaghan per un discorso presente, cioè del presente, oltre che sul presente. Ma vediamo il film in prospettiva più ravvicinata. La storia, ridotta a un plot estremamente semplificato 22, cui corrisponde un’analoga semplificazione ed economia di spazio e tempo, come si noterà, non si limita ad affrontare la questione della società multietnica dal punto di vista di un americano, anzi uno yankee, che in effetti è una stratificazione di personaggi eastwoodiani, da Callaghan in poi. Non è soltanto il ritorno di Callaghan nell’era della globalizzazione. È anche un film sulla crisi economica industriale americana (l’industria dell’auto); un film politico, da questo punto di vista, che non utilizza casualmente quel sobborgo, quella periferia, quel quartiere multietnico, come potrebbero essercene altri in altre metropoli. Ancora una volta la geografia eastwoodiana ha un senso preciso, e questo è un elemento chiave della sua opera, ripercorribile, nel suo insieme, proprio in base a uno specifico itinerario nella geografia americana, una determinata mappa di luoghi simbolici e reali al tempo stesso; qui siamo a Detroit, la capitale dell’auto, in un ex quartiere operaio, così come lo stesso Kowalski è un ex blue-collar, ormai in pensione. La Gran Torino 72, che lui stesso ha contribuito ad assemblare alla catena di montaggio, fa riferimento a uno slancio industriale che non c’è più, probabilmente anche a una logica di profitto e di cinismo industriale che ha precipitato l’industria americana dell’automobile in una crisi profonda, trasformando «les tranquilles banlieues de “Motor Town” en ghettos ravagés par le chômage et le crime», come nota Vincent Malausa in un’acuta analisi del film 23. Lo stesso preciso riferimento cronologico del modello dell’automobile feticcio di Kowalski, il 1972, data molto precisamente il nuovo percorso di Eastwood nella storia americana (con l’importante riferimento retrospettivo alla guerra di Corea combattuta da Kowalski); questo è un altro nodo, un’altra ragione forte del suo cinema: raccontare la storia, recente o meno, dell’America, raccontare l’essere americano, l’identità statunitense, attraverso tappe e momenti precisi (dalla guerra di Secessione, come si diceva in apertura, a oggi). Nel caso di Gran Torino la contestualizzazione cronologica acquista anche un senso ulteriore. Il 1972 data inoltre il film a un’epoca che è anche quella in cui, grosso modo, prende avvio non solo il personaggio di Harry Callaghan, ma anche la carriera registica eastwoodiana. Anche per ciò, Eastwood torna sul suo cinema nell’ultimo film, perché il suo cinema ha traversato esattamente questi anni, dall’inizio dei settanta in poi. Se Gran Torino è una sorta di autoanalisi, come è stato detto, lo è in tal senso. Da questo punto di vista le figure, i ruoli, i personaggi che possiamo individuare archeologicamente in Walt Kowalski – non solo il giustiziere urbano Callaghan, ma anche il cowboy, da High Plains Drifter, Lo straniero senza nome, 1973, a Unforgiven – vengono a portare il loro punto di vista, americano, la loro morale discutibile e contraddittoria, in un pezzo di storia in cui l’identità americana ancora una volta fa i conti con se stessa. Kowalski è simbolicamente l’ultimo americano rimasto in quel sobborgo invaso da etnie diverse, e come tale si ostina a tenere bene issata la bandiera statunitense nel suo portico, come a garantire e a garantirsi che l’identità americana è ancora lì, resiste, in quello spazio residuale chiuso al resto del mondo. Non va però trascurato il fatto che l’atteggiamento di chiusura espresso da Kowalski non
riguarda soltanto le altre etnie, ma anche i suoi simili, addirittura i suoi parenti, i figli. Questo elemento, oltre a rimandare a un discorso critico sulla famiglia che ritroviamo in molti film di Eastwood (si pensi, tra gli ultimi, a Million Dollar Baby), sottolinea come la crisi dell’identità americana non riguarda unicamente il rapporto con l’altro, con il fuori, ma anche quello con il proprio mondo. Ed è significativo che, nel film, è proprio questo rapporto a non conoscere evoluzione. I figli reali, di sangue, rimarranno fuori, esclusi dalla progressiva modificazione di Walt, mentre sarà con il figlio adottivo Thao che il personaggio darà vita a una dinamica di reciproca formazione, in un’evoluzione significativa di una delle tematiche tipiche di Eastwood. Il Bildungsroman, paradossalmente e non senza ironia e humor, è anche quello dell’ottantenne Kowalski che, forte di tutte le sue contraddizioni, prova ad affrontarle. È qui che acquista un senso il “gioco” sui personaggi precedenti, è qui che occorre che le contraddizioni di Kowalski siano in effetti una summa di quelle già espresse in alcuni decenni, da Harry Callaghan al William Munny di Unforgiven, è qui che il personaggio ex blue-collar ed ex combattente in Corea, che ci parla della realtà e del presente americano, acquista senso proprio attraverso la stilizzazione evidente e consapevole su cui è costruito. Il lavoro di Eastwood sul suo cinema, e quello del cineasta su se stesso come attore, sulla sua icona, non si risolve nel divertissement o nel gusto dell’autocitazione, anche se il film è spesso molto divertente e se il personaggio di Kowalski appare talvolta caricaturale. La stessa recitazione di Eastwood, estremamente rarefatta e ridotta a borbottii, sibili, battute lapidarie sussurrate con voce roca, se pure appare come la sintesi (caricaturale) di molte precedenti performance dell’attore Eastwood, vale proprio in quanto sintesi, in quanto riduzione ai minimi termini, secondo un minimalismo, potremmo dire, che troviamo in realtà in molti altri elementi del film. Per esempio, come si diceva, lo spazio e il tempo, ridotti a poche strade, a pochi scontri, dalla cadenza del tutto western, in una parabola estremamente semplificata, incorniciata simmetricamente dai due funerali di cui si è fatto cenno e in una rarefazione di effetti di stile, che rimarca un procedere per tappe, reiterazioni, economie di scrittura (anche questo un modo di ripensare il classico, che non è comunque invisibilità di scrittura, quanto piuttosto qui, come si diceva, sottrazione, minimalismo, effetto quasi simulacrale). In effetti, questo film, politico e nutrito della realtà e della storia americana, non ha nulla di realista. Appare del tutto stilizzato, astratto, e in ciò non è esente da quella dimensione onirica, fantasmatica, che è propria di molti film di Eastwood, e che costituisce una chiave di lettura essenziale per cogliere la natura non semplice della cosiddetta classicità eastwoodiana, la sua non trasparenza. Lo stesso effetto, notato da Canova, di revenant di Callaghan, ravvisabile nel protagonista di Gran Torino, non ha a che fare unicamente con gli echi che si porta dietro e che fa riemergere, ma anche e propriamente con questa dimensione di fantasmatizzazione che è percepibile nell’intero film. Il personaggio di Eastwood-Kowalski si muove per tutto il tempo come uno zombie, così come anche gli altri, soprattutto e significativamente gli antagonisti, i ragazzi della banda di teppisti, sono caricature, immagini, spettri di un teatro che talvolta ha in effetti le caratteristiche letterali del palcoscenico, come nella sequenza finale, della morte-sacrificio di Walt, vista dai vicini dalle finestre, attraverso gesti e azioni che sono ridotti a simulacri, a fantasmi di gesti e azioni, e non hanno nulla di reale o di realistico. Così come anche, in precedenza, il giustiziere Kowalski, per quanto dotato di armi reali, atterrisce i teppisti con il simulacro dell’atto di sparare, con il semplice mimare un gesto che di fatto non c’è. Tutto il film si muove in una dimensione
di astrazione e stilizzazione che negozia l’identificazione dello spettatore con un’indubbia, anche se complessa, distanza di sguardo. E questo è un altro elemento interessante dell’approccio eastwoodiano, e probabilmente uno dei suoi paradossi o ossimori fondamentali, quello di «articuler sa puissance classique […] à la mise en place d’un espace mental d’une extraordinaire complexité», come bene nota Malausa 24. Di questa complessità è parte anche il lavoro di rielaborazione e ibridazione di generi differenti che si trova qui, come nella maggior parte dei film di Eastwood. Nel teatro rarefatto e stilizzato del film si fa ricorso non solo a differenti registri (dal comico al drammatico, con tutte le sfumature del caso, compresa l’ironia), ma anche si succedono e interscambiano pattern di generi diversi, dal western al thriller fantastico, dalla commedia di attualità sociologica alla tragedia, secondo un ripensamento delle strutture di genere che Eastwood ha sempre più frequentemente proposto e che qui funziona realmente a livello di manifesto, anche nel senso retrospettivo da cui si è partiti. A cosa gli serve? Perché Eastwood rielabora generi, archetipi e stereotipi del suo stesso cinema, perché fantasmatizza le forme classiche? Una risposta possibile riguarda proprio la volontà e il coraggio di raccontare delle contraddizioni, delle dinamiche morali non lineari, non univoche. Il personaggio di Kowalski, e cioè il personaggio eastwoodiano (e il film inizia con un primo piano-icona assai eloquente), che pure nel percorso narrativo del film conosce un’evoluzione positiva (va incontro all’altro, mette in discussione le proprie certezze razziste), resta in qualche modo quello del giustiziere, sia pure attraverso un ribaltamento clamoroso e un’autocondanna (a morte), ma la via che sceglie è ancora quella di uno scontro violento – anche se significativamente non sarà lui a sparare –, di una sfida, un duello, una resa dei conti. Il film non è banalmente buonista, come alcuni hanno sostenuto. Il sacrificio di Kowalski è più complesso di quanto possa suggerire la chiave cristologica sottolineata da molti (ripresa anche iconograficamente nella posizione in cui lo si vede morto, a braccia spalancate, abbattuto dalla raffica di proiettili). Si potrebbe anche dire che, più che a un sacrificio, la morte di Kowalski corrisponde a un suicidio, al suicidio, tra l’altro, di un uomo malato, già condannato (viene in mente, come possibile reminiscenza, The Shootist, Il pistolero, 1976, dell’amico Don Siegel, regista di Callaghan). La resa del giustiziere? Può essere, ma in ogni caso questa morte, e questa modalità specifica, lasciano aperte più interpretazioni, più interrogativi. È possibile affermare che «giocando con il bagaglio simbolico di atti e personaggi del proprio passato Eastwood radicalizza la svolta morale del suo cinema recente, ripensando il topos della vendetta e designando gli eredi di un’America perduta» 25. Ma non solo il personaggio di Kowalski – attraverso questo bagaglio simbolico e attraverso tutte le modalità (comiche, drammatiche ecc.) con cui è stato tratteggiato nel film – resta difficile da valutare in termini etici, ma anche l’eredità che lascia è tutta da interpretare. Il film termina sulle immagini di Thao che, liberato dal gesto “sacrificale” di Walt, guida la Gran Torino che quest’ultimo gli ha lasciato. Ma cosa accadrà dopo, questo è tutto da vedere; la società che il film ci ha mostrato rimane quella. Il gesto dell’“eroe” certamente non è in grado di migliorarla e quello stesso gesto, pur nobile, fa riferimento a uno schema discutibile e discusso per tutto il film. In questo senso, si sospende il giudizio, non vi è risoluzione, non si propone un’etica vincente, forse in modi anche più radicali e ambigui dei film precedenti. Più il gesto di Kowalski è forte (drammatico, melodrammatico o tragico che sia), e commovente, più risulta complesso da interpretare e giudicare. Il ritorno dello stesso Eastwood a interpretare e reinterpretare il suo personaggio, mettendo in gioco
la propria e reale fisicità invecchiata, vulnerabile (e irresistibile), spinge l’identificazione dello spettatore, che dovrà però fare i conti con la dimensione etica contraddittoria e ambigua che gli è stata proposta. Forzando il contratto classico, o smontandone le convenzioni, ancora e più sottilmente che altrove. CINQUE FILM. UN PERCORSO POSSIBILE
Più di trenta film, si diceva in apertura, collocati in un arco cronologico di quasi quarant’anni (tra l’esordio alla regia di una personalità nota come star di film altrui e la consacrazione come autore), che ha via via compreso generi e temi diversi, pur nella riconoscibilità di un percorso registico di crescente coerenza, spesso legato anche alla propria presenza attoriale. Non è semplice muoversi all’interno della filmografia di Eastwood, pur così compatta, almeno in apparenza, almeno nel suo complesso. Limitandosi all’analisi di cinque film, l’impostazione del presente volume sceglie alcuni momenti privilegiati di questo percorso, senza la pretesa, né l’intenzione, di riassumerlo o di esaurirne la complessità. Piuttosto, l’ottica è quella di fornire una serie di analisi, metodologicamente strutturate e articolate, di alcuni film chiave, con la consapevolezza della parzialità dell’operazione, ma anche con l’idea che i cinque prelievi possano costituire altrettanti focus esemplari all’interno dell’opera eastwoodiana. La scelta dei titoli non si basa su ragioni di tipo valutativo (del genere, i cinque capolavori), quanto piuttosto su una logica complessiva di rispettive specificità di ciascuno di questi film, nell’aprire a una serie di questioni e ragioni dell’opera eastwoodiana rispetto a cui possano funzionare esemplarmente. Una logica anche di reciprocità e, si potrebbe dire, di complementarità tra essi, nell’intento di disegnare una mappa più generale, utile per un’introduzione più complessiva al senso del cinema di Eastwood, dandone per scontata una conoscenza di base. La scelta ha poi seguito pure un criterio preciso rispetto alla cronologia. Anziché muoversi sull’intero arco cronologico, nell’ottica di ripercorrerlo a tappe oggettive, dall’inizio degli anni settanta a oggi, ha piuttosto privilegiato gli ultimi vent’anni, restringendo lo sguardo in modo mirato, ma anche tenendo conto dei molti rimandi e collegamenti dei film che stanno tra il 1985 di Pale Rider e il 2004 di Million Dollar Baby con le opere precedenti, spesso chiamate in causa e rievocate nelle analisi proposte (con il recupero del film più recente in sede di introduzione). Le questioni che i diversi film analizzati mettono in gioco riguardano quei nodi chiave del cinema eastwoodiano che si sono rievocati nelle pagine precedenti. Il rapporto con i generi, e con il genere western in particolare, tra revisioni, arcaismi, ripensamenti e ibridazioni, a partire da Pale Rider e Unforgiven; la questione della scrittura eastwoodiana in riferimento alla classicità, in tutti i film analizzati, e in modo più esplicito in A Perfect World e Mystic River, lo sguardo sull’America, sulla storia e sull’identità americana, così come sulla società contemporanea (per esempio in Million Dollar Baby), il coraggio della proposta di interrogativi morali e visioni ideologiche spesso complesse, contraddittorie e ambigue, come tutti i saggi qui compresi sottolineano. Insieme a una serie di temi e motivi narrativi (dal rapporto padri/figli al topos dell’innocenza perduta ecc.), che le singole analisi mettono in luce. L’analisi di Pale Rider, proposta da Pollone, in particolare, avvia la riflessione del rapporto del regista con i generi, e con il western nella fattispecie, notando come il film interiorizzi la storia del cinema western riproponendola in modo quasi subliminale. Il
discorso sul rapporto con il western e i generi viene poi ripreso da Pescatore a proposito di Unforgiven, mettendo in evidenza la dimensione fantasmagorica del film, e la natura spettrale dei personaggi, in un approccio revisionista e arcaista che chiama in causa più le strutture preclassiche del western che non quelle classiche, e in una costruzione ad antitesi del film che contribuisce a smontare il luogo comune della classicità semplice di Eastwood. I saggi di Buccheri e Carluccio, rispettivamente su A Perfect World e Mystic River, consentono di affrontare tale questione in rapporto all’utilizzo antifrastico e talvolta ironico delle forme classiche da parte del regista, interrogandosi, in modi differenti e complementari, su una possibile sistemazione dell’approccio eastwoodiano nel contesto del cinema statunitense contemporaneo, in riferimento alle problematiche di definizione stilistica di questo. Entrambi i film poi sono analizzati anche dal punto di vista della riflessione di Eastwood sulla storia e sull’identità americana, in riferimento all’era kennedyana, nel primo film, e a quel lato oscuro del sogno americano che racconta l’altra America di Mystic River. L’analisi di Manzoli richiama in Million Dollar Baby la capacità di Eastwood di convocare riferimenti ai generi e ai miti culturali dell’immaginario americano (oltre che alla propria, personale filmografia, da Bronco Billy, 1980 a Honkytonk Man, 1982) e la sensibilità nel tratteggiare personaggi ai margini, figure di paria della società, in costante dialettica, nel suo cinema, con le figure degli eroi contraddittori che vi si incontrano. In sostanza, le cinque analisi muovono su un’articolazione comune, pur condotta metodologicamente e “stilisticamente” in modi differenti, tesa a ripercorrere questioni di forma e strutture narrative (regia, scrittura filmica, generi) nell’incrocio con le spinte tematiche e simboliche dei singoli film, incrociando la dimensione autoriale di Eastwood con quella della storia del cinema statunitense degli ultimi decenni. Un ringraziamento sentito a Silvio Alovisio per l’aiuto offerto, a Riccardo Fassone e Andrea Mattacheo per alcune integrazioni bibliografiche e filmografiche, e ad Alberto Baracco per il contributo iconografico.
Il cavaliere pallido di Matteo Pollone
La parola angelo si riferisce a una funzione, non a una forma. Poiché essi sono sempre spiriti, ma vengono chiamati angeli quando si manifestano. SANT’ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae
DA «SHANE» A «PALE RIDER»
Fin dal montaggio alternato della prima sequenza, Pale Rider, undicesimo lungometraggio diretto da Eastwood e undicesimo western da lui interpretato, si dimostra un’opera segnata da una duplicità dimensionale che lo allontana dalle precedenti regie western (High Plains Drifter, 1973 e The Outlaw Josey Wales, 1976) e contemporaneamente lo avvicina alla complessità di Unforgiven (1992), nel quale Eastwood sembra riunire e intrecciare i diversi approcci sperimentati nella lunghissima frequentazione del genere fin dalle prime prove attoriali. Uscito nel medesimo anno, il 1985, di quello che è forse il western paradigmatico degli anni ottanta, Silverado di Lawrence Kasdan, Pale Rider sembra anch’esso riflettere su un genere oramai estinto, consapevole di compiere un’operazione di recupero fuori tempo massimo, in un decennio nel quale le frontiere sono state già varcate tutte e il western, dopo le revisioni operate negli anni settanta, si è avviato a un declino inevitabile. Lo fa, però, senza l’approccio citazionista del film di Kasdan e più in generale del cinema americano degli anni ottanta. Prima di tutto, il film di Eastwood non è un compendio di quelle situazioni, luoghi e figure topiche caratteristiche del periodo, né si percepisce in esso quella «profonda nostalgia di un centro, […] profonda nostalgia del classico» 1 che secondo De Vincenti è una delle caratteristiche del postmoderno. Il rapporto di Eastwood con il cinema classico, specie western, rimane a livello di fonte prima che di citazione, tanto che proprio da questo film Eastwood sembra rapportarsi in maniera molto diversa con il passato, emancipandosi di fatto dai vezzi tipici di uno stile maturato negli anni settanta e raggiungendo quell’austerità che gli farà guadagnare l’appellativo spesso abusato di “ultimo dei classici”. La struttura del film è in apparenza estremamente lineare, costruita sulla falsariga di quello che Will Wright chiama «The classical Western», «the story of the lone stranger who rides into a troubled town and cleans it up, winning the respect of the townsfolk and the love of the schoolmarm» 2. Nonostante ciò, Pale Rider risulta alla fine un’opera spiazzante, rarefatta, che, come molti hanno notato, interiorizza e fa propria la storia del cinema western riproponendola quasi in modo subliminale 3. Ciò è possibile in quanto l’adesione ai modelli avviene sotterraneamente, innestata su una struttura narrativa che si rifà apertamente al film Shane di George Stevens, datato 1953, che già rappresenta, secondo Bazin, un primo esempio di western autoconsapevole 4. La trama dei due film è praticamente la stessa: un uomo (nel caso di Pale Rider un predicatore) arriva in una piccola comunità minacciata da un possidente che vorrebbe cacciare gli abitanti dal posto in cui essi legittimamente vivono e lavorano per poterne sfruttare la terra. Lo straniero è ospite di un nucleo familiare (in Pale Rider tale nucleo è in formazione, essendo Hull, l’uomo che ospita il predicatore, non ancora sposato con Sarah, che ha avuto la figlia Megan da un precedente matrimonio), e attira su di sé
l’amore della moglie (in Shane questo è ovviamente molto più velato che in Pale Rider 5) e l’ammirazione del figlio (in questo caso – è forse la differenza più significativa – il giovane è una ragazza, anch’essa innamorata del predicatore). L’uomo lavora e vive per un certo periodo con la comunità (in particolare si lega al padrone di casa aiutandolo a portare a termine un compito decisamente difficile: nel caso di Shane è liberarsi di un’ingombrante radice, in quello di Pale Rider è spaccare una grossa roccia), aiutando gli oppressi a resistere alle angherie dei persecutori, fino a quando non viene chiamato un pistolero da fuori perché regoli i conti una volta per tutte. Dopo la morte di un innocente, il protagonista decide di intervenire e scendere in paese a fare giustizia. Può contare sull’aiuto di un avversario già precedentemente sconfitto (il cowboy Chris interpretato da Ben Johnson in Shane, l’altissimo minatore interpretato da Richard Kiel in Pale Rider). Lo straniero deve liberarsi del suo amico, che vorrebbe seguirlo in città, per recarvisi da solo. Alla fine dello scontro, sia il pistolero prezzolato che il possidente muoiono, non solo grazie all’azione del protagonista (nel caso di Pale Rider, l’amico riesce a raggiungere il paese ed è lui a uccidere il secondo, nel caso di Shane è il bambino che arriva in tempo al saloon e ad avvertire lo straniero del pericolo). L’uomo si allontana subito dopo, verso le montagne, inseguito dalla voce del (della) giovane che gli ricorda che tutti, lì nella valle, gli vogliono bene. Oltre a tracciare la propria vicenda sulla falsariga di quella di Shane, Eastwood ne condivide l’approccio contemporaneamente astratto e realistico, non solo riproponendone la successione degli eventi, ma aggiornando intere scene, come quella dell’uccisione dell’innocente, che vede il pistolero in una posizione soprelevata, con le spalle a un edificio, fare fuoco sull’uomo sottostante facendolo stramazzare in mezzo alla strada. I momenti più significativi sono tuttavia alcune differenze che riguardano il trattamento delle figure femminili e che segnano in maniera netta la distanza tra i due film. C’è ovviamente la ricerca di un’identità da parte del personaggio più immaturo (Joe/Megan), che in Shane vede l’occasione di diventare un uomo (imparando l’uso delle armi), mentre nel predicatore la possibilità di diventare donna ed essere educata al sesso. Anche il desiderio della donna è indirizzato in maniera diversa. Come osserva Patrick McGee, «Marian is attracted to Shane because she recognizes in him the nomadic desire that her history with Joe has disavowed but not completely repressed» 6, mentre Sarah, poco prima di fare l’amore con il predicatore, gli dice chiaramente che ciò di cui lei ha bisogno è un uomo che rimanga lì con lei. A una risposta negativa del predicatore, la donna afferma che sposerà Hull. Un’importante differenza si ha invece nel momento in cui il cavaliere arriva di fronte alla casa in cui sarà ospitato. In entrambi i film viene avvistato dalla madre che sta alla finestra. Nel caso di Shane, la donna rimane confinata nella cornice [fig. 1], osservando la scena senza che il regista ci restituisca mai il suo punto di vista, mentre, come vedremo più nel dettaglio, nel film di Eastwood è proprio attraverso una sua soggettiva che si assiste all’ingresso del predicatore nell’accampamento [fig. 2]. Similmente, alla fine, laddove il film di Stevens si chiude con l’uscita di scena del personaggio, in Pale Rider, durante i titoli di coda, assistiamo a una nuova sparizione, ad alcune lente zoomate sui monti in cui il predicatore è scomparso, perdendosi infine nelle nubi. L’ENTRATA IN SCENA
Il protagonista di Pale Rider è l’ennesima variazione del vendicatore interpretato da Eastwood fin da Per un pugno di dollari, a cui si aggiunge quella componente quasi
sovrannaturale già presente in High Plains Drifter, nel quale il cavaliere senza nome entrava in scena e scompariva attraverso un effetto di fata morgana. Fin dall’ingresso del cavaliere pallido Eastwood ne sottolinea l’apparente natura spettrale e miracolosa. La presentazione del predicatore avviene in tre tempi, immediatamente dopo la sequenza iniziale del massacro a Carbon Canyon: Evocazione La giovane Megan si trova a dover seppellire il suo piccolo cane. Recita sulla tomba il Salmo 23, la classica preghiera che viene declamata nella tradizione protestante anglosassone ai funerali, e lo contraddice parzialmente 7. Mentre Megan lacera in un certo senso il testo biblico con le sue frasi, è lo stesso tessuto del film che sembra lacerarsi (in particolare sul passaggio più lugubre del salmo, dove si dice: «Yea, though I walk through the valley of the shadow of death I shall fear no evil»): un chiarore bianchissimo e un rombo cupo danno infatti l’impressione che la pellicola quasi si bruci [fig. 3]. Si tratta in realtà di una lenta dissolvenza, che mostra un cielo denso di nubi, tra le quali la luce si fa spazio e scende sul paesaggio sottostante, inquadrato da una lenta panoramica. Una nuova dissolvenza mostra ora la ragazza di spalle, significativamente come fosse osservata da qualcuno più in alto. La cinepresa accenna un lievissimo movimento in avanti e a scendere verso di lei, quando subito un’altra dissolvenza mostra di nuovo un paesaggio vuoto, inquadrato da una ripresa aerea. Il minaccioso rumore di tuono si ripete, mentre Megan evoca la bontà e la misericordia di Dio. L’impressione derivata dalle immagini non è però per nulla rassicurante. Il rimbombo del tuono ricorda da vicino quello del galoppo dei cavalieri che all’inizio della pellicola hanno fatto irruzione nell’accampamento, uccidendo il cagnolino della ragazza, che ritorna ora nuovamente visibile grazie a un’ulteriore dissolvenza, alla quale si sovrappone un’altra inquadratura, che va a sostituire quella della montagna sulle parole «if you exist». Come risposta a una richiesta di manifestazione, il paesaggio è ora occupato da un uomo, al galoppo su un cavallo bianco, che attraversa la valle innevata. Alla fine della preghiera non sarà più una dissolvenza, bensì uno stacco netto a presentarci più chiaramente il cavaliere: la natura fantasmatica dell’uomo, mostrato prima solamente in sovrapposizione alla ragazza, diventa ora realtà, la musica cessa in favore del rumore degli zoccoli del cavallo che si avvicina alla cinepresa. Azione L’incontro di Hull con il predicatore avviene nella parte centrale della sequenza, incorniciata dalla partenza di Hull che si allontana per fare spese e dal suo ritorno. In città, Hull viene provocato da alcuni degli uomini di LaHood. Il cavaliere, avvistato da uno di essi, sta fermo in fondo alla main street [fig. 4] per poi scomparire alla seconda occhiata. La scelta di fare del predicatore oggetto di sguardo e molto raramente soggetto è una soluzione che rafforza la natura estranea del personaggio, che altre volte nel corso del film apparirà da lontano, notato da altri personaggi, senza che vi sia mai un controcampo che ne mostri la soggettiva o la direzione di sguardo. La sua ricomparsa, pochi secondi dopo, avviene dal fuoricampo, quando solo le mani entrano nell’inquadratura, rovesciando sugli aggressori una secchiata d’acqua. In breve, neutralizza i quattro a bastonate, traslando quasi ironicamente sul bastone i meriti dell’impresa con la frase: «There’s nothing like a nice piece of hickory». Hull lo invita ad andare con lui a Carbon Canyon. Una volta arrivati all’insediamento, il dialogo tra Hull e l’amico che se ne va vede il predicatore in disparte sul margine destro dell’inquadratura.
Apparizione La giovane Megan, seduta al tavolo, sta leggendo ad alta voce la Bibbia alla madre. Le parole sono quelle dell’Apocalisse di Giovanni. Proprio sul passo in cui l’apertura del Quarto sigillo consente al narratore di vedere su un cavallo pallido il quarto cavaliere dell’Apocalisse, la Morte, il predicatore entra nel campo visivo della donna, incorniciato dalla finestra. Una volta che anche la ragazza lo vede, l’uomo non è più osservato attraverso la cornice della finestra ma inquadrato dal basso, con lo stesso cielo nuvoloso visto nel momento della sepoltura del cane sopra la testa. «…and Hell followed with him», conclude Megan. In questa breve scena l’articolazione degli sguardi è virtuosistica, a partire dalla mise en abîme data dal testo biblico (che peraltro comincia con la frase «and power was given to him that sat to take peace from the earth», riferita al secondo dei cavalieri dell’Apocalisse, la Guerra, ancora sulle immagini di Hull e del predicatore che si avviano all’accampamento), dove ricorre la frase «come and see» a ogni apparizione di uno dei quattro cavalieri. Nel momento in cui è l’entrata in scena del terzo cavaliere a essere descritta, un nitrito e l’abbaiare di un cane attirano l’attenzione della madre verso la finestra aperta. La soggettiva che ne segue è vuota, mostra la strada e un po’ di fumo che si alza sulla destra, sul margine della finestra. L’abbaiare del cane si fa però persistente e la donna si sposta per vedere meglio fuori. Ecco che una seconda soggettiva mostra il passaggio di Hull con il carro e l’entrata in campo del predicatore che si ferma, completamente visibile. Stacco su Megan che, dopo la parola «Death», alza lo sguardo verso la madre che ancora sta guardando fuori. Si ritorna sulla ragazza, gli occhi della quale passano da Sarah a ciò che ella guarda. Si alza, si porta alla finestra e in quel momento il cavaliere si volta di profilo. Le due donne sono ora inquadrate dall’esterno, con gli occhi fissi di lui. Il predicatore sembra voltarsi verso di loro, per poi riprendere il passo e uscire di campo. Stacco sulle due donne che lo guardano allontanarsi. A queste tre fasi della presentazione va aggiunto l’inizio della sequenza successiva, che si apre con l’inquadratura di un armadio senza l’anta, in assenza di qualsiasi soggetto umano in campo. Da sinistra entra poi Hull, che prende un asciugamano e ritorna sui suoi passi, seguito da una panoramica. Il movimento scopre il predicatore chino su una tinozza, intento a lavarsi. A quel punto la panoramica si arresta e Hull esce di scena. Uno stacco ci mostra Hull, sulla soglia, voltarsi. La sua soggettiva sulla schiena del predicatore svela cinque fori di proiettile cicatrizzati, visione sottolineata da un accenno musicale. Il controcampo ritorna nuovamente sul padrone di casa che, visibilmente imbarazzato, distoglie lo sguardo e annuncia che la cena sarà pronta a breve, chiudendo la porta dietro di sé. L’inquadratura prima identificata come soggettiva ritorna, il predicatore sente delle voci fuori dalla finestra e guarda in quella direzione. Una soggettiva, questa volta sua, mostra Sarah e la figlia Megan passare di fronte alla finestra dirette verso l’ingresso della casa. Uno stacco ritorna per la terza volta sulla schiena, poi un cambio di fuoco mostra il volto del predicatore allo specchio, come comparisse dal buio. Com’è chiaro specialmente dalla seconda sequenza, per tutta la prima parte del film Eastwood attua quella che si può definire una marginalizzazione del personaggio all’interno dell’inquadratura. Il cavaliere, pur rappresentando una novità all’interno dell’accampamento e venendo quindi spesso fatto oggetto di sguardo, rimane il più delle volte discosto rispetto a Hull o agli altri membri della piccola comunità. Non essendo il suo ruolo ancora definito, egli non è altro che un ospite che assiste allo svolgersi degli eventi trovandosi di fatto nella medesima situazione di Hull e dei suoi
concittadini. In generale, soggettive o semisoggettive del cavaliere si avranno quando egli è con altri personaggi e ne condivide quindi il punto di vista. Succede al fiume, mentre Club si avvicina (in questo caso ciò che vedono il predicatore e Hull coincide), o in paese, quando significativamente il predicatore è lasciato da Hull sul carro assieme a Sarah e Megan, ed è la ragazza ad attirarne l’attenzione su ciò che lei ha già visto e a cui lo spettatore ha assistito attraverso una soggettiva. Dall’abitazione di LaHood escono infatti il figlio, Josh, e alcuni suoi sgherri. Megan dice solo: «Look», l’uomo si volta, guarda la ragazza, ne segue la direzione di sguardo e si assiste alla medesima soggettiva di prima, ovvero a quella della giovane, in quanto il punto di vista del predicatore è decisamente più elevato essendo lui a cassetta del calesse [fig. 5]. L’entrata in scena del protagonista non solo lo caratterizza come un sopravvissuto o una sorta di spettro, un morto ritornato in vita per chissà quale motivo, ma su un altro piano sottolinea come Eastwood rifiuti esplicitamente i meccanismi di identificazione del pubblico 8, portando all’estremo la componente mitica e distanziata del suo personaggio, come prima aveva in parte tentato solo in due occasioni, non a caso tra le più felici della sua carriera, vale a dire in Bronco Billy e Honkytonk Man. Non solo il personaggio non è veicolo di informazioni e sensazioni (in questo film in particolare, la recitazione di Eastwood evita ogni tipo di sfumatura, dando al predicatore una maschera impassibile che s’incrinerà solo alle avance della giovane Megan), ma neppure di sguardo e azione. Eastwood arriva a fare di se stesso una figura la cui astrazione è totale, portando al massimo un processo di depsicologizzazione funzionale al mistero che circonda la venuta del cavaliere, figura a metà tra il divino e il terreno. Rifiutando l’identificazione secondaria con il protagonista, senza peraltro farla ricadere su nessun altro dei personaggi, Eastwood costruisce un film corale nel vero senso della parola, nel quale molti sono i punti di vista (divisi tranquillamente tra “buoni” e “cattivi”) e quasi uno solo è oggetto di sguardo: appunto il predicatore, che finisce per rimanere estraneo anche a livello percettivo fino alla fine del film. IL DOPPIO CONFLITTO
La figura dello sceriffo Stockburn, apparentemente collegata al predicatore da uno scontro passato, sembra anch’essa uscita da un mondo altro rispetto a quello del film. Il filo rosso che collega i due è evidente nel momento della chiamata di Stockburn attraverso il telegrafo. Il cavaliere osserva infatti l’ufficio postale della stazione poco prima che un treno ne celi la vista all’impiegato incaricato di spedire il telegramma. Uno stacco ci porta al luogo dove il segnale viene ricevuto, un altro ufficio postale che dà su una città, s’intuisce, di grandi dimensioni. Il funzionario che ha appena trascritto il testo si alza ed esce in strada, fino a una porta sulla quale campeggia l’insegna «Yuba City, Cal. Pop 2301» e sotto «Marshal», e si appresta a bussare. Stacco. La mano che batte a una porta non è quella dell’impiegato ma quella di Hull che cerca il predicatore. Non solo questo raccordo di montaggio mette quindi direttamente in relazione i due personaggi (peraltro senza mostrarli: non si assiste all’ingresso nell’ufficio di Stockburn, mentre Hull trova vuota la capanna del predicatore), ma le tre inquadrature che mostrano Yuba City sono talmente avulse dal contesto spaziale del film che veramente sembrano un mondo “altro”. Stockburn viene quindi da fuori, come il predicatore, tanto che per affrontarlo anch’egli dovrà “uscire”, recarsi in un’altra città, della quale vediamo uno scorcio, per recuperare la sua pistola, lasciata in deposito presso una banca. E, come il predicatore, anche Stockburn entra in scena cavalcando
sulla neve, con il cielo nuvoloso e le montagne sullo sfondo. La grande differenza è che, se il primo entra in scena e agisce solo, il secondo è accompagnato da sei uomini, taciturni e vestiti, come lui, con lunghi cappotti chiari, che appaiono ancora più spettrali del loro capo e del suo antagonista. Questi vicesceriffi sembrano a tutti gli effetti un’emanazione dello stesso Stockburn (sei come i proiettili in un tamburo), tanto che, se non sono in disparte nell’ombra, si dispongono simmetricamente ai lati del loro capo, come le ali di uno spaventoso demone [fig. 6]. Se LaHood è l’antagonista principale della vicenda, è lo scontro con Stockburn quello decisivo per il predicatore e per il pubblico. Non stupisce, allora, che Eastwood e i suoi sceneggiatori decidano che sia Hull a uccidere il ricco profittatore, in quanto nel film assistiamo a due conflitti su due livelli diversi: quello tra il predicatore e Stockburn, posto fuori dal tempo, il duello mitico, archetipico, che si ripropone come in un ciclo infinito, e quello tra gli abitanti di Carbon Canyon e LaHood, la battaglia del quotidiano, legata al qui e all’oggi. Sembra assurdo, difatti, che LaHood, una volta chiamato lo sceriffo, decida di prosciugare il torrente ai suoi avversari. È una mossa che avrebbe potuto fare prima o eventualmente dopo, nel caso Stockburn avesse fallito. Ma tale azione rende bene l’idea di come le due battaglie si combattano, in fondo, separate. La duplicità del personaggio è infatti la duplicità dell’intero film, che vive su un livello astratto, sospeso nel tempo e nel mito, nutrendosi della storia del cinema western e dei modelli da essa forgiati, ma anche e soprattutto su un realismo d’ambientazione e una cura del dettaglio minuziosissimi, frutto di molte ricerche compiute da Butler e Shryack attorno alla California Gold Rush 9. L’eccezionalità della figura del predicatore non può quindi che opporsi alla ricostruzione verosimile della vita dei cercatori d’oro. Significativamente, quando non è in disparte egli è in opposizione al gruppo, come nella scena notturna in cui gli uomini devono decidere se accettare la proposta di riscatto delle concessioni fatta loro da LaHood. Tutti sono accovacciati attorno al fuoco e discutono animatamente. Il predicatore compare dal buio, figura isolata che contrasta con il cerchio formato dai suoi interlocutori. Il campo-controcampo in cui la scena è strutturata mostra sempre l’alternanza tra gruppo (o una porzione di esso) e straniero, anche perché egli sta spiegando loro alcuni dettagli su LaHood e Stockburn, senza però voler interferire nella loro decisione. In maniera del tutto simile, un raggruppamento di cercatori si raccoglie, in una scena successiva, attorno al carro su cui giace uno di loro, massacrato dagli uomini dello sceriffo. In questo momento, le parti sono invertite. Spetta all’uomo prendere una decisione, mentre la piccola comunità si stringe impaurita attorno al morto. Di nuovo la dialettica campo-controcampo è quella tra uomo e gruppo, con la parziale eccezione che l’elemento in più, il cadavere appunto, sta su un carro che fornisce una sorta di parapetto lungo il quale sono disposti coloro che lo piangono. Il fondo del carro, aperto, consente di direzionare lo sguardo dritto sul predicatore, che sta al centro dell’inquadratura [fig. 7]. È un momento molto intenso, perché dopo una serie di controcampi in cui gli occhi dei cercatori sono rivolti di poco a lato della cinepresa, improvvisamente, dopo un primo piano di Eastwood che osserva in silenzio le persone ammassate di fronte a lui, una panoramica traballante ci mostra direttamente ciò che sta guardando, suggellando ciò che dirà poco dopo, ovvero che solamente rimanendo uniti potranno cavarsela. Lui, il cavaliere, agisce solo, per questo non può fare parte di quel gruppo. Come Josey Wales prima di lui, e come molti altri protagonisti dei film western classici americani (si pensi a The Searchers, Sentieri selvaggi, 1956, John Ford), il predicatore rafforza attorno alla sua presenza una piccola comunità, senza poterne però fare parte. La sua funzione è quella di solidificare un
gruppo e di liberarlo dal Male, indicando la strada da seguire. Fatto questo, la sua missione è compiuta. A incrinare la distanza mitica del cavaliere dal contesto quotidiano in cui si muovono i cercatori d’oro sono però Megan e la madre, entrambe affascinate dallo straniero. La scena in cui la giovane ragazza cerca di sedurre il predicatore tra gli alberi, di notte, avviene sul luogo in cui Megan ha pregato per un miracolo, la tomba del suo cane 10. C’è qualcosa appunto di sacro in questa scena, nonostante essa si concluda con un rifiuto del predicatore alle avance di Megan, in quanto il loro è «un rapporto senza soluzione e senza speranza perché Preacher non può fermarsi e in fondo esiste solo nella mente di quanti hanno bisogno della sua forza» 11. Tale momento, quindi, se da un lato, attraverso le esitazioni del predicatore, ne sottolinea la natura umana, dall’altro ne ribadisce quella ultraterrena, stabilendo «l’impossibilità di essere e di amare da parte di Preacher al di fuori della propria missione» 12. Molto più pragmatico è invece il confronto con Sarah, la notte che precede la sparatoria. Se la scena con Megan aveva un tono lirico dato dalla luce della luna tra gli alberi, questa, nella stanza del predicatore, non ha nulla di elegiaco. Sarah è una donna concreta, come si è visto nel momento in cui il predicatore compare per la prima volta alla sua finestra: la ragazza legge la Bibbia, la donna la interrompe imponendole di darle una mano in cucina. Similmente, i due dialoghi con l’oggetto del loro desiderio sono all’insegna il primo di un amore illimitato e ingenuo, il secondo di un sentimento di stabilità e sicurezza. Durante il colloquio con Sarah, la voce di Stockburn («a voice from the Past», dice il predicatore) si sente improvvisamente rimbombare nella valle, come se richiamasse lo straniero ai suoi doveri, alla sua missione, come se gli ricordasse di non mischiarsi con gli uomini che l’hanno ospitato. Alla domanda della donna che gli chiede chi egli sia realmente, il predicatore risponde: «It really doesn’t matter, does it?». La donna rinuncia a capire, risponde «No» e gli si avvicina. La luce della capanna inquadrata dall’alto si spegne. Accettando di non capire, di non volerlo tenere con sé, Sarah riesce a farsi amare, anche se solo per una notte, dal predicatore. Che il cavaliere sia una sorta di emissario del cielo lo può confermare anche un’altra inquadratura importante, una delle pochissime soggettive dell’uomo. Succede quando per la prima volta si reca nella zona in cui potentissimi getti d’acqua stanno sgretolando la montagna. Lo sguardo del predicatore è durissimo, la bocca piegata in una smorfia di disgusto. È la stessa Megan a sottolineare come il posto assomigli all’inferno. Si può ipotizzare in questo caso che la venuta del cavaliere pallido abbia anche la funzione di proteggere la natura: non a caso, dalle inquadrature già citate che Eastwood alterna alla preghiera di Megan sembra che una forza scaturisca dalla montagna stessa, fino a che il cavaliere non compare in campo lungo, con le cime innevate alle spalle. La stessa uscita di scena, alla fine del film, è verso i monti, ed è contro la parete di roccia che Megan grida il suo amore [fig. 8]. Come in Devil’s Doorway (Il passo del diavolo, 1950) di Anthony Mann, regista molto stimato da Eastwood, l’orizzonte non è mai sgombro: le cime cingono minacciose da ogni lato sia la città che l’accampamento, sottolineando l’impossibilità della fuga, il pericolo sempre imminente. Eppure, la montagna è la vita per i cercatori d’oro, la loro sola fonte di sostentamento. Offre non solo l’oro, ma uno spazio ideale per costruire una comunità che vive in sintonia con la natura, mentre la valle dove è situata la città è un pianoro spoglio, fangoso. La differenza tra gli uomini dell’accampamento e quelli di LaHood è in fondo questa: i primi vivono rispettando la montagna, i secondi sfruttandola e distruggendola. È naturale che il predicatore si schieri con i primi, come è naturale che
all’ennesimo atto di violenza, l’esplosione che sbarra il torrente che attraversa Carbon Canyon, il predicatore risponda con un gesto uguale, distruggendo con la dinamite la miniera di LaHood, rischiando però di venire ucciso da Josh. Il fatto che Eastwood scelga di inserire una scena in cui il predicatore rischia seriamente la vita (allo straniero di High Plains Drifter non succede mai) riporta il personaggio a una statura umana, aumentando l’ambiguità e la duplicità irrisolta della figura del protagonista nel momento in cui la stessa situazione si ripete a pochi minuti dalla fine, quando è Hull a salvare l’amico dal fucile già puntato di LaHood. In fondo, è valida anche l’interpretazione razionale dei pochi elementi sulla vita del predicatore distillati nel corso del film. Quando l’uomo recupera da una cassetta di sicurezza le pistole, si può immaginare la storia di un pistolero che, a seguito di uno scontro con lo sceriffo Stockburn e i suoi uomini, viene lasciato per morto. Cinque proiettili hanno infatti attraversato il suo corpo. Miracolosamente sopravvissuto allo scontro, decide di abbandonare la vita condotta fino a quel momento e dedicarla a Dio, probabilmente ritenuto il responsabile della sua prodigiosa salvezza. Ma, imbattendosi nuovamente in Stockburn, accantona il colletto da prete e impugna di nuovo le pistole per chiudere i conti una volta per tutte. In questo senso, con il proiettile sparato in testa all’avversario al termine del duello finale, il predicatore sembra volersi assicurare che lo sceriffo non sopravviva alle ferite come è successo a lui 13. IL DUELLO FINALE
Tutto ciò che si è detto finora trova ulteriore conferma nell’esemplare scena dello scontro finale. La lunga sequenza incomincia con l’entrata in paese del cavaliere, subito spiato da dietro le finestre da LaHood e Stockburn. Lo sceriffo ha bisogno di vedere il predicatore per scoprire se è l’uomo che crede morto. Il cavaliere passa quindi di fronte alla finestra, e due inquadrature ce lo mostrano prima dall’interno dell’edificio e poi dall’esterno, riflesso sui vetri. Quest’ultima immagine è particolarmente significativa, in quanto il piano fisso della finestra nella quale sono incorniciati LaHood e Stockburn viene per un momento oscurato dal passaggio del cavallo del predicatore, che compare subito dopo sul vetro, sdoppiandosi in una sorta di immagine spettrale che si sovrappone a quella dei due uomini che lo stanno guardando [fig. 9]. Il potenziale controcampo non restituisce quindi lo sguardo del predicatore sui suoi avversari, al contrario ne ribalta la presenza su di loro ribadendo una direzione univoca di osservazione. Come dopo pochi minuti il film dimostrerà, chi ha bisogno di guardare e di riconoscere uscirà sconfitto dallo scontro. Dopo la battuta di Stockburn: «Can’t see his face from here», l’inquadratura successiva, un carrello a precedere, mostra alcuni degli sgherri di LaHood guardare in macchina stupiti. La posizione della cinepresa è grossomodo all’altezza di un uomo a cavallo, ovviamente il predicatore che sta entrando nel centro del paese. Ma con lo stacco successivo vediamo come gli sguardi in macchina non siano in realtà una soggettiva: il predicatore guarda infatti di fronte a sé, tanto che l’inquadratura dopo torna sugli uomini che ancora fissano la camera, ma con il carrello che si allontana da loro fino lentamente ad arrestarsi. Questa sorta di soggettiva impossibile sembra estromettere del tutto il personaggio dal tessuto stesso del film, come se egli non rispondesse più nemmeno alle normali regole della narrazione per immagini. A rafforzare questa impressione sono le inquadrature viste poco dopo l’inizio del film, nella scena in cui Hull si allontana dall’accampamento, dove agli sguardi in macchina che gli amici gli rivolgono corrisponde sempre una
controsoggettiva dell’uomo sul calesse. In questo caso, invece, gli sguardi in macchina sembrano cadere nel vuoto e il cavaliere, impassibile, respinge qualsiasi tipo di intermediazione spettatoriale. Il personaggio prosegue il suo ingresso nel paese attirando altri sguardi, riflettendosi su altre finestre attraverso le quali gli abitanti lo osservano. Fuori campo scende da cavallo, per ritornare a passare di fronte a LaHood e Stockburn a piedi ed entrare nell’emporio. Le teste degli uomini di LaHood si muovono a sincrono seguendone lo spostamento, fino a quando il predicatore non sparisce nel locale, dove ordina un caffè e si siede spalle alla porta. Gli uomini di LaHood, che hanno osservato increduli le mosse dell’uomo, si avvicinano al vetro per vedere attraverso di esso il predicatore sorseggiare il caffè. Ancora una soggettiva che si rivela fallace: quando entrano armi in pugno alla porta e fanno fuoco, l’uomo non si trova più al suo posto. La scena è però risolta in maniera del tutto insolita: gli uomini irrompono dentro lo stanzone e sparano all’impazzata, fino a quando il predicatore non compare al loro fianco. La cosa strana è che nessuno sembra rendersi conto che l’uomo non è più seduto al suo posto, come se fossero stregati da un’illusione ottica. Questo errore di valutazione risulta ovviamente fatale a gran parte degli sgherri, consentendo al predicatore di uscire dalla porta, passare per la terza volta di fronte a LaHood e Stockburn, fermarsi nel mezzo della main street e attendere ricaricando la Remington 1858 14. Così come prima, basta che Stockburn e i suoi secondi perdano di vista per un momento il predicatore che questi, di nuovo, sparisce, lasciando solo il cappello al suo posto. Come scrive Giampiero Frasca, inizia così una caccia all’interno del paese contrassegnata «da una dialettica quasi ectoplasmica tra assenza e presenza, tra soggettive degli avversari che richiamano l’eroe per metonimia (il cappello a cilindro poggiato in terra, al centro della strada, che contemporaneamente ne evoca l’esistenza e ne segnala la minacciosa mancanza) e azione dello stesso eroe sfruttando l’invisibilità del margine dell’inquadratura e del Fuoricampo, giungendo a liberarsi dei nemici tre volte colpendoli dai margini dell’inquadratura senza comparire, una volta completamente fuori dalla visibilità dell’inquadratura e un’altra emergendo improvvisamente dal Fuoricampo scenografico (da dietro delle botti e uccidendo due uomini)» 15. Eliminati i sei pistoleri, nuovamente il predicatore si ripresenta di fronte a Stockburn, nella posizione precedentemente occupata al fondo della main street. La circolarità dell’azione è sottolineata dal fatto che l’ultima vittima, uccisa all’interno di una stalla e legata a un cavallo al galoppo, passa proprio a fianco dello sceriffo, che si volta a guardarla. In quel momento, il predicatore raccoglie il cappello da terra. Dopo essersi negato allo sguardo degli uomini di Stockburn, lo straniero cerca invece quello del suo avversario. Sotto gli occhi di LaHood e di una donna che, spaventata, esce di casa, il predicatore avanza verso l’uomo che ucciderà, per fare in modo che questi lo possa riconoscere. Nelle ventuno inquadrature che mostrano l’avvicinarsi del predicatore a Stockburn, Eastwood si permette di contraddire le regole del classico duello, spezzando anche la progressione dei piani che non si fanno, come in Leone, sempre più stretti via via che il momento delle revolverate si avvicina (non vi è, del resto, l’enfasi dei duelli del regista italiano, dove grande importanza hanno i movimenti degli occhi, che in questo caso sono velati dall’ombra della tesa del cappello, quelli del predicatore, e fissi al volto dell’avversario, quelli di Stockburn). Il momento del riconoscimento avviene, e Stockburn non può che perire, attraversato dai cinque colpi che presumibilmente il predicatore ha ricevuto proprio da lui, anni prima, più uno in testa, che lo fredda.
In conclusione, Pale Rider è un film solo all’apparenza lineare, che vive in realtà di opposizioni, raddoppiamenti e conflitti calati all’interno di una rappresentazione iperrealista, sulla quale è a sua volta innestato un modello originario estremamente stilizzato. Proprio questa tensione interna al film, la convivenza di due poli apparentemente in conflitto, lo allontana dal cinema mainstream dell’epoca, che attraverso la frammentazione postmoderna costruiva però opere organiche e concluse in se stesse. Alla rassicurante pratica della citazione, Eastwood oppone l’evocazione di un’alterità, alla volontà enciclopedica una archetipica. Il suo fantasma è appunto solo un fantasma, un’ombra, e come tale si presenta: senza pretese di reinvenzione o, peggio, di resurrezione.
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Gli spietati di Guglielmo Pescatore Quando Clint Eastwood inizia la lavorazione degli spietati (Unforgiven, 1992) la sua carriera è per molti versi in bilico tra più opzioni: regista di genere da un lato, legato alla tipologia di personaggio che gli ha dato la notorietà come attore; autore di film personali, lontani dalla produzione comune hollywoodiana e con una cifra stilistica ben riconoscibile dall’altro, secondo la lettura di molta parte della critica europea 1. Col senno di poi si può dire che questa apparenza ambigua è figlia più di una preoccupazione della critica, faticosamente intenta a ritrovare le stimmate dell’autore canonico, che non del regista californiano, per il quale un certo eclettismo e la capacità di bazzicare generi diversi sono doti naturali, come lo erano per molti grandi del passato. È però vero che, all’epoca degli Spietati, per il grande pubblico l’attore Eastwood (quello di Dirty Harry) fa aggio sul regista di Bird (1988) o di Cacciatore bianco, cuore nero (White Hunter, Black Heart, 1990). E, in ogni modo, il film riflette felicemente questa ambiguità nei suoi caratteri contraddittori: film di genere a suo modo celebrativo del western e al contempo di revisione e svelamento del mito, riflessione critica sulla violenza e spettacolarizzazione dell’omicidio, ritorno alle origini del personaggio Eastwood e definitivo distacco (come indica la dedica finale a Leone e a Siegel). Dunque un film di svolta che segnerà la carriera di Eastwood e a dire il vero anche la storia del genere, ricavandosi uno spazio di peculiare equilibrio, di composizione tra forze centrifughe, di ritorno alle origini prima ancora che al classico, stretto tra la nuova epopea revisionista del precedente Balla coi lupi (Dances with Wolves, Kevin Kostner, 1990) e le bizzarrie postmoderniste del successivo Pronti a morire (The Quick and the Dead, Sam Raimi, 1995). Del resto la sceneggiatura degli Spietati, di David Webb Peoples, data al 1976 (con il titolo The William Munny Killings) ed è rimasta per quasi vent’anni in attesa del momento giusto nella carriera di Eastwood e nello sviluppo del western 2. La storia narrata dal film, ridotta alla sua struttura essenziale è assai semplice: un torto subito da un innocente e inflitto da un antieroe, un eroe riottoso che però accetta di intraprendere un viaggio riparatorio, il duello e la sconfitta dell’antieroe, la riparazione del torto. Come si vede, dal punto di vista della morfologia narrativa abbiamo a che fare con una struttura talmente classica e radicata nella mitologia che qualcuno ha addirittura potuto vedere in William Munny un Achille oramai stanco della guerra, che torna a impugnare le armi dopo l’uccisione di Patroclo (Ned) e uccide a sua volta Ettore (Little Bill) 3. Una lettura che ci pare del tutto fuorviante, e tuttavia anche imbarazzante, perché fondata su un evidente riscontro nella materia narrativa considerata nella sua organizzazione funzionale più astratta. Imbarazzo che è il frutto di una contraddizione: se da un lato il testo si presta assai facilmente a letture che chiamano in causa l’epos classico, piuttosto che le funzioni narrative proppiane o il viaggio archetipo dell’eroe di Campbell, appare altrettanto evidente quanto ogni lettura a carattere mitopoietico, pure apparentemente assai consona al genere western, appaia superficiale, poco calzante e alla fine ben poco sostenibile. REVISIONI E ARCAISMI
Il fatto è che una lettura in chiave narratologica presuppone una struttura organica del testo, ossia un’organizzazione in cui ogni parte di esso ha una relazione funzionale con
le altre e con la totalità della narrazione. In tal modo, segmenti testuali più o meno ampi possono essere riportati a funzioni narrative, così come abbiamo fatto riducendo la trama degli Spietati a una successione di stereotipi astratti. Tuttavia, un’analisi appena più attenta alle peculiarità del film mostra negli Spietati almeno quattro diversi piani di organizzazione del racconto. Innanzitutto una cornice (sia pur ridotta ai minimi termini) costituita solo dalla prima e dall’ultima inquadratura del film [fig. 1]. Un incipit e un excipit che, mentre ci forniscono alcune informazioni contestuali (coordinate spazio-temporali, indicazioni sul personaggio ecc.), attraverso l’uso della didascalia 4 tendono a sottolineare la sostanziale incongruità del narrato rispetto a ciò che lo precede (la carriera da brutale assassino di William Munny) e a ciò che lo segue (la fortuna nel commercio della famiglia Munny). L’incomprensione e lo stupore della signora Ansonia Feathers sono anche quelli dello spettatore, il quale fatica a decifrare fino in fondo il carattere e le motivazioni di Will Munny, difficilmente collocabili in un continuum causale e temporale, in una totalità organica quale può essere una biografia 5. Il film mette in luce proprio nella sua cornice un costrutto paradossale e un’organizzazione in antitesi dei temi e delle forme del genere western: ogni singolo elemento è incarnazione del genere, dalla figura del pistolero violento e assassino alla casa isolata in un territorio sconfinato e selvaggio, dall’amore paterno al ruolo salvifico della donna, che qui è quasi un fantasma della Clementine fordiana, e tuttavia ognuno di questi è in contraddizione con l’altro, né insieme si compongono in una storia western organica né tanto meno partecipano organicamente del mito. Vi è poi una linea narrativa che potremmo definire revisionista, relativa al viaggio [fig. 2] e alla missione di Munny, dall’arrivo di Kid Schofield (il giovane aspirante pistolero) all’uccisione dei due cowboy colpevoli di avere sfregiato una prostituta. Qui i topoi classici del genere vengono riletti alla luce di una revisione del mito western che si è andata sviluppando dagli anni sessanta in poi e da questo punto di vista, come è stato notato 6, Gli spietati appare dunque sia come un western ricapitolativo, e quindi un omaggio al genere soprattutto nelle sue manifestazioni autunnali, sia come una lettura critica e un rovesciamento delle sue mitologie. Qui si scivola lentamente dall’ironia e dal gusto parodico (Munny non riesce più a montare un cavallo che ha perso l’abitudine alla sella, Kid Schofield è quasi cieco ecc.) alla drammatica evidenza della pesantezza ripugnante e difficile da affrontare che è propria della violenza e della morte (soprattutto la bella sequenza della prima uccisione, su cui ritorneremo più avanti). Su questa linea si innestano tutte quelle letture che, con taglio sociologico, ritrovano nel film gli echi di una critica alla società americana di quegli anni, letture in verità almeno parzialmente autorizzate dallo stesso Eastwood, il quale ha spesso insistito sulla critica alla violenza, tirando in ballo anche l’affare Rodney King 7. Come poi questa visione critica, che indubbiamente nel film esiste al di là delle forzature, possa convivere col finale del film, una sorta di apoteosi dell’omicidio, è tutto da vedere. Ma, come si è detto, l’antitesi è poi la misura del film. Un ulteriore piano narrativo è relativo all’episodio di Bob l’inglese, del suo biografo W.W. Beauchamp e dello sceriffo Little Bill Daggett [fig. 3]. Chiameremo questa linea falsificante, in quanto il mito western in ogni sua manifestazione vi appare come un falso, opera di un falsario e suscettibile di smentita, in un relativismo che si approccia al gusto postmoderno. Ogni narrazione vale quanto qualunque altra, in una sorta di falso generalizzato, anche se in verità Eastwood si mantiene ben al di qua della linea oltre la quale il genere western si trasforma in pura figurazione. Qui il regista
californiano coniuga un certo gusto aneddotico per personaggi e situazioni “anormali”, nel senso di “fuori dalla norma” proprio del cinema leoniano, con la tendenza autoriflessiva e metalinguistica del tardo western [fig. 4]. Così, se Bob l’inglese tutto sommato non sfigurerebbe in C’era una volta il West (Sergio Leone, 1968), lo scrittore e biografo Beauchamp rimanda a quei personaggi – testimoni, cronisti, scrittori – fanatici costruttori e guardiani della mitologia western, che cominciano ad abitare il genere a partire da Furia selvaggia (The Left Handed Gun, Arthur Penn, 1958). Siamo ancora lontani dal gusto fumettistico di Pronti a morire, però la deriva del falso che viene denunciato e irriso solo per sostituirlo con un’altra narrazione e un’altra falsificazione 8 già preannuncia l’ascesa dell’inautentico e dell’arbitrario, l’affermarsi di un puro gioco di figurazioni: il sadico e arrogante Little Bill Daggett/Gene Hackman, ucciso da Will Munny/Eastwood, è pronto a fare la sua ricomparsa spettrale nel postwestern di Raimi. E tuttavia l’approccio relativista, secondo il quale a ogni smentita della mitologia western non può che corrispondere una nuova mistificazione, è ben lungi dall’essere la chiave di lettura del film, essendo in antitesi con la linea revisionista, che mira a ristabilire la verità dietro il mito, ma essendo anche smentito dalla sequenza finale: l’uccisione di Little Bill non è tanto la costituzione di un nuovo mito e una nuova menzogna, quanto la cancellazione di ogni menzogna e ogni mito 9. Will Munny incarna una forza che proviene da un altrove che preesiste al mito e a qualunque narrazione, forza attorno alla quale va a organizzarsi l’ultimo piano narrativo del film – quello relativo alla vendetta di Munny e alla straordinaria sequenza finale –, che chiameremo arcaico. Qui Eastwood scopre il carattere primigenio del genere, preclassico in quanto è radice e fondamento del classico. Quindi, se il resto del film può essere visto come un superamento del modello classico (revisione, superamento critico, demistificazione e affabulazione, poco importa in questa prospettiva), la sequenza finale appare una sorta di ritorno alle origini del genere, prima ancora della sua fissazione in un canone e una mitologia. Del genere, qui, Eastwood coglie il carattere profondo, la sua essenza naturale, quasi biologica. Mentre in quegli stessi anni alcuni registi tornano a raccontarci la storia della rana e dello scorpione 10, Eastwood mette in scena lo scorpione Munny: cosa spiega il suo comportamento? E da dove viene questa naturale capacità di uccidere? È nel suo carattere, è nel carattere del western. E non a caso la morte di Ned segna una sorta di rovesciamento nel film, non tanto dal punto di vista stilistico e figurativo, tutto sommato omogeneo e improntato alla stessa asciutta efficacia, quanto per quel che riguarda le azioni e i personaggi. Munny sembra uscire da quello stato catatonico in cui giace per buona parte del film e tutto ciò che prima sembrava difficile, faticoso e anche insopportabilmente colpevole (vedi la confessione di Kid Schofield dopo il secondo omicidio) diventa facile e naturale. Le uccisioni nel saloon non hanno niente della difficoltà e della pesantezza materiale e morale degli omicidi precedenti: sono pura azione la cui giustificazione non è tanto il desiderio di vendetta quanto la natura stessa di Will Munny e del western, finalmente ritrovato nella sua forma primitiva, che può fare a meno degli orpelli del mito e della messa in forma di ogni narrazione. Eastwood fa dunque appello a una “storia naturale” del genere, animata da forze primordiali che preesistono alla classicità e che arrivano fino a noi nella forma arcaica dello spettro 11, del revenant che ritorna da un passato ignoto e inconoscibile. UNA COSTRUZIONE IN ANTITESI
Per Gilles Deleuze la forma organica è in qualche modo l’essenza stessa del cinema americano, da Griffith in poi, e non a caso il cinema di genere viene compendiato nella varietà dell’immagine azione, forma organica per eccellenza in quanto garantisce una transitività circolare dell’immagine nelle due formulazioni della grande forma, propria della narrazione epica e delle grandi mitologie, e della piccola forma, legata a una narrazione comportamentista che pone al centro l’azione nella sua arbitraria capacità performativa 12. Ora, Gli spietati sembra convocare entrambe le due formulazioni deleuziane, per poi divincolarsene con una certa ironia. Se infatti lo sfregio alla prostituta sembra proporsi come azione inaugurale di una serie di eventi propri della piccola forma, le conseguenze che da essa derivano sembrano diventare sempre più avulse da qualunque rapporto di congruità con l’atto iniziale, anche agli occhi della stessa prostituta sfregiata. E il massacro finale appare incommensurabile, in maniera finanche ironica, con l’azione che ha dato le mosse agli avvenimenti narrati. D’altra parte, i riferimenti costanti alla mitologia del western, nelle fantasie di Kid Schofield come nelle magniloquenti memorie di Bob l’inglese e del suo biografo, se da un lato ripropongono l’epos della grande forma, sono prontamente smentiti e ridicolizzati nella loro falsità e inadeguatezza alla situazione presente. La situazione, l’inglobante deleuziano da cui si dipana l’azione, viene denunciata e irrisa come falsa. Dunque il film di Eastwood, anche scrutato attraverso le categorie deleuziane, mostra il carattere contraddittorio di una convocazione delle forme classiche, finalizzata alla loro smentita. Un film (e un cineasta) che è perciò difficile collocare nell’alveo della tradizione classica, e che tuttavia paradossalmente appare lontano anche dalla contemporaneità, modernista o postmodernista che sia, proprio in quanto continua a rimarcare i propri legami con il classico. Il paradosso trova una sua ragione, se non una sua spiegazione, nella voluta mancanza di una forma narrativa unificante: Gli spietati, ben lungi dal configurarsi come una composizione organica, centrata intorno a temi, figure e punti di vista coerenti e omogenei, sembra piuttosto costruirsi volutamente intorno a linee contraddittorie. Come abbiamo sottolineato fin qui, la figura retorica forse dominante, quando si guardi al rapporto tra le differenti linee narrative che compongono il testo, è l’antitesi. Ovviamente il rapporto antitetico presiede alla composizione generale del testo e informa le relazioni tra i blocchi narrativi, tuttavia esso appare particolarmente evidente qualora si mettano a confronto elementi e segmenti testuali specifici. In particolare ci interessa qui analizzare e mettere in collegamento le sequenze relative al primo omicidio e alla strage finale. Ciò ci permetterà di percepire meglio, nella peculiarità dell’organizzazione del film, la valenza della costruzione in antitesi e di chiarire meglio il ruolo centrale che nel testo viene ad assumere la linea dell’arcaismo, che si configura come forma di superamento – o meglio forse di arretramento a uno stadio precedente – rispetto al paradosso del rapporto con la forma classica. La prima sequenza, nella quale Will Munny uccide uno dei cowboy responsabili di aver sfregiato la prostituta – in realtà incolpevole, in quanto aveva cercato di fermare il compagno –, si situa quasi alla conclusione della linea narrativa che abbiamo definito revisionista e ne è uno degli esiti più evidenti, insieme all’uccisione del secondo cowboy e alla rinuncia di Schofield. Qui la revisione critica del mito western, il partito preso volto a denunciare l’omicidio dietro ogni duello, la straziante realtà della morte e l’orribile arbitrio costituito dal togliere la vita a un uomo appaiono chiari. La sequenza è in verità assai breve, e ha ben poco a che fare con la forma della sequenza classica. Introdotta da un brusco salto narrativo, ci porta direttamente all’episodio dell’omicidio
e si prolunga in due segmenti ulteriori, entrambi separati da elisioni narrative, nei quali vediamo l’abbandono di Ned che, incapace di sopportare nuove violenze e uccisioni, decide di tornare a casa, e la scena notturna in cui Little Bill viene informato dell’omicidio. Questo elemento di frammentazione narrativa riguarda l’organizzazione dei grandi segmenti testuali, al punto che è improprio parlare di sequenze in senso tradizionale se non per il blocco finale, su cui ci soffermeremo più avanti, che recupera l’unità di misura classica. Al contrario, la composizione delle singole scene rimane compatta ed essenziale, con dei piani assai ben definiti, in cui i volti giocano un ruolo determinante. Le prime inquadrature ci presentano un gruppo di mandriani intenti nel loro lavoro, poi d’improvviso uno sparo, uno dei cowboy cade, travolto dal cavallo ferito. Scompiglio tra gli altri che si guardano intorno per capire chi e da dove sta sparando. Soggettiva verso un’altura e poi il gruppo si mette in salvo dietro una roccia, lasciando allo scoperto Davey che nella caduta si è rotto una gamba. Finalmente la macchina da presa si sposta e ci mostra, prima dall’alto, poi frontalmente, Will, Ned e Kid, adottandone il punto di vista e mantenendolo fino alla fine della sequenza, anche negli inserti relativi al cowboy ferito, che di fatto appaiono come soggettive irreali dei tre pistoleri. Il resto della sequenza si sviluppa intorno alla difficoltà di uccidere. Difficoltà pratica e morale allo stesso tempo, perché manca la capacità, la perizia e la determinazione: mentre Kid continua a chiedere in maniera sempre più concitata e petulante cosa sta succedendo (è talmente miope da non riuscire a vedere la scena), Ned, dopo il primo colpo a vuoto, scopre di non essere capace di uccidere. Incalzato dal ragazzo: «Che succede, non vuoi ammazzarlo?» è costretto a confessare a Munny la propria impotenza: «Will, non ci riesco». L’unico che è in grado di sparare per uccidere è proprio Munny, che però sembra motivato soprattutto dalla volontà di chiudere alla svelta una situazione che sta diventando sempre più insopportabile. D’altra parte gli manca il colpo letale e infallibile del pistolero che è stato, e la morte del cowboy si trasforma in un’orribile agonia [fig. 5]. La sequenza coincide dunque con la scoperta di quanto uccidere sia, qui e ora, non nella narrazione del mito, una cosa sporca e difficile. Ognuno reagisce in un modo diverso: se Ned è come impietrito, Kid passa da un’eccitazione isterica a momenti in cui cerca una buona ragione per quello che sta succedendo: «Così impari a sfregiare una povera donna, brutto stronzo!». Ma è Munny a far trasparire una sensazione di sempre maggiore estraneità e disgusto rispetto a una situazione che si è scoperta sbagliata e che pure bisogna portare a termine. Tra gli urli e la concitazione che dominano la sequenza emerge la medesima impotenza di carnefici e vittime di fronte a un destino cercato ma di fatto non voluto e di cui si è scoperto l’orrore. La costruzione secca e analitica della scena contrasta con la confusione e lo stupore dei personaggi davanti alla scoperta della realtà brutale dell’omicidio. Eastwood replica più volte la stessa inquadratura: i tre ripresi in profondità di campo con Munny in primo piano che guarda verso il basso e gratta nervosamente la roccia con la mano, Kid con gli occhi stretti che guarda verso qualcosa che non può vedere e Ned sul fondo sconvolto e impietrito dall’orrore [fig. 6]. Una sorta di immagine emblematica in cui i protagonisti del mito si scoprono spettatori della realtà. La seconda sequenza, in cui Will Munny entra a Big Whiskey per vendicare la morte dell’amico Ned e dopo aver compiuto una vera e propria strage nel saloon si allontana nella notte, smentisce e contraddice tutto quanto era apparso al centro della sequenza del primo omicidio. Qui tutto è facile, Munny ha riacquistato la sua infallibilità e uccide con naturalezza, come se non avesse fatto altro tutta la vita, e senza che persone o cose (il fucile inceppato) possano impedirgli di portare a compimento la vendetta. Se il
Munny astemio e timorato di Dio ricordando il suo passato di assassino può dire a Ned: «Non aveva fatto niente per meritarsi di morire; niente che mi ricordassi quando mi passò la sbronza», dopo l’uccisione del secondo cowboy dirà: «Tutti ce lo meritiamo, Kid», quasi a cercare una giustificazione morale. Ma nel saloon le cose cambiano radicalmente e non c’è bisogno di ragioni o giustificazione: a Little Bill che dice di non meritare di morire risponde che «i meriti non c’entrano in queste storie», a segnalare che la questione della moralità dell’omicidio non è più pertinente. Ma guardiamo nel dettaglio la sequenza. Intanto, se è vero, come qualcuno ha affermato, che Gli spietati sembra a tratti più un noir che un western 13, sicuramente ciò accade nell’incipit di questo segmento, dominato dalla pioggia battente e dalle ombre profonde dell’ambientazione notturna. L’ambientazione noir che tende al fantastico fa da cornice all’apparizione di un Will Munny ben diverso da quello che abbiamo visto fin qui. Non già il maturo pistolero redento che vive la sua ultima avventura ossessionato dal ricordo della moglie, ma una vera e propria nemesi, incarnazione di un principio trascendente, né la giustizia, né la vendetta, quanto invece una sorta di castigo risvegliato dalle profondità infernali del western. Congedato Kid («Vai a uccidere Little Bill, vero?»), Munny si dirige a cavallo verso il saloon, inquadrato di spalle. Seguono due inquadrature in soggettiva. La prima dalla sella mostra in basso le zampe del cavallo mentre cammina in avanti e poi si alza a scoprire in lontananza la bara di Ned esposta all’ingresso del saloon. La seconda con un movimento laterale mostra il passaggio di Munny davanti al corpo di Ned [fig. 7]. L’oscurità dell’esterno sotto la pioggia è in contrasto con il clima conviviale all’interno del saloon, nel quale Little Bill sta festeggiando l’omicidio di Ned e sta preparando la caccia ai due killer ancora liberi. L’ingresso di Munny sorprende lo spettatore, il quale capisce di essere in soggettiva del pistolero quando le due canne del suo fucile entrano nell’inquadratura e la sorpresa dello spettatore raddoppia quella di Little Bill, che si accorge di essere nello sguardo, o meglio nel mirino, del pistolero. L’impressione che si tratti dell’apparizione di un fantasma è forte e viene ulteriormente rafforzata dallo scambio di battute tra i due: «Tu sei William Munny del Missouri, hai ucciso donne e bambini» «Esatto, ho ucciso donne e bambini. Ho ucciso creature che camminano o strisciano in tempi lontani e ora sono qui per uccidere te, Little Bill». L’organizzazione dello spazio intorno al campocontrocampo e alla semisoggettiva di Munny contribuiscono a porlo al centro della scena e nel contempo a farlo apparire come presenza inquietante che rimanda a una dimensione altra rispetto a quella della scena stessa. E anche l’anafora «in tempi lontani» sembra riferirsi, più che a una distanza cronologica, a una differenza di ere geologiche, come se Munny arrivasse da un tempo primitivo e arcaico che precede la storia e le convenzioni di genere (non si uccidono le donne e i bambini, non si spara a un uomo disarmato ecc.). La sparatoria che segue è antitetica a quella del primo omicidio: qui Munny non ha alcuna esitazione né difficoltà o incertezza. Più un’uccisione seriale che un duello, come nel western all’italiana 14, ma senza l’esibizionismo compiaciuto e la retorica dell’eccesso che ne sono il tratto distintivo. Del resto Munny/Eastwood non è né Bob l’inglese né Little Bill, non ha bisogno né di testimoni né di biografi, né tanto meno di celebrare le sue imprese: «Ho avuto sempre fortuna quando ho dovuto ammazzare cristiani». E se nella forma classica il duello richiede un pubblico perché è sempre lo spettacolo di uno spettacolo, Munny uccide Little Bill in perfetta solitudine, dopo aver allontanato Beauchamp [fig. 8]. Il fatto è che Munny, più che un personaggio, è una forza del passato, un principio arcaico che è stato evocato e risvegliato per caso o per l’empietà degli uomini. Abbiamo accennato
all’idea, rilevata più volte, che il cinema di Eastwood sia in realtà un cinema di spettri, di personaggi ritornati dalla morte, ma qui il tono complessivo è quello della fantasmagoria 15 mostrata per spaventare ed educare i cristiani. Non è solo l’apparizione di Munny, è lo scrosciare della pioggia e il tintinnare degli speroni in un paesaggio nero e impenetrabile, rischiarato solo dalle torce sulla tomba di Ned. E anche il commiato di Munny sembra il sermone di un predicatore, magari quello del Cavaliere pallido (Pale Rider, Clint Eastwood, 1985): «Se vedo qualcuno là fuori lo ammazzo. Se qualche figlio di puttana mi spara addosso non ammazzo soltanto lui, gli ammazzo anche la moglie e tutti i suoi amici e poi gli brucio anche la casa. Meglio che nessuno spari. Voglio che facciate per Ned un bel funerale. E non azzardatevi più a sfregiare prostitute. Altrimenti torno e vi ammazzo tutti, figli di puttana». «HIC SUNT LEONES»
Quanto abbiamo detto fin qui pone una questione che è rimasta sullo sfondo della trattazione analitica degli Spietati: nel panorama di quei mutamenti e di quel nuovo assetto del cinema che dagli anni ottanta ne sta modificando profondamente i contorni, qual è il ruolo e il posizionamento del film, e alla fine anche del cineasta Eastwood, visto che si tratta di un film emblematico e decisivo nella sua carriera? Le risposte sono diverse: vanno dalla commistione di elementi di classicismo e modernità o postmodernità, al ritorno di una forma classica che rivede e ripropone i generi più tipici dei fasti hollywoodiani. Abbiamo cercato di mostrare come le cose appaiano un po’ più complesse a un’analisi attenta: più che una formula semplice, quello del cinema di Eastwood è un processo complesso di relazione con la tradizione del cinema americano. Ci sembra di poter riconoscere, riguardando agli Spietati, almeno tre nuclei intorno a cui si costruisce questa relazione: l’antitesi, la fantasmagoria, il genere. L’antitesi, lo abbiamo detto, risulta dalla giustapposizione di linee narrative divergenti e contraddittorie. Una costruzione che mina in profondità la struttura classica e rende incerti gli appelli a un neoclassicismo eastwoodiano. Tuttavia è bene precisare che l’antitesi, pur negandola, mantiene un rapporto genetico con la forma classica, che risulta proprio dalla relazione di contraddizione. Dunque la giustapposizione antitetica è cosa ben diversa dall’assemblaggio di frammenti, citazioni, schegge proprio di tanto cinema contemporaneo, a cui potrebbe corrispondere piuttosto la figura dell’enumerazione. È per questo che Gli spietati e il western di Eastwood hanno ben poco a che vedere con le forme di neowestern degli ultimi decenni. La fantasmagoria è il risultato di inserimenti di elementi esterni al genere e derivanti dal noir e dal fantastico. Contribuisce a rafforzare la sostanziale ambiguità di alcuni segmenti del film e segnatamente dell’ultima sequenza, in cui l’aspetto irrealistico, con connotazioni oniriche, rafforza l’idea di un’immagine proiettiva, che dà forma visibile ai desideri e alle paure delle prostitute di Big Whiskey, di tutti i suoi abitanti e, da ultimo, dello spettatore. Un’immagine popolata di spettri e apparizioni, come spesso accade in Eastwood, che si riallaccia così a una certa deriva fantasmagorica del genere americano, notata da Deleuze 16 già nel musical o nel noir e che nella produzione contemporanea trova il suo esito più evidente nel cinema del virtuale alla Matrix 17. Con un po’ d’ironia si potrebbe dire che lo spettro eastwoodiano è la versione radicalmente arcaica dell’eroe cyberpunk. Il genere, benché venga presentato nelle sue articolazioni narrative e nei suoi sviluppi tematici e iconografici, nei vari esiti della sua tradizione, e dunque nelle forme che ha
assunto dalla classicità al modernismo, è al fondo per Eastwood qualcosa che viene prima della sua messa in forma, precede la codificazione delle forme sintattiche (le storie) e semantiche (i temi e le figure) del western. Si tratta di una forza tensiva che rimanda a un naturalismo dal fondamento pulsionale o istintuale. Il western è dunque il luogo di iscrizione di una forma soggettiva che precede la sua realizzazione in una storia concreta, in un contesto situato e in una forma codificata. Un carattere, come quello dello scorpione Munny, che cova sotto la cenere di qualunque revisione, pronto a ritornare e a mostrare la sua forza alla prima occasione. Una sorta di qualità insopprimibile che il tempo e la storia degli uomini (e del cinema) non possono cambiare. Al fondo degli Spietati, e probabilmente di molto del cinema di Eastwood, c’è una sorta di passo retrogrado che lo spinge a guardare indietro, oltre il classico, verso un western originario e fantastico. In questo è lontano da qualsiasi tentazione nostalgica tanto quanto dalle falsificazioni griffate di un cinema di superficie. Lo spettro nel suo cinema è sì il ritorno di un principio e di un’alterità radicale, ma anche di un cinema che in verità non è mai esistito: è il segno di un arcaismo intenso e inatteso che lo colloca nei territori di confine, hic sunt leones, della geografia del cinema contemporaneo.
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Un mondo perfetto di Vincenzo Buccheri IL FILM E LA CRITICA
Uscito nel 1993, A Perfect World condivide con Unforgiven 1 e con pochi altri titoli il destino di essere considerato uno dei capolavori della generosa filmografia registica di Eastwood. Della sua seconda vita d’autore, di “ultimo dei classici”. Di questa seconda vita A Perfect World si presenta, fin dal titolo, come un manifesto. Eastwood vi lavora quasi nello stesso periodo in cui recita sul set di In the Line of Fire 2. Lo script di A Perfect World è firmato da John Lee Hancock, autore di teatro, scrittore e regista per il cinema, oltre che sceneggiatore di serie televisive. Per Eastwood scriverà anche Midnight in the Garden of Good and Evil 3. Hancock, che rivela la derivazione del plot da Lonely Are the Brave di David Miller, con Kirk Douglas 4, uno dei film preferiti di Eastwood, definisce Clint uno zen-papà-regista, per il suo modo non impositivo di lavorare con lo sceneggiatore e sul set. Hancock era già in contatto con Spielberg, che avrebbe voluto dirigere A Perfect World in una pausa della preparazione di Jurassic Park 5, ma fu costretto a rinunciarvi per dar spazio a quest’ultimo progetto. Assodato che era troppo vecchio per recitare la parte del protagonista, Eastwood pensava di destinarla a Denzel Washington. Fu la Warner a imporgli Kevin Costner, ai tempi una delle star più redditizie di Hollywood, reduce dalla pioggia di Oscar di Dances with Wolves, ma anche da successi come The Bodyguard e JFK 6. Il plot di A Perfect World è costruito secondo lo schema di un Bildungsroman ricco di echi del cinema e della grande letteratura americana: si tratta di un viaggio iniziatico verso la morte che, sullo sfondo del paesaggio americano, mette a confronto un adulto evaso di galera, Butch Haynes (Kevin Costner), e un bambino preso come ostaggio, Phillip (T.J. Lowther). Sulle orme del fuggiasco e del bambino vengono mandati l’investigatore Red Garnett (Clint Eastwood), legato a Butch da una sorta di destino tragico (è stato lui a spedire Butch ragazzino in riformatorio, pensando di fare il suo bene), una criminologa fin troppo benintenzionata, Sally Gerber (Laura Dern), e uno stolido agente dell’Fbi. Siamo nel Texas del 1963, pochi mesi prima dell’assassinio di Kennedy: durante la fuga, Butch e Phillip fanno una serie di incontri che mettono alla prova il loro legame speciale, fino all’epilogo tragico (Butch, già ferito da Phillip, viene ucciso dall’agente dell’Fbi). Il film si chiude sulla risposta sconsolata di Red a Sally («Tu sei sicuro di aver fatto tutto il possibile, non è vero?» «Io non so niente. Non lo so e non lo voglio sapere») e con la stessa immagine d’apertura, finalmente svelata nel suo vero significato: Butch steso sull’erba che, moribondo, vede allontanarsi l’elicottero della polizia con a bordo Phillip e sua madre. A Perfect World è un film solo apparentemente semplice, in realtà aperto a più livelli di lettura, come testimonia la ricezione della critica, che ne ha evidenziato numerosi punti di interesse: la capacità di convocare una vasta serie di riferimenti ai generi e ai miti culturali dell’immaginario americano (oltre che alla propria, personale filmografia, da Bronco Billy a Honkytonk Man 7); la sottile sensibilità nel tratteggiare i temi dell’infanzia e del rapporto padri/figli; la profondità nel dare forma a una personale visione della vita e dell’America intorno ad alcune ossessioni ricorrenti (il passato, la giustizia, il caso e la necessità); la sapienza nel collegare una storia privata alla storia
collettiva, una visione esistenziale a un affresco sociale (gli Stati Uniti dell’era Kennedy, ma anche le contraddizioni del sogno americano); la finezza nel tratteggiare i due protagonisti, l’evaso e il poliziotto, che non si incontrano mai (salvo nel finale, da lontano) pur intrecciando i propri destini; la contaminazione dei registri (l’avventuroso, il lirico, il farsesco); il respiro lento e arioso, in cui il tempo sembra dilatarsi e il paesaggio assurgere a protagonista; la perfezione dello stile limpido e pacato, ma capace di svolte imprevedibili. Qui procederemo con un doppio movimento, prima deduttivo poi induttivo: partiremo recensendo alcune questioni messe in campo dalla critica specializzata dopo l’uscita del film, e in un secondo momento le metteremo alla prova dell’analisi, in vista di un’interpretazione globale del testo che tenti di scioglierne alcune ambiguità. Tali questioni sono i loci communes della critica eastwoodiana recente, e il nostro sarà anche un tentativo di presentarli con spirito interrogativo, mettendoli alla prova dell’analisi testuale. Una prima questione posta dalla critica, per esempio, riguarda la classificazione del film. A quale genere appartiene A Perfect World, se di genere si può parlare nel contesto del cinema hollywoodiano degli anni novanta, che vede un rimescolamento delle carte e dei riferimenti? Qui va detto che le letture convergono: A Perfect World viene interpretato come un caso esemplare di ibridazione dei generi. Noir (nella declinazione particolare del prison movie), road movie, western, racconto di formazione, commedia (soprattutto nelle parti con Red Garnett e Sally Gerber sulla roulotte) si danno la mano e si mescolano in un equilibrio complessivo dove domina la naturalezza più che il gusto ludico della contaminazione 8. Anche le citazioni più o meno esplicite (dal western e dal noir) rientrano in questa logica. Come abbiamo già scritto, Hancock, lo sceneggiatore, dichiara di essersi ispirato a Lonely Are the Brave, il western già crepuscolare di Miller. Invece Paolo Cherchi Usai, per il quale «A Perfect World è un road movie con l’anima del film noir» 9, evoca un grande western di George Stevens, Shane 10: «La relazione fra Shane e il piccolo Joey è analoga a quella coltivata da Butch e Phillip sulle strade del Texas» 11. Senza dimenticare rimandi puntuali a classici come «The Asphalt Jungle e The Treasure of the Sierra Madre (il finale in aperta campagna, le banconote che si disperdono nel vento)» 12. Michele Marangi, infine, parla per la prima parte del film di «canoni dell’action movie» che vengono però smentiti dalla parte centrale, dove toni ora picareschi ora da commedia si innestano su una struttura da road movie 13. Una seconda questione riguarda la collocazione di A Perfect World nella filmografia eastwoodiana, ma anche rispetto alla vexata quaestio dell’autorialità di Eastwood. Qual è il rapporto di A Perfect World con i suoi film precedenti, e in che modo esso rappresenta un punto di coagulo e, forse, di svolta? È chiaro che questo è uno dei problemi centrali nella riflessione su Eastwood regista. Da un lato, infatti, la considerazione di Eastwood come autore comporta che si rilevi nei suoi film una serie di isotopie, un percorso coerente che diventi visione del mondo. Di qui la ricerca, da parte della critica, di autocitazioni più o meno consapevoli, e di una serie di tematiche e quesiti che incarnerebbero appunto l’amara Weltanschauung eastwoodiana: si pensi al tema del tempo che scorre, del passato che condiziona il futuro, del dovere della crescita, dell’imperfezione del mondo e dell’eterogenesi dei fini. Contemporaneamente, però, l’altra questione aperta dal cinema eastwoodiano, o meglio l’altro topos critico che qui vorremmo interrogare, è il nodo della sua popolarità. Eastwood infatti viene spesso lodato (e lodato come “ultimo dei classici”) perché riesce a veicolare discorsi
personali all’interno di film apparentemente semplici, che parlano al cuore e alla ragione del grande pubblico, collocandosi nel solco della popular art americana (il western, la musica country, la grande letteratura per l’infanzia). E proprio questo punto sembra far problema in A Perfect World: perché, se per alcuni interpreti esso rappresenta la quintessenza dell’autorialità popolare eastwoodiana, anche e soprattutto per la naturalezza con cui un plot d’avventura si trasforma ipso facto in una potente metafora dell’America (si pensi al tema della giustizia impossibile e della perdita dell’innocenza – siamo nello stesso anno, il 1963, e nello stesso luogo, il Texas, dell’omicidio Kennedy), per altri invece è già lo spazio di un’incrinatura, il momento in cui Eastwood diventa troppo consapevole di sé 14. Una terza questione, più interna all’interpretazione del film, riguarda il problema, ricorrente in tutte le recensioni, di come inquadrare il personaggio interpretato da Costner, Butch Haynes, e la parabola narrativa del bambino interpretato da T.J. Lowther, Phillip. Di Butch, contraddittoriamente, la critica sottolinea ora l’ambiguità ora la caratterizzazione unidimensionale. Per Giulia Carluccio e Paolo Cherchi Usai, quello interpretato da Costner è sicuramente un personaggio complesso 15, mentre Pezzotta proprio nell’assenza di ambiguità di Butch vede uno dei limiti del film 16. Kent Jones apprezza invece la sapiente costruzione di Butch, elogiando il dosaggio drammaturgico di notazioni psicologiche controverse, che in un certo senso arrivano sempre a giustificare il ricorso del personaggio alla violenza. «A quelli che hanno problemi con A Perfect World, a quelli che lo trovano eccessivo o scomodo, o a quelli a cui non piace Costner, consiglierei caldamente di analizzare i numerosi, sfortunati ritratti di psicopatologie realizzati nel corso della storia del cinema americano, in modo da cogliere la tremenda grandezza di ciò che Eastwood ha fatto con questo film» 17. E, allo stesso modo, appaiono significative le divergenze riguardo all’esito del percorso narrativo del piccolo Phillip, che testimonia anche la personale visione che Eastwood e una certa tradizione cinematografica hanno del genere “racconto di formazione”. A che cosa porta il viaggio iniziatico del bambino? Alla crescita, all’emancipazione o al ciclico compiersi di un destino che replica la sorte già toccata all’unforgiven Butch, alter ego adulto di Phillip? È su questo punto, che non a caso coinvolge il giudizio finale da riservare al film, che la critica si divide, ed è anche tale punto che tenteremo di interrogare nei close readings che seguono. LE SEQUENZE
Analizzeremo due momenti cruciali del film: la sequenza dei titoli di testa, letta in rapporto con quella conclusiva, e la sequenza del ferimento di Butch per mano di Phillip. La sequenza dei titoli di testa dura 1’10’’ e consta di dieci inquadrature. 1) La palla infuocata del sole al tramonto. Si sente un’eco lontana di cornamuse. Compare il titolo: la Warner Bros. Presenta. 2) L’erba di un prato: una panoramica a destra svela una maschera di Halloween (è Casper, il fantasmino dei cartoon) e il viso di un uomo (Costner/Butch), disteso sull’erba, gli occhi chiusi e un braccio dietro la testa. L’uomo sembra dormire. 3) Il volto dell’uomo di profilo. Il vento agita i fili d’erba e porta in campo alcune banconote svolazzanti. 4) Il prato ora è coperto di banconote. 5) Di nuovo il profilo dell’uomo: le banconote si posano su di lui, che prima rimane immobile, poi apre gli occhi, lentamente. 6) Ora davanti alla palla infuocata del sole c’è un’aquila in volo. Compare il titolo [fig. 1]. Al suono delle cornamuse si sovrappone un
rumore sordo. 7) L’uomo disteso sul prato volta leggermente la testa e vede [fig. 2] 8) un elicottero che si alza in volo in controluce, a ralenti [fig. 3]; il rumore metallico è quello delle sue pale, ma anche il battito cardiaco dell’uomo. 9) L’uomo chiude gli occhi. Intorno a lui, sempre la maschera e le banconote. 10) Con una dissolvenza incrociata, l’immagine sfuma in una ripresa aerea della distesa illuminata di una città alle prime luci della sera. Innanzitutto va segnalato il rapporto che questa sequenza intrattiene con l’incipit del citato Lonely Are the Brave di Miller (scritto da Dalton Trumbo): il personaggio del cowboy interpretato da Kirk Douglas che si riposa sdraiato nella prateria ma viene disturbato da una flotta di aerei militari. La sequenza dura 2’50’’ e nella sua parte iniziale comprende le seguenti inquadrature: 1) una distesa desertica; panoramica verso il basso che scopre un falò, poi, gradualmente, il corpo di un cowboy sdraiato a fumare, le tese del cappello calate sugli occhi [fig. 4]. In lontananza, un rombo di motori. Il rumore incuriosisce il cowboy, che si mette seduto, alza la testa, si toglie il cappello dagli occhi. Ora lo vediamo in faccia. 2) Una pattuglia di aerei militari vola rombando e lasciando in cielo la propria scia [fig. 5]. 3) Il cowboy, continuando a fumare, ne segue la traiettoria con lo sguardo, poi si volta. 4) Totale: il cowboy che guarda il cavallo, anzi la cavalla, alla sua destra [fig. 6]. È evidente che la sequenza di Eastwood intrattiene con quella di Miller un rapporto generativo, di derivazione forte. È come se quegli elementi incongrui (gli aerei in volo), che stonano con l’ambientazione western ma dettano al film uno dei suoi temi dominanti, il contrasto tra il cowboy e la società moderna, tra il mondo dei pionieri e il nuovo mondo, avessero suggerito a Hancock il motivo della partenza di Phillip in elicottero. Tornando all’incipit eastwoodiano, esso si presenta come momento seminale sia dei temi sia del tono del film. Dal punto di vista tematico, il sole e la campagna rimandano al paesaggio bucolico che accoglierà la vicenda della fuga di Butch e Phillip; la maschera di Casper evoca un mondo infantile e carnevalesco di gioco e trasgressione, ma anche il tema del fantasma e del viaggio verso la morte; e un memento mori è anche il denaro svolazzante, che funziona inoltre come marca di genere (il gangster movie). In generale, colpisce l’ambiguità della postura di Costner/Butch, che ha qualcosa di rilassato e persino di sensuale, ma presenta anche un lato enigmatico, è il punto di partenza di un flashback lungo quanto il film, che servirà a svelare come l’uomo sia arrivato in quel luogo. Questa ambiguità, che informa tutti gli elementi della sequenza, dal visivo (la palla infuocata, il prato, le banconote, la postura di Costner, l’elicottero a ralenti) fino al sonoro (il battito di pale che diventa ritmo cardiaco, la musica cajun suonata con le cornamuse: è la medesima della sequenza del ferimento di Butch, che vedremo dopo) è un dato ben presente a tutti gli interpreti dell’opera 18. Essa ha addirittura una funzione di antifrasi, potremmo dire: Butch sembra dormire ma sta morendo; la sequenza dice una cosa e suggerisce il suo contrario; è un’immagine di serenità, luminosità, sensualità, ma ha anche i caratteri della premonizione, dell’oscurità, del lutto. Ha un senso compiuto, basta a se stessa, ma è anche un enigma da risolvere, un puzzle a cui mancano dei pezzi. Tale ambiguità riguarda anche l’uso del montaggio, che da un lato appare narrativamente funzionale: non c’è un’inquadratura inutile, ogni immagine è un momento semanticamente giustificato, un tassello necessario ad aggiungere informazioni, un’unità che si lega alle altre secondo un rapporto di azione/reazione, con un effetto di progressione drammatica: un uomo sdraiato al sole/circondato da
banconote che gli svolazzano intorno/e che coprono il prato/dopo un po’ apre gli occhi/vede un’aquila svolazzare sul sole/si volta/e vede un elicottero alzarsi in volo ecc. Dall’altro lato, però, il montaggio ha un côté lirico, associativo, di pura invenzione formale: Pezzotta parla di «piccolo poema visivo che fa perno sulla sfera di fuoco del sole e l’ascella di Costner» 19; Cherchi Usai evoca i «meriti di regia» e l’«invenzione visiva» di una sequenza che è, insieme, «sogno, metafora e premonizione della fine» 20. Ed è solo alla luce della sequenza finale, dopo più di due ore, che l’incipit scioglie la sua ambiguità; l’oggetto dello sguardo di Butch, il controcampo assente all’inizio (anzi presente solo in modo parziale: l’elicottero in controluce), si presenta e si precisa, illuminando il dettaglio mancante. Sono esattamente nove inquadrature, con un effetto di simmetria rispetto all’inizio: dopo una visione d’insieme dell’elicottero che decolla, in campo lunghissimo e in plongée (1), torniamo a vedere Butch sdraiato sull’erba a occhi chiusi, nella stessa inquadratura dell’inizio (2); poi, finalmente, il controcampo, l’oggetto dello sguardo di Butch: è Phillip a bordo dell’elicottero, che tiene contro il vetro la cartolina dell’Alaska donatagli dall’amico (3) [fig. 7]; come all’inizio, Butch sembra aprire leggermente gli occhi (4) e la sua soggettiva mostra ancora l’elicottero con a bordo Phillip che si allontana (5); a questo punto lo sguardo abbandona Butch: ora siamo a bordo dell’elicottero, dietro le spalle di Phillip, e il corpo di Butch è diventato una macchia insanguinata sull’erba (6) [fig. 8]; poi l’elicottero prende quota facendo un mezzo giro intorno a Butch e ai poliziotti (7), fino a uscire di campo (8); un travelling all’indietro ci allontana dalla scena, rimpicciolendo personaggi e cose fino a farli sparire nel verde; è a questo punto che appare, nei titoli di coda, il nome di Eastwood regista (9) [fig. 9]. Come scrive Michele Marangi, davvero «a mano a mano che la macchina da presa si allontana dal cadavere di Butch, appare la bellezza della natura e la sua indifferenza rispetto ai destini degli uomini» 21, e si definisce l’inarrivabile naturalezza con cui la visione del mondo eastwoodiana diventa immagine, rapporto fra lo spazio e i personaggi: in una parola, grande regia, e grande regia classica. E qui viene il punto: perché, se da un lato l’incipit analizzato è perfettamente classico, quindi limpido, narrativamente motivato e autosufficiente, dall’altro è sottilmente anticlassico: enigmatico, insaturo, non solo per via dell’accostamento delle immagini, percorso da evocazioni liriche che vanno oltre la funzionalità, ma perché prolettico, destinato a chiudersi solo nel finale. Ora, l’ambiguità e il senso antifrastico dell’incipit sono i medesimi che ispirano il film, la sua storia, i suoi personaggi, il suo stesso titolomanifesto: quello che vediamo, in altri termini, è un mondo che sembra, vorrebbe essere sereno, felice, giusto, ma finisce per essere il contrario: ingiusto, violento, crudele, proteso verso il dolore e la morte. Un mondo (im)perfetto, appunto. E allora, classicità o anticlassicità? Qual è la parola definitiva su Eastwood, comunemente presentato come grande artista popolare proprio perché classico, o meglio ultimo dei classici? Eastwood non si sottrae ai suoi tempi, ma non ne è schiavo: il suo stile, la sua idea di cinema sono piuttosto neoclassici, là dove neoclassico non significa estraneità al postmoderno, ma modo alternativo di viverlo. Un modo che alla frammentazione, al manierismo e all’amoralità programmatica sostituisce la ripresa delle auctoritates, la linearità e l’interrogazione morale, ma dentro un contesto culturale e stilistico in cui il passato è perduto, l’innocenza irrecuperabile e il presente va vissuto in tutta la sua dolorosa imperfezione (non è forse questo, in ultima analisi, il vero significato di A Perfect World?).
Una lettura globale del postmoderno cinematografico come forma di neo o meglio di postclassicismo, in realtà, è legittima anche a prescindere dal caso Eastwood. Immagino sia questo che intende David Bordwell quando, rifiutandosi di nominare il postmoderno invano, ricorre all’etichetta di intensified continuity per definire lo stile del cinema hollywoodiano contemporaneo: la medesima continuity (linearità, trasparenza, chiarezza) del classico, sottoposta a un trattamento intensificante, a un sovrappiù di intensità, spettacolarità, velocità o, all’inverso, dilatazione 22. Ciò detto, postmoderno o postclassico che sia il cinema contemporaneo, è evidente che nel caso di Eastwood quest’ultima definizione assume una pregnanza particolare. Eastwood è un postmodern classic, appunto, ossia qualcuno che, pur presentandosi come erede di una tradizione (classica, certo, ma filtrata dal moderno: Leone, Siegel…), la ricontestualizza in quel mondo imperfetto, scisso, caotico che è il presente, mai rinnegato o rimosso. In questa direzione va anche la seconda sequenza che qui vorremmo analizzare, il ferimento di Butch da parte di Phillip, fondamentale per interrogare alcune questioni legate alla visione del mondo eastwoodiana. Butch e Phillip hanno appena trovato rifugio nella casa del contadino nero Mack e della sua famiglia, la moglie Lottie e il nipotino Cleve, che non sospettano di loro. L’accoglienza è ospitale: i due fanno colazione, poi Butch trova dei dischi di ballate cajun, una musica tradizionale del Sud che gli ricorda la sua giovinezza, trascorsa in un bordello della Louisiana, e si mette a ballare con Lottie, invitando i bambini a fare altrettanto. Poi la svolta: la radio trasmette la notizia dell’evasione e Mack capisce. I due stanno per congedarsi facendo finta di niente quando Butch vede per l’ennesima volta Mack che tratta il nipotino con prepotenza e perde il lume della ragione. Pistola alla mano, lega e imbavaglia la famiglia e sta per fare qualcosa di irreparabile quando Phillip, sottrattagli l’arma, gli spara ferendolo gravemente. Poi il bambino scappa, getta la pistola nel pozzo e toglie le chiavi dall’auto, lanciandole lontano. La sequenza dura circa quindici minuti e rappresenta il climax che chiude il secondo atto del film. Dal punto di vista stilistico si può registrare, da parte di Eastwood, la volontà di rispettare i tempi reali dell’azione. Tale rispetto, però, essendo ottenuto con un montaggio scaltrito più che con il ricorso al piano sequenza, finisce per sortire un effetto di dilatazione temporale che sconfina nell’allucinazione. Di nuovo, dunque, un Eastwood che parte “classico” (un montaggio “corretto”, né troppo lento né troppo veloce, con alternanza di totali ariosi e piani ravvicinati e un sapiente passaggio alla macchina a mano nei momenti più frenetici), ma che pian piano lievita, scoprendo l’altra faccia della medaglia, anzi, per seguire la metafora dell’incipit, il lato oscuro del cielo, la violenza, l’incubo. Un incubo solare, alla luce del sole. E un cinema non più classico, che del classico ripropone l’ottica (e l’etica) solo per misurare la distanza tra gli ideali e la realtà, tra il passato e il presente. Più in dettaglio, infatti, ciò che è rilevante, ai fini dell’analisi, è il rapporto che, attraverso la dilatazione temporale, la sequenza instaura tra il comportamento dei personaggi e il giudizio “morale” dello spettatore. Si tratta infatti di un brano che capovolge le attese del pubblico riguardo al senso del film e al personaggio di Butch. La scena è diametralmente divisa in due parti, e risponde a un diagramma emotivo all’insegna dello spiazzamento. La prima parte è serena: il risveglio, la colazione, il ballo. Le inquadrature sono ariose, equilibrate, con una predominanza delle mezze figure, fino ai piani ravvicinati del ballo di Butch con Lottie e di Phillip con Cleve, girato con una macchina a mano piuttosto discreta (e senza mai confondere i due spazi: da un lato gli adulti, impegnati in un ballo come ricordo di antiche seduzioni, dall’altra i
bambini, impegnati in un ballo come gioco, allegria). Dopo la notizia alla radio, tutto si ripete sotto il segno dell’incubo: Butch picchia Mack (qui il montaggio si fa più serrato) e lo minaccia con la pistola, ordinandogli di manifestare il suo amore al nipotino; poi rimette il disco di musica cajun (in realtà, come scrive Hancock nella sua testimonianza, si tratta di un rifacimento moderno di quel genere musicale, cui Eastwood ha fatto incongruamente aggiungere delle cornamuse, per lui «lo strumento più triste che ci sia mai stato», con grande scandalo dei musicisti tradizionali che dovevano eseguire il pezzo 23). A questo punto si susseguono in montaggio alternato una serie di situazioni emotivamente al limite: Mack che supplica; Lottie che comincia a pregare; il disco che gira; Butch che lega e imbavaglia la famiglia [fig. 10]; il bambino che piange; il disco finito che gira a vuoto. C’è un che di ridondante, di disturbante, in questo climax. Qui la scena “impazzisce”, come Butch; non risponde più a criteri di economia stilistica ed emotiva, ma è tutta giocata sull’estenuazione, come in una sorta di lenta tortura, certo memore del modello leoniano (la dilatazione temporale che diventa stillicidio). È, in Phillip ma anche nello spettatore (che si allinea al bambino), il momento della presa di coscienza, dell’emancipazione rispetto a Butch. A questo punto, infatti, lo spettatore, che fin lì aveva parteggiato per Butch, lo abbandona. Di malavoglia, con un moto di delusione, come chi venga improvvisamente costretto a cambiare idea su una persona cui si stava affezionando. Insomma, questa sequenza porta all’esasperazione e rovescia di segno quel «senso del tempo irreale ed elastico, che tende idillicamente all’infinito» 24, in cui risiede la bellezza e l’originalità del film e la peculiarità del rapporto tra Butch e Phillip: un rapporto padre/figlio dove i personaggi, paradossalmente, pur essendo dei fuggitivi, perdono tempo, o meglio prendono tempo, riconquistando un tempo dell’affetto e della contemplazione. Ma il punto è proprio questo: il brano, che pure è, con il finale (altrettanto dilatato), una delle scene madri di A Perfect World, è anche la sequenza che più di tutte mette in crisi il nostro rapporto con il film. Una scena quasi sadica, in cui il nostro sentimento passa dalla partecipazione al fastidio. Fastidio per una prova di regia ormai ai limiti del compiacimento (non più “classica”, insomma, per usare le categorie di cui sopra), e fastidio per il comportamento razionalmente inspiegabile di un personaggio che fin lì aveva meritato, se non la nostra simpatia, almeno la nostra empatia. È dunque una scena che vorremmo finisse al più presto: perché troppo lunga, e perché ci mette di fronte a qualcosa che non vorremmo vedere oltre. Certo, dato il fastidio che provoca (viene in mente, per contrasto, la sequenza della tortura in Reservoir Dogs 25, che gioca ambiguamente sull’eccitazione sensoriale dello spettatore: la musica, il ballo…), non si può dire che Eastwood titilli il nostro sadismo di spettatori. Il suo rimane un cinema profondamente morale, a partire dallo sguardo che propone al pubblico. E non si può dire che la sequenza non abbia la sua necessità drammaturgica: a questo punto della storia serviva una svolta che ponesse fine all’idillio Butch/Phillip, per consentire al bambino la necessaria separazione/sostituzione rispetto alla figura paterna (Phillip spara a Butch come Butch, tanti anni prima, aveva sparato a chi minacciava sua madre). Di più: in questa maniera si finisce per dare un tocco decisivo alla caratterizzazione di Butch, che acquista maggiore ambiguità e complessità. A Lottie che cerca di fermarlo definendolo un «brav’uomo», cioè, in pratica, incasellandolo in uno stereotipo, Butch risponde: «No, non sono un brav’uomo, ma non sono neanche il peggiore. Sono di una razza a parte». Come abbiamo già detto, infatti, in questo momento l’identificazione dello spettatore entra in crisi, e a poco vale la puntualizzazione che più tardi, già ferito, Butch farà a Phillip («Non credo che li avrei
uccisi comunque. Ho ucciso solo due persone in vita mia»): non tanto perché si tratta di una giustificazione a posteriori, ma perché di fatto abbiamo visto Butch in una luce che non comprendiamo più, e il nostro rapporto con lui si è rotto. Questa sequenza ci mette in crisi, dunque: e ci mette in crisi anche perché non siamo nemmeno così sicuri che si tratti di una “bella” sequenza, come forse intende essere (Paolo Cherchi Usai la definisce un «pezzo di bravura»). Tutto è sopra le righe, e imprevedibilmente ci sfiora il pensiero che qui Eastwood abbia esagerato, facendo saltare l’equilibrio miracolosamente conquistato nel resto del film. Il troppo non sta solo nella lunghezza, nella ridondanza (Butch che mette due volte lo stesso disco, che nel bel mezzo della tragedia fa fare le capriole a Cleve), ma nella programmaticità con cui è preparata la dilatazione, la tortura, là dove lo stesso risultato drammaturgico (lo sparo, il distacco da Butch) si sarebbe potuto ottenere se Butch avesse perso la testa per un momento e, preso da un accesso d’ira, avesse tentato di far del male a Mack: ciò avrebbe dato modo ugualmente a Phillip di fermarlo, consentendo lo sparo e tutto il resto. Ma evidentemente non era questa la strada voluta da Eastwood. No, qui Eastwood sembra voler fare esattamente come Butch: sfidarci, prendersi il rischio di perdere la nostra fiducia, solo per riaffermare il proprio diritto di essere libero a modo suo, di sfuggire alle etichette, ai giudizi morali precostituiti. In un film che finisce con una dichiarazione di resa («Io non so niente») di fronte all’inafferrabilità del mondo, anche Butch è Eastwood, esattamente come lo è l’anziano, disincantato Red. Un uomo che cerca la sua morale nel rifiuto di ogni schema, nel quotidiano, doloroso, e fatale, corpo a corpo con un mondo che è, insieme, bellissimo e terrificante, meraviglioso e ingiusto. DELL’IMPERFEZIONE
Senza voler tentare sintesi impossibili (come scrive Paolo Bertetto, l’interpretazione deve aprire i significati possibili del testo, non chiuderli in formule e modelli onnicomprensivi 26), potremmo a questo punto domandarci che cosa suggeriscano queste letture ravvicinate rispetto ai problemi cui abbiamo accennato sopra. Per esempio, il problema della contaminazione dei generi e quello dell’autorialità eastwoodiana ci sembra possano essere illuminati dalla risposta che Eastwood avanza, con la sua pratica filmica, nei confronti degli stili del contemporaneo. La sua scelta di rifiutare le scorciatoie del postmoderno, per riproporre uno sguardo solo apparentemente “classico”, capace però di farsi carico delle proprie contraddizioni e dei propri lati oscuri, rende Eastwood uno dei registi più originali del cinema di oggi: un cineasta che riesce a non essere né datato né, banalmente, fuori dal tempo (un evergreen, insomma, come potrebbe anche suggerire un’accezione limitativa del termine classico), bensì, al contrario, un artista dentro la sua epoca, capace di scelte personali e alternative ma comunque interne allo Zeitgeist postmoderno. Per questo, provando a sciogliere alla luce delle nostre analisi la querelle critica accennata nel primo paragrafo, a noi sembra che A Perfect World sia un film tutt’altro che programmatico e privo di ambiguità (ivi compresa la caratterizzazione del personaggio di Butch), ma rappresenti anzi un punto di svolta positivo in una carriera che, dagli anni novanta a oggi, ci ha regalato film importanti e un’idea di cinema unica. Un cinema, appunto, dove la contaminazione non diventa mai gioco o maniera, e dove le metafore e le personali visioni del mondo (e dell’America) si calano con naturalezza in una forma di comunicazione semplice e universale. Un cinema d’autore che, caso quasi unico nel
panorama contemporaneo, possiede il respiro e la portata di quello che una volta si chiamava cinema popolare. Un cinema, infine, che fa della complessità dell’interrogazione morale la propria ragione d’essere. In questo senso, allora, provando a rispondere alla terza questione messa in campo sopra, quale lettura dare del percorso esistenziale del piccolo Phillip? Egli è destinato a eternare, ciclicamente, il destino di Butch o, proprio grazie a Butch, può aspirare ad avere un riscatto? Potremmo rispondere che la vera grande differenza tra Butch e Phillip, ciò che dovrebbe portarli a distanziarsi nel futuro, è, banalmente, proprio la presenza di Butch. In altri termini, Butch non ha avuto, nella sua infanzia, un padre quale lui è stato per Phillip. Questa elementare constatazione potrebbe autorizzarci a dare del Bildungsroman eastwoodiano una lettura tutto sommato ottimistica (e quindi “tradizionale”). Dal punto di vista psicologico, infatti, la formazione del piccolo Phillip avviene secondo le coordinate di una traiettoria edipica “sana”. Butch rappresenta l’alternativa all’universo femminile e castrante della madre di Phillip: non solo cerca di fare di Phillip un uomo (lo rassicura sulle dimensioni del suo pene, gli insegna a maneggiare la pistola), ma si sforza anche di farlo divertire per la prima volta in vita sua (gli permette di giocare a “dolcetto o scherzetto”, gli fa provare le montagne russe legandolo al tetto dell’auto in corsa), e quando si tratta di scegliere tra fare sesso con una cameriera e tornare dal bambino è quest’ultima la scelta, un po’ controvoglia, che l’evaso si impone. D’altro canto, però, è anche vero che non è Phillip a uccidere, letteralmente, il padre, ma lo stupido agente dell’Fbi. Criticabile o meno che sia questa scelta (per taluni dettata da ragioni “commerciali”), e per quanto essa non sposti i termini della questione (la traiettoria edipica, in fondo, si compie ugualmente: con il gesto dello sparo Phillip si separa dal padre sostituendosi a lui), ciò conferma quanto dicevamo sopra: che, a dispetto della sua linearità e semplicità, sono l’ambiguità e la complessità, a tutti i livelli (estetico, etico, esistenziale), le note dominanti del film, il cui grande merito è proprio quello di lasciare aperta ogni domanda, di non prendere posizione («Io non so niente», appunto), nemmeno rispetto al destino del piccolo protagonista. Ora, si può lodare la particolarità di questa soluzione eastwoodiana, ma è bene ricordare che la sospensione del giudizio sul finale, o meglio sul senso morale del destino dell’eroe, cioè l’assenza di una chiusa che compendi in senso didascalico l’esperienza del protagonista (come avviene invece, per esempio, in quel paradossale romanzo di formazione che sono I promessi sposi), è un topos che a Eastwood non viene dal cinema moderno, ma dalla grande narrativa americana, da capolavori come Huckleberry Finn (sul cui non-finale, appunto, Thomas S. Eliot scrisse pagine illuminanti) e Martin Eden. E così è per lo sguardo ambivalente, affascinato e terrorizzato insieme, che il film riserva alla natura e all’infanzia, luoghi al contempo edenici e infernali: un altro topos della narrativa americana, e in particolare della grande narrativa di formazione (Leslie Fiedler: «Se, in conclusione, Huckleberry Finn è il più grande dei libri sull’infanzia, lo è perché esprime, con la franchezza e la disperata ilarità di un bambino, una duplice verità, che gli altri libri sullo stesso argomento per lo più rendono confusamente: cioè, che è proprio meraviglioso ricordare l’infanzia, e che, tuttavia, non possiamo ricordarla senza scoprire a noi stessi le radici di quello stesso terrore che, nell’età adulta, ci ha spinti a evocare nostalgicamente quel passato» 27). Anche se, al di là del nostro caso, il senso peculiare che la formula del racconto di formazione, genere letterario ottocentesco 28, ha acquisito nel Novecento e poi nei
mass media e nel cinema (che ne è diventato uno dei luoghi elettivi) meriterebbe lo spazio di un saggio a parte. In conclusione, tra i molti temi convocati dal film, quello della crescita come disillusione e presa di coscienza, tipico del Bildungsroman, è sicuramente centrale. Resta da vedere in quale chiave Eastwood lo senta, e se in tale sentimento risieda o meno l’originalità del film. Perché è indubbio che Eastwood si può annoverare tra i pochi cineasti morali del presente, nel senso che come «ogni vero moralista è uno scorticato: non pensa, non può pensare se non a partire da ciò che lo ferisce» (Cioran). Ma è altrettanto vero che, come scrive Norman Mailer in un brano bellissimo e definitivo, «ciò che distingueva Eastwood da altre star di successo era il fatto che i suoi film parlavano sempre più della sua personale visione della vita in America. Vi si ritrovava una filosofia nazionale, un’operosa e sottile filosofia americana di tutti i giorni» 29. Ecco: la morale eastwoodiana non è mai semplicistica o manichea, ma è appunto una morale pratica, un’operosa e sottile morale americana di tutti i giorni. Una morale che non divide il mondo in sommersi e salvati, in padri buoni e cattivi, né rimpiange l’Eden dell’infanzia ritrovata, la purezza degli outsider contro il resto del mondo (anche se, fermandosi alla superficie, è senz’altro impietoso il giudizio sull’America profonda, meschina e stupida, sfiorata dai protagonisti nel corso del viaggio). La chiave di questa filosofia eastwoodiana, ripetiamolo, è tutta nell’ironia tragica del titolo: l’imperfezione come dato costitutivo di una coscienza adulta (vogliamo chiamarla stoica?) dell’esistenza. Non è la fine, è un inizio: tutto, la vita, la libertà e la ricerca della felicità, comincia semplicemente da lì.
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Mystic River di Giulia Carluccio PRELIMINARI
Accolto dalla critica al momento della sua uscita con entusiasmo pressoché unanime, come circa dieci anni prima era accaduto per Unforgiven (Gli spietati, 1992), Mystic River (2003) rimane a tutt’oggi tra i film maggiori e più interessanti di Eastwood. Per la forza e la profondità tematica, ma anche per le modalità di scrittura e per l’idea di cinema che vi soggiace. Un film del tutto contemporaneo, che porta avanti una lezione di regia che certamente non si esaurisce né nel mestiere né nella pienezza classica di un veterano di Hollywood, ma che al contrario rivela una sensibilità che si potrebbe definire postclassica 1 nel riflettere sulle proprie ragioni e sulle proprie possibilità. Non privo di legami sottili e profondi con il cinema eastwoodiano precedente (e in particolare Unforgiven, ma anche A Perfect World, Un mondo perfetto, 1993, per limitarci ai titoli più citati a questo proposito) 2, Mystic River ha tuttavia segnato una svolta ulteriore nella ricca filmografia del regista, inaugurando una stagione eccezionale dell’opera eastwoodiana, aprendo a una serie di film che, da Million Dollar Baby (2004) a Gran Torino (2008), passando per il dittico di Flags of Our Fathers (2006) e Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima, 2006), indubbiamente rappresentano gli esiti maturi di un percorso sempre più coerente e consapevole. E si tratta di una coerenza e di una consapevolezza ravvisabili sia sul piano tematico che su quello stilistico, in un discorso d’autore profondamente legato alla storia americana, così come alla storia del cinema statunitense, al suo linguaggio, alle sue convenzioni narrative e ai suoi generi. Anche se, occorre rimarcarlo, in forme e modi più complessi e contraddittori di quanto l’abusato appellativo di “ultimo dei classici”, sempre più ricorrente e indiscusso in sede critica (fino alla vera e propria overdose nelle recensioni di Gran Torino), possa far pensare. Premiato da due Oscar (su sei nomination), al miglior attore protagonista (Sean Penn, nel ruolo di Jimmy Markus) e non protagonista (Tim Robbins, in quello di Dave Boyle), e dal favore della critica (e del pubblico), il ventiquattresimo film di Clint Eastwood rappresenta indubbiamente un’ottima prova di drammaturgia di attori su una sceneggiatura forte e ben scritta, senza certamente esaurirsi in ciò. L’adattamento dell’omonimo romanzo del bostoniano Dennis Lehane 3, a opera dell’ugualmente bostoniano Brian Helgeland (già utilizzato da Eastwood nel precedente Blood Work, Debito di sangue, 2002, con cui Mystic River condivide l’intero cast tecnico), fornisce le basi per un film assai più complesso di quanto la geometria strutturale del plot poliziesco possa far pensare 4. Lo stesso bestseller di Lehane, intanto, presenta una materia narrativa ricca e stratificata che, attraverso un’abile gestione dell’intrigo di genere, sviluppa un’analisi profonda e inquietante dell’umana condizione di alcuni personaggi coinvolti in un destino di violenza, calati in un preciso milieu sociale e antropologico; quello di un paio di quartieri di immigrati irlandesi alla periferia di Boston, Flats e Point, bagnati dal Mystic River del titolo, che rappresentano un microcosmo reale e astratto al contempo, sineddoche di un’America che certo non è a perfect world, attraverso uno sguardo disincantato e amaro, destinato a risultare vieppiù esacerbato nell’adattamento eastwoodiano. E certo si capisce molto bene come il racconto di questa Boston,
completamente antitetica all’immagine della metropoli civile e progredita dei quartieri alti, del tutto esclusi dalla rappresentazione, nel romanzo come nel film, abbia fornito materia perfetta per un cinema, quello eastwoodiano, sempre più teso alla ricerca del lato oscuro dell’America, dell’altra faccia del sogno americano. In questo senso è vero che «nel suo personalissimo itinerario, anche geografico, alla ricerca del “lato oscuro” dell’essere statunitensi oggi […] Clint Eastwood è approdato a Boston, cioè in una di quelle città che per motivi storici, culturali, economici possono ben vantarsi di essere quanto di meglio gli Stati Uniti d’America siano in grado di mostrare di sé ai propri cittadini e al mondo. Vi è approdato per rivoltarla come un guanto, naturalmente» 5. In questa prospettiva, la sottolineatura dell’importanza anche geografica del viaggio di Eastwood nella realtà della storia, così come del mito dell’America, appare assai pertinente. Da sempre il cinema del regista ha lavorato su geografie morali e ideologiche a partire da precise geografie territoriali, fino al Michigan di Gran Torino, altra tappa significativa di un itinerario nel territorio americano la cui forza e importanza risultano letterali e metaforiche insieme. Qui, in Mystic River, il lavoro condotto in sede di sceneggiatura, e poi di messa in scena, sulla Boston di Lehane, ne accentua la pregnanza sociale e antropologica attraverso una totale concentrazione su poche strade di quei quartieri periferici, su pochi scorci essenziali di una Boston maledetta, perduta, con la sola eccezione del frammento di uno spazio di confine, appena intravisto come sfondo sfuggente nel dialogo in cui Sean Devine (Kevin Bacon) indica al collega Withey Powers (Laurence Fishburne), in lontananza, dall’alto di un ponte, il quartiere nel quale è cresciuto. Quel quartiere che la macchina da presa, poi, attraverso una serie sistematica di panoramiche e movimenti di macchina verso l’alto e verso il basso, come si vedrà, contribuirà nel corso del film a indicare e circoscrivere come spazio reale e simbolico della storia. Al di là di questo microcosmo, esiste unicamente l’evocazione di uno spazio altro, significativamente Las Vegas, locus mitico e immaginario per eccellenza, meta della fuga mancata di Katie Markus e Brendan Harris, di cui, dopo l’omicidio della ragazza, restano solo alcuni dépliant pubblicitari, a raccontare retrospettivamente, e ironicamente, il progetto impossibile di due giovani di evadere da quei limiti, di modificare il proprio destino. Del romanzo di Lehane, inoltre, il film riprende pure il quadro temporale, altrettanto precisamente delimitato e (simbolicamente) circoscritto. Il tempo di quei venticinque anni che passano tra un evento traumatico (il rapimento del piccolo Dave da parte della coppia di pedofili, in presenza degli amichetti Jimmy e Sean), e un altro evento traumatico (l’omicidio di Katie, la figlia di Jimmy, per il quale Dave sarà sospettato e Sean agente incaricato delle indagini), in una parabola che vedrà i tre protagonisti, e le rispettive famiglie, ugualmente coinvolti e invischiati in una trama di reciprocità e collegamenti tanto semplici quanto ineluttabili. Uno spazio e un tempo, quindi, concentrati e nettamente delimitati, per un sistema di personaggi interrelati tra loro, nella nitidezza strutturale di una tragedia scandita in atti precisi. Una tragedia che alla propria geometria strutturale, tuttavia, contrappone uno schema morale e assiologico non altrettanto geometrico, non riconducibile a un sistema di principi o valori ugualmente nitido, come già accade nel romanzo dello scrittore bostoniano. Una tragedia americana, per riprendere una definizione dello stesso Eastwood 6, che trova nella crime story di Lehane, apparentemente classica, ben di più che la semplice ossatura di un intelligente racconto di genere. Mystic River non soltanto risulta una delle opere più cupe e dolorose, se non disturbanti, realizzate da Eastwood, ma pure si caratterizza per un discorso morale
tanto profondo e vibrante quanto aperto e contraddittorio, se non addirittura ambiguo, in una ricchezza di pensiero e di sguardo decisamente coraggiosa e moderna, sostenuta da un impianto solo superficialmente tradizionale, a differenza di quanto molta critica ha sostenuto. Proprio nello scarto tra l’apparenza di una confezione classica e l’evidenza di un discorso etico e morale che non racconta alcuna armonia 7, alcun equilibrio, alcuna trasparenza, si misura l’esito di un approccio paradossale e antinomico che viene condotto anche e innanzitutto a livello di singole scelte formali e stilistiche del film, laddove la strutturazione classica di alcuni procedimenti (come il montaggio alternato, perno estetico 8 e figura fondamentale del film) si svuota dall’interno, contraddice il suo significato convenzionale, assume un senso ironico e antifrastico. Così come la precisa e inquietante trama di corrispondenze, concordanze, raddoppiamenti che strutturano a diversi livelli il percorso narrativo del film vanifica ogni trasparenza e linearità semplice del racconto, mettendone in evidenza uno schema che vieta ogni via di fuga, ogni progresso narrativo e simbolico, ogni happy end o risoluzione. Il film rimane chiuso in una struttura che, se da un lato circoscrive, come si è detto, lo spazio e il tempo dell’azione, dall’altro ne impedisce ogni dinamismo, ogni evoluzione, in una parabola che rimane paradossalmente chiusa e aperta (non conclusa, non risolta) al suo interno. Da questo punto di vista, alcune battute del dialogo tra Sean e Jimmy, verso la fine del film [figg. 1, 2], quando il percorso del whodunit che soggiace alla materia narrativa si conclude e Sean comunica a Jimmy i risultati dell’inchiesta, ci dicono molto bene che non vi è stata progressione e che nulla si è risolto, si è concluso, e allora, quello che dovrebbe essere l’epilogo, ci riporta direttamente al prologo (come indica il brevissimo flashback che interrompe la linearità anche a livello di immagini), lasciando aperti tutti gli interrogativi morali del film: SEAN: When was the last time you saw Dave? JIMMY: The last time I saw Dave… SEAN: Yeah, Dave Boyle… JIMMY: Dave Boyle,… SEAN: Yeah, Jimmy. Dave Boyle,… JIMMY: That was 25 years ago, going up this street
in the back of that car. [Flashback: l’auto che porta via Dave bambino] […] SEAN: Sometimes I think… I think all three of us got in that car. And all of this is just a dream, you know? JIMMY: A dream, sure… SEAN: In reality, we’re still 11 years old boys locked in a cellar… imaging what our lives would have been if we’d escaped.
Si tratta di un dialogo fondamentale, che prende avvio dalle pagine del romanzo per discostarsene clamorosamente 9 proprio in queste battute che azzerano il tempo, il tempo cronologico di quei venticinque anni trascorsi tra un evento e l’altro, avvicinando i tre amici in un unico destino atemporale che confonde i ruoli (chi è stato vittima, chi ha ucciso, chi ha cercato di portare l’ordine della legge) in un’identica impossibilità di salvezza e di scampo dalla violenza e dalla prigione della vita. Le parole del dialogo risultano importanti anche per un altro elemento, che rimanda a una delle piste o delle chiavi di lettura più significative del film, quella fantastica o onirica («Sometimes I think… I think all three of us got in that car. And all of this is just a dream, you know?» Jimmy: «A dream, sure…»). Qui, come in altri film di Eastwood 10, la dimensione appunto fantastica e onirica, o addirittura spettrale, non soltanto è chiamata in causa dagli stessi personaggi del film (e soprattutto da Dave, con il
riferimento alla condizione dei vampiri, cui assimila se stesso, nel dialogo con la moglie Celeste, Marcia Gay Harden, quando la Tv trasmette Vampires di John Carpenter [fig. 3]) 11, ma è costruita e scritta anche attraverso precise scelte formali e stilistiche che forzano la trasparenza e l’apparente realismo di un film pur interamente girato in location reali e totalmente privo di effetti speciali, nella direzione di una fantasmatizzazione complessiva che contribuisce ulteriormente a smentire e a contraddire la presunta vocazione classica, che risulta piuttosto, a ogni livello, totalmente rivoltata e chiamata in causa in senso ironico e antifrastico, paradossale, ambiguo. Così come questa stessa ambiguità diviene quella del genere o dei generi cui il film si può ascrivere. Anche in questo senso, il rapporto del cinema di Eastwood con il cinema statunitense è un rapporto necessario, ma complesso. Crime story, stilemi noir (anche in relazione alla fotografia di Tom Stern, da Mystic River in poi direttore della fotografia dei film di Eastwood), richiami horror, film fantastico, si ibridano e si intrecciano in una contaminazione che certo non è pastiche postmoderno, ma personale rielaborazione delle strutture di riferimento classico, spesso convocate per discuterne la funzione, per riaprirne il senso, per rovesciarne la prospettiva. In questo senso, per esempio, è proprio quando l’architettura della crime story si risolve, incongruamente, inutilmente, al momento sbagliato, che il film rilancia tutto ciò che la trama fantastica e onirica invece non risolve, lasciando aperto l’incubo morale, esistenziale, sociale di tre esseri umani e di tre cittadini degli Stati Uniti che raccontano l’altro lato del sogno americano, persi in un meccanismo di violenze subite e agite, laddove colpa, innocenza, redenzione non risultano né attingibili, né discernibili. Così come tutto l’orrore risucchiato dalle acque del Mystic River, che significativamente dà titolo al film 12. CORNICI: UNA TRAGEDIA AMERICANA. INTORNO AL PROLOGO E ALL’EPILOGO
«C’est une tragédie américaine. Une histoire d’innocence perdue». Questa dichiarazione di Eastwood risponde a una precisa sollecitazione di Michael Henri il quale, in un’intervista al regista, rileva come il prologo e l’epilogo del film siano contrassegnati dalla presenza di precisi simboli dell’America 13. In effetti, il film inizia con una discussione sul baseball e termina con la parata del Columbus Day, facendo ironicamente riferimento al mito della fondazione. E l’innocenza perduta è quindi innanzitutto quella dell’America, proseguendo un discorso affrontato da Eastwood in molti suoi film, e tra tutti in modo forte in A Perfect World, per citare un film con cui Mystic River è spesso paragonato. Molteplici sono in effetti gli elementi di contatto e vicinanza tra i due film. A livello tematico, innanzitutto il rapporto consustanziale e metaforico tra l’innocenza (perduta) di una nazione e l’innocenza (perduta) dell’infanzia o della giovinezza. In A Perfect World, evidentemente quella del piccolo Phillip, ma anche quella dello stesso Butch, «alter ego adulto di Phillip» 14; qui, non solo quella di Dave, Jimmy, Sean, all three got in that car, segnati per sempre dal trauma di un abuso subito nell’infanzia, ma anche quella di tutti gli altri bambini e adolescenti di cui si parla ripetutamente nel film, con dialoghi e riferimenti puntuali (dall’infanzia di Katie, rimasta orfana di madre, di cui riferisce Jimmy in un dialogo di grande intensità, dopo la morte della ragazza 15; Brendan Harris, che riferisce ai due poliziotti gli scarsi ed evanescenti ricordi del padre Ray, di prima che questi sparisse per sempre; il fratello Ray Junior, nato già senza padre, muto, o ammutolito, assassino insieme all’amico, altro
adolescente perduto, della giovane Katie; Michael, il figlioletto di Dave, poi anch’egli, alla fine, orfano, il cui sguardo triste segna l’ultima sequenza del film [fig. 4]). Innocenza perduta, dunque, insieme a una condizione generale di orfanismo, reale e morale, che attraversa tutto il film. I padri non ci sono, scompaiono (Ray Harris, e poi Dave), o sono distratti (nella prima sequenza, come vedremo, i due padri discutono tra loro di baseball, mentre, di lì a poco, Dave verrà rapito), o sono colpevoli (il monologo di Jimmy seduto da solo nel portico, dopo la morte di Katie: «I know in my soul I contributed to your death… but I don’t know how»). Laddove le madri appaiono inquietanti, per debolezza e labilità (come Celeste Boyle), per squallore e insensibilità (la madre di Brendan e di Ray Junior), per eccessiva determinazione e forse amoralità (Annabeth, Laura Linney, moglie di Jimmy, sorta di Lady Macbeth, come è stato più volte rimarcato, anche dallo stesso Eastwood, che incoraggia il marito, reo dell’inutile omicidio di Dave, a giustificarsi e a proseguire). Lo scenario della desolazione, della solitudine, dell’innocenza perduta dei tanti figli che popolano il film si dipana costantemente e coerentemente lungo tutto il suo percorso narrativo, ed è significativamente incorniciato dal prologo e dall’epilogo, in alcuni momenti e modi esemplari. Vediamo il prologo. Nell’insieme, questo si struttura in quattro nuclei principali. Una breve ma fondamentale introduzione all’ambiente; i bambini che giocano e il rapimento; il breve flash della prigionia e della fuga di Dave; il rientro a casa di quest’ultimo, cioè la fine dell’età dell’innocenza. Al primo di questi nuclei, il compito di introdurre le coordinate reali e metaforiche del film, il contesto geografico e morale. Dopo i titoli di testa su fondo nero, accompagnati dalle sole note di un pianoforte che introduce il commento musicale del film, composto dallo stesso Eastwood (nelle sequenze successive diverrà sinfonico), il film ha inizio con un campo lunghissimo sul ponte e sul fiume, visti al di là di un agglomerato di case popolari su cui la prima ampia panoramica del film, dall’alto verso il basso, andrà a restringere, deviando verso destra, mentre udiamo prima la voce di uno speaker radiofonico, poi voci lontane che discutono di baseball. Solo in un secondo momento la macchina da presa giunge a inquadrare due uomini su un balcone, che proseguono il loro discorso, in assenza di altra occupazione che il commento alla prossima partita degli Yankees. È la prima di una sistematica e ambigua serie di panoramiche e di movimenti complessi della macchina da presa, lungo tutto il film, che scendono, dall’alto, verso lo spazio diegetico, o viceversa, dal basso verso l’alto, se ne allontanano (come quella che, poco prima della fine, lascia la parata del Columbus Day, chiudendo un cerchio avviato nel prologo, subito prima dell’excipit, con l’ultimo movimento sul fiume, su cui il film effettivamente ha termine). Questi avvicinamenti e distanziamenti del punto di vista rispetto al narrato puntellano effettivamente tutto il film, senza che la loro funzione appaia chiara o univoca. Effetto di deissi, di designazione, di informante, come potrebbe essere al limite, a un primo livello, in questa prima sequenza (il luogo del racconto: il quartiere popolare di Boston, un certo tipo di umanità ecc.); allusione, catalisi, funzione indiziaria; punto di vista propriamente detto, spazio di commento, sottolineatura ecc. (la panoramica che sale tra gli alberi, nel parco, guardando il cadavere di Katie da un punto di vista sovrumano). Un po’ tutte queste funzioni sono state variamente evocate e attribuite, in sede critica, alle diverse occorrenze di quella che appare una delle figure maggiori del film, senza che in effetti, da questa sorta di metrica, derivi una ratio di tipo classico. Non si tratta della gestione di un’istanza narrante che distribuisce il proprio sapere, la propria visione del mondo, i propri
suggerimenti interpretativi secondo una logica di equilibrio tra obiettivo e mezzo. Il ripetersi di questa modalità di sguardo, che si esercita, come si è detto, su una dinamica alto/basso, basso/alto, entrando e uscendo alternativamente dal racconto, la rende non solo visibile, ma soprattutto ambigua, opaca, resistente. Una scrittura non trasparente, mai del tutto motivata secondo la logica classica, ma che al contempo non attiva nessun percorso metalinguistico convenzionalmente moderno o postmoderno, nessun effetto di jouissance formale. Piuttosto una scrittura che si assume il rischio dell’ambiguità, dell’incertezza di senso e di morale (come, tra tutti, nel caso citato dello sguardo dall’alto sul cadavere di Katie). Qui, tornando al prologo, la designazione del luogo, e di un luogo connotato nel senso già chiarito in precedenza (quella Boston, quell’America ecc.), si dà attraverso questa forma che presenterà per tutto il film margini di vuoto funzionale e di apertura. Così è anche per il montaggio che segue la prima panoramica. Lo stacco ci porta sull’inquadratura di un bambino nel cortile del caseggiato (che di lì a poco sapremo essere Jimmy), solo, annoiato, triste, che guarda verso l’alto, verso il balcone dei due adulti [fig. 5], come chiarisce la successiva soggettiva che mostra, dal basso, i due uomini che proseguono la loro conversazione, bevendo birra, sgranocchiando qualcosa. La dialettica oggettiva/soggettiva, che avvia un sintagma classicamente raccordato, non ha sbocco. Non ha scopo, se non quello di evidenziare lo sguardo vagamente interrogativo, e al contempo rassegnato, del ragazzino verso i due adulti. Il sintagma finisce lì, viene interrotto (stacco: arriva l’amico, che risulterà essere Sean, che lo chiama per correre a giocare ecc.) e proprio in questa interruzione, nella mancanza di uno sviluppo, quello sguardo di Jimmy arriva a resistere, mostra la propria densità, di sguardo che interroga e sguardo da interrogare. Uno sguardo rivolto (invano) al mondo degli adulti, dei padri, per la precisione. Altri sguardi segneranno il film, dal basso verso l’alto, con differenti ma coerenti riprese di una modalità precisa, in una di quelle piste fatte di richiami e corrispondenze che attraversano Mystic River. Lo sguardo verso i finti poliziotti che porteranno via Dave. Lo sguardo di Sean e Jimmy verso il balcone da cui i padri li interrogano dopo il rapimento dell’amico. Lo sguardo di Dave nella cantina al suo seviziatore («No more!»). Lo sguardo muto di Jimmy e Sean verso Dave alla finestra, nell’ombra, al rientro a casa di quest’ultimo dopo il rapimento. Più avanti nel film, nella sequenza in cui Sean Devine e il collega Whitey interrogano Brendan Harris, troveremo ancora lo sguardo di un giovane, dal basso verso l’alto, verso gli adulti. Anche in questo senso, come accade per la panoramica iniziale, il prologo inaugura un percorso che attraverserà il film, un percorso formale e di senso che, nel suo insieme, eccede le funzioni direttamente narrative e si dà a vedere, impone la propria logica non trasparente. Tornando allo sguardo iniziale del piccolo Jimmy, è questo che suggella il primo nucleo del film, la sua introduzione, così come sarà uno sguardo di Jimmy adulto, su cui ci si soffermerà più avanti, a “chiuderlo” ambiguamente, sospensivamente, come vedremo. Il secondo nucleo del prologo si avvia con la costituzione del gruppo dei tre personaggi, bambini, che giocano in strada (Dave è l’ultimo ad arrivare), fino al rapimento. Il montaggio a tratti, inizialmente, introduce la macchina a mano, con angolazioni che utilizzano una prospettiva dal basso verso l’alto, da terra, contribuendo, per tutta la sequenza, a un leggero effetto di alterazione del quadro, avvalorato da una fotografia eccessivamente raffreddata, biancastra, nitida, che paradossalmente contraddice l’ipotesi realista delle location reali, la mancanza di filtri ecc., ottenendo un effetto vagamente surreale e onirico, fino al campo lungo che ci mostra l’auto dei rapitori che
si allontana, con il piccolo Dave che guarda disperato gli amici dal finestrino posteriore. Questa inquadratura ritornerà, in senso proprio nel già citato flashback di Jimmy, nel dialogo con Sean dopo la scoperta degli assassini, ma anche, riscritta, in quella che mostra Dave adulto sull’auto dei fratelli Savage allontanarsi verso la propria esecuzione. Un effetto retorico, come alcuni hanno sottolineato, ma anche l’ulteriore conferma di una scrittura non realista, non immediatamente narrativa, in cui la trama delle riprese, delle ricorrenze, delle duplicazioni, agisce in funzione destrutturante rispetto alla logica (o crono-logica) lineare, rispetto alla consistenza materiale degli eventi e degli esistenti, introducendo dei forti effetti di non trasparenza. Il nucleo successivo, quello della prigionia di Dave e della sua fuga tra i boschi, è poco più che un flash, ma è fondamentale nell’avviare in modo sensibile la pista fantastica del film. Gli effetti sonori (il rumore della porta che si apre, i passi del seviziatore in cantina, amplificati da echi e rimbombi, i suoni inquietanti della fuga, quasi degli ululati, i fruscii delle fronde degli alberi, ambiguamente sospesi tra oggettivo e soggettivo, oppure tra diegetico ed extradiegetico), i movimenti di macchina scomposti che accompagnano la corsa di Dave, corrispondono a un pattern stilistico (e narrativo) di genere fantastico, se non specificamente horror, introducendo un registro onirico che, specie intorno a Dave, il film riprenderà e rilancerà ripetutamente (non solo nella già citata sequenza dei vampiri, ma in diversi altri momenti: quello in cui Dave trasforma la sua esperienza in una fiaba horror raccontata al figlioletto, quello della sua esecuzione a opera di Jimmy, in cui stilemi horror e noir, forte onirismo ecc. trasformano il film in un racconto di spettri). Il prologo si conclude con il rientro di Dave, con gli sguardi già citati dei ragazzi che così concludono la loro infanzia, tra due dissolvenze al nero, prima di ritrovarci dopo venticinque anni.
che condanna la debolezza degli altri e giustifica Jimmy in quanto “re” («A king knows what to do and does it…»), prima di fare l’amore. Ma subito la parata riprende, guardata significativamente dall’alto, prima che il montaggio reintroduca (provvisoriamente) l’orizzontalità dei punti di vista, riunendo il filo pubblico con quelli privati. Montaggio e movimenti di macchina riannodano infatti tutti i fili, mostrando, tra la folla, Celeste, Sean (che ha riconquistato moglie e figlia, cui però il film non concede la minima consistenza), e infine Annabeth, attraverso una trama di sguardi (prima Celeste-Sean, poi Celeste-Annabeth) che ripercorre le relazioni tra i personaggi, i buchi e i vuoti della storia, la colpa da tutti condivisa nei confronti di Dave (quella della moglie che per prima l’ha sospettato, denunciandolo a Jimmy, quella di Sean, per non averlo saputo proteggere, quella di Annabeth, complice morale del marito ecc.). Poi gli sguardi e i richiami vani di Celeste nei confronti del figlio Michael, isolato e triste nella squadra di baseball che sfila su un carro, a chiudere il percorso dell’innocenza perduta di figli diventati orfani, abusati materialmente o simbolicamente dalla vita. Solo poco dopo arriva Jimmy, e qui la rete degli sguardi si stringe a lui e a Sean, in un dialogo muto o, meglio, espresso con gesti la cui ambiguità totale chiude la dinamica diegetica lasciando aperta quella morale. Al gesto di Sean di mimare l’atto di sparargli contro, Jimmy risponde con un gesto altrettanto ambiguo e anche più inquietante, in quanto indecifrabile e vuoto, quello di aprire le mani in modo interrogativo o rassegnato 16 [fig. 10], esattamente come Marcello nella sequenza finale della Dolce vita, come diversi critici hanno notato. La presenza stessa di questa reminiscenza, più che citazione, di una delle opere (aperte) più rappresentative della modernità cinematografica contribuisce a disorientare, a riaprire il discorso. Anche qui una struttura classica porta a una conclusione altra. Il montaggio precedente, preciso nel raccordare gli sguardi, finisce su uno sguardo opaco, non più raccordabile. La convocazione della struttura classica ha condotto a un risultato antinomico, certamente non classico. Non c’è esito, non c’è finale, non lo si conosce, non ci sono ipotesi chiare di sviluppo. Il gesto di Sean può essere interpretato in modi opposti (minaccia, o viceversa complicità ludica tra un official hero e un outlaw hero, secondo uno schema di complicità e cameratismo maschile che altri pattern di genere frequentati da Eastwood potrebbero suggerire). Il gesto di Jimmy è invece del tutto aperto. In questo, il film si allontana molto dal romanzo, che chiude in modo meno sospeso, decisamente più classico. Nel testo letterario, infatti, anche se Jimmy è ancora libero e impunito, Sean promette, almeno a se stesso, di fare il suo dovere. Se diegeticamente la parabola rimane comunque aperta, da un punto di vista morale il quadro è meno ambiguo, meno inquietantemente vago. Così il romanzo: and he looked across the street at Jimmy. If it took him the rest of his life, he was going to bring him down. You see me, Jimmy? Come on. Look over again. And Jimmy’s head swiveled, he smiled at Sean. Sean raised his hand, the index finger pointing out, the thumb cocked like the hammer of a gun, and then he dropped the thumb and fired. Jimmy’s smile broadened 17.
Nel film, la macchina da presa stacca su Jimmy che si rimette gli occhiali scuri (no trespassing) per reintrodurre la parata, con un movimento ascendente che subito distanzia, si allontana. Dopo l’inquadratura del tombino su cui i tre ragazzi avevano inciso i loro nomi (Dave a metà) subito prima del rapimento, il film termina con una panoramica sul Mystic River, come già si era sottolineato. Prologo ed epilogo, dunque, eloquentemente segnano i contorni di una «tragedia senza catarsi» 18 che intreccia la dimensione privata, esistenziale dei personaggi, con quella
pubblica dell’America, un’altra America, rappresentata da quella Boston, in cui il personaggio di Withey Powers, il collega di Sean, risulta l’unico osservatore estraneo alla comunità irlandese. È anche vero che il film è una tragedia tout court, in cui incombe un senso del destino e della fatalità che ampliano il discorso e, al tempo stesso, rendono il film di Eastwood vieppiù ambiguo. Innocenze violate o perdute, colpe, responsabilità fattuali e morali, padri e figli appaiono da un lato collegati e motivati in relazione a un preciso sfondo sociale e antropologico, come si diceva in apertura, in cui la violenza chiama violenza; ma al contempo, le modalità di racconto, le ricorrenze formali, l’uso antinomico delle strutture classiche, finiscono con l’aprire continuamente il discorso, con il sospenderlo, evitando ogni sociologismo, ogni determinismo, senza dare indicazioni. Si potrebbe dire, come è stato detto, che in Mystic River «Eastwood si sposta su un fatalismo più generico e astorico» 19. Da questo punto di vista è interessante citare un frammento di dialogo in cui Jimmy, a colloquio con Sean e Powers, subito dopo la morte di Katie, immagina una catena alternativa a quella del destino che ha condotto all’omicidio della figlia, e quindi alla propria storia, secondo una logica che lui stesso esemplifica riconducendola alla grande storia: Did you ever think about one little choice could change a whole life? I heard Hitler’mother wanted to abort him. At the last minute, she changed her mind…
Per poi giungere a pensare che se fosse salito lui su quella macchina, al posto di Dave, sarebbe stato troppo devastato per corteggiare una donna come la madre di Katie, che non sarebbe nata, né quindi morta ecc. È fra l’altro interessante notare che il dialogo si basa sul romanzo, ma modificandone i riferimenti storici e, sorprendentemente, evitando proprio il riferimento che per eccellenza avrebbe potuto interessare Eastwood, quello alla storia americana: I’m just saying there are threads, ok? Threads in our lives. You pull one, and everything else gets affected. Say it rained in Dallas and so Kennedy didn’t ride in a convertible. Stalin stayed in the seminary. Say you and me, Sean, say we got in that car with Dave Boyle… 20.
In effetti la forza del discorso eastwoodiano sta nella contraddizione o nell’ambiguità di questa doppia dimensione sociale e fatale, e dunque nell’impossibilità di un giudizio morale. Anche in ragione di ciò, Eastwood non crede più alle risorse classiche del linguaggio, perlomeno non crede alle loro conseguenze logiche tradizionali, svuotandole dall’interno e facendone un utilizzo paradossale. FORME: CLASSICO, POSTCLASSICO
Il dibattito sul cinema americano postclassico si è concentrato in modo precipuo da un lato sulle forme di intensified continuity, analizzate in particolare da David Bordwell in riferimento al cinema statunitense moderno e contemporaneo 21, e dall’altro sulle caratteristiche del cinema blockbuster, rilevandone caratteristiche come la dimensione spettacolare vs quella narrativa, la ripresa di una logica neoprimitiva delle attrazioni, l’esibizione tecnologica o piuttosto l’eccesso di classicismo ecc. 22. Il cinema di Eastwood, come si è notato nel saggio introduttivo, e in particolare un film come Mystic River, non rientrano in questo ambito di definizione di una possibile postclassicità. Eppure il concetto di neoclassico o il luogo comune di “ultimo dei classici”, come già si è detto, non restituiscono la consistenza e la qualità di un lavoro sul cinema che rivela aperture e rielaborazioni interessanti, che non si limitano ad aggiornare la classicità, ma piuttosto ne destrutturano il senso.
Nei paragrafi precedenti si è fatto riferimento ad alcune modalità antinomiche o antifrastiche di utilizzare le risorse classiche, convocandole per smentirne la funzione, o ad alcune forme o figure che eccedono ragioni immediatamente narrative. Tra queste, l’uso di movimenti di macchina e di punti di vista che portano ad aprire il racconto piuttosto che a costruirlo (come, tra tutti, l’intero percorso della figura della panoramica alto/basso, basso/alto); oppure i casi di continuità e di raccordi inutili o interrotti ecc. In generale, una serie di figure e configurazioni testuali che ritornano, evidenziando la propria presenza, andando oltre ogni invisibilità. All’interno di questo contesto, la figura o la forma centrale del film è indubbiamente quella dell’alternanza. Il film è in buona misura strutturato sul montaggio alternato, che ne segna quantitativamente lo sviluppo, ma che anche ne attraversa qualitativamente il percorso morale, contribuendo al risultato complessivo di ambiguità e non conclusione che caratterizza la dimensione dolorosa e disturbante del film. Se il montaggio alternato interviene a più riprese, strutturando sostanzialmente il film, nel percorso principale che sta tra il prologo e l’epilogo (si veda per esempio l’alternanza tra la funzione religiosa della Prima Comunione della figlia piccola di Jimmy con la progressiva scoperta della morte di Katie), il ricorso a questa figura, che si potrebbe definire ur-classica, conosce una progressiva modificazione di funzione, fino a quella realmente antifrastica di tutto il blocco maggiore, quello che conduce contemporaneamente all’esito dell’inchiesta di polizia da un lato, e alla condanna ed esecuzione di Dave dall’altro. Se negli interventi precedenti il montaggio alternato ricopre anche e soprattutto una funzione di suspense, oltre che di messa in parallelo di contesti e destini incrociati, è in particolare con la progressione della tragedia che, senza che perciò la suspense venga meno (e in questo, certo, Eastwood è classico), la direzione di questa attesa si definisce sempre più ironicamente e beffardamente nella negazione del salvataggio all’ultimo minuto. L’alternanza consente di seguire i passi dell’indagine, che via via si avvicinano a una verità sempre più inutile, mentre il cerchio dall’altro lato si stringe su Dave, in alcune delle sequenze più allucinatorie del film, che contribuiscono a derealizzare tutto l’insieme del racconto e far emergere esponenzialmente la dimensione fantastica del film. L’alternanza sembra infatti anche evidenziare un rapporto di squilibrio tra generi diversi, il poliziesco, la crime story, da un lato, e il noir onirico dall’altro (la sequenza notturna sulle rive del Mystic, con il dialogo realmente allucinato tra Jimmy e Dave, prima dell’assassinio, è del tutto spettrale). In questo, anche, il film rivela la volontà di ripensare le strutture e i generi classici, con una forma di contaminazione non ostentata, non manieristica. Qui il montaggio amministra sottilmente questa operazione di ripensamento. La linea poliziesca arriverà a un esito che, nel quadro del genere di riferimento, corrisponderebbe a un risultato positivo, ma questo quadro è parziale, e viene contraddetto dal pattern noir (che vira fino all’orrore), per il quale il meccanismo mortale prosegue, e verrà naturalmente ucciso the wrong man (come Jimmy dirà alla moglie). Il montaggio, in sostanza, a mano a mano che contribuisce a far progredire la materia narrativa, ne nega la logica, o meglio, ne nega una logica unica, così come nega una risoluzione valida. L’attesa è una falsa attesa, o perlomeno ingannevole. Il montaggio sembra proseguire soprattutto per mostrare ironicamente come le due linee siano destinate a non incontrarsi se non nella contraddizione, nel conflitto degli esiti, rovesciando totalmente la prospettiva griffithiana della figura classica dell’alternanza. Questo montaggio è dunque antifrastico rispetto alla sua funzione apparente, così come tutto l’involucro pseudoclassico del film è in contraddizione con la morale che racconta.
In ciò, Eastwood elabora un proprio discorso di messa in discussione della classicità, forse non meno contemporaneo rispetto ad altri percorsi di postclassicità più collegati alle pratiche postmoderne. Se il rapporto tra classico e postclassico si gioca anche su ciò che Elsaesser e Buckland definiscono «the factor we have been calling “work”, the meaning-making processes whereby internal (formal, stylistic, rhetorical) procedures are transforming external (social, ideological, referential) materials into narrative» 23, allora questo rapporto trova nel cinema di Eastwood un momento non trascurabile. Un’occasione, tra altre, che potrebbe consentirci di dire che, se oggi le teorie del cinema americano concordano nel considerare la produzione del periodo classico meno monolitica di quanto alcune prospettive di studio, come quella bordwelliana, avevano indicato, occorre fare attenzione a non considerare ora il postclassico troppo monolitico.
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Million Dollar Baby di Giacomo Manzoli Nel 2000 viene pubblicata una raccolta di racconti, Rope Burns: Stories From the Corner, fra i quali rientra anche Million Dollar Baby. L’autore è F.X. Toole (alias Jerry Boyd). Come Henri-Pierre Roché, Toole è un signore che ha fatto mille mestieri nella vita (più umili, per la verità, rispetto al francese), che nutre un’immensa passione nei confronti della “nobile arte”, che scrive il suo primo libro a settant’anni. Entrambi moriranno avendo lasciato ai posteri solo due titoli degni di nota (il secondo di Toole, Pound for Pound, uscirà postumo dopo la scomparsa dell’autore avvenuta nel 2002). Entrambi hanno fornito la materia prima per la costruzione di un classico della storia del cinema. Sia chiaro che non si tratta di un giudizio di valore ma di una semplice e banale constatazione. Million Dollar Baby (2004), infatti, è un film che conquista quattro premi Oscar (film, regia, protagonista e non protagonista), oltre 100 milioni di dollari di incasso nei soli Stati Uniti (senza possedere nessuna delle caratteristiche tipiche di un blockbuster), un consenso unanime da parte della critica e del pubblico 1. Il racconto di Toole narra la vicenda di una ragazza proveniente dalla provincia più depressa del Missouri, Margaret Mary Fitzgerald, che si accosta al pugilato dopo i trent’anni, con la ferma intenzione di diventare una campionessa. Per questa ragione vuole che ad allenarla sia l’anziano ma espertissimo proprietario di una palestra, Frankie Dunn. Dopo aver vinto le resistenze di quest’ultimo, Maggie dimostra una ferrea volontà e un talento particolare, riuscendo in breve a conquistare la chance di un incontro per il titolo mondiale con la campionessa tedesca Billie Astrakhov. La scorrettezza dell’avversaria e l’incidente di uno sgabello posto da Frankie sul ring rendono Maggie tetraplegica. Dunn l’assiste amorevolmente, proteggendola da una famiglia rapace, ma le condizioni della ragazza degenerano. Dopo che questa è arrivata a cercare di suicidarsi amputandosi a morsi la lingua, Frankie decide di accondiscendere alla sua richiesta e le pratica l’eutanasia. Diversamente da quanto accade di solito nel rapporto fra cinema e letteratura, il film diretto da Clint Eastwood mantiene le componenti del racconto – che costituisce il plot principale –, aggiungendo però una serie di elementi che vanno a rimpolpare le quarantaquattro pagine del testo di Toole 2. Tutti i personaggi, le situazioni e i dialoghi presenti nel romanzo ritornano nel film, con piccoli spostamenti e aggiustamenti dettati da esigenze piuttosto evidenti di drammaturgia, e ad esse può essere ascritta anche l’unica sottrazione. Quando la famiglia di Maggie si reca in ospedale e cerca di ottenere la delega alla gestione dei soldi che lei ha messo da parte, nel film Frankie Dunn si limita ad assistere con disprezzo all’atteggiamento dei parenti, mentre nel libro li segue e ha uno scontro pugilistico con uno dei fratelli, mandato violentemente a terra nonostante la differenza di età e di stazza. Molto più interessanti, invece, le aggiunte che Paul Haggis decide di apportare al racconto. Prima di analizzarle, tuttavia, sarà utile ricordare che Haggis non è uno dei tanti sceneggiatori messi al lavoro su un adattamento, bensì una figura emergente del panorama hollywoodiano. Dopo anni passati a scrivere e dirigere serie televisive di vario livello (da Love Boat a Walker Texas Ranger), Haggis diventerà il primo sceneggiatore/regista a vincere consecutivamente l’Oscar nelle due categorie (Crash, da lui diretto, sarà il miglior film nel 2006, l’anno dopo il film di Eastwood) e si
affermerà come una delle personalità più acute nella descrizione dell’American Zeitgeist contemporaneo, scrivendo i due successivi film dello stesso Eastwood (Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima, dittico del 2006) e dirigendo un altro film apprezzato dalla critica mondiale come Nella valle di Elah (2007). È sufficiente valutare le connessioni fra quest’ultima pellicola (un padre alla ricerca del figlio scomparso al ritorno dalla guerra in Iraq) e Million Dollar Baby, per rendersi conto del fatto che Haggis può e deve essere considerato a tutti gli effetti coautore di Eastwood nella realizzazione di questo e degli altri film girati in collaborazione. Peraltro, un coautore che è in qualche modo anche un epigono e un discepolo. Rispetto al testo di Toole, la sceneggiatura di Haggis lavora molto sulla collazione con un altro racconto dello stesso scrittore, intitolato Acqua ghiacciata 3. Qui è presente infatti la coppia di anziani ex pugili che gestiscono una palestra, composta dal guardiano Willie “Scrap Iron” DuPree e dal proprietario Curtis “Hymn” Odom. I due si troveranno a difendere un povero sciocco, Dangerous Dillard Fighting Flippo Bum-Bum Barch, dalle vessazioni del professionista Shawrelle. Quando un giorno Scrap si trova nei bagni, Shawrelle sfida Dillard in un incontro e lo massacra, approfittando dell’assenza di Hymn. Questi tornerà giusto in tempo per abbattere il gradasso. L’episodio viene perciò integrato da Haggis come trama secondaria, il cui (relativo) happy end riduce in parte la cupezza del racconto principale, dove DuPris diventa il narratore della storia (è sua la voice over che sentiamo di quando in quando) e sostituisce Hymn nell’impresa finale. Questi non compare in quanto personaggio, ma fornisce il ritratto della figura cui aderirà il personaggio tratteggiato da Eastwood/attore, per nulla simile al macilento Frankie Dunn del racconto Million Dollar Baby. Da questa variante ne conseguono almeno altre due. La prima riguarda l’amore per la cultura che Dunn manifesta nel corso di tutto il film (a indicare la complessità della sua personalità e a compensare la brutalità di un ambiente che si costituisce attorno a una pratica violenta). La seconda concerne il suo rapporto contraddittorio con la religione cattolica, che lo vede pregare e recarsi quotidianamente a messa per poi rivolgere al prete domande imbarazzanti sulle contraddizioni della dottrina, in particolare sul problema della Trinità e del Cristo («una specie di semidio»?) in termini irridenti e blasfemi. Entrambe queste invenzioni sembrano svolgere una funzione di sottolineatura di alcuni snodi etici che contraddistinguono la vicenda narrata con asciuttezza referenziale nella parabola descritta da Toole. Nel primo caso, come detto, si intende rimarcare la nobiltà della boxe, eletta a cultura ascetica che riguarda la disciplina del corpo e che si deve accompagnare a una disciplina della mente, da raggiungere attraverso altri canali (almeno, questa pare essere la concezione di Dunn in quanto “guru”). Nel secondo caso, l’aspetto religioso di una vicenda intrisa di pietas, in cui la figura di Maggie finisce invischiata in un martirio al quale Dunn – praticante ma non credente – dovrà porre termine 4. Il testo letterario, invece, si limitava a mostrare Dunn in confessionale dal compatriota padre O’Gorman, pervaso da risentimento nei confronti di Dio e pronto a sentirsi definitivamente rispondere che la sua scelta avrebbe comportato un peccato mortale e la perdita dell’anima. Nella stessa direzione vanno altri dettagli: la figura di Big Willie Little, il campione lanciato da Frankie che lo abbandona per la sua riluttanza a correre rischi e a organizzare l’incontro per il titolo, sorta di alibi motivazionale che serve a dimostrare la legittimità di ogni decisione presa da Eastwood nel prosieguo del film. E lo stesso può dirsi per la visita di Dunn e Maggie all’Ira’s Roadside Diners, il posto dove lei si recava
«sempre con suo padre» e dove Frankie mangia una torta di crema al limone dopo la quale «può morire e andare in paradiso». La sequenza si conclude con una domanda fatidica: «Chissà se lo vendono questo posto? Sai, ho qualche soldino da parte» a spiegare – sempre a scanso di ogni ambiguità – il destino finale del protagonista. L’intera sequenza del ritorno dalla visita familiare nel Missouri, del resto, sembra essere un manifesto della politica autoriale di Eastwood. Dopo che la madre e la sorella di Margaret hanno dimostrato tutta la loro grettezza e ingratitudine, sequenza che si conclude con un movimento di macchina a stringere sul volto deluso di Hilary Swank con Eastwood sullo sfondo, lo stacco ci riconsegna gli stessi due attori in posizione invertita: il corpo di Eastwood, di spalle, è in primo piano, proteso sul cofano dell’auto, nell’atto di lavare il parabrezza, mentre il volto della Swank s’intravede dietro il vetro [fig. 1]. Seguono due campo-controcampo, fra lei e il manager, l’ultimo dei quali riprende la stessa scena iniziale dalla parte opposta dell’auto. Un movimento di macchina, contrario a quello della sequenza appena conclusa, ci trasporta in posizione trasversale. Oltre le pompe di benzina vediamo ora la ragazza in primo piano, intenta a guardare qualcosa che è al di qua del quadro [fig. 2]. Inizia allora una successione di otto campo-controcampo, con ciascuna inquadratura segnata da un lento zoom a stringere sui due volti che si osservano e si salutano. Uno è quello malinconico ma sorridente della protagonista, l’altro è quello di una bambina seduta su un camion con un cane sulle ginocchia [fig. 3]. Le due si rispecchiano e di lì a poco verremo a sapere anche il motivo di questa identificazione reciproca. La prima parte della sequenza, infatti, si conclude con la partenza dell’auto su cui è tornato a sedersi Eastwood. Dopo un’ulteriore inquadratura di raccordo con l’auto che attraversa la strada ormai al tramonto, una microellissi ci trasporta in un altro punto del tragitto [fig. 4]. Ora è notte e i due personaggi dialogano fra loro. Il dialogo è introdotto da una dissolvenza in nero, che si apre sul parabrezza dell’auto, ripreso frontalmente. Segue una serie di campo-controcampo (10 inquadrature), con Maggie che racconta di come il padre fosse solito condurla con lui sul camion assieme all’amato cane, paralizzato alle zampe posteriori. Terminato il racconto relativo alla fine dell’idillio e alla morte del padre, si torna all’inquadratura frontale con cui si era aperto il dialogo. Ora vediamo l’automobile passare davanti alla macchina da presa e aprire il campo alla sagoma di un locale in lontananza. Lo stacco ce li mostra all’interno, di spalle, lasciandoli intravedere attraverso il vetro appannato. Seguono quattro ulteriori shot all’interno, da una parte all’altra del bancone, con la macchina sufficientemente distante per inquadrare entrambi gli attori. Subito dopo, la ripresa è nuovamente fuori dal locale, con un carrello all’indietro che consente di vedere l’insegna che brilla nella notte (Ira’s Roadside Diners). Uno stacco netto spezzerà l’atmosfera di intimità notturna e trasporterà la storia di giorno, nella palestra di Dunn. LA GIUSTA DISTANZA: ELOGIO DELLA CLASSICITÀ
Difficile immaginare una sequenza più vicina – per stile e impostazione – alla concezione di messa in scena che caratterizza il cosiddetto cinema classico hollywoodiano. Nello scenario contemporaneo, segnato dalla rinuncia programmatica alla nozione stessa di inquadratura 5, un ricorso a immagini così plastiche e lente, costruite a partire dai soggetti/attori, dalla disposizione dei corpi nell’inquadratura in funzione delle relazioni psicologiche, nonché l’uso sistematico di una figura “premoderna” come il campo-controcampo, assume una valenza anacronistica, quasi
resistenziale. Non c’è saggio o monografia riguardante Eastwood che non si siano dilungati sulla classicità del suo stile 6, e la critica relativa a questo film non fa eccezione. Ma è lo stesso regista a fare una dichiarazione significativa al riguardo, allorché – intervistato da Jean-Michel Frodon, dice: non ho soggetti prediletti, ma è certo che amo molto filmare i volti. Nei volti c’è tutto. Oggi la maggior parte dei film sono girati prevalentemente in piani americani, senza dubbio perché la maggior parte dei registi hanno appreso il mestiere lavorando per la televisione. Ma io credo veramente nell’importanza del mettere in relazione le cose fra di loro. Amo che le cose vengano ben collocate nello spazio. Si deve fare in modo che ciò che ci si trova di fronte sia interessante e sia mostrato in modo interessante. La mia memoria visuale è stata influenzata da Ford, Hawks e Walsh, gente che sapeva inscrivere l’essere umano in un ambiente più vasto. Rappresentano la scuola visuale dei tempi in cui la televisione non esisteva 7.
Questa rivendicazione di appartenenza a uno stile “passato” (e alla visione del mondo in esso implicita) permette di comprendere la predilezione per una regia che potrebbe risultare statica e piatta in base ai parametri della contemporaneità, ma è d’altra parte funzionale a una vicenda che si inscrive in un progetto estetico di straordinaria coerenza. Come ha osservato Fabrizio Tassi, stabilita una volta per tutte la classicità di Eastwood è necessario domandarsi il perché, dato che appare subito chiaro che non si tratta di un non-stile 8. Trasparenza, frontalità, pazienza, nobiltà, pudore, distanza espressiva, prendersi il tempo necessario, chiarezza a costo di sconfinare nella ridondanza, sono tutti elementi che caratterizzano un cinema nel quale il tema di fondo sembra essere l’impossibilità di riscatto del soggetto e la necessità di ricercare ugualmente il senso per preservare almeno la dignità dell’esistenza. La maggior parte degli eroi dei film di Eastwood, del resto, sono personaggi ai margini, figure più o meno derelitte, destinate a un’esistenza dietro le quinte del cosiddetto successo. Le storie partono in genere da un’alleanza fra questi outsider 9, comunque troppo vecchi, in qualche maniera “passati”, ma di un passato poco glorioso, fantasmi malconci della cultura popolare 10 più bizzarra e naïf (circensi, prostitute, astronauti, guardie e ladri, pugili e pugilesse, cantanti, cacciatori e quant’altro), che compiono un percorso paradossale di redenzione. Sono fantasmi, come si diceva, figure che hanno in qualche modo raggiunto la consapevolezza della sconfitta e hanno deciso di non rassegnarsi. Compiono allora una sorta di viaggio che li erge per la prima e/o l’ultima volta a protagonisti della propria esistenza. Perseguono un progetto, assumendone i rischi e facendosi carico degli oneri, benché consapevoli del fatto che lo scacco sia inevitabile (perfino quando la natura li porta a trionfare, come negli Spietati, si tratta di una vittoria senza gloria, che non cambia il loro destino). La parabola prevede che si arrivi a un punto culminante, a un picco in cui appare la posta in gioco della sfida – quel rispetto che Toole pone come elemento primario e fondativo del pugilato in quanto attività “contro natura” –, a seguito del quale si è costretti a ridiscendere attraverso tutte le tappe del ridimensionamento e della catastrofe (tornare nei limiti del soggetto debole della postmodernità). L’errore straziante in cui perseverano i protagonisti di Mystic River, la verità che evapora dalla rappresentazione con cui l’avevano sostituita i protagonisti di Flags of Our Fathers, la vita che sfugge dal respiro dei protagonisti di Honkytonk Man o di Un mondo perfetto, dove la metafora del fantasma è letteralmente visualizzata dal costumino di Casper indossato dal piccolo complice di Kevin Costner, così come in
Million Dollar Baby viene richiamato da una delle battute conclusive di Morgan Freeman: «Quando mi apparve una specie di fantasma» (riferito al redivivo Barch). Non è un caso, allora, che si giunga a descrivere la seconda parte (discendente) del film come racconto di “spettralizzazione” dei due protagonisti 11, perché, rispetto a quanto stiamo cercando di evidenziare, Million Dollar Baby appare il più trasparente dei film di Eastwood, così puntuale da essere perfino didascalico. Maggie, infatti, è una cenerentola dei sobborghi che cerca di usare l’unico talento di cui è dotata (un fisico fatto per lo sport) per uscire dal destino miserabile cui è votata. Frankie è l’ex pugile che deve invertire la tendenza di un inesorabile declino. Lei ha fretta e lui non ne ha più. Entrambi hanno una storia familiare di abbandono e incomprensione, per disgrazia lei e forse per colpa propria lui. Nella prima parte lei provvede a bruciare le tappe del cammino di illuminazione che porta a dotarsi di un corpo e di una mente da pugile, mentre lui recupera le proprie origini e rafforza lo spirito attraverso lo studio del gaelico e della poesia. La cattiveria del mondo, l’imprudenza di lei e un riflesso condizionato di lui interrompono nel modo più apocalittico il cammino. Ma è il peggiore degli scherzi del destino. Di una crudeltà quasi metafisica. Da lì in poi il corpo di lei si decompone. L’armonia del movimento e la forza plastica sono corrosi dalla paralisi e dall’arresto circolatorio. Lo spirito di lui si consuma finché il sacerdote non pronuncia la sentenza definitiva, come chiosa ideale al gesto di pietà estremo che si accinge a compiere: «Non riuscirai mai più a ritrovarti». Taugh ain’t enough. Duro non è abbastanza. Questa è la sentenza con cui il film si apre e in qualche modo si chiude. Non c’è durezza che tenga, di fronte allo scacco verso cui gli esseri umani sono irrimediabilmente votati. E non vale a consolare minimamente l’ambivalenza di questi presupposti il tentativo che Scrap fa in conclusione, allorché cerca di convincere Dunn del fatto che «la gente muore continuamente» e l’unica cosa che può rimpiangere è «di non avere mai avuto la grande occasione». È certamente vero, e in qualche modo qui si condensa la morale di questa come di tutte le altre storie raccontate da Eastwood. Ma non c’è gratificazione per l’occasione avuta che possa evitare a questi eroi il dramma di vivere fino in fondo la consunzione del proprio progetto soggettivo, la propria riduzione a fantasmi viventi. «ROAD TO PARADISE»
Rispetto a questa morale, e più in generale alla moralità che segna il modo di raccontare eastwoodiano, la sequenza che abbiamo descritto appare emblematica. Dopo la visita in Missouri, è dimostrato che Maggie è affettivamente orfana. I due si rimettono in viaggio e qui avviene un doppio rispecchiamento, sottolineato abbondantemente dalla regia, senza nessuna paura di ridondanze o pleonasmi. La ragazza si rispecchia nella bambina seduta su un camioncino con il cane in braccio, appena prima di raccontare una storia che la vede esattamente nella posizione della ragazzina con cui aveva incrociato lo sguardo. I controcampi, allora, acquisiscono retroattivamente la valenza di un’immagine mentale prolettica, mentre gli zoom e le ripetizioni sembrano marcare lo statuto incerto di tale scambio di sguardi sul piano diegetico. Poi, il tempo lunghissimo del racconto intimo cui Maggie si abbandona durante il tragitto notturno viene come assorbito dallo spazio angusto dell’abitacolo dell’auto 12. L’Ira’s Roadside Diners è il luogo in cui la modulazione delle distanze fra i due protagonisti prevede la prossimità, cui corrisponde un pudico allontanamento della macchina da presa e che viene in qualche modo ricondotta metaforicamente alla lemon
pie. Il locale di Ira non è solo il “Paradiso” in cui tornerà a rifugiarsi Dunn dopo la catastrofe. È anche un’accettabile approssimazione per l’isola di Innisfree immortalata dalla celebre poesia di Yeats, il poeta nazionale irlandese 13 che Frankie legge a Maggie durante la degenza. Qui si parla del rifugio sul lago (Innisfree sta per il gaelico Inis Fraoigh) dove «la pace discende goccia a goccia» come l’adrenalina iniettata nella flebo della ragazza tetraplegica, in un gioco di rimandi quasi ossessivo che moltiplica, attraverso espedienti filmici e letterari, l’intensità e dunque l’efficacia patemica di un film giocato sul filo del rasoio. UNA BELLA STORIA D’AMORE
La sequenza in oggetto, infatti, è fra le altre cose un punto di svolta. Uno dei tanti detour di una vicenda apparentemente minimalista che si rivela però – a una riflessione attenta – perfino troppo ricca di livelli tematici e di registri emozionali. Fino a quel punto, infatti, la distanza siderale fra i due personaggi (nella prima sequenza lui è ai bordi di un ring inquadrato dalla cima di un grande palazzo dello sport, mentre lei lo osserva da un punto esterno, collocato oltre l’ultimo anello di spettatori) si era ridotta secondo la logica di un racconto di formazione sportiva. Lui era sempre rimasto nel suo angolo e lei aveva conquistato con il sacrificio quel rispetto del coach che le aveva consentito di sedere sullo sgabello del re dei cutter, di quella specie di dottor House delle palestre che pare essere il Frankie Dunn della prima parte del film. Da questo momento, la distanza psicologica fra i due è definitivamente annullata a partire da una corrispondenza sentimentale. Nella citata intervista a Frodon, Eastwood è esplicito fino alla brutalità, allorché racconta di avere accettato di dirigere e interpretare la storia scritta da Haggis perché si trattava di una «bella storia d’amore». E lo scambio di battute che avviene fra i due durante l’incontro finale («E se vinco?» «Ti sposo!») non deve far pensare a nessun tipo di ambiguità. La loro è una grande storia d’amore fra un padre e una figlia adottivi. Due che hanno deciso di condividere lo stesso codice del rispetto, quello per cui non è troppo tardi neanche quando è già, in effetti, «troppo tardi» (è l’espressione laconicamente avverbiale con cui Dunn chiude la confessione con il sacerdote); due che hanno eletto il ring a spazio della guerra per la conquista del presente e del futuro – una sorta di inferno tollerabile – e la capanna di Innisfree a isola della pace e della riconciliazione con il passato (not unforgiven, appunto). Allora, se fino a quel momento il film sembrava seguire abbastanza fedelmente lo schema del dramma sportivo, con una particolare somiglianza con le atmosfere di un capolavoro misconosciuto come Città amara (1972) di John Huston 14, attraverso la caricatura di una famiglia dickensiana di white trash americani, citazioni dai poeti irlandesi più bucolici 15, incontri fortuiti dall’esplosiva carica mnestica, roadside diners paradisiaci in cui servono la best lemon pie, questo stesso racconto svolta in ciò che pochi hanno chiamato con il nome più appropriato: un melodramma 16. Anche in questo caso, fedele alla ricetta tradizionale (i film come torte al limone…), Eastwood fa reagire la pacata misura del suo stile – vera e propria reticenza, una qualità che connota anche i protagonisti del film alle prese con l’oscenità di tutto ciò che sta loro attorno: famiglia naturale, manager, società dello spettacolo sportivo, avversari feroci e scorretti 17 – con la vocazione all’eccesso del genere di riferimento, spingendone i topoi alle estreme conseguenze. Se la logica archetipica dell’immaginazione melodrammatica era già inscritta nei corpi dei protagonisti (i muscoli di Hilary Swank, la letterarietà della malinconia nell’icona Eastwood), il
racconto cavalca l’estremismo dei propri presupposti, nelle corrispondenze sentimentali fra i due protagonisti (il rapporto di filiazione è a prova di bomba, saldando l’incastro di due vissuti che combaciano come due pezzi di un Lego letterario), nella svolta di registro improvvisa (il precipitare del racconto), nella già enunciata entità iperbolica della disgrazia e nella mostruosità della prova cui sono sottoposti i due “amanti” per confermare l’assolutezza del sentimento reciproco. LA PELLE È L’ANIMA
Jean-Pierre Coursodon nota l’audacia nella costruzione del dispositivo narrativo 18. Si è detto di come la trama comprenda una svolta imprevedibile nella sua spietata durezza. Ma il film affronta – sia pure tangenzialmente – una serie di questioni. Si potrebbe infatti commentare il fatto – quasi senza precedenti – che la protagonista di questa storia di boxe sia una donna e percorrere la chiave interpretativa dei gender studies 19. Si potrebbero individuare elementi interessanti nelle molteplici ambivalenze che si vengono a creare fra il tentativo della protagonista di aderire – per ragioni di necessità – a un modello di comportamento che secondo la tradizione è maschile (modificando persino il corpo in questo senso), le resistenze ambientali (le critiche della famiglia, il rifiuto iniziale di Frankie: «Non alleno le ragazze!») e le conseguenze della catena di scelte. Il tutto reso ancora più interessante dalla relazione tra figlia e padre (naturali e adottivi) che designano una strada di autorealizzazione piuttosto contorta (ma pur sempre realizzazione liberamente perseguita). E questo solo per restare a un livello macroscopico. D’altra parte, Million Dollar Baby è anche un film su un’America già calata nel clima di una depressione socio-economica piuttosto marcata. A proposito di Un mondo perfetto, Giulia Carluccio notava che si tratta di una sorta di «Spielberg mancato» 20. Di Million Dollar Baby, rispetto all’evidente rapporto che intrattiene con il blockbuster coevo, Cinderella Man (2005), si potrebbe a maggior ragione affermare che si tratta di un Ron Howard (altrettanto volutamente) mancato. È un film che racconta la Passione di una figura filiale al femminile, tema riproposto agli onori della cronaca, sia pure in modo un po’ cialtronesco, dal Codice da Vinci di Dan Brown 21, e collegato alla questione della Trinità di cui si è detto. Meno cruento ma altrettanto crudele del kolossal di Mel Gibson. È poi un film sull’eutanasia, attorno al quale si possono imbastire intere trasmissioni televisive (in Italia è stato fatto, dalla trasmissione Porta a porta 22). È vero che lo stesso regista si affretta a scongiurare ogni lettura del film impostata sul gesto finale, ricordando quanto sia lontano dai suoi orizzonti mentali fare «affermazioni di principio» 23, ma è pur vero che la natura estrema della soluzione (l’unica possibile, nella logica del racconto) impedisce di sottrarsi alla questione.
(Play It to the Bone, 1999) di Ron Shelton a The Boxer (1997) di Jim Sheridan, fino a capostipiti del genere che risalgono, attraverso Any Which Way You Can (1980) di Buddy Van Horn – interpretato dallo stesso Eastwood –, Toro scatenato (Raging Bull, 1980) di Scorsese, L’eroe della strada (Hard Times, 1975) ancora di Hill, a Lassù qualcuno mi ama (Somebody Up There Likes Me, 1956) di Robert Wise o Il colosso d’argilla The Harder They Fall (, 1956) di Mark Robson. L’elenco sarebbe sterminato, qualora si volessero citare anche i film in cui il fenomeno pugilistico non è portante ma riveste comunque un interesse primario (per esempio The Black Dahlia, 2007, Omicidio in diretta [Snake Eyes] di De Palma, 1999, e Rocco e i suoi fratelli di Visconti, 1960) o in cui si cela all’interno di capitoli specifici, come nell’ultimo episodio dei Mostri (1963) di Dino Risi. Il film sul pugilato non solo trascina con sé una serie di temi impliciti – primo fra tutti, la violenza istituzionalizzata a fini spettacolari 25 – ma, soprattutto, deve confrontarsi con una drammaturgia altamente codificata 26 che prevede schemi relativamente rigidi. Per prima cosa bisogna specificare che si tratta di una retorica che risulta dall’intreccio di due fenomeni complementari. Il pugilato, infatti, è uno spettacolo sportivo televisivo, la cui efficacia è inversamente proporzionale alla complessità. I presupposti sono elementari. Due persone, all’interno di un quadrato delimitato da corde, devono colpirsi con i pugni al di sopra della cintura. Niente di più e niente di meno. Il “comune spettatore” sa che un incontro è tanto più gratificante quanto più è trasparente. Molti pugni che vanno a segno. Contendenti che si fronteggiano “a viso aperto”, giocando all’attacco, e consentono la massima visibilità dei colpi, quelli messi a segno e quelli subiti. Di più, l’incontro diventa avvincente quando i due pugili hanno caratteristiche diverse (l’ideale è che uno sia statico e potente e l’altro agile e veloce), tali da compensarsi e da far giungere il match a una durata che consenta alla performance di assumere una consistenza narrativa. Scopo che si raggiunge quando la sofferenza, la stanchezza e il dolore diventano anch’essi chiaramente percepibili, meglio ancora se attraverso correlativi oggettivi di grande impatto visivo come le ferite sanguinanti e se i colpi più efficaci sono sanciti dalla fatidica caduta al tappeto, il knock out. Questo evento, nella finzione, costituisce una sfida che ha trovato appunto alcune soluzioni che sono ormai divenute canoniche. La più semplice consiste in una dinamizzazione iperbolica (quasi espressionista) del combattimento, ottenuta attraverso la velocizzazione della ripresa, il ralenti, la ripetitività degli scambi e così via, fino a effetti di sovraccarico che risultano parenti stretti di quella pantomima dei segni iperbolici che Barthes chiamava catch e che oggi si chiama wrestling (non a caso, l’iconografia dei Rocky degli anni ottanta è stata pienamente assorbita da circuiti come Smack Down e analoghi). Altre strade sono quelle della destrutturazione dell’incontro di carattere avanguardista, oppure la replica mimetica di stampo realistico. Comunque sia, in un modo o nell’altro, si ruota sempre attorno al principio che sul ring l’eroe dovrà soffrire e la battaglia fornirà un responso chiaro (persino se l’incontro è truccato – Toro Scatenato – o se termina in pareggio – come nel primo Rocky). Fedele alla filosofia pugilistica di F.X. Toole, per il quale si tratta di un gioco di equilibri precari, simulazioni, tecnica e che – in fin dei conti – preferisce ritagliarsi la prospettiva del cutter, ovvero di quello che le ferite deve suturarle piuttosto che procurarle –, il film di Eastwood è una sistematica negazione di tutti questi presupposti. Gli incontri di Maggie durano pochi istanti, per lo più il tempo di uno scambio che le consente di dimostrare la propria superiorità definitiva. Quando finalmente la ragazza trova un avversario degno, sia pure solo al livello di aggressività, il genere pare prendersi una rivincita e l’incontro
sembra imboccare i binari consolidati. Dopo una sofferenza estrema, resistendo stoicamente alle scorrettezze e alla furia cieca dell’antagonista, l’eroina trova la strada per risalire la china, grazie alla tecnica e a qualche trucco (colpi sul nervo sciatico) che la riportano in una posizione di vantaggio. A questo punto suona il gong, entra uno sgabello, l’orso blu Billie (alias Lucia Rijker, una delle massime campionesse di full contact femminile) ha un sussulto di rabbia e colpisce Maggie alle spalle. Crack. Il buio. Non sapremo mai se avrebbe vinto o meno l’incontro, e la cosa è irrilevante. Cosa c’entra questo con il pugilato? Niente. Estrema rivincita del maschilismo di Toole: dopo essersi prodigato a dimostrare che anche una ragazza può essere un vero pugile, la profezia di Dunn si rivela sinistramente azzeccata. «Mai allenare una donna». Eppure, prima che il match abbia luogo, nell’intimità della palestra, era appena andato in scena un altro incontro. Anzi, altri due. Prima che l’incontro per il titolo avesse inizio, infatti, in uno spazio alternativo a quello in cui si stanno per trovare Dunn e la sua prediletta Mo Cuishle, Scrap viene chiamato a riparare un gabinetto ostruito. È uno stratagemma per allontanarlo. Viene richiamato da un trambusto sospetto e ritorna rapidamente sui suoi passi. Apre la porta dei bagni e fa irruzione nella sala esattamente come un cowboy varca la porta di un saloon [fig. 5]. La scena che gli si para davanti è straziante. Il gradasso Shawrelle sta massacrando, come già detto, il fragile e scomposto Barch. Il giovane ritardato è a terra sanguinante e Scrap decide di intervenire a sua difesa, fra lo scherno dei compari di Shawrelle. Dopo aver incassato colpi durissimi che non lo hanno fatto vacillare, l’uomo colpisce l’avversario con un jab destro (la mano su cui non ha indossato il guantone) e lo manda al tappeto. Il pugno è inquadrato dall’altezza delle spalle del pugile, di cui possiamo vedere la nuca: una posizione per lo spettatore immersiva, al limite della soggettiva vera e propria). A questo punto, Eastwood offre un rapidissimo saggio di semplicità poetica e precisione evocativa. Le tre inquadrature che seguono, sempre di campi e controcampi, mostrano infatti un perplesso Morgan Freeman che – incredulo per la propria impresa, compiuta seguendo lo stesso filo dell’istinto che ricollega il film a Gli spietati – agita la mano dolorante [fig. 6]. Quindi Shawrelle, atterrato nella più classica delle posizioni farsesche, con la pancia a terra, le braccia sotto al corpo, e un dente appena divelto dalle gengive sul tappeto, a pochi centimetri dalle labbra [fig. 7]. Infine, nell’angolo dove era stato lasciato Barch con il volto insanguinato, la più letterale delle metafore: l’altro guantone depositato a terra, a fianco della “spugna”, l’asciugamano che si lancia dall’angolo per segnalare l’abbandono [fig. 8]. L’infinita desolazione dello spazio lasciato vuoto dal ragazzino, il cui rapporto con Scrap replica in scala ridotta e degradata quello fra Dunn e Maggie. Ora, poiché il personaggio interpretato da Freeman è collocato nella doppia posizione di testimone degli eventi e di narratore (è sua, come si è detto, la voice over che accompagna il racconto), è chiaro che questa sua entrata in campo allude a una riduzione di quella distanza che egli stesso proclamava di voler osservare (per questo rifiuta di fare il “secondo” di Dunn e non parte con loro). Scrap, per la prima e unica volta, scende in campo, ovvero sale sul ring. Il suo è – nelle intenzioni e negli effetti – il punto di vista dello spettatore. Prima del combattimento, lo spettatore ha i suoi trenta secondi di gloria, provando l’ebbrezza del ring e della vittoria attraverso un meccanismo che funziona in modo leggermente obliquo rispetto ai normali processi di identificazione. Nel dissimulare ciò che sta per accadere, l’accento posto sull’angolo suona come una premonizione sinistra. Nello stesso identico angolo, su altro ring, sta per prodursi un vuoto ancora più straziante e irreparabile. La vitalità con cui descrive la caduta e la consunzione, la semplicità con cui riesce a dar conto
della complessità, la linearità con cui mette in scena l’ambivalenza, l’eleganza con cui scioglie l’ovvietà delle cose risapute, la compostezza nell’eccesso, la maturità con cui sa essere ingenuo, la naturalezza con cui riesce a costruire un vuoto denso di significati, sono il segno della genialità di Clint Eastwood.
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Note al testo Giulia Carluccio Il cinema di Clint Eastwood. Questioni, paradossi, film Alberto Pezzotta, Clint Eastwood, Milano, il castoro, 2007, p. 12 (corsivi miei). Per questa definizione, e su alcuni aspetti dell’icona eastwoodiana, cfr. Douglas Thompson, Sexual Cowboy, London, Smith Gryphon Publishers, 1992. 3 Sull’iniziale scomunica da parte della critica di sinistra si sofferma Gianni Canova in Clint Eastwood, Il potere (assoluto) delle immagini, prefazione all’edizione italiana di Richard Schickel, Clint Eastwood, Milano, Sperling & Kupfer, 1999, p. X, così come poi una ricostruzione della ricezione critica, in particolare statunitense, si trova nelle pagine successive della biografia di Schickel; sulla questione ideologica del cinema di Eastwood e la critica di sinistra cfr. anche Mariuccia Cotta, Clint era dalla nostra parte, in Luciano Barisone, Giulia D’Agnolo Vallan (a cura di), Clint Eastwood, Milano, La Biennale di Venezia/il castoro, 2000, pp. 182-185. 4 Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 18. 5 Nel senso proposto da David Bordwell nel suo The Way Hollywood Tells It. Story and Style in Modern Movies, Berkeley, University of California Press, 2006. 6 Sul cinema americano contemporaneo, e segnatamente sulle sue caratteristiche stilistiche e discorsive, oltre al saggio di Bordwell si rimanda in modo selettivo ad alcuni testi fondamentali, che in parte si avrà occasione di citare anche in alcuni dei capitoli che seguono: Thomas Elsaesser, Warren Buckland, Studying Contemporary American Film. A Guide to Movie Analysis, London, Arnold, 2002; Geoff King, New Hollywood Cinema. An Introduction, New York, Columbia University Press, 2002, trad. it. La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era dei blockbuster, Torino, Einaudi, 2004; Kristin Thompson, Storytelling in the New Hollywood. Understanding Classical Narrative Technique, Cambridge-London, Harvard University Press, 1999. Per una sintesi critica del dibattito sul cinema postclassico cfr. Ofelia Catanea, Cinema postclassico. Pratiche testuali e posizioni metodologiche, in «La valle dell’Eden», 18, gennaio-giugno 2007, pp. 123-137. 7 Con un’esuberanza particolare da parte della critica europea, in generale più autorialista e cinefila. Per una mappa dello stato della critica e degli studi su Eastwood si rimanda alla bibliografia posta in appendice al volume, curata da Matteo Pollone. 8 Elsaesser, Buckland, Studying Contemporary American Film, cit. 9 King, La Nuova Hollywood, cit. 10 Ibid., pp. 194-196, 215-217. 11 Bordwell, The Way Hollywood Tells It, cit., p. 12. 12 Steve Neale, Western and Gangsters Film Since 1970s e Tino Balio, Hollywood Production in the Era of Globalisation, 1990-99, in Steve Neale (a cura di), Genre and Contemporary Hollywood, London, BFI, 2002, pp. 27-30 e p. 179. 13 Franco La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-1975, Torino, Lindau, 1996. 14 Id., Stili americani, Bologna, Bononia University Press, 2003, pp. 281-286. 15 Ibid., p. 281. 16 Sul western eastwoodiano cfr. Jean-Pierre Coursodon, Les western de Clint Eastwood. De l’homme sans nom au nom de l’auteur, in «Positif», 512, ottobre 2003, pp. 94-99. 17 Elsaesser, Buckland, Studying Contemporary American Film, cit., pp. 63 ss. 18 Christian Viviani, Contrastes. La tradition classique chez Clint Eastwood, in «Positif», 512, ottobre 2003, pp. 90-93. 19 Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 18. 20 Il film è uscito nelle sale quando questo volume era già in preparazione e non ha potuto quindi essere preso in considerazione tra i film analizzati nei capitoli che seguono; sembra dunque importante trattarne in questa sede. 21 Gianni Canova, Lo straniero ha un nome, in «Duellanti», 50, marzo 2009, p. 7. 22 Dopo la morte della moglie, l’anziano Walt Kowalski vive da solo in un quartiere dell’ex periferia operaia di Detroit, ora ghetto multietnico, unico americano tra una maggioranza di asiatici. La comunicazione con i suoi familiari, che gli appaiono egoisti e interessati, è ridotta al minimo, e disprezza i suoi vicini, membri della comunità Hmong, nutrendo nei loro confronti sentimenti razzisti, alimentati dall’identificazione con il nemico combattuto in Corea in gioventù. Unica compagnia, una cagna di nome Daisy, unica passione, quella per la sua vecchia Ford Gran Torino, uscita dalle stesse officine in cui ha lavorato come operaio. Dopo che il giovane Taho, suo vicino, tenta di rubargli la Gran Torino, istigato da una banda di bulli che non smettono di vessarlo, le cose cambiano e Kowalski inizia a proteggere il ragazzo e a frequentare la sua famiglia. Lo scontro con la banda di 1 2
teppisti si farà sempre più aspro, finché Kowalski, gravemente malato, deciderà di sacrificarsi per il bene di Taho e della sua famiglia, lasciando in eredità al ragazzo la mitica automobile. 23 Vincent Malausa, L’Épreuve de force, in «Cahiers du cinéma», 642, febbraio 2009, p. 20. 24 Ibid., p. 21. 25 Federico Pedroni, La resa del giustiziere, in «Duellanti», 50, marzo 2009, p. 14.
Matteo Pollone Il cavaliere pallido 1 G. De Vincenti, Moderno e postmoderno: dagli indici stilistici alle pratiche di regia, in Giuseppe Petronio, Massimiliano Spanu (a cura di), Postmoderno?, Roma, Gamberetti, 1999, pp. 133. 2 W. Wright, Sixguns and Society, Berkeley, University of California Press, 1975, p. 32. 3 «Le cavalier blême revient de l’enfer avec le charisme des héros d’hier (Shane, Gary Cooper, Randolph Scott, Bronco Billy et tous les autres)». N. Simsolo, Clint Eastwood, Paris, Cahiers du cinéma, 2006, p. 140. Si veda anche E. Martini, Il cavaliere pallido, in «Cineforum», 245, giugno-luglio 1985, p. 14; C. Scarrone, Il cavaliere pallido (perché sì), in «Segnocinema», 20, novembre 1985, p. 79. 4 Cfr A. Bazin, Evoluzione del western, in Id., Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 2000, pp. 261-271. 5 Proprio questa scelta di rendere esplicita la passione della donna per il predicatore è uno degli elementi che possono inscrivere il film nella categoria del remake. Rimandiamo a ciò che scrive Gianni Canova a proposito dello Psycho di Van Sant: «Vi è dunque in atto una specie di strategia additiva che per certi versi caratterizza il remake, soprattutto nel cinema cosiddetto post-moderno o contemporaneo: una specie di ipertrofia del visibile. Strategia additiva che si dà nella piena consapevolezza del fatto che questo tipo di strategia finisce per avere un effetto sottrattivo sul testo di partenza», G. Canova, Remake, in G. Carluccio, F. Villa, I quaderni del lavoro sul film. L’intertestualità. Lezioni, lemmi, frammenti di analisi, Torino, Kaplan, 2006, p. 164. 6 P. McGee, From Shane to Kill Bill: Rethinking the Western, Malden, Blackwell, 2007, p. 7. 7 «“The Lord is my shepherd, I shall not want” But I do want! “He leadeth me beside still waters, He restoreth my soul” But they killed my dog! “Yea, though I walk through the valley of the shadow of death I shall fear no evil” But I am afraid! “For thou art with me, thy rod and thy staff, they comfort me” But we need a miracle! “Thy loving kindness and mercy shall follow me all the days of my life” If you exist! “And I shall dwell in the house of the Lord forever” But I’d like to get more out of this life first. If you don’t help us we are all gonna die! Please? Just one miracle? Amen». 8 Va detto, in realtà, che il tentativo di liberarsi dal meccanismo di identificazione del pubblico, quasi un’ossessione di Eastwood nel fare di sé un antidivo, risale fino alle prime esperienze con Leone. In questa direzione vanno sicuramente i ruoli ambigui come Harry Callaghan, ma tali scelte erano state raramente sostenute da un consapevole lavoro di messa in scena. In Pale Rider, per la prima volta Eastwood raggiunge la piena padronanza dei suoi mezzi da regista proprio riuscendo a separare nettamente la figura dell’autore da quella dell’attore, l’identificazione primaria da quella secondaria. 9 «Il soggetto si basava sul conflitto tra i minatori indipendenti e la società legale proprio perché [Butler e Shryack, N.d.T.] avevano fatto delle ricerche sui cercatori d’oro. Partendo da questo spunto hanno scritto il trattamento. Io sono intervenuto al momento di realizzare il mio personaggio, il predicatore, al quale ho avvertito la necessità di contrapporre un antagonista, lo sceriffo, perché questo elemento avrebbe dato al film un nuovo spessore. Ho anche suggerito l’immagine di uno dei cavalieri dell’Apocalisse. Non sono un accanito lettore della Bibbia ma la mitologia delle storie ivi narrate e la relazione che esiste con la mitologia western mi ha sempre affascinato», M. Henry, Entretien avec Clint Eastwood sur “Pale Rider”, in «Positif», 295, settembre 1985, p. 40, tradotto in Clint Eastwood parla de “Il cavaliere pallido” (“Pale Rider”), dal Press-Book del film, p. 6. 10 Si sa quanto i cani siano spesso figure investite di un forte valore simbolico nei film di Eastwood, da Sir Love-a-Lot di Breezy, la cui “resurrezione” coincide in un certo senso con la scoperta da parte di Alice della rinascita dei sentimenti dell’anziano Frank (una relazione, in quel caso, possibile nonostante la differenza d’età, mentre in Pale Rider l’amore tra una ragazza di quattordici anni e un uomo di cinquantacinque, per quanto verosimile all’epoca, difficilmente può essere messa in scena, visto il genere e la simbologia religiosa e puritana che lo definisce), al Meathead di Sudden Impact, il bulldog che funge da tramite per il primo incontro di Callaghan con Jennifer Spencer, fino al cane “invisibile” di Midnight in the Garden of Good and Evil, a quello che Maggie Fitzgerald cita per fare capire a Frankie che cosa vuole che faccia di lei in Million Dollar Baby o all’anziana labrador Daisy di Gran Torino. 11 F. Ballo, Dentro lo spazio del western, in Clint Eastwood, Torino, Scriptorium, 1999, p. 82. 12 Ibid., p. 84. 13 Ma il gesto ha contemporaneamente quasi il sapore di un esorcismo. Sulla base della mitologia horror da Romero in avanti, il colpo alla testa è quello che impedisce appunto ai morti di continuare a ritornare in vita.
14 L’uso di quel particolare revolver, molto diverso dai soliti visti nei western, è un tocco significativo delle scelte iperrealiste di Eastwood. La pistola si ricarica infatti estraendo tutto il tamburo, e Eastwood nell’inquadratura citata compie la procedura di sostituire il tamburo stringendo in dettaglio sull’arma. 15 Giampiero Frasca, C’era una volta il western, Torino, Utet, 1997, p. 56.
Guglielmo Pescatore Gli spietati 1 Cherchi Usai, a proposito degli Spietati, parla addirittura di tre diverse carriere di Clint Eastwood: quella dell’“intellettuale”, che grosso modo corrisponde alla posizione autoriale, quella dell’Eastwood “eterodosso”, realizzatore di film minori, ascrivibili ai canoni della produzione media hollywoodiana piuttosto che a un percorso autoriale, e quella dell’Eastwood regista “in incognito”, riferendosi ai casi in cui il nostro ha preferito delegare ad altri il ruolo del regista; P. Cherchi Usai, Gli spietati, in «Segnocinema», gennaio 1993, pp. 33-34. 2 È la tesi sostenuta dallo stesso Eastwood, il quale compra i diritti della sceneggiatura, originariamente opzionata da Francis Ford Coppola, nel 1983 e la tiene nel cassetto per quasi dieci anni: «Gli anni passavano e quando alla fine si è presentata l’occasione avevo l’età del personaggio e il ruolo mi stava come un guanto», Michael Henry, Entretien avec Clint Eastwood, in «Positif», 380, 1992. 3 Cfr. F. Suriano, Il mito di Achille, in «Filmcritica», 433, 1993, pp. 119-121. 4 Questo è il testo della didascalia iniziale nella versione italiana: «Era una giovane donna avvenente, dal promettente futuro. Per questo alla madre si spezzò il cuore quando decise di sposarsi con William Munny, un rinomato ladro ed assassino, uomo dal temperamento notoriamente vizioso e violento. Quando ella morì, non fu per sua mano come la madre si sarebbe potuta aspettare, ma di vaiolo. Era il 1878». E della didascalia finale: «Qualche anno dopo, la Sig.ra Ansonia Feathers fece l’arduo viaggio fino a Hodgeman County, Kansas, per visitare il luogo di sepoltura della sua unica figlia. William Munny era sparito da un bel pezzo con i bambini… secondo alcuni a San Francisco, dove si diceva avesse fatto fortuna con il commercio. E non c’era niente sulla lapide che spiegasse alla Sig.ra Feathers perché la sua unica figlia avesse sposato un rinomato ladro ed assassino, uomo dal temperamento notoriamente vizioso e violento». 5 Non è dunque un caso che il biografo Beauchamp, figura ripresa dalla tradizione del western autunnale, risulti del tutto indifferente a Munny, il quale di fatto ne ignora o non ne comprende la funzione. 6 Cfr. Jean-Pierre Coursodon, Impitoyable, in «Positif», 380, 1992. 7 Cfr. Henry, Entretien avec Clint Eastwood, cit. Rodney King è il nero picchiato a sangue dalla polizia di Los Angeles nel 1991, un caso che ebbe risonanza mondiale. A dire il vero Eastwood è sempre attento, nelle sue interviste europee, a concedere alla critica appigli e tracce che possano confermare il suo “spessore” autoriale. 8 Il gioco di parole di Little Bill tra il baro e il Barone della morte (in inglese tra duck e Duke) e la demistificazione delle imprese di Bob sono funzionali a prenderne il posto, costruire un nuovo eroe e un nuovo mito. A differenza di L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, John Ford, 1962), che pure è stato ricordato da qualche critico, qui la leggenda non vince sulla realtà ma su un’altra leggenda, e ognuna è egualmente falsa. 9 Non a caso Munny mostra un assoluto disinteresse per Beauchamp e trova incongrue le sue domande e i suoi tentativi di ricostruzione. La violenza e l’omicidio sono per Munny pienamente naturali, si danno dunque nelle cose e non nel racconto. Che poi questa sia ancora una mitologia, forse l’ultima possibile mitologia western, in quanto ne disvela l’origine più che la fine, è altra questione che non modifica la sostanziale distanza degli Spietati da ogni dialettica di revisione/riaffermazione della mitologia del western classico. 10 La storia della rana e dello scorpione viene raccontata da Arkadin in Rapporto confidenziale (Mr Arkadin, Orson Welles, 1955): «Uno scorpione voleva attraversare un fiume e chiese ad una rana di portarlo. No – disse la rana – no grazie, se ti portassi sul dorso tu potresti pungermi e la puntura dello scorpione è mortale. Ma – disse lo scorpione – dov’è la logica (gli scorpioni cercano sempre di essere logici), se io ti pungessi, tu moriresti e io affogherei… La rana si convinse e lasciò che lo scorpione le salisse sul dorso. Ma proprio nel bel mezzo del fiume sentì un dolore terribile e si rese conto immediatamente che lo scorpione l’aveva punta. E la logica? – gridò la rana incominciando a discendere verso il fondo insieme allo scorpione – non è logico quello che hai fatto! Lo so – disse lo scorpione – ma non posso farci nulla: è il mio carattere». La stessa storia ritorna curiosamente più volte a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta, in Notte italiana (Carlo Mazzacurati, 1987), Skin Deep (Blake Edwards, 1989) e La moglie del soldato (The Crying Game, Neil Jordan, 1992). 11 Sulla figura dello spettro nel cinema di Clint Eastwood si è scritto da più parti. In relazione a Gli spietati cfr. Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 110; N. Saada, La poursuite infernale, in «Cahiers du cinéma», 459, 1992, p. 22; B. Fornara, Il pistolero e il suo fantasma, in «Cineforum», 332, 1993, p. 35; A. Piccardi, Il western disincarnato di Clint, ivi, p. 36. 12 Cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema I, Milano, Ubulibri, 1984. 13 Cfr. Coursodon, Impitoyable, cit.
14 È stato lo stesso Eastwood, nella parte di Monco in Per qualche dollaro in più (Sergio Leone, 1965), a inaugurare la moda del conteggio dei cadaveri nello spaghetti western. 15 Sulla fantasmagoria, il suo uso educativo e la diffusione di elementi fantasmagorici in ambito letterario si veda M. Milner, La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, Bologna, il Mulino, 1989. In ambito cinematografico si vedano anche le importanti osservazioni di G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema II, Milano, Ubulibri, 1989, pp. 72-81, a cui qui si fa implicito riferimento. 16 Cfr. ibid.; Saada, La poursuite infernale, cit. 17 Sulla presenza di elementi fantasmagorici nel cinema contemporaneo mi permetto di rinviare a G. Pescatore, Qualche ragione per cui vale la pena ancora parlare di Matrix, in Matrix. Uno studio di caso, Bologna, Hybris, 2006, pp. 11-17.
Vincenzo Buccheri Un mondo perfetto Unforgiven (Gli spietati, Clint Eastwood, 1992). In the Line of Fire (Nel centro del mirino, Wolfgang Petersen, 1993). Il tedesco Petersen aveva diretto nel 1984 La storia infinita (Die unendlische Geshichte). 3 Midnight in the Garden of Good and Evil (Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Clint Eastwood, 1997). 4 Lonely Are the Brave (Solo sotto le stelle, David Miller, 1962). 5 Jurassic Park (Steven Spielberg, 1993). 6 Dances with Wolves (Balla coi lupi, Kevin Costner, 1990); The Bodyguard (La guardia del corpo, Mick Jackson, 1992); JFK (Oliver Stone, 1991). 7 Bronco Billy (Clint Eastwood, 1980); Honkytonk Man (Clint Eastwood, 1982). 8 Su questo punto cfr. Giulia Carluccio, Intorno a “Un mondo perfetto”, in Clint Eastwood, numero monografico di «Garage», 2, ottobre 1994, p. 25. 9 Paolo Cherchi Usai, Un mondo perfetto, in «Segnocinema», 65, gennaio-febbraio 1994, p. 42. 10 Shane (Il cavaliere della valle solitaria, George Stevens, 1953). 11 Ibid. 12 Ibid. 13 Michele Marangi, L’età dell’innocenza, un miraggio perduto, in Clint Eastwood, cit., p. 36. 14 Su questo punto cfr. Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 117. 15 Carluccio, Intorno a “Un mondo perfetto”, cit., p. 28; Cherchi Usai, Un mondo perfetto, cit., p. 42. 16 Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 117. 17 Kent Jones, Un mondo perfetto, in Barisone, D’Agnolo Vallan, Clint Eastwood, cit., p. 204. 18 Cfr. per esempio Vincent Ostria, La mort radieuse, in «Cahiers du cinéma», 475, 1994. 19 Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 121. 20 Cherchi Usai, Un mondo perfetto, cit., p. 43. 21 Marangi, L’età dell’innocenza, cit., p. 39. 22 Cfr. Bordwell, The Way Hollywood Tells It, cit. Considerazioni sul problema anche in King, La Nuova Hollywood, cit. 23 Barisone, D’Agnolo Vallan, Clint Eastwood, cit., p. 153. 24 Jones, Un mondo perfetto, cit., p. 203. 25 Reservoir Dogs (Le iene, Quentin Tarantino, 1992). 26 Cfr. soprattutto Paolo Bertetto, Introduzione, in Id. (a cura di), L’interpretazione dei film, Venezia, Marsilio, 2003, e Id., L’analisi interpretativa. “Mulholland Drive” e “Une femme mariée”, in Id. (a cura di), Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006. 27 Leslie Fiedler, Love and Death in the American Novel, New York, Criterion Books, 1960; tr. it. Amore e morte nel romanzo americano, Milano, Longanesi, 1983, p. 595. 28 Su questo tema, essenziale il rimando a Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999. 29 Norman Mailer, Parade, in «Daily News», 23 ottobre 1983; tr. it. in Barisone, D’Agnolo Vallan, Clint Eastwood, cit., p. 181. 1 2
Giulia Carluccio Mystic River 1 Senza entrare qui nel merito della definizione di postclassico, concetto che per Eastwood richiede un’accezione peculiare e in parte inedita, e su cui si tornerà in questo stesso saggio, si rimanda all’introduzione
al volume e più in generale al dibattito teorico sul cinema americano contemporaneo e sulle sue pratiche produttive e stilistiche. In particolare, cfr. Elsaesser, Buckland, Studying Contemporary American Film, cit.; King, New Hollywood Cinema, cit.; Thompson, Storytelling in the New Hollywood, cit.; Bordwell, The Way Hollywood Tells It, cit. Per una sintesi critica del dibattito sul cinema postclassico cfr. Catanea, Cinema postclassico, cit., pp. 123-137. 2 Cfr. Vincenzo Buccheri, Un mondo perfetto, e Guglielmo Pescatore, Gli spietati, infra. 3 Dennis Lehane, Mystic River (2001), New York, Harper Paperbacks, 2003; trad. it. di Francesca Stignani, La morte non dimentica, Casale Monferrato, Piemme, 2002. 4 Questa, in sintesi, la sinossi del romanzo (e del film): Sean, Jimmy e Dave sono tre ragazzini che vivono in una zona periferica di Boston; un giorno, mentre i tre amici giocano insieme, Dave viene rapito da due pedofili che si fingono poliziotti e abusato per quattro giorni, fino a quando riesce a sfuggire ai rapitori. Venticinque anni dopo Katie, la figlia di Jimmy, viene ritrovata morta. Sean è il poliziotto incaricato delle indagini. I sospetti si appuntano su Dave, che verrà giustiziato da Jimmy, appena prima che Sean scopra l’identità dei veri colpevoli. 5 Adriano Piccardi, L’ombra del passato, in «Cineforum», 430, dicembre 2003, p. 11. 6 Cfr. Michel Henri, Entretien. Clint Eastwood. Cela coule sa source, in «Positif», 512, ottobre 2003, p. 88. 7 Su questo contrasto, tra gli altri, cfr. Pezzotta, Clint Eastwood, cit., pp. 154 ss. 8 Sull’importanza del montaggio alternato, su cui si tornerà, cfr. Grégory Valens, La fin de l’innocence, in «Positif», 512, ottobre 2003, p. 82. Sul senso ironico che assume in alcuni momenti del film, Piccardi, L’ombra del passato, cit., p. 13. 9 Lo sviluppo del dialogo nel romanzo è assai differente. A partire dalla risposta di Jimmy fino alla reazione di Sean, così come anche successivamente. Limitiamoci al brano che qui interessa: Jimmy looked into Sean’s eyes, wondered if he was going to take a swing at him. «Last time I saw Dave», he said, «was at my house last night.» He pushed Sean aside and crossed the street onto Gannon. «That’s the last time I saw Dave.» «You’re full of shit.» Lehane, Mystic River, cit., pp. 379-380. 10 Cfr. Pescatore, Gli spietati, cit. 11 Il riferimento e la citazione del film, il cui titolo non viene esplicitato, sono presenti anche nel romanzo: Lehane, La morte non dimentica, cit., p. 323. 12 Per la metafora del “fiume mistico”, sottolineata da molti, si veda in particolare l’interessante analisi di Umberto Curi, Mystic River, in Id., Un filosofo al cinema, Milano, Bompiani, 2006. 13 Cfr. Henri, Entretien, cit., pp. 87-88. 14 Cfr. Buccheri, Un mondo perfetto, cit., p. 72. 15 Si tratta della sequenza del dialogo tra Jimmy e Dave, nella veranda di Jimmy, quando i due uomini si trovano all’esterno della casa, mentre vicini e parenti affollano l’interno. Queste le parole di Jimmy, quasi un monologo: «One thing you could say about Katie, even she was little… that girl was neat. When I got out of the joint… you know, after Marita died… I remember, I was more afraid of my little daughter… than I ever was of being in prison. I loved her… most… because when we were sitting in that kitchen that night… it was like we were the last two people on Earth. You know, forgotten. Unwanted». 16 Il montaggio, in realtà, ripete due volte la dialettica Sean-Jimmy, riprendendo una seconda volta, sulla cosa del gesto di Sean, quello di Jimmy, con un effetto leggero di sottolineatura. 17 Lehane, Mystic River, cit., p. 400 (corsivi miei). 18 Cfr. Federico Cattaneo, Smarrirsi nel destino, in «Cineforum», 430, dicembre 2003, p. 16. 19 Cfr. Pezzotta, Clint Eastwood, cit., p. 156. Pezzotta lo sottolinea confrontando il film di Eastwood con The Box-Bow Incident (Alba fatale, 1943) di William Wellman, citato dallo stesso regista come riferimento elettivo. 20 Lehane, Mystic River, cit., p. 150 (corsivi miei). 21 Bordwell, The Way Hollywood Tells It, cit., pp. 121-138. 22 Si veda, per esempio, Elsaesser, Buckland, Studying Contemporary American Film, cit., pp. 26-79. 23 Ibid., p. 62.
Giacomo Manzoli Million Dollar Baby 1 Tutte le recensioni che citeremo in seguito sono nettamente positive (le uniche, parziali, riserve le abbiamo trovate in Flavio De Bernardinis, Million Dollar Baby, in «Segnocinema», 132, marzo-aprile 2005) e così le innumerevoli review internazionali riportate da Internet Movie Database (si veda, al riguardo, http://www.imdb.com/title/tt0405159/externalreviews). 2 Così nell’edizione italiana, tradotta da Giuseppe Culicchia, Million Dollar Baby. Lo sfidante, Milano, Garzanti, 2001, pp. 79-123.
Ibid., pp. 167-182. Jean-Pierre Coursodon (Million Dollar Baby: a cabin on Innisfree, in «Positif», 530, aprile 2005) sottolinea la corrispondenza fra il tema della Trinità posto da Eastwood e la relazione fra i tre protagonisti del film, il Padre, la Figlia e la voice over di Scrap (Spirito Santo?) a modulare le sfumature del racconto. In questo caso, in base a quanto osservato, possiamo dire che la questione è sovrapposta da Haggis su Toole e che rappresenta una specie di metariflessione da sceneggiatore hollywoodiano sulla necessità di “triangolare” i racconti. Sulla medesima questione aveva già detto molto Charlie Kaufman in Adaptation (2002) di Spike Jonze, allorché faceva raggiungere il successo a uno dei protagonisti grazie a una sceneggiatura intitolata The Three… 5 Un film paradigmatico, al riguardo, può essere considerato Domino (2005) di Tony Scott. Più in generale, nella stessa direzione sembra andare tutta la retorica del mockumentary, ormai prevalente e quasi codificata in quello che una semplificazione ha indotto a definire “cinema postmoderno”. Si veda in merito l’ormai canonico Laurent Jullier, Il cinema postmoderno, Torino, Kaplan, 2006. 6 È sufficiente vedere, al riguardo, il numero monografico della rivista «Garage» (2, 1995) e le accurate monografie di Pezzotta (Clint Eastwood, cit.) e Douglas Thompson (Clint Eastwood: Billion Dollar Man, London, John Blake, 2005). 7 Clint Eastwood in Jean-Michel Frodon, «Je le fais, c’est tout». Entretien avec Clint Eastwood autour de Million Dollar Baby, in «Cahiers du cinéma», 599, marzo 2005. 8 Fabrizio Tassi, La trasparenza dei valori, in «Cineforum», 443, aprile 2005. 9 Così è definita in Carluccio, Intorno a “Un mondo perfetto”, cit. 10 Secondo un’efficace definizione contenuta in Enrico Verra, Fantasmi americani, ivi. 11 Citiamo letteralmente il termine usato in Francesco Cattaneo, Il punto cieco dell’agonismo, in «Cineforum», 443, aprile 2005. 12 Secondo una dialettica di tre cerchi, quello del passato, del presente e del ring, su cui si articola il bel saggio di Emmanuel Burdeau, Filles et fils, in «Cahiers du cinéma», 599, marzo 2005. 13 Citato da Eastwood anche nei Ponti di Madison County. 14 Come osservato in Massimo Causo, L’amaro in bocca, in «Duellanti», 3, marzo 2005. 15 Nota Adriano Piccardi che l’insistenza reiterata su Yeats avrebbe potuto suonare ridicola (in I pugni, le poesie, una torta al limone, in «Cineforum», 443, aprile 2005). 16 La parola, persino abusata per quanto riguarda molti dei film precedenti di Eastwood, nella rassegna critica da noi consultata è stata utilizzata solamente in Mia Hansen-Løve, Le vieil homme et la mort, in «Cahiers du cinéma», 599, marzo 2005. 17 Tutta la recensione di Alain Masson, per esempio, ruota attorno a questo termine e istituisce un parallelo fra il ritmo del film (quello con cui respirano, pensano e si muovono i suoi protagonisti) e la stessa semplice fluidità (naturalezza acquisita) che il trainer suggerisce al pugile per svolgere il proprio compito “innaturale” (contro natura). Cfr. Alain Masson, Million Dollar Baby. La réticence, in «Positif», 530, aprile 2005. 18 Coursodon, Million Dollar Baby, cit. 19 Nel film di boxe, la donna ha un ruolo tradizionalmente ancillare, il cui prototipo è quello di Adriana, la moglie di Rocky Balboa nella serie di film interpretata da Sylvester Stallone. Fra le pochissime eccezioni di cui siamo a conoscenza vi è un piccolo film indipendente, Girlfight (2000) di Karyn Kusama (alla cui iconografia il film di Eastwood è debitore) e Against the Ropes (2004) di Charles Dutton, nel quale Meg Ryan interpreta una figura di manager pugilistico donna, ricalcata su una procuratrice realmente esistente (Jackie Kallen). Ma si trattava appunto di una manager, e il tabù della donna pugile professionista – pur in un clima emancipatorio pieno di Lara Croft, Residence Evil e Charlie’s Angels – non era ancora stato infranto dalla Hollywood mainstream nell’ambito di un film i cui codici di rappresentazione sono realistici. 20 Carluccio, Intorno a “Un mondo perfetto”, cit. 21 Poi anche un film, del 2006, di Ron Howard (forse non a caso). 22 Nella puntata che seguiva la prima proiezione del film su canali generalisti (su Rai Uno, 8 marzo 2007, Festa della Donna…). Una trasmissione passata alla storia per la gaffe del conduttore che – nello spot di anticipazione della puntata – svelava il finale agli spettatori in attesa di vedere gli ultimi dieci minuti del film di Eastwood. 23 Nella più volte citata intervista con Frodon. 24 Si vedano, per esempio, François Bégaudeau, Ceci n’est que mon corps, in «Cahiers du cinéma», 499, marzo 2005 o Federico Calamante, Per un pugno di film, in «Duellanti», 3, marzo 2005. Un elenco dettagliato, per quanto lontano dall’essere esaustivo, può essere desunto da testi come Alessandro Cappabianca, Boxare con l’ombra: cinema e pugilato, Recco, Le Mani, 2004; Kasia Boddy, Boxing. A Cultural History, London-Chicago, Reaktion Books, 2008; Dan Streible, Fight Pictures: A History of Boxing and Early Cinema, Berkeley, University of California Press, 1998. 25 Si veda, al riguardo, Leon Whiteson, Il fascino della violenza, Massa-Milano, Edizioni clandestine, 2007, in particolare pp. 139-149. 26 Al riguardo segnaliamo Folco Portinari, La retorica del dramma sportivo, in «Drammaturgia», 6, 1999. L’intero numero della rivista, del resto, è dedicato alla drammaturgia dello sport e vi si trovano spunti interessanti, fra i quali spicca una toccante testimonianza di Nino Benvenuti. 3 4
Apparati
Biografia a cura di Matteo Pollone Clinton Eastwood Jr. nasce il 31 maggio 1930 a San Francisco. Il padre è un agente di borsa ridotto sul lastrico dalla Depressione, che mantiene la famiglia accettando gli incarichi più umili. La mancanza di lavoro costringe gli Eastwood a spostarsi continuamente: il piccolo Clint non ha quindi tempo d’intrecciare rapporti d’amicizia con i suoi coetanei, crescendo introverso e sognatore. Nello stesso periodo sviluppa un grande amore per gli animali, accudendo cani, gatti, uccelli e addirittura serpenti. Nel 1940 torna a San Francisco, dove comincia a fare i lavori più disparati per potersi permettere di andare al cinema. Un disco di Fats Waller regalatogli dalla madre lo porta ad appassionarsi anche alla musica jazz, tanto che riesce a trovare lavoro – ancora minorenne – suonando il piano in locali Honkytonk vicino a Oakland. Sono anni in cui il cinema ha un’importanza solo marginale nella vita di Eastwood, diviso tra gli amici, le ragazze, le auto e i Jazz Club di Oakland e Los Angeles. Nel 1951 viene arruolato per la guerra di Corea, dove però non andrà mai. L’addestramento nella base di Fort Ord rappresenta un momento difficile nella vita di Eastwood, di carattere profondamente antiautoritario. Un parziale conforto è rappresentato dalla vicina cittadina di Carmel-bythe-Sea, nella quale Eastwood passa gran parte delle ore di licenza. Durante quasi tutto il servizio militare lavora presso la piscina di Fort Ord, dove fa amicizia con l’attore David Janssen, il quale gli suggerisce di tentare la carriera a Hollywood. Tornato alla vita civile Eastwood conosce Margaret Johnson, che sposa il 19 dicembre 1953. Nel 1954 firma il suo primo contratto con l’Universal Pictures, a 75 dollari a settimana. Dopo sei mesi di intenso studio (recitazione, equitazione, danza, scherma), a venticinque anni debutta nel film Revenge of the Creature (La vendetta del mostro, 1955) di Jack Arnold. Dopo alcune altre trascurabili partecipazioni, l’Universal non gli rinnova il contratto. Eastwood continua a interpretare piccole parti in alcuni B-Movie, ma la sua carriera non decolla e rimane preda di una forte depressione. Prende allora la decisione di smettere con il cinema e trovarsi un altro lavoro. Inaspettatamente, però, un dirigente della CBS gli propone un provino per il ruolo di Rowdy Yates nel serial Tv Rawhide. Eastwood ottiene il ruolo e firma un contratto per 700 dollari a episodio. Nel 1959 la serie debutta in televisione e fa di Eastwood una celebrità. Tra i registi vi sono veterani come Stuart Heisler, Joseph Kane, Charles Marquis Warren, Tay Garnett, Vincent McEveety e George Sherman, autori di alcuni dei film che l’attore ha amato da ragazzo. Nonostante il grande successo, però, Eastwood non sembra accontentarsi. I ritmi ferrei di lavorazione non gli consentono tentativi sul grande schermo, con la parziale eccezione di una proposta di lavoro dall’Italia, Il magnifico straniero, per la regia di Sergio Leone. Il nome del regista non dice nulla a Eastwood, ma il ruolo (rifiutato da Charles Bronson prima di lui) lo affascina e così la vicenda, ripresa da uno dei film preferiti dall’attore, Yojimbo (La sfida del samurai, 1961), di Akira Kurosawa. Accetta quindi il contratto da 15 mila dollari che lo trasformerà in una star. Tornato in patria, infatti, apprende del grande successo in Europa della pellicola, reintitolata Per un pugno di dollari. Intanto una comparsa del set di Rawhide, Roxane Tunis, con la quale da tempo Eastwood ha una relazione, gli ha dato la prima dei suoi sette figli, Kimber. L’anno successivo accetta così di interpretare di nuovo il personaggio senza nome in Per qualche dollaro in più, che si conferma un enorme successo. Negli Stati Uniti, però, i film di Leone non sono ancora arrivati. Rawhide termina nel 1966 consentendo a Eastwood di ritornare per la terza volta in Europa: interpreterà per Leone Il buono, il brutto e il cattivo e un episodio del film Le
streghe, diretto da Vittorio De Sica. Nel 1967 finalmente la “trilogia del dollaro” approda negli Stati Uniti con incassi non inferiori a quelli ottenuti in Europa. Eastwood reinveste i soldi guadagnati nella creazione di una propria casa di produzione, la Malpaso, che vede la luce nel 1968. Rifiutata la parte da protagonista in Mackenna’s Gold, (L’oro di Mackenna, 1969), che andrà poi a Gregory Peck, Eastwood produce e interpreta Hang ’Em High (Impiccalo più in alto), diretto dall’amico Ted Post, regista televisivo conosciuto sul set di Rawhide, e girato vicino a Carmel, dove nel frattempo ha preso casa e dove sua moglie ha messo al mondo Kyle, futuro attore per il padre in Honkytonk Man. Il 1968 è anche l’anno in cui Eastwood conosce Don Siegel. Coogan’s Bluff (L’uomo dalla cravatta di cuoio, 1968) è il primo dei cinque film girati insieme in dieci anni di sodalizio artistico e amicizia. Proprio l’ammirazione per Siegel è il pretesto per il debutto alla regia. Durante le riprese di The Beguiled (La notte brava del soldato Jonathan, 1971), infatti, Eastwood dirige un documentario di 12 minuti su Siegel, The Beguiled: The Storyteller. Nel 1971, a quarantun anni, gira in quattro settimane a Carmel il thriller Play Misty for Me (Brivido nella notte), suo esordio nella regia di un lungometraggio. Nello stesso anno perde improvvisamente il padre per un ictus. Questo fatto porta Eastwood, convinto salutista e vegetariano, a rendere ancora più rigoroso il suo stile di vita. Ma il 1971 è anche l’anno di Dirty Harry (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo) e del ruolo che rimarrà attaccato a Eastwood per tutta la vita, quello, appunto, di Harry Callaghan, precedentemente rifiutato da Frank Sinatra. Il 22 maggio del 1972 nasce Alison, anche lei futura attrice per il padre in Bronco Billy, 1980, Thightrope (Corda Tesa, 1984, di Richard Tuggle), Absolute Power (Potere Assoluto, 1997) e Midnight in the Garden of Good and Evil (Mezzanotte nel giardino del bene e del male, 1997). L’esordio registico nel western è del 1973 con High Plains Drifter (Lo straniero senza nome). I ritmi di lavorazione di Eastwood, molto rapidi, gli consentono di interpretare, dirigere e produrre più film ogni anno. È infatti del 1973 anche Breezy, primo film del quale Eastwood è solo regista, anche se si concede un cameo attraverso la locandina di High Plains Drifter, che Kay Lenz e William Holden vanno a vedere al cinema. Tra il secondo (Magnum Force, Una “44 Magnum” per l’ispettore Callaghan, 1973) e il terzo (The Enforcer, Cielo di piombo, ispettore Callaghan, 1976) film della serie dedicata a Dirty Harry, Eastwood dirige e interpreta The Eiger Sanction (Assassinio sull’Eiger, 1975) e, sul set di The Outlaw Josey Wales (Il texano dagli occhi di ghiaccio, 1976), da lui prodotto e interpretato, allontana il regista Philip Kaufman a causa delle molteplici divergenze. Durante la lavorazione incomincia una relazione con l’attrice Sondra Locke, con la quale vivrà fino al 1989, facendone la protagonista di quasi tutti i suoi film del periodo, a cominciare dal successivo The Gauntlet (L’uomo nel mirino), 1979, anno della separazione ufficiale dalla prima moglie e dell’ultimo film con Don Siegel, Escape from Alcatraz (Fuga da Alcatraz). A cinquant’anni dirige uno dei suoi film più personali, Bronco Billy: come gran parte delle opere maggiormente sentite dal regista, il film non ottenne i favori del pubblico. Al contrario va invece per Firefox (Firefox -Volpe di fuoco, 1982) e Sudden Impact (Coraggio… fatti ammazzare, 1983), nel quale interpreta per la quarta volta Harry Callaghan. Tra i due gira Honkytonk Man, regalandosi l’occasione di esibirsi anche come musicista. Dopo il ritorno al western con Pale Rider (Il cavaliere pallido, 1985), Eastwood si candida a sindaco di Carmel, ottenendo il settanta percento dei voti. Durante il mandato nascono il quarto e il quinto figlio, Scott e Kathryn, avuti dalla hostess Jacelyn Reeves, mentre Eastwood riesce, nel 1986, a realizzare Gunny e a cominciare la preparazione di Bird, che vedrà la luce nel 1988. Il film, un progetto lungamente inseguito, viene presentato al festival di Cannes, dove il regista era già
stato tre anni prima con Pale Rider e dove concorrerà nuovamente nel 1990 con White Hunter, Black Heart (Cacciatore bianco, cuore nero). Nel frattempo la relazione con Sondra Locke si è interrotta in malo modo. Frances Fisher, conosciuta sul set di Pink Cadillac di Buddy Van Horn nel 1989, è la nuova compagna. Se The Rookie (La recluta), del 1990, passa quasi inosservato, Unforgiven (Gli spietati, 1992), concepito come l’ultimo western diretto e interpretato da Eastwood, è invece un successo clamoroso di critica e pubblico, confermato da quattro Oscar su nove nomination, cosa rara per un western. La sesta figlia, Francesca, nasce pochi mesi dopo. In the Line of Fire (Nel centro del mirino, 1993) è l’ultimo film interpretato da Eastwood per altri registi (in questo caso Wolfgang Petersen), se si escludono alcune piccole partecipazioni come quelle in Les cent et une nuits de Simon Cinéma di Agnès Varda e Casper di Brad Silberling, entrambi del 1995. A Perfect World (Un mondo perfetto), un altro film molto personale non premiato dal pubblico, esce nel 1993, anno nel quale Eastwood conosce, per un’intervista, Dina Ruiz, che il 31 marzo 1996 diventerà la sua seconda moglie e il 12 dicembre madre di Morgan (la bambina con il cane di Million Dollar Baby), la sua settima figlia. Con The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County, 1995) Eastwood affronta il melodramma a ventidue anni da Breezy, questa volta anche come attore. Dopo tre adattamenti di best seller – Absolute Power, Midnight in the Garden of Good and Evil e True Crime (Fino a prova contraria, 1999) – Eastwood gira nel 2000 lo spiazzante Space Cowboys, interpretato con gli amici James Garner, Donald Sutherland e Tommy Lee Jones, per tornare al thriller due anni dopo con Blood Work (Debito di sangue), dal romanzo di Michael Connelly al quale Eastwood si era interessato fin dalla sua uscita, nel 1998. Il 2003 è l’anno di Mystic River e di Piano Blues, due opere dall’esito commerciale e critico pressoché opposto: nel secondo Eastwood suona con i più grandi pianisti blues viventi, da Ray Charles a Dr. John. Nel 2004 vede finalmente la luce Million Dollar Baby, un’opera che per anni nessuna casa produttrice aveva voluto finanziare, fino a che Eastwood non garantisce il suo impegno come attore e regista. Il grande successo del film consente a Eastwood di realizzare l’ambizioso dittico dedicato alla battaglia di Iwo Jima, Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima), entrambi del 2006. Nel luglio del medesimo anno perde anche la madre, Francesca Ruth. Con Changeling partecipa al Festival di Cannes del 2008, e in pochi mesi finisce le riprese di Gran Torino, in cui è di nuovo anche attore protagonista. Il film su cui ora Eastwood è al lavoro s’intitola The Guardian, sulla figura di Nelson Mandela.
Filmografia a cura di Matteo Pollone REGIE
1971 The Beguiled: The Storyteller soggetto e sceneggiatura: Clint Eastwood; interpreti: Don Siegel (se stesso); produzione: Clint Eastwood per The Malpaso Company; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa; durata: 12’. Documentario girato sul set di The Beguiled. 1971 Play Misty for Me (Brivido nella notte) soggetto: Jo Heims; sceneggiatura: Jo Heims, Dean Riesner; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Carl Pingitore; musica: Dee Barton; interpreti: Clint Eastwood (Dave), Jessica Walter (Evelyn), Donna Mills (Tobie), John Larch (sergente McCallum), Jack Ging (Frank), Irene Hervey (Madge), James McEachin (Al Monte), Clarice Taylor (Birdie), Don Siegel (Murphy), Duke Everts (Jay Jay); produzione: Clint Eastwood, Robert Daley, Jennings Lang per Universal Pictures e The Malpaso Company; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa; durata: 102’. Dave, dj della stazione radio KRLM di Carmel, riceve spesso la chiamata di un’ammiratrice sconosciuta che gli chiede di ascoltare Misty di Errol Garner. Una sera la conosce e la porta a casa con sé. Dopo una notte d’amore Dave considera chiusa l’avventura, ma la ragazza gli si stabilisce in casa. Il dj, preoccupato anche dal ritorno della fidanzata, Tobie, cerca in tutti i modi di allontanare la ragazza, che reagisce con violenza, prima tentando il suicidio, poi distruggendo l’appartamento di Dave e accoltellando la cameriera. La ragazza viene arrestata, ma una volta rilasciata tenta di uccidere Tobie. Dave interviene appena in tempo, riuscendo ad avere il sopravvento sulla ragazza scaraventandola fuori dalla finestra che dà sulla scogliera. 1973 High Plains Drifter (Lo straniero senza nome) soggetto e sceneggiatura: Ernest Tidyman, Dean Riesner; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Ferris Webster; musica: Dee Barton; interpreti: Clint Eastwood (lo straniero), Verna Bloom (Sarah Belding), Mariana Hill (Callie Travers), Mitchell Ryan (Dave Drake), Jack Ging (Morgan Allen), Stefan Gierasch (sindaco Jason Hobart), Ted Hartley (Lewis Belding), Billy Curtis (Mordecai), Geoffrey Lewis (Stacey Bridges), Scott Walker (Bill Borders); produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per The Malpaso Company; produttore esecutivo: Jennings Lang; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa; durata: 105’. Un uomo arriva in una cittadina sulle rive di un lago pochi giorni prima che i tre assassini del vecchio sceriffo del paese vengano rilasciati. Provocato da alcuni balordi, li uccide. Temendo che i tre banditi possano ritornare al paese a vendicarsi, le autorità decidono di assumere lo straniero perché difenda la cittadinanza. In cambio, gli promettono, avrà quel che vuole. Lo straniero comincia con il deporre il sindaco e lo sceriffo, caccia tutti i clienti dall’albergo del paese e vi si stabilisce. Impone infine di ridipingere la città di rosso e poco prima che i banditi arrivino se ne va a cavallo. Il paese è messo a ferro e
fuoco, alcuni muoiono. Poi lo straniero ritorna e uccide i tre banditi, per andarsene poi, questa volta, per sempre. 1973 Breezy soggetto e sceneggiatura: Jo Heims; fotografia: Frank Stanley; montaggio: Ferris Webster; musica: Michel Legrand; interpreti: William Holden (Frank Harmon), Kay Lenz (Edith Alice Breezerman), Roger C. Carmel (Bob Henderson), Marj Dusay (Betty Tobin), Joan Hotchkis (Paula Harmon), Jamie Smith Jackson (Marcy), Norman Bartold (l’uomo nell’auto), Lynn Borden (la donna in casa Harmon), Shelley Morrison (Nancy Henderson), Dennis Olivieri (Bruno); produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per The Malpaso Company; produttore esecutivo: Jennings Lang; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa; durata: 108’. Scampata per miracolo a un tentativo di stupro, la giovane Edith Alice Breezerman, detta “Breezy”, incappa nel maturo agente immobiliare Frank Harmon. Nel darle un passaggio in città, Frank non soccorre un cane ferito al margine della strada. La ragazza, sconvolta, scappa. La sera si presenta a casa sua. Nei giorni successivi i due intrecciano una relazione. Il cane che Frank, dopo la fuga della ragazza, ha soccorso, viene ribattezzato da Breezy “Sir Love-a-Lot”. Frank, uomo divorziato e arido, si scopre innamorato di Breezy, ma gli amici che lo vedono con lei reagiscono con imbarazzo o con battute volgari. Dopo un attimo di esitazione durante il quale abbandona la ragazza, decide invece di andare fino in fondo senza farsi troppe domande. 1975 The Eiger Sanction (Assassinio sull’Eiger) soggetto: dal romanzo omonimo di Rod Whitaker; sceneggiatura: Hal Dresner, Warren B. Murphy, Rod Whitaker; fotografia: William N. Clark, Frank Stanley; montaggio: Ferris Webster; musica: John Williams; interpreti: Clint Eastwood (Dr. Jonathan Hemlock), George Kennedy (Ben Bowman), Vonetta McGee (Jemima Brown), Jack Cassidy (Miles Mellough), Heidi Brühl (Mrs Anna Montaigne), Thayer David (Dragon), Reiner Schöne (Karl Freytag), Michael Grimm (Anderl Meyer), Jean-Pierre Bernard (Jean-Paul Montaigne), Brenda Venus (George); produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per Universal Pictures, The Malpaso Company, Jennings Lang; produttore esecutivo: David Brown, Richard D. Zanuck; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa; durata: 123’. Jonathan Hemlock è un agente segreto a riposo che ora si mantiene facendo l’insegnante di storia dell’arte in un liceo di Zurigo. Convocato dai suoi vecchi capi, accetta di uccidere l’assassino del suo vecchio amico Harry Black. Una volta eseguito il compito si vede però sottrarre la ricompensa: per riaverla dovrà scovare due traditori e uccidere anche loro. Il primo è un compito facile, mentre per il secondo sa solo che è zoppo e che parteciperà alla scalata del monte Eiger. Hemlock accetta di partecipare alla scalata. Nessuno dei suoi tre compagni di scalata è però l’uomo che cerca. L’escursione finisce in tragedia, e sulla via del ritorno Hemlock scopre che il traditore è in realtà il suo amico Ben Bowman. Hemlock decide di risparmiarlo. 1976 The Outlaw Josey Wales (Il texano dagli occhi di ghiaccio) soggetto: dai romanzi The Rebel Outlaw: Josey Wales e The Vengeance Trail of Josey Wales di Forrest Carter; sceneggiatura: Philip Kaufman e Sonia Chernus; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Ferris Webster; musica: Jerry Fielding; interpreti: Clint Eastwood (Josey Wales), Chief Dan George (Lone Watie), Sondra Locke (Laura Lee), Bill
McKinney (Terrill), John Vernon (Fletcher), Paula Trueman (Grandma Sarah), Sam Bottoms (Jamie), Geraldine Keams (Little Moonlight), Woodrow Parfrey (piazzista), Joyce Jameson (Rose); produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per The Malpaso Company; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 135’. Dopo il massacro della famiglia da parte di un gruppo di soldati nordisti, l’agricoltore Josey Wales si unisce a una banda di sudisti ribelli comandata da Fletcher. Il giorno della resa non si reca a giurare fedeltà agli Stati Uniti insieme ai suoi compagni, e questo gli salva la vita. Il capitano Terril, che comandava il gruppo di sbandati responsabili dell’omicidio della moglie e del figlio di Wales, è incaricato di dare la caccia al fuggiasco, accompagnato da Fletcher stesso. Nel corso della sua fuga, Wales trova dei bizzarri compagni di strada: un’anziana signora e sua nipote, un vecchio indiano e una giovane squaw. Durante la resa dei conti Wales uccide Terrill e viene dato per morto. Fletcher, che lo riconosce, non lo tradisce. 1977 The Gauntlet (L’uomo nel mirino) soggetto e sceneggiatura: Michael Butler, Dennis Shryack; fotografia: Rexford Metz; montaggio: Joel Cox, Ferris Webster; musica: Jerry Fielding; interpreti: Clint Eastwood (Ben Shockley), Sondra Locke (Gus Mally), Pat Hingle (Josephson), William Prince (Blakelock), Bill McKinney (Constable), Michael Cavanaugh (Feyderspiel), Carole Cook (Waitress), Mara Corday (Jail Matron), Douglas McGrath (Bookie), Jeff Morris (sergente); produzione: Clint Eastwood, Robert Daley per The Malpaso Company; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 109’. A Ben Shockley, un poliziotto alcolizzato e disprezzato da colleghi e superiori, viene affidato l’incarico di scortare Gus Mally, testimone per un processo di poca importanza. Si reca così a Las Vegas per prelevare la donna. Il compito però si rivela subito difficile: l’auto di Shockley viene fatta esplodere e i due fuggono in ambulanza. A casa della ragazza Shockley chiama il capo della polizia Blakelock per chiedere aiuto, ma i poliziotti che questi gli manda tentano di ucciderlo. Inizia così una precipitosa fuga, perché la testimonianza di Gus incastrerebbe proprio Blakelock. Shockley sequestra un autobus e lo blinda, per condurre la ragazza al comando di polizia. Una volta arrivati Blakelock tenta di uccidere Gus, e Shockley lo uccide. 1980 Bronco Billy soggetto e sceneggiatura: Dennis E. Hackin; fotografia: David Worth; montaggio: Joel Cox, Ferris Webster; supervisione musicale: Snuff Garrett; interpreti: Clint Eastwood (Bronco Billy), Sondra Locke (Antoinette Lily), Geoffrey Lewis (John Arlington), Scatman Crothers (Doc Lynch), Bill McKinney (Lefty LeBow), Sam Bottoms (Leonard James), Dan Vadis (Chief Big Eagle), Sierra Pecheur (Lorraine Running Water), Walter Barnes (sceriffo Dix), Alison Eastwood (bambina dell’orfanotrofio); produzione: Neal Dobrofsky, Dennis E. Hackin per Warner Bros. Pictures, Second Street Films; produttore esecutivo: Robert Daley; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 116’. Bronco Billy è il leader di uno scalcinato circo itinerante che ha come tema il Wild West. Un giorno si imbatte in Antoinette Lily, ricchissima ereditiera appena piantata in asso dal marito. Data per morta, la donna si unisce al circo di Bronco Billy dimostrandosi subito una provetta showgirl. Il marito di Antoinette, intanto, è accusato di aver ucciso la moglie e rinchiuso in un manicomio criminale. Durante un’esibizione il tendone di Billy prende fuoco. L’uomo, senza soldi, non sa come fare. La soluzione è farne cucire uno
nuovo dai pazienti del Dr. Canterbury, direttore del manicomio dove si trova il marito di Antoinette. Chiarito l’equivoco con la donna, Billy può tornare al suo circo assieme ad Antoinette, che rimane al suo fianco. 1982 Firefox (Firefox - Volpe di fuoco) soggetto: dal romanzo omonimo di Craig Thomas; sceneggiatura: Alex Lasker, Wendell Wellman; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Ron Spang, Ferris Webster; musica: Maurice Jarre; interpreti: Clint Eastwood (Mitchell Gant), Freddie Jones (Kenneth Aubrey), David Huffman (capitano Buckholz), Warren Clarke (Pavel Upenskoy), Ronald Lacey (Semelovsky), Kenneth Colley (Colonel Kontarsky), Klaus Löwitsch (generale Vladimirov), Nigel Hawthorne (Pyotr Baranovich), Stefan Schnabel (prima segretaria), Thomas Hill (generale Brown); produzione: Clint Eastwood per The Malpaso Company; produttore esecutivo: Fritz Manes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 136’. Alla notizia che i russi hanno costruito un aereo all’avanguardia, il Mig 21, i servizi segreti americani decidono di rubare il prototipo. L’incarico è affidato al maggiore Mitchell Gant, reduce del Vietnam con sindrome da stress ma che parla perfettamente il russo. Egli raggiunge Mosca sotto le identità di un uomo d’affari prima e di un turista poi. Nascosto in un bagagliaio riesce a raggiungere la base nella quale è custodito il Mig. Vestito da ufficiale russo, Gant vi sale e decolla. Subito viene inseguito dagli stormi ai comandi del generale Vladimirov, dei quali si sbarazza facilmente. Spunta però un secondo Mig, con il quale Gant combatte fino quasi a venire abbattuto. All’ultimo momento, però, ha la meglio grazie ai missili di coda. 1982 Honkytonk Man soggetto: dal romanzo omonimo di Clancy Carlile; sceneggiatura: Clancy Carlile; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Joel Cox, Michael Kelly, Ferris Webster; musica: Steve Dorff; interpreti: Clint Eastwood (Red Stovall), Kyle Eastwood (Whit), John McIntire (nonno), Alexa Kenin (Marlene), Verna Bloom (Emmy), Matt Clark (Virgil), Barry Corbin (Arnspringer), Jerry Hardin (Snuffy), Tim Thomerson (poliziotto), Macon McCalman (Dr. Hines); produzione: Clint Eastwood per The Malpaso Company; produttore esecutivo: Fritz Manes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 122’. Red Stovall arriva una sera, completamente ubriaco, alla fattoria del cognato, in Oklahoma. L’uomo, affetto da tisi, ha intenzione di andare a Nashville per un’audizione al Grand Ole Opry. Appena ripresosi Red, che nel frattempo ha stretto amicizia con il nipote Whit, decide di riprendere la strada. Convince la sorella a farsi accompagnare dal nipote in veste di autista. Con loro parte anche il nonno, che prima di morire vuole rivedere il Tennessee. Lungo la strada si unisce a loro Marlene, una ragazzina che s’innamora subito di Red. Arrivati a Nashville l’audizione va male: Red incomincia a tossire durante l’esibizione e viene scartato. Per lasciare qualche soldo al nipote accetta un contratto discografico: la registrazione, però, gli è fatale. 1983 Sudden Impact (Coraggio… fatti ammazzare) soggetto: Charles B. Pierce, Earl E. Smith; sceneggiatura: Joseph Stinson; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Joel Cox; musica: Lalo Schifrin; interpreti: Clint Eastwood (Harry Callaghan), Sondra Locke (Jennifer Spencer), Pat Hingle (capo Jannings), Bradford Dillman (capitano Briggs), Paul Drake (Mick), Audrie J. Neenan (Ray Parkins), Jack Thibeau (Kruger), Michael Currie (tenente Donnelly), Albert Popwell (Horace King), Mark
Keyloun (agente Bennett); produzione: Clint Eastwood per Warner Bros. Pictures, The Malpaso Company; produttore esecutivo: Fritz Manes, Steve Perry; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 117’. Jennifer Spencer è stata vittima di una terribile violenza di gruppo, sullo sfondo delle giostre di San Paolo. A distanza di anni incomincia a vendicarsi dei suoi aguzzini, uccidendoli uno a uno. L’ispettore Callaghan, preso di mira a causa dei suoi modi poco ortodossi, viene allontanato a San Paolo, dove si vede assegnare il caso dei misteriosi omicidi della donna, che arriva a conoscere e ad amare. Presto però la responsabilità di Jennifer diviene evidente agli occhi di Callaghan. L’ultimo sopravvissuto del gruppo degli stupratori riesce a rapire Jennifer e la conduce alle giostre, con l’intenzione di stuprarla nuovamente. Callaghan lo raggiunge e lo uccide, facendo poi in modo che a lui vengano attribuiti anche tutti gli altri omicidi. 1985 Pale Rider (Il cavaliere pallido) soggetto e sceneggiatura: Michael Butler, Dennis Shryack; fotografia: Bruce Surtees; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (il predicatore), Michael Moriarty (Hull Barret), Carrie Snodgress (Sarah Wheeler), Chris Penn (Josh LaHood), Richard Dysart (Coy LaHood), Sydney Penny (Megan Wheeler), Richard Kiel (Club), Doug McGrath (Spider Conway), John Russell (Stockburn), Charles Hallahan (McGill); produzione: Clint Eastwood per The Malpaso Company; produttore esecutivo: Fritz Manes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 116’. Una comunità di cercatori d’oro è vessata dagli uomini di Coy LaHood, che vorrebbe impossessarsi delle terre che loro occupano. A seguito dell’ennesima razzia, il cucciolo della giovane Megan rimane ucciso. Seppellendolo, la ragazza invoca un miracolo, che puntualmente avviene: uno straniero comincia a raddrizzare i torti commessi dagli uomini di LaHood. L’uomo si veste come un pastore e ha cicatrici di revolverate sulla schiena. Dopo aver tentato di convincere LaHood con le buone, il predicatore passa alle maniere forti: elimina a uno a uno gli sgherri di LaHood, arrivando ad affrontare anche Stockburn, il braccio destro del possidente, che sembra riconoscerlo prima di morire. Dopo che anche LaHood è ucciso, l’uomo cavalca via verso le montagne. 1985 Amazing Stories (Storie incredibili) - Episodio Vanessa in the Garden (Vanessa) soggetto: Steven Spielberg, Joshua Brand, John Falsey; sceneggiatura: Steven Spielberg; fotografia: Robert Stevens; montaggio: Joe Ann Fogle; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Harvey Keitel (Byron Sullivan), Sondra Locke (Vanessa), Beau Bridges (Teddy), Margaret Howell (Eve), Thomas Randall Oglesby (Dr. Northrup), Jamie Rose (Mrs Northrup), Milton Murrill (cameriere); produzione: David E. Vogel per Amblin Entertainment; produttore esecutivo: Steven Spielberg; origine: Usa; durata: 25’; trasmissione: Nbc. Il pittore Byron Sullivan è felicemente sposato con Vanessa. Teddy, l’agente di Byron, avvisa l’amico che gli ha organizzato una mostra presso un’importante galleria. Tornando dai festeggiamenti, i coniugi hanno un incidente con il calesse: Vanessa rimane schiacciata e muore. La perdita dell’amata priva di ogni ispirazione e motivazione l’artista, che una notte brucia tutti i quadri, tranne uno che ritrae la moglie. Il mattino dopo si accorge che Vanessa è uscita dal quadro e che si trova in giardino nella stessa posizione in cui è stata ritratta. Byron dipinge febbrilmente altri quadri della
moglie, dai quali lei esce ogni volta per vivere la scena ritratta. L’uomo ha trovato il modo di riavere la moglie con sé e di tornare al successo. 1986 Heartbreak Ridge (Gunny) soggetto e sceneggiatura: James Carabatsos, Joseph Stinson; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (sergente Tom “Gunny” Highway), Marsha Mason (Aggie), Everett McGill (maggiore Malcolm A. Powers), Moses Gunn (sergente Webster), Eileen Heckart (Little Mary Jackson), Bo Svenson (Roy Jennings, il proprietario del Palace Bar), Boyd Gaines (tenente M.R. Ring), Mario Van Peebles (caporale “Stitch” Jones), Arlen Dean Snyder (sergente Major Choozoo), Vincent Irizarry (caporale Fragatti); produzione: Clint Eastwood per The Malpaso Company, Jay Weston Productions; produttore esecutivo: Fritz Manes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 130’. Il sergente Tom “Gunny” Highway è un ottimo soldato quanto un individuo con un pessimo carattere. Proprio per questo, nonostante egli sia un veterano di Corea (dove si è particolarmente distinto a Heartbreak Ridge) e Vietnam, si ritrova ad addestrare le truppe d’assalto. Il gruppo è particolarmente indisciplinato, ma grazie a un ferreo addestramento riesce a conquistare la loro fiducia, tanto che si rifiutano addirittura di firmare un’accusa montata contro di lui da un superiore. Dopo alcuni giorni di addestramento il gruppo di Gunny viene mandato a Grenada. L’obiettivo è liberare degli ostaggi americani e conquistare un bunker. La missione riesce perfettamente, anche se Gunny è costretto per l’ennesima volta a disobbedire agli ordini. 1988 Bird soggetto e sceneggiatura: Joel Oliansky; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Forest Whitaker (Charlie “Bird” Parker), Diane Venora (Chan Parker), Michael Zelniker (Red Rodney), Samuel E. Wright (Dizzy Gillespie), Keith David (Buster Franklin), Michael McGuire (Brewster), James Handy (Esteves), Damon Whitaker (Charlie Parker giovane), Morgan Nagler (Kim), Arlen Dean Snyder (Dr. Heath); produzione: Clint Eastwood per The Malpaso Company, Warner Bros. Pictures; produttore esecutivo: David Valdes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 161’. Charlie Parker è un ragazzo appassionato di jazz. I musicisti che frequenta lo ribattezzano “Yarbird”, un nome che con il tempo diventerà solo “Bird”. Incomincia a suonare il sax, arrivando a innovarne la tecnica. Le novità che apporta non sono però apprezzate dal pubblico statunitense: le frustrazioni lavorative lo spingono ben presto a consolarsi con droga e alcol. Tra le molte donne, la bianca Chan sembra poter contrastare questa smania autodistruttiva che lo domina, ma invano. Pur dandogli due figli, la ragazza non riesce a salvarlo, così com’è inutile il grande successo in Francia, dove un collega lo esorta a rimanere. Morirà a trentaquattro anni davanti alla Tv. Il medico legale dà al musicista un’età approssimativa di sessantacinque anni. 1990 White Hunter, Black Heart (Cacciatore bianco, cuore nero) soggetto: dal romanzo omonimo di Peter Viertel; sceneggiatura: Peter Viertel, James Bridges, Burt Kennedy; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (John Wilson), Jeff Fahey (Peter Verrill), Charlotte Cornwell (Miss Wilding, segretaria di Wilson), Norman Lumsden (George, il
maggiordomo), George Dzundza (Paul Landers), Edward Tudor-Pole (Reissar), Roddy Maude-Roxby (Thompson), Richard Warwick (Basil Fields), John Rapley (impiegato dell’armeria), Catherine Neilson (Irene Saunders); produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Rastar Pictures; produttore esecutivo: David Valdes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 110’. Peter Verril è incaricato di scrivere la sceneggiatura del nuovo film del regista John Wilson, The African Trader, che sarà girato in Africa. Una volta partiti, con il set pronto, Wilson dichiara di aver intenzione di fare un safari prima di cominciare a girare. Il suo obiettivo è quello di uccidere un elefante. Durante il primo incontro con uno di essi non può però portare a termine il suo intento, e deve accontentarsi di sparare alle antilopi. Ribadisce alla troupe che le riprese non cominceranno fino a quando non avrà il suo trofeo. Quando finalmente la sua guida africana, Kivu, lo conduce di fronte a un elefante, Wilson esita, causando la morte del ragazzo. Tornato sul set pronto a girare, si siede sulla sedia e dà finalmente l’“azione”. 1990 The Rookie (La recluta) soggetto e sceneggiatura: Boaz Yakin, Scott Spiegel; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (Nick Pulovski), Charlie Sheen (David Ackerman), Raul Julia (Strom), Sonia Braga (Liesl), Tom Skerritt (Eugene Ackerman), Lara Flynn Boyle (Sarah), Pepe Serna (tenente Ray García), Marco Rodríguez (Loco), Pete Randall (Cruz), Donna Mitchell (Laura Ackerman); produzione: Clint Eastwood, Howard G. Kazanjian, Steven Siebert, David Valdes per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Kazanjian/Siebert Productions; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 121’. Da tempo il detective Nick Pulovski sta cercando di incastrare Strom, leader dei ladri d’auto della città di Los Angeles. Una notte sta per arrestare alcuni membri della sua banda, ma il malavitoso uccide il suo collega e scappa. A Nick viene così affiancata una giovane recluta, David Ackerman, figlio di un ricchissimo uomo d’affari della città. Proprio mentre i due stanno per mettere nuovamente le mani sulla banda di Strom, un’esitazione di David permette al criminale di sequestrare Nick e fuggire di nuovo. Sentendosi responsabile, la recluta cerca di scoprire il nascondiglio di Strom con metodi poco ortodossi, raggiungendo il collega poco prima che un’esplosione rada al suolo il covo. Al termine di un lungo inseguimento Strom è ucciso da Nick. 1992 Unforgiven (Gli spietati) soggetto e sceneggiatura: David Webb Peoples; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (William “Bill” Munny), Gene Hackman (Little Bill Daggett), Morgan Freeman (Ned Logan), Richard Harris (English Bob), Jaimz Woolvett (The Schofield Kid), Saul Rubinek (W.W. Beauchamp), Frances Fisher (Strawberry Alice), Anna Thompson (Delilah Fitzgerald), David Mucci (Quick Mike), Rob Campbell (Davey Bunting); produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures; produttore esecutivo: David Valdes; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 131’. William Munny è un vedovo con due figli a carico. Un ragazzo che si fa chiamare The Schofield Kid gli chiede una mano per incassare una taglia su due uomini che hanno sfregiato una prostituta. Povero in canna e con i maiali della sua piccola fattoria ammalati, Munny, un tempo pistolero provetto, accetta, coinvolgendo anche Ned Logan,
suo vecchio pard. I tre partono alla volta di Big Whiskey, dove però lo sceriffo Bill Daggett non vuole problemi. Percuote Munny come monito, e lo lascia alle cure delle prostitute. Ristabilitosi, l’uomo uccide, con l’aiuto del Kid e di Ned, i due uomini della taglia. Ned se ne va, ma viene catturato e ucciso dagli uomini dello sceriffo. Munny si vendica uccidendo a sua volta Daggett, poi torna alla sua fattoria. 1993 A Perfect World (Un mondo perfetto) soggetto e sceneggiatura: John Lee Hancock; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox, Ron Spang; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Kevin Costner (Robert “Butch” Haynes), Clint Eastwood (sceriffo Red Garnett), Laura Dern (Sally Gerber), T.J. Lowther (Phillip Perry), Keith Szarabajka (Terry Pugh), Leo Burmester (Tom Adler), Paul Hewitt (Dick Suttle), Bradley Whitford (Bobby Lee), Ray McKinnon (Bradley), Jennifer Griffin (Gladys Perry); produzione: Clint Eastwood, Mark Johnson, David Valdes per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 138’. Nella notte di Halloween del 1963 due uomini evadono dal carcere di Huntville. Sono Robert “Butch” Hayes e Terry Pugh. Prendono in ostaggio un bambino di otto anni, Phillip, e fuggono in auto. Presto, però, le tensioni tra i due vengono a galla, e Butch uccide Terry con un colpo di pistola. Sulle loro tracce si è messo intanto lo sceriffo Red Garnett, affiancato dalla giovane criminologa Sally Gerber e da Bobby Lee, cecchino dell’Fbi. Il legame tra il bambino e Butch si fa stretto, ma Phillip, spaventato da un gesto di violenza di Butch, gli spara, colpendolo all’addome. Red Garnett e la sua squadra raggiungono il ferito. Bobby Lee, fraintendendo un suo gesto, gli spara nonostante sia disarmato. Phillip si allontana in elicottero con la madre. 1995 The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County) soggetto: dal romanzo omonimo di Robert James Waller; sceneggiatura: Richard LaGravenese; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (Robert Kincaid), Meryl Streep (Francesca Johnson), Annie Corley (Carolyn Johnson), Victor Slezak (Michael Johnson), Jim Haynie (Richard Johnson), Sarah Kathryn Schmitt (Carolyn giovane), Christopher Kroon (Michael giovane), Phyllis Lyons (Betty), Debra Monk (Madge), Richard Lage (avvocato Peterson); produzione: Clint Eastwood, Kathleen Kennedy per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Amblin Entertainment; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 135’. Dopo la morte della madre Francesca, i fratelli Johnson apprendono dal diario della donna di una storia d’amore vissuta nel 1965 con un fotografo del «National Geographic». Durante un’assenza di marito e figli, infatti, l’uomo, Robert Kincaid, si presenta a casa di Francesca per chiederle di indirizzarlo verso i ponti coperti della zona. La donna si offre di accompagnarlo. I due si raccontano le loro vite, e stanno insieme fino a cena. La sera dopo si rivedono e fanno l’amore. Il giorno successivo escono per un picnic e per ballare, fino a che Robert non propone alla donna di fuggire con lui. Francesca lo allontana. Tornata la famiglia, Francesca rivede Robert mentre è in paese con il marito. Rinuncia però a scappare con lui. Non lo rivedrà più. 1997 Absolute Power (Potere assoluto) soggetto: dal romanzo omonimo di David Baldacci; sceneggiatura: William Goldman; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint
Eastwood (Luther Whitney), Gene Hackman (Allen Richmond, il presidente degli Stati Uniti), Ed Harris (Seth Frank), Laura Linney (Kate Whitney), Scott Glenn (Bill Burton), Dennis Haysbert (Tim Collin), Judy Davis (Gloria Russell), E.G. Marshall (Walter Sullivan), Melora Hardin (Christy Sullivan), Alison Eastwood (studentessa d’arte); produzione: Clint Eastwood, Karen S. Spiegel per Malpaso Productions, Castle Rock Entertainment; produttore esecutivo: Tom Rooker; distribuzione: Columbia Pictures; origine: Usa; durata: 121’. Luther Whitney, ladro con la passione dell’arte, si introduce nottetempo in una lussuosa villa. Mentre è intento al furto, una coppia entra in casa. Nascosto, assiste all’omicidio della donna da parte di Burton, guardia di sicurezza dell’uomo, Allen Richmond, ovvero il presidente degli Stati Uniti. Whitney fugge, ma viene notato. Spaventato, decide di espatriare, ma all’ultimo cambia idea. Braccato da Burton e da un killer assoldato dal marito dell’uccisa, riesce a scamparla per miracolo. Dopo un attentato alla figlia, che quasi lo uccide, Whitney capisce che l’ultima risorsa è rivolgersi a Walter Sullivan, vedovo della donna assassinata. Lo convince della colpevolezza del presidente. Sarà lui a ucciderlo: delitto che sarà spacciato per suicidio. 1997 Midnight in the Garden of Good and Evil (Mezzanotte nel giardino del bene e del male) soggetto: dal romanzo omonimo di John Berendt; sceneggiatura: John Lee Hancock; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: John Cusack (John Kelso), Kevin Spacey (Jim Williams), Jack Thompson (Sonny Seiler), Irma P. Hall (Minerva), Jude Law (Billy Hanson), Alison Eastwood (Mandy Nicholls), Paul Hipp (Joe Odom), Lady Chablis (Chablis Deveau), Dorothy Loudon (Serena Dawes), Anne Haney (Margaret Williams); produzione: Clint Eastwood, Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Silver Pictures; produttore esecutivo: Anita Zuckerman; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 155’. Il giornalista John Kelso si trova a Savannah per un servizio sul party natalizio del ricchissimo Jim Williams. Quella notte, Williams uccide Billy Hanson, suo giovane amante. La dinamica del delitto sembra essere la legittima difesa (il ragazzo ha sparato e l’uomo ha risposto al fuoco), ma l’accusa costruisce il processo attorno alla mancanza di polvere da sparo sulle mani del morto, segno che Billy non avrebbe mai sparato. La difesa scopre che polizia e medico legale sono stati negligenti, ma poco prima che la situazione venga ribaltata in favore dell’imputato, quest’ultimo confessa a John che Billy effettivamente non ha fatto in tempo a sparare. La cosa viene taciuta e Williams è assolto. Poco dopo, un infarto lo stronca nel suo studio. 1999 True Crime (Fino a prova contraria) soggetto: dal romanzo omonimo di Andrew Klavan; sceneggiatura: Larry Gross, Paul Brickman, Stephen Schiff; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (Steve Everett), Isaiah Washington (Frank Louis Beechum), Lisa Gay Hamilton (Bonnie Beechum), James Woods (Alan Mann), Denis Leary (Bob Findley), Bernard Hill (direttore Luther Plunkitt), Diane Venora (Barbara Everett), Michael McKean (reverendo Shillerman), Michael Jeter (Dale Porterhouse), Mary McCormack (Michelle Ziegler); produzione: Clint Eastwood, Lili Fini Zanuck, Richard D. Zanuck per Malpaso Productions, The Zanuck Company; produttore esecutivo: Tom Rooker; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 127’.
A causa dell’improvvisa morte della giovane collega Michelle Ziegler, il giornalista Steve Everett riceve in eredità l’ultima intervista al condannato a morte Frank Louis Beechum. Subito, documentandosi sul caso (l’omicidio di una cassiera), sente che l’uomo è innocente, pur non avendone le prove. Inizia così una corsa contro il tempo: riesce a farsi dire dal procuratore distrettuale che sulla scena del delitto vi era un’altra persona, un ragazzo, considerato però ininfluente ai fini dell’inchiesta. Steve va a parlare con la nonna del ragazzo e apprende che è morto. Al collo della donna vi è però un ciondolo strappato dal cadavere della ragazza uccisa. Grazie a questo elemento, salva la vita a Frank. 2000 Space Cowboys soggetto e sceneggiatura: Ken Kaufman, Howard Klausner; fotografia: Jack N. Green; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (Frank Corvin), Tommy Lee Jones (Hawk Hawkins), Donald Sutherland (Jerry O’Neill), James Garner (Tank Sullivan), James Cromwell (Bob Gerson), Marcia Gay Harden (Sara Holland), William Devane (Eugene Davis), Loren Dean (Ethan Glance), Courtney B. Vance (Roger Hines), Barbara Babcock (Barbara Corvin); produzione: Clint Eastwood, Andrew Lazar per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Clipsal Films, Mad Chance, Village Roadshow Pictures; produttore esecutivo: Tom Rooker; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa, Australia; durata: 130’. Frank Corvin, pilota della Nasa in pensione, viene richiamato in servizio per disattivare un satellite russo impazzito. Accetta a patto di avere a fianco i vecchi compagni del Team Dedalus, Jerry O’Neill, Tank Sullivan e Hawk Hawkins, quest’ultimo affetto da cancro al pancreas. I quattro riescono a passare tutti i test e diventano delle celebrità. Sullo shuttle in partenza sono affiancati da due astronauti più giovani, Glance e Hines. Arrivati al cospetto del satellite, i piloti scoprono con orrore che è armato di testate nucleari. Il disinnesco del veicolo causa però il sacrificio di Hawk, che vi rimane a bordo per dirottarlo contro la luna. Lo shuttle, anche se danneggiato, ritorna sulla terra. Hawk è ora sdraiato sulla superficie lunare. 2002 Blood Work (Debito di sangue) soggetto: dal romanzo omonimo di Michael Connelly; sceneggiatura: Brian Helgeland; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox; musica: Lennie Niehaus; interpreti: Clint Eastwood (Terry McCaleb), Jeff Daniels (Jasper “Buddy” Noone), Anjelica Huston (Dr. Bonnie Fox), Wanda De Jesús (Graciella Rivers), Tina Lifford (detective Jaye Winston), Paul Rodriguez (detective Ronaldo Arrango), Dylan Walsh (detective John Waller), Mason Lucero (Raymond Torres), Gerry Becker (Mr Toliver), Rick Hoffman (James Lockridge); produzione: Clint Eastwood per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures; produttore esecutivo: Robert Lorenz; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 110’. Il detective Terry McCaleb sta per mettere le mani sul “killer del codice” quando un infarto lo stronca. Riavutosi grazie a un trapianto di cuore, Terry si ritira a vivere su una barca. Un giorno riceve la visita di Graciella Rivers, la quale gli rivela che il cuore che ha in petto è quello della sorella, assassinata. Graciella chiede a Terry di trovare l’assassino. Terry scopre un collegamento con un altro omicidio: l’elemento in comune è che entrambe le vittime hanno lo stesso gruppo sanguigno di Terry. L’assassino è infatti l’amico Buddy, che mirava a far trapiantare a Terry un cuore nuovo per poter ricreare il
rapporto cacciatore/preda che vi era tra loro prima dell’infarto. Su una nave abbandonata, Terry uccide il serial killer. 2003 Mystic River soggetto: dal romanzo omonimo di Dennis Lehane; sceneggiatura: Brian Helgeland; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox; musica: Clint Eastwood; interpreti: Sean Penn (Jimmy Markum), Tim Robbins (Dave Boyle), Kevin Bacon (Sean Devine), Laurence Fishburne (sergente Whitey Powers), Marcia Gay Harden (Celeste Boyle), Laura Linney (Annabeth Markum), Kevin Chapman (Val Savage), Thomas Guiry (Brendan Harris), Emmy Rossum (Katie Markum), Spencer Treat Clark (Silent Ray Harris); produzione: Clint Eastwood, Judie G. Hoyt, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Village Roadshow Pictures, NPV Entertainment; produttore esecutivo: Bruce Berman; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 137’. Jimmy, Dave e Sean sono tre ragazzini che giocano in strada. Un uomo che si presenta come un poliziotto fa salire in auto Dave, lo chiude in una cantina e lo violenta, fino a che il ragazzo fugge. Anni dopo Dave e Jimmy hanno una famiglia, mentre Sean, che fa il poliziotto, è stato da poco lasciato dalla moglie. Un mattino la figlia di Jimmy non si ripresenta a casa. La polizia trova l’auto sporca di sangue e poi il cadavere. Jimmy si convince che ad aver ucciso la figlia sia Dave, e dopo un lungo interrogatorio si fa confessare il delitto e lo uccide. In realtà, Dave ha confessato per sfinimento: i veri assassini, due ragazzini, sono arrestati da Sean, che lo comunica a Jimmy. Jimmy confessa alla moglie di avere ucciso l’uomo sbagliato. 2003 The Blues - Episodio Piano Blues fotografia: Vick Losick; montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach; interpreti: Clint Eastwood, Ray Charles, Dave Brubeck, Dr. John, Marcia Bell, Henry Gray, Jay McShann, Pete Jolly, Pinetop Perkins (se stessi); produzione: Clint Eastwood, Bruce Ricker per Malpaso Productions, Cappa Productions, Jigsaw Productions; produttore esecutivo: Martin Scorsese; origine: Usa; durata: 90’; trasmissione: Pbs. Terzo dei sette film della serie The Blues, prodotta da Martin Scorsese e andata in onda sul canale americano Pbs, Piano Blues vede Eastwood, in prima persona, dialogare e suonare con alcuni grandi pianisti, che accoglie uno dopo l’altro al pianoforte. Ruolo d’onore spetta a Ray Charles, ma vi sono anche Dave Brubeck, Dr. John, Marcia Bell, Henry Gray, Jay McShann, Pete Jolly e Pinetop Perkins. Parlando con loro, Eastwood evoca altri pianisti fondamentali della musica blues, come Fats Domino, Thelonious Monk, Professor Longhair, Count Basie, Nat King Cole, che compaiono in immagini di repertorio. Eastwood cita anche due pellicole precedenti, Honkytonk Man e Any Which Way You Can. L’epilogo del film vede Ray Charles eseguire America the Great. 2004 Million Dollar Baby soggetto: dalla raccolta di racconti Rope Burns di F.X. Toole; sceneggiatura: Paul Haggis; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox; musica: Clint Eastwood; interpreti: Clint Eastwood (Frankie Dunn), Hilary Swank (Maggie Fitzgerald), Morgan Freeman (Eddie Scrap-Iron Dupris), Jay Baruchel (Danger Barch), Mike Colter (Big Willie Little), Lucia Rijker (Billie “The Blue Bear”), Brian O’Byrne (Father Horvak), Anthony Mackie (Shawrelle Berry), Margo Martindale (Earline Fitzgerald), Riki Lindhome (Mardell Fitzgerald); produzione: Clint Eastwood, Paul Haggis, Tom Rosenberg, Albert S. Ruddy
per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Lakeshore Entertainment, Albert S. Ruddy Productions, Epsilon Motion Pictures; produttore esecutivo: Robert Lorenz, Gary Lucchesi; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 132’. Frankie Dunn è un allenatore di boxe che, dopo l’abbandono del suo pupillo Big Willie, decide di preparare Maggie, che con insistenza gli ha chiesto di poter essere seguita da lui. I primi incontri sono vinti dalla ragazza con relativa facilità, e grazie ai guadagni Maggie regala alla famiglia una casa, deludendo la madre che teme di perdere il sussidio. Gli incontri proseguono fino allo scontro per il titolo mondiale, durante il quale una scorrettezza dell’avversaria causa a Maggie una frattura della spina dorsale che la paralizza completamente. Frankie fa di tutto per aiutarla, ma non è possibile un miglioramento. Maggie chiede a Frankie di staccarle il respiratore. Frankie esita, poi alla fine accetta. Non tornerà più alla sua palestra. 2006 Flags of Our Fathers soggetto: dal romanzo omonimo di James Bradley e Ron Powers; sceneggiatura: Paul Haggis, William Broyles Jr.; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox; musica: Clint Eastwood; interpreti: Ryan Phillippe (John “Doc” Bradley), Jesse Bradford (Rene Gagnon), Adam Beach (Ira Hayes), John Benjamin Hickey (Keyes Beech), John Slattery (Bud Gerber), Barry Pepper (Mike Strank), Jamie Bell (Ralph “Iggy” Ignatowski), Paul Walker (Hank Hansen), Robert Patrick (colonnello Chandler Johnson), Neal McDonough (capitano Severance); produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Steven Spielberg per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Amblin Entertainment, DreamWorks SKG; distribuzione: Paramount Pictures; origine: Usa; durata: 132’. John “Doc” Bradley, Rene Gagnon e Ira Hayes sono in tour per gli Stati Uniti: il pubblico li conosce come i tre soldati che hanno sollevato la bandiera americana sulla cima del monte Suribachi. In realtà, le bandiere issate a Iwo Jima sono due: la prima, poi chiesta da un generale, e una seconda, issata dai tre ragazzi con Mike Strank, Franklin Sousley e Harlon Block, poi uccisi in battaglia. Il tour è finalizzato soprattutto a incoraggiare il pubblico ad acquistare i buoni di guerra, come lo stesso ministro del Tesoro spiega a Gagnon. Dopo la notorietà ricevuta grazie alla foto, i tre soldati ripiombano nell’anonimato. Il primo ha un’agenzia di pompe funebri, il secondo fa il custode, il terzo diventa un bracciante e finisce anche in prigione. 2006 Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima) soggetto: Iris Yamashita, Paul Haggis, dai libri Gyokusai Soshikikan no Etegami di Tadamichi Kuribayashi e Tsuyoko Yoshido e Chipuzo Kaneshiki di Kumiko Kakehashi; sceneggiatura: Iris Yamashita; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach; musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens; interpreti: Ken Watanabe (generale Kuribayashi), Kazunari Ninomiya (Saigo), Tsuyoshi Ihara (barone Nishi), Ryo Kase (Shimizu), Shidou Nakamura (tenente Ito), Hiroshi Watanabe (tenente Fujita), Takumi Bando (capitano Tanida), Yuki Matsuzaki (Nozaki), Takashi Yamaguchi (Kashiwara), Eijiro Ozaki (tenente Okubo); produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Steven Spielberg per Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures, Amblin Entertainment, DreamWorks SKG; distribuzione: Paramount Pictures; origine: Usa; durata: 141’. 1944. A Iwo Jima il morale dei soldati giapponesi è molto basso. Il generale Kuribayashi, che assume il comando dell’isola in vista dell’imminente sbarco americano, decide di rinunciare allo scavo di trincee sulla spiaggia in favore di una serie di tunnel. Un attacco
aereo miete le prime vittime. Quando gli americani finalmente sbarcano, una parte dell’isola è subito conquistata. I soldati superstiti si suicidano, tranne Saigo e Shimizu, che cercano invece di raggiungere i compagni che ancora tengono l’altra parte dell’isola. Shimizu viene però ucciso a sangue freddo, Saigo raggiunge il generale Kuribayashi poco prima che questi si uccida. Attacca con una vanga gli americani che arrivano sul posto e viene tramortito con una botta in testa. 2008 The Changeling (Changeling) soggetto e sceneggiatura: J. Michael Straczynski; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach; musica: Clint Eastwood; interpreti: Angelina Jolie (Christine Collins), John Malkovich (reverendo Gustav Briegleb), Jeffrey Donovan (capitano J.J. Jones), Michael Kelly (detective Lester Ybarra), Colm Feore (commissario James E. Davis), Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Amy Ryan (Carol Dexter), Geoff Pierson (S.S. Hahn), Denis O’Hare (Dr. Jonathan Steele), Frank Wood (Ben Harris); produzione: Clint Eastwood, Brian Grazer, Ron Howard, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Imagine Entertainment, Relativity Media; produttori esecutivi: Geyer Kosinski, Tim Moore, Jim Whitaker; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa; durata: 140’. Los Angeles, 1928. Christine Collins è una giovane madre che lavora per una compagnia telefonica. Un giorno, tornata a casa, non trova più il figlio di nove anni. In seguito ad alcune indagini il piccolo viene ricondotto alla madre ma Christine si accorge subito che non è suo figlio. La donna esige che la polizia non interrompa le ricerche, ma le autorità la fanno internare. Suo unico alleato, il potente pastore presbiteriano Gustav Briegleb, che riesce a farla liberare dal manicomio. Contemporaneamente, un’indagine parallela porta alla luce una serie di omicidi di bambini da parte dello psicopatico Gordon Northcott. Il figlio di Christine è molto probabilmente una delle vittime, ma Christine continua a sperare di poterlo riavere con sé. 2008 Gran Torino soggetto: Nick Schenk, Dave Johannson; sceneggiatura: Nick Schenk; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach; musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens; interpreti: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Christopher Carley (padre Janovich), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor), Brian Haley (Mitch Kowalski), Geraldine Hughes (Karen Kowalski), Dreama Walker (Ashley Kowalski), Brian Howe (Steve Kowalski), John Carroll Lynch (Barber Martin), William Hill (Tim Kennedy); produzione: Clint Eastwood, Bill Gerber, Robert Lorenz per Malpaso Productions, Double Nickel Entertainment, Gerber Pictures, Media Magik Entertainment, Village Roadshow Pictures, Warner Bros.; produttori esecutivi: Jenette Kahn, Tim Moore, Adam Richman; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Usa; durata: 116’. Walt Kowalski, reduce della guerra di Corea ed ex operaio della Ford, è un burbero pensionato intollerante il cui vicinato è composto prevalentemente da immigrati, tra cui una forte maggioranza di coreani, che egli odia in modo particolare. Unica passione di Walt è la Ford Gran Torino del ’72, custodita impeccabilmente nel garage. Una notte il figlio dei suoi vicini tenta di rubare l’auto e viene sorpreso. Il giovane è obbligato dalla famiglia ad aiutare Walt nei lavori di casa. Grazie alla vicinanza con il ragazzo Kowalski comincerà ad abbandonare i propri pregiudizi razziali. Intanto una lotta tra gang ispaniche e coreane si consuma nel quartiere, e Walt ne finirà vittima. Nel suo testamento, l’automobile è lasciata in eredità al giovane coreano.
INTERPRETAZIONI
Revenge of the Creature (La vendetta del mostro, Usa 1955), Jack Arnold. Francis in the Navy (Usa 1955), Arthur Lubin. Lady Godiva of Coventry (Lady Godiva, Usa 1955), Arthur Lubin. Tarantula (Tarantola, Usa 1955), Jack Arnold. Never Say Goodbye (Come prima, meglio di prima, Usa 1956), Jerry Hopper. Highway Patrol (Usa 1956), episodio Motorcycle A., Lambert Hillyer. Star in the Dust (Esecuzione al tramonto, Usa 1956), Charles F. Haas. Away All Boats (Scialuppe a mare, Usa 1956), Joseph Pevney. The First Traveling Saleslady (Vita di una commessa viaggiatrice, Usa 1956), Arthur Lubin. Death Valley Days (Usa 1956), episodio The Last Letter, Stuart E. McGowan. West Point (Usa 1957), episodio White Fury. Escapade in Japan (Due gentiluomini attraverso il Giappone, Usa 1957), Arthur Lubin. Navy Log (Usa 1958), episodio The Lonely Watch, Samuel Gallu. Lafayette Escadrille (La squadriglia Lafayette, Usa 1958), William A. Wellman. Ambush at Cimarron Pass (L’urlo di guerra degli apaches, Usa 1958), Jodie Copelan. Maverick (Usa 1959), episodio Duel at Sundown, Arthur Lubin. Rawhide (Usa 1959-1965), 217 episodi, Thomas Carr, Ted Post, Christian Nyby, Harmon Jones, Jesse Hibbs, Jus Addiss, Don McDougall, R.G. Springsteen, George Templeton, Andrew V. McLaglen, Stuart Heisler, Joseph Kane, Sobey Martin, Charles Marquis Warren, Michael O’Herlihy, Jack Arnold, Anton Leader, Harry Harris, Richard Whorf, Robert L. Friend, Tay Garnett, Bernard L. Kowalski, Vincent McEveety, George Sherman, Gerd Oswald, Gene Fowler Jr., Murray Golden, Herschel Daugherty, Philip Leacock, Bernard McEveety, Sutton Roley. Per un pugno di dollari (Italia 1964), Sergio Leone. Per qualche dollaro in più (Italia 1965), Sergio Leone. Il buono, il brutto, il cattivo (Italia 1966), Sergio Leone. Una sera come le altre (Italia 1967), episodio del film Le streghe, Vittorio De Sica. Hang ’Em High (Impiccalo più in alto, Usa 1968), Ted Post. Coogan’s Bluff (L’uomo dalla cravatta di cuoio, Usa 1968), Don Siegel. Where Eagles Dare (Dove osano le aquile, Usa 1968), Brian G. Hutton. Paint Your Wagon (La ballata della città senza nome, Usa 1969), Joshua Logan. Kelly’s Heroes (I guerrieri, Usa 1970), Brian G. Hutton. Two Mules for Sister Sara (Gli avvoltoi hanno fame, Usa 1970), Don Siegel. The Beguiled (La notte brava del soldato Jonathan, Usa 1971), Don Siegel. Play Misty for Me (Brivido nella notte, Usa 1971), Clint Eastwood. Dirty Harry (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, Usa 1971), Don Siegel. Joe Kidd (Usa 1972), John Sturges. High Plains Drifter (Lo straniero senza nome, Usa 1973), Clint Eastwood. Magnum Force (Una “44 Magnum” per l’ispettore Callaghan, Usa 1973), Ted Post. Thunderbolt and Lightfoot (Una calibro 20 per lo specialista, Usa 1974), Michael Cimino. The Eiger Sanction (Assassinio sull’Eiger, Usa 1975), Clint Eastwood. The Outlaw Josey Wales (Il texano dagli occhi di ghiaccio, Usa 1976), Clint Eastwood. The Enforcer (Cielo di piombo, ispettore Callaghan, Usa 1976), James Fargo. The Gauntlet (L’uomo nel mirino, Usa 1977), Clint Eastwood. Every Which Way But Loose (Filo da torcere, Usa 1978), James Fargo.
Escape from Alcatraz (Fuga da Alcatraz, Usa 1979), Don Siegel. Bronco Billy (Usa 1980), Clint Eastwood. Any Which Way You Can (Fai come ti pare, Usa 1980), Buddy Van Horn. Firefox (Firefox - Volpe di fuoco, Usa 1982), Clint Eastwood. Honkytonk Man (Usa 1982), Clint Eastwood. Sudden Impact (Coraggio… fatti ammazzare, Usa 1983), Clint Eastwood. Tightrope (Corda tesa, Usa 1984), Richard Tuggle. City Heat (Per piacere… non salvarmi più la vita, Usa 1984), Richard Benjamin. Pale Rider (Il cavaliere pallido, Usa 1985), Clint Eastwood. Heartbreak Ridge (Gunny, Usa 1986), Clint Eastwood. The Dead Pool (Scommessa con la morte, Usa 1988), Buddy Van Horn. Pink Cadillac (Usa 1989), Buddy Van Horn. White Hunter, Black Heart (Cacciatore bianco, cuore nero, Usa 1990), Clint Eastwood. The Rookie (La recluta, Usa 1990), Clint Eastwood. Unforgiven (Gli spietati, Usa 1992), Clint Eastwood. In the Line of Fire (Nel centro del mirino, Usa 1993), Wolfgang Petersen. A Perfect World (Un mondo perfetto, Usa 1993), Clint Eastwood. The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County, Usa 1995), Clint Eastwood. Les cent et une nuits de Simon Cinéma (Le cento e una notte [di Simon Cinéma], Francia-Gran Bretagna 1995), Agnès Varda. Casper (Usa 1995), Brad Silberling. Eastwood After Hours: Live at Carnegie Hall (Usa 1997), Bruce Ricker. Absolute Power (Potere assoluto, Usa 1997), Clint Eastwood. Monterey Jazz Festival: 40 Legendary Years (Usa 1998), William Harper. True Crime (Fino a prova contraria, Usa 1999), Clint Eastwood. Space Cowboys (Usa 2000), Clint Eastwood. Blood Work (Debito di sangue, Usa 2002), Clint Eastwood. The Blues (Usa 2003), episodio Piano Blues, Clint Eastwood. Million Dollar Baby (Usa 2004), Clint Eastwood. Budd Boetticher: A Man Can Do That (Usa 2005), Bruce Ricker. Budd Boetticher: An American Original (Usa 2005), Bruce Ricker. Tony Bennett: The Music Never Ends (Usa 2007), Bruce Ricker. Gran Torino (Usa 2008), Clint Eastwood.
Bibliografia a cura di Matteo Pollone MONOGRAFIE
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