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Italian Pages 288 [219] Year 2019
Il libro
E
ttore Scola: un nome che non ha certo bisogno di presentazioni. Film come C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare, La terrazza, La
famiglia, Che strano chiamarsi Federico – e l’elenco potrebbe continuare a lungo – non si sono limitati a emozionarci, hanno segnato il nostro immaginario e contribuito a creare un’identità culturale condivisa. Ma quanto sappiamo davvero del loro regista, che in tanti considerano uno dei più grandi del Novecento, non solo italiano? Questo libro ce ne offre un ritratto inedito e intimo, caldo e sincero, tratteggiato da due delle persone che l’hanno conosciuto meglio: le figlie Paola e Silvia. Un racconto fatto di lavoro e vita privata, aneddoti curiosi, consigli da non seguire, risate, amici celebri, battute, lampi di genio, episodi toccanti, momenti pubblici e istanti di dolce confidenzialità. Il tutto reso più vivido da un vero e proprio «lessico familiare», per dirla con Natalia Ginzburg, fatto di espressioni legate alle vicissitudini quotidiane quanto al mondo del grande schermo. Ecco allora che, posto di fronte a domande assurde, Ettore era solito ribattere: «Ragioniere, io neanche le rispondo!», come Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi?. Fedeli allo spirito attento, ironico e curioso del padre – che amava ripetere: «Nella vita bisogna sorvegliare altri punti di vista», e cercava il comico anche nelle situazioni più cupe – Silvia e Paola Scola ci invitano a immergerci in un mare di ricordi, citazioni e avvenimenti che gettano una luce inaspettata su una vita ricchissima e una carriera da gigante. Così, guidandoci con tenerezza e delicatezza, ci permettono di osservare da una posizione privilegiata il regno di un grande uomo, che ha cambiato la storia del cinema e della nostra cultura.
Gli autori Paola Scola, nata a Roma nel 1957, è stata segretaria di edizione, assistente di studio, aiuto regista, casting e sceneggiatrice per il cinema e la televisione. Vive e lavora a Roma. Silvia Scola, nata a Roma nel 1962, sceneggiatrice, autrice radiofonica e teatrale, tra gli altri, ha scritto con suo padre Che ora è, La cena, Concorrenza sleale.
Paola Scola, Silvia Scola
CHIAMIAMO IL BABBO Ettore Scola. Una storia di famiglia Prefazione di Daniel Pennac
Prefazione di Daniel Pennac
Non vedo l’ora di leggere questo libro. Paola e Silvia Scola mi presenteranno il padre Ettore, l’amico che ho a malapena conosciuto. Il migliore amico che ho rischiato addirittura di non incontrare mai. Ho la testa piena delle sue immagini, la mia risata fa spesso eco alla sua risata, le mie indignazioni sono cugine delle sue indignazioni, e tuttavia non lo conoscevo. Durante tutta la mia vita si è seduto a tavola tra i miei genitori e me, i miei fratelli e me, mia moglie e me, mia figlia e me, i miei amici e me, i miei allievi e me, la mia epoca e me, compagno invisibile e argomento ricorrente delle nostre conversazioni. «Sembrava di essere nella Terrazza di Scola» mi diceva ieri la mia amica Isabelle parlandomi di uno pseudodibattito dove alcune teste pensanti si sfidavano senza credere a quello che dicevano. È questa la maniera con cui Ettore annuncia sempre la sua presenza fra di noi: con un lampo di lucidità. Un giorno, a Belleville, Minne (mia moglie) e io passeggiavamo senza pensare a niente di particolare quando all’improvviso, scorgendo per strada una bambina cresciuta troppo in fretta e come suo malgrado, Minne mi disse: «Guarda: gli stivali di gomma di Scola». E subito rivedo la deliziosa ragazzina di Brutti, sporchi e cattivi che si occupa dei piccoli per tutto il film e alla fine si ritrova innocentemente incinta. Sì, i suoi stivali gialli sulle gambe magre… O questa lettera di Alice, mia figlia, a proposito di Una giornata particolare: «Rivedo spesso quel gesto unico della mano con cui Sophia Loren riordina il tavolo della cucina subito dopo che tutta la famiglia è uscita per andare all’adunata fascista. Rimasta sola in casa, raccoglie le tazze, si
versa il caffè avanzato e lo beve. Fuori, si sente la radio che sbraita: voce roboante del giornalista fascista, dei canti fascisti, delle urla della folla, con la pessima qualità degli altoparlanti che rende la radio ancora più aggressiva. Lo spazio intimo è violato dallo spazio pubblico, la quotidianità è satura, ma nell’appartamento vuoto Sophia Loren passa da una stanza all’altra, liscia con la mano il lenzuolo del figlio. Già solo l’inizio del film, insomma, è un puro capolavoro. L’incontro con il personaggio di Mastroianni sarà la vittoria dell’intimità sulla Storia e sul terrore…». Per parte sua, il mio amico Philippe Videlier, romanziere, mi scrive in una lettera di sentirsi spesso come il Nicola di Scola, quello che, nel gioco radiofonico di C’eravamo tanto amati, alla domanda del perché il bambino di Ladri di biciclette pianga, dà la risposta giusta (Vittorio de Sica gli aveva messo in tasca dei mozziconi di sigaretta), risposta che il conduttore fingeva di ritenere sbagliata… Ripenso spesso a quella scena, aggiunge Philippe, perché è proprio così che concepisco la mia scrittura: parlare del mozzicone più che dello schiaffo. E conclude: a interpretare la parte di Nicola era Stefano Satta Flores. O questa conversazione, poco fa, con Tonino che mi chiede cosa sto scrivendo. «La prefazione a un libro su Scola.» «Ah! Che bel film sull’amicizia Che strano chiamarsi Federico! Scola doveva essere un amico fedele.» «E la quantità di film che ha fatto! La varietà! La ricchezza, la generosità della sua immaginazione!» «E la sua acutezza! Dopo Che ora è ho definitivamente lasciato in pace il mio vecchio padre. Ci voleva uno Scola per farmi capire che un padre e un figlio non sono mai alla stessa ora.» Era una conversazione a ruota libera. Parlavamo dell’amico Scola.
Avevo nove anni quando Ettore Scola fece il suo primo film e sessantanove quando girò l’ultimo. Questo la dice lunga su quanto è stato presente durante tutta la mia vita! Devo a lui anche la risata più scema della mia vita, provocata da un film che non è uno dei suoi più famosi: Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? In questo film assolutamente bislacco un imprenditore (Sordi, credo), che comincia a perdere la memoria, chiede al suo autista di venire a prenderlo con la… con la… e non trova la parola. Con la… con la… con la. Allora l’autista gli viene in aiuto. «Con la macchina!» «Esatto, con la macchina!» Quel giorno ho rischiato di morire dal ridere. Doveva proprio volerci bene, Ettore, per offrirci una battuta così meravigliosamente idiota! E poi ci siamo incontrati. Finalmente. Un anno prima della sua morte. Il 7 novembre 2015. In Calabria. Ad Acri. Ricevevamo ciascuno un premio per l’insieme dell’opera. L’insieme dell’opera. Sono premi sempre un po’ inquietanti, questi. Discorsi funebri che ti tocca ascoltare da vivo. C’era molta gente. Avremmo preferito che tutte quelle persone si fossero radunate il giorno della nostra nascita, per celebrare festosamente la carriera che ci aspettava, ma queste sono cose che non succedono mai. (Mancanza di lungimiranza?) Insomma, eravamo lì tutti e due in attesa di ricevere le congratulazioni per essere esistiti.
Mi chiamarono sul palco per primo. Cominciai con una premessa: «Prima di tutto, lasciate che mi rivolga a qualcuno che è presente qui in sala. Dov’è, signor Scola?». Ettore (sapevo benissimo, è ovvio, dove si trovava) alzò un dito falsamente timido. «Bene, signor Scola» gli dissi, «non ho alcuna intenzione di ringraziarla. Dei capolavori che ha girato, Ci eravamo tanto amati è il mio preferito, Una giornata particolare è il preferito di mia figlia e La terrazza è il preferito di quell’intellettuale di sua madre.» Una pausa. «In altre parole» continuai, «per colpa sua un’onesta famiglia francese si accapiglia furiosamente per decidere qual è il miglior film di Ettore Scola. È soddisfatto?» Quando toccò a lui, Ettore salì sul palco e puntò verso di me un dito vendicatore. «Anch’io, prima dei ringraziamenti d’uso, ho qualcosa da dire a quel signore.» E in un francese impeccabile: «Signor Pennac, avrei potuto avere una vita tranquilla, se solo lei si fosse astenuto dallo scrivere. E invece ogni giorno, da quando ha cominciato a scrivere, per colpa sua sono perseguitato dalle mie figlie che mi minacciano delle peggiori torture se non leggo i suoi libri. Si aspetta forse che la ringrazi, per aver fatto della mia vita un inferno?». Dopo la premiazione c’era un rinfresco. Ettore e io sgattaiolammo fuori per prendere una boccata d’aria. Era ormai buio, e restammo un po’ a chiacchierare. Ero pieno di domande, ovviamente. Lui rispondeva, tranquillo. Mi parlò di Fellini, e anche di quella prefazione filmata che Pasolini gli aveva promesso per l’uscita di Brutti, sporchi e cattivi. Mi parlava di amicizia, insomma.
E poi, a un tratto: «Tutti questi premi…» mi disse. «Lo sai cosa ne faccio?» Non lo sapevo. «Li metto sul terrazzo e li guardo ossidarsi con il tempo.»
Chiamiamo il babbo
Vicino alle valigie
C’è un ordine segreto. I libri non puoi metterli a caso sugli scaffali. L’altro giorno ho riposto Cervantes accanto a Tolstoj e ho pensato: se vicino ad Anna Karenina c’è Don Chisciotte, di sicuro lui farà di tutto per salvarla. ETTORE SCOLA
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La passione di nostro padre per la letteratura nasce da una costrizione: aveva sette o otto anni quando suo nonno, diventato cieco per il diabete, lo obbligava a leggergli ad alta voce i libri che amava e che ormai non poteva più leggere da solo. Papà passava le estati nella grande casa di famiglia a Trevico, e il nonno Pietro, che era stato il notaio del paese, aveva una grande biblioteca piena di libri di ogni sorta: dai testi giuridici ai capolavori della letteratura francese, alla narrativa popolare, ma soprattutto tomi e tomi su quella che era la sua vera passione: la vita di Napoleone. Ogni pomeriggio, sequestrato dal nonno nel suo studio, Ettorino si rassegnava a leggere per lui: ore e ore di letture di cui pensava di non capire nulla ma che invece lo stavano segnando per sempre. Da quando noi abbiamo memoria infatti, i libri hanno dilagato in casa nostra moltiplicandosi all’infinito e accumulandosi in pile traballanti in ogni angolo. Questo fino a che papà fece costruire una monumentale libreria di ciliegio su misura nel suo studio. Finalmente ogni libro aveva il suo posto; ma quale, lo sapeva solo lui. «Chissà papà dove metterebbe questo nostro libro su di lui.» «Vicino alle valigie?» «Me sa.»
«Vicino alle valigie» è un modo di dire che viene dalla gag di un film in cui Totò, stipato in un vagone letto insieme all’onorevole Trombetta, si offre servizievole di sistemargli le numerose valigie: via via che l’onorevole gliele passa dal corridoio, lui, non visto, le butta fuori dal finestrino. Più tardi l’onorevole si toglie anche le scarpe per andare a letto, e Totò lancia anche quelle fuori dal treno in corsa. Quando l’onorevole poi gli domanda dove abbia sistemato le sue scarpe, Totò risponde serafico: «Vicino alle valigie». Così, «vicino alle valigie» è rimasto nel nostro lessico familiare perché papà lo tirava fuori ogni volta che c’era qualcosa che reputava da buttare. «Quindi abbiamo già deciso che questo nostro libro su papà è da buttare?» «Boh. Poi vediamo. Flaiano diceva che è meglio perdere un amico che rinunciare a una battuta.» «E che c’entra?» «Le battute c’entrano sempre.»
Le battute dei film di Totò, di Sordi, di Aldo Fabrizi e di tutti i grandi comici dal dopoguerra in poi, fanno parte del nostro imprinting perché papà ne faceva largo uso e per ogni occasione c’era la citazione (e la risata) giusta. In casa le occasioni per ridere non mancavano mai, sia per l’indole di papà, sia per la sua formazione di umorista al «Marc’Aurelio», il settimanale satirico dove a sedici anni, ancora liceale, cominciò la sua carriera di battutista e disegnatore. Ma accanto al suo lato solare c’era anche quello lunare, fatto di grande serietà intellettuale e di un rigore morale esagerato che lo rendevano esigente e intransigente. Nel lavoro era un perfezionista, meticoloso, maniacale (poteva passare una nottata intera sulla scelta di un aggettivo) stacanovista e negriero: pretendeva sempre il massimo da sé e quindi anche dai suoi collaboratori. Ne sappiamo qualcosa noi che oltre ad
averlo avuto come padre ce lo siamo goduto anche come superiore, una come aiuto-regista e l’altra come cosceneggiatrice. In pubblico poi le cose precipitavano del tutto: era a disagio sotto i riflettori e pativa enormemente la ribalta, così per mascherare l’imbarazzo mostrava solo i suoi lati peggiori (soprattutto nelle interviste), risultando arrogante, superbo e molto antipatico. Ma per fortuna non concedeva molte interviste. Anche quando era ironico o faceva lo spiritoso, comunque il suo intento non era quello di svicolare o di buttarla in caciara ma al contrario, poiché era anche un gran provocatore, era quello di mettere il dito nella piaga e possibilmente tirare una frecciatina a segno. Sì, perché un’altra sua caratteristica fondamentale, soprattutto nelle discussioni, era lo spirito di contraddizione: veniva come posseduto da un impulso irrefrenabile a contraddire, a sostenere cose che neppure pensava e a scalare iperboli e paradossi pur di non dare ragione all’interlocutore. Guai. Poi era anche testardo, narcisista, vanitoso, seduttore… Basta. Questa descrizione del suo carattere rischia di essere infinita e anche un po’ contraddittoria. A questo punto ci siamo guardate e, cosa che ci capita spesso, abbiamo detto all’unisono: «Chiamiamo il babbo».
Altro frammento di lessico familiare, ancora da Totò che, andato dal dentista con un ascesso dolorosissimo, trova invece del suo vecchio medico di fiducia, il di lui figlio fresco di laurea. Il ragazzo, palesemente incapace, annaspa, e Totò, dolorante e terrorizzato, bofonchia a tratti: «Chiamiamo il babbo!… Chiamiamo il babbo!». Citazione che papà ogni volta che qualcuno si apprestava a fare qualcosa senza esserne all’altezza, faceva scattare puntuale: «Be’, chiamiamo il babbo».
E oggi ce lo siamo dette da sole. «Va be’, non ciurliamo nel manico, come direbbe tuo padre. Dai, cominciamo.» «Tuo padre. Comincia tu.» «No, comincia tu che sei più vecchia.» «Non perdi occasione per sottolinearlo, eh… Che simpatica!» «Modestamente.» «Ok, comincio io.»
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Edipo e altri miti (Paola) Partiamo da un assunto: non sono e non sarò mai obiettiva parlando di mio padre; nonostante i miei sessantadue anni il mio Edipo è ancora arzillo, e chi si appresta a sentire il mio racconto di lui sappia che è parziale e fazioso. Ridendo e scherzando è il documentario che Silvia e io abbiamo fatto su di lui, costrette da mamma. Da anni papà era subissato da richieste che arrivavano da tutto il mondo per l’avallo di un documentario su di lui. Le declinava tutte, non gli piaceva parlare di sé, non gli piaceva essere al centro dell’attenzione; amava il suo lavoro e quello doveva bastare: le sue idee, i suoi pensieri erano lì, nei suoi film. Per lui la questione era chiusa. Ma non era affatto chiusa e le richieste continuavano ad arrivare, specie una dal Giappone, di uno studente particolarmente accanito. Un giorno mamma ebbe l’idea: «Ci vogliono Paola e Silvia! Perché mai uno studente di Tokyo dovrebbe saperti raccontare meglio delle tue figlie?» (da allora lo «studente di Tokyo» è diventato la nostra «casalinga di Voghera», una figura retorica che sta a rappresentare chiunque conosca papà solo attraverso la sua opera). Mamma insisteva: «Tanto prima o poi qualcuno lo farà questo documentario, con o senza la tua approvazione». Successe che nel luglio del 2012 una galleria d’arte di Parigi allestiva una mostra di disegni di papà. Silvia e io fummo convocate sul lettone della loro camera d’albergo che affacciava sui giardini di Champ-de-Mars, e da lui informate: «Dice mamma che dovete fare un documentario su di me». Come al solito risate, cazzeggio, forse un brindisi in mutande
con la Torre Eiffel di sfondo… E ridendo e scherzando, nacque Ridendo e scherzando. Ha avuto tre anni di gestazione; Silvia e io lo abbiamo scritto e riscritto, e poi, dopo aver trovato i materiali d’archivio, lo abbiamo riscritto ancora. L’idea era quella di usare le interviste che Scola ha rilasciato durante tutta la vita, per rispondere alle nostre domande di oggi. La scelta di colui che avrebbe fatto quelle domande era delicata: ci voleva qualcuno che non solo tenesse testa a papà ma che fosse in grado di sfotterlo, aizzarlo e farlo reagire alle nostre provocazioni. Abbiamo pensato a Pif perché ci piaceva l’ironia dissacratoria e graffiante delle interviste per le quali era diventato famoso, che si sarebbe sposata perfettamente con il copione che avevamo scritto. Lui ha accettato entusiasticamente, ma a una condizione: non incontrare Scola prima delle riprese. Non lo conosceva personalmente e voleva che l’impatto fosse vero e spontaneo. Ci sembrò una bella idea, fummo tutti d’accordo e così facemmo: Scola e Pif si incontrarono solo sul set, nel Cinemetto dei Piccoli di Villa Borghese, al momento di girare. Solo che ci fu un imprevisto: Pif al cospetto di Scola non era più la «iena» irriverente che conoscevamo ma un ammiratore emozionato e in soggezione che non riusciva a seguire la chiave dello sfottò che gli avevamo tracciato: la presa in giro, quindi, era fuori discussione. Non da parte di papà, però, che molto divertito – e ben disposto verso quel giovanotto ironico e coraggioso del quale aveva molto apprezzato La mafia uccide solo d’estate – aveva colto la palla al balzo cominciando da subito a sfotterlo lui: le parti si erano invertite. Con un Pif improvvisamente inoffensivo, Silvia e io ci siamo trovate a dover cambiare rotta al volo, dopo un momento di panico abbiamo trovato la chiave giusta e forse il
risultato è stato migliore di quello che avevamo immaginato in partenza. Anche papà alla fine ci è sembrato soddisfatto, lo abbiamo dedotto da due indizi: non ci ha massacrato di obiezioni (come è nel suo stile di pignolo patologico) e alla domanda di un giornalista che all’uscita della proiezione gli ha chiesto: «Scola, le è piaciuto il ritratto che le sue figlie hanno fatto di lei?», lui ha risposto: «Be’, diciamo che non ho trovato gli estremi per querelarle». Allegoria che ovviamente è entrata subito nel lessico familiare quotidiano, anche se tardivamente. Così nella stesura di questo libro è stata la nostra preoccupazione principale: scrivere di lui facendo in modo che non trovasse gli estremi per querelarci. Operazione non facilissima dato che aborriva le celebrazioni, la retorica, l’esibizione; figurarsi un libro tutto su di lui. Ne abbiamo tenuto conto per quanto possibile anche se, per quel che mi riguarda, come ho detto, è il mio Edipo che parla per me. Dunque «ridendo e scherzando» è il principio per cui passa tutto il cinema di papà: un mezzo con cui si possono dire cose molto serie, si possono raccontare meglio le ingiustizie, le iniquità, le sofferenze delle persone: toni leggeri per trattare temi pesanti. E soprattutto si possono raggiungere molte, molte più persone: la gente preferisce ridere che dilaniarsi. Non bisogna però confondere questo suo vedere sempre il bicchiere mezzo comico con la serietà che metteva in tutto quello che faceva e che non gli impediva anche di essere il più meticoloso dei rompicoglioni, sia durante la scrittura sia nelle riprese, fino all’edizione e all’uscita in sala: non c’era fase della realizzazione del film che non seguisse personalmente, serissimamente, maniacalmente. Mentre cercavamo il materiale di repertorio nelle Teche Rai per Ridendo e scherzando Silvia mi sfotteva perché restavo continuamente imbambolata a guardarmelo e, specie in certi spezzoni degli anni Settanta-Ottanta, mi sembrava bellissimo (prima meno, da giovane era glabro e cicciottello, «un
bell’abbacchio» come direbbero oggi i miei figli). Non che Silvia fosse immune al suo fascino ma il suo amore è meno viscerale e acritico, più adulto forse, anche se lei è «la sorella piccola». La cosa però non si fermava mica qui. Se avesse potuto il mio Edipo avrebbe risalito tutto l’albero genealogico, fino a chissà dove; fortuna che le mie conoscenze dirette degli antenati si sono fermate al papà di papà, nonno Peppino. Il mio secondo primo amore. Fra i suoi (per me) mille fascini di uomo del Sud, nonno presentava anche tutta la gamma di difetti del listino. Era diffidente, scontroso, chiuso, suscettibile, tribale, pigro e timidissimo. Ma anche furbetto: quando voleva sottrarsi a qualcosa che non aveva voglia di fare o a un invito che gli era sgradito, usava una sua formula: «Sarei una nota stonata». In questo modo fingeva di declinare per discrezione, per non disturbare, quando invece voleva evitarsi una rogna. «Sarei una nota stonata» è ovviamente nel nostro lessico familiare, sinonimo di abilità nel cercare di ribaltare a proprio favore una situazione scomoda. Poi era fragile, spaventato, insicuro, si fidava solo della famiglia strettissima e quando suonavano alla porta si metteva sul chi vive, perché «chi viene in casa viene per rubare». Essere fatto fesso era uno dei suoi peggiori incubi. A Trevico, ma in tutta la Campania e forse in tutto il Sud, è quanto di peggio possa capitare, un’onta sanguinosa, intollerabile. Una mattina, dopo essere stato su un autobus non si ritrovò più il portafogli (allora abitava a Roma ormai da decenni ma la forma mentis era rimasta inalterata): NONNA :
Oh madonna, Peppi’, te l’hanno rubato!
NONNO :
Ma no, l’ho perso.
NONNA :
Macché, te l’hanno rubato sull’autobus.
NONNO :
No, no, l’ho perso.
NONNA :
Noo, te l’hanno rubato.
NONNO :
Insomma, Dina: ti dico che l’ho visto cadere!
Preferiva sostenere un paradosso pur di non ammettere che era stato fatto fesso da un borseggiatore. Un caposaldo del nostro lessico familiare: quando qualcuno, anche di fronte all’evidenza, la nega, parte un coro di «L’ho visto cadere!».
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Casa e bottega (Silvia) Penso proprio che fosse una deformazione professionale: quella regola numero uno dei contratti con i produttori, fare ridere, papà e tutti loro se la portavano anche a casa. Un po’ come la politica: fondante dei loro film (e parlo di Age-Scarpelli-Scola-Maccari-Monicelli) ma presente anche nel privato, prima ancora che nel «pubblico». Ecco perché ci faceva tanto ridere il personaggio del «burlone» di Se permettete parliamo di donne, un cazzone assoluto fuori casa e poi musone e sempre afflitto davanti ai suoi. Noi no, papà in casa era l’opposto di quel personaggio bipolare e il buon umore che circondava il suo lavoro tornava paro paro in casa. Quando eravamo solo noi quattro, per esempio, in privato e al riparo da occhi indiscreti, si divertiva a recitarci il suo pomposo nome per intero, «Ettore Euplio Emidio Scola», fingendo di darsi grandi arie: sia per Ettore, il gentile eroe omerico; sia per Euplio, Santo patrono di Trevico, il paesino in provincia di Avellino dove era nato; sia per Emidio, nientedimeno che «semidio». L’autoironia, che praticava spesso, era finalizzata a farci ridere ma anche evidentemente a tenere a bada il narcisismo: la modestia prima di tutto, e la presa per il culo subito dopo. Papà vedeva il lato buffo dell’esistente dovunque, anche su di sé. I tic, le manie, i difetti, le debolezze o le storture della gente comune, le vedevamo fiorire nei personaggi dei suoi film, nelle sue sceneggiature, nei suoi disegnetti. A volte la sua ironia era graffiante e il suo sarcasmo feroce, eppure il suo amore per la gente e la fiducia nell’uomo e nel suo inalienabile diritto alla felicità, non lo abbandonavano mai. In Il mondo nuovo, suo film «francese» sulla fuga di Luigi XVI durante la
Rivoluzione del 1789, tra i protagonisti a bordo della diligenza che corre sulle tracce della carrozza di Sua Maestà, c’è il giovane costituzionalista Tom Payne, personaggio a cui papà teneva molto, interpretato dall’attore americano Harvey Keitel. Il personaggio era americano e per papà era fondamentale che anche l’attore lo fosse; e Keitel accettò quel ruolo minore con entusiasmo. Nel film, Payne racconta ai suoi compagni di viaggio di aver appena scritto la prima Carta costituzionale americana, e spiega che dopo la Rivoluzione l’articolo 1 non poteva che essere il diritto alla felicità. Di tutti, nessuno escluso. Questo 230 anni fa. In Ridendo e scherzando Scola dice a Pif: «La diversità è già un valore in sé. Che poi i diritti alla felicità siano negati è un altro discorso. Però, bisogna avere l’orgoglio della propria diversità». E non lo diceva per posa da intellettuale, era un sentimento sincero. Le sue origini meridionali e la sua infanzia sotto la guerra lo hanno segnato moltissimo. E anche se al Sud è vissuto poco, il legame con la sua terra è rimasto sempre molto vivo. Penso che nasca proprio da qui la sua attenzione verso gli emarginati, i diversi, le vittime di una società ingiusta, ed è stata sempre quella la sua spinta nel fare tutti i film, anche le commedie. Quando ci apprestavamo a scrivere un film, da un’idea iniziale da sviluppare o da una semplice suggestione, l’obiettivo era sempre quello di raccontare qualcosa che avesse un’importanza etica precisa, un fulcro, una necessità. Durante le riunioni di sceneggiatura, Furio (Scarpelli) ripeteva continuamente: sì, ma il cuore, l’anima del racconto, qual è? Ecco, trovato quello si era già a metà dell’opera. E il cuore, ancora sanguinante, di Una giornata particolare è la negazione del diritto alla dignità e alla felicità di ognuno, fatta di piccole grandi cose. In ogni suo film, sia che si tratti di un omosessuale confinato, di un bombarolo anarchico, di uno storpio su una carrozzella o di una donna brutta o malmaritata, la spinta iniziale è stata sempre la stessa: suggerire allo spettatore il
dovere di sorvegliare che i diritti di ognuno vengano garantiti. Anche da lui medesimo, nella sua quotidianità. Avevo quindici anni quando Una giornata particolare uscì nelle sale, e l’emozione che provai nel vederlo al cinema fu fortissima. Unito al piacere di vedere un film così toccante, sentivo forte anche l’orgoglio di avere un padre, maschio, etero!, che aveva saputo raccontare con tanta grazia l’infelicità di quelle due solitudini; quella femminile e quella omosessuale, durante il nazifascismo, ma pressanti anche nella società di allora, e purtroppo anche di adesso. Ero una figgicciotta militante e un’agguerrita femminista, e l’uscita di quel film nella primavera del 1977 fu un momento di gloria personale che non scorderò mai. Un po’ per amore del paradosso, ma in fondo ne era convinto, papà ripeteva sempre di aver fatto un unico grande film, «grande» nel senso di lungo, e sempre lo stesso. Sia perché al centro c’era sempre l’amore per il suo Paese, sia perché il motore era sempre lo stesso: mostrare lo stato delle cose, criticamente, comicamente, e intanto ridendo e scherzando far sorgere un dubbio, un interrogativo, un quesito nella testa dello spettatore, piuttosto che fornirgli delle risposte preconfezionate. Non amava il cinema militante tout court, con le sue certezze e le sue verità conclamate, e non amava neppure farlo, infatti. Anche con noi figlie, per quanto sia stato un padre molto presente nonostante il suo lavoro, non ci ha mai imposto dall’alto quasi nulla, non ci ha mai dato ricette infallibili, o regole ferree alle quali ubbidire. Anzi, il suo incipit, puntuale prima di darci qualsiasi parere, era: «I consigli sono fatti per non essere seguiti», quindi… E così finiva a risate, ma le sue lezioni erano molto più efficaci proprio perché a decidere saremmo state noi. Ad appoggiarlo poi c’era mamma, che da brava sarda e pure montessoriana, aggiungeva il carico da undici: «A me non fa piacere, ma se pensi che sia una cosa giusta da fare, falla». E giù sensi di colpa e autocoercizioni, che ci facevano invidiare le nostre amiche chiuse a chiave in casa e prese a sganassoni dai loro genitori.
Noi no; noi sempre tutto da sole: mano sul cuore e testa alta. Secondo coscienza. Hasta siempre Comandante! A me, che da bambina ero un tipetto piuttosto nervoso, per usare un eufemismo, papà si divertiva a dire minaccioso: «Se tu hai i nervi, io ne ho uno: ma di bue!». Intendendo la frusta. Mi prendeva in giro per provocarmi e quella minaccia ovviamente riusciva a far ridere tutti, anche me, che magari stavo sfuriando con la testa piena di bisce urlanti. L’ironia improvvisamente ribaltava tutto e da quella nuova distanza qualunque cosa si ridimensionava; cambiando prospettiva ogni situazione, tanto più se esagerata, diventava estremamente ridicola. I nostri amici, che invitavamo a pranzo o a cena, o che pascolavano a tempo perso a via Bertoloni intorno agli anni Settanta, ci chiedevano tutti: «Ma com’è che a casa vostra si ride così tanto?». Boh, noi ci siamo nate… E poi «è sempre meglio a ride che a piagne» come dice la Gioconda, Antonella Attili, nel suo «addio al meretricio» in Che strano chiamarsi Federico. A papà piaceva conoscere i nostri amici e per noi era una manna, sbragati anche in quindici sul letto, con frotte di amici a tutte le ore. Solo i nostri fidanzati erano mal visti e messi simpaticamente in difficoltà. Li soprannominava con i dispregiativi più disparati: «il verme della farina», «l’insipiente», «il mastica-brodo», «lo scrocchia zeppi»… Salvo poi uscirsene mesi dopo con: «Ma quel ragazzo tanto caruccio che fine ha fatto?», laddove forse quella storia d’amore era finita anche per merito suo. Casa nostra era sempre piena di gente, perché anche quando stava sceneggiando e stava mesi chiuso in casa a scrivere, a papà piaceva la confusione. Quell’«imprinting alla caciara» ricevuto da ragazzino nelle redazioni del «Marc’Aurelio» e del «Travaso», settimanali umoristici dove si lavorava tutti in una stanza, sia che ci si
confrontasse su qualcosa, sia che si scrivesse ognuno il proprio pezzo, lo aveva marchiato a vita. Scriveva tranquillo in qualunque condizione e avere di sottofondo voci, brusio e risate lo aiutava a concentrarsi. Diceva che il casino aumentava la sua capacità di astrazione; e anche la sua verve creativa, soprattutto quella comica e quella grafica, se arrivava qualche spunto dall’esterno. I tempi che papà dedicava alla scrittura di un film erano molto più lunghi di quelli delle riprese e dell’edizione, e lo sceneggiatore quindi era a casa per molto più tempo di quanto ne passasse fuori il regista. A casa nostra non è mai esistita la sacralità del lavoro, la porta dello studio invalicabile o l’obbligo di fare silenzio, come vedevamo accadere in altre famiglie; mai, e le interruzioni e i diversivi erano sempre ben accolti da nostro padre. Abitudine travasata dritta dritta nel mio lavoro quando andai ad abitare in una casa molto più piccola di quella paterna, e dove riuscivo a leggere e a scrivere nella stessa stanza con la mia famiglia, i miei figli e i cartoni animati, indisturbata per ore (a patto però che non pronunciassero le parole «mamma» o «Silvia», che bucavano immediatamente la mia bolla e mi riportavano tra loro). Papà ci raccontava spesso di quando entrato al «Marc’Aurelio» negli anni Quaranta che aveva ancora i calzoni corti, il direttore De Bellis diceva di lui che «quel ragazzino in giacca e cravatta» aveva un umorismo molto inglese, per intendere che la sua non era un’ironia graffiante, ma che era buona per tutte le stagioni. Quindi ottima per quel giornale umoristico che aveva avuto il compito di far ridere gli italiani sotto il fascismo. «Ettorino», come lo chiamava Fellini – di undici anni più grande di lui –, vi entrò come battutista, poi redattore e alla fine anche disegnatore tra i quei maestri che poi sarebbero diventati suoi colleghi: Steno, Flaiano, Maccari, De Torres. La prima vignetta che papà portò in redazione, mostrava un vecchietto sorretto da una parte da una donna e dall’altra da un bastone, e un nipotino che urla correndo: «Venite, venite a vedere! Il nonno che muove gli ultimi passi!».
Guardando le vignette, il direttore De Bellis senza fare una piega, diceva serissimo: «Questa mi fa molto ridere». E papà la prima volta pensò che fosse ironico e ci rimase male, e invece era vero che le trovasse divertenti, ma non rideva mai. Ci raccontava spesso delle sedute di redazione con Metz e Marchesi e di quel loro modo rocambolesco di scrivere dieci film comici contemporaneamente. Scrivevano in coppia per Totò, per Macario, per Dapporto, per «il Cavaliere» Tino Scotti, sceneggiando chiusi in una stanza dell’Albergo Moderno, per poter impilare sul grande letto matrimoniale i fogli delle diverse sceneggiature.
Qui in albergo ricevevano anche i collaboratori, tra i quali papà, promosso a loro negro, cioè collaboratore anonimo con il compito di arricchire di gag, situazioni comiche e battute divertenti i loro copioni, senza comparire tra i firmatari della sceneggiatura. Quel ragazzino in giacca e cravatta era considerato molto spiritoso e quindi ammesso alla loro corte (dei miracoli). Un giorno però, Ettorino si permise di criticare una battuta di un copione in cui Totò Sceicco avrebbe dovuto dire: «Ho portato le mie mogli a fare le analisi delle urì», obiettando che mettere
in scena dieci mogli – le Urì – solo per arrivare a quella battuta modesta, gli sembrava che non ne valesse la pena. Al che Vittorio Metz tuonò severo contro il giovane Scola: «Abbiamo bisogno di COMPLICI , non di collaboratori!». E così anche «Ho bisogno di complici, non di collaboratori» è rimasto nel nostro lessico, quando qualcuno rallenta un lavoro, cercando il pelo nell’uovo o facendo l’avvocato del diavolo. L’abitudine alla promiscuità, il condividere spazi, rumori, suoni e odori, oltre che dalle redazioni dei giornali veniva anche dagli anni di guerra, dalla famiglia ammucchiata in poco spazio, dal lettino di papà in corridoio: apri il lettino, chiudi il lettino, in uno starsi addosso continuo. E così casa nostra, enorme e bellissima, era sempre aperta a tutti. Che dire infatti dei giovedì e delle domeniche di Irene, la nostra donna di servizio di Capo Verde, quando nei pomeriggi di riposo arrivavano in via Bertoloni sorelle, amiche, zie, cugine in una processione infinita senza soluzione di continuità? «Pare di stare in un film di Tati», diceva papà ridendo, perché quelle ragazze non finivano mai di passare e scomparire in camera di Irene, due metri per tre, più bagnetto annesso, stipate a mangiare la cachupa, la loro tipica zuppa, sedute una sull’altra. In venti, a volte anche in trenta, dopo mangiato si spostavano nella cucina-tinello per cantare e ballare in circolo intorno al tavolo da pranzo al ritmo delle Terre du Sal: soprattutto le canzoni di un certo Bana, cantante creolo, idolo delle isole di Capo Verde, di cui erano tutte innamorate pazze. «Pilambassera chaccà, pilambassera…» Sorridenti e coloratissime, quando papà si affacciava nel tinello per salutare, le ragazze si fermavano imbarazzate, ma Irene che era molto «napoletana», lo accoglieva subito strillando: «Eh! C’è signor Ettore!! Signor Ettore, ta bom?», e papà rispondeva: «Tabom obrigade e bo?», come ci aveva insegnato lei. Cosa che naturalmente rompeva ogni imbarazzo e invitava lui a fare lo spiritoso, ora con l’una ora con l’altra,
facendole ridere tutte quante. Poi intimando burbero di lasciargli un po’ di cachupa, salutava e se ne tornava a lavorare, con Bana che imperversava in lontananza. «Pilambassera chaccà, pilambassera…» Irene lo chiamava «signor Ettore» («señor Ettere», per la precisione) se gli si rivolgeva direttamente, «dottore» in presenza di altri, e «dottor Scola» quando ne parlava in terza persona al telefono. A papà piaceva molto e insieme si facevano delle gran risate, soprattutto a fine giornata quando Irene doveva rileggere l’elenco delle telefonate prese per lui e regolarmente non decifrava i nomi scritti di suo pugno. Insomma, quei dodici anni di convivenza ce li ricordiamo tutti con grande allegria. Stavamo molto bene insieme, tanto che quando Irene si sposò con un marinaio suo conterraneo, Tomèsh, ad accompagnarla all’altare come una figlia fu proprio il «signor Ettore».
3
Trevico-Torino (Paola) A sedici anni ebbi una crisi esistenziale. Cosmica, totale, ineluttabile. Stavo buttata sul letto a fissare il soffitto, senza riuscire a trovare più un senso alle cose. Lui, nel giorno del suo quarantaduesimo compleanno, il 10 maggio 1973, mi scrisse la seguente letterina.
Non è affatto inutile che tu mi voglia bene. Non è inutile fare felice la gente (specie quando la gente è ponzi) (ponzi minuscolo)
Non è inutile che tu sia come sei, invece di essere in un altro modo che comunque mi piacerebbe meno. Non è inutile pensare di cambiare le cose sbagliate, anche se poi non si riesce (ma non è detto, un po’ si riesce sempre) Non è inutile stare attenti a come si vive, ogni momento. Non è inutile essere allegri e essere tristi (in ogni uomo c’è il sole e c’è la pioggia. Paolino è nella stagione delle piogge?) Non è inutile avere dubbi (la certezza è inutile perché non fa domande e non va avanti) Non è inutile chiedersi se tutto è inutile. Non è inutile che Paola sia proprio tu. L’uomo dello sportello
Due piccole precisazioni: «ponzi» era uno dei tanti modi in cui lo chiamavamo Silvia e io, era una specie di crasi fra «parapaponzi ponzi po» e papo, papone, papocchio; Paolino invece ero io. Amo questa lettera perché è la sintesi esatta del suo pensiero, dei suoi principi, della sua etica di vita e lascia anche trapelare, suo malgrado, tutto il suo ottimismo. Oh, questo lo dico adesso, oggi che, cercando materiale per questo libro, l’ho ritrovata; ma allora, arrogante come solo un’adolescente sa essere, temo di non averla degnata di grande considerazione, continuando la cova della mia depressione. Allora qualche giorno dopo papà venne da me con un registratore e mi chiese se potevo dargli una mano; stava girando C’eravamo tanto amati e non aveva ancora scritto il testo di una canzone che gli serviva di lì a poco. Il maestro Trovajoli gli aveva già da tempo composto la musica ma lui non riusciva a scrivere il testo (sic!). Potevo aiutarlo? Con l’umore che avevo in quel momento (e il carattere che avevo sempre), dissi che non se ne parlava proprio. Lui insistette, mi pregò, disse che non sapeva come fare, che aveva bisogno di me… insomma mi convinse che senza il
mio aiuto era perso. Magnanimamente, accettai. Si trattava di scrivere il testo di una canzone partigiana. Non sapevo da dove cominciare, avevo una paura nera e la certezza di non esserne in grado. Ascoltavo e riascoltavo la musica al registratore e cercavo di adattarci delle parole che avessero un senso, rimanendo però sul sobrio: l’avversione di papà per la retorica e la ridondanza che ci ha infuso con il latte fin dalla culla, mi impediva di entrare nello stato d’animo giusto, di trovare le parole adatte a una canzone partigiana. Non mi ricordo come, ma successe che per caso mangiai un Mon Chéri (quello che da allora è diventato il mio superpotere, come gli spinaci per Braccio di Ferro, per superare la timidezza): sono astemia e il liquore che c’è dentro un cioccolatino è esattamente la dose che mi serve per raggiungere lo stato di ebbrezza necessario per non sentire più remore e paure, per intontire il mio super-Io sadico, direbbe qualcuno. Così, brilla e incosciente, mi ributtai sulla canzone abbandonandomi a un flusso naturale di parole dal sapore retorico-trionfalistico. Questo fu il risultato e la canzone è nel film: Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà. Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan. Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam, parlavamo del futuro, se il destino ci allontana il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà. Mi ricordo che poi venne l’alba e poi qualche cosa di colpo cambiò, il domani era venuto e la notte era passata, c’era il sole alto nel cielo sorto nella libertà.
Papà gongolava sotto i baffi: il vecchio volpone aveva raggiunto il suo scopo che non era tanto quello di avere il testo della canzone, quanto di darmi una scarica di autostima e farmi uscire dalla depressione. Che infatti passò, ritrovai entusiasmo e motivazioni e vivemmo felici e contenti (fino alla prossima crisi, ovvio). Ma questa non è stata la prima volta che ho lavorato per papà. Il mio esordio era stato due anni prima (ne avevo quattordici) con Trevico-Torino, un piccolo film autoprodotto – indipendente, si direbbe oggi – che raccontava la storia di Fortunato, un giovane che emigra pieno di speranze dal suo paesino dell’Irpinia, Trevico appunto, e che va scontrarsi con la feroce realtà della condizione operaia. Si sarebbe trattato di un «documentario drammatizzato», come lo definì papà allora inventando un nuovo genere, che ha preso il nome di docufilm, e cioè una commistione fra racconto cinematografico e documentario. Quella di autoprodurlo non fu una scelta, naturalmente, ma l’unico modo per riuscire a realizzarlo, dato che non trovò nessun produttore disposto a investire nemmeno una lira nell’operazione, che fra le altre cose implicava inevitabilmente inimicarsi l’onnipotente famiglia Agnelli, proprietaria della Fiat. Quindi papà, con un manipolo di amici che formavano una troupe ridottissima e quasi niente soldi racimolati con una colletta, partì alla volta di Torino. Date queste premesse è facile intuire che le difficoltà che il film dovette affrontare non furono solo produttive. Infatti Gianni Agnelli vietò le riprese dentro la Fiat sperando così di mandare a monte il film. Non ci riuscì, Trevico-Torino fu girato lo stesso davanti ai cancelli di Mirafiori, all’entrata e all’uscita degli operai e, al posto delle scene in fabbrica, vennero inseriti dei cartelli come quelli dei film muti, in cui si leggeva: FORTUNATO ALLA CATENA DI MONTAGGIO, FORTUNATO DAVANTI A UNA MACCHINA CHE NON HA MAI VISTO, FORTUNATO HA UN INCIDENTE …
Il film sembrava irrimediabilmente danneggiato, ma paradossalmente la forza di quei cartelli accompagnati dal fragore assordante dei macchinari, è più efficace ed evocativa di quanto forse non sarebbero state le scene stesse. Fortunato fu affiancato da Vicky, una militante di Lotta Continua che faceva lavoro politico davanti alla Fiat e aveva acconsentito a interpretare se stessa nel film, accompagnando il giovane emigrante nella formazione della sua coscienza di classe. Si era agli albori del femminismo e Vicky incarnava tutto quello che avrei voluto essere: intanto era anziana (aveva diciassette anni), aveva una parlantina micidiale da zittire qualunque interlocutore, era incazzosa, intransigente e con le idee molto chiare. Sono passati cinquant’anni e oggi ho per lei la stessa ammirazione di allora. Il mio contributo al film però non fu sul campo a Torino, ma in moviola a Roma, a riprese terminate, perché andavo a scuola e non potevo assentarmi troppo a lungo. Nel ’71 tutto era manuale, a pensarci ora in epoca digitale sembra preistoria, anche il montaggio del film che avveniva tagliando e riattaccando manualmente i pezzi di pellicola fra di loro. Lo si faceva con la pressa Catozzo, un aggeggio munito di taglierino e rotolo di scotch, che permetteva di fare tagli e giunture precisissimi fra i fotogrammi. La lunghezza della pellicola di un film finito era di circa 3000 metri, ma quella che veniva effettivamente girata, coi ciak ripetuti più volte e le inquadrature della stessa scena ripresa da diverse angolazioni e con diversi obiettivi, arrivava anche ai 10.000 metri. Il compito di gestire questi chilometri di pellicola era dell’assistente al montaggio; il poveretto doveva raccapezzarsi in mezzo a milioni di strisce più o meno lunghe di pellicola, che appendeva a delle specie di relle, come panni al sole. Per poter ritrovare gli spezzoni esatti che servivano, bisognava che la pellicola fosse numerata. Lo si faceva a mano, metro per metro. La figura preposta a questo compito era l’aiuto
dell’assistente al montaggio ma, come ho detto, Trevico-Torino disponeva di un numero ridottissimo di collaboratori, e io fui incaricata di questa grande responsabilità: con inchiostro di china bianco e pazienza certosina numerai tutta la pellicola del film, che oltretutto era in 16 millimetri, cioè i fotogrammi erano grandi meno della metà della pellicola normale che è di 35 millimetri. Fu quello il mio debutto nel rutilante mondo del cinema. Papà era nella stanza accanto impegnato in quella fase bellissima e magica che è il montaggio, e che, mi diceva, aveva il potere di stravolgere il significato del film. Non capivo come, e lui me lo spiegò praticamente: tagliò un pezzo di carta in tre parti uguali e le allineò sul tavolo; sul primo foglietto disegnò un bambino che andava a scuola con i libri sotto il braccio e l’aria affranta; sul secondo lo stesso bambino interrogato alla lavagna dalla maestra, e nel terzo il bambino che cammina tutto contento. Mi chiese di dirgli il significato di quella sequenza. Be’, era evidente: il bambino va a scuola ed è preoccupato per l’interrogazione, l’interrogazione va bene, e lui torna a casa contento. «Bene» disse. «Ora cambiamo il montaggio di questo film.» Invertì semplicemente la posizione del primo e del terzo foglietto e mi chiese di dirgli cosa vedevo adesso in quella storiella. Ora nel primo disegno il bambino camminava tutto contento, spensierato (forse non sapeva che sarebbe stato interrogato), nel secondo veniva interrogato, e nel terzo se ne andava a casa con l’aria affranta perché evidentemente l’interrogazione era andata male. «Hai capito il potere del montaggio, adesso?» Tutto quello che papà ci ha insegnato, lo ha fatto così, con semplicità e modestia, senza mai salire in cattedra. La guerra di Agnelli contro Trevico-Torino non si limitò alle riprese ma continuò anche a film finito: attraverso la Montedison e il suo potere personale, riuscì a impedire che fosse distribuito nel circuito commerciale. Solo dopo tre anni di traversie di ogni genere il film riuscì a vedere la luce in qualche sala d’essai: destino esattamente opposto di quello che avrebbe voluto riservargli papà: il cinema politico lo vedono in
pochi, il cinema popolare invece, lo dice la parola stessa, è popolare; è uno strumento molto più potente. Trevico-Torino purtroppo non è diventato popolare, è rimasto un prodotto di nicchia. Ma forse proprio per questo è anche uno dei suoi film al quale papà è più legato; ha dichiarato più volte che: «È come per i figli, che si amano di più quelli più sfortunati». In questa affermazione ho sempre voluto leggere un messaggio per me, in quanto figlia svantaggiata: Silvia era carina da bambina, bellissima da ragazza; io no (tanto che un nostro zio, una volta, parlando mondanamente di noi, ebbe a dire: «Io ho due nipoti, una bella e una intelligente», riuscendo così a offendere due piccioni con una fava. Non è da tutti). Magra consolazione quella di essere ritenuta intelligente, molto più sostanziosa quella di sentire che ero la preferita del mio papà. Anche se in effetti un sondaggio lo avevo già fatto tempo addietro. Avevo cinque anni e papà era venuto a svegliarmi in piena notte per portarmi in un posto: finalmente avrei potuto vedere la sorellina che era appena uscita dalla pancia di mamma. La questione non mi era completamente chiara ma intuivo che da quel momento la mia vita non sarebbe stata più la stessa, che avevo appena perso il monopolio dell’amore di mamma e papà e che era arrivato questo grumo frignante a rubarmi la scena e le attenzioni di tutti. Dopo giorni di malumori e capricci papà mi mise alle strette: «Allora?». Mi calai subito le braghe, mi vergognavo ma gli chiesi apertamente se voleva più bene a me; ricordo perfettamente la sua faccia seccata distendersi e sorridere; mi prese in braccio e mi assicurò che per forza era così perché mi conosceva da più tempo e questo era un fatto che non sarebbe mai potuto cambiare. Ricordo però la delusione calare sulla sua faccia quando alle elementari facevo i compiti di educazione civica e dovevo
studiare l’articolo 3 della Costituzione, quello che sancisce che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Per accertarsi che avessi capito il concetto mi disse: «Al semaforo ci sono un soldato semplice e un generale, passano tutti e due col rosso. Chi è più colpevole, a chi deve fare la multa il vigile?». E io, senza esitazioni: «Al soldato semplice, ovvio». Vidi cascargli la faccia. Se fosse stato Ollio avrebbe guardato in macchina, come quando cercava comprensione dagli spettatori in sala per le idiozie di Stanlio. Sono passati più di cinquant’anni e ancora non posso scordare di averlo deluso con la mia insipienza.
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Trevico-Torino (Silvia) C’è una battuta in La famiglia che dice Gassman alla Sandrelli parlando del figlio Paolino (Ricky Tognazzi): «Ai figli che non danno pensieri si dedicano meno pensieri». Papà era molto legato a Trevico-Torino, e diceva essere il suo film preferito tra quelli che aveva fatto, forse proprio per le traversie produttive che lo avevano accompagnato fin da subito. Un film difficile, senza attori professionisti, che per la prima volta prendeva ispirazione dalle sue radici e dalla sua biografia personale, per raccontare il Sud, non solo del Paese, ma dell’anima: le lacerazioni della società industriale e capitalistica e il dolore per la miseria umana da essa prodotta. Aveva già fatto parecchi film come regista – Riusciranno i nostri eroi…?, Il commissario Pepe, Dramma della gelosia, Permette? Rocco Papaleo, La più bella serata della mia vita – andati anche piuttosto bene al botteghino, eppure non trovò nessun produttore disposto a finanziare quel film, giudicato troppo «politico». Inimicarsi la famiglia Agnelli a quell’epoca non era evidentemente cosa buona e giusta per un industriale, anche se operava nel settore cinematografico. Dopo le lotte dei movimenti degli studenti e degli operai della primavera del ’68 e l’autunno caldo del ’69, papà andò a Torino perché aveva in mente di fare un film su un giovane emigrato dal suo paese, Trevico, assunto dalla Fiat. Grazie a Diego Novelli, caporedattore piemontese de «l’Unità», che conosceva alla perfezione la città e che avrebbe scritto con lui la sceneggiatura, fece una bellissima indagine sulle condizioni degli operai meridionali a Torino, che non erano molto differenti da quelle degli emigrati italiani in Belgio, in Germania o negli Stati Uniti nei decenni precedenti.
Anzi, forse qui la situazione era ancora più grave proprio perché si trattava del loro stesso Paese e per di più negli anni Sessanta-Settanta, cioè in pieno boom economico. Novelli lo portò davanti ai cancelli delle fabbriche di Torino, nei dormitori, nei centri di accoglienza, alla stazione di Porta Nuova, alle Caritas, dove una quantità di immigrati italiani, campani, calabresi, sardi, siciliani, trovavano un pasto, un ricovero, o un posto letto; condizioni basilari di sopravvivenza che la Fiat non offriva ai salariati fuori sede e che quindi erano tutte a carico degli operai stessi. Al suo ritorno papà ci raccontò che le condizioni di quei braccianti, contadini e pastori provenienti da ogni parte del sud d’Italia, per lavorare a cottimo alla catena di montaggio, erano molto peggiori di quello che aveva immaginato. Ci disse che nelle tabaccherie torinesi vendevano dei cartelli prestampati con su scritto: NON SI AFFITTANO CAMERE AI MERIDIONALI . La sua idea di fare un film inchiesta, un docufilm antelitteram, che mescolasse riprese documentaristiche e finzione cinematografica, su una questione tanto scottante e ignorata, si fortificò dopo quei sopralluoghi, e le difficoltà di trovare i finanziamenti necessari non lo fermarono affatto. Anzi. Decise di produrselo da solo, e con pochi soldi chiesti in prestito per un rimborso spese ai suoi fedeli collaboratori – lo scenografo Luciano Ricceri, l’operatore Claudio Cirillo, l’organizzatore Giorgio Scotton, più un capomacchinista e un capo elettricista – nel gennaio 1970 partì per Torino con quella troupe ridottissima per girare il film in 16 millimetri. Grazie a Diego Novelli a Torino conobbe don Luigi Allais, un prete illuminato e impegnato nel sociale, che si adoperava quotidianamente nel sostegno degli immigrati nella sua città, e che fu prezioso nel disegnare il percorso di Fortunato, il giovane protagonista del film, che si trova a vivere una vera odissea nella lotta alla sopravvivenza, e che pur restando in fabbrica e abbassando la testa, arriva a maturare una coscienza di classe che prima non aveva.
Nella sua corsa finale, angosciosa e disperata, la voce fuori campo della lettera che Fortunato scrive ai fratelli trevicani, risuona infatti come un grido di dolore e un monito: Cari Tonino, Salvatore, Nuzzo e Benedetto, lo so che restando a casa farete i pastori e i braccianti a giornata, ma è importante sapere che vi aspetta se venite qua o all’estero. Il lavoro ce lo devono dare dove siamo nati. Dovete dirle queste cose agli altri ragazzi del paese.
Giravano per Torino rubando scene dal vero, con le cineprese nascoste come per le candid camera, e il giovane attore protagonista Paolo Turco, alias Fortunato, si confondeva nella folla e tra gli operai, entrando con loro anche in fabbrica, da dove veniva cacciato poco dopo dai guardiani. Finite le riprese i soldi non bastarono per l’edizione e ci volle il sostegno dell’Unitelefilm, piccola casa di produzione audiovisiva legata al Pci, che garantì i mezzi per il montaggio, il missaggio e la postproduzione del film. E così dopo più di due anni di lavorazione tra i marosi, Trevico-Torino (Viaggio nel Fiat Nam) nel 1973 vide la luce: costato in tutto 35 milioni di lire, e all’avanguardia per la commistione tra realtà e finzione non trovò però mai distribuzione nelle sale. Venne visto e proiettato nelle scuole, nei Festival dell’Unità, nei convegni sul lavoro, nelle sedi sindacali, ma nei cinema uscì solo per pochi giorni al Quirinetta di Roma e poi sparì. Quel film, tanto sfortunato quanto strenuamente voluto da papà, oltre a essergli molto caro, determinò una svolta nella sua vita e nella sua coscienza politica, perché fu proprio lì a Torino, la città di Gramsci e di Gobetti prima che di Agnelli, che papà da semplice simpatizzante ed elettore, decise di iscriversi al Partito comunista italiano, che di lì a poco sarebbe diventato il grande Pci di Enrico Berlinguer, e al quale è rimasto fedele iscritto e militante fino alla fine, alla sua trasformazione in Pds, nel 1989. All’epoca si credeva fortemente che un mondo nuovo fosse ancora possibile; in Italia non avevamo avuto la Rivoluzione
francese, ma papà era convinto che ognuno nel proprio piccolo avrebbe potuto contribuire al cambiamento progressista ed egualitario della nostra società: lui con il suo lavoro di regista e di intellettuale in prima linea, noi ragazzine con l’impegno a scuola, nel Movimento degli studenti e nelle sezioni giovanili del Partito comunista. Mi iscrissi alla Fgci (Federazione giovanile comunista italiana, sezione Vescovio), dove andavo tutti i pomeriggi dopo scuola a discutere sul da farsi, su quali azioni di assistenza svolgere e come smistarci – chi al Don Guanella dai disabili, chi nelle case famiglia, chi dai senza tetto o dove ce n’era bisogno – e dove leggevamo insieme gli scritti filosofici di Marx ed Engels, per noi testi sacri: il Manifesto del Partito comunista e Il capitale. E la domenica mattina all’alba tutti in sezione a prendere i pacchi de «l’Unità» fresca di stampa, per andare a fare diffusione del giornale per le strade della città. «Uno spettro si aggira per l’Europa» e si aggirava ancora tra di noi in Italia nei primi anni Settanta. Poi venne l’austerity, il dilagare di Autonomia operaia nel Movimento, la lotta armata e i primi attentati sanguinari; e con l’avvento degli anni di piombo il nostro sogno collettivo svanì e lo spettro traslocò. I terribili, effimeri e disimpegnati anni Ottanta, dominati nel mondo da Reagan e Thatcher, e coronati in Italia dalla legge Mammì sulle televisioni private sotto il governo di Bettino Craxi, hanno poi fatto il resto; e su questo stendiamo un velo pietoso.
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Ricordi e raccordi (Paola) La mia prima esperienza completa di set è stata a diciannove anni con Una giornata particolare. Facevo l’apprendista segretaria di edizione, un mestiere ingrato, mortalmente noioso e indispensabile, che fa da ponte fra il set e tutti i reparti della troupe: la produzione, i costumi e il trucco, la fotografia, la scenografia, il montaggio fanno tutti riferimento alla segretaria di edizione che registra minuziosamente ogni attività giornaliera relativa alle riprese, tiene conto del consumo della pellicola, annota gli obiettivi e le distanze usati in ogni inquadratura, i movimenti di macchina, i tempi di ripresa per ogni ciak, i costumi e le acconciature di ogni scena, le variazioni di dialogo fra sceneggiatura e battute effettivamente pronunciate dagli attori, ma soprattutto è responsabile dei famigerati raccordi. In un film le scene non vengono girate in ordine cronologico ma raggruppate secondo diverse esigenze: produttive, organizzative, disponibilità degli attori, location e mille altri fattori. Quindi è raro che dopo la scena 1 si giri la scena 2. È più probabile che dopo la 1 si giri la 48, poi la 35, poi la 70, poi la 12… Insomma il tempo del racconto non coincide col tempo delle riprese. Nel caso della Giornata particolare è molto evidente: la storia si svolge tutta nell’arco di una sola giornata, dall’alba al tramonto, ma per girarla ci sono volute una dozzina di settimane. Questo comporta che magari a distanza di giorni, o anche di mesi, si debba riprendere una scena iniziata altrove, ripartendo esattamente da dove ci si era interrotti. E qui entrano in ballo i raccordi e la segretaria di edizione. Nel nostro caso giravamo gli interni delle case di Antonietta e di Gabriele alla De Paolis, che erano dei teatri di posa sulla via Tiburtina; le scale e i cortili dal vero, in un enorme caseggiato popolare a viale XXI Aprile; e i lavatoi
condominiali con la scena dei panni, ancora dal vero ma sulla terrazza dell’ospedale odontoiatrico Eastman di viale Regina Elena. Il piano di lavorazione del film prevedeva che si girassero prima tutte le scene negli ambienti ricostruiti in teatro, in seguito i cortili dal vero con le scene di massa (centinaia di comparse in divisa fascista che la mattina sciamano dai palazzi per riversarsi nel cortile e uscire dal grande cancello sulla strada; e il loro rientro a casa, sfatti, a fine giornata), e per ultima la terrazza condominiale. Capitava oltretutto che ci fosse Natale di mezzo, con relativa interruzione delle riprese di una settimana. Prendiamo l’esempio di una sequenza: Antonietta esce di casa con il catino di zinco del bucato, prende le chiavi della terrazza, sale le scale ed esce a ritirare i panni appesi ad asciugare. L’inizio di questa scena (lei che esce di casa) lo abbiamo girato a novembre in teatro e il seguito (lei che arriva ai lavatoi) a gennaio inoltrato, sulla terrazza di viale Regina Elena. La segretaria di edizione si trova a dover rispondere ad alcune cosucce, tipo: sotto quale braccio Antonietta aveva il catino mentre usciva di casa, il destro o il sinistro? E le chiavi, le ha ancora in mano o le aveva messe in tasca? A quel punto si è già messa le scarpe o indossa ancora le pantofole? E il ricciolo che «se ne cala sempre» sulla fronte, era tirato su o era sceso?… Ecco cosa sono i raccordi, e la segretaria deve saper rispondere in ogni momento a queste e altri milioni di domande analoghe: un supplizio che la costringe a occuparsi ossessivamente di dettagli che nella vita sono del tutto inutili. Oggi, in epoca digitale la segretaria di edizione ha vita più facile perché può riguardare in ogni momento le scene girate e dissipare ogni dubbio, ma allora tutto era affidato esclusivamente alla sua bravura, ai suoi appunti e al massimo a qualche scatto di polaroid. Un mestiere insopportabile, il peggiore fra tutti quelli del set, che ho abbandonato appena ho potuto (ma questo
ovviamente è soggettivo, ho parecchie care amiche che – misteriosamente – trovano questo lavoro piacevole e gratificante). Al tempo poi successe che a un certo punto delle riprese, la segretaria titolare ebbe una colica renale e fu ricoverata d’urgenza, e io subentrai ufficialmente a ricoprire quel ruolo. Che rispetto alla norma presentava un problemino aggiunto: Sophia Loren non riusciva ad accettare di trasformarsi in Antonietta, una casalinga dimessa e grigia che ciabatta struccata per casa, con una vestaglietta scolorita e le calze smagliate. Una delle tante sfide di papà in questo film fu quella di stravolgere i cliché degli attori protagonisti: così come Marcello Mastroianni, lo sciupafemmine per antonomasia, diventava omosessuale, così la maggiorata nazionale sogno erotico di ogni maschio italiano, doveva diventare una donnetta qualunque, anonima e trasparente. Ruolo che la diva riusciva ad accettare solo razionalmente ma non a livello profondo; il rifiuto era più forte di lei e andava a finire che fra un ciak e l’altro si truccava di nascosto: aggiungeva una passata di rimmel, un velo di rossetto… Nel bailamme generale chi se ne sarebbe accorto? La segretaria di edizione, ovviamente. E ogni volta erano scene incresciose: come poteva la poveretta spifferare al regista che la star stava facendo saltare i raccordi? Ma sorvegliare queste cose era sua responsabilità e doveva mettere l’imbarazzo da parte e farsi valere. Quando io rimasi sola dopo che lei fu ricoverata, la mia inesperienza mi fece incappare in questo errore (che ancora mi brucia ma che mi ha anche fatto capire che quello non era il mestiere per me). Ogni lunedì sera a fine riprese si faceva la proiezione dei «giornalieri» nello stabilimento di sviluppo e stampa: in una saletta con poche poltrone ma schermo regolare, si controllava il materiale girato nella settimana precedente.
Passava la scena in cui Gabriele, calpestando le impronte disegnate sul pavimento, mostra i passi della rumba ad Antonietta: nelle inquadrature a figura intera lei aveva le labbra naturali e nei piani ravvicinati sfoggiava la sua famosa bocca, rosata e lucida. Mi volevo uccidere: per colpa della mia svista si dovette girare di nuovo la scena con l’attrice struccata: gran perdita di tempo e quindi di soldi; un grosso danno per la produzione (che però fortunatamente era di proprietà del marito della diva ed evitò di sollevare polveroni e fare troppe storie). Quella sera in casa Scola ci fu una telefonata oceanica. Ci eravamo appena seduti a tavola che papà si mise al telefono. Per inciso, questa era una sua simpatica prerogativa: telefonate sempre al momento meno opportuno; quando stavamo per uscire, quando c’era un treno in partenza, quando stava per cominciare una riunione, un film… Sì perché Ettore Scola era anche un grandissimo provocatore (o un grandissimo egoista, o entrambi). Comunque, mentre arrivava la pasta in tavola, lui andò al telefono e chiamò la Loren. Con tono pacato, apparentemente morbido, quasi carezzevole, le disse di essere rimasto sbalordito dalla sua stupidità; che credeva di aver ingaggiato una grande attrice, la stessa che aveva vinto l’oscar per La ciociara, e invece si ritrovava sul set una sciacquetta qualunque che faceva i capricci. Dov’era la sua professionalità? Dove la sua grandezza? Era furioso più con se stesso che con lei, perché aveva sbagliato a valutarla, quel ruolo era fuori dalla sua portata e lei non era neanche lontanamente all’altezza della prova alla quale era stata chiamata. Però ormai era tardi per tornare indietro e bisognava che lei riuscisse a entrare in quel personaggio in un modo o nell’altro; a lei la scelta: o ci riusciva da sola o glielo avrebbe dovuto far fare lui, parola per parola, espressione per espressione, gesto per gesto…
Le disse anche che riuscirci non era così difficile come poteva sembrare, bastava che Sophia Loren smettesse di guardare Antonietta Tiberi dall’alto in basso e con pietà, e che cominciasse ad amarla; perché Antonietta è amabile: lo è perché non ha strumenti, perché è disarmata, mortificata, sottomessa a un marito volgare che la tradisce, in gabbia come il suo pappagalletto che la chiama in continuazione: «Antonèta! Antonèta», vittima rincretinita dalla propaganda del regime fascista. Poi nella telefonata ci fu una lunga pausa nella quale lei forse replicava, e la risposta lapidaria di papà: «Il tuo mal di testa di oggi, domani è passato; ma la tua interpretazione di oggi, resta lì per sempre». Quando papà tornò a tavola noi eravamo arrivati alla frutta e lui mangiò la pasta fredda ma con soddisfazione perché sentiva che il problema lo aveva risolto, e infatti da quel momento Sophia diventò una meravigliosa Antonietta, vera e struggente. Il successivo grosso intervento su di lei fu in occasione della scena madre, un lungo, drammatico monologo, in cui, forse per la prima volta, Antonietta apre gli occhi e si rende conto della propria situazione. Tutto era pronto per girare, inquadratura, luci, movimenti di macchina e degli attori, Mastroianni, docile come sempre, pronto al suo posto, il ciak in campo… Papà mi bisbigliò in un orecchio che doveva parlare con Sophia, che avrebbe potuto volerci un po’ di tempo, quindi di mantenere calma la produzione se avesse cominciato a scalpitare. La prese per mano e se la portò in camerino; questa volta la conversazione avvenne a «porte chiuse» e non so cosa le disse. So però che quando uscirono papà diede motore immediatamente, senza bisogno di altre prove, e si girò. Una. Secca. Straziante. Perfetta.
In un’unica inquadratura di due minuti e mezzo tutti filati, Antonietta confessa, a Gabriele ma soprattutto a se stessa, che il suo matrimonio non è affatto felice, che il marito la maltratta, la comanda, la usa come fattrice di figli senza mai farsi una risata con lei, perché lui ride solo fuori casa, con le altre; e di avergli trovato in tasca la lettera di una donna, non di una delle solite donnacce che frequentava al casino (dove era più conosciuto che in ufficio) ma di una istruita che fa addirittura la maestra. Farle questo, a lei che è quasi analfabeta, significa sbatterle in faccia quanto non vale niente, che è una mezza calzetta, perché per un’ignorante non c’è rispetto… Nel crescendo del monologo Sophia si mise a piangere. E pianse davvero: non lacrime di glicerina ma di immedesimazione. Sul set non volava una mosca, erano tutti col fiato sospeso a palpitare con Antonietta. E allo «Stop!» successe una cosa mai vista: la troupe esplose in un applauso spontaneo, fragoroso, commosso, lunghissimo. Sophia era stata immensa. Si guardò intorno incredula, e con gli occhi ancora umidi lanciò a papà un lungo sguardo di riconoscenza. E papà annuì sorridendo. Chissà cosa le avrà detto in quel camerino.
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Il metodo Amidei (Silvia) Quando mi chiedono quale sia il più grande privilegio di essere «la figlia di Ettore Scola», il che purtroppo avviene spesso, la mia risposta è sempre la stessa: aver potuto conoscere da vicino persone straordinarie. Poeti, scrittori, pittori, scultori, musicisti, architetti, sceneggiatori, intellettuali comunisti e grandi cineasti, che circolavano per casa nostra come fossero parenti acquisiti. Amici di papà con i quali mia sorella e io chiacchieravamo a tu per tu. All’epoca, e parlo degli anni Sessanta e Settanta, il cinema a Roma era una comunità, una tribù: si conoscevano tutti, erano tutti amici e si frequentavano a prescindere dal fatto che stessero lavorando insieme o meno. Age, Scarpelli, Risi, Steno, Monicelli, Maccari, Amidei, Sordi, Gassman, Mastroianni, Manfredi, Tognazzi, Ralli, Vitti… Si vedevano spesso anche a casa nostra e noi bambine eravamo ammesse alle loro cene e alle serate conviviali. Quando apparivo nello studio dove erano riuniti a lavorare, per prendere qualcosa o per portare loro il caffè, la mia entrata dalla porta segreta (un’anta della libreria che si apriva a scomparsa) scatenava sempre la loro ilarità. Mi accoglievano sorridenti, mi prendevano in giro, mi coinvolgevano chiedendomi se mi era piaciuto un film o un libro, o di come avrei detto a un mio coetaneo una certa battuta. Soprattutto gli sceneggiatori, curiosi per natura, erano divertiti da quelle brevi incursioni che trasformavano sempre in un’occasione per ridere. Sergio Amidei cominciò a frequentare la nostra casa nel 1971 per scrivere insieme a papà La più bella serata della mia vita, tratto da La panne, un racconto di Dürrenmatt. Io avevo
nove anni ed ero piccola, selvatica e molto ridicola – come amava ripetermi papà in continuazione – e Sergio mi aveva soprannominato Trench, «impermeabile a qualsiasi forma di sapere!». Un po’ era vero, a parte le Fiabe Sonore con i libri illustrati dei Fratelli Fabbri Editori, fino a dodici anni non avevo aperto libro e leggevo solo fumetti, «Linus», «Topolino», «Diabolik», «Intrepido» e «Monello»; ma l’accanimento di Amidei contro la mia ignoranza mi faceva ridere e mi lusingava anche un po’. Amidei era una persona curiosa di tutto, di tutti, e di una sensibilità speciale. Vulcanico e coltissimo, si infiammava improvvisamente di sdegno o di entusiasmo – ma più di sdegno – esplodendo contro il malcapitato: una volta schiaffeggiò pubblicamente la moglie di un grande regista perché aveva detto che la politica italiana era «tutto un magna magna». Sergio si alzò da tavola e andò a sferrarle un ceffone su una guancia tuonando: «Si vergogni!». Un’altra volta rincorse Ettore con una mazza da baseball nello studio di casa sua per chissà quale asserzione incauta, e papà ci raccontava che si trovò a dover scappare girando intorno al tavolo, per schivare i colpi che Sergio sferzava alla cieca contro di lui. Per non parlare di quando, unico giurato italiano al Festival di Mosca, Amidei innescò una battaglia strenua, furiosa, scomodando anche Chrušcëv, all’epoca capo dello Stato e capo del Partito comunista sovietico, per far vincere il premio a 8 ½ di Federico Fellini. E ovviamente ci riuscì: il Grand Prix di Mosca del 1962 lo vinse 8 ½. Però Sergio era anche capace di grandi slanci d’affetto, e di passioni amorose travolgenti. E Ugo Pirro, altro grande sceneggiatore di quell’epoca, racconta per esempio di averlo visto piangere per amore. Sergio era particolarmente sensibile alla gentilezza delle persone ed era capace di gesti di grande generosità. Quando gli regalai due presine di cotone fatte a mano da me all’uncinetto, dato che amava cucinare e passava molto tempo ai fornelli, e
gliele diedi il giorno del suo compleanno, Sergio si commosse. L’idea che io avessi passato giorni e giorni a intrecciare quei fili per lui, lo aveva toccato profondamente. Pure troppo, per la verità, dato che i giorni a seguire mi telefonava per dirmi che le usava e che erano perfette, che non ci si scottava mai e se si potevano lavare in lavatrice o meno. Quando lo conobbi era già anziano e dato che abitavamo molto vicini spesso mi chiamava per chiedermi di portargli un certo libro, o un copione, o a prendere delle pagine da portare a papà o una pentola da restituire a mamma. Era un vecchio forte e pieno di fascino, e oltre a essere un pozzo di scienza e gran conversatore, era un ascoltatore appassionato. Così andavo a casa sua, una bella casa con terrazzo e libri dappertutto, e chiacchieravamo come fossimo coetanei. Era curioso di tutto: la vita, sotto qualunque forma, lo appassionava. Caratteristica che ho ritrovato in tutti gli sceneggiatori, da allora ad oggi, e che mi ha fatto innamorare di questo (ingrato) mestiere. Ricordo che subito dopo la maturità, intorno ai diciannove anni, quando andai a stare per un periodo da sola a Margate, piccola cittadina balneare del Kent affacciata sulle «bianche colline di Dover», per studiare l’inglese, la sera stessa in cui arrivai Mrs Gallagher mi chiamò al telefono dicendomi che un signore mi cercava. All’epoca ancora non esistevano i telefoni cellulari e se si voleva comunicare ci si doveva cercare al telefono fisso, quello di casa. Scendendo la scala interna della tipica villetta inglese dove alloggiavo, con le camere da letto al piano di sopra e il living room al piano di sotto, pensai che fosse papà a cercarmi per sapere come era andato il viaggio, ma quando alzai la cornetta una voce di uomo che non era mio padre, tuonò: «Dunque! Margate è una cittadina portuale del Sud-Est dell’Inghilterra, molto nota per gli scambi commerciali nella metà del XVIII secolo, soprattutto quello di carbone di cui forniva la città di Londra…». Era Amidei, che saputo da papà dov’ero, si era letto tutta la storia di quella località inglese per mettermi a parte delle notizie che aveva trovato.
«Ecco, così sai dove sei! Divertiti. Ciao.» E riattaccò. Nato a Trieste nel 1904 sotto l’impero austroungarico, e ridiventato italiano dopo la Grande Guerra, Sergio Amidei racchiudeva in sé le due nature: quella mitteleuropea, elegante, composta e culturalmente elevata, e quella italiana, istintiva, passionale e anche un po’ becera. E il suo modo di lavorare assomigliava molto alla sua indole. Così come Zavattini, il grande sceneggiatore di De Sica, scrittore e pittore, che teorizzava il «pedinamento della realtà», e il regista Lattuada, che usciva all’alba per «captare» gli umori del mercato (tanto che gli amici ironizzavano: «Be’, ormai che usciamo a fare? Tanto ha già captato tutto Lattuada»), anche Amidei viveva osservando attentamente i suoi tempi, e quelli in cui erano ambientati i suoi racconti per il cinema. Stabilita un’epoca, un tema, un personaggio, Sergio si immergeva in uno studio accanito: leggeva libri, giornali, pubblicazioni, interrogava chiunque, telefonava alle centraliniste del servizio informazioni, alle ambasciate, andava per strada a fermare la gente che avrebbe potuto aiutarlo nelle sue ricerche. Delle vere e proprie inchieste che diventavano poi le fondamenta del film. Molte volte ci siamo chiesti con papà l’uso che Sergio avrebbe fatto di Internet e delle nuove tecnologie, di là da venire alla sua morte nell’aprile del 1981, quando ancora non esisteva neppure il telefono cellulare. Aveva vissuto a Torino, nell’epoca del cinema muto e da ragazzo aveva fatto la gavetta facendo di tutto, dal trovarobe, all’organizzatore di set, arrivando a inventare anche un sonoro primigenio: con una sorta di magnetofono registrava dei rumori (di strada, di clacson, di fracasso) e riproducendoli durante la proiezione, li abbinava alle immagini della pellicola, spesso per ottenerne un effetto comico. Poi venne a Roma durante l’occupazione nazista, e qui diventò una colonna portante di quel movimento culturale chiamato più tardi neorealismo. Scrisse Roma città aperta
(1945), Paisà e molti altri film di Roberto Rossellini; Sciuscià e Ladri di biciclette di Vittorio De Sica; Anni difficili e Anni facili di Luigi Zampa; Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli; La più bella serata della mia vita e Il mondo nuovo di Scola (film, quest’ultimo, che gli valse il David di Donatello alla miglior sceneggiatura). Ma la grandezza di Amidei fu quella di aver intuito che il potere di denuncia e di critica sociale che aveva il neorealismo drammatico della fine degli anni Quaranta, poteva avere la stessa forza anche se raccontato in forma di commedia: quegli stessi temi che facevano piangere avrebbero certamente potuto anche fare ridere. Esempi nella letteratura e nel cinema ce n’erano sempre stati, da Charles Dickens a Charlie Chaplin, da Buster Keaton a Stanlio e Ollio, la fame e le disuguaglianze sociali avevano sempre fatto ridere. Con Domenica d’agosto, il film di Luciano Emmer scritto nel 1950, Sergio Amidei divenne di fatto il traghettatore del cinema italiano dal neorealismo alla commedia all’italiana, dal dramma tout court alla satira della tragedia stessa, portando tutto il bagaglio culturale del neorealismo al grande pubblico della commedia popolare. Quanto deve ad Amidei lo spirito democratico e antifascista degli italiani, dal dopoguerra in poi? Tanto, se si mettono in fila tutti i film che ha scritto, un apporto davvero notevole. Apporto che forse i nostri autori di oggi, spesso dimenticano di coltivare nelle loro opere, si rammaricava Ettore. Il «metodo Amidei», quindi (seguito poi dalla generazione successiva di sceneggiatori suoi «allievi», Pirro, Maccari, Age, Scarpelli, Monicelli, Scola), partendo dall’osservazione della realtà, prevedeva un periodo iniziale di indagine sulla materia, a cui seguivano mesi e mesi di conversazioni tra gli sceneggiatori, intorno ai personaggi, agli ambienti, agli accadimenti, ai significati, fino ad arrivare a concepire un racconto vero e proprio che avesse un inizio, uno svolgimento e una fine e che raccontasse la vicenda del film: il soggetto.
In realtà quelle conversazioni non vertevano esclusivamente sul film. Gli sceneggiatori si prendevano tutto il tempo per chiacchierare, pensare, ripensare, ridere, commentare i giornali, arrabbiarsi, litigare, parlare di politica o di qualunque cosa li interessasse al momento. Sembrava che cincischiassero, che perdessero tempo, e invece tutto quello scambio entrava nel tessuto della storia, gli dava corpo, spessore, e anche se in superficie non si vedeva, la sostanza era fatta anche e soprattutto di quello. Racconta Scarpelli di quando con Age cominciarono a scrivere un film insieme ad Amidei e dopo aver chiacchierato di tutt’altro per ore e ore, alla fine della giornata Sergio andandosene disse: «Be’, oggi abbiamo fatto un notevole passo avanti». Non avevano fatto nulla: il film non lo avevano neppure nominato (… e tanto per cambiare l’aver «fatto un notevole passo avanti» quando non si era combinato nulla entrò subito nel nostro lessico familiare e professionale). Ma perché quando guardiamo un film americano, o un film italiano degli anni Cinquanta, anche i personaggi più laterali, più marginali, anche le figurazioni, hanno un volto e un’anima? Perché sembrano tutti veri, credibili, e con una forte capacità di identificazione da parte dello spettatore? Per tutte quelle «chiacchiere» che si erano fatte intorno al film. E forse anche per il fatto che i film si scrivevano a sei, a otto e a volte anche a dieci mani, non a due o a una, come accade spesso oggi. Tornando al metodo Amidei, una volta scritto il soggetto, si passava a elaborare una prima scaletta detta scalettone: un elenco numerato per grandi snodi, sequenze o capitoli, che veniva poi suddiviso tra gli sceneggiatori, in quella operazione di assegnazione dei punti chiamata divisione dei blocchi. Partendo dalle conversazioni precedenti e dalle cose fissate nello scalettone, si procedeva quindi a scrivere il trattamento: una sorta di canovaccio – o «scartafaccio», come lo chiamavano loro – in cui la storia del film veniva narrata in forma di romanzo. Uno scritto piuttosto informale, in verità,
quasi un flusso di coscienza tra gli autori e il lettoreproduttore, fatto di lunghe descrizioni degli ambienti e dell’epoca storica, dei personaggi e dei loro umori, delle loro speranze o aspettative. Emozioni e suggestioni accompagnate da brevi dialoghi messi qua e là a mo’ di esempio per far ridere, o per indicare una certa psicologia, un carattere o un modo di parlare particolare (ma non completi e diffusi, con i «buongiorno» e i «buonasera», come in sceneggiatura).
Copertina del trattamento di La famiglia.
Prima pagina del trattamento di La famiglia.
Da questo primo copione, considerato come il romanzo dal quale trarre l’opera cinematografica, si passava a tirare giù la scaletta del film: un elenco di scene più o meno dettagliate, che una volta rifatta la divisione dei blocchi avrebbe portato alla scrittura della sceneggiatura, cioè il film suddiviso in scene e dialoghi completi, chiamata all’epoca «destra e sinistra». Con «destra e sinistra» si intendeva la sceneggiatura all’italiana, scritta su un foglio di carta chiamata quadrotta (un po’ più larga e un po’ più corta dell’attuale A4) divisa verticalmente in due colonne. Sulla sinistra si scriveva la descrizione della scena e tutto ciò che era visivo, e sulla destra si scrivevano i dialoghi e tutto ciò che era sonoro (compresi i drin drin, toc toc, bip bip ecc.). Questa forma grafica venne usata in Italia dagli anni Quaranta fino ai primi anni Ottanta,
per lasciare poi il posto alla forma «all’americana» che consisteva nella descrizione a piena pagina e i dialoghi al centro, come nei romanzi (mentre poca fortuna ebbe da noi la forma «alla francese» con la descrizione a piena pagina e i dialoghi a destra).
Esempio di «sceneggiatura all’italiana» del film Maccheroni.
Divisi i blocchi, gli sceneggiatori si mettevano dunque a scrivere ognuno a casa sua, o insieme ma in silenzio alla macchina da scrivere, le scene che si erano assegnati: uno le scene dalla 1 alla 10, per esempio, un altro dalla 11 alla 22 e così via, compreso il regista nel caso fosse anche sceneggiatore. Poi ci si scambiavano i blocchi e ognuno correggeva le scene scritte dagli altri, per poi discuterne redazionalmente e, confrontando le correzioni di ognuno, arrivare a una prima stesura della sceneggiatura. La prima, perché poi ne seguiva sempre una seconda, che a volte era una
vera e propria riscrittura, e poi una o due revisioni successive per arrivare alla stesura definitiva. Copione finale con cui fare il piano di lavorazione e andare sul set per le riprese. Totale: un anno e mezzo, due anni di scrittura; in alcuni casi – Il mondo nuovo, C’eravamo tanto amati o La famiglia – anche tre. Detta così sembra una metodologia pedissequa sull’«arte sceneggiatoria», come la chiamava polemicamente Scarpelli, ma il mestiere dello sceneggiatore oltre all’estro e al talento narrativo, prevedeva anche obblighi, convenzioni e regole, a volte ferree, da seguire per lavorare armoniosamente in ensemble. Quando scriveva un film – e all’epoca i produttori allegavano al contratto l’assegno di anticipo contestuale alla firma – il gruppo di sceneggiatori si metteva a lavorare con orari pressoché da impiegati statali: dalle 9,30 alle 14 circa e dalle 16 alle 20, quando poi non si andava anche a cena insieme e quella seduta di sceneggiatura, annaffiata dal vino, arrivava a durare anche tredici ore. Si vedevano tutti i giorni, a casa dell’uno o dell’altro, mattina e pomeriggio; e più raramente facevano orario continuato dalla mattina fino al pomeriggio senza pausa pranzo, detto orario alla francese. Quest’ultimo era preferito da Amidei, in quanto scapolo, mentre gli ammogliati preferivano tornare a pranzare in famiglia per poi rivedersi più tardi, magari dopo essersi fatti anche una bella pennichella. Si riunivano nelle case, ma anche negli uffici della produzione, se c’era una stanza adatta, o anche nei bar. Quando all’inizio degli anni Ottanta sotto l’acronimo di Maccari Age Scarpelli e Scola nacque la Mass Film (amministrata da Franco Committeri), Ruggero Maccari, Age, Furio e papà si riunivano in ufficio da Franco: qui, per esempio, è nato La famiglia.
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Vita da aiuto (Paola) SCOLA :
Aiutoo! Aiutooooo!
MACCHINISTA : SCOLA :
Oddio dotto’, che succede?
Niente, chiamavo Paola.
Dopo aver messo una croce sopra il mestiere di segretaria di edizione sono passata a fare l’aiuto regista. Bella la vita, eh? Sì, devo dire di sì, essere figlia di un padre importante che pensa che tu sia all’altezza di qualunque cosa, aiuta parecchio. Anche se poi l’altra faccia della medaglia è il pregiudizio, che ti accompagna sempre e ovunque e che ti taglia le gambe qualsiasi cosa provi a fare autonomamente. Ma ci sta. È la nemesi, immagino. Il mio debutto come aiuto regista, dunque, è stato in La terrazza, un controversissimo film sulla crisi e il bilancio degli intellettuali di sinistra all’inizio degli anni Ottanta, che ha visto insorgere compatta sia la critica, che si è sentita chiamata in causa, sia i diretti interessati. Come molto spesso è capitato con i film di papà, La terrazza qui da noi venne massacrato, ma dopo il plauso unanime che gli tributò la Francia i critici italiani cominciarono surrettiziamente a rivedere le loro posizioni. Oreste del Buono fu l’unico che le rivide apertamente. In seguito alla critica di François Chalais, eminente giornalista, critico e storico del cinema, scrisse un secondo articolo in cui ritrattò la sua precedente recensione e fece ammenda, dichiarando di non aver capito il film. Chapeau a OdB! Si trattava di un film parecchio complesso dal punto di vista della struttura, una specie di rompicapo con storie a incastro
che partendo da un nucleo – una cena in terrazza, appunto – si diramava, avanti e indietro nel tempo, seguendo la vita di ogni personaggio. Più che un battesimo come aiuto regista è stato una terapia d’urto, che però mi ha permesso di farmi le ossa subito subito. Ma cosa fa esattamente l’aiuto regista? Non è facile dirlo, le sue mansioni cambiano secondo il regista che deve aiutare: braccio destro, spalla, stampella, filtro, portavoce, confidente, psicologo, psichiatra, scudo umano, babysitter, schiavo, punching-ball… Non tutte insieme ovviamente, le incombenze variano al variare del regista, della sua natura e delle sue esigenze, ciò nondimeno c’è un compito universale per tutti gli aiuto del mondo che è proteggerlo dalla aggressione delle domande. La croce dei registi sono le domande, a raffica, che ricevono continuamente e in qualunque momento – non importa se stanno scrivendo, telefonando, provando una scena o qualunque altra cosa – e alle quali devono saper rispondere all’istante, senza esitazioni e in via definitiva: «Quanto ci metti a girare questa sequenza?» «Ti bastano venti comparse per far sembrare pieno lo stadio? No? Facciamo venticinque?…» «L’attrice ha dolore a un piede e non vuole i tacchi che però aveva nella scena precedente che hai già girato, la puoi inquadrare solo a mezzo busto, escludendo i piedi?» «La tovaglia del picnic la vuoi a quadrettoni o a fiorellini?» «Venerdì c’è la scena al mare ma sembra che pioverà, ci serve un cover set, ti va bene girare quella dell’ufficio postale?»
E questo ci porta al requisito fondamentale del regista. Prima del talento, della genialità, della fantasia, viene la responsabilità: per fare il regista bisogna sapersi prendere la responsabilità delle proprie scelte: il valore di un regista si misura in coraggio.
So quello che dico perché ho lavorato con registi più o meno grandi, più o meno talentuosi, più o meno isterici e i peggiori sono i pusillanimi, quelli che non hanno il coraggio di decidere, che temporeggiano in modo da potersi riservare la possibilità di scaricare la colpa sull’aiuto regista che per forza di cose a un certo punto ha dovuto prendere la decisione al posto loro. Ah, ecco un’altra funzione dell’aiuto che avevo dimenticato: capro espiatorio. Ma qui stiamo parlando di Scola, che era grande non solo perché era l’amore mio, non solo perché è uno dei più grandi autori del cinema mondiale, ma perché si prendeva il coraggio delle sue scelte. Nel bene e nel male. Proprio per La terrazza per un piccolo ruolo era in predicato Grazia Scuccimarra, una straordinaria, ironica attrice-autrice di teatro che aveva come tratto distintivo una gran massa di ricci afro; segni particolari: testa a palloncino alla Angela Davis. Papà non era convinto, non riusciva a mettere a punto il personaggio, fece prove su prove finché capì che erano quei ricci che stonavano e bisognava che l’attrice accettasse di farsi stirare i capelli; avrebbe dovuto sottoporsi a un «tiraggio», trattamento chimico che glieli avrebbe lisciati permanentemente: una decisione senza ritorno. Per lei era troppo, e disperata rinunciò al film. Poi però ci ripensò (tanto i capelli ricrescono) e decise di accettare. Venne fatto il tiraggio ma il risultato non fu quello sperato. I dubbi rimanevano e papà concluse che lei non era giusta per il ruolo. Era sinceramente, profondamente costernato, ma glielo disse senza mezzi termini: «Mi dispiace tanto, ho sbagliato, non vai bene». Potrebbe sembrare un gesto capriccioso, perfino infame, tuttavia non è così. Quando parlo di coraggio intendo esattamente questo, prendersi la responsabilità delle proprie decisioni senza accampare scuse, ma anche senza compromessi; che è quello che fa la differenza con un regista debole: scendere a patti con se stesso.
Anche sapere esattamente cosa si vuole da un attore – un’intonazione, un’espressione – e riuscire a ottenerlo fa parte della grandezza di un regista. Papà in questo era un mago, per ogni attore sapeva trovare la strada che lo avrebbe portato a dire quella battuta esattamente come voleva lui. In La famiglia, Carletto (un giovane Castellitto agli inizi della carriera) torna nella casa della sua infanzia e ritrova un nodo del legno nella boiserie del corridoio, col quale aveva giocherellato da bambino mentre ascoltava non visto i genitori che si stavano separando; un momento molto intenso e doloroso. Oggi il ragazzo rivede quel pezzetto di legno, lo cava dal muro e lo guarda; gli evoca la sua infanzia, la separazione dei genitori, tante cose… L’indicazione di regia di papà fu: «Non lo devi guardare, lo devi ricordare». In questo caso le istruzioni erano precise, ma con attori più navigati usava tecniche più sottili: Antonella Attili, in un’intervista del backstage di Che strano chiamarsi Federico, dice: «Ettore ha un’autorevolezza dolce, sembra sempre che non ti diriga, che non ti chieda mai nulla: ti fa credere di creare delle cose ma in realtà ti porta esattamente dove vuole lui». 2 Durante la preparazione dei film papà faceva dei disegnetti per i collaboratori, per comunicare loro le idee iniziali di un personaggio o di una scena. Era nato con la matita in mano, ha cominciato a disegnare prima ancora di imparare a scrivere e non ha mai più smesso. Disegnava sempre e dappertutto, su qualunque pezzetto di carta gli passasse per le mani: tovagliolini, scontrini, i bordi bianchi dei giornali… Erano perlopiù ometti e donnine buffi, disegnati distrattamente, mentre era sovrappensiero, mentre parlava al telefono o rifletteva su qualcosa che doveva scrivere; i suoi pupazzetti lo aiutavano a concentrarsi, a pensare, a farsi venire le idee. Anche i disegni per i film erano come appunti di lavoro che non avevano nulla a che fare con le riprese. Tanto è vero che non ha mai usato gli storyboard, cioè quella serie di disegni che illustrano tutto il film inquadratura per inquadratura,
inclusi i movimenti della macchina da presa e gli obiettivi che verranno usati, e dove tutto viene definito a tavolino ed è solo da realizzare. Quando si va a girare praticamente non ci sono incognite. Gli americani non prescindono da questo strumento ma in Italia non si lavora così, è tutto più casareccio, artigianale. Per papà non era pensabile stabilire le cose a priori, in astratto, lui arrivava sul set la mattina, si guardava intorno e decideva. Il lavoro della messa in quadro e della messa in scena, proprio del set, è inscindibilmente legato all’ambiente in cui si lavora, allo stato d’animo del regista, degli attori e della troupe, alle immediatezze della quotidianità. 3
Il principale motivo d’amore per il suo lavoro era che gli dava la possibilità di comunicare le sue idee a un gran numero di persone; nello stesso tempo però pativa la ribalta e i riflettori, che sono effetti collaterali inevitabili del mestiere, soprattutto quando si ha il favore del pubblico. Lui era schivo e piuttosto orso, e il fuoco era sempre sui temi che voleva trattare, non su di sé. Non avendo intenti esibizionistici, autobiografici o narcisistici, quindi, non aveva nemmeno una cifra stilistica riconoscibile; lo stile non era una sua priorità, lo cambiava ogni volta (gli piaceva sperimentare), e anche se ha spesso ripetuto di aver fatto un unico lungo film in tutta la sua carriera, si riferiva al senso, ai contenuti, mai alla confezione. Tant’è vero che l’uso della macchina da presa per lui non era un fine ma un mezzo al servizio esclusivo della storia; la scelta di un’inquadratura o le invenzioni di regia erano determinate dalla soluzione di problemi narrativi, non da una compulsione stilistica. Non mi viene mai in mente un bel movimento di macchina dal quale poi far dipendere l’azione e gli spostamenti degli attori. Non credo alla bella calligrafia: credo a una scrittura che faccia capire le intenzioni di quello
che si vuol raccontare. Solo così, penso, si riuscirà a emozionare lo spettatore. 4
Questo non vuol dire che i macchinisti con lui se ne stavano in panciolle, anzi, li sfondava perché aborrendo l’uso dello zoom – visione che diceva non esistere in natura – per ogni avvicinamento o allontanamento voleva un carrello. Che si traduceva per i macchinisti nel montaggio e lo smontaggio continuo del binario sul quale si issano la macchina e l’operatore nonché il compito di spingerli a mano sul carrello per tutta la lunghezza del movimento. Da qualche anno alla Casa del Cinema di Villa Borghese si tiene la cerimonia di consegna della Pellicola d’Oro, un premio dedicato alle maestranze che ha lo scopo di far conoscere quei mestieri fondamentali per la realizzazione di un film, che sono praticamente ignoti ai non addetti ai lavori. Nell’edizione del 2014 papà fu chiamato a consegnare il premio per il miglior capomacchinista. Lo vinse il «Fagiolo», Alberto Emidi: il suo capomacchinista. Un’istituzione del nostro cinema, della grande dinastia degli Emidi, macchinisti da generazioni (i maschi, le femmine impegnate nel trucco o nella produzione). Alberto ricevette il premio con gli occhi velati, e alla presentatrice che gli chiedeva come fosse lavorare insieme, lui disse: «Quando fai un film con Ettore Scola è un piacere alzarsi per andare a lavorare la mattina». Papà avvampò. È stato uno dei complimenti che gli hanno fatto più piacere in assoluto e in segreto, in famiglia, nonostante la sua modestia, lo ricordava sempre. Ogni tanto anche sfottendomi: «Che è quel muso? Non è stato un piacere alzarti stamattina per venire a lavorare con me?». Emidi poi continuava: «Non tutti i registi sono così, e noi siamo quelli che devono sopportare il loro umore»; il Fagiolo ha usato un eufemismo per alludere al fatto che tanti registi sembrino essere bipolari, magari anche perbene nella vita, sul set subiscono una sorta di mutazione genetica che li trasforma
in bestie feroci, capricciose e dispotiche, e in genere lo sono quando non hanno talento; tutto il potere dato a un incapace diventa un’arma micidiale, pericolosissima, e loro sono i primi a farne le spese. E conclude con un filo di voce: «Più so’ falliti e più se la credono». Tanto più quindi veniva apprezzato un carattere come quello di papà che portava sul set un clima di leggerezza dal quale era bandita qualunque forma di tensione fine a se stessa, e dove dominavano la passione e il rispetto per il lavoro di tutti. Proprio in La terrazza papà ha tratteggiato uno di questi personaggi, un regista velleitario borioso e senza talento, facendolo interpretare all’amico Fabio Garriba, artista poliedrico e complesso, ubriacone e geniale che si autodefiniva «persona dalla psiche spettinata». «Detesto l’umorismo delle troupe romanesche» proclama spocchioso il registucolo settentrionale con il preciso intento di umiliare pubblicamente un macchinista che ha fatto una battuta. Va detto che questa è una peculiarità del set, il cinema si faceva a Roma e le troupe erano romane e inclini allo sberleffo e alla dissacrazione; cose che papà, al contrario del suo personaggio, apprezzava particolarmente perché spostavano la prospettiva, davano il giusto distacco ed evitavano il rischio di prendersi troppo sul serio. Un bell’esempio è avvenuto durante le riprese di Il mondo nuovo, il film più fisicamente faticoso al quale ho partecipato. Era una mega coproduzione franco-italiana, ambientato all’epoca della Rivoluzione francese, con un cast pazzesco: Jean-Louis Barrault, Harvey Keitel, Hanna Schygulla, JeanLouis Trintignant, Jean-Claude Brialy, Andrea Ferreol, Laura Betti e Marcello Mastroianni. E, in più, centinaia di comparse ogni giorno. Fra i compiti dell’aiuto regista c’è quello della gestione delle comparse, dei movimenti delle masse, come si dice in gergo. Durante la preparazione del film le figurazioni vengono
scelte a una a una, consegnate a costumisti, truccatori e parrucchieri, che li acconciano secondo la foggia dell’epoca in cui si svolge la storia, e fanno tutte le prove necessarie cosicché al momento delle riprese la preparazione sia il più veloce possibile. Ogni comparsa ha il suo costume assegnato, la parrucca e il trucco e non deve far altro che indossarli. Nonostante questo però quando le figurazioni sono centinaia, come in questo film, servono rinforzi nella troupe: sarte, aiuto parrucchieri e aiuto truccatori: un esercito fra comparse e «aggiunti», come si chiamano, di troupe. La convocazione comincia verso le 5 di mattina in modo che alle 9, orientativamente l’orario di inizio delle riprese, tutte le comparse siano pronte. Gli attori protagonisti arrivavano un po’ più tardi, ma non molto, intorno alle 7 o anche prima, perché trattandosi dell’epoca della Rivoluzione francese avevano acconciature e trucco piuttosto elaborati. Mastroianni per esempio, che interpretava Casanova da vecchio, e doveva essere spelacchiato in testa e con la pelle incartapecorita e cadente, aveva circa 3 ore di trucco ogni giorno e veniva prelevato a casa dagli autisti del film alle 5,30. Il mondo nuovo è un road movie, è il viaggio di una carrozza nella campagna francese (girato in parte anche nella laziale, che però figurava essere quella francese), sulle tracce di Luigi XVI e della sua famiglia, che tentano la fuga dagli arresti domiciliari al palazzo delle Tuileries (girato alla Reggia di Caserta).
Carrozze, calessi, landò, cavalli e inseguimenti… è stato un film di una fatica indicibile, girato sotto il sole d’agosto, mangiando la polvere della campagna riarsa, e pieno di contrattempi e incidenti. Ogni giorno ce n’era una: cavalli che si imbizzarrivano, mozzi delle ruote che si spezzavano, impantanamenti, ribaltamenti, uscite di strada… non riuscivamo ad avere una giornata senza intoppi. Papà evocava Ombre rosse, la leggendaria epopea western di John Ford che, nel 1939, seguiva il viaggio di una diligenza dall’Arizona al Nuovo Messico con metodi di ripresa avveniristici, come la cinepresa che corre parallelamente alla diligenza, o l’attacco finale degli apache, chiedendosi come avessero potuto fare riprese così complicate con mezzi tanto rudimentali, quando noi – quarantadue anni dopo – non riuscivamo nemmeno a far procedere un tiro a quattro. Avremmo avuto bisogno del loro aiuto e dei loro consigli. All’ennesimo incidente un macchinista bofonchiò: «Be’, telefonàmo a Ombre rosse!». Ci fu un boato di risate nello sconforto generale. Tanto che a ogni incidente, intoppo, difficoltà, il tormentone diventò: «Telefonàmo a Ombre rosse!». Tormentone nelle riprese del film e di conseguenza nel nostro lessico.
Grazie al cielo, a compensare le difficoltà delle riprese dal vero, giravamo parte degli interni delle carrozze, con i dialoghi e i primi piani degli attori, nei teatri di Cinecittà. Quindi, niente cavalli ma solo l’abitacolo della carrozza sistemato su grandi molle a sospensione, che veniva sbatacchiato ad arte dai macchinisti che ne simulavano l’andatura sul percorso accidentato della campagna. Giravamo la scena in cui il vecchio Casanova e Restif de la Bretonne (scrittore e cronista della Rivoluzione realmente esistito), interpretati da Marcello Mastroianni e Jean-Louis Barrault, avvistano la carrozza del re in fuga e Restif grida al cocchiere: «Raggiungetela!», e quello lancia i cavalli al galoppo. A quel punto i macchinisti aumentavano forsennatamente lo sbattimento dell’abitacolo. Per motivi di coproduzione però le scene venivano girate in doppia versione, sia in italiano sia in francese, e nella versione francese, all’avvistamento della carrozza reale Restif gridava al cocchiere: «Rattrappe-là!». Il capomacchinista per assicurarsi che non ci fossero incomprensioni coi suoi, puntualizzò: «Quanno che dice “rataplàn”, partìmo al galoppo!». Papà si presentava sul set sempre in giacca e cravatta, non si conciava mai da cinematografaro o da guerrigliero come fanno in molti, sia per vanità, sia per non millantare un lavoro fisico che non avrebbe fatto. Però non si sedeva: per rispetto alla troupe che fatica fisicamente, restava in piedi sempre. Nella infinità di fotografie di set che ci sono in giro lui non è mai ritratto seduto. Tranne che nell’ultimo film: solo in Che strano chiamarsi Federico, a 82 anni, acconsentiva stizzosamente a sedersi, con la rabbia di esserne obbligato.
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Age & Scarpelli (Silvia) Age e Furio sono state due costanti della nostra vita, dai primi anni della nostra infanzia fino all’ultimo, agli anni NovantaDuemila, quando Age svaporava piano piano, mentre Furio restava frizzante e all’avanguardia fino all’ultimo, il più giovane di tutti, sempre. Con loro e le nostre rispettive famiglie ci frequentavamo anche d’estate, al mare o a Pescasseroli, nel Parco nazionale d’Abruzzo, dove Age aveva una bella villa in cui si ritirava a scrivere e a lavorare indisturbato; e nei primi anni Sessanta convinse anche Ettore e Furio a comprare lì, per poter continuare a lavorare insieme anche in villeggiatura (la nostra). Così Furio comprò un piccolo residence e mamma e papà una villa poco distante da quella di Age, rimasta la nostra seconda casa fino a oggi. Fu lì, nel salotto di Pescasseroli, che conobbi la vera metà di Age, all’anagrafe Agenore Incrocci: Furio Scarpelli. Age & Scarpelli, coppia di fatto e compagni tra i più assidui nel cammino lavorativo di papà, erano soprattutto grandi, grandissimi amici. Avevo sei anni quando cominciarono a scrivere un film ambientato in Africa, per la regia di papà, che avrebbero dovuto interpretare Alberto Sordi, Bernard Blier e Nino Manfredi, e mi sembravano molto simpatici e buffi tutti e due. A Roma poi venivano tutti i giorni a casa nostra e si chiudevano per ore con papà nello studio. Li sentivamo parlare, discutere, fare vocioni e vocette che scatenavano le risate di tutti e tre. Molte urla anche, spesso in un crescendo al limite dell’attacco apoplettico. Erano Age e Furio che per una battuta, un dettaglio, un cavillo («Furio cavillo selvaggio», lo aveva soprannominato papà) si accapigliavano come gallinacci
e potevano urlare per delle mezz’ore. Accucciata per terra dietro la solita porta segreta, origliavo preoccupata: Age e Furio urlavano uno sull’altro, mentre la voce di papà non si sentiva mai. Poi una risata fragorosa di tutti e tre esplodeva improvvisa e tutto rientrava, quindi potevo tornare in camera mia, divertita da quei pazzi e dallo strano lavoro che faceva mio padre. Spesso, dopo quelle riunioni in cui le urla di Age e Furio arrivavano fino a piazza Ungheria, papà mi dava da leggere i copioni che avevano scritto e mi chiedeva cosa ne pensassi. Erano delle pagine bellissime, semplici, chiare, sempre profonde e tempestate di battute e situazioni esilaranti già sulla carta. Una lettura piacevolissima, l’unica che mi distogliesse dai miei amati fumetti. Mi stupiva sempre la sincera curiosità con cui papà voleva il mio parere, e non sapevo se lo faceva per sé o per me, magari per farmi sentire importante, o forse solo per costringermi a leggere, pensavo. Mi lusingava e mi metteva a disagio, anche perché non ci volevo mettere troppo tempo, ma sapevo che una sua regola personale, anche nella vita era che «bisogna sempre sorvegliare gli altri punti di vista». E allora facevo di tutto per sbrigarmi, leggevo più veloce che potevo senza però perdere l’attenzione, e orgogliosa andavo da lui appena terminato. E se qualcosa non mi era piaciuta glielo dicevo: per quanto inutile, e rasoterra, avrebbe sorvegliato anche il mio, di punto di vista. «Ma l’hai già finito?» E io gongolavo felice: sì, contento? Grazie a papà che non si risparmiava mai, da piccola sapevo già che un certo Melville aveva scritto di una enorme balena imbattibile, che non mi entusiasmava granché, e di un certo Bartleby, di mestiere scrivano, che facendo resistenza passiva si rifiutava di fare qualsiasi cosa, anche di scrivere; cosa per la quale veniva pagato. Conoscevo Bartleby perché quel suo «preferirei di no» ripetuto al notaio, suo datore di lavoro, a ogni richiesta di incombenza, scattava immancabile
anche a casa nostra perché papà lo diceva ogni volta che qualcuno di noi, sé compreso, avrebbe fatto meglio a non fare una cosa piuttosto che farla. Il che avveniva spesso. «Preferirei di no. Bisognerebbe ricordarsi di dirlo più spesso.» A proposito di resistenza passiva e di laconicità, tra i grandi sceneggiatori Ruggero Maccari è stato un altro incontro fondamentale nella vita e nella carriera di papà. Si erano conosciuti al «Marc’Aurelio», quando il giornale riprese le pubblicazioni subito dopo la fine della guerra, e da allora collaborarono e rimasero amici per quarant’anni: Maccari e Scola, coppia di ferro del cinema italiano, che ha sceneggiato per Steno, per Mattoli, per Zampa, per Pietrangeli, per Risi; e poi, quando è diventato regista, per papà stesso, firmando insieme molti dei suoi film. Più grande di lui di una decina d’anni, Maccari già scriveva con Fellini le scenette d’avanspettacolo e gli sketch per Aldo Fabrizi firmando «Mac & Fed», e insieme a lui collaborava alle sceneggiature di Metz e Marchesi per i film di Totò, Macario, Tino Scotti, Carlo Dapporto, tutti i grandi comici dell’epoca. Quando papà arrivò al «Marco», come chiamavano il giornale, Fellini era già andato via da qualche anno, ma fu l’amicizia in comune con Ruggero che fece diventare molto amici loro, Ettore e Federico. Con Fellini si vedevano fuori, di notte, come tre «vitelloni» a spasso; lunghe passeggiate in macchina sulla via Aurelia fino a Fregene e oltre, e poi ritorno alle prime luci dell’alba, quando Roma è visibilmente eterna e magica. Ruggero era una persona schiva, taciturna, ma con una luce ironica nello sguardo e un afflato affettuoso, mai ostile. Ascoltava in silenzio e fumava continuamente, un’unica sigaretta per tutto il giorno: ne accendeva una la mattina e quella successiva con il mozzicone della precedente, così fino a notte. Anche quando andavamo insieme al ristorante, ricordo la sigaretta di Ruggero sempre accesa nel posacenere, fumante, ad aspettarlo tra un boccone e l’altro. Ma i suoi
silenzi e le sue risatine a mezza bocca nascondevano un umorista fine, sempre acuto e graffiante, e politicamente incazzato. Vantava anche una scomunica da parte della Curia romana di papa Pio XII, ricevuta nel 1946 per aver partecipato alla redazione del «Don Bosco», settimanale satirico tacciato di anticlericalismo. Alla notizia della scomunica nella redazione del giornale apparve un cartello, GRAZIE PIO! W LA SCOMUNICA! , perché sfogliando i registri del Sant’Uffizio i neoscomunicati vi avevano trovato i nomi di Giordano Bruno, Vincenzo Monti, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Cartesio, Voltaire, Darwin, Balzac, Stendhal, Zola, Hugo; e si dichiararono unanimemente felici di trovarsi in così illustre compagnia. Finito di scrivere la sceneggiatura, finite poi le riprese del film, finito il montaggio, il doppiaggio, il missaggio e l’edizione (tutte tappe successive alla scrittura, che quindi salto, abbreviate oggi in post-produzione) si andava finalmente tutti in sala, a vedere il film. Mamma, papà, Paola e io andavamo al Cinefonico di Cinecittà, dove avremmo visto la prima copia in pellicola, stampata dal negativo al positivo. A questa proiezione di solito c’erano anche Age e Furio, o Maccari, o Amidei a seconda degli sceneggiatori; il produttore, lo scenografo, il direttore della fotografia, il montatore e i vari tecnici addetti all’edizione del film. Anche per papà era la prima proiezione del film finito, e c’era sempre una grande emozione. Qui, nel buio totale della sala, su uno schermo dieci volte più grande di noi e con un sonoro potente che ti avvolgeva e ti portava via, appariva finalmente il risultato delle urla e delle risate volate in casa per tanti mesi. All’inizio degli anni Settanta, quando ero ancora alle elementari, papà aveva già fatto diversi film di successo e il suo nome circolava tra i compagni di scuola che mi chiedevano curiosi: «Ma tuo padre è un famoso registra?» «Ma non era uno scenografo?»
Era una lotta. Fino al regista ci arrivavo a spiegare che lavoro faceva mio padre, portando a paragone il lavoro di un direttore d’orchestra, che mi pareva calzante; ma a far capire ai miei amichetti la differenza tra uno scenografo che progetta e costruisce le scene di legno, e uno sceneggiatore che le inventa e le racconta per iscritto, ce ne voleva. Quando ho cominciato il corso di scrittura con Age, una delle prime cose che ci disse in classe fu che la scrittura per il cinema, la sceneggiatura, differiva da quella letteraria principalmente per una peculiarità: che tutto, tutto, quello che si scriveva a sinistra nella descrizione, avrebbe dovuto illustrare un’immagine precisa. Dire a sinistra che un personaggio per esempio era tirchio, o invidioso, o assetato di potere, erano cose che non si vedevano, concetti astratti che in sceneggiatura non si potevano enunciare con un semplice aggettivo. Bisognava trovare un’azione o un’immagine che raccontassero quel tale aspetto della personalità: un tirchio, per esempio, avrebbe potuto defilarsi dagli amici per non pagare il caffè al bar; l’invidioso si sarebbe innervosito nel sentire la bella notizia data a un altro; o la sete di potere poteva essere mostrata con uno sgambetto a un collega, e così via. Per ogni enunciato, insomma, bisognava descrivere un’immagine che lo traducesse. Ci raccontava, ancora ridendo, di un produttore tedesco che a ogni passaggio troppo vago, chiedeva a loro sceneggiatori: «Come io vedere questo?». Cosa che Age, rifacendogli il verso con la pronuncia del Professor Kranz di Paolo Villaggio: «Kome io fetére kvesto?» chiedeva a noi, quando leggendo in classe gli esercizi ad alta voce, qualcuno nel descrivere una scena era stato un po’ troppo letterario. Tra gli allievi di quell’anno c’erano nella mia classe Giambattista Avellino e Franco Bernini, Doriana Leondeff, Roberto Giannarelli, Beatrice Ravaglioli, Alessandro Rossetti, Massimo Caviglia… tutti futuri autori umoristici, chi più chi
meno votati alla commedia. Un giorno, rientrando dalla ricreazione dopo la pausa sigaretta, trovai sul mio banco un foglio con su scritto in grande: SILVIA TI AMO PRESENTAMI A BABBO . Così, senza virgole e senza fronzoli. E senza firma, naturalmente. Scoppiai a ridere: era la mia croce. Il satiro aveva messo il dito nella piaga centrandola in pieno. Ridemmo alle lacrime tutti quanti, Age compreso, e tra tutti quegli spiritosoni, apprendisti stregoni del mago del cazzeggio, non fu facile capire chi fosse l’autore di quel biglietto. Escluse le donne, ma qualche dubbio lo avevo, individuai presto il colpevole: era stato Massimo Caviglia, futuro sceneggiatore delle note strips satiriche della ditta Disegni & Caviglia. Ma la grandezza di Age nell’insegnare non era tanto teoretica, quanto fattiva e artigianale: la sua vena ininterrotta di battute, di chiose, di giochi di parole e di calembour, che ci regalava sia a voce che nelle correzioni che ci faceva a matita sulla pagina, illuminava ogni scena, ogni situazione, ogni personaggio. Anche i personaggi più tinca, in gergo quei personaggi noiosi e statici, ma inseriti nella storia perché funzionali a qualcosa, con le battute di Age trovavano una ragion d’essere. Anche lui era stato allevato alla scuola del «Marc’Aurelio» negli anni Quaranta e la sua formazione umoristica si era abbeverata delle bacchettate feroci di Ferrante Alvaro De Torres, poeta, paroliere e ingegnere meccanico del gioco di parole, romano de Roma nonostante il nome da hidalgo, nonché colonna portante di quel settimanale. Era di De Torres per esempio la canzoncina di benvenuto al nuovo redattore in giacca e cravatta, Ettorino, sulla falsariga di Lola: «Scola cosa impari a scuola, neanche una parola, balli il charlestòn», ed era sua la rubrica settimanale Arrangiate fresche. Da lui Age aveva imparato il rigore, la serietà, l’importanza delle regole in ogni cosa, anche e soprattutto nel gioco. Anche a papà piaceva moltissimo giocare, e insieme con Age abbiamo giocato a qualsiasi cosa: a biliardo, a ping-pong,
a bocce, a carte, a caccia al tesoro, ai giochi da tavolo, ai giochi verbali da «passo la frontiera» a «se fosse», e pur divertendoci da matti ogni volta, il gioco per Age era una cosa che esigeva la massima serietà: la stessa che metteva nel suo lavoro, anche se di mestiere aveva scelto di fare il cazzaro. A Pescasseroli noi Scola avevamo il tavolo da ping-pong in garage e un campo da bocce in giardino, mentre a casa di Age si andava per giocare a boccette. Al centro del salotto c’era un camino circolare col braciere sempre acceso, e poco più in là un meraviglioso tavolo da biliardo, professionale, con le stecche alla parete e il tabellone per i punti. Noi però giocavamo sempre a boccette, cioè tirando le biglie a mano, ed essendo Age il più bravo di tutti, sceglieva sempre me per bilanciare le coppie e dare un po’ di vantaggio agli amici. Poi con precisione certosina mi diceva come e dove tirare: con quale velocità, se molto piano o molto forte, a seconda della traiettoria che aveva ipotizzato, e tenendo l’indice puntato sul bordo del tavolo mi indicava il punto esatto dove avrei dovuto far battere la biglia. Mi diceva: «Qui eh? Non qui», e spostava il dito di mezzo centimetro. Io eseguivo alla lettera e il risultato era che eravamo una coppia strepitosa. Imbattibile. Caratterialmente abitudinario e meticoloso, per Age nel lavoro di sceneggiatura erano fondamentali la numerazione delle scene, la fedeltà ai punti della scaletta, il rispetto delle pagine e delle scadenze, il recapito dei copioni nella data precisa indicata dal contratto, e quindi il diritto-dovere di pretendere che i produttori fossero puntuali nei pagamenti come loro lo erano stati nella consegna. Papà apprezzava molto queste sue qualità di ragioniere, intanto perché erano fondamentali per il lavoro, ma soprattutto perché Furio era l’opposto: principe del ripensamento, del procrastinare, del rimettere sempre in discussione tutto fino all’ultimo, un po’ come Amidei, fosse stato per lui non avrebbero consegnato mai.
La pedanteria di Age era in più ampiamente ricompensata dalla sua vena prolifica di amenità e battute, diciamo così, di natura linguistica, mentre Furio, battutaro anche lui, amava dedicarsi di più ai personaggi, alle psicologie, a quei rapporti e a quei meccanismi che avrebbero potuto creare situazioni comiche, o drammatiche. Furio, al contrario di Age, era un gran conversatore, e nell’ideare la drammaturgia di un film partiva sempre da esempi di circostanze e personaggi esistenti; persone o amici realmente conosciuti o personaggi letterari che si avvicinassero ai nostri. Diceva che la prima regola nello scrivere un film era la stessa dettata dal Chitarrella, monaco napoletano della fine del Settecento, estensore delle norme del tressette e dello scopone. Regola numero uno: cercare di guardare le carte dell’avversario. Poi tutto il resto. Il che nel nostro caso significava copiare, rubare a man bassa dalla realtà, dalla letteratura, dagli accadimenti personali, dal cinema talvolta, e solo in un secondo momento preoccuparsi di modificare e nascondere le fonti di ispirazione, per evitare possibili plagi o querele. Furio amava parlare e raccontare indefessamente, tirando giù Dickens, Pirandello, Chaplin, Cechov, Dostoevskij e Tolstoj e insisteva sul fatto che se il cinema si nutre solo di cinema «non può accadere che vengano dei bei film». Un film ha bisogno di musica, di letteratura, di teatro, di fotografia, di poesia, di architettura, di sapienza e di vita reale, ripeteva. Age & Scarpelli erano davvero complementari come marito e moglie, e la loro grandezza nello scrivere quasi trecento film insieme è lì a testimoniarlo. Mai coppia fu più prolifica e fedele, e la rottura della ditta dopo più di trent’anni di sodalizio, nei primi anni Ottanta, fu una separazione sanguinosa, anche se avvenuta senza alcun clamore. Una scena figlia, anche questa, ma altrettanto dolorosa.
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Open house! (Paola) Open house! Chissà perché si divertiva tanto a ripetere ’sta cosa. Lo diceva e gli scappava da ridere. Forse perché le sue citazioni preferite in genere erano in trevicano, questa in inglese doveva sembrargli una pomposa auto presa in giro. Open house erano i giovedì di giochi a casa nostra. Chi voleva giocare sapeva che poteva venire, non c’era bisogno di avvertire: il giovedì sera la casa era aperta agli amici (e in seguito agli amici degli amici, e poi agli amici degli amici degli amici, fino a che la cosa implose per eccesso di partecipanti). L’appuntamento era alle nove e mezzo. A quell’epoca le serate cominciavano più tardi di oggi, eravamo prima della austerity (quel periodo in cui a causa della crisi petrolifera del 1973 ci furono drastici provvedimenti per limitare il consumo energetico). Prima di allora l’ultimo spettacolo al cinema cominciava ancora alle 23 e quando anticiparono l’orario di mezz’ora erano tutti scandalizzati, sembrava che a causa di quella restrizione insulsa il cinema sarebbe morto. Così non fu e la stagione felice del nostro cinema prosperò ancora per almeno due decenni. Gli amici arrivavano alle 21,30 dunque, cenavano in piedi rapidamente, in una mezzoretta al massimo, si contavano, si dividevano in squadre e partivano coi giochi. Non si usava che ognuno contribuisse portando qualcosa per il buffet e mamma si trovava tutte le settimane a imbandire tavolate alla cieca, indifferentemente per quindici o per quaranta persone. Non so come facesse ma aveva affinato una tecnica per cui riusciva a fronteggiare ogni possibilità, e trovava pure il tempo per inventare i giochi della serata, che richiedevano preparazioni anche piuttosto elaborate. Lei comunque non era l’unica a organizzarli, c’erano anche altri
amici che arrivavano con complicati giochi concepiti personalmente. Age era uno di questi e non mancava mai: mentre gli altri andavano e venivano, lui era una presenza certa. Meticoloso nel gioco come nel lavoro, rigoroso e intransigente, si risentiva con chi partecipava senza la dovuta serietà; una volta, esasperato da qualcuno che chiacchierava e faceva confusione, sbottò: «Insomma basta, piantala! Stiamo giocando, non stiamo scherzando!». Una sera sul tardi, portata da chissà chi, fece ingresso in salotto Patty Pravo. Aveva vent’anni, era la regina del Piper, girava con due levrieri su una Rolls Royce bianca guidata da un autista nero ed era abituata a essere la guest star assoluta ovunque andasse. Anche da noi il suo arrivo portò parecchio scompiglio ma solo perché essendo arrivata in ritardo sballava gli equilibri delle squadre. Venne smistata sbrigativamente da qualche parte e il gioco riprese immediatamente come se niente fosse. Durò poco, lei non si divertì e presto lasciò la serata, incredula. Un’altra volta Age si presentò con un gioco alla cui preparazione aveva dedicato tempo e pazienza, si trattava di una lunga registrazione di rumori e suoni, dei quali bisognava indovinare la natura. Scoppiò un indiavolato contenzioso fra le squadre per un suono che secondo alcuni era a trabocchetto: sembrava il rumore della pipì che scende nel water ma in realtà era il suono del tè versato dalla teiera in una tazza, che imitava con pause e riprese il gocciolio della pipì. Nessuno accettava di perdere il punto di quella manche: vinceva il tè o la pipì? Ogni settimana era una lotta all’ultimo sangue per chi si aggiudicava la vittoria, la squadra che aveva fatto più punti vinceva. Quando andava bene il premio era la vittoria stessa; e quando andava meno bene c’erano in palio ricchi premi riciclati. E questi erano appannaggio di papà, che non si occupava di nulla nell’organizzazione micidiale di quelle
serate, salvo, quando ne aveva voglia, dare fondo al ciarpame che c’era in casa, impacchettarlo e metterlo in palio. Era essenzialmente un escamotage per smaltire i premi più pacchiani che riceveva in quantità per il suo lavoro, dalle sagre di paese ai più sperduti e piccoli festival; in seguito, quando i giovedì di giochi finirono e papà e mamma cambiarono casa e si trasferirono a via Mercalli, questi trofei venivano disseminati e dimenticati nelle aiuole del terrazzo della nuova casetta. «Abbiamo preso un portierato» ripeteva papà riferendosi a quella nuova sistemazione, molto più piccola di via Bertoloni e al piano terra; mamma, previdente, non voleva scale di accesso in vista dell’età che avanzava. Ma tornando a via Bertoloni e alle serate di giochi, a volte si prendevano a pretesto i premi per fare dei regali. Amidei per esempio non accettava che gliene si facessero per il suo compleanno. Era scapolo e aveva eletto mamma a suo referente di fiducia per quanto concerneva le questioni domestiche. Lei aveva da poco scoperto le gioie della pentola a pressione (che dimezzava i tempi di cottura dei cibi) e aveva deciso di regalarla a Sergio, il quale durante le riunioni di sceneggiatura a casa sua insisteva perché i colleghi restassero a pranzo, per non interrompere troppo a lungo il lavoro. Ma in cucina era un grande impastrocchiatore e riciclatore di avanzi, famoso per i suoi minestroni nei quali metteva di tutto, e che è stato lo spunto per lo «zuppone alla porcara» dell’episodio Hostaria! di I nuovi mostri, quello in cui Gassman e Tognazzi si azzuffano nella cucina della trattoria mandando nel pentolone della zuppa qualunque cosa, compresi un sigaro, dell’uva e una scarpa. Monicelli, cauto, preferiva sottrarsi a quegli inviti: «Buoni i minestroni di Amidei, però… pericolosi». Insomma per riuscire a consegnargli un regalo, papà e mamma dovettero inventarsi una formula apposita per quella serata, una cosa tipo «premio al miglior quartultimo della squadra perdente», e finalmente Amidei entrò in possesso della pentola a pressione della quale da allora non poté più fare a meno.
Ma i giocatori del giovedì non vincevano solo i premi racchi ricevuti da papà, c’erano anche tanti regali da riciclo di cui disfarsi: bomboniere, instant books, ninnoli di varia natura… C’è un richiamino di questo in La famiglia: in una delle numerose liti isteriche delle tre zie, Gassman fa scivolare sotto il loro naso una barocca damina di ceramica della quale si vuole liberare, nella speranza che la fracassino; cosa che immediatamente accade. Nell’occuparsi dei premi papà pescava in giro per casa oggetti che gli sembrava potessero andar bene. Una volta successe con una bambola di panno, un’arcigna matrona vestita di nero che gli sembrava un vecchio straccio e che incartò per bene. La vinse Monica Vitti che quando la scartò perse la testa. Mamma invece perse il colore dalla faccia e rimase impietrita. La cosa non sfuggì a papà che capì che doveva aver fatto una smarronata; appena gli ospiti se ne furono andati, chiese spiegazioni a mamma ma lei non ne diede: è fatta così, è sarda e orgogliosa. Gli fornii io qualche indizio: la bambola era un pezzo di antiquariato russo, un coprisamovar ricamato a mano, che mamma si era faticosamente aggiudicato a un’asta e che stava per portare a restaurare. Il giorno appresso la Vitti ricevette il seguente biglietto: Cara Monica, sono qui a ricattarti: restituiscimi la bambola che hai vinto ieri sera e sei la protagonista femminile del mio prossimo film insieme a Marcello. Decidi senza fare domande. Ettore. E così avvenne che Monica Vitti fu la meravigliosa Adelaide Ciafrocchi di Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca, ruolo che per la verità papà aveva già deciso di affidarle, ma fortunatamente non glielo aveva ancora detto, e potette fingere di ricattarla in tutta scioltezza. Una decina di giorni dopo papà consegnò a mamma un sontuoso pacco. Era la bambola perfettamente restaurata. Lei, come non aveva fiatato quando gliela avevano portata via, non fece una piega nemmeno adesso ma non potette controllare la vampa che le incendiò il viso come un fiammifero.
Ce l’ha ancora la sua arcigna matrona russa. È addetta all’accoglienza nella casa di via Mercalli, piazzata al centro del divanetto dell’ingresso dal quale assolve al suo compito col sussiego che si conviene a una nobildonna del suo rango. Capisco che la Vitti abbia rosicato nel doverla restituire, però il baratto è valso la candela e lei è diventata l’eroina di «quel capolavoro pop che fu Dramma della gelosia». 5 Come si intuisce dal titolo si tratta di una tragedia d’amore, un triangolo (il titolo della versione inglese del film infatti fu Pizza Triangle) formato da Oreste, muratore romano, Mastroianni; Adelaide, fioraia al Verano, Vitti; e Nello, pizzaiolo toscano, un promettente giovanotto di nome Giancarlo Giannini. A uno sguardo distratto il film potrebbe sembrare una commedia qualunque, ben fatta, magari anche raffinata ma come ce n’erano tante negli anni Settanta. E invece no: ci sono una quantità infinita di invenzioni, di innovazioni, di sperimentazioni. Innanzitutto il processo: senza mai entrare nell’aula del tribunale i personaggi del film ricostruiscono la vicenda estraniandosi via via dalla scena e diventando testimoni: si avvicinano all’obiettivo, guardano in macchina e rispondono alle domande del pubblico ministero, mentre sullo sfondo prosegue normalmente l’azione. Testimonianze di tutti ma non di Adelaide, che è la vittima del dramma, e essendo morta non è un testimone; cionondimeno è la voce narrante di tutta la storia. E poi la lingua inventata, una mescolanza frutto dei fotoromanzi, delle canzoni d’amore, dei romanzetti rosa e dei corsi basic di audio-inglese; la commedia musicale, in cui gli amanti duettano in tutta disinvoltura strafalcionando l’italiano; le crisi esistenziali nel proletariato (in opposizione a quelle della borghesia di Antonioni) e le spiagge di immondizia (in opposizione a quelle di sabbia bianca di Lelouche); il moscone che annuncia la presenza di Oreste (al posto di farfalle e uccellini); il tema del personale e politico che non era mai
stato individuato prima ma che poi divenne un topos della Sinistra italiana… insomma, una miniera di roba. E questo vale per tutti i film di papà: in ognuno ci sono novità assolute che poi sono diventate normale amministrazione nel cinema. Per il ruolo del muratore alienato che accidentalmente uccide la donna della sua vita, Mastroianni vinse il premio per il miglior attore a Cannes. Pur non essendo appassionato di giochi Marcello era un frequentatore assiduo dei giovedì sera perché era appassionato di qualcos’altro, e precisamente della leggendaria pasta e fagioli di mamma (quella che riusciva a moltiplicare come i pani e i pesci, secondo l’affluenza). Mastroianni era un cultore del cibo in generale ma soprattutto dei fagioli ed era capace di accettare o meno un film in trasferta in base alla cucina e ai ristoranti locali. Per la pasta e fagioli di mamma era disposto perfino a giocare. Lo stesso faceva suo fratello Ruggero Mastroianni, uno dei più grandi montatori cinematografici che abbiamo mai avuto, del quale il nostro lessico familiare si pregia di avere una perla. Erano a cena da amici e la padrona di casa appena servito il caffè inaspettatamente volle organizzare una seduta spiritica. Imbarazzo di alcuni, entusiasmo di altri. Gli entusiasti si misero attorno a un tavolo, gli scettici, fra i quali papà e Ruggero, rimasero sul divano a chiacchierare; finché non venne imposto il silenzio e le luci si abbassarono. Molto compresi nella loro impresa gli spiritisti, con le mani aperte sul tavolo e i mignoli a contatto per formare la «catena», trattenevano il fiato: la suspense era densa da tagliarsi col coltello. Il silenzio fu squarciato all’improvviso dalla voce di Ruggero che dal divano chiese prosaico: «Se po’ fuma’?». Scompiglio generale con indignazione degli entusiasti ed entusiasmo degli scettici esilarati dal gesto dissacrante.
Ed ecco che «Se po’ fuma’?» fu lessico familiare per sempre! E viene evocato ogni volta che ci si trova in una situazione di sacralità per qualche solenne stronzata.
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Mani bucate (Paola) Papà era un pagatore seriale, compulsivo. Nella vita ha guadagnato quello che ha voluto ma ha sempre speso di più. E senza mai comprare nulla. Spendeva soltanto per cose effimere: ristoranti, bar, regali… Prestava soldi agli amici senza mai farseli restituire, per la disperazione di mamma che doveva far quadrare i conti e faceva salti mortali per controbilanciare la sua generosità. «Ettorù, i soldi finiscono, non si possono regalare.» «Infatti è un prestito.» «Che non ti farai restituire.» «Gì, ti attacchi sempre ai dettagli.» «Ettorù, tu mi esasperi.»
La rimproverava di stare sempre a guardare il centesimo, lei gli ribatteva che se non avesse fatto così lui sarebbe stato costretto a fare film che non avrebbe voluto fare, o peggio, pubblicità, come toccava fare a tanti suoi colleghi con mogli esigenti e scialacquatrici. Mi ricordo che morivo appresso alle arance che c’erano a casa di Livia, la mia amica del cuore di sempre: grosse, dolci, succose, da perdere la testa. Mi chiedevo dove riuscissero a procurarsi quei frutti pazzeschi dato che a casa nostra circolavano solo arance piccole e striminzite. Solo quando sono andata a vivere per conto mio e ho cominciato a fare la spesa ho capito che quella di casa nostra doveva essere stata una scelta di economia domestica; lo chiesi a mamma e lei mi rispose che non ci possono essere due sperperatori in famiglia, uno deve pur fare il lavoro sporco.
Così come la tirchieria, la generosità non riguarda solo il denaro ma è un’attitudine che investe tutti gli ambiti della vita. Papà era generoso di sé, dei suoi sentimenti, del tempo e l’attenzione che dedicava alle persone. Quelle che sceglieva lui naturalmente, con quelle che non riteneva degne era scostante e di un’arroganza insopportabile. Era intransigente anche per quanto riguardava il lavoro: faceva solo i film che voleva, col tempo che ci voleva, senza accettare compromessi, senza mai fare scelte vantaggiose. Sì, perché come se non bastasse, alle mani bucate si aggiungeva anche un’alterigia e un atteggiamento di disprezzo del denaro per cui è rimasta storica una frase dell’avvocatessa Giovanna Cau – impetuosa agente cinematografica di papà e di mezzo cinema italiano, inarrestabile forza della natura da lui soprannominata «Apocalypse Cau» – che gli urlò contro: «Voi Scola come sentite puzza di soldi scappate!». Era riferita alla decisione di mandare a monte un film con Berlusconi, rinunciando a un contratto miliardario; o anche a quando per Che strano chiamarsi Federico papà non volle compenso: «Io sono in pensione e non lavoro più, questo è solo un regalo a Federico». E mamma: «Il regalo lo fai al produttore, non a Federico!». «Non mi interessa, io lo faccio a Federico, se qualcun altro poi ci guadagna anche, tanto meglio.» Ha cominciato a sedici anni con i primi introiti del «Marc’Aurelio» a spesare gli amici di tutto, cinema, teatri, pizzerie, e appena ha potuto ha regalato al fratello una Lambretta. Ha continuato così, pagando e regalando per tutta la vita, fino all’ultimo giorno. Dunque spendeva e spandeva come se fosse stato ricco, nessuno poteva pagare se c’era lui al tavolo. Uno solo riusciva a tenergli testa in queste lotte all’ultimo conto: Marcello Mastroianni. I due, oltre alla compulsione a pagare condividevano molte manie e molte passioni. Si regalavano capi di abbigliamento identici, e andavano in giro vestiti uguali, come due gemellini. Il Loden grigio che Mastroianni indossa per tutto il film in Che ora è, lo portava anche papà dietro la macchina da presa; era stato un regalo di
Marcello da Londra che adocchiato quel cappotto in una vetrina ne aveva comprati due identici, uno per sé e uno per l’amichetto suo. Altra passione condivisa erano le scarpe Church – rigorosamente coi lacci, mai i mocassini! – specialmente modello Duilio, meglio ancora se bicolori. Le Duilio compaiono sempre nei disegni di papà: se di un uomo disegna le scarpe nei particolari, sono sempre stile Duilio, quelle coi buchetti. E proprio in Che ora è è raccontato questo vezzo di portare le stesse cose: il padre compra due paia di scarpe uguali, uno per sé e uno per il riottoso figlio che non le vorrebbe. Poi ci sono le frittate, altro oggetto d’amore comune, che hanno un posto in tanti film di papà: Trevico-Torino, Giornata particolare, Concorrenza sleale, Gente di Roma… Però seguivano due scuole di pensiero opposte: papà le voleva solo ben cotte, completamente asciutte all’interno, mentre Marcello le preferiva morbide, ancora un po’ liquide: bavose, diceva. Erano a Chicago per le riprese di Permette? Rocco Papaleo e nei ristoranti, per spiegare il tipo di cottura che voleva Marcello si segnava con il pollice l’angolo della bocca e scendeva verso il mento come a disegnare un filo di bava: «Bavos!». Lo guardavano con gli occhi di fuori, allora per meglio spiegarsi bussava ripetutamente con le nocche sul tavolo: «No hard, very bavos!». Queste poche righe sono un estratto di una lettera di ventotto pagine che papà mi scrisse nel marzo del 1971 da Chicago:
Qui si mangia carne e dolci, dolci e carne, carne col dolce sopra, dolci con la carne sotto; in molti ristoranti servono soltanto carne insalata e dolci. Ciononostante credo d’essere ingrassato perché dalle 8 a.m. attacco con un paio d’uova poached o boiled o scrambled o fried o on a bed of spinachs. È arrivato Mastroianni (con la Deneuve) ed è registrato in albergo con il nome di Rocco Papaleo. Quando gli telefono chiedo di Rocco Papaleo: un Rocco con la «suite» e la cucina piena di cibi italiani.
Il primo ricordo di una frittata irresistibile, anzi, per la precisione di una filoscia o filoscina (nome dovuto al suo cuore di mozzarella filante) risale al 1938 e alla visita di Hitler
a Roma, quella che ha ispirato Una giornata particolare, papà andò con nonno a via dell’Impero a vedere la parata; aveva sette anni e il ricordo più intenso di quella giornata fu il pane e frittata che nonna gli aveva preparato, la filoscina, al quale non resistette e che divorò subito, alle otto di mattina. E infine c’era la predilezione di Marcello per le sise a pera, un po’ scese e morbide, non i palloni insomma (sise: termine romanesco per definire il seno femminile). Papà si trovava d’accordo ma, agli aggettivi qualificativi necessari, aggiungeva «pesanti». Ricordo una delirante dissertazione sul tema nella galleria Umberto I a Napoli durante una pausa della lavorazione di Maccheroni, dove pian piano si era formato intorno a loro un capannello di amatori dell’argomento. L’altra insana passione di papà erano le uova sode, questa in solitaria, non condivisa con Marcello. Le uova sode gli allietavano la colazione del giorno di Pasqua perché allora si sentiva autorizzato a mangiarne quante ne voleva. Mamma racconta che una volta ne mangiò sedici uno dietro l’altro. Capitò che Pasqua cadesse proprio mentre erano a Chicago per Papaleo, e che papà volesse la sua tradizionale colazione, quindi ordinò una decina di uova sode, hard boiled eggs. Ma il menù dell’albergo prevedeva le uova sode solo insieme all’insalata e non c’era possibilità di ordinarle separatamente. «Perché?» chiedeva papà; avrebbe naturalmente pagato il piatto completo però voleva soltanto le uova sode. Il cameriere gli ripeteva pazientemente che non avevano uova sode, ma solo insalata con uova sode. «Ma sono già tagliate?» «No, signore, le uova sono intere.» «Perfetto, allora me le porti.» «Come le ho detto, signore, non abbiamo uova sode nel menù.»
Cercando di mantenere saldi i nervi, papà si imbarcò in un’estenuante contrattazione che comunque alla fine lo vide sconfitto: niente da fare contro il rifiuto sistematizzato della logica. Quindi si arrese e ordinò dieci porzioni di insalata con uova sode. Tolse l’insalata, radunò le uova in un unico piatto e finalmente si godette la sua agognata colazione pasquale. Oltre a Mastroianni, l’altro suo amico della vita è stato Alberto Sordi. Si conobbero nel 1950, quando papà entrò alla radio col gruppo del «Marc’Aurelio»: aveva diciannove anni e Sordi ne aveva trenta. Fu colpo di fulmine reciproco e iniziarono una felice e lunga collaborazione radiofonica. Scrissero insieme il Teatrino di Alberto Sordi che durò anni, inventando una miriade di personaggi fra i quali Mario Pio e il conte Claro. Erano parodie: di una tal Maria Pia che conduceva una trasmissione radiofonica in cui rispondeva alle telefonate degli ascoltatori con problemi d’amore; e l’altra, la contessa Clara, era l’autrice di una seguitissima rubrica di bon ton su un settimanale femminile. Così Mario Pio rispondeva a finte telefonate e finti problemi elargendo consigli che inevitabilmente provocavano equivoci, malintesi, liti e suicidi; e il conte Claro era un nobile decaduto e affamato che raggirando i suoi infelici confidenti cercava di spillare soldi, ma finiva per accontentarsi anche di un cappotto smesso o di uno sfilatino. Il loro sodalizio professionale diventò poi una grande amicizia, tanto che sei anni dopo Alberto fu il testimone di nozze di papà, nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina. Commosso dalla proposta, Sordi si offrì di cantare l’Ave Maria di Schubert ma il permesso gli venne negato: era già successo che persone che volevano cantare, al dunque, non sapendolo fare, avevano rovinato la cerimonia con scene incresciose. Per cui la regola in quella chiesa era ormai tassativa. Il prete che officiava il matrimonio era tedesco e aveva un accento che sembrava la caricatura del crucco che parla italiano, e lo sforzo di tutti, per tutta la funzione è stato cercare di non scoppiare a ridere.
Il mood quindi era quello giusto e quando l’organo partì con le note dell’Ave Maria Alberto, trasgredendo, cominciò a cantare con un filo di voce. Poi ne aggiunse ancora un po’, poi ancora un altro po’, più deciso, sempre più forte fino a dispiegare la sua potente estensione da basso e a cantare a piena voce, serissimamente. E finalmente quella cerimonia che fino a lì era sembrata la gag di un loro film ebbe il suo finale emozionante. Il regalo di nozze di Alberto fu un sontuoso servizio di posate d’argento, comprato da Serra, che mamma e papà hanno usato per tutta la vita. Lo menziono perché ci tengo a sfatare la leggenda metropolitana che Sordi fosse tirchio. Certo non era affetto da disturbo coattivo del pagamento come papà o Marcello, ma non era affatto avaro. Quando gli facevo da aiuto regista è capitato più volte che avendo voglia di pizza bianca, invece che chiederla alla produzione come avrebbe fatto chiunque, mi dava i soldi di nascosto e mi mandava a comprarne tre teglie, per tutta la troupe. Che poi era grata alla produzione pensando che fosse un suo gentile omaggio; ad Alberto stava bene così, ci teneva che non si sapesse, non voleva rischiare richieste e rotture di scatole, quindi alimentava la sua fama di spilorcio che lo preservava dai questuanti. E questuanti potevano essere considerate anche le aspiranti fidanzate che Alberto, come nella miglior – o peggior – tradizione latina, corteggiava e abbandonava. Tanto da arrivare a concepire il suo famoso motto secondo il quale non si sposava per non «mettersi un’estranea in casa per tutta la vita». Però poi dava palate di soldi in beneficienza. Purché non si sapesse. La sua splendida villa di via Druso alle Terme di Caracalla è un’altra dimostrazione della sua generosità: era organizzata per l’accoglienza degli amici, con la piscina, la sala cinematografica per le proiezioni, la grande tavola da pranzo.
Svetta su piazza Numa Pompilio da dove si vedevano le finestre con le saracinesche sempre, rigorosamente e immancabilmente, aperte tutte alla stessa identica altezza; un divertimento di Alberto che era diventata la curiosità e l’attrazione del quartiere. Non è anche questo un segno di generosità?
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Scene figlie (Silvia) Scrivere un film con quei giganti, per di più così intimi da essere quasi parenti anche loro, è stata un’esperienza magica. Ogni film un viaggio. Dalle prime chiacchierate intorno al tavolino di un bar, davanti a un bicchiere, da uno spunto iniziale al saltare tutti in barca per partire su un’idea, ogni film è stata una bellissima avventura. Intanto all’epoca con quegli sceneggiatori si seguiva il metodo Amidei, quindi per cominciare tante chiacchiere, letture, suggestioni e commenti intorno alla faccenda, e poi primi accenni di possibili storie, piene «di bozzi e di buci» come diceva Furio Scarpelli, cioè di scene in più o di scene madri, magari utili al racconto ma non al film, perché lunghe o didascaliche o dai toni troppo accesi. Ricordo Furio che ripeteva sempre a noi allievi: «Non scrivete scene madri. Scrivete scene FIGLIE !». Intendendo scenette minori, a sottrazione, ma che avrebbero potuto essere altrettanto piene di umano pathos, se non di più. Togliere, limare, sottrarre, per avvicinarsi all’osso di quello che si sta raccontando, e lasciare spazio ad altro, alle chiacchiere vuote o alle vicende laterali captate di sguincio. Oltre ovviamente al dovere primario di fare ridere, grimaldello irrinunciabile per raccontare cose serie e farle capire a tanti, come ha fatto la commedia popolare italiana. Ecco perché era così importante per loro scrivere il trattamento, che oggi non si frequenta quasi più: per piantare il fittone, scavare insieme, scrivere a metraggio e abbandonarsi alla riflessione per iscritto, per poi raddrizzare la storia del film solo in un secondo momento. Fase dunque che scatenava appunti, scartafacci, epistolari incrociati, che poi venivano stipati nei cosiddetti fuorisacco: scene e proposte scartate,
collazionate insieme in un copione per essere tenute d’occhio in fase di sceneggiatura, in caso di eventuali recuperi. In La famiglia, film durato tre anni di scrittura per il trio Scarpelli, Maccari e Scola, i brogliacci, i trattamenti e le stesure di sceneggiatura si sono sprecate. Abbiamo uno scaffale intero solo di versioni diverse del film, e il primissimo trattamento che abbiamo ritrovato s’intitola Le gambe delle donne, ovvero: la famiglia. Per dire. Un momento magico, in cui si sta delineando la vicenda del film ma è ancora tutto possibile. Tutto. La qualunque. E nella dialettica con gli altri, spaziare nel tema ed entrare in cunicoli di storie e vicende sconosciute, magari lontane, ma tutte degne di essere raccontate. O anche no, ovviamente. Perciò si rideva molto, tanto più se si era in quattro o in cinque a sceneggiare, perché mettersi a nudo e aprirsi al confronto faceva parte del gioco, e ognuno dava libero sfogo alla propria memoria, vissuta o letta, all’immaginazione e alle idee, senza timore di essere criticato o demolito dai colleghi. La dialettica portava comunque a una sintesi, gli elementi si aggiungevano e il film iniziava a impastarsi. Motivo di molte discussioni tra Age e Furio – e di risate tra noi – era il fatto che Age spesso confutava un luogo o una situazione, solo perché troppo impegnativa o troppo costosa per il produttore. Cosa che mandava letteralmente fuori di testa Furio, che da zero a mille cominciava a urlare: «Age?! Age?!! Age?!!! Ma che cosa dici?!?». Age allora, per amor di polemica, spostava la querelle sul senso della scena e iniziava a demolirla come poteva, urlando di rimando anche lui nel preciso intento di farla bocciare, o modificare, oppure capitolare e lasciarla così. La maggioranza vince e il regista decide. Stop. Consegnato il trattamento al produttore, e di solito arrivata un’altra tranche di pagamento, ci si apprestava a trarne l’adattamento del film, senza aver perso tempo a «sceneggiare» col cesello una scena, o peggio ancora una sequenza, per poi decidere magari di tagliarla di sana pianta. Se per caso si incontrava un personaggio buffo nella vita, o
una situazione particolare, o se si aveva un‘intuizione, o succedeva qualcosa nel mondo di cui tenere conto, ecco che si era subito pronti a cambiare linea narrativa, personaggi, accadimenti. «Lasciamolo lievitare» si diceva spesso dopo aver buttato giù il trattamento. E dopo varie lievitazioni, fatte di riletture e riscritture, quelle pagnotte una volta sfornate venivano molto più buone. Ma tant’è, oggi la scrittura di un film sembra venire per ultima nel processo produttivo; gli autori vengono pagati poco, costretti a scrivere senza anticipo, in tempi brevissimi per rincorrere bandi e scadenze e con il rischio di impresa iniziale tutto sulle loro spalle, vista l’ovvia importanza della scrittura per trovare i finanziamenti per un film. Un circolo quanto mai vizioso. E sceneggiature (di merda) scritte in un mese e mezzo. Cinquant’anni fa non era così, e nemmeno trenta, quando ho cominciato io. Allora neppure i produttori più stracciaroli e scalcagnati si sognavano di non pagare uno sceneggiatore; magari poco, duemila lire o una stecca di sigarette, ma prima di chiedere uno scritto qualunque, idea soggetto o sceneggiatura che fosse, la mano alla tasca l’avevano già portata. Il primo film che ho scritto con papà è stato Che ora è nel 1989, da un soggetto buttato giù da lui durante le riprese di Splendor ad Ariano Irpino, dove girava con Mastroianni e Troisi, rispettivamente il proprietario di un cinema e il suo proiezionista. Grazie a Splendor papà aveva incontrato Massimo e si era innamorato di lui, subito ricambiato, mentre con Marcello si amavano già da molti anni, quindi l’idea di fare un film con loro due protagonisti gli era balenata in testa fin da subito. Papà, quando girava, dovunque fosse nel mondo, mi chiamava e ci facevamo lunghe chiacchierate al telefono. Tra sopralluoghi e settimane di riprese stava via per mesi, e mi è sempre stato vicino così, col telefono, sempre presente pur non essendoci mai. Forse è anche per questo che convivo bene con la sua morte, perché anche adesso non c’è, ma continua a
esserci. Massicciamente. Da Ariano Irpino, dove la troupe si era spostata ad alloggiare per parecchie settimane di riprese, mi diceva che il film andava bene, che Marcello e Massimo funzionavano insieme, e che con Paolo Panelli, coprotagonista libraio insieme a loro, si ammazzavano dalle risate. Panelli, un giorno, dopo un ciak che a Ettore non era tanto piaciuto, gli disse: «Ah ho capito. Mi vuoi più Mitchum?». A fine giornata, dopo aver cenato tutti insieme come in una compagnia di giro, Panelli e Mastroianni si divertivano a rifare le loro famose scenette comiche: lo stitico sul gabinetto, la morte dell’avvocatessa, i due rincoglioniti… Per la gioia di tutta la troupe. E quando andai a trovarli sul set constatai che effettivamente il tasso di cazzeggio era piuttosto alto. Papà mi disse che in quei giorni stava pensando a una storia tra un padre e un figlio, in un rapporto conflittuale e di totale incomprensione, ma pieno d’amore. Un amore mancato ma sempre pronto a essere recuperato. E scrisse rapidamente un soggetto intitolato Conosci Civitavecchia? in cui tratteggiava la storia di un padre e un figlio, estranei da sempre, che si trovano a trascorrere un’intera giornata insieme a Civitavecchia, luogo in cui il figlio sta facendo il servizio militare. Mi chiese se volevo scrivere il film con lui, un film da realizzare in tempi brevi sull’onda di Splendor, e da sceneggiare con Paola e Beatrice Ravaglioli, con le quali già lavoravamo insieme a Studio EL (la bottega di sceneggiatura e scenografia aperta con il suo scenografo storico Luciano Ricceri, dentro Cinecittà); e noi felici – ancorché neomamme tutt’e tre – ci buttammo a capofitto nel lavoro. Tutto meraviglioso, tutto bellissimo, ma sorgevano alcuni problemini: Marcello e Massimo parlavano due lingue d’appartenenza completamente diverse; Troisi era un po’ in là con gli anni per fare ancora il servizio di leva; e Civitavecchia, che immaginavamo triste e grigia a sottolineare lo stato d’animo cupo dei due protagonisti, era in realtà una ridente cittadina portuale, piena di luce e di sole a tutte le ore. Anche perché si girava ad aprile, e il film era ambientato a novembre.
Ma scrivere per il cinema è bello perché è tutto possibile, tutto fattibile, tutto ancora da far esistere. Stabilimmo che la diversità di lingua tra loro sarebbe stato un altro motivo di incomunicabilità tra padre e figlio: di madre napoletana, Michele, il figlio, aveva eletto a propria lingua madre quella napoletana della madre, appunto, e non quella romana del padre, avvocato rampante, perennemente assente in famiglia, temuto e sempre evitato dal figlio timido e complessato. Decidemmo che l’età avanzata di Michele era una fuga, e che il giovane rimaneva in caserma con permessi speciali di permanenza volontaria, dopo il servizio di leva obbligatorio, proprio per scongiurare il rientro a Roma a casa dei genitori. In quanto ai problemi climatici e stagionali, il grande direttore della fotografia Luciano Tovoli, girava nelle ore a cavallo e illuminava albe e tramonti spacciandoli per annuvolamenti e momenti di pioggia; a coadiuvarlo nell’operazione l’altro Luciano, Ricceri, lo scenografo, a rendere cupa e uggiosa quell’assolata cittadina rifugio del povero Michele, che Massimo incarnava perfettamente. L’amore di papà per Massimo è stato molto più profondo di quello provato per tanti dei suoi attori, anche i più amati. Forse si rispecchiava in lui, quel napoletano schivo, mite e riservato, che proprio come lui contraddiceva il cliché partenopeo, di sole mare pizza e mandolini. Papà detestava la pizza, non poteva vedere il pomodoro, e la rumorosità molesta di certi napoletani lo faceva vergognare di essere loro conterraneo. Il mare poi, lo considerava un nemico da guardare da lontano: contro qualunque legge della fisica, il suo corpo nell’acqua non galleggiava ma andava a fondo rapidamente. E non imparò mai a nuotare. Risultato: giacca, cravatta e scarpe inglesi (Church modello Duilio) anche sul bagnasciuga. Anche Troisi era un campano anomalo, e incarnava una maschera di comico napoletano del tutto nuova, inedita, un pulcinella fragile e incapace di ribellarsi, che prende solo mazzate e per salvarsi non riesce a far altro che nascondersi. Ma per lo più soccombe. Una maschera in scena che rispecchiava però la vera natura di Massimo nella vita reale.
Papà era pazzo di lui. Come fosse stato quel figlio maschio che non aveva avuto; anche se lui stesso ripeteva sempre che non era del tutto così, perché nel loro rapporto spesso i ruoli erano ribaltati, e Massimo era il padre e lui, Ettore, il figlio. Insieme ridevano moltissimo e si vedevano anche fuori dal set, preferibilmente da soli, con Massimo che dava buca alla fidanzata di turno per uscire di sera da solo con lui. Troisi era molto corteggiato dalle donne e quando non aveva una fidanzata fissa ne cambiava una a sera. Insieme al suo amico Massimo Bonetti. C’era una trattoria rustica in fondo a una strada boscosa a cinque minuti dal centro di Roma, che si imboccava da via Cassia che si chiamava La Ciotola. Atmosfera familiare, posticino inguattato, a prova di paparazzi. Quando le ragazze si presentavano all’appuntamento acchittate come Audrey Hepburn con enormi cappelli a tesa larga con le quali si sarebbe vergognato a farsi sorprendere in pubblico, fra lui e Bonetti bastava uno sguardo ed era deciso: Ciotola! Le avrebbero portate lì senza tema di essere beccati. «Ettore Scola è la mia donna ideale» dichiarò Troisi in un’intervista a Gianni Minà per la televisione. «Se fosse donna» aggiunse poi en passant. Mentre scrivevamo Che ora è, il fatto di avere la certezza che i protagonisti sarebbero stati Mastroianni e Troisi, facilitava molto il compito di noi sceneggiatori, che potevamo cucirgli addosso i personaggi, come si dice in gergo. La lingua di Massimo, i suoi modi gentili, i suoi disagi e la sua inadeguatezza erano lì a portata di mano, così come le debolezze di Marcello, le sue contraddizioni, il successo, la vecchiaia; e la scrittura veniva da sé. I personaggi erano chiari e sfaccettati e avevamo due attori grandissimi, quindi il lavoro di sceneggiatura è stato veloce e proficuo, appena un anno o poco più di scrittura. C’era ovviamente qualcosa di autobiografico in quel film, il fatto che Ettore fosse nostro padre e noi le sue figlie aggiungeva fonti di ispirazione, e quel rapporto difficile si arricchiva di angolazioni personali. Nella prima divisione dei blocchi, con Ettore, Paola e Beatrice, papà
decise che noi ragazze ci saremmo dedicate al padre, e lui al figlio. Così, per ribaltare le prospettive e rendere più sferici e a tutto tondo i personaggi. Poi nello scambio dei blocchi ognuno avrebbe avuto la facoltà di modificare e aggiungere battute e notazioni sulla prima gettata dell’altro e nella stesura finale le singole mani non si sarebbero più individuate. Adesso che ci penso non finimmo mai di scrivere, in verità, neanche durante le riprese. Come recitava il ciak, il film continuava a intitolarsi Conosci Civitavecchia? che a noi piaceva tanto ma alla distribuzione no, e papà ci chiamò sul set perché gli spunti, le idee e i suggerimenti che venivano da Troisi e Mastroianni erano preziosi e ci voleva lavorare a tavolino. Da vecchio sceneggiatore convinto qual era (aveva scritto settanta sceneggiature prima di esordire alla regia), non credeva all’improvvisazione sul set, neppure quando si trattava di Sordi o di grandi attori comici, perfino le battute di Totò erano scritte per filo e per segno anche se poi naturalmente lui aggiungeva il suo genio. Diceva che se gli autori ci avevano lavorato per mesi e mesi a tavolino, non era pensabile avere la stessa lucidità di giudizio sull’ottovolante e nel caos assoluto del set, e che perciò le modifiche all’impronta sarebbero venute male obbligatoriamente. Sul lavoro lo chiamavo Ettore, sia perché mi pareva più dignitoso mantenere le distanze, soprattutto nelle liti di sceneggiatura, sia perché quando scrivevamo a otto mani con Furio e Giacomo (Scarpelli) i «papà» si sprecavano, raggiungendo equivoci e gag infinite: «Papà mio o papà tuo?», «No, papà suo!». E così decidemmo che «papà» sarebbe stato Furio, che Giacomo si rifiutava di chiamare per nome, mentre Ettore sarebbe stato «Ettore» per tutti. E così fu. Insomma Paola, Beatrice e io, convocate da papà a Civitavecchia, parlavamo con lui nei ritagli di tempo, leggevamo con Massimo e Marcello alcune scene e aggiustavamo la sceneggiatura durante l’ora di pausa o la sera dopo cena. Poi noi tre ci chiudevamo in camera a scrivere, e il giorno dopo Ettore rivedeva e correggeva, prima di consegnare agli attori e alla troupe per girare.
Eravamo tutti molto soddisfatti, attori e produttori compresi, e alla fine lo intitolammo Che ora è. Senza punto interrogativo.
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4 capolavori e ½ (Paola) A mio sommesso avviso la graduatoria dei film di papà è così composta: quattro capolavori e mezzo, una dozzina di film bellissimi o belli, altrettanti meno riusciti, tre film a episodi (a più mani) e quella che Silvia e io, per sfotterlo, chiamiamo la «Trilogia»: i suoi primi tre film da regista, tre stronzate assolute, commedie solo comiche, senza la minima traccia di impegno o di quello che sarà poi il suo cinema; cioè subito prima del giro di boa che avvenne con Riusciranno i nostri eroi…? Quando gli nominammo la Trilogia per la prima volta non riusciva più a smettere di ridere. È composta da: Se permettete parliamo di donne (1964), film a episodi ragionevolmente antifemminista; La congiuntura (1965), umorismo inglese allo stato puro e nulla più; e L’arcidiavolo (1966), divertissement pseudo storico. Poi c’è anche una decina fra documentari e film militanti e collettivi, nonché una settantina di sceneggiature per Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Walter Chiari, Alberto Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi… delle quali cito soltanto Un americano a Roma e Il sorpasso. In una lunga conversazione filmata, il grande critico Lino Micciché, a proposito di Se permettete parliamo di donne, gli disse: «Alcuni di noi erano stupefatti da questo tuo esordio che andava benissimo dal punto di vista professionale ma che non conteneva il mondo complesso dei film che avevi scritto per Pietrangeli o per Risi». 6 In effetti, contemporaneamente alla preparazione di Parliamo di donne, papà stava scrivendo Io la conoscevo bene, film pioniere del femminismo, di Antonio Pietrangeli. Ma i «mondi complessi» del cinema di Scola arriveranno, tempo al tempo.
Intanto, non avevo ancora dieci anni, e papà qualche volta mi portava con sé in un posto fantastico, meglio del luna park, che oggi non esiste più: la sala di incisione del rumorista. In quegli anni non c’era ancora la presa diretta e il sonoro di tutti i film veniva ricostruito in sala. Gli attori erano doppiati, da loro stessi o più spesso da doppiatori professionisti, e i rumori e gli effetti sonori venivano ricreati in una sala apposita. Quella di Antonio Cacciottolo, leggendario mago dei rumori del cinema italiano, sembrava il magazzino di un rigattiere: c’erano grovigli di cordame, cumuli di stoffe, bacinelle e catini, copertoni, innaffiatoi, pattini di metallo, vasche di pietra piene d’acqua, biciclette, sacchi di sabbia, di ghiaia, di terra. C’era un armadio solo di scarpe della sua misura, con suole di cuoio, di para, di sughero e con tacchi di tutte le altezze, a spillo, a zeppa, a rocchetto, a cuneo; stivaloni di gomma da pescatore e di cuoio da cavallerizzo. Chiavi, martelli, seghe e seghetti, campanelli, sveglie e orologi a pendolo, a cucù. Pedane di legno, di maiolica, di catrame, di linoleum, per riprodurre i suoni dei pavimenti. Nel mezzo della stanza c’era il suo grande bancone da lavoro, sulla parete uno schermo sul quale passavano le immagini del film coi rumori da ricreare, e microfoni dappertutto. In un angoletto c’era il fonico che dalla sua consolle divideva tutto il film in anelli, ossia in spezzoni di durata varia secondo i rumori che andavano ricreati, li proiettava e registrava il lavoro di Cacciottolo. La magia vera era che i rumori venivano prodotti in tutt’altro modo da quelli originali: sullo schermo passava una moka col caffè che gorgoglia sul fornello? Cacciottolo ricreava quel gorgoglio soffiando con una cannuccia in un bicchierone d’acqua. C’era un cavallo lanciato al galoppo? Lui sbatacchiava due gusci di noci di cocco e riproduceva il rumore degli zoccoli. Passi in un bosco? Agitava una matassa di pellicola aggrovigliata. Passi nella neve? Camminava sopra uno strato di sale grosso sparso per terra. Staccando i petali a una pigna secca riproduceva il rumore del ghiaccio incrinato;
per una tempesta di vento faceva vibrare una lastra di alluminio; per lo scroscio della doccia rovesciava l’acqua su uno scolapasta di metallo; per i film di scazzottate usava una mazza da baseball contro un quarto di bue appeso. Diceva che la bravura del rumorista sta nel non farsi sentire, nel non esistere: «Meno ci si accorge del tuo lavoro, più sei bravo». Parlando dei suoi colleghi, quando in un film si sentiva che gli effetti erano effetti, scuoteva la testa: «Si sente il rumorista». Ognuno dei suoni che ricreava doveva poi essere in sinc, cioè in sincrono, in coincidenza perfetta con l’azione sullo schermo, esattamente come si fa per il doppiaggio. Se un sinc saltava, cioè se il suono di un passo non corrispondeva esattamente col momento in cui l’attore poggiava il piede in terra, il lavoro andava rifatto da capo. L’anello ripartiva e Cacciottolo ricominciava. E doveva ricominciare anche se qualcuno entrava nella stanza facendo rumore: la colonna era rovinata e bisognava rifare tutto l’anello. Cacciottolo imprecava dentro di sé ma era un signore, romano e ironico; si fingeva lieto della visita e invitava ad accomodarsi: «Venga venga!». Papà si sganasciava e il nostro glossario familiare si arricchiva di un’altra voce; ricorreva a «Venga venga!» ogniqualvolta arrivava qualcuno a dare fastidio: sul set durante una ripresa; in una stanza dove aveva appena addormentato un nipotino, o anche se lo beccavi in bagno mentre pisciava con la porta socchiusa: «Venga venga!». Purtroppo questo bel mestiere, così com’era, oggi è estinto: i suoni sono digitali e si fanno al computer. Col passare di quegli anni però cominciano ad arrivare non solo i “mondi complessi” auspicati da Miccichè ma anche i capolavori: C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare e La famiglia. Ma sono quattro. E il «mezzo»?
Non lo conosce quasi nessuno, è un piccolo film dal titolo ’43-’97 e lo considero «mezzo» non perché valga la metà, ma perché dura solo nove minuti. Fortunatamente (se non l’hanno ancora tolto) è visibile su YouTube. Faceva parte di un film a episodi dal titolo I corti italiani, dieci cortometraggi in cui i «vecchi» Monicelli, Pontecorvo e Scola facevano da apripista al debutto di giovani sceneggiatori, registi e tecnici. I tre vecchi riuscirono anche a far varare una normativa che prevedeva che i cortometraggi venissero proiettati nelle sale cinematografiche prima dei film, come si fa con la pubblicità, in modo da diventare trampolino di lancio per giovani autori. Ma come tutte le cose da noi il progetto naufragò senza un vero perché. ’43-’97 sono due date: il 16 ottobre del 1943, giorno del rastrellamento nazista al ghetto di Roma, e un giorno qualunque del 1997, anno del cortometraggio. La Gestapo al Portico d’Ottavia arresta 1200 ebrei, carica sui camion intere famiglie, uomini donne vecchi e bambini, per deportarli ad Auschwitz. Un ragazzino di una decina d’anni riesce a scappare e a seminare il nazista che lo insegue rifugiandosi dentro un cinema. Sudato e tremante si nasconde nel buio della platea. Sullo schermo sta passando un cinegiornale: Mussolini, parate militari, Hitler che arringa la folla in tedesco. L’immagine dissolve su Charlie Chaplin che blatera in una lingua inesistente nei panni de Il grande dittatore, arriva Anna Magnani che cade fucilata in Roma città aperta, e poi Ladri di biciclette, I soliti ignoti, Il sorpasso, Il gattopardo, E la nave va, Una giornata particolare, Ricomincio da tre, Nuovo Cinema Paradiso, Palombella rossa, Il ladro di bambini e infine La tregua, con l’abbattimento del cancello di Auschwitz e la liberazione dei prigionieri, del maestro Franco Rosi.
Le luci in sala si riaccendono e il ragazzino ebreo, in questi cinquant’anni di cinema, è diventato vecchio. È commosso, si asciuga le lacrime e gli occhiali. Improvvisamente sente dietro di sé i passi concitati di qualcuno che scappa, braccato da qualcun altro che vuole fargli del male: è un ragazzo nero che sudato e tremante si nasconde fra le poltrone della platea, proprio come aveva fatto lui cinquant’anni prima. Gli sorride e l’extracomunitario, dopo un momento di diffidenza, ricambia. È nel rifugio giusto: il cinema, la cultura, forse sono la salvezza. Questo era l’ottimistico messaggio di papà. Ma da quel film sono passati altri ventidue anni e il problema rimane ancora scandalosamente attuale.
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«Hai temperato le matite?» (Silvia) «Hai temperato le matite?» «No Furio, scrivo con la penna.» «Male.»
Si arrivava alla Mass Film intorno alle nove e mezzo di mattina, con i giornali, alcuni già letti altri da leggere, libri, scartafacci vari, ognuno i suoi, e dopo i saluti e le prime impressioni del giorno con il caffè, ci si metteva a lavorare tutti intorno al tavolone. E Scarpelli esordiva puntualmente con quella domanda: «Hai temperato le matite?». A volte, quando ci si riuniva a casa di uno dei due, cosa che accadeva nella fase di lavoro delle prime chiacchiere, sia Ettore che Furio facevano la punta alle matite anche col temperino, nel senso di coltellino, che sulle rispettive scrivanie non mancava mai. Erano nati tutti e due con la matita in mano, e quel dono lo hanno tramandato anche a qualcuno dei nipoti, sia l’uno che l’altro. Pietrino, il mio secondogenito, che già da bambino disegnava molto, chiamava i trucioli di matita la temperatura: «Guarda quanta temperatura ho fatto, mami!». (O cancellatura, se si trattava di gomma, a seconda). Per papà la matita era un amore assoluto, sicuramente legato ai suoi esordi e alla sua infanzia di disegnatore in erba, così come per Furio probabilmente, figlio del grande disegnatore Filiberto Scarpelli. Quell’esortazione ripetuta da Furio ogni giorno, però, passione a parte, mi ha fatto capire quanto fosse metaforica: fare la punta alle matite per uno scrittore era come affilare i coltelli per un macellaio: un avviamento al lavoro pieno di buoni proponimenti.
Per noi sceneggiatori, poi, significava molte altre cose. Era un invito ad affinare lo sguardo, a cercare di tratteggiare con precisione quello che ci si accingeva a raccontare, e a essere sempre pronti a cancellare per ripartire da capo: «Cento volte la prima pagina» ripeteva Furio. «E gomma nella fondina.» Cosa che papà ci aveva insegnato fin da piccole e metteva in pratica accanitamente, facendo nottata sui copioni. Perché la lingua, la scrittura e la narrazione del pensiero sono cose delicate che vanno maneggiate con cura. In punta di matita, appunto. Ho scritto con loro a sei mani, o a otto se c’era anche Giacomo (Scarpelli), due film e mezzo: Concorrenza sleale, La cena e Un drago a forma di nuvola, rimasto incompiuto; e, inutile dirlo, alzarsi la mattina per andare a lavorare era un piacere straordinario. Preparavo i bambini, la colazione, le merende, li portavo a scuola, facevo la spesa, cucinavo, ma il pensiero alla nostra vicenda era costante. I personaggi, come ben aveva descritto Pirandello, vivevano di vita propria e mi apparivano continuamente fra i piedi nell’arco di tutta la giornata. Magari nella riunione del giorno prima era venuto fuori un racconto o un accenno alla figura laterale di un romanzo che assomigliava al caso nostro, e allora ci si premurava tutti di leggerlo, o rileggerlo, pregustando quanto ci si sarebbe detti il giorno dopo. Così, suggestione dopo suggestione, riunione dopo riunione, gli strati si sommavano e lo spessore dei personaggi lievitava; la vicenda si sfaccettava e la luce del racconto si illuminava di mille colori. Ettore e Furio, e anche Age, e anche Maccari e anche Amidei, avevano una dedizione nel delineare i personaggi, etica prima che professionale, che spesso dalle loro matite anche i ruoli più marginali o di passaggio avevano lo spessore e la completezza dei protagonisti, sia pure di quell’unico momento della loro esistenza nel film. La figura del conte Treuberg, lituano rifugiato in Italia, in Concorrenza sleale, ne è un esempio perfetto. Detto Tic-Tac, il
conte Treuberg (Claude Riche) è un orologiaio amico di nonno Mattia (Jean-Claude Brialy), bottegaio ebreo e nonno di Lele, che compare tre volte nel film ed è indimenticabile. La prima è quando nonno Mattia va con Lele e Pietruccio a ritirare un orologio da tasca nel suo negozio – mezzo metro per due, il negozio più piccolo del mondo – e il fuoruscito parla all’amico in una lingua strana che li accomuna. «Lo yiddish è una lingua senza peli sulla lingua» dice nonno Mattia per evitare di tradurre ciò che di scurrile ha detto Tic-Tac, «ebreo molto spiritoso» come lo presenta il nonno ai due bambini, e inguaribile ottimista. Rannicchiato nel cuore del Bel Paese, e godendo anche di un raggio di sole che batte nel suo minuscolo negozio, il conte Treuberg si bea della pusillanimità degli italiani che non rispettano i patti né le regole, mai, e che trovano sempre mille scappatoie per aggirare le leggi: perché mai dovrebbero rispettare quelle razziali? Chiede ridendo all’amico, ebreo anche lui. In un altro incontro poi, in bottiglieria, con nonno Mattia e suo figlio Leone (Sergio Castellitto), ora che tutti gli esercizi degli ebrei vengono chiusi per decreto, Treuberg pieno di fiducia dice che a lui è bastato regalare un cronografo d’oro a un funzionario del ministero per non chiudere bottega e avere la licenza in ordine, semplicemente retrodatando la data sul suo documento. Così ha promesso il funzionario. Continua a ridere da solo. Facce contrite intorno a lui. TREUBERG : LEONE :
Così lui dice. Voi cosa dite? Credo questo possibile.
Secondo me, quello s’è fregato er cronografo e buonanotte ai
suonatori. NONNO MATTIA :
Credo questo possibile. Saluta il tuo cronografo, Tic-
Tac.
In un terzo incontro per strada, Treuberg confessa all’amico che basterebbe una mancia di 300 lire per ottenere il visto e partire subito per l’America. «E almeno non ti vedo più» aggiunge sarcastico.
NONNO MATTIA :
Ma non ci hai paura che si fregano pure le trecento lire,
come col cronografo? TREUBERG :
No. E come fanno? (Ride) Io non ce le ho.
Nonno Mattia sa bene che non rivedrà più il denaro e non rivedrà più neppure il suo amico. E gli dà tutti i soldi, contati, in mano. TREUBERG :
Olà, danke!
NONNO MATTIA : TREUBERG :
Oh, so’ trecento, eh?
Io segno tutto, ebreo, non ti preoccupare… E stasera
andiamo al concertino di Dame viennesi al Caffè Esedra e tu offri cioccolata calda. NONNO MATTIA : TREUBERG :
Ah, no no, sei tu che offri.
Ah… be’, sì…
NONNO MATTIA :
Eh, be’, sì!
E così, di spalle, con animo lieto e totale fiducia nell’uomo, questo minuscolo personaggio esce di scena per andare ad aggiungersi ai numeri indecenti dell’Olocausto. Dal che ne consegue che le uniche leggi che l’italiano riconosca sono quelle sbagliate. Le uniche che rispetti. Ecco, tutto questo in tre dialoghetti, meno di cinque minuti di film, per restituire il ritrattino dell’amico di un personaggio già molto secondario, qual è il nonno; in gergo una pennellata, breve, ma che può gettare luce su un’infinità di cose. In questo senso le chiacchiere del metodo Amidei entravano nei film; era un modo di impregnare la materia di considerazioni diverse che poi filtravano, magari da uno spioncino, e diventavano occasioni per affondare il coltello nella piaga. Madri, nuore, suocere, figli, passanti, cognati, fiorivano dovunque. Ognuno per dire una cosa, molto significativa o semplicemente una cazzata, tanto per ridere. Il cognato, poi,
non mancava mai e per lo più incarnava un mantenuto senza alcun talento, nullafacente, che circola per casa in mutande, giarrettiere e retina in testa, parassita della propria famiglia e quindi della società. Diretto discendente del Gagà che aveva detto agli amici del «Marc’Aurelio» – «il settimanale che informa, diverte e porta fortuna», come recitava l’occhiello. Alle figure minori di portieri e portinaie: da quella, memorabile, coi baffi, di Una giornata particolare eco e spia del regime nazifascista; a quella di La terrazza la signora Costanza («Sora Lella» Fabrizi), portiera dello stabile in cui vive lo sceneggiatore Enrico (Jean-Louis Trintignant), che avvisata da sua moglie (Milena Vukotic), chiede di spostarsi a un fruttarolo ambulante che giù in strada sta urlando in un megafono proprio sotto le finestre dello sceneggiatore in crisi. FRUTTAROLO : PORTIERA:
Le persicheeee… Forza donne, co’ le persiche belleeeee.
Che potresti annà un po’ più in là che al quinto piano c’è uno
scrittore che nun pò scrive? FRUTTAROLO: PORTIERA:
Ma che deve scrivere?
Una vicenda sommaria e sciatta che frequentemente scade nel
bozzettismo più vieto. FRUTTAROLO:
Inzeppata di battute di seconda mano che non nascondono
una sostanziale povertà di ispirazione. PORTIERA:
E manco risollevano le sorti di questa grigia stagione
cinematografica. Musiche di Armando Trovajoli, che per piacere te potresti tirà più in là? FRUTTAROLO: PORTIERA:
Rispetto l’arte. Mi sposto subito, io.
Molto bravo.
FRUTTAROLO:
È un dovere.
E si allontana col furgoncino.
Alle figure ancora più out: quella delle gemelle Ce-l’ho-io di Brutti, sporchi e cattivi, le due vecchie strozzine più fije-dena-mignotta di tutti i ladri della baraccopoli; a Gengis Khan,
bombarolo anarchico a Chicago in Permette? Rocco Papaleo; fino ad arrivare al moscone romano di Dramma della gelosia, un insettone nero e rumoroso che segue ovunque Oreste Nardi (Mastroianni) e decide di accompagnarlo nell’arco di tutta la sua storia d’amore con Ciafrocchi Adelaide (Vitti), come fosse una nota romantica, un putto alato o una farfalla; salvo poi diventare insetto del malaugurio, spia di una presenza che spia. SCENA DEL TRADIMENTO
(dalla sceneggiatura di Age, Scarpelli e Scola) Si abbracciano, si tormentano. Di qua dal letto, vediamo volare la camicia di Nello e udiamo la voce spezzata tra pianto e riso di Adelaide: ADELAIDE :
Mai!… mai innamorata in tutta la vita… e poi, appena mi
innamoro di uno, subito mi innamoro di un altro… Due! Due insieme… Chi mi ha stregato! Ma posso campà… così? Silenzio. Un silenzio il cui scopo non è quello di sottolineare eroticamente questa scena, bensì di consentirci di udire l’improvviso e ben noto … RONZIO DI UN MOSCONE . … il nostro sguardo segue l’insetto nel suo zigzagare, e quando questi passa davanti alla finestra che dà sul balconcino, lo lasciamo allontanare e ci fermiamo colpiti: dietro i vetri accostati, tra le persiane aperte per quanto lo permette la lunghezza del gancio c’è il viso di Oreste. Da uno dei suoi occhi sbarrati sull’orrido spettacolo, sgorga una lunga lucente lacrima mentre sul suo volto improvvisamente vecchio trascorre l’ala di un triste pensiero: VOCE DI ORESTE:
Le due persone a me più care!
Ecco che riaffiora di nuovo, aggressivo, il… … RONZIO DEL MOSCONE Di qua dal letto: la testa di Adelaide assomma come spinta da una molla. NELLO F.C.:
Che c’è?
ADELAIDE:
Zit!…
Sbuca anche la testa di Nello, stupita e arruffata. Adelaide è sbiancata: (Bisbiglia:) Oreste! NELLO:
Dove?…
ADELAIDE:
Era qui.
Dettagli che facevano grandi le loro storie. Per papà e Furio, poi, disegnatori compulsivi tutti e due, quei discorsi sui personaggi erano tutti spunti per i loro scarabocchi: dettagli, espressioni, caratteri che componevano i loro «pupazzetti» e proliferavano su fogli e fogli per tutta la scrivania. Scarabocchi, come li chiamavano loro, che appallottolati trovavano presto il cestino. Quando lavoravamo alla Mass, però, i cestini della cartaccia venivano svuotati ogni sera da Anna (Chiavai), storica segretaria della Mass e braccio destro e sinistro di Committeri, la quale li recuperava, li stiracchiava e quelli più belli glieli faceva anche firmare.
Bozzetto per Una giornata particolare.
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Cachupa e maccheroni (Paola) Famiglia e amicizia sono due valori fondamentali che papà ha costantemente trattato nei suoi film e che forse erano uno solo, si fondevano uno nell’altro. Per famiglia non intendeva solo i legami di sangue, famiglia erano gli affetti forti, importanti, di qualunque provenienza fossero. Irene è stata uno di questi. Era nata a Capo Verde e approdata da noi dopo essere scappata dalla casa di un onorevole del Partito liberale italiano dove facevano le tacche sul formaggio per controllare che non lo mangiasse, e che le aveva tolto il sorriso. Impresa complicata perché la voglia di ridere e di giocare Irene ce l’aveva nel Dna. Infatti dal giorno dopo quell’aria mesta sparì dalla sua faccia e non si è più ripresentata, e per gli undici e passa anni che rimase a lavorare da noi non l’abbiamo vista adombrata nemmeno un giorno. Intelligentissima e ironica, rideva alle lacrime per le commedie di Eduardo in tv, non sappiamo se capiva ogni parola di quel dialetto o se l’ironia napoletana le arrivava per empatia e affinità, ma papà impazziva per questo fatto e durante la trasmissione teneva d’occhio più lei che la commedia e si godeva ogni sua risata. Quando la sera lui tornava a casa c’era il rito di Irene che gli leggeva l’elenco, sempre lunghissimo, delle persone che avevano telefonato nella giornata. Però scrivere non è che fosse proprio la cosa che le veniva meglio e spesso faceva fatica a decifrare la sua propria calligrafia; nello sforzo di concentrazione, che diventava anche fisico, si puntellava col gomito e spingeva contro quello di papà che per aiutarla opponeva resistenza; in quello sforzo congiunto finivano puntualmente a ridere.
«E telefonade signor Mazele.» «Chi, scusa?» «Signor Mazele. Ma-ze-le.» «Mazelle?» «Sì: signor Citto Mazele.» «Ahh, Maselli!»
Lei lo rispettava e ne aveva anche un po’ soggezione ma al tempo stesso la sua natura ironica prevaleva e non poteva fare a meno di sfotterlo, se lo guardava per traverso, come a dire: e io che ho detto? «E che hai detto? Hai detto Mazele.» E giù risate, ancora. Il giovedì pomeriggio la camera da letto di Irene (due metri per tre) si trasformava nel quartier generale della comunità femminile capoverdiana a Roma; le sue numerose sorelle e numerosissime amiche si stipavano là dentro in numero imprecisato, continuando a entrare ed entrare… Irene era il ras del gruppo, dirimeva questioni di ogni genere, pratiche, lavorative, sentimentali (quelle sentimentali meno volentieri, era sbrigativa e pragmatica e non c’era indulgenza per chi tendeva a piangersi addosso), istruiva le sue amiche, le cazziava e le nutriva a pentoloni di cachupa, la zuppa tipica di Capo Verde a base di legumi e manioca, per la quale papà perdeva la testa all’inizio, fino poi a non poterne sentire più nemmeno l’odore. Quando a Santo Antão, il paese di Irene, morì suo padre, lei e quella moltitudine di amiche stette pigiata in quella stanzetta a salmodiare per una notte intera, con ululati e lamenti straziati, e la ripetizione forse di un mantra benefico che in una manciata di ore le permise di smaltire il trauma, accettare il dolore e tornare, il giorno dopo, al suo consueto sorriso. Papà la guardava con enorme ammirazione, strabiliato dal modo così adulto di affrontare un fatto naturale come la morte; disse che avevamo assistito a una grande lezione di civiltà e che avremmo dovuto imparare da loro: noi e la nostra cultura
evoluta ancora non sappiamo prepararci all’unico evento certo della vita. E avrebbe voluto che alla sua morte anche noi fossimo corazzate per affrontarla nello stesso modo. Abbiamo provato a obbedirgli e quando è morto, il 19 gennaio 2016, gli abbiamo organizzato i funerali più allegri che si siano mai visti: non una cerimonia funebre ma una festa alla quale era invitata tutta la città. Per due giorni interi un fiume ininterrotto di persone ha attraversato Villa Borghese per venire a salutarlo nella camera ardente allestita alla Casa del Cinema; una gran bella festa con tanto di brindisi, musica, amici che si ritrovano e… ridono. Ma torniamo al 1977 e al matrimonio di Irene con Thomas (pronuncia «Tomèsh»), un gigante buono suo conterraneo, marinaio di lungo corso, con il quale ha condiviso il resto della vita e due figli. Papà ha accompagnato Irene all’altare come fosse suo padre e le ha fatto da testimone come fosse il suo migliore amico. Al ritorno dal viaggio di nozze Tomèsh riprese il mare e lei tornò da noi; papà volle sincerarsi che tutto fosse andato bene con quel gigante e le chiese allusivo ma imbarazzato: «Irene, tutto bene? Tabom?». Lei lo rassicurò: «Tabom brigadibom, signor Ettore, sì, tutto tranquillo». E tanto per cambiare se ne andarono a male dalle risate. Più tardi è nato Alessandro. Irene se lo legava sulla pancia con uno scialle, una sorta di marsupio ante litteram in cui lui dormiva beato, appoggiato al suo cuore con il battito che lo cullava e lo rassicurava. È un caso se oggi Alessandro è il ragazzo più solare e sorridente mai visto? Ma non è solo questo. Non ho mai conosciuto una mamma meno apprensiva di lei. Alessandro poteva giocare coi coltelli di cucina senza che lei muovesse un sopracciglio: tanto finché non parla non può farsi male. Però insorse quella volta che papà gli diede un goccio di caffè dal cucchiaino, gridando: «Signor Ettore, ma sei matto? È amaro!». L’unica occasione in cui Irene perdeva tutta la sua ironia era quando Alessandro, un po’ più grandicello, la chiamava
Irene e non «mamma» (e chiamava invece «mamma» la nostra, come sentiva fare a noi). Gli acchiappava i capelli con il pugno e stringeva istericamente quei ricciolini fitti, imprecando fra i denti. Addivenimmo a un compromesso: mamma nostra era «mamma-mucca» (per via di un certo muggito che emetteva quando la chiamavamo ed era sovrappensiero) e lei era «mamma-Irene». «Mamma-Iène» in realtà: Alessandro la «r» ancora non la diceva. Quando Ale compì tre anni se ne andarono. Dovevano tornare al loro paese e alla loro vita (o forse Irene aspettava già il secondogenito, Danielson). Separarsi fu un dolore indicibile, lacrime all’aeroporto, addii strappacore, quasi una sceneggiata napoletana di quelle che facevano tanto ridere Irene… tanto che mamma (mucca), spinta da papà, dopo neanche un mese prese un aereo e andò a Capo Verde a trovarli. Per l’occasione Irene le cedette il suo letto, con Alessandro tutto felice che si ficcava a dormire con mamma mucca. I contatti poi però sono stati sporadici per molti anni fino a che grazie a Internet ci possiamo vedere e parlare come fossimo nella stessa stanza anche se stiamo ai capi opposti della Terra. Piccola notazione superflua (ma dal grande valore affettivo): Irene e mio figlio Tommaso sono nati lo stesso giorno, il 20 aprile (el vinto de abrilo). E dalla cachupa approdiamo ai Maccheroni e alla storia di un’altra amicizia. Un’amicizia all’inizio non corrisposta fra Bob (Jack Lemmon), un americano ricchissimo e nevrotico arrivato a Napoli per un breve viaggio di lavoro, e Antonio (Marcello Mastroianni), napoletano, modesto impiegato statale, che ha conservato il ricordo di Bob per quarant’anni, da quando cioè lui sbarcò a Napoli con le truppe di liberazione. Dalla iniziale diffidenza, Bob – che non ha conservato traccia di Antonio nei suoi ricordi e che in quella millantata amicizia sospetta un tentativo di raggiro, di truffa o di chissà
che altro imbroglio – pian piano si lascia andare al riaffiorare dei ricordi, e a quell’affetto sincero. E quando alla fine Antonio avrà bisogno di soldi (per cavare dai guai suo figlio invischiato con la malavita) preferirà racimolare la somma con una colletta nel quartiere, piuttosto che farne parola con Bob. Bob lo viene a sapere e si mette a cercare Antonio furiosamente, disperatamente, non lo trova e va a parlare con sua moglie; le chiede perché mai non abbiano chiesto aiuto a lui. La donna gli dice che è esattamente quello che lei ha detto ad Antonio: «Gli ho chiesto: “Perché non vuoi chiedere aiuto a Bob? E allora gli amici a che servono?”. “A non rompere i coglioni agli amici!” mi ha risposto lui». Ecco, credo che in questa frase ci sia tutto: l’essenza del film. Ma Maccheroni è anche l’incontro-scontro fra due mondi con valori e stili di vita opposti. Papà racconta la sua amatissima e odiatissima Napoli – città natale di nonna Dina – della quale ha voluto sfatare gli stereotipi che la affliggono proprio utilizzando quegli stereotipi, seminando qua e là tracce di realismo magico (quello stile letterario e cinematografico in cui l’elemento soprannaturale si manifesta inaspettatamente nella vita di tutti i giorni). Così per esempio la vecchissima madre di Antonio, paralitica e analfabeta, in pieno marasma senile, sembra straparlare e invece azzecca la previsione di un complotto in atto a Los Angeles ai danni di Bob. Oppure Antonio con la leggenda delle sue due morti alle spalle, quando poi morirà davvero condurrà Bob (e lo spettatore) a credere nella possibilità che torni in vita anche stavolta, dopo la fine del film. L’arrivo a Napoli della star di Hollywood di A qualcuno piace caldo e di La strana coppia fu salutato dagli autoctoni con grande calore e familiarità, come fosse un vecchio amico redivivo da festeggiare: «Oillòche, oì, sta Gek Lemòn! Ué, Gek, accomodatevi, volete favorire con noi?».
Senza capire una parola lui sorrideva a tutti, cordiale e disponibile, mai infastidito, anzi, grato agli ammiratori, e anche su questo ci fu perfetta sintonia con Mastroianni, perché, come dicevano: «Noi gli dobbiamo tutto, sono i nostri datori di lavoro». Si trovarono su tante cose, fu un bel trio, condividevano la passione per quello che stavano facendo ed erano appagati, non avevano bisogno di dimostrare niente. Facevo l’aiuto in quel film, e devo dire che nella mia esperienza divi ostici ne ho incontrati veramente pochi, i capricci sono per lo più appannaggio delle mezze tacche, che forse per insicurezza si sentono autorizzati a scassare la minchia su tutto. Ma i grandi, no: più sono grandi e meno hanno bisogno di fare bizze da star. Tutt’al più ogni tanto poteva capitare che Mastroianni si presentasse sul set un po’ abbottato per aver mangiato e bevuto troppo la sera prima, e ne facevano le spese i truccatori; ma questo era il massimo dell’indisciplinatezza che si concedeva, per il resto era mansueto come un ruminante, stava lì a disposizione tranquillo e ingannava le lunghe ore di attesa fra una ripresa e l’altra facendo telefonate. Telefonava, telefonava, telefonava… Soprattutto all’avvocatessa Cau (sempre lei, l’apocalisse del cinema italiano), suo agente ma essenzialmente suo muro del pianto per le questioni sentimentali; sì, perché il seduttore per eccellenza era in realtà un sentimentalone che si innamorava e penava come un adolescente. Quando ad esempio finì la storia con Faye Dunaway stazionava nella sala d’aspetto dello studio Cau in attesa che l’avvocatessa riuscisse a ritagliare qualche minuto per lui fra un appuntamento e l’altro: faceva ore di anticamera solo per una pacca di conforto sulla spalla. Non credo che l’avvocatessa, per quanto invincibile, potesse fare molto di più. Lemmon invece ammazzava i tempi di attesa del set risolvendo i cruciverba del «New York Times»: ore e ore di parole crociate senza annoiarsi mai.
Aveva un piccolo rito scaramantico: a ogni ripresa, dopo la battuta del ciak e prima che papà chiamasse la fatidica «Azione!», sussurrava qualcosa. All’inizio non si capiva cosa, poi, man mano che si sentiva più a suo agio con la troupe, cominciò a pronunciarlo un po’ meno bisbigliato, un po’ più chiaro, e diceva: «Magic time!». Poi ci ha spiegato che era un’abitudine che aveva dai tempi della radio: negli anni Quaranta le trasmissioni erano solo in diretta e quando in studio si accendeva la luce rossa con la scritta ON AIR , si era in onda. E non si poteva sbagliare. Al suo debutto era terrorizzato e pensò che per uscirne vivo gli ci sarebbe voluto un miracolo, uno stato di grazia, un momento magico, appunto. Fu un trionfo, la sua performance perfetta, e da allora «magic time» è diventato il suo irrinunciabile mantra portafortuna. Carino com’era, Jack aveva acconsentito a concedermi una lunga intervista filmata. In montaggio, per movimentarla, ci avevo inserito un collage di tutti i suoi «magic time» del film, che era venuto divertentissimo. Poi però, presa dal turbine (da Gigi Magni col quale partivo per un film in Tunisia, dall’arrivo dei figli e conseguente scelta di smettere di lavorare), non ne feci niente e la pizza con la pellicola dell’intervista è rimasta nella sua scatola di latta per una trentina d’anni e cioè fino a quando l’ho cercata per Ridendo e scherzando, e ho trovato solo una palla di muffa. La celluloide è effimera, per questo è così importante l’opera di restauro. Per tutta la durata delle riprese non abbiamo mai sospettato quanto all’inizio Lemmon fosse rimasto traumatizzato dal nostro modo di lavorare; lo abbiamo scoperto anni dopo quando Robert Altman (il regista di Mash, di Nashville, di Gosford Park…) raccontò a papà che una sera Jack, ospite del Saturday Night Live Show, una delle trasmissioni televisive più popolari d’America, si è prodotto in un monologo esilarante su come si girano i film in Italia: «In principio era il Caos! Un miscuglio universale di materia indistinta capace di generare terribili divinità quali l’Abisso, la Notte, la Discordia… Più tardi nacquero divinità più clementi come la
Concordia, l’Amore, il Cielo e la Terra e cominciò a delinearsi il Cosmo lasciando così la situazione di caos per l’ordine. Il set in Italia? Esattamente lo stesso! Tutto sembra nebuloso, magmatico, improvvisato, impossibile da realizzare ma quando Scola “dava motore” magicamente tutto si componeva, prendeva forma e vita, ed era perfetto! Qui da noi quando cominciano le riprese di un film tutto è già stabilito, pianificato al millimetro, l’imprevisto non è contemplato. Ma è ovvio, loro, gli italiani, sono lì dall’Età del bronzo, hanno avuto seimila anni per evolversi, noi solo poche centinaia, per forza siamo più inesperti!». E lo credeva sinceramente.
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«Leva ’sta paca» (Silvia) Quando da piccole ci portavano a Trevico, certe estati sul finire degli anni Sessanta, una sensazione oscura mi stringeva il cuore e mi metteva una certa ansia. Immaginavo papà, piccolo piccolo, nato lì, tra i nonni, gli zii, le zie, le nuore, sua madre e suo padre, che abitavano tutti insieme nella grande casa del Notaio Cav. Pietro Scola, in vico Scola 3. Lo vedevo aggirarsi tra queste stanze enormi, i soffitti alti, la pietra fredda dei camini spenti (era agosto) nelle camere da letto. Ci aveva sempre raccontato del freddo tagliente e del vento che sferzava Trevico d’inverno, della neve e dei geloni, ai piedi e alle mani. Rabbrividiva ancora raccontandocelo, e rimase freddoloso per tutta la vita. Mani e piedi ghiacciati, sempre, anche dentro guanti e calzerotti di lana. I letti avevano zampe altissime e due o tre materassi impilati sopra, per allontanare il freddo dei pavimenti. E a volte la presenza del prete – il grosso scaldino di legno che si metteva sotto le coperte – li rendeva ancora più alti. Mi pareva tutto smisurato, a me che ero già molto più grande di lui, all’epoca in cui muoveva i primi passi in queste stesse stanze. Il calore umano abitava solo la cucina, l’ingresso con la porta sempre aperta per eventuali visitatori e il lavatoio di servizio. Qui, infatti, c’era anche da sedersi: sedie, panchette, sgabelli, un piccolo dondolo di legno… Dalle poche fotografie della sua infanzia, papà sembra un bambino dolce e attento, con una vena di amarezza negli occhi ma sempre pronto a ridere, e incline alla serenità. Nonna Dina, la mamma di «Ettoruccio», ci raccontava che quando è nato papà, a Trevico, e lei lo teneva vicino a sé nel
lettone, il fratellino Pietro di due anni più grande, vedendo solo quella testolina accanto a lei, le disse: «Mammà, leva ’sta paca», intendendo la «capa» – cioè la testa, parte per il tutto – di quel nuovo intruso. O di quel cuginetto timido, con la erre moscia, che di notte svegliato dagli incubi strillava in lacrime: «Ho pauva della pecovella!». Papà rideva: «Capirei se avesse paura del “pecorone”, ma della pecorella?». O di quell’altro nipotino, cicciottone, timido anche lui, che un giorno dopo mille cerimonie, alla fine capitolò: «Ma sì, una goccia di pizza me la voglio prendere». Nonna Dina si piegava in due e rideva alle lacrime, piangendo rimmel e ripetendo la storiella, con la sua cadenza napoletana e una erre francese arrotatissima. In più troncava qualunque vocabolo, e anche questo ci faceva molto ridere: frutt’, formagg’, Paolètt’, Silviètt’, Peppì, Ettorù… e io mi divertivo a rifarle il verso: «Silviètt’, vuoi un boco di frrrutt’?» e lei rideva coprendosi la faccia, con quel sorriso bellissimo, sempre pronto a esplodere da un momento all’altro. Ma piangeva anche spesso nonna Dina, inaspettatamente, il mento tremante e le lacrime in pizzo; si commuoveva, si entusiasmava, si offendeva, si crucciava per qualcuno, pregava santa Rita, invocava: «Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria!». Ci ficcava sempre anche Sant’Anna, la mamma di Maria, chissà perché. Ma poi ritrovava subito il buon umore e nonno la abbracciava. Ricordo che erano molto innamorati l’uno dell’altra, e da vecchi ancora ridevano insieme. Rideva un po’ meno quando mi raccontava di sua suocera, di quando anni prima, lei giovane studentessa universitaria a Napoli, si innamorò di nonno Peppino, lo sposò e venne (de)portata a Trevico, interrompendo gli studi e dedicandosi interamente al mestiere di sposa e di madre. Così come doveva essere alla fine degli anni Venti.
Dal chiassoso fermento della Belle Époque partenopea all’eremo di Trevico: «tre vicoli», appunto, abitati da mille anime inerpicate su un cucuzzolo dell’Irpinia, sperduto tra i monti, in provincia di Avellino. Nonna Dina ci raccontava di questa suocera terribile, un cerbero, che aveva il potere assoluto in casa, specialmente dopo che nonno Pietro, suo marito, gravemente diabetico, era diventato cieco. Donna Lisa quindi aveva preso il comando su tutti e il regime era dispotico. Non si muoveva paglia che non decidesse lei e teneva tutto sotto chiave: cassetti, tiretti, stipetti, credenze, armadi, cassapanche, madie, buffet, controbuffet. Girava per casa con un grosso mazzo di chiavi appese al vestito e vessava la nuora mantenendo le distanze. Con aria di supponenza mista a sarcasmo, Donna Lisa amava schernire chiunque non le andasse a genio: figurarsi una nuora giovane e bella, per di più forestiera, praticamente un’estranea. Nonna Dina ci raccontava il cruccio di dover chiedere il permesso anche per prendere una tazzina da caffè, o un asciugamano. Un tormento continuo. Doveva andare a chiamare la suocera, che le aprisse la credenza, prendesse lei stessa quello che serviva alla nuora, e richiudesse a doppia mandata rinfoderando il mazzone di chiavi sotto le vesti. Poi impettita riattraversava le stanze, una dentro l’altra, rimproverando allusiva la nuora: «Che poi chissà cosa ci dovrai fare con tutta questa biancheria pulita…». E le sofferenze di quella ragazza nel fiore degli anni, spiritosa e solare, in esilio nella casa avita del marito, le ho ritrovate più tardi nei bellissimi racconti di Maria Messina (La casa nel vicolo, 1921; Casa paterna, 1944) che mi dette da leggere proprio papà intorno agli anni Novanta. Figlia di un professore di francese, studentessa di Lettere all’Università di Napoli e ben avviata agli studi, Adelaide Pentimalli detta Dina era uno spirito libero, brillante e intraprendente. Alta, bella, fulva, incontrò nonno Peppino Scola un giorno che facevano la fila per le tasse universitarie a Napoli, lei per Lettere e lui per Medicina, e ridendo e
scherzando quel giovane laureando poco più grande di lei le rapì il cuore. Fu un colpo di fulmine, al quale seguì subito la domanda di matrimonio. Il giovane Giuseppe Scola da Trevico andò dal professor Pentimalli in quel di Napoli e chiese la mano di Adelaidina. Ma il futuro suocero, che già mal vedeva l’interruzione degli studi da parte della figlia, lo respinse recisamente: «Voi non avete terra su cui camminare, né cielo a cui guardare» (testuale: quante volte ce l’ha raccontata nonna, ’sta cosa?). Ma il giovane Peppino subito replicò con fermezza che lui aveva terra sulla quale camminare perché possedeva una casa e delle terre a Trevico, e cielo al quale guardare perché si era laureato in medicina e aveva già ottenuto l’incarico di medico condotto al suo paese. Il suocero accordò il permesso, i due giovani studenti convolarono a nozze e pochi anni dopo nacque il secondogenito, che chiamarono Ettore Euplio Emidio. Dopo cinque anni di confino a Trevico, a cambiare il destino della bella Dina fu la notizia del trasferimento a Roma: nonno Peppino Scola veniva promosso ispettore sanitario all’Ufficio di igiene di Roma. «Peppì a Roma! Ma è ’o vero?»
Era il 1937. Bagagli, fagotti, valigie legate con lo spago e la piccola famiglia Scola si metteva in viaggio verso la capitale per non ritornare al paese mai più (se non in villeggiatura d’estate). Quando arrivarono a Roma, a nonno Peppino Scola – che noi in casa dovevamo nominare per intero per distinguerlo da nonno Peppino Fantoni 7 – venne assegnata una casa in affitto nel quartiere Esquilino, a due passi dall’Ufficio di igiene dove lavorava, ma anche dal comando centrale della Gestapo a Roma: via Tasso.
Dal balcone «a elle» della loro casa si vedeva quel portone del civico 145 nella strada all’angolo, e il via vai di camionette e di truppe delle SS. Quando Hitler venne a Roma ai primi di maggio del 1939, per sancire il patto con Benito Mussolini, papà avrebbe compiuto otto anni di lì a una settimana, il 10 maggio. Anche lui, piccolo «figlio della lupa», si dovette preparare all’alba per andare alla grande adunata di via dell’Impero con suo padre e suo fratello, a piedi, a poche centinaia di metri da via Galilei; mentre nonna Dina rimase tutto il giorno a casa ad aspettarli. Oltre la marea di gente, la folla e il rumore assordante di quella giornata (particolare), papà ci raccontava della forte impressione che ebbe nel vedere i baffetti rossi del Führer. Nelle fotografie in bianco e nero apparivano nerissimi e invece dal vivo erano di un rosso acceso. All’epoca non si sapeva ancora cosa succedesse a via Tasso, né ciò che sarebbe accaduto anni dopo, tra il ’43 e il ’44, durante l’occupazione tedesca: i pestaggi, le torture, le condanne a morte dei dissidenti, dei partigiani, dei comunisti, degli ebrei. Degli omosessuali, che venivano seviziati e poi espulsi in confino. Non si sapeva, ma papà scolaretto elementare già vedeva i suoi compagni sparire dalle classi, i professori venire trasferiti o mandati prematuramente a riposo, il cardalana di famiglia, un vecchietto piccolo piccolo che veniva a casa a sistemare i materassi, costretto a chiudere bottega e ad andare via, chissà dove. E l’aver vissuto da piccolo sotto il regime fascista ha lasciato in Ettore un segno che si ritrova in tutti i suoi film. Anche in Concorrenza sleale, che abbiamo scritto insieme nel 2000, all’inizio del percorso esortava noi sceneggiatori a osservare l’avvento del nazifascismo con gli occhi di un seienne, com’era lui all’epoca in cui era ambientato il film. 8 Il protagonista si chiama Pietruccio – Pietro, nome ricorrente nella nostra famiglia –, un bambino che si vede
strappare il suo amico del cuore Lele, assistendo attonito all’avvento delle leggi razziali. Un bambino che, senza trovare alcuna giustificazione, paga sulla sua pelle l’orrore dell’Olocausto; che nel finale del film non si vede.
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Ippocrate e Cicerone (Paola) Purtroppo a scuola andava molto bene. Forse sarebbe più d’effetto poter raccontare che era uno studente svogliato o disastroso, però non era così; papà amava lo studio, in particolare il greco che leggeva e traduceva all’impronta, andando anche segretamente in soccorso alla giovanissima professoressa che ogni tanto si trovava in difficoltà con un aoristo o un participio. Succedeva al liceo ginnasio classico statale Umberto I – oggi intestato a Pilo Albertelli, il professore di storia e filosofia vittima delle Fosse Ardeatine – in via Manin, dietro la stazione. Però da piccolo, alle elementari, tutte le mattine piantava una grana madornale perché non voleva entrare a scuola. Era appena arrivato da Trevico, spaventato dalla città e dalla baldanza dei suoi compagni e capitò che per cercare di captare un po’ di benevolenza si offrì timidamente di chiudere una finestra che sbatteva. Ma ahimè usò la forma sintattica trevicana: «Voglio chiudere la finestra?» (dove «voglio chiudere?» sta per «volete che io chiuda?»). Cosa che scatenò l’ilarità dei compagni che attaccarono a prenderlo in giro – «Vuoi chiuderla? Se non lo sai tu…» – andarono avanti per settimane e papà per settimane fece tragedie per entrare a scuola. Nonno non era autoritario, era una persona mite, forse per reazione a suo padre (nonno Pietro, quello che in vecchiaia era diventato cieco e quindi più docile, ma che in gioventù era stato un vero «capofamiglia» del Sud, severo e inflessibile), dunque tentava di convincere il bambino con la ragione: «Devi capire, sono ignoranti e non sanno che è una forma cortese di porre la domanda». Ma papà non voleva capire e non sentiva ragioni, si rifiutava di entrare e adduceva ulteriori inoppugnabili motivi, uno dei quali era che la maestra aveva i baffi. Allora nonno cambiava tattica e tentava quella della
contrattazione: in cambio di un soldatino o di un anelletto di latta accettava di dimenticare i baffi e entrare in classe. Al liceo era nella sezione C, maschile, della quale ci ha sempre raccontato con gran simpatia di un compagno che fu «espulso da tutte le scuole del Regno» per aver apostrofato una professoressa che gli aveva rifilato un quattro, con: «Cristo quanto sei carina!». Anche il disgusto per la pizza rossa papà lo ha imputato a lui, colpevole, prima di venire espulso, di portarsela tutti i giorni per merenda e di lasciarla a decantare sotto il banco fino all’ora della ricreazione: anni di effluvi di pizza rossa hanno tormentato papà fino a nausearlo per sempre. Un napoletano che detesta la pizza. Anche mamma era in quel liceo, si sono innamorati che avevano sedici anni lui e diciassette e mezzo lei, e il fidanzamento è durato nove lunghi anni. Dei particolari di inizio idillio non è dato sapere: la granitica sarda non indulge in confidenze; l’unica cosa che ci ha sempre raccontato dettagliatamente è come era costretta a imbrogliare i genitori: rifilargli balle era l’unico modo per poter uscire da sola con papà, perché altrimenti gli mettevano alle costole Giuliana, sua sorella minore, a fare da chaperon. E questo per tutti e nove gli anni di fidanzamento, compresa l’ultima sera, quella prima del matrimonio, in cui dovevano andare a salutare una vecchia zia che non avrebbe potuto partecipare alla cerimonia e nonna gli appioppò Giuliana per evitare che stessero soli nel tragitto. Ma durante gli anni del liceo, confezionata un’articolata bugia salivano sul tram e se ne andavano alla stazione. Sceglievano un binario con un treno che sarebbe partito da lì a dieci minuti e si baciavano sotto la pensilina. Quando il capotreno fischiava per annunciare la partenza papà saliva sul vagone e si avviava verso la testa del treno, scendeva un paio di carrozze più avanti, si ricongiungeva con mamma e andavano a baciarsi davanti al prossimo treno in partenza.
Così per pomeriggi interi in cui nonna pensava che mamma fosse a studiare da un’amica. Dopo la maturità si sono iscritti insieme a Medicina, papà per assecondare i desideri di nonno, che era medico e ci teneva che i figli ricalcassero le sue orme, e mamma per assecondare quelli di papà, ho paura. Al «Marc’Aurelio» però la cosa non veniva vista bene, una facoltà così impegnativa assorbiva troppo quel giovane collaboratore e lo distoglieva dai suoi doveri di umorista. Quindi dopo il primo anno papà decise di passare a una facoltà meno totalizzante, e mamma lo seguì; si iscrissero a Giurisprudenza riuscendo anche a farsi riconoscere un paio di esami per non perdere l’anno. Nonno era affranto, andavano all’aria tutti i suoi sogni per il futuro di papà. Il quale però cominciò Legge alla grande e i primi esami erano tutti trenta e lode che fioccavano. Poi, pian piano, la curva dei voti cominciò a precipitare: 27, 23, 20… fino a che con Diritto Ecclesiastico prese il suo primo 18. Succedeva che papà ormai lavorava praticamente a tempo pieno come vignettista al giornale e come negro di Metz e Marchesi, e preparava gli esami solo sugli appunti di mamma e all’ultimo momento. Andò avanti così per un po’ finché non guardò la realtà in faccia e si disse che quella comunque non sarebbe stata la sua strada. Consapevole di dare un secondo dolore ai genitori ma non potendo fare altrimenti gli comunicò ufficialmente che avrebbe lasciato Legge per fare solo lo sceneggiatore. Per loro fu un colpo ma non diedero troppo a vederlo. Però vennero sorpresi a cercare sul vocabolario il significato della parola «sceneggiatore»; ma sul Novissimo Melzi il termine non compariva proprio, bisognava andare alla voce «sceneggiare» per trovare la definizione (che non riuscì affatto a tranquillizzarli): «Disporre in modo conveniente le scene di un’opera drammatica». Un po’ come alcuni mestieri di questo millennio che non si capisce in che consistono e che hanno bisogno di una lunga (e
in genere fumosa) spiegazione per essere definiti. I nonni furono totalmente destabilizzati dalla notizia ma cercarono di non darlo a vedere, non volevano dispiacere papà: come sempre la felicità dei figli era prioritaria. Così le strade di mamma e papà – solo professionali, eh – si divisero: lei si laureò e cominciò a insegnare mentre papà dopo Medicina lasciò anche Giurisprudenza. Entrambe abbandonate perché la sua vera università è stata il «Marc’Aurelio», facoltà di tecniche umoristiche: fra Ippocrate e Cicerone aveva vinto Marc’Aurelio.
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Gì (Silvia) Si dice che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna, e nel caso di nostra madre che è stata «dietro» a papà per settant’anni, forse è proprio così. Ettore e Gigliola si sono conosciuti nel 1947 a scuola, dove frequentavano classi separate, maschili e femminili, al liceo classico Umberto I all’Esquilino, quartiere in cui abitavano tutti e due con le rispettive famiglie. Non solo le loro classi erano separate ma lo erano anche l’ingresso e i piani delle aule: dall’entrata principale di via Manin entravano i maschi, e dal retro su via di Santa Maria Maggiore, le femmine; il primo e il secondo piano erano maschili, il terzo e il quarto femminili. Universi paralleli che non si incontravano mai. Ma nonostante la divisione stagna tra maschi e femmine, nella scuola c’erano molti fratelli e sorelle e quindi la contaminazione era fatale. Una festa da ballo fu galeotta: mamma e papà si innamorarono e non si lasciarono più. Lui la chiamava «Gì» e lei «Ettorù», e non potevano uscire da soli né vedersi da nessuna parte, perché i genitori sardi, cattolici e integerrimi di Gigliola non lo permettevano, e per anni e anni non hanno permesso a Ettore neppure di mettere piede in casa loro. A comandare era la madre, nonna Assuntina: un metro e sessanta di altezza per un metro di larghezza; sarda, tre figli (quattro, se si conta la prima, morta appena nata); molto alta rispetto alla media e alle sue sorelle che non superavano il metro e quaranta e portavano il trentaquattro di piede (zia Maddalena, la maggiore di tutte, portava il trentatré, ed era costretta a farsi fare le scarpe su misura). Nella famiglia di nonna erano diciotto fratelli e sorelle, e due di loro, Maria e Assuntina, sposarono due fratelli,
Ferdinando e Giuseppe Fantoni, loro compaesani. Figlie del produttore caseario Salvatore Deriu, pastore che si spostava in calesse con i suoi formaggi verso i paesi vicini, vivevano in una enorme casa di pietra a Bortigali, nel nuorese. Salvatore aveva molte pecore e molti cavalli, cavalcati sia dai figli che dalle figlie, che potevano montare con la sella inglese, con la seduta laterale, all’«amazzone». Di questo nostro bisnonno Salvatore Deriu era leggendaria la distrazione, di cui ha omaggiato tutta la progenie fino a mio cugino Francesco e me, coetanei, suoi discendenti di terza generazione, rispettivamente figli di Giuliana e Gigliola, distratti patologici quasi quanto lui; e i racconti delle situazioni più assurde sono ovviamente entrati nella nostra letteratura familiare. Su tutte, quella in cui, ricevuti nel suo studio tre uomini con cui stava per chiudere un affare su un grosso carico di formaggi da esportare via nave negli Stati Uniti d’America, Salvatore salì in camera da letto per prendere dei documenti che teneva chiusi in cassaforte e quando arrivò su dimenticò istantaneamente il motivo che lo aveva portato fin lì. Vedendo il letto pensò di essere salito a riposare, quindi si spogliò, si mise sotto le coperte e lasciò gli ospiti ad aspettarlo per mezz’ora, quarantacinque minuti, un’ora… fino a che una delle figlie, allarmata, salì in camera e lo trovò che russava nel suo letto. Nonostante la stazza, quando nonna si lamentava del suo peso, nonno Peppino le diceva: «Assuntina tu non sei grassa, e poi sei alta!». E il bello è che lo pensava veramente. Everything is relative. Forse nonno Peppino non condivideva del tutto quei divieti assoluti inferti a Gigliola, Giuliana e Massimo, ma taceva per quieto vivere: che crescere i figli fosse compito di una moglie, all’epoca era normale anche per un repubblicano-socialista come lui. In Italia negli anni Trenta le donne non erano ancora ammesse al voto (lo saranno solo nel 1946) e il femminismo e
le pari opportunità erano concetti di là da venire anche tra i socialisti e i comunisti. E, cosa ancor più grave, tra le donne. Nonna Assuntina diceva: «Babbo ha detto di no». E il discorso era chiuso. Mamma ubbidiva in silenzio ma era incazzata nera. Quel bigottismo integralista di sua madre, unito alla sua assoluta anaffettività, la faceva impazzire di rabbia. Gigliola era una bambina ipercinetica ma anche molto studiosa. Curiosa di tutto, le piaceva studiare e prendere tutti dieci, soprattutto in matematica e scienze, ma eccelleva anche nelle materie umanistiche. Senza essere secchiona riusciva a essere la prima della classe; attentissima alle lezioni, studiava a casa con metodo ferreo e con passione, per poi lasciarsi gran parte del tempo per divertirsi, soprattutto per sfrecciare in bicicletta per i viali dell’università, chiusa al tramonto. Nonostante ciò, a ogni pagella che portava a casa, la reazione di fronte a quei voti meravigliosi era sempre la stessa: «Hai fatto la metà del tuo dovere». E Giglioletta, a forza di mazzate all’amor proprio, è diventata una tempra d’acciaio: mai più niente l’avrebbe sconfitta: era stabilito. E così fu. Per vedere Ettore e andare con lui al cinema o anche solo a prendere un gelato, era costretta a dire un mare di bugie, cosa che oltre a farle una gran fatica le faceva montare una gran rabbia verso i genitori. Papà era mortificato, ma rispettava il diktat sardegnolo. Fino a che un giorno chiese a nonna Dina di andare lei a parlare con la mamma di Gigliola, per spiegarle che era un bravo ragazzo e che oltre a frequentare il liceo con ottimi voti, soprattutto in latino e greco, nelle quali prendeva il massimo, già lavorava alla redazione di un giornale. Era l’unico di tutta la scuola infatti ad avere soldi e a poter offrire agli amici. Cosa che avveniva puntualmente a ogni paga perché papà è stato sempre molto generoso, fin da quando era piccolo.
A nonna Dina piaceva quella ragazza svelta, come la definiva lei, che voleva dire intelligente e pragmatica, e accettò subito di andare a parlare con i futuri consuoceri. Abitavano a poche centinaia di metri gli uni dagli altri, equidistanti dalla scuola, e nonna Dina in tailleur e cappello a larghe falde come una diva dei Telefoni bianchi di cui era una fan, raggiunse a piedi casa Fantoni. Nonna Assuntina la accolse da sola, compunta e abbottonata come sempre ma cortese e ospitale: le offri un tè, ascoltò, apprezzò il gesto di quella bella signora napoletana, più alta di lei di un paio di teste, e alla fine del vertice accordò il permesso a Ettore di venire di tanto in tanto a trovare Gigliola a casa. Così, ridendo e scherzando, dopo nove anni di fidanzamento il 28 giugno 1956 convolarono a nozze: ventisei anni e mezzo Gigliola, venticinque appena compiuti Ettore. Nel giugno del 2016 avrebbero festeggiato il loro sessantesimo anniversario di matrimonio ma papà il 19 gennaio è morto, e quelle «nozze di diamante» sono andate a farsi benedire. Mamma ci teneva moltissimo, non avevano festeggiato le nozze d’oro allo scadere dei cinquanta perché se ne erano scordati, e avevano deciso così di festeggiare direttamente il sessantesimo. Quando papà morì quell’anno stesso, quella ricorrenza mancata la addolorò moltissimo. E da sardegnola di pietra lavica qual era, mamma invece di piangere o disperarsi, ripeteva incazzata: «Non poteva aspettare altri cinque mesi? E che caspita!». Ma il regalo per le nozze di diamante papà glielo aveva già comprato: avevano scelto insieme un girocollo di perle di fiume, coltivate, grosse come ciliegie (un po’ alla Wilma dei Flintstones) che il 28 giugno del 2016 mamma ha indossato per festeggiare i loro settant’anni di vita insieme. Senza di lui – chello possino! – ma con il suo regalo d’anniversario e con noi, figlie e nipoti. Nata a Roma nel 1930, anno VIII dell’era fascista, da genitori sardi trasferiti in Continente, Gigliola era stata una bambina
vivace, molto fisica e «maschiaccia» nonostante il grosso fiocco in testa che sua madre le imponeva, e amava le divise, le parate, le manifestazioni, ma soprattutto amava il Duce che organizzava quelle belle colonie estive e quelle gare della gioventù al Circo Massimo, alle quali le era proibito partecipare. Ci raccontava di quando nonna Assuntina la portava nei negozi di Stato, dove vendevano le divise di Stato, a comprare «la divisa più bella del mondo»: quella da Piccola italiana, gonna nera a pieghe e camicetta bianca a maniche lunghe con scudetto del fascio sul petto, obbligatoria per le bambine dagli otto ai quattordici anni, da indossare ogni settimana all’adunata del sabato fascista. Come accade nella sequenza inziale di Una giornata particolare in cui la famiglia Tiberi, alle prime luci dell’alba, si prepara per andare alla sfilata di via dell’Impero a incontrare Hitler, e ogni figlio indossa una divisa diversa a seconda della sua età. Prima della Liberazione e prima di trasferirsi nella casa di Santa Maria Maggiore all’Esquilino, mamma abitava con la famiglia dentro la città universitaria, a San Lorenzo, dove nonno Peppino Fantoni ricopriva il ruolo di primo segretario all’Università La Sapienza di Roma. Quando il bombardamento del 19 luglio 1943 rase al suolo il quartiere universitario centrando in pieno la loro casa, mamma aveva tredici anni e in quei giorni era in villeggiatura a Soriano nel Cimino con la famiglia. Quando tornarono a Roma, al posto del palazzo trovarono un cumulo di macerie, dal quale riuscirono a estrarre giusto qualche pentolino, che mamma conserva e usa ancora oggi. Distrutta la casa dove alloggiava il segretario Fantoni, il rettorato lo trasferì ad abitare alla Casa dello Studente, ricostruita sempre all’interno dell’università. Mamma non capiva perché suo padre senza mai dire nulla, né, meno che mai, argomentare le sue posizioni, brontolava ogni sabato di fronte alla camicia nera, agli stivali e a tutti quegli orpelli dettati dal regime, che a lei piacevano tanto e lui
evidentemente detestava, visto il malumore che preludeva a quelle adunate settimanali. La ragione, segreta fino a che i figli non divennero grandi, era ovviamente di natura politica. In casa non si parlava di nulla, non si commentava nulla, neppure i notiziari di Radio Londra che ogni sera ci si riuniva a sentire in famiglia, e che tra le notizie ufficiali lanciava «messaggi speciali» piuttosto criptici, come «La pioggia è cessata», «La mia barba è bionda», «Le scarpe mi stanno strette», «Il pappagallo è rosso», «È arrivata Valentina», «È partita Valentina» e così via; messaggi in codice per i partigiani impegnati nella Resistenza. Messaggi che nonno Peppino Fantoni capiva benissimo, e che significavano che un obiettivo era stato raggiunto, che un fronte era stato aperto o che un messaggio recapitato da una certa staffetta partigiana (Valentina) era giunto a destinazione nelle mani degli Alleati angloamericani, o partiva con la risposta per i combattenti italiani nascosti in montagna. Gigliola e Giuliana, poco più che dodicenni e più grandi di Massimo di parecchi anni, nonostante fossero ermeticamente tenute all’oscuro di tutto, sospettavano qualcosa; e così, complici, un giorno frugando dentro casa trovarono nascosta in un armadio una cassetta che conteneva i cliché di stampa di «Giustizia e Libertà», il settimanale rivoluzionario dell’esule Carlo Rosselli, e pacchi di volantini antifascisti. Babbo era un partigiano! Faceva parte della Resistenza nascondendo in casa partigiani, rifugiati e materiali propagandistici senza che loro ne sapessero niente. Ecco cos’erano quelle strane «riunioni», certe sere, nelle ore in cui la città universitaria era chiusa, e arrivavano uomini e donne che si chiudevano nella stanza da pranzo a parlare sottovoce. Sotto la dittatura fascista l’unico partito ammesso in Italia dal 1926 al 1943 fu il Partito nazionale fascista (Pnf), tutti gli altri erano vietati dal regime e chi la pensava diversamente veniva arrestato e condannato al carcere; la libertà di stampa
era stata abolita e le azioni di dissenso potevano essere solo clandestine. Nonno Peppino Fantoni, antifascista e azionista convinto, poi diventato definitivamente socialista con il confluire del Partito d’Azione nel Partito socialista italiano (Psi) nel 1947, informava sommariamente la famiglia dicendo che si trattava di conoscenti conterranei: l’«ingegner Franceschi» di Sassari, il «signor Marchi» di Oristano, «Mister Mill» di Cagliari con sua moglie, la «signora Valentina»… che a loro volta portavano altri «amici da ospitare» in casa. Quell’accolita di sardi erano i quadri del Partito d’Azione che si incontravano clandestinamente a casa loro, per discutere il programma della lotta antifascista, divenuta ormai una vera guerra civile. L’«ingegner Franceschi», per esempio, abitò per due mesi nascosto in casa loro, senza che nessuno in famiglia sospettasse trattarsi di Stefano Siglienti, fondatore del Partito sardo d’Azione poi confluito nel Partito d’Azione; mentre il «signor Marchi» e il «signor Mr Mill» erano Francesco Fancello, altro esule azionista e membro del Comitato esecutivo del Pd’A, ed Emilio Lussu, dirigente del Pd’A molto amico di nonno, marito della «signora Valentina», la scrittrice e poetessa Joyce Lussu. Mentre quei loro «amici da ospitare» erano perseguitati politici, fuorusciti o persone da nascondere; soprattutto durante i sette mesi di occupazione tedesca, in cui la caccia agli ebrei, considerati stranieri e quindi nemici da arrestare e deportare nei campi di concentramento, era diventata feroce. Quella «signora Valentina» – staffetta partigiana identificata come «sovversiva pericolosa» dal regime fascista e vissuta per anni in clandestinità per la sua attività di guerrigliera nelle Brigate Giustizia e Libertà, in cui ricopriva il ruolo di capitano di brigata – mamma la ricorda come una ragazza molto bella, sulla trentina, incinta di otto mesi. Grazie alla gravidanza avanzata e al suo poliglottismo, Joyce Lussu passava le linee nemiche con grande facilità e nel 1946 sarà
decorata con la medaglia al valor militare della Repubblica Italiana. Compagno sardo integerrimo e irreprensibile, il segretario Giuseppe Fantoni non dava adito a voci né a sospetti, e mamma con il senno di poi lo ha sempre ringraziato per non averle esposte al pericolo: se le avessero arrestate non avrebbero effettivamente saputo niente. A casa però, pur non essendo un padre padrone, nonno Peppino è stato sempre un padre freddo, distante, silenzioso; e nonostante «Giglioletta» facesse di tutto perché lui fosse orgoglioso di lei, il suo affetto, che pure c’era, non veniva manifestato in nessun gesto. Anzi, se il fratello piccolo combinava guai, a prendere le botte da sua madre era sempre lei, Gigliola, la maggiore, colpevole di non essere stata abbastanza attenta. Finita la clausura coatta del liceo, Ettore e Gigliola si iscrissero finalmente a Medicina e cominciarono ad andare in facoltà e a frequentare i corsi insieme. Abitavano ancora a casa dei rispettivi genitori e il divieto di restare da soli non era caduto, ma studiando all’Università era tutta un’altra musica. Non ho mai visto nessuno innamorato di qualcuno così intensamente e così a lungo, come mamma di papà. Se mamma per esempio preparava piatti o manicaretti speciali, appena ci avvicinavamo venivamo tempestivamente bloccate: «No! Quello è per lui». E faceva sparire la teglia. Lo chiamava «lui», come Eva con Diabolik, e non ce n’era per nessuno. Poi aggiungeva materna: «Se avanza, poi lo mangiate anche voi…». Ma mamma era così, innamorata di lui per tutta la vita e oltre, mi viene da dire. Cosa che mi è sembrata molto buffa fin da quando ero bambina. Mamma è sempre stata una donna granitica, razionale e obiettiva in tutto, non l’ho mai vista piangere e i sentimenti li teneva sempre al posto loro; mentre con papà…
sbracava miseramente. Il cambiamento era repentino, comicissimo e commovente: il livello di priorità assoluta che dava a papà, rispetto a noi figlie ma mettendo in secondo piano anche se stessa, era davvero impressionante. Per anni non ha comprato la pizza, da lei adorata, perché a lui non piaceva. Però non si può parlare di abnegazione perché l’orgoglio e il senso di dignità di Gigliola, molto alto, tipico dei sardi, non glielo permettevano; e anche se lo seguiva in tutto, lo accudiva e gli stirava perfino le camicie, la valigia per esempio, no: quella se la doveva fare da solo. Lei si rifiutava di decidere per lui cosa dovesse mettersi o non mettersi. (L’esatto opposto di Vera e Giuliano Montaldo, mi viene da pensare, altra coppia perpetua, in cui lei però ha vestito il marito, di un’eleganza sfrenata, per tutta la vita.) Gigliola a Ettore glielo disse chiaro e tondo al primo viaggio da novelli sposi: «Le mutande, te le scegli da solo». Patti chiari, amicizia lunga. E così fu per tutta la vita. Silenziosa, discreta, forte come una roccia, Gigliola lo ha accompagnato dovunque, e in ogni posto ha sempre trovato una ragione autonoma di interesse. Non ha mai avuto smanie da first lady né alcuna propensione all’acquisto, anzi, è di indole schiva e non vedeva mai l’ora di lasciare papà al suo lavoro per visitare città, quartieri popolari, mercati rionali che le piacevano da pazzi… e perdersi nei segreti del luogo. Perdersi è la parola, perché Gigliola che di doti ne ha moltissime non ha alcun senso dell’orientamento e le basta un mezzo giro su se stessa per non capire più niente. Anche io sono così e a volte a piazza Mazzini, a Roma, dove sono nata e dove circolo in automobile da cinquant’anni, mi trovo a fare il giro anche tre volte senza riuscire a capire quale sia la strada da imboccare. Nonostante ciò, mamma non si è mai persa d’animo; ha sempre perso la strada ma mai la sicurezza di ritrovarla. E anche questo per me è stato di grande insegnamento. Da sola con se stessa si è sempre trovata in ottima compagnia, e perdersi tutto sommato faceva parte del gioco. L’imprevisto la divertiva anche. Non perse la fiducia, infatti, neppure quando
si perse a Tokyo. Lasciato l’albergo a grandi passi, e preso come punto di riferimento un certo grattacielo rosso, si mise a visitare la città e dopo ore di cammino, in cui di tanto in tanto controllava che il grattacielo continuasse a svettare, a un bel momento non lo vide più e si rese conto solo allora di non sapere il nome dell’hotel né di avere un indirizzo. A Tokyo. Dove pare non ci siano neppure i nomi delle strade. Non si sa bene come abbia fatto ma adesso è qui con noi, a raccontarcelo ridendo, quindi ha avuto ragione lei: preoccuparsi è la cosa più inutile che si possa scegliere di fare.
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«Dopo ti spiego perché» (Paola) Alberto Moravia, sull’«Espresso» del 18 marzo 1984, scrive di Ballando ballando: «Non racconta la danza attraverso la storia, ma la storia attraverso la danza». 9 Senza nemmeno una parola, senza nemmeno i cartelli dei film muti degli anni Venti, solo con la musica e i rumori dell’ambiente – ahimè ormai senza più Cacciottolo – papà racconta cinquant’anni di storia europea attraverso una sala da ballo della periferia di Parigi, senza mai uscirne. Ventiquattro attori, che interpretano centoquaranta personaggi, festeggiano la vittoria del Fronte popolare; subiscono il fascismo, la guerra, si riparano dai bombardamenti nella sala adibita a rifugio antiaereo; affrontano l’occupazione nazista e l’arrivo di un ufficiale del Reich accompagnato da un collaborazionista compiacente; esultano all’arrivo degli americani che portano la libertà e la Coca-Cola; vivono il razzismo contro i pieds-noirs della Guerra d’Algeria; sfuggono alla carica dei celerini durante la contestazione del Sessantotto e arrivano ai giorni nostri, cioè, ai loro: gli anni Ottanta, quelli del riflusso e della musica dance di La febbre del sabato sera. Gli avventori della balera, uomini e donne sole, si riuniscono lì ogni settimana nella speranza di un contatto, di un incontro. Se ne rivanno via soli come sono venuti, ma torneranno la settimana successiva con le stesse speranze.
Nel corso del tempo fanno il loro passaggio in sala anche il sosia di Jean Gabin, gli emuli di Fred Astaire e Ginger Rogers, una coppia di miliardari che, tra champagne e cocaina, guarda dall’alto in basso la fauna che affolla la sala. E un reduce che torna dalla guerra con una gamba sola, ma comunque riprende a ballare: la vita continua, sempre. Il film è muto ma la trama è eloquentissima, si seguono le vicende dei personaggi passo passo, si ride, si piange e ci si emoziona con loro, esattamente come in un film parlato. Il film è tratto da uno spettacolo del Théâtre du Campagnol, compagnia che aveva la sua sede in una palestra della banlieue di Parigi, della quale papà nel film ha mantenuto il cast completo. Quindi: la compagnia era francese, il produttore francese e il film si girava a Parigi, in un teatro di posa in periferia, dove
Luciano Ricceri aveva costruito una scenografia che ricordava quella della Coupole, la storica sala da ballo parigina. Non lavoravo in quel film: per smania di emancipazione avevo lasciato papà e facevo l’aiuto regista a Alberto Sordi, che aveva cominciato a dirigere da solo i suoi film. Ma era agosto e andai a Parigi a trovare papà sul set. È stato lì che ho conosciuto Monica Scattini, una dolce e cara amica che ora non c’è più. Monica era una grande attrice oltre che un grande essere umano. Aveva il dono dell’allegria ed era sempre pronta a giocare, in qualunque momento, situazione, circostanza, la trovavi disponibile. Sempre. In Ballando ballando ha il ruolo della «ragazza tappezzeria», e lei che amava tanto ballare nel film non lo fa mai: è la fanciulla trasparente e tanto miope da essere quasi cieca che per cinquant’anni va in balera ogni settimana, e per cinquant’anni ogni settimana aspetta seduta al suo tavolino un cavaliere che la inviti e che mai arriverà. Nel cast c’era un altro attore italiano, Ciccio De Rosa, un caratterista napoletano la cui faccia sghemba ricordava vagamente quella di Totò. Interpretava il cameriere della balera ed è l’unico personaggio a invecchiare, mentre tutti gli altri cambiano ruolo, anche se non carattere, lui è l’unico che rimane sempre se stesso e che invecchia col tempo. Con l’aumentare dell’età del personaggio aumentavano anche le ore di trucco che servivano per invecchiarlo e lui pativa terribilmente le alzatacce che questo comportava. Aspettava con trepidazione le giornate libere in cui non era di scena per poter dormire fino al pomeriggio. Ma succedeva che le cameriere dell’albergo, abituate al fatto che gli attori andavano via presto la mattina, non notavano il cartellino di «non disturbare» appeso alla maniglia e gli entravano in camera svegliandolo. Esasperato, una sera attaccò alla porta un foglio A4 con scritto nel suo francese personalizzato: NE ME RÉVEILLEZ PAS
POUR AUCUN RAISON AU MONDE!!!
(«Non svegliatemi per
nessuna ragione al mondo»). Rientrando da una serata a Montmartre, Monica e io e passammo davanti a quel cartello. Monica si bloccò. Non potette resistere: lo staccò e lo sostituì con un altro sul quale aveva scritto: RÉVEILLEZ MOI TÔT, LE PLUS TÔT POSSIBLE!!! («Svegliatemi presto, il più presto possibile»). Il problema di certi scherzi è che non puoi assistere all’effetto che fanno, ma solo immaginarne l’esito. Ci bastò per riderne per quasi tutta la notte. Non ci sono più, nessuno dei due, né Monica né Ciccio: lei per colpa del cancro, lui per colpa della maledetta depressione. Le riprese a Parigi durarono neanche dieci giorni perché la sera del 22 agosto papà ebbe un infarto gravissimo. Fu ricoverato all’ospedale Saint-Antoine e riacchiappato per i capelli da monsieur Du Moulin, il giovane cardiologo che gli salvò la vita e che in seguito è diventato un caro amico. Papà era più impressionato da come funzionavano gli ospedali pubblici in Francia che dal suo infarto: i medici gli spiegavano nel dettaglio quello che gli era successo, gli dicevano passo passo quello che pensavano di fare, illustravano la terapia, i possibili sviluppi… E non è che succedeva con lui perché era Ettore Scola, quello era il trattamento riservato a tutti i ricoverati. Semplicemente, lì funziona così. E papà non smetteva di magnificare la grande civiltà dei francesi, il rispetto dell’altro connaturato nella loro educazione, il loro senso di appartenenza, l’orgoglio del proprio lavoro, qualunque esso fosse, tant’è che loro sono tutti monsieurs, non docteurs: non ci sono dottori, infermieri, portantini… solo signori. Ed è il risultato della rivoluzione: loro ce l’hanno avuta, noi no. Dovette smettere di fumare ma come contropartita gli davano uova tutti i giorni, facendolo felice: anche i costumi terapeutici sono diversi dai nostrani, dove lo spauracchio del
colesterolo gli permetteva le uova una sola volta a settimana. Ci provò, papà, e per un po’ riuscì a smettere di fumare. Ma faticava e tentennava. Io purtroppo ero in Corsica per le riprese di un film e non potevo raggiungerlo, così gli feci una mascalzonata, gli scrissi una lettera vergognosa, patetica, lacrimevole, ricattatoria: Mi hai messo al mondo e non puoi abbandonarmi. Smetti di fumare all’istante. Risparmiami tutte quelle cazzate che non vuoi morire da sano avendo vissuto una vita da malato. Non frega. Devi restare con me! Se no dillo, che ti ammazzo io. Ecco la sua risposta, un «telegramma a mano» che mi fece recapitare da Silvia che era lì ad assisterlo.
TELEGRAMMA A PAOLA PER VIA DI FRETTA (SILVIA SPIEGHERATTI).
LETTA ET RILETTA TUA LETTERA. VA BENE, NON TEMERE, SOPRAVVIVERÒ, SOPRARROMPERÒ – MAI FUMATO DA GIORNO INFARCTUS – QUI MEDICI CARDIOLOGI IN GAMBA, MEGLIO RISPETTO MEDICI ITALIANI, SOLO CHE TUTTI INTENDONSI DI CINEMA E DI MIEI FILM, ANCHE MINORI – PNEUMOLOGO VOLEVA SAPERE TUTTO
«NUOVI MOSTRI » – COME FATE
TROVARE GRANDI ATTRICI COME MADRE LASCIATA DA SORDI OSPIZIO. SPIEGATO
«MON ASSISTANTE EST ALLEÉ À L’HOSPICE ET A TROUVÉ LA VIELLETTE » «PAS VRAI! » – INSOMMA BISOGNA PARLARE DI CINEMA, CHE COME SAI NON È MIO DISCORSO PREFERITO – SALUTA BELGIOIOSO – SIMON DETTO CHE ALBERTO ARRIVA MERCOLEDI QUINDI LAVORERAI FINO ALLORA – AMOTI. BACIOTI PAPÀ TUO
Ce la mise tutta, poveraccio, faceva le lunghe passeggiate quotidiane che gli avevano prescritto e per qualche mese non fumò, poi provò il sigaro, poi la pipa e alla fine tornò alle sigarette. Soffriva troppo e non avevo più voglia di ricattarlo: vivesse come (e quanto) voleva. Negli anni poi cambiava cardiologo a seconda di quello che gli dicevano, quando trovò quello che gli disse che in quelle condizioni gli faceva più male non fumare che farlo, fu l’incontro della sua vita e non lo lasciò più. E non ebbe neanche tutti i torti, è vero che poi è morto di infarto, ma a ottantaquattro anni si ha anche il diritto di farlo. Passato un anno esatto da quel primo infarto, l’estate successiva ripartirono le riprese del film, questa volta a Roma, a Cinecittà. Papà ricominciò tutto da capo e non utilizzò neanche un metro della pellicola girata l’anno precedente: l’infarto lo aveva cambiato, il tempo era cambiato e lo era anche l’ispirazione. Io lavoravo nel teatro accanto a Il tassinaro di Alberto Sordi. Appena avevo un attimo libero (Sordi si faceva una ricca pennica pomeridiana), li andavo a trovare sul set. Un giorno assistetti a quanto segue: un giovane attore che pensava di supplire alla mancanza di parole con una eccessiva
enfasi mimica e sovreccedenza di facce e faccette, venne arginato con gentilezza da papà: «Non roviniamo la sorpresa, tu resta impassibile, nulla deve trapelare dalla tua espressione. Dopo ti spiego perché». «Dopo ti spiego perché», altra voce di lessico familiare. Questa volta viene da una barzelletta non molto elegante ma che, per onore di cronaca, devo citare: un uomo e una donna al telefono per un primo appuntamento; lei è agitata, dice che non sa cosa mettersi; lui le va in soccorso: «Vieni senza mutande. Dopo ti spiego perché». Ed ecco che «Dopo ti spiego perché» diventa tassativo quando il motivo di qualcosa è palese e non c’è da spiegare proprio nulla.
Ballando ballando è il film di papà che più evoca l’atmosfera del «Marc’Aurelio», con gli inconfondibili disegni dell’inarrivabile Attalo, personaggi grotteschi e comicissimi come «Genoveffa la racchia», vezzosetta coi baffi i denti neri e le gambe stortissime e pelosissime, e «il Gagà che aveva detto agli amici», un morto di fame, fannullone imbroglione e bugiardo che si atteggia a gran signore. Alle macchiette di Attalo sono ispirati molti dei personaggi del film: «È come se la cinepresa si spostasse alla matita e guadagnasse la stessa libertà nel caricaturare, nel dare improvviso rilievo a tic, a manie o a difetti di madre natura». 10
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Fari nella notte (Paola) In Che strano chiamarsi Federico papà ha raccontato con amorosa precisione le tumultuose riunioni redazionali del «Marc’Aurelio». Avevano cadenza bisettimanale (perché bisettimanale era l’uscita del giornale) e riunivano sia i disegnatori sia i battutisti, che non sempre coincidevano. Papà cominciò a sedici anni solo come battutista, col tempo si fece apprezzare e poté disegnarsi da solo le sue vignette e firmarle. Riuniti attorno a un grande tavolo in una nuvola atomica di fumo, democraticamente, tutti sottoponevano il proprio lavoro al vaglio di tutti per decidere insieme cosa era abbastanza comico da poter essere pubblicato e cosa no. I redattori più importanti come appunto Attalo, o Steno, Metz e Marchesi o De Torres, democraticamente, avevano l’ultima parola. Alvaro De Torres era il purista dei giochi di parole e stabiliva regole ferree dalle quali non si poteva derogare: non più di un’allitterazione nella stessa frase, o un cambio o una sostituzione di una sillaba. Per cui «aspettare la mannaia dal cielo», «il buongiorno si vede dal gattino» e «le pene dell’inverno» andavano bene; mentre «ai prosperi l’ardua sentenza» – che ha due cambi: l’aggiunta di una consonante e la sostituzione di una lettera – sarebbe stata respinta: «prosperi» invece di «posteri», proprio no! Così come «briciole» al posto di «braciole», che contiene sia un cambio di vocale sia un cambio di accento. Sdegnava quindi i nonsense con inversione di sillabe di Mario Brancacci – il «cor che non fiolsi» per il «fior che non colsi» – che invece facevano ridere il mio papà: Ettola Score. Insomma, De Torres concionava e Attalo disegnava. Alla grande. Disse Vittorio Metz: «Se Attalo fosse andato in
America avrebbe fatto più soldi di Steinberg». 11 Saul Steinberg, il grande disegnatore rumeno ebreo – mito assoluto di papà – che per un periodo visse in Italia collaborando al «Marc’Aurelio» e che nel 1940 dovette scappare in America in seguito alle leggi razziali fasciste. Per quasi sessant’anni poi lavorò al «New Yorker» e i suoi disegni hanno fatto storia. Il più grande rammarico di papà era che non aveva fatto in tempo a incrociarlo: nel ’40, quando Steinberg lasciò il «Marc’Aurelio», lui aveva nove anni, e solo nel ’47 sarebbe entrato far parte della redazione. Steinberg era il suo modello e passava pomeriggi interi a studiarne il tratto, l’ironia, l’apparente semplicità; e lo stile dei disegni di papà da adulto è fortemente ispirato a quelli del suo maestro, al quale si sente debitore. L’ho sentito ripetere innumerevoli volte che la sua generazione era stata fortunata perché viveva di modelli. Sono debitore a tante persone, a modelli che rispettavo e desideravo imitare. Penso che anche i grandissimi artisti della pittura abbiano avuto punti di riferimento che amavano più di loro stessi e a cui volevano disperatamente somigliare. Oggi nessuno vuole copiare nessuno e il cinema italiano che osserviamo, pur vitale, non è originale proprio perché non copia. È un peccato. 12
Se Steinberg è stato il suo primo ispiratore, Vittorio De Sica è stato il suo faro: «un modello a cui si tende senza arrivarci mai». 13 Ettorino aveva sedici anni quando una mattina andando a scuola da via Galilei a Santa Maria Maggiore, passò per piazza Vittorio e la trovò presidiata dai mezzi di un set cinematografico. Nel centro, su una pedana rialzata, un bel signore distinto parlava in un megafono; ma non urlava, nemmeno parlava forte: sussurrava. E per non perdersi una sillaba la piazza era in assoluto, religioso silenzio.
Dava istruzioni a un uomo che teneva un bambino per mano, gli diceva cosa fare, come farlo, quando si doveva fermare, sorridere al figlio… L’uomo che sussurrava al megafono era Vittorio De Sica e il film Ladri di biciclette. Quel giorno ovviamente papà non andò a scuola, restò lì, a bocca aperta, davanti a quella magia che si materializzava sotto i suoi occhi e non si mosse fino a sera, fino a che il set non fu smantellato completamente e se ne furono andati tutti. Allora si avviò verso casa, felice, come su una nuvola: non vedeva l’ora di raccontare alla sua famiglia la meravigliosa avventura di quella giornata. Ma a casa trovò il putiferio: sua madre in lacrime e suo padre bianco come un cencio: aspettavano Ettorino per pranzo e passata l’ora di cena ancora non era tornato. Avevano temuto chissà che. Ma appena lo videro passò tutto, come nel loro stile non lo sgridarono ma anzi capirono e condivisero la sua grande emozione. Quel giorno papà non aveva solo assistito al suo primo set ma anche alla realizzazione di quello che, fin da quando ho memoria, ha sempre ritenuto «uno dei più grandi capolavori della cinematografia mondiale di tutti i tempi». Tant’è che su Ladri di biciclette ha incentrato una importante parte di C’eravamo tanto amati: tutta la vita del professor Nicola Palumbo (il sempre rimpiantissimo Stefano Satta Flores) è segnata da questo film. Dopo una proiezione al cineforum del ginnasio dove insegna, ha un feroce scontro coi notabili del paese proprio su Ladri di biciclette; il preside, il farmacista e il sindaco sbraitano sdegnati: «Opere siffatte offendono la grazia, la poesia, il bello! Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo!», «Di questi filmacci, bene ha detto un giovane cattolico di grande avvenire vicino a De Gasperi: i
panni sporchi si lavano in famiglia!», «Offende le tradizioni morali di Nocera Inferiore!». Palumbo insorge: «Nocera è inferiore perché ha dato i natali a individui ignoranti e reazionari come voi!». Molla tutto, lascia lavoro e famiglia e parte alla volta di Roma con la speranza di diventare cineasta; nell’attesa si barcamena come critico cinematografico. Partecipa a Lascia o raddoppia portando come materia la Storia del cinema italiano. Vince parecchie puntate fino a che, per un equivoco, cade proprio su Ladri di biciclette, di cui conosce a menadito ogni battuta e ogni inquadratura: perde pur avendo ragione. C’eravamo tanto amati è il tributo di papà al suo Maestro; non so quante volte l’ho sentito citare Calvino, che aveva detto che «De Sica è il più grande scrittore del Novecento» e gli esprime la sua ammirazione attraverso la passione del professor Palumbo. De Sica non fece in tempo a vederlo, era a Parigi, malato, dove morì cinque settimane prima dell’uscita del film. C’eravamo tanto amati è dedicato a lui.
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La Cosa (Silvia) Tra il 1988 e 1989 ho vissuto l’agonia della morte del Pci come un lutto personale. Sette anni prima avevo saputo dell’infarto di papà attraverso il Tg1, un telegiornale lanciato in edizione straordinaria che informava che il regista Ettore Scola, impegnato a Parigi, aveva dovuto interrompere le riprese del suo film Ballando ballando, per sopravvenuto infarto del miocardio. «Del miocardio?» «Del suocardio.» «Insomma… cardio.» Cardiopalma. Vero. Per me; figlia diciannovenne totalmente impreparata alla sua morte e tenuta all’oscuro di tutto, perché mamma, anche lei a Parigi, aveva pensato bene di non dircelo per non farci preoccupare. Come se Paola e io, a Roma, non nell’Oceano indiano, avessimo mai potuto non venirlo a sapere. Impietrita davanti alla televisione mi si gelò il sangue e il cuore mi si fermò. Fortuna che la rabbia contro mamma mi fece subito ribollire: non mi voleva far preoccupare e se papà moriva me lo faceva sapere così? Partii subito per Parigi e stetti lì ad assistere l’infartuato riacchiappato per le orecchie, per qualche settimana. Io alloggiavo ospite da amici in città, mentre lui era ricoverato a Maisons-Laffitte, in un fichissimo centro riabilitativo pubblico a poche decine di chilometri da Parigi. Lo avevano trasferito lì dall’ospedale Saint-Antoine dove lo avevano ricoverato d’urgenza, in un bel parco della regione dell’Île-de-France dove lo andavo a trovare ogni giorno. Fu lì, in quelle settimane, che vissi il vero lutto per la sua dipartita, con un
dolore che non provai mai più, neppure alla sua morte, avvenuta finalmente quarantadue anni dopo. «È stata una discreta schicchera» mi disse abbracciandomi; non era ancora del tutto fuori pericolo e l’idea di perderlo mi torturava. A volte, mentre passeggiavamo nel parco e lui sbadatamente saliva o scendeva qualche gradino, i medici francesi in camice bianco accorrevano urlando: «Arrêtez-vous, Monsieur! Arrêtez là!!!». Una volta che salì tre gradini di una lunga scala, arrivò di corsa un cardiologo in camice, grosso e di pelle nera, che lo prese in braccio e lo riportò giù di peso obbligandolo a prendere l’élévateur! Papà rideva e minimizzava, allarmandomi quindi ancora di più. Diceva che erano esagerati come lo sono sempre i francesi e continuava a fare come voleva. Non se ne stava, come si dice a Napoli, e quei medici, oltre a essere severissimi e francesi, avendo capito il tipo lo controllavano a vista sentendosi anche responsabili del patrimonio dell’umanità che quel pazzo rappresentava. Ancora traumatizzata da quel Tg non riuscivo a tranquillizzarmi. Soprattutto durante il viaggio con i quattro mezzi pubblici, che prendevo sia la mattina all’andata che la sera al ritorno, e appena lo lasciavo pensavo che avrei potuto non vederlo mai più, magari già dall’indomani, morto per una delle sue prodezze. Mai più mai più mai più mai più era il terribile mantra che mi accompagnava nel pendolarismo del tragitto, e ogni minuto di vita con lui mi sembrava un regalo. Così nel tempo, negli anni, ogni giorno, di allerta, di sobbalzi ai notiziari il cui incipit fosse: «Lutto nel mondo dello spettacolo…». Eccolo, è lui, pensavo, ci siamo. E mi preparavo. Meglio farci i conti subito, dato che prima o poi sarebbe stato così. Era un pensiero puntuale anche perché papà, al contrario di due amici coetanei infartuati come lui nello stesso periodo,
non volle cambiare abitudini. Tornato a Roma dopo un mese e mezzo di riabilitazione a Maisons-Laffitte riprese a fumare, a guidare, a lavorare, a bere, a mangiare e a fare tutte quelle cose vietate ai cardiopatici, già dopo pochi mesi. «Preferisco morire domani, piuttosto che smettere di fumare.» E quello fu. Cambiò vari cardiologi finché trovò quello che gli disse che andava bene così, che pensasse a vivere e fumasse pure tranquillo. E papà campò in salute, si fa per dire, altri quarantaquattro anni; cosa che purtroppo non accadde a quei due amici infartuati (Claudio e Sergio), che morirono pochi anni dopo proprio per aver cambiato radicalmente abitudini, smesso di fumare ed essersi seppelliti da soli anzitempo. Ancora una volta aveva avuto ragione lui e il dottor Monaco che lo sostenne: per vivere doveva continuare a vivere, e quindi continuare a fumare. Per il Pci invece, il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, che agonizzò con noi a bordo poco prima della caduta del muro di Berlino per naufragare definitivamente due anni dopo, nessuno mi aveva avvisata. Neppure papà. Mai. Il partito era un concetto fermo, imperituro. Una certezza che oltre ad accompagnarci nella vita di tutti i giorni, si sarebbe presto (!) concretizzata in una politica di governo, tosta e risolutiva, che avrebbe fatto sorgere il «sol dell’avvenire» sulla nostra repubblica democratica. Il Partito comunista italiano era profondamente diverso dal socialismo reale praticato dai regimi dell’Unione Sovietica e della Cina di Mao, per esempio, che ancora sostenevano la dittatura del proletariato, e dai quali i segretari del Pci, da Longo in poi, avevano sempre preso le distanze, sia pure con sommovimenti interni. Liberté, égalité, fraternité. Viva la pace. Viva l’Europa (evviva Rossi e Spinelli che l’hanno ideata a Ventotene). Il progresso attraverso la fratellanza i nostri cuginetti d’oltralpe lo avevano stigmatizzato e perseguito nel 1789, duecento anni prima, e noi, l’Italia «moderna» della Milano da bere – come
recitavano gli slogan pubblicitari dell’epoca, forse premonitori del fatto che un decennio dopo si sarebbero bevuti tutta quella classe dirigente – ancora annaspavamo nella melma delle mafie e dei luridi giochetti di potere dei democristiani; aiutati adesso dai nuovi socialisti, apprendisti stregoni. «Gianni?… Gianni?… Papà, hai visto Gianni?» Tempi di compromessi e trattative, lontani dagli ideali iniziali e ben incarnati da Gianni Perego, il brillante, perdente e ricco avvocato, interpretato da Gassman in C’eravamo tanto amati, uscito dalla penna di Age Scarpelli e Scola diciotto anni prima dello scandalo di Tangentopoli. «Saranno i Gianni Perego a cambiare questa società in una società più giusta.» Il socialista, ex azionista, ex antifascista, ex partigiano Gianni Perego, morto ricchissimo e completamente solo, perché abbandonato pure da se stesso. Alla fine degli anni Ottanta, in un momento storico in cui Craxi, la Dc e il governo del Pentapartito stavano perdendo colpi, soprattutto sul campo della moralità, il Pci, dopo un decennio di politica dello struzzo, tirava su la testa facendo un’opposizione seria, unitaria, concreta, per voce del nuovo giovane segretario Achille Occhetto. Il nuovo segretario, per noi romani Ochetto, per la prima volta in Italia annunciò un governo ombra sul modello dello shadow cabinet inglese, formato da tecnici e professionisti di settore provenienti dal partito e dalla sinistra indipendente, che avrebbe dato battaglia in parlamento a suon di riforme e proposte di legge, alternative a quelle del governo in carica (Andreotti VII). Un Consiglio dei ministri ideale, tipo Città del sole di Tommaso Campanella, che comprendeva anche papà alla direzione generale Cinema e Spettacolo del ministero della Cultura, e che vorrei qui ricordare, per amore di cronaca e di nostalgia:
Achille Occhetto Gianni Pellicani Aldo Tortorella Giorgio Napolitano Alfredo Reichlin Stefano Rodotà Gianni Cervetti Sergio Segre Filippo Cavazzuti Vincenzo Visco Gianfranco Borghini Sergio Garavini Ada Becchi Giovanni Berlinguer Chicco Testa Aureliana Alberici Edoardo Vesentini Ettore Scola, Giulio Carlo Argan Adalberto Minucci Carla Barbarella Grazia Zuffa Romana Bianchi Luigi Cancrini
Presidente (Pci) Coordinatore (Pci) Interni (Pci) Esteri (Pci) Economia (Pci) Giustizia (Sinistra Indip.) Difesa (Pci) Europa (Pci) Tesoro (Pci) Finanze (Sinistra Indip.) Industria (Pci) Infrastrutture trasporti (Pci) Territorio-casa (Pci) Sanità (Pci) Ambiente (Pci) Scuola (Pci) Ricerca (Pci) Beni culturali (Pci) Lavoro (Pci) Agricoltura (Pci) Problemi dei giovani (Pci) Problemi delle donne (Pci) Lotta agli stupefacenti (Pci)
Certo, c’erano poche donne, come sempre nel nostro Paese, quattro ministre su ventuno; però era un bel governo, alternativo alla corruttela socialista sempre più diffusa, che dava nuova forza propulsiva al Pci, che adesso, irreprensibile e in ritrovata salute, si avvicinava ai settant’anni d’età, da quel lontano 1921 in cui nacque per scissione dal Psi e si chiamò Partito comunista d’Italia, fondato da Antonio Gramsci.
Il giorno del trentaduesimo compleanno di Paolètt, il 22 luglio 1989, io ero incinta del mio secondo figlio che sarebbe nato i primi d’agosto, e papà andava in veste ufficiale di ministro alla riunione del governo ombra del Pci che si riuniva per la prima volta a Palazzo Madama. Eravamo tutti molto orgogliosi della sua entrata a Botteghe Oscure, in quel ruolo tanto prestigioso quanto impegnativo, al quale si era messo subito al lavoro con la sua squadra di tecnici e militanti volontari, che data l’importanza delle politiche dello spettacolo per quel governo diverso avevano offerto la loro forza lavoro. «We have a dream.» Finalmente anche noi avevamo un sogno che cominciava ad avere una parvenza di realtà: il comunismo italiano stava per sbocciare. Un miracolo a cui papà credette, mobilitando subito anche l’Anac, l’Associazione degli autori cinematografici che comparava leggi e normative degli altri paesi europei, con l’ausilio degli Avvocati Giovanni Arnone e Niccolò Paoletti, per individuare un sistema cinema italiano che garantisse la qualità dei prodotti audiovisivi e la tutela dei diritti sindacali dei lavoratori del cinema, ma che allo stesso tempo ne sostenesse finanziariamente il mercato. Era un ministro senza portafoglio, e questo ci faceva molto ridere; Giovanna Cau, la nostra avvocatessa agente, aveva sbraitato tutta la vita contro papà e contro di me, dicendo: «Voi Scola come sentite puzza di soldi scappate!». Era vero. Si incazzava perché ci voleva bene e non accettava il fatto che nonostante fossimo tutt’altro che ricchi, papà rifiutasse pubblicità, televisione e quant’altro puzzasse di soldi, come facevo anch’io. Mentre per il partito, per gli operai, per gli studenti e per qualunque cosa riguardasse l’impegno civile papà non si sottraeva mai: purché non ci fossero soldi, commentava polemica l’avvocatessa, anche per le percentuali mancate dello studio. Ma Giovanna capiva l’amico Ettore, lo aveva sempre affiancato nelle sue battaglie
politiche e lo conosceva abbastanza per sapere che a compromessi non sarebbe sceso mai. Così, papà cominciò quel lavoro di ministro ombra alla Cultura senza alcun compenso ma con un sacco di idee: disegni di legge, proposte di riforme, correttivi dei modelli francese, portoghese, spagnolo… quattro mesi di cantiere e di telefonate assidue con il suo omologo francese, il ministro della Cultura Jack Lang, per dimostrare che un governo comunista in Italia non solo sarebbe stato possibile ma avrebbe potuto governare con successo in nome della competenza, della moralità e della trasparenza, come già faceva da decenni nelle floride amministrazioni rosse della Toscana e dell’Emilia-Romagna. A meno di un anno dalla fine di quell’orribile decennio che erano stati gli 80’s, mentre il governo ombra lavorava nell’ombra, il compagno Ochetto e i suoi ministri fantasma non perdevano occasione per esternare e criticare duramente le azioni di governo, ognuno per il proprio settore: il Pci aveva finalmente ritrovato la voce e stava ricominciando a usarla. E a breve avrebbe consegnato il suo programma di governo che in caso di crisi (prossima) avrebbe potuto subentrare e sostituirlo. E invece… Sbam! Un pilone preso in pieno. Chiamato Bolognina. Una botta mortale che a convoglio appena avviato infrangeva miseramente il sogno a quattro mesi dalla nascita del governo ombra. Due giorni dopo quel fatidico 9 novembre in cui cadde il muro che divideva Berlino da ventotto anni, il nostro segretario in un’assemblea ristretta alla sezione Bolognina, se ne uscì a sorpresa con quell’idea, notturna e solitaria, della «svolta»: sciogliere il Pci (nell’acido?) e avviare il «nuovo corso» di un soggetto politico altro che avrebbe riunito tutte le forze di sinistra. «Che oróre!» avrebbe detto Adelaide, la fioraia di Dramma della gelosia, per dare voce allo sdegno di Oreste, muratore
ingraiano di ferro come il suo creatore Scola, che ci ha infuso il mito di Pietro Ingrao fin da bambine. Pietro, anzi «il compagno Pietro», un comunista integerrimo dell’ala progressista, democratica e contraria alla politica filosovietica di Cossutta, ma lontanissima dalla politica dei miglioristi e della destra del partito (convintamente socialdemocratici) come Amendola e Napolitano. Nonostante il «divieto di frazionismo» che vigeva per statuto nel Pci, le correnti c’erano sempre state e in buona salute, ma protette e mantenute fortemente all’interno del partito: «dei fatti di casa la lingua rasa» dicono i trevicani. E l’equilibrio interno del Pci, con le sue cinque anime da tenere insieme e qualche strappo doloroso, tipo la fuoruscita dei compagni del Manifesto (Rossanda, Magri, Pintor) nel ’69, aveva sempre resistito alle tempeste, nel nome del «centralismo democratico» che prevedeva che si votasse e deliberasse a maggioranza. Con quella svolta repentina, Occhetto concluse bruscamente anche l’esperienza del governo ombra, liquidandolo così come lo aveva creato, e mandando tutti a casa con tante grazie: adesso all’interno del partito c’era da discutere del nuovo corso e di quel nuovo soggetto politico, chiamato per adesso «La Cosa», che avrebbe dovuto partorire. Per la politica italiana che affogava nella melma, invece, non avevamo più tempo. Avevamo altro da fare. Quella cosiddetta «svolta della Bolognina» scatenò l’inferno in tutte le sezioni del Pci e nelle famiglie italiane dei compagni militanti. Tra le quali la nostra. Era l’autunno del 1989, era nato da tre mesi Pietro, il mio secondogenito dopo Marco e dopo il primogenito di Paola, Tommaso, nato nel 1988, e avevo perso mia suocera alla quale ero attaccatissima, improvvisamente quella stessa estate. La notizia del nuovo corso del Pci che avrebbe dovuto portare a quella Cosa che non si capiva bene cosa fosse e cosa volesse diventare al di là del «superamento del Partito comunista», finì di sconvolgere ogni equilibrio nella mia vita.
Moriva il partito? Si scioglieva il progetto di una società migliore e con lui svanivano tutti i nostri sogni di libertà e uguaglianza? Che succedeva? Nessuno ci capiva granché e tutti scompostamente. Soprattutto noi contrari.
ci
agitavamo
Nanni Moretti fece al volo un film documentario sullo scisma, prodotto dalla Sacher, riprendendo il dibattito nelle sezioni e montandolo senza commenti e senza prese di posizione, per presentarlo nel marzo del 1990 alla vigilia del XIX congresso del Pci, con l’inquietante titolo di La cosa. Parola tutt’altro che tranquillizzante oltre che per la sua vaghezza, anche perché evocava prepotentemente l’orrendo organismo antropofago del film di John Carpenter, uscito qualche anno prima nelle sale: La cosa (The Thing). Oltre al tempo, che non avevo, ma che trovavo strenuamente ogni giorno per andare in sezione a discutere di quella proposta, e sostenere il fronte del «no», ad addolorarmi su tutto c’era che Scola si dichiarò favorevole: avrebbe votato «sì» alla svolta di Occhetto. Papà e io avevamo sempre discusso di politica, su posizioni spesso differenti ma sempre vicine, più estremista io e più moderato lui, più vicina al movimento degli studenti io e più arroccato ai diktat del partito lui, ma sempre d’accordo sulla linea del compagno Ingrao, comunista solido e coerente, e del primo Berlinguer dei pensieri lunghi: per cui chiamati alle urne votavamo Pci tutti e due, ed eravamo felici di aspettare le proiezioni insieme e di trepidare all’unisono sotto al Bottegone in attesa dei risultati. Come quella notte del ’76 quando il Pci raggiunse il trentatré per cento dei voti sorpassando la Dc e diventando il primo partito italiano; e Berlinguer chiamato a gran voce dai compagni giù in strada: «Enrico! En-ri-co! Enri-co!». Alla fine si affacciò a salutarci, mite e sorridente come sempre. O nel ’79, dove calammo un po’ ma superammo comunque il trenta per cento dei voti, sul filo di lana con i democristiani.
Adesso invece, grazie a Ochetto che chissà che cosa di brutto si era fumato la sera prima della Bolognina, papà e io ci trovavamo improvvisamente su fronti opposti, nemici, ostili. Feriti l’uno dal tradimento dell’altra: io assolutamente contraria (proprio adesso poi! Che tutto stava marciando bene, anche se con le scarpe rotte), e lui aperto al nuovo, possibilista, revisionista, maggioritario. Pronto ad abbandonare la nave e il suo grande amico Pietro che presentava la sua mozione di resistenza, la Mozione 2: no alla svolta; che io votai insieme con la minoranza del partito, circa un terzo, e alla quale poi nel computo dei voti finali si aggiunsero quelli della Mozione 3 di Armando Cossutta, contrari anche loro, ma presenti in numero molto esiguo. Due anni e tre mesi di agonia erano seguiti al pilone che ci aveva tramortito, e dopo lunghe consultazioni, confronti, liti e dibattiti sulle tre mozioni presentate (la 1 di Occhetto e D’Alema: Sì alla svolta. Per il Partito democratico della sinistra; la 2 di Ingrao e Bassolino: No alla svolta. Per un moderno partito antagonista e riformatore; e la 3 di Cossutta e Garavini: No alla svolta. Per la Rifondazione comunista) alla fine dei giochi le sezioni italiane votarono «sì» a larga maggioranza per quella svolta maledetta, e il Congresso di Rimini decretò la fine del Partito comunista italiano. Era febbraio del 1991: il Pci si scioglieva per sempre, all’età di settant’anni e un mese, e dalle sue ceneri nasceva ora il Pds, Partito democratico della sinistra. Si stabilì che una piccola falce e martello sarebbe rimasta nel simbolo, alla base delle radici della quercia, simbolo del nuovo partito, la cui chioma ricordava quella del segretario Achille; di fatto però, in una manciata di mesi, era stato liquidato il Pci con tutta la sua storia, senza un vero perché e senza il tempo necessario per valutare quei settant’anni di lotte, di vita dura, di prese di distanza e strappi dai regimi comunisti, di conquiste sindacali con la Cgil, libertarie, femministe e democratiche, che ormai ci lasciavamo alle spalle.
Ogni giorno, papà e io, armati delle migliori intenzioni cominciavamo a parlare pacatamente, ma non c’era verso, i toni si incrinavano presto e la discussione virava nella lite, accesa, furiosa e ogni volta definitiva. Vacce pure te. Vinsero loro, i «sì» alla svolta, che poi votarono anche per il sistema maggioritario, bipolare e secondo me impraticabile in un paese di zotici e fanatici com’era l’Italia. Ma a loro evidentemente non sembrava così. Cosicché per quieto vivere papà e io avevamo smesso di parlare: di politica, ma anche di tante altre cose. Una crepa, che ovviamente non avrebbe rotto niente tra di noi, ma che era dolorosa uguale, visto che per non litigare evitavamo sempre più di vederci. Poi un giorno del 1992 mi chiese se volevo scrivere un film con lui, su quella scissione che aveva lasciato sul campo morti e feriti, nelle sezioni, ma anche nelle famiglie italiane. Aveva lasciato sul campo anche migliaia di orfani, tra i quali me, mai entrati in quella «cosa nuova» che era il Pds e però mai neppure confluiti in Rifondazione comunista, troppo pallido succedaneo del Pci. Lo spettro, per potersi aggirare per l’Europa e costruire un nuovo mondo, doveva essere sconfinato, potente e possibilmente globale. E quella di quei comunisti irriducibili, di cui condividevo in pieno le idee ma non le strategie, mi sembrava una riserva indiana di nostalgici, un fenomeno di nicchia che nulla aveva a che fare col grande Partito comunista italiano. Insomma una catastrofe, di cui non riuscivo a capacitarmi e di cui non riuscivo a non dare gran parte della colpa a mio padre che l’aveva favorita. Ettore e io avevamo sempre lavorato bene insieme, all’epoca avevamo già scritto tre film ma sempre insieme ad altri sceneggiatori. Quello era il primo film che avremmo scritto lui e io da soli. «Sei sicuro? E se poi litighiamo?» «Lasceremo litigare i personaggi.» «Mah, se lo dici tu? Proviamo.»
Fu così che cominciammo a scrivere Mario, Maria e Mario, tutti e due appassionati alla materia e intenzionati a raccontare attraverso Mario e Maria (interpretati da Giulio Scarpati e Valeria Cavalli, e l’altro Mario da Enrico Lo Verso) ognuno le proprie ragioni, le proprie analisi e la sintesi, a cui arrivammo, che alla base sarebbe rimasto l’amore. Anche se ferito a morte. Effettivamente erigere quella quarta parete fittizia, quel tramezzo divisorio tra realtà e finzione, ci permise da subito di parlare del film e delle vicende dei personaggi con distacco e senza mai tracimare nella lite, o nello scontro personale, e allo stesso tempo ci dava modo di riflettere su di noi e sui meccanismi di ostilità che si erano innescati. Sulla falsariga della nostra incomprensione di padre e figlia, raccontavamo la spaccatura tra due giovani coniugi che arrivano a lasciarsi e a mettere in dubbio il loro amore per le posizioni avverse scelte nel partito. Era un modo indiretto per sviscerare le ragioni di ognuno e raccontare il dolore di una spaccatura profonda, come le radici che il Partito comunista aveva radicato nel suo popolo, cioè in tutti noi. Scrivere quella sceneggiatura fu un lavoro terapeutico, pacificatorio, di chiarimento tra me e papà, che anche se continuavamo a non essere d’accordo, e abbiamo continuato a non esserlo fino alla fine, potevamo volerci bene e stare sereni lo stesso.
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Parole sudate (Paola) Qualche annetto fa decisi che volevo dei figli («qualche annetto fa» è perché sono un’appassionata di eufemismi) e che avrei lasciato il lavoro per dedicarmi completamente a loro. Comunicai a papà che doveva cercarsi un altro aiuto. «Di nuovo?!» Come ho già detto, qualche anno prima ero andata a fare l’aiuto a Sordi e sono rimasta con lui per un paio d’anni e quattro film. Di papà in quel lasso di tempo mi persi solo Ballando ballando. (Ma che perdita! Ancora mi mangio le mani.) In quei due anni fece solo quel film sia per i suoi soliti tempi biblici sia per l’infarto del quale poi, per fare lo spiritoso, disse che se lo era fatto venire apposta per aspettarmi. In Ballando ballando gli fece da aiuto Francesco Lazotti, il futuro padre dei miei figli. Nel frattempo, però, nemmeno lui era più disponibile perché era diventato regista di serie televisive a tempo pieno. Anche stavolta l’idea di doversi cercare un nuovo aiuto non gli piaceva per niente e quella di diventare nonno a cinquantasei anni gli piaceva ancora meno: «Non gli sarà consentito chiamarmi nonno, sarò Ettore anche per loro». Ma poi è stato un attimo: il tempo di annusarli e sprimacciarli un po’, e perdersi per sempre. Quando sono nati i miei, Tommaso prima, e due anni più tardi Giacomo, vivevo in una bolla, in una luna di miele perpetua, rincretinita d’amore: è stato il periodo più gioioso e appagante della mia vita. Breve ma intenso. Cioè, intenso ma breve perché nel giro di pochi anni precipitai dal settimo cielo a casalinga disperata; quello che fino a poco prima era stato fonte di felicità perfetta, ora mi frustrava a morte: mi sembrava che la mia vita fosse
fatta solo di pappe e cacche. Veleggiavo verso la depressione. Che strazio la mia irrequietezza! E ancora una volta arrivarono i nostri, cioè, il mio (papà): mi propose di tornare a fargli da aiuto per Romanzo di un giovane povero, che stava preparando e dove avrei ritrovato Sordi in veste solo di attore. Rifiutai: avevo fatto i figli per crescermeli non per mollarli a una tata, il cinema è esclusivo e totalizzante, incompatibile con la maternità; non è un caso se sono pochissime le donne con figli piccoli che lavorano sui set. Papà non mollò e dopo poco tornò alla carica, questa volta con un’occupazione che non avrebbe previsto dedizione a tempo pieno: in una libreria aveva trovato la locandina di un bando di un concorso letterario: un racconto breve a tema sportivo. Una prestigiosa giuria presieduta da Marco Lodoli avrebbe decretato i vincitori e il premio in palio per i cinque migliori racconti sarebbe stata la pubblicazione in un volume dal (raccapricciante) titolo Parole sudate. Senza consultarmi papà mi aveva iscritto al concorso e dovevo consegnare alla casa editrice un racconto di trentacinque pagine per la fine del mese. Avrei voluto strozzarlo: come si era permesso? Prevaricatore presuntuoso e arrogante! Sprofondai in una crisi ancora più nera, non so se ero più spaventata o più incazzata ma… era così impellente il bisogno di uscire dal tunnel della maternità che, non avendo alternative, capitolai. Ripensandoci, papà mi ha sempre salvata da me stessa con la scrittura e dandomi a intendere di avere bisogno di me. A parte la canzone partigiana di C’eravamo tanto amati di cui ho già detto, lo avevo aiutato nell’ombra, come negra – o «ghost writer», se vogliamo usare un termine politicamente più attuale – nel 1980 con Passione d’amore che stava sceneggiando con Ruggero Maccari e nell’88 con Che ora è dove per la prima volta ho scritto insieme a Silvia (e a Beatrice Ravaglioli), contribuendo con cose che sono nei film e che solo io so di essere mie. Così ho capito l’intima soddisfazione
della negritudine di cui ci parlava papà, che non smetteva di ripetere che quello da negro era stato il periodo più felice della sua vita lavorativa. Questa volta però non avrei avuto la protezione dell’anonimato, avrei dovuto metterci la faccia e la firma e scrivere un racconto del quale sarei stata interamente responsabile. Ma il problema non era soltanto questo, c’era anche un’altra questione ben più spinosa: il racconto doveva essere a tema sportivo. Perché papà mi faceva questo? Chi meglio di lui sapeva quanto era ostico quell’argomento? Qui urge una precisazione: lo sport è lo spauracchio ufficiale della nostra famiglia. A cominciare da nonno che nonostante fosse medico assecondava le scarse attitudini sportive dei suoi figli con continui certificati di esonero dall’educazione fisica – le frasi ricorrenti erano: «Non ti strapazzare!», «Piano!», «Non correre che sudi!» – la tradizione familiare continua di generazione in generazione, fino ai miei figli (con la connivenza del loro padre), così che siamo tutti immuni dallo spirito agonistico. Non solo, la nostra antisportività riguarda sia la pratica – siamo pigri, goffi e inabili – sia lo sport inteso come spettacolo. Le Olimpiadi, per papà? «Eccitanti come le pecore dell’intervallo» (le ricordate? Se no, basta digitare «pecore dell’intervallo» su YouTube per farsi un’idea). La sua idiosincrasia per il calcio poi era direttamente proporzionale con la popolarità del gioco, la cui invadenza trovava oltraggiosa. Credo che questo fosse l’unico motivo di astio delle troupe nei suoi confronti: era amatissimo, ma aveva questo vistoso neo. I registi tifosi fanno in modo che il piano di lavorazione del film tenga conto degli eventi calcistici importanti. Papà nemmeno sapeva se la Roma era in serie A, figurarsi se poteva concepire di organizzare il lavoro in conseguenza. Quando però qualcuno più ardito si faceva avanti e gli chiedeva: «Dotto’, non è che je farebbe piacere de facce piacere a tutti quanti e di staccare un par d’ore prima?». Lui acconsentiva, a malincuore ma acconsentiva; magari anche coprendo la troupe con la produzione e sostenendo che
si finiva prima perché aveva un impegno personale. Non ci credeva nessuno ma lui era il Maestro, e chi aveva il coraggio di sbugiardarlo? Mi ricordo una sera dell’estate del 1978 a Fregene, papà era nello studio a lavorare da solo; improvvisamente lo sentimmo scoppiare a ridere, andammo a vedere e lo trovammo con la cornetta ancora in mano che rideva; ci disse che aveva appena telefonato ad Amidei, il quale aveva risposto e, senza neanche dire «Pronto», aveva urlato: «Scola! Solo tu puoi telefonare durante Italia-Argentina!». Bum! E aveva buttato giù. Tutta questa digressione per dare un’idea di quanto fosse impossibile per me il tema sportivo e quanto fosse forte il nervoso nei confronti di papà che mi obbligava a tanto. «Questo passa il convento,» mi disse «questo ho trovato e questo fai. Smettila di piagnucolare e affrontalo come un compito in classe che va svolto per forza.» Obbedii. Mi misi sotto ma ovviamente arrancavo, non mi veniva niente e quello che mi veniva era fasullo, poco credibile; l’unica cosa che avevo in testa era la mia inadeguatezza rispetto a qualunque idea di sport. Stavo per arrendermi quando capii che dovevo cavalcarla quella inadeguatezza; così scrissi Palla capitano parlando di sport come potevo farlo io e cioè per mezzo della storia vagamente autobiografica di una dodicenne con l’incubo dell’ora di educazione fisica in cui la obbligavano a giocare a palla capitano. Alla fine il racconto stava in piedi ed ero anche riuscita a non andare fuori tema. Consegnai il dattiloscritto e non ne seppi più niente. Però l’operazione aveva raggiunto il suo scopo: sentirmi di nuovo un essere umano, con presenza di attività cerebrale, capace di esistere oltre le pappe e le cacche. Poi, circa un anno più tardi, arrivò una telefonata della casa editrice che mi annunciava che Palla capitano era fra i cinque vincitori del concorso e che sarebbe stato pubblicato. L’unica cosa che mi bruciava era dover ammettere che papà aveva avuto ragione anche stavolta. Lui ebbe la decenza di non infierire.
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Fisica quantistica (Silvia) Mentre da bambina mi piaceva da pazzi origliare i discorsi di quei matti chiusi nello studio e ascoltare il ticchettio della macchina da scrivere di papà per ore e ore, ho sempre detestato andare sul set. Quel «picchiettar di macchine da scrivere», come dice (anzi, scrive) Nicola-Satta Flores a sua moglie in C’eravamo tanto amati, ha accompagnato tutta la mia infanzia come una ninna nanna; con le pause del pensiero, o quelle per accendersi una sigaretta e poi riprendere a fiume (tac tac tac tac dlìn! e accapo) fino ai ripensamenti: tante X su ogni cancellatura. E poi il rumore della pagina tirata fuori a strappo dal rullo, le operazioni di sostituzione del foglio, con o senza carta carbone per le copie… Così per tanti film, per tante pagine, ogni copione 280 a volte anche 300 pagine, di sceneggiature belle da leggere come romanzi e più divertenti di «Topolino». Sul set invece mi veniva l’orticaria. Non mi piaceva affatto e appena ero lì soffrivo dopo pochi minuti. Intanto andavamo «a trovare papà», ma papà ovviamente durante le riprese era l’unica persona con la quale non potevamo stare. E poi avevo la sensazione, ma era la verità, di stare sempre tra i piedi di qualcuno, cento persone che lavoravano alacremente ognuno al suo reparto mentre io dovevo stare lì, immobile, a guardarle come allo zoo. Con la differenza che non c’erano gabbie a separarci, e siccome papà cercava sempre di farmi stare il più possibile vicino a lui e alla macchina da presa (all’epoca non c’era ancora il Combo con i monitor), stavo sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato: sui cavi degli elettricisti, sui binari dei macchinisti, sulle cassette dei fotografi o della segretaria di edizione, davanti alle luci del direttore della fotografia… dove mi mettevo mi mettevo, intralciavo il lavoro di qualcuno, e
assistere a quella marea di persone tutte concentrate in un unico scopo, così delicato, era un incubo. Come stare in mezzo ai meccanici durante un pit-stop di Formula 1. Assurdo. In più, da piccolissima avevo la netta percezione di trovarmi in un universo parallelo, una cosa tipo Matrix o Truman Show o Alice nel paese delle meraviglie: un’esperienza ravvicinata di fisica quantistica. Vivevano tutti in una «dimensione altra» di cui io non facevo parte e dove tutto aveva la stessa credibilità, lo stesso aspetto e la stessa concretezza della vita reale. Epperò eravamo nel 1632, o nella Francia della Rivoluzione francese, o in America, o chissà dove a seconda dell’ambientazione del film, in cui era tutto ricostruito alla perfezione fino nei minimi particolari. Papà era un perfezionista maniacale e da disegnatore accurato qual era, illustrava nel dettaglio tutti gli oggetti, gli oggettini e le suppellettili che avrebbe voluto vedere in scena. Non faceva mai lo storyboard per i suoi film, perché non amava preordinare le inquadrature e cristallizzarle in disegni, preferendo lasciare libera l’ispirazione (perlopiù notturna) dei movimenti di macchina; ma si dedicava invece a illustrare con cura i dettagli per i collaboratori del set: dai macinini da caffè, ai monopattini, ai bottoni, agli orologi da tasca e da taschino, alle caffettiere napoletane, ai nasi camusi, ai calzini scalcagnati, fino alle bacinelle ambulanti di Cesaretto in Brutti, sporchi e cattivi, arrivando, per La famiglia, a disegnare persino gli interruttori della luce, con la levetta a farfalla e i fili intrecciati lungo le pareti, com’erano nel secolo scorso. Un pazzo. Dava poi questi schizzi agli scenografi, agli arredatori, ai costumisti, ai truccatori perché li riproducessero il più fedelmente possibile, e quelli eseguivano magistralmente quasi sempre. L’atmosfera sui set di papà è sempre stata armoniosa, serena, anomala: concentratissima e allo stesso tempo estremamente rilassata. In tutti i suoi film. Non gli ho mai sentito alzare la voce, sussurrava pure al megafono (glielo aveva suggerito Vittorio De Sica: «Se tu parli a bassa voce, vedrai che per sentirti gli altri dovranno fare silenzio», consiglio che papà
aveva seguito alla lettera), e le varie squadre di maestranze, operai, capisquadra, attori e tecnici, lavoravano all’unisono come sezioni d’orchestra, con la massima fede nel proprio compito ma sempre pronti a scherzare, tutti, con il loro direttore, Scola, che non aspettava altro. Cosa che non rallentava affatto la produttività. Anzi. La dedizione di ognuno era visibile in ogni inquadratura. Eppure prevaleva il fastidio di dare fastidio, e l’istinto era quello di scappare via. Siccome sapevo che faceva piacere a papà, resistevo per una mezz’oretta, a volte fino all’ora di pausa se era vicina, in quell’attesa infinita del ciak, che dopo il cicalino assordante dell’ALLARME SILENZIO si risolveva tutto in pochi secondi. E se si trattava di un piano sequenza, una scena lunga, girata tutta di seguito in un unico movimento di macchina, poteva arrivare al massimo a durare qualche minuto. Tempo durante il quale si doveva trattenere anche il fiato, e se starnutivi, inciampavi o tossivi erano guai. E… STOP ! Da capo. Tutti al VIA . La stessa scena ripetuta decine e decine di volte. Fino a che non si arrivava a una ripresa «BUONA », cioè venuta bene, da poter stampare, e allora si fermava tutto di nuovo per passare all’inquadratura successiva; e quindi: sposta i binari, sposta le macchine, rimetti le luci, monta i carrelli, cambia gli attori e l’arredo e il trucco e il parrucco e i costumi … e l’attesa interminabile ricominciava. Spesso poi, papà, per gentilezza, dopo aver dato lo stop a una scena, diceva «Buona!», un po’ per rincuorare tutti, ma soprattutto per dirlo alla segretaria di edizione perché la segnasse, perché di «buone» si cercava di portarne a casa sempre due o tre, per sicurezza; quindi fregando tutti diceva: «Stop! Buona. Bene… Ne facciamo un’altra. Da capo, grazie». Aridanga. Mi pareva un supplizio. Come la barzelletta del gattino che vuole andare di notte sui tetti a fare l’amore coi grandi e dopo mezz’ora di miagolii disperati, dice sbadigliando: «Be’, io scopo un altro pochetto e poi vado a dormire». Uguale.
All’epoca poi si girava in pellicola e questo allungava i tempi di preparazione perché, oltre alle luci, e al loro disegno accurato che tra filtri, bandiere e bandierine, prendeva un sacco di tempo, mentre giravano finiva anche lo chassis, la bobina di pellicola che andava quindi sostituita con le dovute manovre nelle scatole oscurate per evitare che prendesse luce, il che, ovviamente, aggiungeva tempo al tempo. Salutavo papà da lontano agitando la manina ogni volta che incrociavo il suo sguardo, magari da un dolly o in cima a un trabanello, e lui da lassù mi rifaceva quel gesto di rimando e ridevamo insieme, ma appena potevo scappavo via. Sono nata con Il sorpasso, lui il 15 e io il 26 agosto 1962, con papà sceneggiatore sul campo accanto a Risi e mamma col pancione in visita sul set, a undici giorni dal parto, sui cameracar lungo le strade deserte di quella Roma di ferragosto, evacuata, surreale a vederla oggi. Ma il primo set di cui ho memoria è quello de L’arcidiavolo, il terzo film di papà come regista, dopo l’esordio con Se permettete parliamo di donne, sempre con Gassman protagonista. Avevo quattro anni ed ero letteralmente terrorizzata da Adramelek, il diavoletto scudiero di Belfagor, tutto rosso, con tanto di corna in testa e coda biforcuta, interpretato da Mickey Rooney. Giravano nella campagna laziale e anche allora ricordo il malessere preciso di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, attorniata da diavoli e demoni e da quell’ambientazione luciferina che non prometteva nulla di buono. Ma a incutermi ancora più timore, anzi a paralizzarmi appena mi si avvicinava, era Vittorio Gassman, altissimo, bellissimo, imponente e luminoso come un dio greco, che già conoscevo e di cui ero segretamente innamorata. Con papà si conoscevano da molti anni perché prima che io nascessi aveva già sceneggiato per lui una ventina di film, tra cui Fantasmi a Roma di Pietrangeli, La marcia su Roma, Il mattatore, Il gaucho, Il sorpasso, I mostri di Dino Risi, e nel tempo erano diventati molto amici, anche con Dino. Era stato Vittorio a insistere che Ettore esordisse alla regia nel 1964, cosa che all’epoca papà non pensava minimamente di fare.
Si vedevano molto anche fuori dal set e frequentandolo anch’io, scoprii presto che Vittorio era molto più fragile di quanto mostrava; anche quando stava bene, ed era giovane, gajardo e tosto, nei suoi occhi neri si intuiva un grande amore per la vita ma anche una forte vena di malinconia, la stessa che poi lo ha portato, nel tempo, alla disperazione. Papà aveva lo scapriccio, si direbbe a Trevico, di dare agli attori ruoli che fossero il più possibile lontani da loro: come per Mastroianni e la Loren, anche con Gassman non fu da meno: un vecchio cameriere innamorato del cuoco, Tognazzi, in Hostaria (episodio di I nuovi mostri); un capofamiglia senza carattere, in La famiglia; un deputato del Pci divorato dall’amore e dai sensi di colpa in La terrazza; tutti personaggi molto lontani da quello roboante del Mattatore, che pure aveva scritto Ettore per lui negli anni Sessanta. Proprio sul set di La terrazza, un giorno papà disse a Vittorio che in una data scena avrebbe voluto che suscitasse tenerezza. Vittorio si stupì, poi mezzo ridendo gli rispose: «Ettore, temo di non aver fatto tenerezza neppure a mia madre quando ero in fasce». E invece fu grande, grandissimo, anche lì, e il discorso del deputato al comitato centrale del Pci, che pone all’assemblea i suoi interrogativi etico-sentimentali, è un pezzo toccante e divertente. Tanto che a film finito, Vittorio, sbalordito, chiese a papà come ci fosse riuscito. Mentre tutt’intorno continuava quel lavorio indefesso che poteva avvenire di notte, di giorno, per strada, all’alba, in mezzo al mare o dentro un letto, fatti due passi, già nei viali di Cinecittà con i suoi pini marittimi e l’odore di resina, i contorni della mia vita ordinaria riprendevano forma e mi sentivo subito sollevata. Stare sul set era un’esperienza di fisica quantistica allo stato puro, e anche se capivo che tutto ciò aveva qualcosa di magico, a me sembrava più un sortilegio. Neppure da grande ho amato quelle visite «turistiche» sui set, fatte a volte solo per portarci qualcuno, amici o parenti
fuorisede, come a vedere il Colosseo o la Cappella Sistina. Però negli anni, quando andavo a trovarlo, papà e io abbiamo continuato a salutarci in quel modo, agitando la manina da lontano, e a ridere come facevamo quando ero piccola. «Sarei una nota stonata» diceva nonno Peppino Scola quando voleva sottrarsi con eleganza a qualche visita di cortesia che poco gli andava a genio. E io sul set, modestamente, lo ero.
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La famiglia è una radice (Paola) La famiglia è una radice, viene fuori anche quando non vuoi, gonfia la terra, solleva l’asfalto, ma se non ci fosse forse non staresti in piedi perché noi non siamo molto diversi dalle piante. 14
A, B e C: Adriana, Beatrice e Carlo. C ama A ma sposa B (per la quale prova affetto ma non amore), perché gli garantirà quella radice. Carlo è il protagonista e capostipite di La famiglia, è l’opposto del personaggio tipico della commedia all’italiana: non è furbo, non è intraprendente, non è spaccone, non è senza scrupoli, non è allegro; è fragile e sta in piedi grazie alla sua radice. A quell’epoca, era la metà degli anni Ottanta, nel cinema ancora non c’era la figura del casting ed era l’aiuto regista, quindi io, a comporre la compagine degli attori non protagonisti, dei piccoli ruoli e delle comparse. La novità rispetto agli altri cast che avevo fatto fino ad allora era che questa volta bisognava tenere conto delle somiglianze fra gli attori che dovevano interpretare lo stesso personaggio nel tempo: il film percorre ottanta anni di vita della famiglia e ne vede crescere e invecchiare i suoi membri, quindi ogni ruolo è coperto da tre attori nelle diverse fasi della vita: un bambino, un ragazzo e un attore adulto. Dunque partendo dai protagonisti – Gassman, Sandrelli, Ardant, Dapporto – bisognava trovare le loro versioni più giovani. La preparazione del cast era un evento per tutto il cinema italiano perché si sapeva che c’erano moltissimi ruoli e c’era la fila di attori che chiedevano incontri e provini. Mi arrivò anche una lettera da un agente di Milano che mi voleva sottoporre i suoi attori ma voleva parlarne a voce e non per lettera; mi scrisse: «Verrò a Roma per avere un rapporto orale con lei».
Indovinate un po’? La formula è subito diventata lessico familiare e sta a indicare gli incontri di persona. In quei mesi ho fatto provini a centinaia di attori, e dopo una prima scrematura sottoponevo a papà quelli che mi sembravano più adatti. Per il ruolo di Carlo da giovane bisognava trovare un Gassman trentenne. Dopo settimane di selezioni erano rimasti in lizza Luca Barbareschi e Massimo Venturiello, entrambi bravi attori di teatro, entrambi con un naso importante e i lineamenti irregolari, ma entrambi non convincevano del tutto papà che continuava a rifletterci e a rimandare la decisione. Poi una sera ebbe l’epifania. Era a cena da Dante, la storica trattoria romana rifugio sicuro per teatranti e nottambuli aperta fino all’alba, e lo vide: era lì che mangiava tranquillo, aveva appena affiancato Bo Derek – in quegli anni la donna più desiderata del pianeta – in Bolero Extasy, un caposaldo della cinematografia erotica degli anni Ottanta nel ruolo di un esuberante e focoso torero. Ancora una volta per papà la sfida fu irresistibile: trasformare quell’emblema di macho latino nell’uomo sbiadito, rinunciatario e senza coraggio che è Carlo. Aveva un nasino piccolo e dritto, alla francese, ma non sarebbe stato un problema, i truccatori esistono apposta. Così Carlo, prima di diventare Gassman, ha il volto di Andrea Occhipinti. La famiglia è stato uno degli ultimi film in cui Andrea ha recitato, aveva deciso che da grande sarebbe diventato distributore e produttore cinematografico e ha fondato la Lucky Red, che oggi è la maggiore distribuzione indipendente italiana. Il trio delle zie fracassatrici di soprammobili, a differenza degli altri personaggi, è interpretato dall’inizio alla fine dalle stesse attrici (Athina Cenci, Alessandra Panelli e, di nuovo, la cara Monica Scattini) che invecchiano, si appesantiscono, si
ingobbiscono, muoiono. Ma all’inizio del film nel 1906 sono giovani e carine. La mattina in cui dovevamo girare la scena della famiglia raccolta intorno alla mamma che suona il pianoforte, a Monica venne un orzaiolo. Era disperata: nell’unica parte del film in cui poteva essere graziosa aveva un occhio deturpato. Uno sforzo congiunto del truccatore e del direttore della fotografia riuscì a mitigare il problema e il risultato non è male, tant’è che nessuno se n’è mai accorto, eccetto forse chi è a conoscenza di quell’inconveniente, che allora, guardando bene, lo vede. Monica era affranta. È stata l’unica volta nella vita in cui l’ho vista di malumore. L’orzaiolo è l’incubo degli attori, quando viene non c’è niente da fare, non è un malanno tale da far fermare le riprese e far scattare l’assicurazione ma non è nemmeno possibile far finta di niente. Mastroianni era perseguitato dagli orzaioli, erano la sua croce. Solo nei film di papà ne ha avuti due volte ed è stato costretto a coprirli con occhiali da sole; e il suo karma dispettoso ha voluto anche che tutte e due fossero scene notturne. La prima è in C’eravamo tanto amati dove Marcello è presente con un cammeo: interpreta se stesso nella ricostruzione del set di La dolce vita a Fontana di Trevi. La scena è di notte ma per nascondere l’orzaiolo indossa occhiali da sole. Per giustificare i quali hanno fatto passare quella scelta obbligata per un vezzo da divo che si vuole mimetizzare. La seconda volta è successo in La terrazza: a un certo punto della serata, inopinatamente, Mastroianni porta gli occhiali da sole. Facendo di necessità virtù papà si è divertito a impapocchiare le carte: a chi chiede a Marcello perché mai abbia gli occhiali neri di sera, lui risponde enigmatico: porto il lutto. Su questa battuta la critica ha fatto speculazioni,
individuato significati, fornito interpretazioni (anche freudiane), e invece si trattava soltanto di una licenza dovuta a emergenza-orzaiolo. Di licenze del genere o anche di molto più eclatanti, papà se ne è sempre concesse in abbondanza e con gran divertimento. Per la dannazione delle segretarie di edizione dava spesso libero sfogo a tutta la sua avversione per quelle che riteneva – non raccordi ma – pedanterie. Facendo così la gioia dei pignoletti. I pignoletti sono quegli spettatori che non si godono mai i film perché la loro attenzione è concentrata unicamente nella ricerca dell’ERRORE e non aspettano altro che poterti cogliere in castagna. Ce n’è sempre qualcuno che alla fine della proiezione arriva con aria contrita (ma con cuore trionfante) a informarti che nel film, seppure magnifico, purtroppo ha individuato una svista, un raccordo sbagliato, un’imprecisione storica. Il mondo nuovo è la fiera delle imprecisioni storiche: carrozze del secolo successivo, accessori inventati, date sbagliate… tutte libere e ponderate scelte di regia. Ma la licenza che è rimasta più clamorosa – terrore che corre sul filo delle segretarie di edizione, di generazione in generazione – è stata in Brutti, sporchi e cattivi dove al centro della baracca c’è un pilastro con appesa, come fosse una madonna protettrice, una foto di Raffaella Carrà. Nel doppio piano sequenza circolare che avvicina a uno a uno tutti i membri della sterminata famiglia Mazzatella, quel pilastro dava impiccio, ostacolava il percorso della macchina da presa e papà lo fece togliere. La segretaria di edizione a momenti ci resta secca: quel palo non solo si era già visto cento volte ma era anche sottolineato dalla foto della Carrà! Papà la sollevò da ogni responsabilità, se le prese tutte e girò il piano sequenza senza intoppi (e senza raccordi). Nessuno, nemmeno il re di quei pignoletti se ne è mai accorto. Confermando così la tesi di papà che il confine fra raccordi e pedanterie è labile e soggettivo. Ma è in La famiglia che papà ha dichiarato guerra alle tanto odiate pedanterie ignorando il rispetto del minimo sindacale
delle regole e sbizzarrendosi con le licenze, stavolta soprattutto per quanto riguarda le voci. L’origine è dovuta al fatto che diversi attori interpretavano lo stesso personaggio e che c’era l’esigenza di passare da un interprete all’altro il più naturalmente possibile. Beatrice per esempio, la moglie di Carlo, è interpretata da ragazzina da Cecilia Dazzi e da adulta da Stefania Sandrelli. Prima che le due attrici si passino definitivamente il testimone si dividono alcune inquadrature della scena in cui la ragazza che si è macchiata il viso di inchiostro si guarda in uno specchietto: nell’immagine riflessa, per un istante, appaiono gli occhi della Sandrelli, anticipando così l’ingresso della Beatrice adulta. Analogamente, nel ruolo di Adriana ci sono prima Jo Champa e poi Fanny Ardant. Il passaggio dall’una all’altra avviene con una inquadratura appannata e nebbiosa, come fosse una vecchia foto un po’ sbiadita, per due volte: un primo piano con un grande cappello di pizzo giallo. L’inquadratura è ripetuta: nella prima è Jo Champa e nella seconda Fanny Ardant, che da quel momento entra nel film nei panni di Adriana adulta. Queste però non sono licenze ma idee di regia per sostituire gli attori dalla fase adolescente alla fase adulta dello stesso personaggio. Ma con la stessa nonchalance papà passa alle concessioni di cui dicevamo. Gassman è Carlo da adulto ma è anche la voce narrante per tutto il film, da quando è neonato fino alla foto di gruppo del suo ottantesimo compleanno. Anche quando è Andrea Occhipinti a interpretare Carlo da giovane e a parlare con la sua voce, la voce narrante resta quella di Gassman. Ma… c’è un terzo momento, quello in cui Carlo-Occhipinti legge una lettera di Adriana, lo fa in silenzio e si sente la voce del suo pensiero che non è né quella di Occhipinti né quella di Gassman ma di qualcun altro, una terza voce maschile che non si sa da dove venga.
Paolino, il figlio di Carlo, a quindici anni è interpretato da un ragazzo di nome Fabrizio Cerusico che ha un accento romanissimo, poi cresce e diventa Ricky Tognazzi, notoriamente milanese. Maddalena, sua sorella, a dodici anni è interpretata da una ragazzina spagnola della quale papà ha lasciato la presa diretta e si sente fortissimo l’accento. Lo stesso vale per Memè Perlini (padre di Carlo) che un po’ è doppiato e un po’ parla con la sua voce: lui è marchigiano, il doppiatore anche se parla in dizione è chiaramente romano, e si spartiscono equamente una scena per uno. Il fratello di Carlo è Giulio, interpretato da quattro attori diversi; da bambino è lo straordinario Ioska Versari, da ragazzo è Alberto Gimignani, da adulto è Massimo Dapporto e da anziano è suo padre, Carlo Dapporto. A vent’anni è interpretato da Alberto Gimignani e, all’interno di una stessa scena – quella in cui, in camera da letto, fa a botte col fratello per chi andrà all’appuntamento con Adriana – parla un po’ con la sua voce un po’ con quella di Massimo Dapporto, che gli subentrerà qualche scena dopo. Con che criterio papà ha optato per questi mix? Non ne ho la minima idea ma forse solo con quello di divertirsi e di fare come gli pareva sostenendo che quei giochetti subliminali non sarebbero stati di disturbo. E infatti a tutt’oggi non mi risulta che siano mai stati rilevati da nessuno. In La famiglia c’è tanto la nostra, la sua, i suoi ricordi di infanzia. Il personaggio dello zio Nicola è ispirato a un cugino di nonno che ogni volta che da Trevico capitava a Roma li andava a trovare. Papà ricorda in particolare di una volta che nel 1943 si presentò a via Galilei vestito da federale con la camicia nera e un cappello a forma di pentola; era arrivato a piedi non so da dove, affranto, sudato, stremato, esausto; perfino il suo cinturone sudava, doveva essere di cuoio sintetico, autarchico, e secerneva strane gocce bianche. Da questo ricordo è nato l’episodio che papà ha inserito nel film. Al quale ha aggiunto un altro ricordo di un altro zio che gli
faceva un giochetto che lo terrorizzava. Ha riunito questi due ricordi e questi due personaggi nel ridicolo e goffo zio Nicola e ne ha affidato a Renzo Palmer l’interpretazione. Oltre a essere uno straordinario attore Palmer era anche uno straordinario essere umano, gentile, sensibile, buono. L’ho adorato.
Il gioco crudele che fa con Paolino piccolo consiste nel fargli credere, con la complicità dei parenti, di essere diventato improvvisamente invisibile. Tutti si mettono a cercarlo fingendo di non vederlo. Paolino comincia a impaurirsi, poi si dispera, fino a precipitare in una specie di crisi isterica. Palmer aveva difficoltà a fare quel gioco che gli sembrava troppo crudele perfino nella finzione. Ripeteva continuamente al bambino per tranquillizzarlo: «Guarda che sto scherzando, io ti vedo benissimo e tutti ti vedono, stiamo solo facendo finta, per il film». E il bambino che lo ritranquillizzava a sua volta: «Lo so che è finto, lo so. Non me lo dire più che mica sono cretino». Renzo Palmer è morto l’anno successivo, a cinquantanove anni. La famiglia è stato l’ultimo film che ha fatto e io sono grata e felice di averlo conosciuto. Alla fine delle riprese di un film restano quelli che si chiamano i fegatelli. Cioè i rimasugli, le briciole, le piccole cose che non si è fatto in tempo a girare durante le riprese, per mancanza di tempo o per dare priorità alle scene più complicate.
Sergio Castellitto fu convocato per i fegatelli di due scene: un lungo e appassionato bacio con la bellissima Paola Agosti (figlia del sublime regista e poeta, Silvano Agosti), e una cena in cucina col vecchio nonno, Gassman, davanti a un bel piattone di pastasciutta. Era l’ultimo giorno di riprese e la sera ci furono congedi, addii, lacrime e auguri assortiti e Sergio, che era a una delle sue prime esperienze, disse a papà: «Ettore, grazie! Il cinema è il più bel lavoro del mondo: ti fai una pomiciata, una spaghettata e ti pagano pure! E chi lo molla più?».
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Te lo do io l’Oscar (Silvia) «Nun saccio chi me pari, a chi sì figlio, tu?» «A Giuseppe Scola, figlio di Pietro.» «Ah, ’o dottore figlio a don Pietro ’o notaio. Bravo criaturo. E cumm’ te chiami?» «Ettore.»
Quel guaglioncello trevicano, ’o criaturo, che era stato Ettoruccio durante i primi anni Trenta, è rimasto vivo per sempre in papà, fino alla fine. Sofferente per il freddo, per la guerra, per la fame, ma entusiasta della vita e delle sue meraviglie, innamorato degli uomini e delle donne (!), e profondamente ottimista. Nel suo paesino inerpicato sui monti dell’Irpinia, i bambini circolavano liberi tra i vicoli, sugli alberi e nelle vallate vicine, anche da piccolissimi, e quando un adulto li incontrava, immancabilmente scattava la domanda: «Nun saccio chi me pari, a chi sì figlio tu?» («Non riesco a capire a chi assomigli, di chi sei figlio tu?»). E il vantaggio di crescere in una comunità, per quanto povera e sferzata dal freddo, era quello di sentirsi sempre accolti, protetti, liberi di giocare e di sognare. Forse giusto negli ultimissimi tempi insieme con lui stava invecchiando anche quel creaturo, e il suo ottimismo se ne stava addormentato chissà dove, lasciando il posto alla stanchezza e alla delusione. Ma non aveva tutti i torti: questo «inizio di secolo e di millennio», per parafrasare Troisi e Mastroianni in Che ora è, non è stato entusiasmante. Soprattutto per chi, come Ettore, ha sempre creduto in un mondo nuovo, spendendosi e combattendo politicamente sia nella vita privata che con i suoi film.
Eppure quel bambino affascinato dal primo miracolo al quale aveva assistito all’età di cinque anni, il cosiddetto «miracolo delle scarpe», lo portarono a credere e a professare per tutta la vita che: «Bisogna credere nei miracoli. Soprattutto a quelli fatti dall’uomo». Non si stancava mai di ripeterlo. Ci raccontava sempre (e lo ha raccontato anche a Fabio Fazio e a Roberto Saviano in Quello che non ho) di quando una mattina d’agosto del 1936, chiamato da nonno Pietro, venne nella casa di Trevico il ciabattino per cucirgli degli scarponcini su misura. Arrivò con un rotolo di cuoio sotto al braccio, un banchetto e una cassettina di attrezzi, e dopo avergli preso la sagoma dei piedi, creò dal nulla un paio di scarpe «nuove, fiammanti, croccanti» 15 che avrebbe dovuto calzare fino a che non gli sarebbe ricresciuto il piede. A dispetto dei suoi cinque anni, Ettoruccio stette seduto immobile per tutto il giorno a guardare quell’ometto che tagliava il cuoio, cuciva, incollava, batteva… assistendo alla magia di qualcosa che via via prendeva forma davanti ai suoi occhi. All’ora di pranzo nonna Dina preparò i maccheroni al sugo anche per il ciabattino, che lavorava senza posa da ore, e Ettore volle mangiare lì, inchiodato davanti a lui. Poi verso sera, ecco compiuto il miracolo: qualcosa che prima non c’era, adesso esisteva, scintillante e magico come il vestito di Cenerentola: un paio di scarponcini di cuoio giallo con i lacci, che gli calzavano alla perfezione e scricchiolavano ai suoi piedi a ogni passo. Croccanti come appena sfornati. Papà è stato un bambino, e poi un ragazzo, con la schiena dritta (anche perché se l’era fracassata cadendo da un albero a quindici anni e aveva portato il busto per due), di carattere e di cuore, forte con i forti e debole con i deboli. Capace di grandi palpiti e di pericolosi duelli, vinti o finiti alla pari, sempre condotti a petto in fuori e senza mai tema del nemico, chiunque esso fosse. Una sindrome di Davide contro Golia (o di Ettore contro Achille), come la sua storia pubblica e le svariate cause fatte a
uomini di potere, stanno a testimoniare. «E questo non sarebbe agiografico?» «A papà, che palle…» «Sì, lo è. Embè?» «Intravedo gli estremi per querelarvi.» «Sì, ma non eri morto? E allora se permetti ti celebriamo quanto ci pare.» «Tanto più che non ci stiamo inventando niente.» «Tutta cronaca vera. Pensa un po’.» «Sì, sì…»
L’umiltà gli apparteneva per nascita e il fatto di dedicarsi alle cose piccole della vita, che fosse il lavoro o la famiglia o gli amici o la cucina perdendoci tempo a coltivarle, faceva parte della sua natura solare e ottimista. Questa sì, tutta partenopea. Una cosa a cui non dava importanza nel suo lavoro, invece, erano i premi, i riconoscimenti, le targhe, le lauree, le cerimonie, le onorificenze. Le viveva male, con disagio, non era quello lo scopo del suo lavoro e anche se il plauso ovviamente lo gratificava, prevalevano sempre il pudore, la ritrosia, e quelle glorificazioni lo imbarazzavano. Con l’andar degli anni poi, quei riconoscimenti significavano tempo e fatica, spesso anche lunghi viaggi; in tre parole, come ripeteva spesso: «Troppa rottura di coglioni». C’era giusto qualche eccezione, come il Festival delle cerase di Palombara Sabina di Silvio Luttazi, dove amava andare a costo dei cinquanta chilometri di macchina da Roma, il cui premio consisteva in una cassa di ciliegie, le cerase di Palombara, e in una tanica d’olio d’oliva della Sabina; per il criaturo trevicano, un premio meraviglioso da ricevere. O come il Queer Lion dell’Arcigay-Lgbt 2014, Leone d’onore per Una giornata particolare a Ettore Scola, «principe degli
omosessuali». Titolo che lo riempì di orgoglio, ma che non ricevette mai. Glielo avevano attribuito in occasione del restauro del film presentato alla 71° Mostra del cinema di Venezia, e chiamato dal direttore Alberto Barbera, papà trovò naturale dirgli che lui a ottantatré anni non viaggiava più ma che sarei potuta andare facilmente io al posto suo, dato che ero già al Lido per altre incombenze. «Di’ a Barbera che il film l’ho già visto.» La targa d’oro raffigurava il Leone alato della Biennale di Venezia con un arcobaleno di smalto dipinto su un’ala, molto bella sia nel significato che nella forma. Mi era stata consegnata durante la presentazione del film al Palazzo del Cinema e mi venne rubata mezz’ora dopo. Ero a Venezia come vicepresidente dell’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) e di autricegiurata per il Green Drop Award, premio alla pellicola più «ecologista», che significava correre a proiezioni e conferenze diverse da una sala all’altra, dalla mattina alla sera. Aggiungerci pure la Figlia-di-Scola pronta a sostituire il babbo in loco, aveva scatenato l’inferno. Quella sera, presentato Una giornata particolare con il grande Luciano Tovoli che ne ha curato il restauro, e ricevuto il premio per papà con grandi onori e acclamazioni – e anche risate visto il messaggio di papà che avevo riferito, e cioè di non essere lì perché aveva già visto il film – con i secondi contati dovevo scappare a una proiezione che cominciava di lì a poco. Mi avevano munito di bicicletta a nolo (con cestino) e schizzavo da una parte all’altra del Lido come una pazza. Fu lì che, arrivata di corsa alla sala Darsena dopo la premiazione, appoggiata incautamente su una ringhiera in mezzo ad altri scartafacci per rispondere al telefono, la bella custodia di velluto rosso scomparì per sempre. Vidi quel film, votai di malumore, e dopo aver fatto il giro delle sette chiese alla ricerca dell’oggetto smarrito, dovetti prendere atto del fatto che quel premio prezioso mi era stato sottratto. La mia fiducia nel genere umano mi aveva punita di nuovo, quindi un po’ era anche colpa sua.
«Papà, mi dispiace… Me lo hanno rubato.» «Lo hai visto cadere?» «Sì.» «Peccato: era l’unico premio che mi avrebbe fatto piacere ricevere.»
Ecco. Per colpa mia il Queer Lion non lo ha mai ricevuto. Ma il titolo di «principe degli omosessuali» era bastato a inorgoglirlo per sempre. Ma erano rare eccezioni che confermavano la regola. Per il resto, come non amava riceverli, i premi non amava esporli né averli tra i piedi dentro casa, e nei momenti di malumore brontolava: «Tutti chiodi sulla bara. Ogni premio una martellata sulla bara. Senti? Beng beng beng». E così, tutti i premi e i riconoscimenti minori che riceveva (anche per posta se non era andato a ritirarli) trovavano posto in terrazzo: targhe, maschere, ceramiche e sculture di ogni foggia sbucavano qua e là tra le piante, esposte al sole e alle intemperie. Se il premio era di valore mamma lo faceva sparire in cassetta di sicurezza, e se invece era una statuetta di un certo peso, magari con una bella base di marmo, allora finiva per terra a fare da fermaporta. Come il César al miglior film straniero del ’77, preso per Una giornata particolare, una bella scultura di bronzo, alta e pesante, finita in ingresso per molti anni. Perché di porte che sbattevano per la corrente nella grande casa di via Bertoloni ce n’erano parecchie. Quando cominciai a prendere dei premi anch’io e tornai da Pescara con il Pegaso d’oro, Premio Flaiano alla sceneggiatura per Concorrenza sleale, mi disse: «Be’, mi pare che anche tu abbia un giardino bello spazioso». Ma io li tengo tra i libri, come faceva anche lui del resto con quelli più cari. Una mattina di fine agosto del 1987, ci svegliammo e trovammo tutta casa sottosopra per una visita dei ladri, venuti nottetempo con tutti noi presenti a dormire nelle nostre stanze. Avevo da pochi giorni partorito il mio primo figlio
(«sbrozzato», come disse il portiere ciociaro) e mi ero trasferita con il mio compagno a via Bertoloni da mamma e papà, per stare più comodi e più vicini. Quella notte, intorno alle quattro del mattino mentre allattavo Marco con la luce accesa, sentii dei rumori, qualche scricchiolio, dei passi sul parquet e pensai che fosse uno dei miei che veniva ad affacciarsi. Antonio dormiva accanto a me e quindi chiamai sottovoce: «Mamma? Papà?». Ma non ricevetti risposta e quando finii di allattare mi rimisi giù a dormire. L’indomani mattina trovammo tutto sparso per terra come fosse passato un uragano: evidentemente la ricerca dei valori era stata lunga, affannosa e poco proficua: non avevamo gioielli né casseforti e neppure una pentola di pasta e ceci fredda («Ma buona!») come in I soliti ignoti. Però dalla libreria dello studio di papà erano spariti tutti i David di Donatello. Ne aveva ricevuti sette, e nell’accorgersi che mancavano tutti ci rimase malissimo. Oltre a essere l’Oscar italiano, il David è anche un bellissimo oggetto: una miniatura d’oro del David scolpito da Donatello nel 1440, alta trenta centimetri, su una base di marmo rivestita di malachite verde. La targhetta, anch’essa d’oro, incollata sulla base descrive il premio e il titolo del film. Anche se non gli dava più importanza di quella che avevano, quei sette David (all’epoca non aveva ancora ricevuto quello alla carriera del 2011) se li teneva nel suo studio, in uno scaffale in alto della libreria, tutti in ordine e ben allineati. E adesso quello scaffale era vuoto. Ma eravamo tutti incolumi, neonato compreso, nonostante i miei richiami che avrebbero potuto scatenare l’inferno, e questo era l’importante; non ci eravamo accorti di nulla, mamma e papà avevano continuato a russare in duo, e io mi ero rimessa a dormire col fantolino sazio, quindi non ci eravamo neppure spaventati. Il furto non fu grave – casa a soqquadro a parte – e quindi rimettemmo tutto a posto e non ci pensammo più.
Era passata poco più di una settimana, quando una mattina alle sette, il nostro portiere (lo stesso che aveva accolto la notizia del lieto evento del primo nipote dicendo a papà: «Sì sbrozzato Silvia?… E che è ’scito?… È ’scito masculo?») citofonò e disse: «Dottore, dottore, venite giù al portone, venite a vedere!». E così scendemmo tutti giù in cortile, in vestaglia e pigiama, come fosse stato un cataclisma. Allineati sulla breve scalinata davanti al portone, i sette David di Donatello campeggiavano in fila, tutti e sette intonsi e vittoriosi. A uno solo era stata staccata la targhetta e riappiccicata con un pezzo di nastro isolante, al quale era attaccato anche un foglietto, che diceva: Non sono d’oro. Non valgono niente. Nemmeno la targhetta. Sicuramente sono più preziosi per voi. Buona fortuna. Era scritto a stampatello, con una calligrafia rozza e incerta, con «targhetta» scritto senza «h» e la «z» di «preziosi» scritta al rovescio. I famosi miracoli dell’uomo tanto cari a papà: il cuore di un ladro, o di una ladra, che avevano sfidato la sorte tornando sul luogo del crimine, pur di compiere un gesto nobile e culturale. Così, quando nel 2011 ricevette il David alla carriera, papà raccontò l’aneddoto del furto, approfittando della cerimonia pubblica per ringraziare quei due ladri gentiluomini (un uomo e una donna, dalle impronte rilevate in casa), che glieli avevano rubati e restituiti ventiquattro anni prima. Ci furono grandi risate in sala, ma era la verità e quell’ultima statuetta poté raggiungere le altre resiliate nella libreria di via Mercalli, l’altra casa dove nel frattempo Ettore e Gigliola si erano trasferiti, e dove gli otto David sono tuttora allineati. Ricevette anche varie decorazioni e medagliette. Quella di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, assegnatagli da Carlo Azeglio Ciampi nel maggio 2003; quella di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, conferitagli da Oscar Luigi Scalfaro nel giugno 1995; e la Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 2001, consegnatagli sempre da Ciampi: «Per la particolarità del suo cinema che è quella di lasciare degli spazi al pubblico, spazi di riflessione autonoma nei quali ognuno
può trovare se stesso, i propri sogni, impulsi, desideri, delusioni. È considerato uno dei massimi registi italiani, per molti un maestro». Non so per quale motivo non ho assistito a nessuna di queste cerimonie, questo per dire quanto gli allori lo lusingassero. Anzi diceva: ti sconsiglio di venire, sono cerimonie lunghissime e noiose. E io evidentemente lo devo aver preso in parola. Quando si trattava della Francia, invece, era tutta un’altra musica; papà era felice di ricevere quei riconoscimenti, forse perché gli sembravano più sinceri e sentiti di quelli ricevuti in patria, e ci teneva a che lo accompagnassimo. Così nel dicembre 2012, famiglia Scola al completo, andammo all’ambasciata di Francia a Palazzo Farnese per il conferimento a papà della Gran croce della Legion d’onore, dove l’ambasciatore Mr. Blot tenne un lungo discorso (in francese!) sui meriti del cinema di Scola e sulla sua vicinanza alla Francia, di fatto sua seconda patria. Questo che segue è l’estratto del discorso di conferimento diffuso dall’ambasciata, e benché sia solo un estratto è lunghissimo, per forza di cose agiografico e quindi evitabile, anche perché papà brontolerebbe di sicuro; ciononostante, per amore di mamma, lo riporto integralmente e chi dovesse annoiarsi può scorrerlo velocemente o saltarlo del tutto: «Caro Maestro Ettore Scola, è con gioia, emozione e orgoglio che le do il benvenuto oggi a Palazzo Farnese, non soltanto a nome delle autorità francesi che rappresento, ma anche a nome di quell’altra sua somma patria che sono i cinefili del mondo intero. Basta guardarci attorno oggi per capire che questa cerimonia è innanzi tutto una festa della famiglia del cinema. Lei ne è d’altronde uno dei più grandi rappresentanti. Lo testimonia il fatto, e potrebbe essere questo il più semplice e insieme il migliore degli elogi, che lei figura da molti anni nel Petit Larousse, la prima fonte di sapere di noi francesi. Accanto al suo nome, nello stile laconico dei dizionari, si legge: “SCOLA (ETTORE ), cineasta italiano (1931). Raccorda la commedia e la critica sociale”. Segue la lista dei
suoi principali film. E alla voce “CINEMA ” il suo nome figura accanto a quelli di Visconti, Rossellini, Fellini, De Sica, Antonioni, a quella generazione gloriosa del cinema italiano che resterà unica nella storia, accanto a quella dei maestri della commedia italiana di Mario Monicelli e Dino Risi, di attori immensi come Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Massimo Troisi e Alberto Sordi, e di sceneggiatori come Age, Scarpelli e il suo sceneggiatore di sempre, il suo complice numero uno, Ruggero Maccari. Tutti loro l’hanno profondamente aiutata e amata, le hanno dato fiducia perché credevano nel suo talento, ma anche perché lei è dotato di quella incomparabile qualità che è l’essere continuamente all’ascolto dei suoi contemporanei, delle loro storie, delle loro gioie così come delle loro tragedie. […] Tra i Paesi a cui si è sempre sentito vicino, la Francia occupa un posto privilegiato. Sempre ha manifestato un vivo interesse per la vita culturale del nostro Paese, un interesse per cui cerchiamo ora, con gratitudine ed emozione, di ringraziarla e che avevamo già manifestato conferendole nel 1983 il titolo di Commendatore delle Arti e delle Lettere. Con la Francia e con società francesi
lei
ha
realizzato
una
dozzina
di
coproduzioni,
ma
indipendentemente da queste, lei ha affidato a tre o quattro generazioni di attori francesi ruoli magnifici e di primo piano, regalando loro la possibilità di girare, con i suoi film, momenti d’antologia del cinema. […] Basterebbe pensare a Jean-Louis Trintignant sceneggiatore depresso nella Terrazza (1980) o a Fanny Ardant, meravigliosa, pianista condannata alla solitudine sentimentale ne La famiglia (1987). […] Sappiamo che onorandola, onoriamo un amico della Francia, e nello stesso tempo onoriamo il cinema che lei ha servito, con immenso talento, tutta una vita. […] Per i capolavori che ci ha regalato, per quel suo ineguagliabile sguardo sulla nostra società e la sua storia, per la qualità e la solidità dei legami che intesse con il cinema francese e con la Francia, siamo stati e saremo sempre spettatori fedeli e appassionati. E siamo felici e fieri che la Francia oggi la onori».
Seguì solenne cerimonia con tanto di Marsigliese e conferimento di pergamena che lo intitolava commandeur dans l’ordre national de la Légion d’honneur, e consegna della Grand-croix de la République Française; croce che Gigliola custodisce gelosamente.
Anche undici anni e mezzo dopo, nel giugno 2012, eravamo tutti con lui a Parigi, a ricevere la Grande Médaille de Vermeil, la medaglia d’onore della capitale francese, donata dal sindaco Delanoë; occasione per metterci tutti e quattro in viaggio verso la nostra (tanto amata) Francia. Il sindaco, abbracciandolo, ha commentato così il riconoscimento della sua città a Scola: «Nei suoi film c’è tutta l’Italia che amiamo, l’ironia e la storia». L’Oscar invece no. Non lo ha mai vinto. Lo ha sfiorato diverse volte nella sua carriera, nominato dall’Italia come miglior film e candidato dagli Academy Awards come miglior film straniero: nel 1978, per Una giornata particolare, che non vinse ma concorreva in cinquina con Quell’oscuro oggetto del desiderio di Luis Buñuel, quindi papà tornò da Los Angeles sconfitto dal francese Moshé Mizrahi, che vinse quell’anno con La vita davanti a sé, ma felice di aver incontrato il suo mito spagnolo, sconfitto con lui. Altra nomination arrivò nel 1979 per I nuovi mostri di Monicelli, Risi e Scola, che non vinse, ma quella volta papà non era neppure partito; un’altra nel 1984 per Ballando ballando, dove vinse Fanny e Alexander di Ingmar Bergman, e papà ne fu felice, sostenendo che anche lui avrebbe votato per Bergman. E l’ultima nel 1988, per La famiglia. Candidati nella cinquina per il miglior film straniero, quell’anno c’erano anche Arrivederci ragazzi di Louis Malle e Il pranzo di Babette del danese Gabriel Axel, che poi vinse l’Oscar. E così neanche La famiglia vinse quella benedetta statuetta. Era il quarto Oscar mancato, mamma non resistette: «Glielo do io l’Oscar!». Comprò un modellino di legno, delle stesse dimensioni della statuetta americana, lo dipinse tutto d’oro e al suo ritorno da Hollywood glielo fece trovare ritto in piedi sul tavolo da pranzo, con le braccia incrociate nel gesto dell’ombrello: tiè! «Oh, Ettorù… E quando ce vo’ ce vo’!»
La sorpresa di papà durò un attimo e le risate per quella statuetta si sprecarono.
25
Dettagli (Paola) Ci ho messo tre anni a superare il lutto. Tre anni in cui il suo non esserci più mi toglieva ogni ragione di vita. La mia era finita con la sua. Quando lo chiedono a me quale sia il più grande privilegio di essere la figlia di Ettore Scola, diversamente da Silvia, rispondo che è proprio essere sua figlia: aver avuto un padre come lui, un vero padre, quello che ogni bambina, e poi ogni donna e ogni persona sogna di avere; uno su cui puoi contare sempre quando ne hai bisogno e che si tira da parte quando non lo vuoi fra i piedi; che fa il tifo per te, che ti sprona, ti incoraggia e ti stoppa quando è il momento di mettere dei limiti. E che ti ama incondizionatamente. Da giovane e fino al primo infarto papà si sentiva onnipotente, invulnerabile come Sigfrido: strafumava, stramangiava, non dormiva mai, andava sul set anche con la febbre a quaranta. Tutto in lui gridava che era immortale. E io gli avevo creduto. Quindi non avevo mai considerato la sua morte come un fatto concreto o imminente o anche solo possibile; e quando è arrivata mi ha colta impreparata. Non che non ci fossero indizi, non bisognava essere Sherlock Holmes per accorgersi che aveva ottantaquattro anni e tutti i malanni possibili: cuore, diabete, ipertensione, gotta, maculopatia… Una volta l’ho sentito al telefono col maestro Rosi (col quale soprattutto negli ultimi tempi si sentiva tutti i giorni) ingarellarsi sulle rispettive malattie come fossero figurine Panini: Nefrite. Pleurite. Flebite. «Ce l’ho. Ce l’ho. Mi manca.» Aveva anche fatto un disegnetto ispirato all’omino della Gibaud. Qualcuno se lo ricorda? Ruotava su se stesso nelle vetrine delle farmacie: un manichino nero con fasce elastiche bianche su ogni punto dolorante del corpo: caviglia, ginocchio, schiena, gomito, polso e spalle. Parodiandolo, papà aveva
disegnato un manichino sul quale aveva mappato tutti i suoi acciacchi (molto, molto più numerosi di quelli dell’originale). Quindi evidentemente lui aveva abbandonato l’idea della sua invulnerabilità. Però non io, io continuavo a credere al mio papà di quando ero bambina e non ai suoi sintomi di oggi, né ai farmaci – una buona trentina al giorno – che doveva prendere. Partiva la mattina con tutte le buone intenzioni e appena alzato preparava la razione giornaliera delle pasticche: questa a stomaco vuoto, queste due dopo colazione, quest’altra a metà mattina, questa questa e questa prima di pranzo, poi quella dopo pranzo, poi qualcun’altra per aperitivo e per digestivo, fino al sonnifero serale. Diligentissimo, caricava sveglie per ricordarsele, metteva le pillole in posti strategici dove non avrebbe potuto non vederle al momento giusto, comprava pill-box di tutti i tipi – con trillo, con spie lampeggianti, con apertura a scatto all’ora X – che puntualmente non servivano a niente. La maggior parte delle volte, a sera, si ritrovava con la razione giornaliera intatta. Allora se le sparava in bocca tutte insieme come fossero una manciata di noccioline; in genere succedeva a cena e quindi… le mandava giù col vino. Per non parlare di quando si è scolato mezza boccetta di sonnifero credendo che fosse Enterogermina. Anche di questo ancora ridiamo ma allora ci prese un colpo: papà improvvisamente cade per terra come un sacco di patate, come corpo morto cade. Ambulanza a sirene spiegate. Arriva all’ospedale in coma. Lavanda gastrica d’urgenza e lo riacchiappano per i capelli. Dopodiché lo trattano tutti con la cautela che si riserva a un aspirante suicida, la domanda muta ma implicita era: è sicuro che non si è trattato di un insano gesto? Possiamo stare tranquilli che non ci riproverà? Non li convinceva la versione che si fosse ciucciato tutto quel sonnifero per errore. E noi – come, ti sbagli? – giù a ridere. Quindi i medici rividero la diagnosi e la cambiarono da suicidio a idiozia familiare, temo.
Così quella volta l’ha sfangata. Questa invece no, lui è morto e io l’ho presa malissimo. Non tanto all’inizio quando ero ancora stordita dalla tranvata e non avevo idea della portata di quello a cui stavo andando incontro, quanto proseguendo nel tempo; via via che passava sentivo allargarsi la voragine che lasciava e un concetto agghiacciante cominciava a prendere forma: non lo rivedrò mai più! Non avendo speranze ultraterrene ma solo certezze terrene, non ne avevo nessuna. Ho passato tutte le fasi possibili della disperazione e sono anche arrivata ad attaccarmi all’ipotesi del dubbio, alla possibilità di essermi sbagliata, a pensare che la mia arroganza di materialista mi aveva obnubilata, ad affidarmi alle tantissime persone che stimo e che sono credenti: era come offrire una speranza allo scetticismo, perché credere sarebbe stata l’unica possibilità che avrei avuto di rivederlo, un giorno. Non ci sono riuscita. Il dolore era insopportabile. Ho passato mesi, anni, di lacrime e sangue e mi irritavo con gli amici affettuosi che mi spronavano a reagire, cercavano di stanarmi da casa o di coinvolgermi in attività che mi avrebbero – secondo l’idea loro – fatto bene, aiutato a venirne fuori. Io invece vivevo queste attenzioni come una pressione continua, una prepotenza, tanto che ho rivisto la mia opinione sulle gramaglie, che avevo sempre considerato un’ostentazione fastidiosa: il dolore è un fatto privato, perché sbandierarlo ai quattro venti con fasce, bottoni e abiti neri? Invece mi sono ricreduta, l’ho visto piuttosto come una protezione per chi è in lutto, una dichiarazione ufficiale di stato di sofferenza che va rispettato, come un cartello su un pacco che esorta a fare attenzione, a maneggiare con delicatezza: FRAGILE . Inoltre gli abiti da lutto esonerano dall’obbligo di essere felici. Così li ho adottati. Non materialmente ma idealmente, dentro di me. Ho smesso di sentirmi in difetto per non aver voglia di uscire o di assecondare le aspettative di tutti e mi
sono data tutto il tempo che ci sarebbe voluto (ammesso che fosse un tempo finito), rivendicando il mio diritto alla sofferenza per la perdita dell’amore della mia vita. Fatta questa scelta ed entrata in questo ordine di idee le cose hanno cominciato pian piano a migliorare, fino ad arrivare a oggi che sto bene e convivo pacificamente con la sua mancanza. Probabilmente anche perché non abbiamo sospesi, non ci sono nodi irrisolti, cose non dette o domande non fatte. Magari lo vedo ancora passare in macchina, alla guida, o attraversare la strada ma non mi fa più male, anzi, averlo sempre intorno ovunque mi giri è un conforto. E finalmente capisco il significato di quello che fino a poco fa per me era solo un enunciato della psicanalisi, l’elaborazione del lutto. Averlo elaborato significa esserselo vissuto e sofferto tutto, aver ravanato nella disperazione; essere arrivati in fondo al tunnel e averlo anche scavato e arredato prima di poterne uscire; aver mangiato, digerito e metabolizzato il dolore, esattamente come fosse uno dei supplì tanto amati da papà. Morale, un anno fa non avrei potuto scrivere questo libro. Ripercorrere la mia vita con lui sarebbe stata una tortura, invece ora mi consola, significa passare gran parte della giornata insieme, a ricordare e a ridere. E in qualche modo riesco anche a seguire il monito di Gabriel García Márquez che esorta a: «Non piangere perché è finito, sorridi perché c’è stato». Silvia invece è stata molto più brava di me e ha sorriso da subito: lei era pronta. Mi ha sempre detto che erano quarant’anni che era pronta, da quel primo infarto durante Ballando ballando, lei si aspettava che succedesse. Tanto che quattro mesi dopo la sua morte quando è arrivato il compleanno di papà lei lo ha voluto festeggiare con torta e candeline. Io non ero proprio in modalità festeggiamenti, per cui mi astenni, non la boicottai ma nemmeno partecipai. Assistetti e basta.
Quella volta arrivammo a sfiorare di nuovo la lite. Una vita di litigi la nostra, dove i cinque anni di differenza sono sempre stati un abisso: cinque e dieci anni, dieci e quindici, quindici e venti: due universi a parte. Solo in età adulta, quando la differenza di età si assottiglia fino a scomparire – a trentasette e quarantadue anni si diventa coetanei – ci siamo trovate e abbiamo deposto le armi. Ma il 10 maggio 2016 (cinquantanove io e cinquantaquattro lei) rischiammo di nuovo lo scontro. Lei mi accusava di disfattismo e di crogiolarmi nella leccatura delle ferite e a me lei sembrava una marziana che voleva cantare «Tanti auguri a te» a una scatola di ceneri. Mamma ha avuto ancora un’altra reazione. Era incazzata nera. Furiosa. Imbufalita con papà per non averle permesso di festeggiare le loro nozze di diamante, il sessantesimo anniversario, che sarebbe stato di lì a sei mesi, il 28 giugno 2016. Non ha versato una lacrima solo rabbia, nervi, stizza… Il suo lutto lo ha vissuto così. Ma adesso anche lei sta molto meglio ed è tornata a essere quella di sempre: più sarda e tosta che mai. Da quando la conosco non l’ho mai vista abbandonarsi alla malinconia: «La tristezza non viene, e anche se viene la caccio subito, penso ad altro, mi metto a fare una cosa qualunque». Per questo, credo, non ne vuole sapere di aprire la scatola con le loro lettere, che abbiamo trovato nello studio di papà dopo la sua morte, e che lui aveva incredibilmente conservato. Papà era affetto da una sorta di disturbo ossessivo-buttativo: buttava tutto, non si faceva in tempo a comprare un aggeggio qualunque che lui già si era disfatto delle istruzioni e della garanzia. Ma si incarogniva soprattutto sulle sue cose: quanti disegni, scritti, idee, appunti, quaderni, ha fatto sparire… e ora che stiamo cercando di comporre l’archivio delle sue cose e del suo lavoro per il Museo del Cinema di Torino che lo custodirà, ci troviamo nelle peste perché la sua compulsione a buttare ha fatto strage.
Tommaso invece si faceva lunghe ore di pianti silenziosi, quieti, interrotti a tratti e improvvisamente da accessi di risa: gli tornavano in mente le chiose bofonchiate di nonno (e le conseguenti figuracce che ne derivavano). Una volta erano in aereo, papà sulla poltrona di corridoio, Tommaso in quella centrale e accanto a lui, dalla parte del finestrino una ragazza, molto carina, che aveva attaccato discorso e gli raccontava con foga fatti della sua vita. Papà sonnecchiava ma ogni tanto apriva un occhio e vedeva che la ragazza continuava a parlare, a parlare; verso la fine del viaggio considerò ad alta voce: «Non è avara di dettagli!». Tommi scoppiò a ridere e la ragazza, che non aveva sentito il commento e credeva che l’ilarità di Tommaso fosse dovuta al racconto delle sue disgrazie, si offese. Non so in che arrampicata sugli specchi dovette imbarcarsi Tommi per rappezzare la situazione. Un’altra volta entrarono in un ristorante deserto, la proprietaria era al telefono impegnata in un’ordinazione per il giorno successivo: trenta spigole, quaranta orate… ma riconobbe papà e, tutta sorrisi e scusandosi a gesti, cercava di concludere la telefonata, non prima però di aver ordinato anche una decina di astici. Papà si guardò intorno nel locale completamente vuoto e commentò: «Prevede un bell’afflusso». Sono i ricordi che allietano il lutto del mio Tommi. I momenti di nostalgia più acuta di Giacomo sono legati al disegno, la passione che avevano in comune e che papà incoraggiava fin da quando era piccolissimo prendendoselo sulle ginocchia e somministrandogli i libroni dei disegni di Steinberg, che sfogliavano insieme per ore, oppure mettendosi a disegnare accanto a lui. Nella casa di via Mercalli c’è tutta una parete tappezzata coi disegni di Giacomo. I preferiti di papà erano due, quello che raffigurava due soldati nella neve, col fucile puntato, cristallizzati in un blocco di ghiaccio e intitolato La guerra fredda, e un altro fatto prima, intorno ai cinque anni: un
elefante visto da dietro, del quale papà si portava sempre appresso una fotocopia per sfoderarla con orgoglio ogni volta che poteva. Era l’epoca in cui lo chiamava lo «sdentato del cazzo» e Giacomino, eterno cuor contento, regalava in giro il suo radioso sorriso bucato. Quando disegnavano insieme papà gli raccontava di Ulisse e dei suoi incontri con Polifemo, con Circe, con le sirene; gli spiegava cosa era un flashback e che Omero ne è stato l’inventore, perché fa raccontare a Ulisse le sue avventure, al re dei Feaci e ai lettori, molto tempo dopo che le ha vissute. Oppure gli raccontava per ore la Batracomiomachia, la parodia dell’Iliade che narra della guerra fra le rane e i topi: il re delle rane, Gonfiagote, convince Rubabriciole, figlio del re dei topi, a salire sulla sua schiena per attraversare il lago, assicurandolo che non correrà pericoli. Il topolino si affida e monta in groppa alla rana che comincia a nuotare placidamente. Ma improvvisamente appare un terribile serpente d’acqua, Gonfiagote per sfuggirgli si inabissa e il topolino affoga. Scoppia così la sanguinosa guerra fra le rane i topi. Papà raccontava e Giacomo disegnava; lo stagno come un campo di battaglia, il re dei topi alla testa di un plotone d’esecuzione, le rane in trincea, e quella che Omero chiama «l’inganno di legno», una trappola per topi che richiama il cavallo di Troia. Gli parlava anche di tecnica del disegno e di come ottenere l’effetto comico in una vignetta. Per spiegargli il significato di «dettaglio» prese uno di quei disegni con una rana con la zampetta anteriore sollevata e tracciò da una parte un rettangolo al cui interno spiccava quella stessa zampetta ingrandita e particolareggiata, e Giacomino, tra i fumi della sua permanente svagatezza, pensò che dettaglio fosse sinonimo di rettangolo; cioè il contenitore e non il contenuto. In La famiglia c’è una scena in cui il piccolo Carlo durante un temporale notturno, tra un lampo e l’altro scorge suo padre al capezzale del nonno appena morto, che piange, mentre ne
dipinge il ritratto. Il corpo è disteso sul letto ma il viso non si vede perché è coperto dalla tela col ritratto. Che ovviamente è rettangolare. E Giacomo, colpito da quell’inquadratura, ne parlava come del «dettaglio» della morte del nonno. E papà approvava: «Bravo Giacomino, è così che va presa: la morte è solo un dettaglio».
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«Ho cambiato orari» (Silvia) Senza retorica o false mitologie sul cinema che è una vacanza, fare il regista è un lavoro faticoso e usurante. Impone un impegno fisico massiccio e una pressione psicologica costante e bisogna essere un po’ Capitani coraggiosi per farlo. La «vacanza», il privilegio, semmai stanno nella bellezza di quello che si costruisce e per il quale si lavora, e non è un caso che papà si sia sempre definito un artigiano del cinema e non un artista, come pensava fossero invece Federico Fellini o Vittorio De Sica. Nato sceneggiatore, papà amava molto di più la scrittura (e il montaggio, che reputava una vera e propria riscrittura del film), mentre preferiva meno quella delle riprese, che lo affaticavano e che lo impegnavano totalitariamente. In particolare intorno agli anni Novanta, pieno di acciacchi com’era – e qui può partire l’incipit di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome: era cardiopatico, diabetico, mono-rene, soffriva di gotta, di enfisema polmonare, di insufficienza respiratoria e venosa, e muscolare, di varici, di distacco di retina, di cataratta, di ipertensione e si era rotto alternativamente prima una tibia poi l’altra – quelle quindici ore in piedi da mattina a sera sulla torre di comando, per mesi, lo massacravano. Senza contare che di notte ragionava sulle inquadrature e sulle scene che avrebbe dovuto girare il giorno dopo. Arrivava sul set tra i primi, intorno alle otto – profumato, e in giacca e cravatta, of course – e dopo i saluti e il caffè bevuto in piedi con la troupe, esordiva con un: «Per questa inquadratura ho pensato di fare un carrellino…». E giù, trenta metri di binario, per la gioia di macchinisti, elettricisti, fotografi, arredatori… che si mettevano subito
all’opera ironizzando su quella inquadraturina che li avrebbe impegnati per alcune ore. Era un pignolo maniacale, rigorosissimo, e per il lavoro aveva una dedizione tale che lo faceva essere un gran rompicoglioni, con se stesso, con gli altri e soprattutto con noi. Con il tempo il suo umore peggiorava, era sempre più stanco, mentre gli impegni e le incombenze del suo ruolo pubblico non diminuivano. Anzi, visto che non lavorava possibilmente aumentavano pure. Era nervoso, intrattabile, salvo poi riuscire a essere presente e brillante in pubblico, a dispetto delle proteste preventive e dei moccoli tirati in famiglia. Rivendicava il suo diritto al pensionamento, al rincoglionimento, all’ozio. Avrebbe voluto leggere, scrivere, stare con i nipoti che crescevano; tutto il resto gli costava una fatica immensa. E la voglia di fare film andava sempre più scemando. Ogni tanto chiamava in causa anche la Chiesa: «Adesso possono ritirarsi a vita privata anche i papi» – e alludeva al pastore tedesco, papa Ratzinger – «e non posso ritirarmi io, un regista qualunque, che i film che doveva fare li ha già fatti?». Non so chi ha detto che ogni regista fa un film di troppo. E allora basta non lavorare a quello. Chaplin, De Sica, Bergman – le cito i più grandi – sarebbe stato meglio se non avessero fatto il loro ultimo film. 16
L’occasione gliela fornì su un piatto d’argento Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore cinematografico con Medusa e proprietario di Mediaset oltre che presidente del Consiglio, che in risposta a quanti lo accusavano di imporre in Italia un regime oligarchico, un giorno dichiarò che la propria democraticità si poteva misurare con il fatto che produceva film di «registi come Scola». Era vero: dopo Concorrenza sleale, stavamo scrivendo con papà un altro film prodotto da Medusa: Un drago a forma di nuvola. Da un suo soggetto intitolato La petite (La piccola),
eravamo sulla sceneggiatura da parecchi mesi, a sei mani, con Furio Scarpelli. Era la storia di un padre libraio e di una figlia paraplegica, non più giovanissima, che vivono insieme in un negozio di libri sul Pont Neuf, in un rapporto simbiotico, casa e bottega, di dedizione assoluta del padre verso la figlia, in cui la vita ruota tutta attorno alla petite e alla sua malattia. Al punto che il padre, incontrata una donna che lo fa innamorare, rinuncia a lei e alla sua vita di uomo libero per amore della figlia. In verità, per amore del sacrificio. Ovviamente il tono sarebbe stato quello della commedia, anche se amara, e su quella strada ci stavamo avventurando, al soldo di «zio Silvio», come lo chiamava il funzionario di Medusa addetto ai rapporti con la produzione esecutiva della Mass Film. Ci pagavano puntualmente, inesorabilmente, e ogni volta che Committeri ci portava i soldi, chiaro sollecito a consegnare, ci coglievano in castagna e dovevamo farli aspettare. Ricordo che un giorno che procrastinavamo troppo una consegna, Committeri apparve sulla soglia della nostra stanza, alla Mass Film, e disse tutto contrito: «Ahò e questi so’ spietati: hanno già pagato!». Era vero, e l’assenza di Age in questo era una falla gigante. Gli interpreti del film, tutto ambientato a Parigi, sarebbero stati Gerard Depardieu (il padre libraio); Nastassja Kinski (la figlia paraplegica); Marie Gillain (la giovane musa); e Massimo Troisi (il garzone del bar adiacente, napoletano «emigrato» in Francia); attori tutti già contattati e «fermati», tranne Massimo, che era già morto da anni, ma al quale ci eravamo ispirati per Tony, il garzone del bar, dandogli quel tono in bilico tra comicità e poesia, quella sua lieta malinconia, che ci avrebbe permesso di mettere in pratica a piene mani la regola numero uno della commedia all’italiana: fare ridere. Sarebbe stato per lui l’ennesimo Kammerspiel, quel teatro da camera che papà tanto amava, un film girato tutto fra quattro pareti, in questo caso tappezzate di libri, tra cui
vivevano due personaggetti dolenti, chiusi in un microcosmo fatto di paure, probabilmente fondate, e prigionieri dei loro ruoli e della miseria umana. Papà era malato di claustrofilia, l’amore per gli spazi chiusi, e girare in posti angusti e raccolti gli piaceva molto perché gli permetteva di stare sui personaggi, anche fisicamente, e di osservarne le pieghe nascoste, più intime, a percepirne il respiro. Nell’abitacolo di una carrozza, in una sala da ballo, in un piccolo appartamento. Nel Drago, raccontavamo il rapporto di dipendenza reciproca, anche affettiva, tra padre e figlia, lievemente morboso dato il sottile godimento del padre nel sacrificarsi per la sua pétite: il suo cilicio. Immolarsi, crocefiggersi, come unica destinazione degna di una vita segnata dalla disgrazia: l’incidente in triciclo di una figlia piccola e di una madre fuggita. Carver, Dostoevskij, Pirandello, Cechov, Dickens, Totò e Peppino ci accompagnavano nelle riunioni e il lavoro procedeva fruttuoso. Per quanto, come sempre, molto lento nella gestazione, fatta di soprassalti, guizzi e ripensamenti continui. E continuava a mancare Age, con il suo rigore da vicepreside. Erano stati già fatti i sopralluoghi a Parigi ed era stata trovata una libreria proprio sull’Île Saint-Louis (che culo!), dove girare i controcampi della Senna e del Pont Neuf all’esterno del negozio; mentre per gli interni, Ricceri era già al lavoro per progettarla e ricostruirla in teatro, a Cinecittà, e quindi a Roma. Cosa che tranquillizzava molto papà riguardo alla fatica fisica, e lo aveva convinto a realizzarlo. Quando Berlusconi se ne uscì con quella dichiarazione pubblica sulla sua lungimiranza, a Ettore non parve vero e controdichiarò subito, chiamando l’Ansa, che interrompeva all’istante la lavorazione di quel film fino a che il suo editore, cioè Medusa, non avrebbe smesso di coincidere con il capo del governo. La pesantezza di quel conflitto di interessi era
insostenibile: «Quando Berlusconi smetterà di fare politica, io ritornerò a fare film con lui». E così fu. Avevamo da poco consegnato un trattamento di una sessantina di pagine, quando incrociammo le braccia e smettemmo hic et nunc di lavorare al film. E quel Drago che ci piaceva tanto, restò incompiuto; salvo venire poi illustrato, magistralmente, da Ivo Milazzo in una graphic novel tratta dal copione – che vedeva ancora Tony con le sembianze di Troisi – e aver concesso i diritti per un film, liberamente tratto, a Sergio Castellitto. Papà giurò alla Medusa che non avrebbe più fatto film, rispettando tassativamente l’accordo (e il suo alibi) e senza più alcun senso di colpa poté godersi la poltrona, i classici greci da rileggere e da tradurre, e i suoi nipoti con i quali finalmente poteva passare molto tempo. La mattina si alzava con comodo, intorno alle dieci, prendeva un caffè e, dopo un paio d’ore di toletta, a mezzogiorno in giacca e cravatta e tutto spruzzato di Vétiver – come Carlo da vecchio, in bagno, in La famiglia – si piazzava alla scrivania. Molte telefonate, quella quotidiana col «Professore», Franco Rosi, qualche mail, molti scarabocchi, poi pennica dopo pranzo, dopodiché tutto il pomeriggio in poltrona a leggere, a tradurre, a pensare, a sonnecchiare, a meditare. Unico neo, il supplizio della gente che appena lo incontrava e lo riconosceva: «Maestro! Ci manca tanto, perché non torna a lavorare? Ci faccia altri bei film!». Un giorno, di rientro da un festival, incontrammo all’aeroporto Ivano De Matteo, amico regista nonché attore in Gente di Roma, con il quale nell’attesa ci fermammo a chiacchierare e a ridere, insieme a Giuliano Montaldo, altro grande regista e cazzaro di prim’ordine, ma elegante e sempre impeccabile anche lui. A un certo punto il discorso cadde lì, dove il dente duole, e col cuore in mano Ivano disse: «Ettore, ma te posso chiede ’na cosa? Perché non vuoi più fare film?»
«Ho cambiato orari.»
Risposta sintetica ma vera: aver smesso di fare il regista significava essersi riappropriato del proprio tempo, delle proprie priorità e quindi della propria vita. Io sono pieno di rimpianti, ma per fortuna non ho memoria e non me li ricordo. Ho sempre pensato che la felicità non esiste come condizione duratura. Credo nei momenti di felicità. E ritengo che ognuno possa cercarseli e trovarli dovunque, anche nel quotidiano, nel suo privato, senza paura di essere banali. Riprendere in mano un libro che ami, apprezzare le gioie di ogni giorno. Cautelare l’armonia con le persone con cui vivi, stare con i nipoti, se sei nonno, disegnare se sai disegnare – e anche se non sai – rivedere un amico, ricordare, progettare, non perdere curiosità e interesse. 17
Ma a rompere l’idillio arrivò un bel giorno Roberto Cicutto, amministratore delegato dell’Istituto Luce, che gli propose di realizzare un omaggio a Fellini per il ventennale della sua morte che cadeva quell’anno: un breve documentario di montaggio, con i pezzi di repertorio dell’Archivio, della durata di una ventina di minuti da proiettare alla Festa del Cinema di Roma in ottobre. Era febbraio, c’erano pochi mesi davanti, sarebbe stata una cosa cotta e mangiata. Papà disse subito di no: cruda e scartata, un po’ perché aveva sempre deriso i ritiri dalle scene con ripensamento, un po’ perché i tempi erano davvero troppo stretti considerando anche le ricerche del materiale d’archivio; ma soprattutto perché non voleva rinunciare ai suoi nuovi orari. Disse che un omaggio di repertorio su Fellini lo avrebbe potuto fare chiunque, anche il nostro famoso «studente di Tokyo», e che, se anche fosse stato lui a farlo, cosa poteva aggiungere al genio di Federico? Nulla. Quindi: «Grazie. Preferirei di no». In più quei dieci anni di poltrona lo avevano fiaccato fisicamente e psicologicamente, e negli ultimi tempi si era un
po’ depresso: era chiaro che, nonostante i suoi ottantadue anni mal portati, un po’ di movimento e di lavoro gli avrebbero fatto sicuramente bene. Mamma poi, più grande lui ma ancora arzilla, premeva: «Ahò, ve lo volete portare un po’ fuori casa, a questo?». E fu lì che entrarono in azione i nipoti offrendosi di aiutarlo nell’impresa: l’esca di un periodo di frequentazione serrata con loro, a via Mercalli, come nella capanna dello zio Tom, fu troppo ghiotta per «nonno Ettore». Che capitolò, mangiò l’esca volentieri e cominciò subito a raccontare ai ragazzi del suo primo incontro con Fellini, del lavoro di redazione al «Marc’Aurelio», degli amici comuni Maccari e Sordi, e della loro amicizia durata tutta la vita. Marco e Tommaso, i nostri due primogeniti, prendevano appunti e riordinavano i racconti al computer: frammenti, sprazzi di memoria, scenette, gag. Pagine random ma piene di suggestioni che via via diventavano un soggetto. E successe che Ettore ci prese gusto. Raccontare ai nipoti di quel periodo lontano lo entusiasmava, sia per le ore che passava con loro, sia per il tempo che dedicava al suo amico, scomparso il 20 gennaio di vent’anni prima. Parlare di lui, cercare nella memoria i momenti vissuti insieme e rivedere i suoi film, gli avevano fatto venire voglia di fare un film, un vero film, un lungometraggio. Così un giorno, in consiglio di famiglia, cioè a tavola, ci disse che avrebbe detto a Cicutto di trovare i soldi per un docufilm, metà repertorio e metà finzione cinematografica, in cui avrebbe raccontato la loro amicizia ma che fosse soprattutto un omaggio alla grandezza di Fellini. E si sarebbe intitolato Che strano chiamarsi Federico. Aveva già deciso il titolo ancora prima di cominciare, e al nostro stupore rispose che era un verso di una poesia di Federico García Lorca. Cicutto, cuor di leone, accettò subito la sfida (nonostante il budget destinato al breve omaggio ammontasse a quarantamila euro totali) e prese subito forma una cosa che non era né un film di montaggio, né un documentario, né un film e basta, ma una sorta di impresa a conduzione familiare, una bottega
artigiana, in bilico tra la gita fuori porta con picnic e la manche finale di Giochi senza frontiere. Paola e io avremmo dovuto metterci immediatamente a scrivere la sceneggiatura con lui, a tamburo battente, perché il film doveva essere finito per le celebrazioni su Fellini in autunno, e c’erano da fare anche le ricerche di repertorio (che noi già stavamo facendo per il ritratto su Scola e che avremmo dirottato su Fellini). Marco, assistente operatore e filmmaker, avrebbe fatto il backstage; Tommaso, aspirante attore, avrebbe interpretato Fellini da giovane; Giacomo, somigliantissimo al nonno, avrebbe fatto Ettorino in giacca e cravatta; Pietro nei panni di Attalo avrebbe disegnato durante le scene di redazione (e i disegni sono realmente i suoi) e Anita che andava ancora a scuola, una brevissima comparsata finale in cui interpreta una fan che dice a Fellini che lui è il mito di suo nonno. ’A verità. Ciliegina sui maccheroni (come direbbe una persona che ha un posto d’onore, insieme a Totò, fra i padri costituenti del nostro lessico familiare), Gigliola che interpreta la mamma di Mastroianni. La parte della mamma di Mastroianni era una scena brevissima, di pochi secondi, eppure l’attrice per quel ruolo non si trovava. Papà aveva conosciuto bene la madre di Marcello e le figuranti che gli proponevano non gli piacevano: una era troppo borghese, un’altra troppo paesana, un’altra troppo arcigna. Bisognava girare quella scena l’indomani con gli ultimi «fegatelli» rimasti e c’era una comparsa in predicato che non lo entusiasmava. Ma la scena era breve e ci si poteva accontentare. La sera a cena a un certo punto papà dice a mamma: «Gì, ma non ti andrebbe di farla tu la mamma di Marcello?» «Io?» «Eh.» «Boh? Ma quando?»
«Domani.» «Hm. Va bene.»
L’indomani mattina era sul set, la sardegnola tutta pepe, puntuale e con i becchi in testa a farsi truccare da vecchietta nonostante i suoi ottantatré anni suonati, per quel cameo infinitesimale: la mamma di Marcello che entra in scena, rimbrotta Scola accusandolo di fare suo figlio sempre molto brutto nei suoi film, al contrario di Fellini che lo fa sempre bellissimo, e se ne va di scena. Era stato un episodio realmente accaduto, e quel rimprovero a papà la mamma di Mastroianni lo aveva fatto veramente. Stop. Buona la prima. Ne facciamo un’altra per sicurezza? Buona anche la seconda. Finito, grazie a tutti. Mamma, che noi figlie chiamavamo «mucca», derivazione da «mammunca» ma anche dai muggiti che faceva quando la si chiamava, non aveva mai fatto la comparsa, neppure nei film di papà. Solo una volta negli anni Sessanta, trentenne già appassionata di motori, accettò di fare la controfigura di Joan Collins che corre in spider per le strade di Montecarlo nel film La congiuntura. E poi mai più. E anche a noi figlie l’uzzolo di fare le attrici non ci è mai venuto. In Che strano chiamarsi Federico invece c’eravamo tutti; più che una tribù, una mandria, tutta intorno a papà a sorreggerlo e a stimolarlo. E ce la facemmo: Che strano chiamarsi Federico venne presentato a Venezia e poi a Roma quell’anno stesso per i festeggiamenti del ventennale di Fellini. Finito quell’ultimo vero film che decretava la sua uscita di scena professionale e finita quella fatica durata otto mesi fitti fitti, gli orari di papà sono tornati quelli comodi di prima, ma la stanchezza gli aveva lasciato un’energia nuova.
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Brutto, sporco e cattivo (Paola) Per un pelo, per un solo film insomma, non ho fatto quello che per me è il suo capolavoro assoluto: Brutti, sporchi e cattivi. In quell’anno avevo la maturità e a tutto pensavo tranne che al cinema. Solo l’anno dopo, sul set di Una giornata particolare, mi sono resa conto di cosa mi ero persa. Era il 1976 quando papà lanciò quella bomba che fu Brutti, sporchi e cattivi, un film meraviglioso e terribile che raccontava senza pietà la ferocia della miseria, materiale ma principalmente morale, del sottoproletariato urbano. Stravolgendo il luogo comune dei poveri buoni, degli ultimi che saranno i primi e che entreranno nel Regno dei Cieli, con stile grottesco (quell’aspetto del comico fondato sull’esagerazione di un fatto drammatico) raccontò una storia di baraccati che vivono come bestie, che si scannano fra loro e grufolano nella laidezza morale e nella criminalità. Una «favola immorale» che aveva preso ispirazione da un’altra favola immorale: Una modesta proposta di Jonathan Swift, l’autore dei Viaggi di Gulliver, che nel 1729 suggeriva «un metodo onesto, facile e poco costoso» per risolvere la piaga della miseria, dell’accattonaggio e della fame nell’Irlanda della sua epoca. La proposta consisteva nell’uccidere tutti i bambini poveri: «Un infante sano e ben allattato all’età di un anno è il cibo più delizioso, sano e nutriente che si possa trovare, sia in umido, sia arrosto, al forno, o lessato; ed io non dubito che possa fare lo stesso ottimo servizio in fricassea o al ragù». 18 Swift aveva ipotizzato anche il prezzo di ogni bambino in dieci scellini: in questo modo i benestanti avrebbero sempre avuto carne tenera e di prima qualità e i poveri avrebbero guadagnato abbastanza per sostentarsi.
Il pamphlet indignò tutti: i lettori, i critici, la Chiesa, che gridarono allo scandalo; non venne capito l’intento profondo e il grido di dolore della paradossale provocazione dell’autore per le condizioni di miseria del suo Paese. Anche Pasolini passò per il tritacarne col suo Accattone, la storia di un sottoproletario romano che vive di espedienti, di furti e dello sfruttamento di una prostituta, senza nessuna speranza di miglioramento. Un accattone appunto, che come via d’uscita a una condizione così disperata non ha che la morte. Tutta l’opera di Pasolini in quegli anni puntava il dito contro la persuasione occulta dei mezzi di comunicazione di massa che miravano all’«omologazione» delle fasce più svantaggiate: «Impongono ai giovani, che inconsciamente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali: pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese. […] Ritengo che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa». 19 Con Brutti, sporchi e cattivi papà volle riprendere l’argomento e propose a Pasolini una cosa che non era mai stata fatta: una prefazione filmata al film: così come avviene per i libri, dove un autore importante fa la prefazione al libro di un autore più giovane, Pasolini avrebbe fatto una breve introduzione nella sua veste di poeta, di letterato, di esperto della materia. A riprese concluse papà gli avrebbe mostrato un primo montaggio del film e avrebbero girato la presentazione: sul set ancora deserto, fra le baracche vuote, Pasolini si sarebbe rivolto al pubblico: «Ecco, sono di nuovo in una borgata romana. Quindici anni fa io ho girato Accattone proprio quando iniziava la distruzione di una specie umana…». Mentre parlava a poco a poco sarebbero arrivati i protagonisti del film e lui se ne sarebbe andato alla chetichella, lasciando la scena a loro.
Pasolini lesse la sceneggiatura che gli piacque molto e allettato dalla proposta disse che per l’occasione si sarebbe vestito tutto di bianco. Tuttavia mise in guardia papà: il film avrebbe scatenato un putiferio e lo avrebbero messo in croce, proprio come era successo a lui. Si guardarono e si sorrisero: effetti collaterali del mestiere. Quello che non potevano immaginare era che durante le riprese, il 2 novembre 1975, Pasolini sarebbe stato ammazzato. Così il film è rimasto senza prefazione. Il resto andò tutto come previsto: anche papà, come i suoi illustri predecessori Pasolini e Swift, si tirò addosso gli anatemi di (quasi) tutti, trasversalmente, da destra a sinistra. Fu tacciato di razzismo, di ignominia, di spregevolezza. Scrissero che solo un «intellettuale borghese come lui» poteva permettersi di prendersi gioco dei baraccati in maniera così sgradevole e supponente. Di nuovo non venne capito l’intento, la denuncia del consumismo che corrompe inculcando falsi bisogni, e dove, quando non si possiede nemmeno il necessario, il superfluo diventa indispensabile. Per una famiglia borghese consumare significa spendere dei soldi; nelle fasce meno abbienti la soddisfazione di quei bisogni si traduce in crimine, in galera, in morte. Un ragazzo di borgata paga tutto molto più caro. 20
Sicché nella baracca dove vivono accatastati i brutti, sporchi e cattivi componenti della famiglia Mazzatella – una trentina tra figli, nuore, generi, nonne e nipoti – trova ricovero anche una Vespa, indispensabile ferro del mestiere di Romolo, scippatore professionista. La baraccopoli venne costruita a Monte Ciocci, una collina spelacchiata fuori le mura del quartiere Aurelio, nonostante le proteste di Carlo Ponti, il produttore, che, per risparmiare, insisteva perché si girasse in una delle tantissime baraccopoli già esistenti a Roma. Papà fu irremovibile: quella dei Mazzatella doveva essere lì, a vista della basilica di San Pietro.
Volevo che il «Cupolone», simbolo del potere della Chiesa, dei suoi alti ammonimenti sulla vita, sull’aborto, sulle grandi leggi morali, incombesse continuamente sulla baraccopoli e sulle sue miserie. 21
Il capostipite della tribù è Giacinto, interpretato da Nino Manfredi, uno dei pochi attori professionisti in mezzo a tanti interpreti presi dalla strada, come nella migliore tradizione pasoliniana. In questo ruolo Manfredi è inarrivabile, riesce a essere feroce e tenero, abietto e sublime nello stesso tempo: da brividi. Ubriacone, di origine pugliese (ma anche il suo dialetto è imbastardito) Giacinto possiede un cartoccio di un milione di lire ottenuto come indennizzo per un occhio perduto in cantiere con uno schizzo di calce viva. È ossessionato dal pensiero che la famiglia voglia rubarglielo e lo nasconde continuamente in posti diversi; dorme con una doppietta nel letto come ammonimento, e non esita a usarla contro un figlio, al momento opportuno, ferendolo a una spalla. Quando Giacinto inizia a dilapidare il milione con una monumentale prostituta e pretende anche di accoglierla in casa facendola dormire nel lettone insieme a lui e alla moglie, la famiglia ordisce un complotto per ucciderlo. Scelgono il pranzo di battesimo di un ennesimo nipote (dove durante la celebrazione in chiesa non perdono l’occasione di scassinare la cassetta delle offerte) per compiere il loro proposito: servirgli il piatto di maccheroni pieno di veleno per i topi. Nel momento in cui Giacinto comincia a sentirsi male e a capire che c’è qualcosa che non va, il cielo si annera di botto e rimbombano i tuoni: un tratto tipico dei film di papà che fa scatenare la furia degli elementi – vento, lampi, tuoni e tempeste – per aiutare la rappresentazione delle angosce e dei drammi interiori dei personaggi. Giacinto riesce a salvarsi praticandosi una sorta di lavanda gastrica con la pompa della bicicletta, e giura vendetta alla
famiglia ingrata. In mezzo a tanto orrore è difficile immaginare che ci possano essere momenti comici o di lirismo assoluto. Eppure… Giacinto che si innamora della prostituta, dopo aver fatto l’amore sotto un grande cartellone pubblicitario, fuma il suo sigaro: «Non mi sei neanco detto come ti chiami.» «Iside. Dice che è un nome antico.» «Anco il mio è un nomo antico: Giacinto, ci si chiamava mio nonno.»
Poi, con un ampio gesto indica la distesa di cemento della periferia romana ai loro piedi, e gliela offre. O la struggente sequenza dei bambini che giocano nella gabbia fatta con le reti metalliche di letti sfondati sulla meravigliosa musica del maestro Trovajoli che rifacendosi ai suoni degli Inti-Illimani evoca le favelas brasiliane. I bambini razzolano lì dentro come polletti in una stia ma quella prigione chiusa con catena e lucchetto è il loro asilo, gli basta un sasso per giocare e poter essere bambini; lì dentro sono ancora protetti dall’influsso dell’esterno. Considerato il destino che li aspetta è un lager positivo, che li isola dal contagio e ritarda la loro corruzione. Ogni mattina una nipote di Giacinto, una ragazzina tutt’ossa poco più grandicella di loro, fa il giro del borghetto affondando nel fango coi suoi enormi stivaloni di gomma gialla e raduna i bambini di tutti gli abitanti della baraccopoli; fa l’appello, li chiama a uno a uno: «Pamela, Mirko, Samantha!…». Sono nomi venuti da chissà dove, nomi che fin dal giorno del battesimo li segnano come «consumatori». Qualcosa di analogo avveniva fra gli anarchici che chiamavano le loro figlie Libertà, Giustizia, Uguaglianza. Anche i baraccati esprimono con i nomi dei figli una ideologia: quella della omologazione. 22
Dopo il vituperio della critica italiana il riscatto, tanto per cambiare, arrivò dalla Francia: il film vinse il premio per la regia al festival di Cannes e fu proclamato un capolavoro. Tanto che dopo quarant’anni, il 21 gennaio 2016, Maurice Ulrich, critico di «L’Humanité», parla ancora di Brutti, sporchi e cattivi nell’editoriale per la morte di papà. Descrive l’ultima sequenza in cui si scopre che la ragazzina tutt’ossa e con gli stivaloni gialli è incinta: «Ma lei saltella su un muretto che domina la Città Eterna e quel passo leggero come se danzasse è un miracolo della vita in un mondo sordido. È l’immagine della grazia. Due anni dopo, in Una giornata particolare, quella stessa grazia illuminerà Sophia Loren in ciabatte e vestaglia. Il genio di Ettore Scola sta in questa capacità di illuminare il mondo, di renderlo più bello, facendo degli anni Settanta uno dei decenni più felici del cinema italiano. Il Maggio ’68 non è stato solo francese». 23
Cazzo che complimento! E che dolore che papà non l’abbia potuto sentire.
Finalino di coda
«E mo’?» «E mo’ che?» «Dopo ’sta sviolinata sul Maggio francese, come chiudiamo?» «Come chiudiamo?» «Che fai, ripeti le domande?» «Ripeto le domande?» «Secondo me scatta la querela.» «Dici?» «Me sa.»
Note
1. Intervista di Maria Pia Fusco, «La Repubblica», 13 gennaio 2013. 2. Backstage di «Che strano chiamarsi Federico», regia di Marco Scola Di Mambro, 2013. 3. Dall’introduzione a Pier Marco De Santi (a cura di), Ettore Scola. Immagini per un mondo nuovo, Giardini, Pisa 1988. 4. Ettore Scola, Il cinema e io. Conversazione con Antonio Bertini, Officina, Roma 1996. 5. Titolo di un articolo di Clément Menin, «The Hot Corn», 29 aprile 2018. 6. Permettete? Ettore Scola, conversazione con Lino Miccichè, di Luca Bellino, Francesco Crispino e Vito Zagarrio. 7. Nonno Peppino Fantoni era il padre di nostra madre Gigliola, e il caso volle che si chiamasse Giuseppe, che fosse detto Peppino e che anche lui venisse soprannominato dalla moglie «Peppi». Però nonno Peppino Scola era di Trevico e nonno Peppino Fantoni di Nuoro, così la nonna napoletana chiamava il marito «Peppì» con l’accento sulla «i», e la nonna sarda «Péppi» con l’accento sulla «e». E anche questo ci faceva molto ridere. 8. Il soggetto del film, firmato solo da Furio Scarpelli, inizialmente raccontava la concorrenza tra un merciaio di origini ebree e un antico sarto romano, cattolico, vicini di bottega. Era ambientato ai giorni nostri, e quando Ettore lo scelse per farne un film volle calarlo in un contesto storico che avesse più peso nella loro vicenda e in cui la concorrenza – sleale – fosse quella della Storia più che quella tra di loro. 9. Alberto Moravia, Visto che siamo in ballo, «l’Espresso», 18 marzo 1984. 10. Mino Argentieri, Per mezzo secolo a passo di danza, «Rinascita», 10, 9 marzo 1984. 11. Luciano Guidobaldi (a cura di), Attalo, che aveva detto agli amici…, Comic Art, Roma 1980.
12. Intervista di Fabrizio Corallo e Malcom Pagani, «Il fatto quotidiano», 8 giugno 2014. 13. Ettore Scola a La valigia dei sogni, La7. 14. Intervista di Fabrizio Corallo e Malcom Pagani, «Il fatto quotidiano», 8 giugno 2014. 15. Ettore Scola a Quello che non ho, Rai3, maggio 2012. 16. Intervista di Maria Pia Fusco, «La Repubblica», 13 gennaio 2013. 17. Ettore Scola, Il cinema e io, cit. 18. Jonathan Swift, Una modesta proposta e altre satire, Bur, Milano 1977, pp. 142-143. 19. Pier Paolo Pasolini, Il genocidio, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975. 20. Ettore Scola, Il cinema e io, cit. 21. Ibid. 22. Ibid. 23. Maurice Ulrich, La grazia, «L’Humanité», 21 gennaio 2016.
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Indice
Copertina L’immagine Il libro Gli autori Frontespizio Prefazione. di Daniel Pennac Chiamiamo il babbo Vicino alle valigie 1. Edipo e altri miti. (Paola) 2. Casa e bottega. (Silvia) 3. Trevico-Torino. (Paola) 4. Trevico-Torino. (Silvia) 5. Ricordi e raccordi. (Paola) 6. Il metodo Amidei. (Silvia) 7. Vita da aiuto. (Paola) 8. Age & Scarpelli. (Silvia) 9. Open house!. (Paola) 10. Mani bucate. (Paola) 11. Scene figlie. (Silvia) 12. 4 capolavori e ½. (Paola) 13. «Hai temperato le matite?». (Silvia) 14. Cachupa e maccheroni. (Paola) 15. «Leva ’sta paca». (Silvia) 16. Ippocrate e Cicerone. (Paola) 17. Gì. (Silvia) 18. «Dopo ti spiego perché». (Paola) 19. Fari nella notte. (Paola) 20. La Cosa. (Silvia) 21. Parole sudate. (Paola) 22. Fisica quantistica. (Silvia) 23. La famiglia è una radice. (Paola) 24. Te lo do io l’Oscar. (Silvia) 25. Dettagli. (Paola) 26. «Ho cambiato orari». (Silvia) 27. Brutto, sporco e cattivo. (Paola) Finalino di coda Note Copyright