Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l'avventura di «C'era una volta in America» 8806208799, 9788806208790


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Italian Pages 248 [236] Year 2021

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Che hai fatto in tutti questi anni
PRIMO TEMPO. 1966-1971
Noodles era mio padre. La storia di Simeon F. Grey raccontata da lui stesso
SECONDO TEMPO. 1971-1975
Poi per fortuna mi viene la tonsillite. La storia di Franco Ferrini
TERZO TEMPO. 1975-1976
Un gran fijo de ’na mignotta, praticamente un genio. La storia di Claudio Mancini
QUARTO TEMPO. 1975-1977
Sarò per te Don Sergioleone. La storia di Sergio Leone
QUINTO TEMPO. 1979-1982
Un casting perfetto, devo ammettere. La storia di Scott Schutzman
SESTO TEMPO. 1981-1983
Volevo vedere cosa vedeva mio padre. La storia di Steve Della Casa
SETTIMO TEMPO. 1983-2012
Una crepa nel cuore. La storia di Ernesto Gastaldi
EPILOGO
La Gioconda nella fumeria d’oppio. (da dove viene questo libro)
Un attimo prima dell’azione. (da dove vengono le fotografie di questo libro)
Il libro
L’autore
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Copyright
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Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l'avventura di «C'era una volta in America»
 8806208799, 9788806208790

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Piero Negri Scaglione

Che hai fatto in tutti questi anni Sergio Leone e l’avventura di C’era una volta in America

– Signore e signori… Sergio Leone. È il 1969, giovedí sera. Il Programma nazionale della Rai Radiotelevisione italiana trasmette in diretta A che gioco giochiamo? Il conduttore è Corrado. L’ospite, rigido in giacca e cravatta, con un sorriso tirato e occhiali dalle lenti scure, è il maestro dei grandi western italiani. – Sappiamo che ti abbiamo distratto un pochino dal lavoro. Cosa stai facendo? – Sto mixando l’ultimo per l’America. C’era una volta il West. – C’era una volta il West. – Sto mixando per la versione americana. – Ah… Per il doppiaggio, diciamo cosí. E poi cosa hai in progetto? – Be’, finisco con il western. – Ah sí? Sergio Leone abbandona il West! C’era una volta, appunto, il West. – E adesso faccio C’era una volta l’America. – C’era una volta? – L’America. Sí. – Per molti c’è anche adesso. – Per me, c’era.

Che hai fatto in tutti questi anni

PRIMO TEMPO 1966-1971

«Longtemps, je me suis couché de bonne heure!» Enrico Medioli non mi lascia neppure finire la domanda. Capisce al volo che intendo parlare di quella battuta: «È mia, ed è un furto», dice. Arriva dopo mezz’ora di film, quando hai visto Noodles sfuggire ai killer della mafia e farli fuori; prendere un mazzo di chiavi all’amico Fat Moe, pestato a sangue ma ancora vivo; aprire cosí una cassetta di sicurezza e trovarvi all’interno una valigetta vuota di soldi e piena di carta straccia; acquistare un biglietto di sola andata per Buffalo. E poi tornare a New York, trentacinque anni dopo, nel quartiere ebraico dove tutto è avvenuto, entrare nel locale di Fat Moe, negargli un abbraccio e restituirgli la chiave della pendola che aveva preso trentacinque anni prima. Moe carica l’orologio e rimette in moto il Tempo. E quando entrambi stanno per andare a dormire, gli chiede: «Che hai fatto in tutti questi anni?» What’ve you been doing all these years? «Sono andato a letto presto». Been going to bed early. Noodles risponde senza guardarlo, fissando il vuoto davanti a sé. A un certo punto sembra quasi sorridere. Quasi. Il genio di Medioli, che quella battuta ha scritto, «rubandola» – direbbe lui – dall’incipit della Recherche. Il genio di Sergio Leone, che mette Noodles e Fat Moe nell’inquadratura, uno di profilo in primo piano, l’altro sullo sfondo, in un dialogo asimmetrico che dà il tono del film (e che si rispecchierà nel duello finale tra Noodles e Max). Il genio di Robert De Niro, che quelle parole sputa fuori come l’ennesima beffa, soprattutto a se stesso. Il momento è memorabile e decisivo. Dopo mezz’ora di film, è tutto chiaro: altro che gangster movie, C’era una volta in America è un’opera-mondo, un’epica moderna, o postmoderna, l’unica

possibile. «Nasco con il neorealismo, – diceva Leone, – ma ho sempre pensato che il cinema è avventura, mito, e che l’avventura e il mito possono raccontare i piccoli fantasmi che ognuno di noi ha dentro». Piccoli fantasmi in C’era una volta in America ce ne sono tanti, e lo sa bene chi aveva piú o meno vent’anni in quel 1984 in cui uscí. È assai probabile che oggi collochi il film tra i preferiti di sempre (e magari quella frase, «Sono andato a letto presto», in cima alla classifica delle battute memorabili: è accaduto spesso, accade di continuo). Perché? Una risposta semplice non c’è. Forse da ragazzi quei piccoli fantasmi si vedono meglio. Sono i fantasmi dell’amore non corrisposto che diventa volontà di potenza, della violenza, dell’amicizia, del tradimento, della vendetta, del desiderio e del suo lato oscuro, la delusione o – peggio ancora – la sua completa soddisfazione. I fantasmi di chi ha sognato il Sogno americano. Eravamo giovani, ci sentivamo nuovi. Non avremmo mai vissuto le vite di chi ci stava intorno e di chi veniva prima, anche solo quelle dei fratelli maggiori. C’era una volta in America ci insegnò a «buttarci a piedi pari nella vasca del Campari, abbattere la notte a raffiche di Cordon Rouge», come canta Vinicio Capossela. Ma era anche una cautionary tale, una lezione che ci poteva salvare: attenti, il sistema alla lunga vince e si rischia di andare a letto presto per il resto della vita. O peggio, al sabato «all’iper a far la spesa», dice quella stessa canzone. Il titolo è Dove siamo rimasti a terra Nutless, Nutless è il nome di battaglia che Capossela e il suo amico del cuore si erano dati a vicenda, da ragazzi. Nutless è il Noodles che è in noi, la misura del nostro vivere, lo specchio dei sogni magniloquenti e dei fallimenti che abbiamo incontrato. Era il futuro, raccontato da chi sapeva già come sarebbe andato a finire. Concepito e diretto da un uomo che quando il film esce, nel 1984, ha 55 anni e ha già vissuto molte vite. È stato buono, brutto e cattivo, è stato bandito e rivoluzionario. Piú bandito che rivoluzionario: con l’istinto del grande attore, Rod Steiger si ispira a lui, di nascosto, per dare corpo al peone

Juan Miranda in Giú la testa e ne imita il tipico gesto di aprire e chiudere nervosamente le mani. Leone non la prende bene, poi decide di lasciarlo fare. Le sue avventure sono piene di piccoli fantasmi come questo, talmente piccoli che chi guarda solo i cowboy e i gangster, i banditi e i rivoluzionari, non riesce a vederli. Si dice che tutti i film, anche quelli storici, anche quelli di fantascienza, siano contemporanei a se stessi. Si dice anche che gli artisti siano come profeti, vedano piú in là. Non il futuro, ma la realtà nella sua essenza. C’era una volta in America ha tanta storia dentro: dal momento in cui è stato pensato per la prima volta a quello in cui è stato presentato a Cannes, evento speciale al Festival, sono passati diciotto anni: 1966-1984. C’è qualcosa di misteriosamente perfetto in queste date, in questa lunga attesa. Il film racconta il mondo che chi era giovane nel 1984 vedeva davanti a sé, un mondo di individui, senza legami forti, neppure familiari, un mondo di uomini soli in cui il tradimento sembra essere l’unica certezza, il fallimento l’unica prospettiva. Era impossibile non identificarsi in Noodles. Diceva Leone: «Chi ha adorato il film fino al delirio, al punto di vederlo anche venticinque volte, sono stati i ragazzi di vent’anni. Gente che non sa chi sia Griffith, Stroheim, Ford e perfino Chaplin. Persone che quando è uscito Giú la testa non avevano neppure dieci anni. Questo dimostra che c’è il desiderio naturale di vedere certo cinema. Ecco, questa è la mia speranza». Ha ragione nella sostanza, ma sbaglia prospettiva. Non si tratta del desiderio di vedere «certo cinema». Si tratta di un raro caso di immedesimazione preventiva con il piú grande perdente di sempre, Noodles, senza soldi, senza donna, senza amici e senza nome, senza vendetta né redenzione. O forse con Noodles che rinuncia a vendicarsi, si volta, guarda indietro e non si trasforma in una statua di sale. E sorride, con un clamoroso anacronismo, perché sa che la storia, se non la Storia, gli darà ragione. Un’allucinazione collettiva elegge a idolo generazionale un gangster di terza fila, fallito anche

come cattivo. Una scelta profetica, una di quelle profezie che inevitabilmente si autoavverano. Quando esce il film, io ho 18 anni. Quando Leone comincia a pensarlo, sono appena nato. Lui e mio padre hanno la stessa età, sono entrambi del 1929. Come tutti gli italiani della loro generazione sono cresciuti nutrendosi di film, uno amandoli e poi facendoli, l’altro andando al cinema ogni giorno (o quasi). Ascoltano Claudio Villa e Nilla Pizzi, come tutti, ma sognano In the Mood o meglio ancora La vie en rose (Leone, come mio padre del resto, non parlava inglese ma francese sí, e piuttosto bene). Una generazione speciale, che vede la guerra da vicino ma è troppo giovane per farla. Che sulle ideologie è scettica proprio come noi ragazzi degli anni Ottanta. Che non ha avuto bisogno di dirsi o non dirsi fascista, né di imbracciare fucili. Non ha colpe per quanto è avvenuto in Italia e soprattutto non ha sensi di colpa, non cerca riscatto. È cresciuta in un western, in un film di gangster, gente armata per strada, buoni e cattivi che si fanno la guerra, sceriffi e fuorilegge. È la generazione che alla fine degli anni Quaranta recupera in pochi mesi gli arretrati di cinema americano che la Storia le ha sottratto. Sono gli anni che contano. Quando arriva la televisione, i giochi sono fatti, questi ragazzi hanno un immaginario grande come un grande schermo. C’era una volta in America è l’unico film di Sergio Leone che ha alla base un libro, Mano armata di Harry Grey. Per anni, Leone va dicendo che il suo romanzo prediletto è Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, e che un giorno ne farà un film. Poi però (per fortuna) fa C’era una volta in America, malgrado tutto, malgrado abbia molte occasioni per abbandonare il progetto. Il libro lo scopre per lui Giuseppe Colizzi, scrittore, produttore, poi regista di western all’italiana in chiave di commedia. Colizzi ha nel destino un’esistenza inquieta, piuttosto breve (muore nel 1978 a 53 anni), e un posto nella storia del cinema popolare come inventore del duo Bud Spencer e Terence Hill. Li accoppia quasi per caso in Dio perdona… io no! (1967) e capisce subito che quando quei due

appaiono insieme sullo schermo nel pubblico – e nel film – scatta qualcosa. Un divertimento speciale. È un tipo attento, Colizzi. Scova Mano armata a Roma, in edicola, e ne coglie al volo il potenziale. Senza pensarci due volte, ruba spunti che si ritroveranno in un suo film di due anni dopo, I quattro dell’Ave Maria, soprattutto l’idea della scena finale, risolutiva, in cui la banda sgomina una roulette truccata proprio come avviene nel libro. Ma prima ancora, ha un’altra idea: vuole entrare nel giro di Sergio Leone e magari lavorare con lui. Attraverso lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, grazie a Luigi Zampa, il regista, di cui è nipote, riesce a diventargli amico nei mesi in cui il Maestro è impegnato nel montaggio del Buono, il brutto, il cattivo. Vanno talvolta a pranzo insieme, Colizzi assiste alle lunghe sessioni alla moviola, Leone prende a chiamarlo «il mio protetto». Un giorno, Colizzi gli passa il libro. Leone lo legge (o glielo legge ad alta voce suo cognato Fulvio Morsella, lo confiderà poi al biografo Christopher Frayling) e ne rimane ossessionato. Non è ancora uscito Il buono, il brutto, il cattivo e già dice che farà un film tratto da Mano armata. «Io l’ho vissuto il momento in cui Sergio ha smesso di divertirsi facendo cinema», mi dirà molti anni dopo Sergio Donati, sceneggiatore di C’era una volta il West. «Me lo ricordo perfettamente, fu durante l’edizione del Buono, il brutto, il cattivo». È il 1966, niente sarà piú come prima. Mano armata è la traduzione italiana di The Hoods, qualcosa come «I teppistelli», prima edizione americana nel 1952, poi abbastanza venduto in America in edizione economica, copertina con illustrazione pulp di pistole, donna svenuta (o forse morta?) con reggicalze in vista, uomo che piange, uomo imbavagliato e frase di Mickey Spillane: The Truth about Cold-Blooded Killer Mobs and How They Work, «La verità sui sicari spietati della mafia e su come lavorano». L’edizione che finisce tra le mani di Leone è anche a casa mia negli anni dell’adolescenza, sta nel mobile in cui conserviamo i tascabili acquistati in edicola, tra Bonjour

Tristesse di Françoise Sagan e Psicologia del sesso di Oswald Schwarz, allievo di Freud. In Italia l’ha pubblicato Longanesi, prima in edizione rilegata nel 1958, poi nei pocket il 1° marzo 1966, tradotto da Adriana Pellegrini, tagliuzzato ma ancora piuttosto lungo per essere un romanzetto di intrattenimento: 350 pagine in vendita a 350 lire. Anche qui copertina con donna (decisamente viva), gonna sopra il ginocchio, e strillo ammiccante: Chi ha scritto questo libro? Frank Costello, Lucky Luciano o Joe Adonis? È questa l’edizione che legge Leone (o per lui Morsella), è quella che ho letto io. La finzione vuole che l’abbia scritto tale Noodles, gangster di terza fila nella New York del proibizionismo. Il nomignolo allude all’intelligenza di cui è dotato (noodles sta per «cervello»): nelle prime pagine lo vediamo a colloquio con il preside della scuola, che cerca di convincerlo a continuare gli studi, senza riuscirci. Il richiamo della strada è troppo forte, Noodles preferisce puntare su Big Maxie, compagno di classe ebreo come lui per niente osservante, leader di una banda di teppistelli del Lower East Side. Mano armata racconta le gesta di Noodles e dei suoi amici, dal furto di pochi dollari nelle tasche di balordi come loro, un po’ meno furbi di loro, al progetto folle di rapinare una grande banca in piena Manhattan che decreterà la fine della banda. In mezzo, c’è la storia dei quattro ragazzi, dai banchi di scuola ai bordelli di lusso, dal 1916 in cui Woodrow Wilson viene confermato presidente ai primi anni Trenta, quando è ormai evidente che l’era del proibizionismo sta per finire. Sullo sfondo, il legame sempre piú stretto con i padroni occulti (ma non troppo) della città, o di una parte di essa: Frank e Dandy Phil di Mano armata sono Frank Costello, nato Francesco Castiglia, e Philip Kastel l’elegantone, il mafioso e il suo braccio destro, un sodalizio tra un italiano e un ebreo che rispecchia un’alleanza fra tribú di immigrati presente ovunque, nella cronaca nera di quegli anni e nella gang di Noodles. Con lui, Maxie e Cockeye, ci sono infatti gli italiani Dominick, che muore presto durante una rapina, e Patsy, il cui vero nome è Pasquale.

Quando torna dai diciotto mesi di riformatorio trascorsi nella casa ebraica Cedar Knolls a Hawthorne, New York (realmente esistita), Noodles trova una banda strutturata, guidata con pugno di ferro da Big Maxie. No sfruttamento operaio, no droga, no prostituzione: sono gli unici limiti che si pongono; le pompe funebri dello zio di Maxie, che molto opportunamente muore e gli lascia tutto in eredità, mascherano un’attività variegata che cresce e si sviluppa grazie ai soldi garantiti dal proibizionismo. I ragazzi sono proprietari di sei locali, sei speakeasy, quello di Delancey Street gestito da Fat Moe è il loro quartier generale. Tutti i personaggi di contorno, mafiosi di mezza tacca, irlandesi ribelli, duri di Chicago, boss spietati, politici corrotti, sono reali ed entrano in scena nel libro con il loro vero nome. E sono veri i legami tra crimine organizzato e politica, mediati a New York dall’organizzazione assistenziale di Tammany Hall, che garantí per decenni la vittoria del Partito democratico nelle elezioni locali. Veri anche i rapporti spericolati tra le gang e i sindacati. Mano armata, però, rimane il romanzo di Noodles. Se Maxie è il capo indiscusso della gang del Lower East Side, Noodles è l’intellettuale del gruppo, quello che legge i libri e conosce le parole piú difficili, perfino «sadomasochista», pur essendo un duro come e piú degli altri. C’è una scena, all’inizio del libro, che spiega tutto: Noodles si appropria di un coltello e di un libro, Dagli stracci alla ricchezza di Horatio Alger, lo scrittore ottocentesco cantore del Sogno americano di ascesa sociale. Dell’ideologia e dello strumento per trasformarla in azione. Diventa cosí per tutti Noodles la Lama, cervello e coltello. È infatuato di Dolores, la sorella ballerina di Fat Moe. Ha molte donne, ma lei è diversa, danza come un angelo, lui fuma l’oppio e la sogna (la «vede»). Per lungo tempo Noodles non si fa domande. Finché il gioco smette di essere un gioco, dal coltello si passa al Thompson, si lavora solo su commissione, la banda di amici si trasforma in un ingranaggio violento e ben pagato della potentissima Combinazione, Maxie si compra un trono e

guarda tutti, anche i compari, dall’alto in basso. La situazione precipita, anche se la voce narrante sembra non accorgersene e il racconto va avanti con il passo lento di sempre: Noodles strappa un appuntamento a Dolores, ma quando capisce che lei ha altri progetti e che presto andrà a Hollywood tenta di violentarla; sua madre si ammala e muore alla vigilia del colpo alla banca che lui ritiene folle e che Maxie ha organizzato senza un’adeguata pianificazione e senza informare i boss; Noodles cerca di fermarlo denunciando alla polizia una consegna di alcol illegale, poi fugge in una fumeria d’oppio, si stordisce fino a quando Joey il cinese lo sveglia e gli mostra il giornale con le foto dei suoi tre amici e la notizia della loro morte. «Erano là in prima pagina, distesi sulla strada di Westchester, coperti di sangue. Erano piú che fratelli, li avevo uccisi io». Cerca riparo da Moe, ma non può sfuggire alla condanna a morte della Combinazione, che gli spedisce tre killer alle calcagna. Con astuzia, con l’aiuto del fidato barista e con un po’ di fortuna ce la fa: senza un dollaro se ne va dalla città prendendo il passaggio di un camionista. «Ebbene, vedete, sono ancora qui, dopo tanti anni, e racconto la storia. Ma come sono fuggito, dove mi sono nascosto… questa è un’altra storia. E capirete perché non posso raccontarla». Nel 1967, a New York per seguire il doppiaggio americano del Buono, il brutto, il cattivo e per lavorare a C’era una volta il West, Leone chiede a Sergio Donati di iniziare le ricerche per il film che seguirà, che deve chiamarsi C’era una volta l’America. Donati raccoglie materiale d’archivio al «New York Times», poi con Leone vede «un po’ di possibili location, anche nel New Jersey, dove c’erano aree urbane ancora uguali agli anni Trenta. Una New York di quell’epoca». Insieme incontrano «un capitano della polizia di New York e anche un tipo di Cosa Nostra». Leone cerca di rispondere alla prima domanda che si è posto, quando ha finito di leggere il libro. Che ha fatto Noodles in tutti questi anni? Che ha fatto Harry Grey, il suo creatore, o meglio ancora Herschel Goldberg, l’uomo dietro lo pseudonimo?

La storia del primo incontro tra il regista e il gangster diventato romanziere è cinema puro. Molti, tra quelli che faranno il film, pensano che non sia mai avvenuto. «Con gli anni, – mi ha detto una volta un suo collaboratore, – Sergio diventava sempre piú visionario. Immaginava cose che poi per lui diventavano reali. Si era convinto che l’unica realtà era quella che lui “vedeva”. E se esprimevi dubbi, ti diceva: che ne sai tu che non sei mai uscito dal Raccordo?» Leone l’incontro lo vedeva e raccontava cosí. Dopo aver contattato un suo agente, o avvocato, e chiesto aiuto alla Paramount, quando tutto sembra ormai impossibile, si fa vivo lui stesso, Grey. Chiama Leone e gli dice di aver visto tutti i suoi film. Gli dà appuntamento in un bar del Queens, nei pressi del New Calvary Cemetery, vicino a Greenpoint Avenue. Dovrà essere solo, ma Leone riesce a convincerlo ad accettare almeno la presenza di suo cognato, essenziale perché parla l’inglese. Il tassista che li conduce all’incontro, con la barba di tre giorni, guida e fischietta canzoni di Frank Sinatra. Il bar è cupo e minaccioso, gli avventori sono tipi loschi, solo due prostitute dagli stivali rossi danno colore all’ambiente. Il barista è grasso, di incerte inclinazioni sessuali. Grey arriva puntualissimo e ricorda Edward G. Robinson («Piccolo, tarchiato, con i capelli bianchi e la carnagione rosea di un bambino»): non si toglie mai il cappello, ordina un whisky ma non lo beve, concede cinquanta minuti e poi se ne va. Anzi, scompare all’improvviso senza quasi salutare. Ha risposto a monosillabi, non ha detto nulla, in realtà, ma Leone ha avuto la conferma di ciò che gli è stato chiaro fin dalla prima volta che ha letto The Hoods: «Tutta la sua vita era un’imitazione dei film». Siamo dentro il cinema, l’unica realtà che conta. «L’avrei visto spesso anche in futuro, a distanza di mesi e di anni», racconterà Leone a Diego Gabutti per il suo instant book su C’era una volta in America. «Certe volte l’incontravo in qualche bar malfamato, a volte al Central Park o sotto i cartelloni luminosi di Time Square, una volta m’invitò

addirittura a casa sua. Mangiammo polpette e spaghetti. Diventammo amici. Parlavo quasi sempre io, naturalmente. Ma lui ascoltava senza annoiarsi. Avevamo entrambi un certo culto dell’amicizia virile. Il cinema aveva ispirato anche me, dopotutto». Grey parla poco, ma trova il modo di passargli un’informazione decisiva: i diritti cinematografici di Mano armata non sono piú suoi, ma di Joe Levine, il produttore che ha portato in America La Ciociara e Sophia Loren. Non ci vuole Philip Marlowe per scoprire che Levine i diritti li ha ceduti a Dan Curtis, regista-produttore che negli Usa si sta facendo un nome con le serie tv e i film horror. Leone lo chiama o lo fa chiamare, ma Curtis dice che intende dirigere lui stesso il film tratto da The Hoods e che non ha alcuna intenzione di rinunciarvi. Chi fosse davvero Harry Grey è un mistero che mi ha ossessionato a lungo. Ogni volta che pensavo di averla catturata, la sua ombra si spostava un po’ piú in là. Era stato davvero un gangster, come voleva la sua casa editrice e come a Leone piaceva credere, o piuttosto un abile manipolatore di cliché che aveva qualche informazione diretta, magari perché giornalista? Il fratello minore di Noodles fa esattamente quel mestiere. I due hanno una discussione, in Mano armata, talmente specifica da sembrare vera. «Non eri tu quello che ammirava Heywood Broun? […] Hai venduto le tue idee liberali per una charlotte russa», dice a un certo punto il fratello gangster al fratello reporter. Anche il fratello minore di Harry Grey faceva il giornalista. Si chiamava Hyman Goldberg, nato nel 1908 e morto nel 1970: il «New York Times» gli dedicò l’obituary che Harry non ebbe mai. Correttore di bozze al «New York World», il giornale di Joseph Pulitzer e dei suoi eredi, poi cronista di nera – police reporter – in quello e in altri quotidiani newyorkesi, redattore durante la Seconda guerra mondiale del settimanale «Yank», distribuito ai militari americani in 21 paesi del mondo, collaboratore del «New Yorker», di «McCall’s» e di «Cosmopolitan», con il tempo si specializza nelle interviste a

giovani e belle ragazze (ci scrive anche un libro, How I Became a Girl Reporter) e infine diventa celebre – anche alla radio e in tv – come primo food reporter uomo in America, sia pure, agli inizi, con lo pseudonimo femminile Prudence Penny. Hyman Goldberg è un tipo arguto. Al «New Yorker» racconta: «Mio padre era terribile. Era socialista, aveva la tessera del partito, e odiava i polacchi. A quei tempi, tutti i lavapiatti erano polacchi, perciò picchiava e licenziava di continuo i lavapiatti. I suoi amici gli dicevano: Goldberg, come puoi essere cosí crudele con un lavoratore, proprio tu che sei socialista? E lui rispondeva: cosí gli insegno a odiare i padroni. Mio padre era un grande chef. Amava i piatti fatti bene e in cucina aveva una fantasia illimitata». Del padre, Hyman racconta la conversione da fabbro a chef; di suo fratello Herschel non parla mai. Neppure al figlio Gabriel, che ha vissuto scrivendo di tecnologia e che trovo in rete in maniera avventurosa, in un commento a un articolo su Prudence Penny. «Mio padre e mio zio non si sono rivolti la parola per buona parte delle loro vite. Non ho mai saputo perché. Sapevo che Harry aveva scritto The Hoods attingendo dalla sua vita. Nient’altro. Ora che ci penso, però, è curioso che l’unico consiglio che mio padre mi abbia mai dato ha a che fare con il narrare: “Qualunque cosa tu faccia nella vita, se saprai raccontarla bene e costruirci una storia intorno, starai davanti a tutti”. Ho cercato di metterlo in pratica, peccato che lui sia morto presto e non l’abbia saputo». Harry Grey pubblica tre libri in pochi anni, The Hoods (Mano Armata) nel 1952, Call me Duke (Chiamatemi Duca) nel 1955 e Portrait of a Mobster (Ritratto di un gangster) nel 1958, che diviene un film tre anni dopo, con Vic Morrow nella parte del boss Dutch Schultz e l’onesto mestierante Joseph Pevney alla regia. Poi scompare, all’improvviso come era apparso. Che ha fatto in tutti quegli anni, prima e dopo? Sul prima, le informazioni sono contraddittorie. Sul dopo, oltre agli incontri con Leone nei bar malfamati del Queens o gli spaghetti with meatballs a casa sua, si sa poco o niente.

Il 31 dicembre 1999, al 285 di South Palm Canyon Drive, a Palm Springs, dove star di Hollywood e presidenti vanno a svernare e a godersi la pensione (come pure i mafiosi), sul marciapiede spunta una stella dedicata a Harry «Noodles» Grey. Tra Elvis Presley e Frank Sinatra, Bob Hope e Liberace. La notizia è registrata come un piccolo terremoto sui sismografi degli appassionati, i gruppi di discussione in rete dedicati ai film di Leone. Dal comunicato stampa per quell’evento si viene a sapere che Grey era nato Herschel Goldberg a Kiev nel 1901 e che è morto nel 1979. Che a New York ha lavorato alla Embassy Grocery Corporation, un magazzino vicino al porto che rifornisce di generi alimentari anche il Waldorf Astoria. «Dopo essere finito in ospedale a causa di un incidente quando aveva circa cinquant’anni, in convalescenza dalle parti di Palm Springs (la storia che si raccontava è che fosse stato colpito dal portellone di un camion Mack), su suggerimento di amici come Charlie Bronson e di alcuni familiari, si mise a scrivere della vita negli anni Venti e Trenta e delle organizzazioni che controllavano i commerci, linfa vitale della città». Il mistero non è meno fitto, però una luce si accende, da qualche parte in California. Ho la conferma che Grey ha avuto tre figli, Beverle, Harvey e Simeon, incrocio i loro nomi e il luogo, prima Palm Springs, poi allargo a tutto lo Stato. Di Beverle e Harvey nessuna traccia, mentre alcuni Simeon Grey sembrano esistere, o essere esistiti di recente. Pare che un Simeon F. Grey abiti o abbia abitato non lontano da Palm Springs. Cerco ancora e trovo due numeri di telefono, ai quali nessuno risponde. Poi un indirizzo. Vado a vedere su Google Maps, è quello di un sobborgo residenziale che confina con il vasto spazio occupato dal festival rock di Coachella. Strano posto per vivere, forse è un segno del destino. Spedisco una lettera a quell’indirizzo. Una settimana dopo mi arriva una mail: «Ricevo oggi, 20 luglio 2019, la sua lettera, e trovo il suo interesse avvincente. Lei è in contatto con Simeon Franklin Grey, figlio ed erede di Harry Grey, in precedenza conosciuto con il nome di Harry Goldberg».

Seguono alcune telefonate e molte mail, nelle quali Simeon, che in questo momento ha 79 anni, mi racconta una storia di grandi affetti e poche parole: «Le informazioni riguardanti i primi anni di vita di mio padre le ho assorbite grazie a veloci scambi di battute con lui. Su quei temi non abbiamo mai avuto una lunga e approfondita conversazione» (Grey parla e scrive cosí, con frasi ben tornite e un lessico leggermente datato). Il figlio di Noodles ha lavorato e vissuto in lungo e in largo negli Stati Uniti d’America, per la Difesa («Ho visto tre uomini morire schiacciati da un razzo Titan», mi racconta), nelle centrali nucleari, nelle raffinerie, al Programma di riserva strategica in Louisiana, dove negli anni Settanta gli Usa accumulano petrolio per fronteggiare un’eventuale crisi in Medio Oriente. Ha vissuto a lungo nel cuore della Grande potenza e ne ha pure assorbito i veleni: a Herculaneum, Missouri, non lontano da St Louis, il piombo gli ha danneggiato pesantemente la vista. «Ho avuto una vita stimolante, a volte pericolosa, sempre gratificante» è il suo commento. È orgoglioso di non essersi mai fatto fregare: ha capito molto presto che le grandi aziende americane avvelenavano l’ambiente per profitto fingendo di ignorare le conseguenze, ha visto il suo governo mentire, sul petrolio e la sua provenienza. Da vecchio, si è ritirato a Palm Springs a vendere case smart, ma poi ha avuto un infarto e gli hanno installato quattro bypass, è andato in pensione e si è trasferito a Thousand Oaks, sempre in California, per stare vicino ai figli. La stella di Palm Springs è un’idea sua, pagata (cara, mi dice) di tasca sua. Conoscendolo, credo di aver capito meglio suo padre: un americano vero, che si adatta al sistema ma non riesce a non vederne i limiti, le contraddizioni, la follia. Uno che va avanti finché può, finché gli conviene, ma poi si ferma, si chiude in casa, sceglie di andare a letto presto. Uno come Noodles, insomma. Simeon Grey mi racconta una storia della New York dell’altro secolo, quella di ebrei e italiani alleati per scalare la società americana due gradini alla volta. Piú che un gangster,

suo padre era un tipo sveglio che sapeva come andava il mondo, che gestiva i rapporti tra la polizia (che perlopiú disprezzava), i sindacati (stava con i teamster, quelli che saranno guidati da Jimmy Hoffa) e i ragazzi intraprendenti che addentavano il loro pezzo di Sogno americano senza farsi troppi scrupoli (ma qualcuno sí, per esempio lui non permetteva che entrassero armi in casa sua). Simeon nasce quasi dieci anni dopo la fine del proibizionismo e di quell’epoca sa pochissimo, ma ha qualche ricordo della fase in cui gli uomini di Dandy Phil e Frank Costello portarono le loro slot machine da New York a New Orleans. Suo padre decide di non seguirli, cambia nome, si mette a scrivere, poco alla volta smette di avere paura per sé e la famiglia. Inizia, appunto, ad andare a letto presto. Il passaggio non è semplice, né indolore, arriva dopo drammatici litigi con la moglie – che il piccolo Simeon ascolta spaventato dietro la porta della camera dei suoi – e almeno un pestaggio mascherato da incidente sul lavoro. Harry Grey però ce la fa, sopravvive, protegge la sua famiglia, e la può raccontare. E la racconta, a modo suo, mettendoci dentro i film che ha visto, come coglie Leone, ricordi di avvenimenti che l’hanno coinvolto e di cui ha sentito parlare. The Hoods è dedicato a M., B., H. e S., alla moglie e ai figli, in ordine di età, «la mia gang vera e leale». L’accento cade sulla parola «vera». La racconta, parlando come sempre pochissimo, anche a Sergio Leone, nella casa dell’ultima fase della vita, nell’Upper East Side di Manhattan. E poi a Roma, dove va, in nave, nei primi anni Settanta, accompagnato dalla moglie. «A mio padre Sergio piaceva, a mia madre no, ma a lei non piaceva mai nessuno», ricorda Simeon. A un certo punto, con i diritti di The Hoods ancora nelle mani di Dan Curtis, Grey propone a Leone di utilizzare un romanzo di ricordi d’infanzia del Lower East Side che ha scritto e mai pubblicato, The Sheriff of Orchard Street. Leone se lo fa spedire e lo manda in traduzione. Ma non smette di pensare ai ragazzini di The Hoods e al suo finale. C’è vita, dopo il crimine, si può sopravvivere, andarsene e

cambiare. Ma si riesce davvero a lasciare tutto alle spalle? Harry Grey, cioè Noodles, è vivo e apparentemente sereno, è lí davanti a lui con i bei capelli bianchi e gli occhi azzurri, la giacca coi risvolti e la moglie amorevole, ma quei piccoli fantasmi del Lower East Side, Maxie e Dolores, il coltello affilato e i sogni alla Horatio Alger se ne sono davvero andati dalla sua vita? Il suo film dovrà dare queste risposte, il suo gangster movie si occuperà del bene piú prezioso, quello che è impossibile rapinare, violentare, minacciare. Il Tempo. Ragazzini in cima a una scalinata. Li vediamo di spalle, poco alla volta capiamo perché. Stanno facendo pipí tutti insieme, è un gioco, una sfida. Si chiudono la patta, si voltano, corrono giú e ognuno segue il proprio rivolo, incitandolo come fosse un corridore ciclista. Il gioco è questo: vince chi arriva con la propria urina per primo in fondo. Leone, come sempre, racconta solo la scena d’apertura. Il seguito, dice, sarebbe stato «risse, trame, amicizie, complicità, la ricerca delle ragazze, il rumore dei teatri… Con un’insistenza sulle gerarchie interne al gruppo. I bambini di dieci anni, gli adolescenti di quattordici anni e i giovani di diciotto. Ci proteggevamo l’un l’altro. Eravamo quasi una banda. Andavamo al cinema in venti alla volta». Il titolo di questo film, che Leone non ha mai girato, è Viale Glorioso: quando vede I Vitelloni di Federico Fellini, dice di aver capito che l’idea è bruciata. Ma I Vitelloni è del 1953, lui questa storia la racconta alcuni decenni dopo. Questo non è cinema, è vita, è il modo che Leone usa per dire che nei ragazzini ebrei (e anche un po’ italiani) di Mano armata rivede il fare banda di alcune generazioni di bambini di città, la scuola di strada che insegna a stare in gruppo, a esercitare e subire il potere del leader, a incanalare il desiderio. Rivede la sua vita a Roma negli anni Trenta. La scalinata esiste davvero, è la Scalea del Tamburino, che da via Dandolo scende in viale Glorioso, a Trastevere, e sale verso il Gianicolo. Qui vicino, in via Filippo Casini, Leone si trasferisce da bambino. È nato il 3 gennaio 1929 ancora piú in centro, in un palazzo storico non lontano da Fontana di Trevi,

figlio di Vincenzo Leone, in arte Roberto Roberti, attore e poi regista di molti film nell’era del cinema muto (diciotto con Francesca Bertini protagonista), e di Bice Waleran, attrice, che quando si sposa smette di recitare. Per l’Italia di quegli anni, figlio di genitori eccezionalmente maturi: quando nasce, il padre ha 50 anni, la madre 43. Non ha fratelli. Attraversa la guerra da ragazzino: quando scoppia ha 11 anni; quando gli Alleati bombardano Roma e i nazisti deportano 1023 persone razziando la comunità ebraica della Capitale ha 14 anni; alla Liberazione ne ha 16. Dopo l’apertura del ghetto di Roma nel 1870 molte famiglie ebraiche avevano lasciato la zona del Portico d’Ottavia per trasferirsi non lontano, proprio dove vive il piccolo Leone. Tra i suoi amici d’infanzia ci sono diversi ebrei, una famiglia di religione ebraica lo ospita spesso. Non sono anni facili, in casa Leone: da quando nasce suo figlio, nel 1929, fino al 1939 Leone/Roberti praticamente smette di lavorare. E i film che seguiranno, travagliatissimi, non lasceranno traccia alcuna, se non poche recensioni, perlopiú molto negative. È la conseguenza di una delle ricorrenti crisi del cinema italiano, e forse anche dei difficili rapporti di Vincenzo Leone con il fascismo, al quale dapprima aderisce, per poi prenderne le distanze. Sergio racconterà poi che suo padre salvò un giovane ebreo dalla deportazione, fingendosi suo zio e accogliendolo per qualche tempo in casa. Per tutta la vita, il suo migliore amico fuori dal cinema è Sergio Pace, uno dei ragazzi di viale Glorioso. Ultimo di otto tra fratelli e sorelle, ha abitato sempre in via Dandolo. Fa il pellicciaio, e, proprio nel periodo in cui Leone lavora a C’era una volta in America, scopre di avere il cancro: subirà diverse operazioni, ma sopravvivrà al vecchio amico di una quindicina d’anni. È piú grande di Leone, suo padre è morto quando lui era bambino e non ha avuto figli. Suo nipote Emanuele mi ha raccontato che «i Pace non erano ebrei molto osservanti, ma rispettavano e amavano le tradizioni, gli azzimi a Pesach, il digiuno del Kippur, si sposavano al Tempio, nella sinagoga del

Lungotevere. Era la situazione piú comune tra gli ebrei romani dell’epoca. Non sono andati molto avanti a scuola, essendo orfani di padre, ma tre di loro hanno studiato musica, l’arpa, il pianoforte, il violino». Dice Emanuele che di ciò che era accaduto ai tempi della guerra non si parlava mai. «E ora mi pento di non aver fatto tante domande». Sua cugina, a quei tempi una bambina, gli ha raccontato che la mattina del 16 ottobre fu una telefonata a salvarli. Qualcuno li avvisò dell’arrivo dei nazisti. Scapparono tutti, ma non insieme. «Lei era troppo piccola per chiedere spiegazioni e nessuno ora sa chi l’ha fatta, quella telefonata». Proprio con una telefonata Leone vuole iniziare il suo film. Lo dice ogni volta, da sempre: alla fine gli squilli saranno 24, penetranti, drammatici, laceranti. Cadenzati, rallentati, distanziati di dieci secondi l’uno dall’altro. Carichi di attesa. Gli squilli vanno avanti quando Noodles vede i cadaveri degli amici sulla strada bagnata dalla pioggia, sulla musica che celebra il funerale del proibizionismo, vanno avanti per quasi quattro minuti. Quella telefonata salva una vita o la condanna? Chi lo sa, quel che è certo è che Leone ha molte ragioni personali per attaccarsi a quella storia di ragazzi ebrei del Lower East Side e non lasciarla piú. Un giorno dirà: «C’era una volta in America è un’autobiografia a due livelli. Ci sono la mia vita personale e la mia vita di spettatore di film americani». Non abbandona l’idea quando nel 1969 la Paramount, che gli ha appena coprodotto C’era una volta il West, gli manda le bozze di The Godfather, il libro sulla mafia italoamericana che la casa cinematografica porterà sugli schermi (nel 1968 l’ha opzionato; nel 1969 il romanzo esce con grande successo; nel 1970 viene scelto il regista, Francis Ford Coppola, al termine di una selezione che aveva coinvolto oltre a Leone anche Peter Bogdanovich, Peter Yates, Richard Brooks, Arthur Penn, Costa-Gavras e Otto Preminger; nel 1971 cominciano le riprese; nel 1972 il film esce e incassa 15 milioni di dollari solo con le prenotazioni). Non cambia idea nemmeno quando strappare a Curtis i diritti cinematografici di Mano armata sembra impossibile.

Già nel 1967 la Euro International Film dei fratelli Bino e Marina Cicogna annuncia di aver siglato un accordo con la società di produzione cinematografica Rafran (da Raffaella, Francesca e Andrea, i nomi dei figli di Leone) per C’era una volta il West, che comincerà le riprese in America l’anno venturo, e per un altro «affresco» nello stile del celebre regista degli spaghetti western, Once Upon a Time in America. Poi, a distanza di due anni, dopo che C’era una volta il West è stato un grande successo ovunque tranne che negli Stati Uniti, dove è uscito tagliato di 40 minuti, fa sapere che Euro International e Leone lavoreranno insieme a Johnny & Johnny, con al momento (1969) Eli Wallach e Gabriele Ferzetti come protagonisti, che il regista produrrà soltanto, e poi a C’era una volta l’America, che invece dirigerà. Ancora qualche mese, e Leone dice ai giornali italiani di aver firmato con la United Artists un contratto di distribuzione negli Usa per cinque film, tre dei quali saranno diretti da lui. Tra questi c’è L’America e c’è pure Viaggio al termine della notte, da Céline, caldeggiato da Luciano Vincenzoni, che sta lavorando alla sceneggiatura con James Leo Herlihy, l’allievo di Tennessee Williams autore del romanzo da cui è tratto Un uomo da marciapiede. Si lascia intendere che i due possano lavorare insieme anche all’America. Se ne parlerà piú avanti, comunque, perché nella primavera del 1970 Leone è già in Spagna, sul set del film che avrebbe voluto solo produrre. Johnny & Johnny è diventato Giú la testa, storia dell’incontro tra Sean, rivoluzionario deluso, irlandese, esperto di esplosivi, e Juan, bandito messicano, sullo sfondo della rivoluzione di Zapata e Pancho Villa, piú precisamente nel bel mezzo della controrivoluzione del generale Huerta, tra il 1913 e il 1914. Peter Bogdanovich (proposto dalla United Artists, non è entrato in sintonia con Leone), Sam Peckinpah (sarebbe piaciuto a Leone, ha altri progetti), Giancarlo Santi (aiuto di Leone, né i produttori né il cast lo considerano all’altezza) e – si dice – pure Nanni Loy sono stati scartati: «La Euro aveva anticipato molti soldi, ed eravamo a due settimane dal via, cosí finí che lo diressi io, e

piano piano mi ci appassionai, anche se all’inizio – pensando a C’era una volta l’America – mi sentivo molto frustrato», racconterà poi a Faldini & Fofi. Strana storia, quella di Giú la testa, il film a Leone «piú caro». Lui dice: «Non è il piú bello, ma è quello a cui voglio piú bene, come a un figlio disgraziato». Dice di averlo diretto controvoglia, ma in realtà è suo al cento per cento già nel 1970 e prima ancora, quando lo concepisce con Luciano Vincenzoni e Sergio Donati. È puro Leone: «Sono un socialista deluso, non credo piú alla rivoluzione, credo solo all’amicizia e alla famiglia». Giú la testa è il suo film piú politico, forse profetico: il bandito che diventa rivoluzionario per caso e il rivoluzionario deluso che credeva «in tante cose» e finisce per credere «solo alla dinamite» sono il racconto perfetto degli anni Settanta, italiani e non solo. Non un brutto risultato, per un film del 1971. [Molti anni fa, quando uscí un libro intitolato Miccia corta, una evidente citazione di Giú la testa, andai a incontrare l’autore. Era Sergio Segio, tra i fondatori di Prima Linea, il gruppo piú numeroso e importante nella seconda generazione della lotta armata italiana. Parlammo a lungo, Segio mi raccontò anche di come Prima Linea si dividesse nettamente tra chi amava Il mucchio selvaggio e chi gli preferiva Giú la testa, che – mi ricordò subito – avrebbe dovuto chiamarsi C’era una volta la rivoluzione, ma uscí con quel titolo solo in Francia. Lui stava decisamente con Leone e da lí discendeva anche una certa predilezione per gli esplosivi rispetto alle armi da fuoco. Giú la testa è un film che parla di tradimento, forse per questo era il film di culto di Segio: Prima Linea ha avuto vita breve, nasce nel 1976 e nel 1980 è già morta, quando uccide William Vaccher, ex aderente alla banda, testimone d’accusa per l’omicidio del giudice Alessandrini compiuto l’anno prima. Se c’era una volta la rivoluzione, è rimasta solo la vendetta. Man mano che vengono presi, quelli di Prima Linea collaborano quasi tutti prontamente con i magistrati. È chiaro perché i piú intelligenti tra di loro si riconoscano nel film di Leone («Disincantato ma non cinico», scriverà Segio),

perfetta e profetica rappresentazione di una generazione che piú o meno consciamente sa di aver perso (Il mucchio selvaggio come Giú la testa sanno di crepuscolo e sconfitta) e tragicamente non ha capito niente di ciò che le sta intorno. So perfettamente quanto sangue innocente versarono quelli di Prima Linea, conosco le storie degli italiani migliori che fecero fuori proprio per questo, perché stavano salvando il paese (Emilio Alessandrini, 36 anni, lavorava al processo su piazza Fontana; Guido Galli, 49 anni, magistrato «impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente», secondo il loro stesso volantino di rivendicazione), e conosco anche il percorso doloroso di ridefinizione di sé compiuto negli anni da Segio, e lo rispetto. Però non è di questo che volli parlare quel giorno: gli dissi che grazie all’insensata violenza da loro praticata, un’intera generazione, la mia, s’era allontanata dalla politica e non vi avrebbe fatto mai piú ritorno. Lui replicò che immaginava il contrario, cioè che fossero stati loro a pagare una volta per tutte l’illusione di poter fare la rivoluzione. E che il loro fallimento avesse lasciato a noi ragazzini degli anni Settanta campo libero per migliorare il mondo senza quel mito sanguinario tra i piedi. Oggi penso solo che: cazzo, c’era già tutto in Giú la testa].

Noodles era mio padre La storia di Simeon F. Grey raccontata da lui stesso

Vengo al mondo nel 1940 al Morrisania Hospital, nel Bronx. Abito lí vicino, al 731 di Gerard Avenue. Frequento la Public School 31 nel Bronx, dove i caucasici saranno qualcosa come il 3 per cento. Essere un ragazzo ebreo in un mondo di pregiudizi estremi non è facile. Mio padre è il centro degli affetti nella mia vita, solo lui può rendere quasi sopportabile il cambio di nome e di identità: ero Stephen Goldberg, divento Simeon Franklin Grey. Papà è in camera mia, ammucchia sul letto migliaia di dollari in monetine. Le ha prese dalle slot machine della metropolitana mascherate da distributori di cicche e dolci. Io, intanto, passo le giornate a ripulire i cartoncini segnapunti degli Yankees. Li raccolgo, per poi rivenderli durante l’intervallo del settimo inning. Lo stadio del baseball è a soli tre isolati, appena oltre la metropolitana che corre dietro la finestra di camera mia. Dal lunedí al sabato, mio padre esce di casa alle 7.10 precise per andare a lavorare alla Embassy Grocery Corporation e torna puntuale alle 7 di sera. Ho 9 anni, mio padre 48. Mia madre, Mildred Grey, nata Mollie Becker, ha 14 anni in meno di mio padre. Oltre che con i cartoncini segnapunti, faccio un po’ di dollari extra con le gomme usate che rivendo alle officine sotto la sopraelevata di Jerome Avenue. Tre o cinque dollari l’una, niente male. A vedere il baseball a volte ci vado con Dizzy Dean, un favoloso commentatore tv che aveva giocato per gli Yankees. Mi tiene per mano per tutta la strada dal Concourse Plaza Hotel allo stadio. Sembra di stringere un guantone da baseball. È forte, Dizzy. Nell’appartamento 1C al 731 di Gerard Avenue la porta di casa è sempre sbarrata, blindata in acciaio, con una serratura speciale che entra nel pavimento e tre chiusure di sicurezza.

Cosí l’organizzazione, quella di Frank Costello e Dandy Phil, ci fa meno paura. Sono seduto vicino alla scrivania di papà, che va da un muro all’altro del suo studio. Cantiamo all’unisono Ramona, I hear the mission bells… e poi Hesch (lo chiamano cosí, era Herschel Goldberg, è diventato Harry Grey) riprende a scrivere – a penna – le sue storie. Un giorno lo portano a casa su una specie di barella e dicono che è stato colpito dal portellone posteriore di un camion Mack, il che naturalmente è una colossale stronzata. Solo un muro divisorio separa la Embassy Grocery Corporation dalla Progresso Foods, a Lower Manhattan. Un’estate mi prendono a lavorare lí: carico scatolame con il marchio Lucky Boy proprio su quei camion Mack dipinti di blu metallico: sulla fiancata c’è una foto gigantesca di Hyman, il fratello di mio padre, vestito da marinaretto. I camion (sono dozzine) consegnano alimentari e caffè appena tostato, farina e grano in sacchi da cento libbre all’accademia militare di West Point, da Schrafft’s, all’hotel Waldorf Astoria e a centinaia di ristoranti e ospedali. Quando durante la guerra il cibo è razionato, mio padre porta a casa provviste per tutti quelli che abitano nel nostro stabile di sei piani. Il momento piú emozionante dell’estate alla Embassy è l’irruzione della polizia: mi salva un ascensorista alto 1 e 90 che mi nasconde dietro le scatole dei corn flakes e mi dice di stare fermo e zitto, mentre i poliziotti urlano «Dov’è Goldie?» (un altro dei nomignoli di mio padre). Erano arrivati all’Embassy a sirene spiegate con l’intenzione di fargli del male, credo. Poi, grazie al cielo, si sentono altre sirene. Sono quelle – ma lo scoprirò dopo – di dozzine di poliziotti, alcuni anche di alto rango, che vengono dal dipartimento centrale di Manhattan. Sento urlare, qualcuno grida: «Oh, no». Quando esco dal nascondiglio vedo che la macchina dei poliziotti arrivati per primi ha i vetri in frantumi. Chi era su quell’auto è stato messo ko da quelli arrivati dopo. Senza dubbio, sono gli amichetti di mio padre, e di Gasoline, Carrots, Maxie e naturalmente del mio salvatore, l’ascensorista, con le loro mazze da baseball.

Prima che l’estate finisca mi ritrovo in ospedale con problemi ai legamenti causati da tutti quei sacchi da cento libbre che ho lanciato sui camion dalla piattaforma della Embassy. Mio padre e i legali dei sindacati riescono a farmi avere un risarcimento che mi pagherà gli studi: finita la Taft High School, passo alla facoltà di Ingegneria della Mondell University, poi alla University of Connecticut e per un anno al City College di New York. Mio padre è a casa in convalescenza dopo «l’incidente del portellone» e viene a cena da noi Mickey Spillane, quello che scrive i libri e i telefilm dell’investigatore Mike Hammer. Purtroppo, a un certo punto gli si apre la giacca. Si vede una fondina, dentro c’è un revolver calibro 45. Mio padre corre attorno al tavolo veloce come un treno, lo prende per il colletto e lo butta fuori dalla porta. Poi passa dalle urla alle risate, mentre tutti noi siamo esterrefatti. «Nessuno viene a casa mia carico», dice. Allora mia madre commenta che i libri di Spillane non sono poi granché e che Harry saprebbe fare di meglio. Cosí, a quasi cinquant’anni Harry Grey comincia la sua carriera di scrittore. Mio padre è andato a scuola solo per sette anni, ma già da ragazzino lo chiamavano Noodles perché aveva una gran keppalah, in yiddish una «bella testa». Era cresciuto nel Lower East Side. Suo padre faceva il fabbro, e lui era nato in Russia, a Kiev, nel 1901. I nonni Israel e Celia l’avevano portato negli Stati Uniti nel 1904. Delle sue imprese giovanili so poco. Mi dicono che i camion dell’Embassy e della Progresso viaggiavano verso Montréal pieni di merci di ogni tipo e tornavano carichi di alcolici che scaricavano lí. Sono storie degli anni Venti che mi raccontano i vecchi camionisti. Certo è che da bambino ho una specie di guardia del corpo che si fa chiamare Raymond Small, lo ricordo come un gigante tra i ragazzini del quartiere. Mi sta sempre vicino, nelle strade dove abitano i portoricani, gli afroamericani, dalle parti della scuola cattolica Cardinal Hayes. Accompagna mia madre agli alimentari A&P. Indossa una maglietta vecchia e strappata, una salopette e scarpe da

basket. Nessuno ci importuna mai, tranne quel nazista di Bobo e Ding Dong, un borseggiatore cinese. Un giorno, mentre cammino da solo su Gerard Avenue, passa uno scuolabus con i finestrini aperti. Sento urlare: «Dove vai, piccolo ebreo?» Poi mi arrivano gli sputi. Butto i libri a terra e corro via piú veloce che posso. Mi raggiungono quando sono quasi a casa, mi sollevano e mi gettano contro una finestra che dà sul cortile interno. Per fortuna, la finestra ha una gabbia metallica che mi impedisce di volare giú dal secondo piano. I pezzi di vetro mi straziano il polso sinistro, esce molto sangue, non riesco a rialzarmi finché non arriva mia madre, avvertita dai vicini. Con l’aiuto di un passante e di una signora che ferma l’auto e ci fa salire, mi porta all’Oxford Knolls, un palazzo che ha un ambulatorio medico al piano terra. Lí il dottor Diamond estrae tutti i frammenti di vetro, mi ricuce con il budello e mi prescrive una dieta di fegato di pollo e spinaci, per recuperare il ferro e i litri di sangue persi. È la vita nel Bronx. Dopo l’incidente con il camion Mack, a casa, in convalescenza, papà comincia a scrivere il suo primo romanzo Ritratto di un gangster, che poi diventerà un film. Un giorno i miei ricevono una telefonata da fuori città e vengono a sapere che un loro conoscente è stato ucciso a Montréal in una sala da biliardo. Il terrore che si diffonde nell’appartamento è sconvolgente. Mio padre sbarra tutto e con una sedia blocca la maniglia della porta d’ingresso. Mi dice di non preoccuparmi, poi lui e la mamma vanno nella loro camera da letto a litigare. Si urlano contro, mio padre dice ogni genere di volgarità. Poi parla piano, quasi sottovoce, ma riesco a sentirlo. Dice che vorrebbe andarsene di lí e trasferirsi a New Orleans. Mia madre piange. È grazie a lei, alle scenate che impediscono a mio padre di seguire gli uomini di Dandy Phil Kastel a New Orleans, che lui diventa scrittore. Andiamo a vivere sul Grand Concourse. È bellissimo, gli anziani del quartiere passano le giornate seduti sulle panchine lungo il viale. Anni dopo, mia moglie Lorraine e io passeggiamo su quella stessa strada con la nostra prima figlia

Lisa nella carrozzina; abitiamo sulla 201 a strada. Lorraine, mia moglie, è ancora oggi la mia migliore amica: è nata Lorraine Cengia, sua madre Margaret Dorry aveva sposato Anton Cengia, i cui genitori erano emigrati dalla Iugoslavia. Lorraine è cresciuta cattolica nel West Side di Manhattan, a Hell’s Kitchen, dove hanno costruito il Lincoln Center, circondata da parenti, nonni, zii, zie e cugini. I miei poi se ne vanno dal Bronx, ma non da New York: si trasferiscono a Manhattan nella zona della 86 a, Yorkville detta Germantown. Con mia moglie Lorraine andiamo spesso a trovarli, a mangiare gli spaghetti with meatballs di papà e il famoso arrosto di mamma. Papà continua a lavorare alla Embassy ma solo part time e dedica alla scrittura gran parte del tempo. Quando Lorraine e io ci sposiamo, nel 1967, inizia ad affidare a lei i manoscritti da battere a macchina. Lorraine ci lavora di notte. Quando ci spostiamo a San Francisco, glieli manda per posta. Nel 1971 nasce mio figlio Adam e noi riusciamo a tornare a Est per far crescere i bambini vicini ai nonni. Sono felice di aver avuto questa possibilità. Papà muore quando noi ci siamo già trasferiti a Baton Rouge, Louisiana. Mio padre era divertente, era capace di farti ridere. Era gentile, ci sapeva fare con la gente. Parlava sempre sottovoce, ascoltava tutti, se voleva, ti zittiva con lo sguardo. Era un bell’uomo, anche da vecchio, con quella chioma color argento e una carnagione chiara, rossiccia. Era di altezza media, ma molto forte. Non amava i politici. La sua frase preferita era: «Sono tutti illegittimi». Credeva che il governo si dovesse preoccupare prima di tutto della povera gente, garantire assistenza e buoni pasto. Lui era un generoso, aiutava chi era in difficoltà. Aveva conosciuto la Grande Depressione, aveva lavorato sodo per tutta la vita, aveva tirato su una famiglia. Non comprava mai niente a credito, pagava sempre «in contanti sull’unghia», come amava dire. Ha cercato di instillare questa abitudine nei figli. Era ateo, rispettava chi seguiva un’ideologia o una fede, ma lui non ne aveva. Una volta mia figlia gli chiese: «Nonno, che

aspetto ha Dio?» E lui: «Assomiglia a me». Lavorava ai suoi romanzi al mattino presto, quando mia madre ancora dormiva. Lui era già in piedi alle 5: scaldava il caffè della sera prima, mangiava cereali Wheatena e una banana, a volte quando smetteva di scrivere scendeva al diner e faceva colazione. Tornava a casa con il giornale, che leggeva fumando un sigaro Garcia y Vega. Alla Embassy, con Leslie, che era il suo miglior amico, il rappresentante sindacale e il capo dei camionisti, mio padre assegnava i compiti a tutti. Non ho mai capito se fosse anche uno dei proprietari del magazzino, comunque lo gestiva. L’edificio risaliva ai tempi della Guerra civile, era enorme, poteva servire dodici camion nello stesso momento. Mio padre sui documenti figurava come camionista, ma senza far troppo rumore aveva legami con l’organizzazione, il che faceva incazzare i suoi cugini, proprietari ufficiali della Embassy. Sotto sotto lo odiavano, ma dovevano sopportarlo: era lui che prendeva le decisioni operative. A papà non piacevano i poliziotti e i politici che comandavano al porto. Nessuno aveva la sua energia, la sua forza. Se gli chiedevi delle vecchie conoscenze, faceva un gran sorriso e non diceva niente. Era amico di tutti, alla Progresso e alla Embassy: spesso dava consigli, sempre a voce bassa. Posso dire che era molto riluttante a parlare del passato con noi, per quanto io sapessi che la maggioranza degli uomini di Kastel se n’era andata a New Orleans o Montréal, mentre lui aveva scelto di rimanere a New York, cambiare vita e cambiare nome all’intera famiglia. Voleva che tutti noi avessimo buone carriere e che non avessimo nulla a che fare con il suo passato. Già negli anni Sessanta tutti i figli (cioè io, Harvey e Bev) se n’erano andati di casa. Quando andavamo a trovare mamma e papà nel Bronx, e poi a Manhattan, ogni venerdí sera a cena, prima che Lorraine e io andassimo a vivere lontano, si parlava di ciò che accadeva nel mondo e nelle nostre vite, mai del passato. Papà arrivava come sempre a casa dalla Embassy alle 19, a tutti i costi voleva prima fare una doccia, poi vestirsi comodo e infine

venire a cena. Come se avesse bisogno di lavar via la giornata di lavoro. Viveva modestamente. Avrebbe potuto concedersi qualche lusso, grazie ai libri e ai film, ma ciò che lo rendeva davvero felice erano il suo appartamento in affitto, le cene nei ristoranti che piacevano a lui, i buoni sigari e la visite dei figli e dei nipoti.

SECONDO TEMPO 1971-1975

Festival di Cannes, 1971. Sergio Leone è in giuria, ma trova il tempo per stringere un accordo con André Génovès, giovane produttore che finora ha lavorato quasi solo per Claude Chabrol, e con la sua società, Les Films de la Boétie. Di fronte al costo preventivo calcolato da Leone, 7 milioni di dollari, gli americani della United Artists si sono ritirati, mentre la Euro International è crollata sotto il peso degli investimenti sbagliati di Bino Cicogna – l’ultimo è l’acquisto di una portaerei in disarmo per trasformarla in un casinò offshore – e non produce praticamente piú nulla (Cicogna si suiciderà una settimana prima di Natale a Rio de Janeiro, dove è fuggito con documenti falsi). Génovès, che finanzierà il lavoro di scrittura della sceneggiatura, dice a «Variety» che La Boétie e Rafran non hanno intenzione di cercare altri partner: venderanno i diritti di distribuzione di Once Upon a Time in America in anticipo, mercato per mercato. Le riprese cominceranno negli Stati Uniti a gennaio 1972. Leone aggiunge che il primo milione di dollari verrà dalla Euro International, che si assicura cosí la distribuzione in Italia. Il film sarà «un affresco alla Fitzgerald», gli interpreti, «pressoché certi», Henry Fonda, Jason Robards, Charles Bronson, Gabriele Ferzetti, Ugo Tognazzi e Romolo Valli. I diritti di The Hoods, però, sono ancora in mano a Dan Curtis e Génovès non riesce per il momento a sbloccare la situazione. Della sceneggiatura non è stata scritta neppure una pagina. Per questo, ai primi di aprile del 1972, intorno a Pasqua, Sergio Leone va a Palermo e alloggia con la famiglia al Grand Hotel Villa Igiea. È lí per incontrare Leonardo Sciascia, dopo che si sono sentiti lungamente al telefono. Hanno parlato di C’era una volta l’America, che Leone vorrebbe far scrivere a lui.

Un mese prima, l’8 marzo, la Rafran ha spedito allo scrittore siciliano un contratto, da firmare, che prevede cinque passaggi – la rielaborazione del soggetto (almeno 25 cartelle), la scrittura del trattamento (80 cartelle), della prima e della seconda parte della sceneggiatura, della sceneggiatura conclusa – e sei milioni di lire di compenso, pagati un po’ per volta, man mano che le fasi di scrittura vengono «approvate dalla produzione». La Rafran, quindi Leone, si assicura tutti i diritti morali e materiali sul lavoro, cosí come la possibilità di modificarlo e integrarlo con l’intervento di altri collaboratori, e può in ogni momento rendere pubblico – a fini promozionali – il coinvolgimento di Sciascia nel progetto, «in considerazione del lustro che il suo nome darà al film». Lo scrittore però conserva il diritto di utilizzare «il trattamento approvato per l’elaborazione di un racconto o di un romanzo a sua firma», di cui avrà tutti i diritti. Il suo nome naturalmente sarà nei titoli di testa. La cifra non è altissima, ma non è questo il problema. Prima di firmare, Sciascia vuole vedere Leone di persona. All’appuntamento porta con sé Vincenzo Consolo, il timido, silenzioso scrittore di Sant’Agata di Militello che lui aveva aiutato a esordire una decina d’anni prima. «Mio nonno lo faceva spesso, – mi ha raccontato Vito Catalano, il nipote di Sciascia, – quando vedeva qualcuno per la prima volta non si presentava mai solo». Una forma di insicurezza, azzardo io. «Forse piú per avere un testimone», mi dice lui. Vito Catalano e io ci incontriamo nello studio di suo nonno in una domenica del dicembre 2019. Nulla sembra essere cambiato da quel 1989 in cui Sciascia morí, con la foto di Pirandello sulla scrivania e le immagini dei grandi della letteratura francese alle pareti. Siamo qui perché tra le carte del nonno Vito ha trovato 17 fogli fittamente scritti a macchina, senza titolo e senza data, anche se è ovvio che risalgono al 1972. In cima alla prima pagina la moglie di Sciascia (Maria Andronico, ora giace accanto a lui nel cimitero di Racalmuto) ha aggiunto a matita una sorta di titolo: Soggetto in forma di

dialogo. Sciascia mette su carta le sue riflessioni sulla proposta di Leone e anche una sua idea di trama, rubando all’amato Diderot una forma davvero insolita, la conversazione immaginaria tra due individui di cui non sappiamo nulla. Il «soggetto» di Sciascia infatti comincia cosí: – Questo non è un racconto. – L’incipit è di Diderot. – Lo so. Volevo dire: questo non è un racconto, ma un soggetto cinematografico.

L’ispirazione è diretta. Viene appunto da Ceci n’est pas un conte (1773), Questo non è un racconto: una voce conduce, delinea la storia, l’altra critica quando serve, propone alternative, fornisce risposte se richieste. Le correzioni sono pochissime, i refusi pure, si capisce che è la trascrizione poco mediata di un flusso di pensiero. Si citano, abbastanza incongruamente per una storia di mafia, Ariosto e Machiavelli. «Mio nonno era veloce e sicuro nello scrivere. Ma per finire queste diciassette pagine sarà stato almeno tre, quattro giorni alla sua Olivetti, qui nell’appartamento di Palermo», mi ha detto Vito Catalano. Si parla di America e proibizionismo, ma l’atmosfera generale del soggetto è del tutto italiana, molto siciliana. È evidente che Leone gli ha spiegato quali sono i punti fondamentali del suo film, la storia di un gangster che si ritira, fugge dalla città e dopo tanti anni viene richiamato dagli amici di un tempo, ai quali non può dire di no. Il Tempo è un elemento fondamentale, ci saranno salti in avanti e all’indietro, la vicenda è circolare, i conti aperti si devono in qualche modo chiudere. Quella che chiameremo VOCE 1, la voce in un certo modo di Sciascia, espone quanto ha scoperto nella conversazione con il regista. Sa che lui ha un repertorio fotografico molto vasto e suggestivo. Lo definisce «crepuscolare». La VOCE 2 chiede se c’è violenza. Certo, è la risposta, è un film di Sergio Leone! Siamo nel 1925, negli Stati Uniti, nell’epoca del gangsterismo, ma ci sono continui scarti tra allora e ora, e c’è un eroe, un gangster che si è ritirato, «un gregario, ma non degli ultimi».

Uno che nel 1925 poteva avere vent’anni e quindi oggi ne ha 67. VOCE 2 chiede perché si sarebbe ritirato. Fioriscono le ipotesi e dopo un breve dibattito le due voci concordano sull’ipotesi che abbia contratto la tubercolosi, ancora abbastanza diffusa nel 1925, che sia guarito in sanatorio e che però non sia tornato a delinquere, ma si sia ritirato in campagna, in una campagna a dire il vero assai poco americana. Anche perché, prima della malattia, un colpo andato male era costato la vita al migliore amico dell’eroe, cresciuto con lui. In sanatorio lui aveva riflettuto e capito: l’avvocato che li guidava aveva tradito la loro fiducia e si era intascato il denaro. Dopo anni di isolamento in campagna, un giorno l’ex gangster viene avvicinato da un giovane. Per la scena del loro incontro, quella che dovrebbe far partire veramente il film, Sciascia ha in mente un dipinto del pittore realista francese del primo Novecento Jean-François Raffaelli, Bonhomme venant de peintre sa barrière. C’è un uomo piuttosto anziano e dimesso che indossa un basco e un gilet, una camicia, pantaloni dalla vita alta e grosse scarpe contadine. Ha ancora in mano il pennello e il barattolo della vernice verde con cui ha dipinto il cancello della sua casa di campagna. È come sospeso, soprappensiero. In quel momento il ragazzo elegante gli dice che i vecchi amici vogliono che faccia un viaggio. Hanno bisogno di lui per ammazzare «un tale che non conoscete, che non vi conosce». Il viaggio in treno dell’ex gangster sarà l’occasione per raccontare il passato, suo e dell’amico morto tanti anni prima. Entrambi venivano da un «quartiere popolare non diverso da Palermo», la Sicilia lontana è «rimpianta e vituperata, l’ambiente morale è tutto nel sogno di essere americani». Chi li ha adocchiati e trasformati in gangster è il futuro avvocato, il boss. «Mi interessa la trama in cui viene attirato il nostro eroe e alla quale finirà col reagire al punto di sconvolgerla. E vi dico subito che è una trama di potere», dice la VOCE 1. E poi: «A Leone interessano innanzitutto i sentimenti semplici e che

una volta si dicevano eterni, e intende sempre salvarli, anche nelle situazioni piú ignobili e spietate». Sciascia ha in mente un intrigo simile a quello dell’uccisione del presidente Kennedy, che lui evidentemente considera un delitto di mafia. Il protagonista del suo C’era una volta l’America sarà richiamato per far fuori l’assassino di una figura pubblica ancora imprecisata, «un presidente, un governatore, un pacifista». Sarà insomma una sorta di Jack Ruby, il proprietario di night club che uccise Lee Harvey Oswald, l’assassino di Kennedy. Il killer di un killer, privo di legami con la sua vittima e perciò insondabile, inspiegabile: il suo solo ingresso sulla scena metterà fine alle indagini o le renderà impossibili. Il personaggio pensato da Sciascia, però, spezza la trama. Non compie la missione, anzi, va a casa dell’avvocato, ora senatore, e gli spara quando ha appena concluso un’intervista televisiva e ha ancora il cerone sul volto. Poi si toglie la vita. Intanto, un killer a lui ignoto fa fuori l’assassino del presidente (o governatore, o pacifista). Il telegiornale annuncia: due sicari solitari, che forse si conoscevano, si sono suicidati dopo aver ucciso due grandi uomini, «incorrotti e incorruttibili». Il soggetto in forma di dialogo finisce cosí: – Non volete mai lasciare uno spiraglio alla speranza. – Credete che debba? – Non lo so. Del resto, il film è di Leone. Credete che quanto abbiamo detto gli servirà? –

Forse

no.

Ma

possiamo

ridiscutere

tutto

assieme a lui.

Al Grand Hotel Villa Igiea, Leone travolge i due scrittori siciliani con la storia del suo film, del suo abbozzo di film. Consolo naturalmente tace, Sciascia interviene poco. Leone parla e parla, Sciascia ascolta e poi dice semplicemente, sorprendentemente: grazie, non mi interessa. E torna a casa

con il suo giovane amico. Di Leone lui e Consolo non parleranno mai piú. Quel giorno, mi fa notare Vito Catalano, Sciascia mette piú o meno consapevolmente fine al sogno di una vita, coltivato fin da ragazzo: lavorare per il cinema. È di otto anni piú vecchio di Leone, di fatto appartiene alla sua stessa generazione, quella che ha amato, mitizzato, desiderato il grande schermo. In quel 1972 due film di un certo peso e di buon successo vengono tratti dai suoi libri: A ciascuno il suo, liberamente ispirato al romanzo con lo stesso titolo, di Elio Petri con Gian Maria Volonté, e Il giorno della civetta, regia di Damiano Damiani, con Franco Nero e Claudia Cardinale. Da poco è uscito Il contesto, romanzo per lui insolitamente sofferto, in gestazione da anni, i cui diritti per il cinema sono stati acquistati da Alberto Grimaldi prima ancora della pubblicazione del libro: diventerà Cadaveri eccellenti, un film di Francesco Rosi che uscirà solo nel 1976. Ma Sciascia non firmerà mai una sceneggiatura originale, né i film tratti dai suoi libri lo coinvolgeranno direttamente. Ci proverà, a coinvolgerlo, pure Michelangelo Antonioni, ci aveva provato Lina Wertmüller, nascerà un rapporto di amicizia («L’unico con un regista», mi dice Catalano) con Francesco Rosi, ma mai un film che non sia un adattamento. È una storia piena di no, la sua, ma l’unico pronunciato da Sciascia dopo aver lavorato sull’idea, immaginato un soggetto, è quello a Leone. Perché? Suo nipote pensa che la questione sia stata personale: «Mio nonno avrà capito che la collaborazione non sarebbe stata piacevole». Leone non si rassegna: ancora a settembre, cinque mesi dopo l’incontro di Palermo, conferma a «Variety» che Sciascia sta lavorando a una riscrittura della sceneggiatura di Once Upon a Time in America. La verità è che i diritti di The Hoods sono ancora bloccati e del film esiste solo un’idea molto generica, per quanto depositata alla Siae. Neanche Génovès, però, smette di crederci. Al Festival di Cannes 1973 fa appendere uno striscione sulla Croisette: IL ÉTAIT UNE FOIS L’AMÉRIQUE – IL NUOVO FILM DI SERGIO LEONE . Poco dopo,

sui giornali di tutto il mondo esce la notizia che Sergio Leone ha acquistato il bellissimo appartamento parigino di Maria Callas, in Avenue Foch, forse per proteggere i figli dalla minaccia dei rapimenti, forse per diventare cittadino francese. Parla bene la lingua, a Cannes e in tutto il paese è venerato come un maestro, da lí – si ipotizza – potrebbero arrivare i fondi per il suo film. C’è un giovane attore francese, Gérard Depardieu, che sarebbe perfetto per L’America, da solo o con Patrick Dewaere, con cui ha appena avuto successo in patria nel film Les Valseuses, I santissimi, di Bertrand Blier. Lui da vecchio potrebbe essere Jean Gabin. Non sarebbe neanche necessario doppiarli, potrebbero recitare in inglese con accento francese, la «French Connection» esiste veramente, dice Leone, non se l’è inventata William Friedkin per l’omonimo film. Génovès, intanto, rilascia interviste sul suo progetto con il regista italiano: «Racconterà gli anni Venti e Trenta, ma con un parallelo nell’America di oggi». Si confessa entusiasta per la nuova avventura, dice di aver già raccolto 7 milioni di dollari: «Mi piacerebbe avere Kirk Douglas e Henry Fonda, Elliott Gould e Robert Redford». Li elenca a coppie, a seconda dell’età dei personaggi. Fa stampare anche una locandina, ANDRÉ GÉNOVÈS PRÉSENTE… , con una fotografia dei grattacieli di New York visti dall’alto e un braccio che impugna un mitragliatore Thompson. Il ricordo e la locandina li conserva Franco Ferrini, che sarà il piú giovane tra gli sceneggiatori del film, quando si farà, piú o meno dieci anni dopo. Leone non smette mai di lavorare all’America. Anche quando non sembra, anche quando nessuno lo sa. Rodolfo Sonego ha detto a Tatti Sanguineti che sua moglie Allegra Rossignotti aveva scalettato tutto Mano armata: «I blocchi, i sunti, le scalette, le scene… Un lavoro tremendo buttato via». Leone e Sonego, coppia strana di non-amici e collaboratori molto occasionali di cui poco o nulla si sa, formatasi ai tempi dei film di Mario Bonnard con Alberto Sordi, Mi permette, babbo! (1956) e Gastone (1960). Bonnard è per Leone un

secondo padre, Sonego è per Sordi un alter ego nascosto, il suo «cervello», come dice Sanguineti. «Sergio Leone cominciò a frequentare casa mia molto presto, all’epoca dei suoi primi successi, – disse Sonego a Sanguineti, – veniva la mattina con la Rolls-Royce in viale Cortina d’Ampezzo: siamo andati avanti a vederci per anni e anni». Gli raccontò allora come vede iniziare L’America, «il cubo di cemento sul fronte del porto». Leone, sosteneva Sonego, «aveva una mitologia, ma non era uno scrittore, un raccontatore di storie, niente. Aveva il mito dell’America. Il mito del primo piano, il mito della macchina da presa». Leone gli propone di collaborare? Sonego non conferma e non smentisce, dice solo che lui gli consigliò di stare sotto le due ore e mezzo, «ne sarebbe uscito fuori un film robusto come una salva di colpi di cannone». Ma quei sunti e quelle scalette a cosa potevano servire, se non a scrivere il film? Fin da subito, Leone ha un’idea chiara in testa: Mano armata può offrire una base, ma poi ci vuole una scrittura forte, letteraria. Ancora Sonego: «Nessuno può immaginare il materiale fotografico che Leone aveva messo assieme per la preparazione di C’era una volta in America. Decine di migliaia di fotografie d’epoca, che Sergio, grandissimo feticista, esaminava con la lente sfogliandole con le sue manine grasse». Leone pensa a Luigi Magni, poi affida l’incarico a Ernesto Gastaldi, che ha scritto per lui Il mio nome è nessuno e sta scrivendo Un genio, due compari, un pollo, che produce e non dirige. Gli fa anche incontrare Harry Grey, in Europa con la moglie. «Non sono bravo a ricordare le facce, – mi ha detto Gastaldi, – di Grey però non ho dimenticato gli occhi, azzurri come quelli di Frank Sinatra, e soprattutto sereni». Quando vede Grey, Gastaldi ha già letto Mano armata, che gli ha passato Leone. Gli è piaciuto. Di quel giorno, ha fissato nella memoria un ricordo molto fantasioso, cinematografico. Grey rientra nei panni di Noodles e racconta di essere fuggito in Florida a scrivere i suoi racconti con l’aiuto della moglie. Lí, era stato richiamato dai vecchi amici per un’ultima

missione da killer (poi per fortuna non se n’è fatto nulla). Grey dice di aver fatto fuori ventisette persone a 20 000 dollari per volta. «Ma facevano tutti parte del gioco», del Game, e dunque non si considera un assassino. Poco importa che la storia sia vera, ciò che conta è che quando a Gastaldi viene affidato il compito di scrivere il soggetto dell’America, un punto rimane chiaro e indiscutibile: il plot dovrà arrivare ai nostri giorni, quasi quarant’anni dopo la chiusura del romanzo. È ciò che Leone vuole piú di ogni altra cosa. Poi, come una conseguenza, gli chiede di dare una struttura circolare al racconto, di inventare «un inizio e un finale collegati tra di loro». In tre mesi di lavoro, Gastaldi scrive un trattamento che parte sott’acqua, nel porto di New York, dove vediamo l’auto del vecchio killer inabissarsi. La macchina da presa si tuffa, poi si muove sott’acqua e man mano che si va verso i quartieri piú eleganti della metropoli anche i rifiuti sul fondo cambiano, dalle poche miserabili cose dei bassifondi arriviamo a scoprire una Rolls-Royce e un cadavere incatenato al posto di guida. È una visione subacquea del Sogno americano, un cimitero subacqueo che riproduce perfettamente la società in superficie. Il resto del film è una specie di lungo flashback, che ci porta tra poveri bambini ebrei del Lower East Side di inizio Novecento e ce ne fa seguire in particolare due, amici di strada e poi gangster. Li vediamo diventare sempre piú ricchi e potenti, finché uno, Max, non si mette in testa di rapinare una grande e impenetrabile banca. È un progetto folle, che l’altro, Noodles, non riesce a fermare se non denunciando tutto alla polizia. Qualcosa va storto, muoiono Max e tutti gli altri, Noodles scappa dalla città e si nasconde per anni, finché non gli arriva una chiamata dall’organizzazione. Deve tornare a New York per far fuori un senatore. Noodles sa che non può dire di no e sa anche che non ha scampo: uccide il senatore e poi si butta nell’Hudson con l’auto. La scena finale riprende esattamente quella iniziale. Leone ora racconta a tutti che il suo film inizierà sott’acqua, nel porto di New York, con il consueto corredo di

suoni, movimenti di macchina, inquadrature («Primo piano!»), effetti. Nell’aprile 1974 chiede a Gastaldi di seguirlo oltreoceano per cercare sceneggiatori americani e contattare gli attori. Con loro, ci saranno Fulvio Morsella, in veste di traduttore, e Oreste Del Buono in veste di «storico della spedizione» (la definizione è di Gastaldi, che racconta di aver detto a Leone, sarcastico: «Sei come Napoleone»). Ma il preavviso è scarsissimo, lo sceneggiatore è diventato da poco per la terza volta papà, qualche anno prima sua moglie Mara Maryl, attrice, aveva rinunciato a trasferirsi in Francia alla corte di Roger Vadim e lui si sente in debito con lei. Insomma, non ci va. «Perdi una grande occasione», dice Leone. «E tu perdi tre buone battute. Magari solo tre, ma le perdi». In America poi Leone ci va per davvero. A incontrare sceneggiatori, piú che altro. L’idea è semplice e ardita: il film verrà scritto in Italia e riscritto in America. È una favola e perciò dovrà avere le radici nella realtà, serve qualcuno che conosca bene la storia del secolo americano, che ne parli la lingua. Qualcuno che viva il sogno da dentro. Leone vede David S. Ward, che non ha ancora trent’anni e ha appena vinto l’Oscar per la sceneggiatura della Stangata. In California, incontra John Milius, che ha scritto e diretto Dillinger. Ebreo («Ma ho vissuto quasi tutta la vita da pagano»), surfista, militarista convinto, scartato dall’esercito per l’asma (dirà: «Volevo fare il generale, ho ripiegato sul mestiere che piú gli somiglia, il regista»), fanatico collezionista di armi da fuoco, laureato in cinema alla University of Southern California a Los Angeles, Milius accoglie Leone facendo suonare le colonne sonore di Ennio Morricone ad alto volume nella sua villa sulle colline di Hollywood. Ha 30 anni e sostiene di essere il piú pagato tra i giovani sceneggiatori: ha scritto Corvo rosso non avrai il mio scalpo e L’uomo dai sette capestri ma avrebbe voluto dirigerli. Dopo Dillinger, dice nelle interviste di sentirsi all’altezza dei piú grandi, ovvero John Ford e Sergio Leone. Milius apre agli italiani la porta che dà sulla stanza dei fucili e delle pistole da collezione e infine accetta di parlare del film. Cioè, di ascoltare Leone che interpreta alla sua

maniera la scena subacquea con cui vorrebbe aprire. E che alla fine del racconto gli offre di scrivere la sceneggiatura. Gli piacerebbe, risponde piú o meno Milius, ma ora deve girare Il vento e il leone, ispirato a un episodio della vita del suo presidente preferito, Theodore Roosevelt, e intanto lavorare alla scrittura del progetto del cuore, Apocalypse Now, un’idea nata ai tempi dell’università che sublima la sofferenza provata per l’impossibilità di andare in Vietnam e il dolore degli amici che invece in Vietnam ci sono andati. E poi sta scrivendo un libro, un romanzo storico ambientato tra i surfisti di Malibú negli anni Sessanta. «Una storia epica di re che bevono birra. Con tanto sesso e tanta violenza». Perché Milius in realtà vorrebbe fare lo scrittore, «ma poi il cinema si mette sempre di mezzo». A New York Leone vede Miloš Forman, del quale a Cannes ’71, quando era in giuria, ha apprezzato il primo film americano Taking Off. Forman è cecoslovacco, ha perso entrambi i genitori all’età di dieci anni (il padre ebreo è morto a Buchenwald, la madre, non ebrea, ad Auschwitz), è fuggito negli Usa nel 1968. Con lui a incontrare Leone c’è Pete Hamill, giornalista e scrittore, newyorkese figlio di irlandesi. Sarà Hamill, una decina d’anni dopo, a lasciare memoria di quella giornata. Si vedono la mattina presto in una suite del Pierre. Hamill, come Forman, scopre che Leone ha in testa un grande film di gangster, talmente grande che gli serve qualcuno che lo aiuti a scriverlo (e, lascia credere, magari anche a dirigerlo, per questo ha voluto vedere anche Forman), qualcuno che conosca bene le trame della società e della politica americana. Esordisce cosí: «Apriamo sott’acqua, nel fondo del porto di New York. Proprio sul fondo. Si vede arrivare un cadavere. Che scende, fluttuando, sempre piú giú. E poi: primo piano, stretto sul suo occhio verde!» Nel ricordo di Hamill, solo qualche istante dopo l’inizio dell’incontro Miloš Forman si addormenta sulla morbida poltrona del Pierre, per poi sobbalzare quando Leone con un pugno sul tavolo proclama, alzando la voce: «Tragedia! Come

Shakespeare!» Tra l’abbiocco e il sobbalzo, una «magnifica performance, con gesti, parole e una voce che passava dal sussurro al basso piú rimbombante», che dura un po’ meno di un’ora. Forman commenta con un anodino «Interessante». Hamill, che per seguire la storia di Leone ha lasciato freddare il caffè, ripensa ai piccoli furfanti che ha conosciuto da ragazzo a Brooklyn: «Capii che Leone parlava del mito romantico dei gangster, dell’enorme richiamo che su tutti noi esercitava l’uomo con il mitra, fosse Cagney, o Bogart o Raft, l’uomo che sceglieva di farsi regole proprie in un mondo in cui molte regole erano semplicemente ipocrite. Ma questi gangster erano prodotti artistici, quelli veri erano semplicemente melma. Sergio mi aveva parlato dei gangster della leggenda, dei gangster del cinema». Leone torna a Roma con poche certezze, anzi, con qualche dubbio in piú. Dopo i produttori, anche gli autori americani sembrano non comprendere fino in fondo il suo progetto. Un po’ perché da quelle parti lui è ancora (e forse sempre sarà) l’uomo degli spaghetti western, un po’ perché, dopo l’inatteso e colossale successo del Padrino, il gangster movie classico, con i Thompson in azione e l’alcol di contrabbando, viene considerato finito. E poi la questione dei diritti non si sblocca, Génovès arriva a offrire 250 000 dollari ma Curtis non molla. L’America si ferma, Leone si dedica alla produzione. Il cinema italiano vive una delle sue ricorrenti crisi: «Disoccupati i grandi e i piccoli maestri del cinema», scrive il 22 gennaio 1975 Lietta Tornabuoni sulla «Stampa» e ricorda che non stanno lavorando in quel momento né Fellini, né Antonioni, e tantomeno Petri, Visconti, Rosi, Cavani, Pasolini, Ferreri, i Taviani, Bellocchio. Né ovviamente Leone. Fino a quando, pochi mesi dopo, nella sua villa all’Eur arriva una copia di Mano armata appoggiata su un vassoio d’argento di Bulgari. È il modo scelto da Alberto Grimaldi, l’ex avvocato napoletano che ha prodotto Per qualche dollaro in piú e Il buono, il brutto, il cattivo, per dirgli che ha comprato il romanzo di Harry Grey. «Sergio, – ha raccontato poi Grimaldi alla sua biografa Paola

Savino, – per circa dieci anni aveva tentato di acquistare i diritti del libro intitolato The Hoods dal regista Dan Curtis, che allora aveva lavorato per la televisione e si rifiutava di vendere i diritti perché voleva dirigere lui il film per uscire appunto dall’ambito televisivo. Sergio mi chiamò e mi chiese di provare a convincere Curtis. Accettai e incontrai Curtis in America. Dissi che ero disposto a finanziare un progetto alternativo se mi avesse ceduto i diritti del libro e lo invitai a sottopormi una storia cinematografica. Curtis accettò e acquistai da lui i diritti per 125 000 dollari. Subito dopo telefonai da Los Angeles al mio ufficio a Roma e dissi: “Andate da Bulgari, comprate un piatto d’argento e metteteci dentro il libro. Poi mandatelo a casa di Sergio Leone”. Comprai anche il libro dal quale il regista americano voleva trarre il film che poi facemmo insieme e che in Italia è uscito con il titolo di Ballata macabra, in originale Burnt Offerings». Anche a Grimaldi, come a Leone e Clint Eastwood, Per qualche dollaro in piú e Il buono, il brutto, il cattivo hanno cambiato la vita: ora è il punto di contatto tra la United Artists e il cinema italiano, da avvocato delle major si è trasformato in produttore. Con i soldi degli americani farà ventidue film, e tra questi Ultimo tango a Parigi, Novecento, Queimada, Il Decameron, Casanova; sarà il produttore di Fellini, Pontecorvo, Lelouch, Pasolini, Bertolucci, Ferreri, Rosi, Monicelli, Billy Wilder. Dopo Il buono, il brutto, il cattivo, però, il sodalizio con Leone si era rotto, perché – diceva Grimaldi – non si divertiva piú. «Mi sembrava che lui fosse cambiato, come cambiano tutti quando si raggiunge il successo. Ho sempre notato questa trasformazione, in tutti tranne che in Pasolini». Qualcosa, o qualcuno, lo convince evidentemente a tornare sui suoi passi. Con il colpo da maestro con cui cattura i diritti di The Hoods da Dan Curtis (che comunque con Ballata macabra andrà a realizzare il suo film migliore, molto amato da Stephen King) Grimaldi rientra in gioco. Il budget dell’America sale ancora un po’, arriva a 10 milioni di dollari, e nell’estate, giurato al festival di Taormina,

Leone ricomincia a parlare del cast: «Tutto è visto attraverso la memoria di un vecchio gangster, che dai tempi nostri risale a ritroso nel tempo. Di qui la necessità di avere due attori, anzi tre: il gangster vecchio, il gangster uomo fatto e il gangster da adolescente. Nei miei film passati non mi andava di usare le donne come elemento decorativo. C’era poco spazio per loro; in questo, invece, ce ne sarà piú d’una, perché i personaggi femminili saranno uno dei centri motori della vicenda. Dovranno essere donne di coraggio, come Julie Christie, Glenda Jackson e Carla Gravina». Grimaldi gli propone la coppia con cui Bertolucci sta facendo il suo Novecento, Gérard Depardieu e Robert De Niro. Ma in questa fase, pensa soprattutto alla scrittura: «Poiché la storia è ambientata in America, dissi a Sergio che la cosa piú opportuna da fare era scegliere uno sceneggiatore americano». Ha già in mente il nome perfetto, l’accoppiata che solo a vederla scritta sui manifesti renderà unico, memorabile, storico questo film, un film scritto da Sergio Leone e Norman Mailer.

Poi per fortuna mi viene la tonsillite La storia di Franco Ferrini

L’anno è il 1971, Giú la testa sta per uscire, Sergio Leone invita a cena Franco Ferrini, con cui lavora a un libro sui suoi film, il primo di un critico serio, giovane ma serio. Vanno al Bolognese, dove incontrano il giornalista del «Messaggero» Costanzo Costantini. Parlano di una storia che potrebbe diventare un film, quella dell’unico soldato di Custer sopravvissuto a Little Bighorn, un italiano. Dopo, vanno a bere champagne da Plinio. Sulla via del ritorno, forse esaltato dall’alcol e dalla affabilità del Maestro, Ferrini gli confida che sarebbe onorato di partecipare alla scrittura del suo nuovo film, L’America, anche solo di assistervi. Leone sta guidando la Rolls-Royce (o era la Bentley?), stacca le mani dal volante e dice: ok. «Sarà stata l’eccitazione, sarà stata la coperta elettrica che non riuscivo a spegnere, ma quella notte non chiusi occhio. Rimasi sveglio, seduto, a pensare. Non era chiaro cosa avrei fatto, forse sarei stato un uditore senza diritto di parola. Era comunque un inizio. Anzi, una specie di sogno. Leone stesso aveva cominciato cosí. «A quei tempi lavoravo all’organizzazione del festival di Pesaro e scrivevo per una rivista, “Cinema e Film”, che aveva un certo prestigio. A Pesaro c’era Bruno Torri, che aveva fondato il festival con Lino Micciché. Un giorno mi dice, quasi come un insulto: “Te, che ti piace Sergio Leone, lo scriveresti un libro su di lui?” “Sí certo”, rispondo. Allora lui mi mette in contatto con la rivista “Bianco e Nero”, del Centro sperimentale di cinematografia, e io scrivo questo libro su Sergio Leone. E lo scrivo chiedendo aiuto direttamente a lui. Siamo nei primi anni Settanta, non ci sono i dvd né le videocassette, non c’è niente. I film di Leone li conosco, ma non a memoria, ho bisogno di rivederli. Allora vengo a Roma, dove già prima stavo tre, quattro mesi l’anno per lavorare

all’organizzazione del festival di Pesaro, e scrivo questo libro, gli faccio anche un’intervista e lui mi dice, parlando di cinema e di altre cose, che ero sprecato a stare ancora a La Spezia. “Mi piacerebbe venire qui, a lavorare nel cinema”, gli dico. E lui: “Sí, sí”. Non dico promettendo aiuto, ma insomma… Era stato lui a dirmi che ero sprecato, per questo me la sono sentita di fargli quella richiesta». «Dopo la notte insonne non ci fu niente di semplice, non fu una passeggiata di salute, anche perché da quel 1971 Leone ha dovuto aspettare anni per avere i diritti del libro dal quale si doveva partire per fare la sceneggiatura. Nel frattempo lui ha incontrato l’autore, ci è andato anche a cena: quella sera Goldberg mentre parlava con Leone guardò la moglie e le mani, e incazzatissimo le disse: “Che cosa ti sei messa? Ti sei messa gli anelli, vaffanculo”. Cosí. “Sai che non devi metterti i gioielli!” Questa scena qui, che è in Goodfellas [Quei bravi ragazzi], a me l’ha raccontata tanti anni prima Sergio Leone. C’è stata un’impasse durata anni, lui prende in considerazione altri libri, per esempio Il re della mafia di Richard Condon. Io gli propongo un libro che avevo letto in inglese, solo perché il protagonista è uno sceriffo. Jaws, Lo squalo. Lui manco lo legge, però guadagno punti ai suoi occhi perché il film tratto da quel libro diventa un successo pazzesco. Nel frattempo vengo a stare a Roma e si fa il primo film importante scritto da me, La cicala, diretto da Alberto Lattuada, che però uscirà solo diversi anni dopo. E in quel momento, piú o meno, Alberto Grimaldi sblocca la situazione, prende i diritti di Mano armata e gli propone di lavorare con il piú grande scrittore americano del momento: Norman Mailer. Che oltretutto è ebreo. Norman Mailer viene a Roma, scrive, adatta il libro e ci mette dentro anche molte cose sue. Forse si fa prendere la mano da Proust. In Proust c’è la ricerca del tempo perduto, come dice il titolo della Recherche, ma bisogna intendersi: lui sta in una stanza foderata di sughero da cui non esce mai, e scrive e scrive, va in cerca del tempo perduto, però i momenti in cui viene riafferrato il passato sono involontari, c’è una memoria involontaria, le famose intermittenze del cuore. Come la madeleine: mangi il biscottino e ti vengono in

mente le colazioni di quando andavi a Balbec, a Combray, non ricordo piú dove dalla zia Léonie. Camminando sul lastricato, ti sovviene di quando eri a Venezia. Stai in treno, senti i manovali battere con un martello, e questi suoni ti riportano da tutt’altra parte, ti ricordano i campanili di Martinville. Allora, Norman Mailer cosa fa? Fa questo. Racconta il viaggio del vecchio gangster, che parte da dove sta e va in macchina a New York. Ci mette una lunga parte on the road. Poi il gangster si ferma a mangiare e c’è tutta una storia con la giovane cameriera di uno di questi ristoranti lungo le highway americane. Perché? Perché era capitato a lui, a Mailer. C’è un po’ di autobiografismo e soprattutto ricordi che scattano per associazioni pure, guardando un cartellone pubblicitario di New York improvvisamente ci troviamo nel Lower East Side del 1920 con i ragazzini del libro. E questo a Leone non piace per nulla, lui vuole che i ricordi siano motivati, non vuole che la ricerca del passato nasca cosí, come in un film di Alain Resnais. Vuole che scattino da una ricerca, come in un giallo». «Leone butta via il lavoro di Mailer e comincia a mettere su una squadra di sceneggiatori italiani. Un giorno davanti a me chiama Luigi Magni e gli chiede di farne parte, ma lui lo ringrazia, gli spiega che siccome il suo ultimo film La via dei babbuini è andato malissimo deve dedicarsi al prossimo. “Magari me la fai leggere quando ce l’hai e ti do qualche consiglio, tu mi regali un orologio…” Probabilmente ha chiamato anche altri, chi lo sa, ma poi la scelta si concentra su Benvenuti e De Bernardi, i maestri dei film sull’amicizia – avevano fatto un film con Geronimo Meynier, Amici per la pelle, e poi Amici miei –, e soprattutto sul signor Enrico Medioli, che è bravissimo, non c’è bisogno che lo dica io, aveva lavorato sempre con Luchino Visconti. Quando Leone lo chiama, Medioli, tutto contento, gli chiede: “Perché io?” E Leone risponde: “Perché ti pago per contraddirmi”. È per questo che i registi italiani oggi fanno dei disastri, non chiamano uno per farsi contraddire. A questo punto interviene il signor Grimaldi. Che dice a Leone: “Ho uno che fa lo sceneggiatore, il montatore, non scrive ma ha trovate geniali e mi ha fatto guadagnare una barca di soldi con Ultimo tango a

Parigi”. È Arcalli che ha l’idea di Noodles chiamato da Max, l’amico ritenuto morto, per farsi uccidere da lui. Questo è il momento in cui nasce il film, che è il libro di Harry Grey, la storia ambientata negli anni Venti e Trenta filtrata dai ricordi di Noodles vecchio, chiamato a New York per ammazzare Max. Un gesto da antico romano che non tutti hanno capito, ha detto anni dopo il grande sceneggiatore William Goldman [Oscar per Butch Cassidy e Tutti gli uomini del Presidente]. Alberto Grimaldi, per esempio, quando un paio d’anni dopo ha finalmente in mano il trattamento, suggerisce di farlo leggere a Franco Solinas, secondo lui il migliore sceneggiatore su piazza, quello che gli aveva scritto Queimada. E Solinas esprime dubbi sulle motivazioni del vecchio Max: richiamare Noodles per farsi ammazzare da lui e cosí ricompensarlo dei tanti anni in cui è andato a letto presto è un’idea romantica, poco credibile per due gangster. Non è meglio fargli dire che ha scelto di farsi uccidere da lui perché suo figlio possa ereditare il patrimonio? Leone convoca una riunione nel giardino di casa con me, Medioli, Benvenuti e De Bernardi. Arcalli non c’è, è malato, forse è addirittura già morto. Solinas dice la sua, tutti tacciono, solo io difendo con foga l’idea originaria, magari perché ho bevuto troppo cognac. Dico che è molto piú bello cosí, al limite quella può essere una battuta di Noodles: “Senatore Bailey, lo fa perché suo figlio possa avere l’eredità?” Gli altri continuano a stare zitti e io imparo una lezione. A volte è meglio lasciare che certe idee cadano nel vuoto». Il film viene scritto a pezzi, ognuno per sé. Ci si incontra di tanto in tanto, Leone ascolta e giudica, approva e piú spesso boccia. Le pagine approvate finiscono nel trattamento. Ferrini ascolta e basta, interviene raramente. Ma quando gli altri si trovano di fronte alla domanda «Perché Noodles torna a New York? In che modo lo convincono a tornare?» cerca anche lui una risposta. «Mi dicono: “Franco”, anzi, “Frank”, De Bernardi mi chiamava cosí, “tu che hai letto tanti gialli, fatti venire un’idea”. E io mi faccio venire l’idea di Noodles chiamato dalla sinagoga per riscattare le tombe degli amici morti. Era appena successo nella mia famiglia, avevamo

dovuto spostare la tomba di una zia, prendo spunto da lí. Poi so che a Leone piacciono i cimiteri, in tutti i suoi film ce n’è uno. So che ha anche pensato di fare un film dal romanzo La dama della Morgue di Jonathan Latimer, che aveva pubblicato Longanesi. Sento che è la mia grande occasione, mi spremo le meningi e parto dall’idea del cimitero. Ho fortuna, mi viene la tonsillite. Mi metto a letto e posso pensare tranquillamente. Dopo qualche giorno, chiamo Sergio e gli dico che ho avuto un’idea. Mi dà appuntamento a casa sua, di mattina, io e lui da soli. Ci vado, ma prima penso: quest’idea la scrivo. Mi sento piú sicuro. La scrivo e gliela do appena arrivo nel suo studio. Lui è in accappatoio, un accappatoio bianco con sotto uno slippino, con tutta la panza fuori, a casa stava quasi sempre nudo, aveva sempre caldo. Prende in mano i foglietti, comincia a leggere, con gli occhiali, legge un po’, si alza, si sposta nell’adiacente bagno. Al cesso. Mi dico: oddio, faccio cagare. Rifletto: se l’è portate dietro, non ha lasciato le paginette sulla scrivania. Forse non ha la carta igienica. Le penso tutte, insomma. Quando esce, sempre con le paginette in mano, mi guarda, fa un cenno di assenso, eh eh. Fa dei sospiri, dei borbottii, eh eh. “Ora li chiamo, ora li chiamo”. Chiama Benvenuti e De Bernardi a casa di De Bernardi, è mezzogiorno, sa che a quell’ora sono lí, e la cameriera, la figlia, qualcuno dice che sta dormendo. Riattacca e si gira verso di me: “Che stronzi! Vabbè, ti faccio sapere”. «È andata, evidentemente l’idea è piaciuta anche agli altri, che l’hanno poi migliorata, decisamente. È uno snodo fondamentale, i ricordi non sono piú arbitrari, perché lui va alla sinagoga, vede i caterpillar che distruggono il cimitero, poi va da Fat Moe, gli mostra la lettera. C’è scritto: “Noodles, ti abbiamo trovato nel buco del culo del mondo, preparati”. “A cosa?” gli chiede Fat Moe. “Questo non l’hanno scritto, è ciò che voglio scoprire”, risponde Noodles. Siamo in un giallo. Noodles va a dormire e andando verso la camera da letto vede le fotografie, parte un ricordo, che è proustiano, involontario: è il sentimento che lo porta a ripensare a Deborah che balla. Ma è l’unico caso in cui avviene qualcosa di simile, infatti Noodles è sempre circospetto, guardingo, è uno che vuole

capire chi l’ha chiamato lí e perché. E tutto parte da quell’idea del cimitero demolito, che è anche essenzialmente il motivo per cui c’è il mio nome tra gli sceneggiatori». Leone è andato avanti per anni a raccontare il suo primo incipit, quello subacqueo, morti e carcasse di auto sul fondo del fiume Hudson. Poi esce un film di John Frankenheimer con un’idea simile, e si discute a lungo su come partire. Poi esce Un anno vissuto pericolosamente, ambientato in Indonesia, e anche il teatrino delle ombre sembra bruciato. Ferrini vede un’altra opportunità. Ha un’idea. La scrive. La scena è ambientata nel 1950 a Sing Sing, il carcere dove – a quanto dice Leone – Harry Grey avrebbe scritto Mano armata, nel giorno di un’esecuzione capitale. Sono le sei e mezzo, probabilmente del mattino ma non ne siamo certi. Vediamo il condannato condotto alla sedia elettrica, assistiamo al terribile rito, alla scossa mortale che però non lo uccide. Sono necessarie diverse altre scariche, sempre piú forti, che provocano brevi black-out in tutta la prigione. I carcerati si rendono conto di cosa sta accadendo e cominciano a ribellarsi. Sing Sing è una bolgia, la protesta si trasforma in rivolta, vengono aperte alcune celle, volano i manganelli, gli estintori spengono gli incendi appiccati dai prigionieri. Scoppia un grande caos, che i secondini fermano a stento: uno solo rimane in cella, apparentemente ignaro di quanto gli sta succedendo intorno. 9. INT. CELLA ( Luce

artificiale)

Il detenuto Goldberg, sui quarantacinque anni, seduto

sulla

branda,

non

si

volta

neanche.

Continua a scrivere febbrilmente con il lapis su un rotolo di carta igienica. CAPO GUARDIE

(entrando) Goldberg, ho detto fuori!

Goldberg continua a scrivere, bisbigliando le parole tra sé:

GOLDBERG

Dovevo lasciare la città, ma come? Con la

polizia

e

la

Combinazione

che

mi

davano

la

caccia… L’altro

lo

solleva,

da

dietro,

e

lo

sbatte

contro il muro, alitandogli in faccia: CAPO GUARDIE

Che cazzo stai scrivendo?

Il rotolo, che è caduto, si srotola e si dipana per terra, tutto ricoperto della calligrafia di Goldberg, con delle cancellature e correzioni. In cima, in dettaglio, appare il titolo: C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA

Ferrini porta le sue sei paginette a casa Leone e trova il regista in giardino con qualcosa di strano in testa. Sua moglie gli sta applicando un trattamento alla placenta, forse per fermare la caduta dei capelli. Lui, comunque, non fa una piega, legge ciò che gli passa Ferrini in assoluto silenzio, poi alza lo sguardo e dice solo: «500 000 dollari». Ha calcolato il costo della scena. «Non è stato facile, ogni volta dovevo vincere un giustificato complesso di inferiorità di fronte a questi maestri della sceneggiatura, ma ogni tanto sono riuscito a dire qualcosa. Lo scambio dei bambini nelle culle dell’ospedale è un’idea mia. I gangster devono intimidire il poliziotto, ma senza violenza. Le pensiamo tutte, qualcuno suggerisce anche che gli rubino la collezione di francobolli e gli chiedano il riscatto. Mi viene l’idea dei figli scambiati nella nursery. Ma c’è un problema: c’erano le nursery in America nel 1933? È presente Ricky Tognazzi, che lavora con Leone e che parla bene l’inglese, sua madre è irlandese. Allora Tognazzi telefona non so a chi, chiede e ha il responso: sí, c’erano. Un’altra idea di cui vado fiero: avevano scritto la scena di Noodles che si presenta a Fat Moe, con tanto di dialogo: “Ciao, sono Noodles, come stai?” Cose cosí. E io trovo il coraggio per dire: a me questa scena non piace, il dialogo è una perdita di tempo,

ammoscia tutto. Tagliamolo, lasciamo solo le immagini e la musica, il primo piano di Noodles. Come la dissi, è oggi nel film. E Leone, in un’intervista per il libro pubblicato dal Castoro, per descrivere il suo stile fa l’esempio di quella scena. La faccio con il Chapman Boom, diceva, una gru che sarà alta 25 metri: dall’alto, scende fino a mostrare De Niro che parla, quasi in primo piano. Fa venire la pelle d’oca». «Leone era un duro, ma aveva rispetto per gli sceneggiatori. Ci chiamava “autori”. Voleva che la sceneggiatura fosse perfetta, nei suoi film c’è una costruzione forte, sempre. È un film misogino? Forse sí, è misogino, ma lo è anche per seguire le convenzioni del genere. So solo che lui ci diceva in continuazione: “Curate le donne, curate le donne”. Tre, almeno, sono importantissime: Deborah, Carol e Peggy. E Eve, la prostituta che si mette con Noodles che è stata, poverina, un po’ sforbiciata, anche perché muore nella prima scena. Qualcuno – mi pare Tarantino – ha detto che la sceneggiatura di C’era una volta in America è la piú bella mai scritta. La scena del duello finale tra Noodles e Max è degna di Pirandello, Ibsen, Shakespeare. È un dialogo in cui si dice il minimo necessario, Noodles non ammette mai di averlo riconosciuto, rifiuta di sparargli e perfino di toccare la pistola che c’è sul tavolo. “È il tuo modo di vendicarti, Noodles?” “No, è solo il mio modo di vedere le cose”. Una scena che lasciò molti spiazzati, ricordo di aver incontrato Bernardo Bertolucci quando il film uscí e mi disse, un po’ sprezzante: ma come, un film di Sergio Leone in cui alla fine non sparano? È una scena molto sottile, pirandelliana, si presta a tante interpretazioni. Come il film. C’è chi dice che alla fine Noodles trionfi: ha scoperto la verità, si riappropria della sua vita, se ne va da vincitore, campione della verità, in qualche modo si è pure vendicato. E c’è chi pensa che Noodles sia il massimo perdente della storia del cinema. Ha perso la donna, ha perso tutto. Come gli dice lei: “Noodles, siamo due vecchi, se apri quella porta non ti rimangono neanche piú i ricordi”. Leone fondamentalmente pensava di aver fatto un film cupo, malinconico. Una volta andai a proporgli un libro di un americano, uno scrittore di gialli che si chiama Lawrence

Block, bravissimo, poi quel film lí l’ha fatto Hal Ashby, con Jeff Bridges e Andy Garcia, 8 milioni di modi per morire. Il libro è bellissimo, gli dissi, potrebbe farlo Clint Eastwood, un investigatore privato ubriacone. E lui: “Per carità, ho appena fatto un film triste, con un perdente come protagonista…” E il sorriso finale che cos’è? Può essere una specie di rictus sarcastico, un cachinno romano alla Giuseppe Gioacchino Belli. O forse Noodles sorride, con un anacronismo deliberato alla Borges, perché ha guardato la morte in faccia ed è sopravvissuto, si è voltato all’indietro e non si è trasformato in una statua di sale. Ha dato un finale alla sua vita. È un ebreo, nella sua religione non c’è il perdono, la confessione dei peccati del cristianesimo. Ma lui può dire di aver lasciato un buon ricordo dietro di sé, è questo che conta. C’è l’umanità, in C’era una volta in America, c’è l’antica Grecia, è il film di un uomo di cinquant’anni che vede le cose in un altro modo, piú puro. Ha varcato la linea, sta piú di là che di qua».

TERZO TEMPO 1975-1976

C’era una volta in America l’ho visto a 18 anni, o forse qualche tempo dopo l’uscita, quando ne avevo 19, e non ricordo dove. Carlo Benvenuto, che ora fa l’artista ma già allora lo era, oltre che mio compagno di banco alle elementari e uno dei miei amici migliori, sostiene che l’abbiamo visto insieme nel cineclub della città in cui siamo cresciuti, Alba, nella sala che era stata il cinema parrocchiale della mia infanzia, quello dei western all’italiana, di Bud Spencer & Terence Hill. Un posto per entrambi «fondamentale». Carlo ha usato questa parola, ed è quella giusta. Gli ho chiesto di dirmi i titoli dei suoi film di allora, i primi che gli venivano in mente: ha detto The Elephant Man, Il recinto, Lili Marleen, La morte in diretta, Bianca, L’amico americano. Io avrei detto: Il cacciatore, Apocalypse Now, Momenti di gloria, Blade Runner, L’ultimo metrò, Manhattan, Tom Horn, Il verdetto. Esperienze condivise, fondanti. Sono «quei due mesi e mezzo di gioventú di cui ti ricordi tutto», come dice lui, oppure c’è qualcosa di speciale in quel cinema? Sergio Leone aveva la visione di un futuro nel quale avremmo avuto in casa schermi grandi come pareti e nelle città stadi per vedere i film insieme ad altre cinque, dieci, ventimila persone. È ancora presto per dire che non aveva ragione. Scrivo queste parole a 53 anni, piú o meno l’età che aveva Sergio Leone quando girava C’era una volta in America. Ho passato trent’anni dentro le redazioni, di un programma radiofonico e poi televisivo, di settimanali, mensili, quotidiani. Ho lavorato per i due giornali che ho sempre letto, cioè «La Stampa», il quotidiano che tutti compravano dove sono nato e cresciuto, e «Rolling Stone», il mio Sogno americano. Sono uno di quelli che «Rolling Stone» l’hanno aperto in Italia, nel 2003. Due anni dopo, sull’edizione americana della rivista leggo una storia che riguarda Norman Mailer, la vendita per

2,5 milioni di dollari del suo archivio personale (tutto: appunti, ritagli, ricerche, manoscritti, lettere, articoli) all’Harry Ransom Center della University of Texas a Austin. Metto quel numero da parte, ho già in mente questo libro, piú o meno. Riesco ad andare a Austin nel 2010, ed è una settimana di immersione totale in quel fantastico archivio. È la stagione dell’invasione dei grilli, in Texas, sono ovunque, anche nella camera d’albergo. Sono innocui, ma sembra di trovarsi dentro un horror, o un thriller alla Hitchcock. Mia moglie Barbara fa la turista, io lascio la macchina la mattina in un orrido parcheggio multipiano, attraverso la strada ed entro in paradiso. Tutti i giorni per una settimana. Qualche anno dopo Mailer, anche Robert De Niro ha deciso di consegnare il proprio archivio all’Harry Ransom Center. Quando ci vado io, al piano terra espongono la licenza di tassista grazie alla quale poté guidare nelle strade di New York per prepararsi a Taxi Driver. All’Hrc trovo una quantità sorprendente di materiale su C’era una volta in America, soprattutto nell’archivio Mailer. Presto capisco perché: la vicenda finisce in tribunale, Mailer teme comprensibilmente di non essere pagato. Tiene tutto, anche le minute delle lettere e gli appunti presi sui fazzoletti di carta. Quando Norman Mailer incontra Leone, ha conosciuto da pochi mesi Norris Church, che diventerà la sua sesta moglie («L’ultima», preciserà sempre lei). Norris si è appena trasferita a New York dall’Arkansas, dove si sono incontrati a casa di amici. Ha 26 anni, un figlio e un matrimonio alle spalle, Mailer il doppio dei suoi anni, sette figli da cinque donne diverse e quattro matrimoni. Lei è alta, molto piú alta di lui anche senza tacchi, bella, ambiziosa. Dimostra a malapena vent’anni. Lui sta tentando da tempo di divorziare dalla quarta moglie, la modella e attrice Beverly Rentz Bentley. Ci riuscirà nel 1980 e solo allora lui e Norris potranno sposarsi. Quando, nel settembre 1975, Mailer, Grimaldi e Leone con i suoi si vedono da Nicola’s, il ristorante italiano preferito dallo scrittore, c’è anche Norris. Il suo ricordo non è

piacevole: «Leone era un uomo alto e rotondo con una testa a uovo. Fumava il sigaro e aveva occhi pigri e gonfi con cui mi fissò a lungo, fino a mettermi a disagio». Leone le dice che dopo aver affrontato la grande tradizione americana, il western, ora vuole cimentarsi con il gangster movie. Racconta di aver acquisito i diritti di The Hoods di Harry Grey: da lí vuole partire per costruire il nuovo film, Once Upon a Time in America. Lui e Norman trovano un accordo prima ancora di arrivare al dolce: si vedranno a Roma presto, lí potranno approfondire, parlare ancora e Mailer cominciare a scrivere. Qualche giorno dopo Leone va in Canada, dove incontra il primo ministro Pierre Trudeau, fa sopralluoghi a Montréal, poi per un’ora si concede alla stampa locale all’hotel Chateau Champlain. Rivela che Norman Mailer lavorerà al suo prossimo film. Perché l’ha scelto?, gli chiedono. E lui risponde cosí: «Perché è americano, perché è ebreo ma piú ancora perché lo ammiro come scrittore». Dice che nel cast probabilmente ci sarà Richard Dreyfuss e per un cameo anche George Raft. Poi incontra il produttore Pierre David e Robert Charlebois, il cantante canadese che ha avuto una parte in Un genio, due compari, un pollo, e va a vedere alcune location a Québec City. Mailer invece vola a Manila, dove assiste al match tra Muhammad Ali e Joe Frazier per il titolo dei pesi massimi di pugilato. Da qualche mese è uscito The Fight, il racconto del combattimento tra Ali e Foreman che l’anno prima Mailer aveva vissuto a bordo ring, a Kinshasa. Per lui la boxe è la metafora perfetta della vita americana e Ali incarna lo spirito del XX secolo. Tornato a New York il 15 ottobre 1975 firma il contratto con la Pea, la società di Grimaldi, e si impegna a consegnare entro il 17 gennaio 1976 la prima bozza di una sceneggiatura in due parti (ciascuna della durata di due ore circa) ispirata al libro The Hoods. Riceverà in cambio 75 000 dollari (37 500 alla firma del contratto, pagati il 24 ottobre, il resto alla consegna): con le ulteriori revisioni il compenso potrà salire fino a 125 000 dollari, piú una percentuale sugli

incassi, se il film, anzi, i film saranno effettivamente realizzati. Poi, con la nuova fidanzata, parte per l’Italia. In quel momento, Mailer è il letterato americano piú popolare e discusso. È l’erede di Hemingway, il macho forse omofobo e a forte sospetto di misoginia, l’unico contemporaneo che sembra scrivere come vive e vivere ciò che scrive. Lo scrittore che ha fatto la guerra e ne ha tratto il suo primo e migliore romanzo (Il nudo e il morto), lo scrittore che ama il whisky, la boxe e le storie dei pugili, lo scrittore che ha accoltellato la moglie e si è candidato a sindaco di New York. Lo scrittore che non pubblica un romanzo dal 1967. Con gli italiani entra in contatto grazie a Mickey Knox, che ha tradotto in inglese i dialoghi del Buono, il brutto, il cattivo e di C’era una volta il West. Knox e Mailer sono stati anche cognati per buona parte degli anni Cinquanta, avendo sposato due sorelle, Adele e Joan Morales. È sull’auto di Knox che nel novembre del 1960 Mailer arriva all’ospedale in cui è ricoverata la moglie – Adele, appunto – da lui ferita al petto e alla schiena con un coltellino. La polizia è lí ad aspettarlo, e lo arresta: l’incidente mette fine al secondo matrimonio di Mailer ma non all’amicizia con Knox. Mickey Knox, che in realtà di nome fa Abraham, è ebreo come Mailer, è di due anni piú vecchio, essendo nato nel 1921, e come lui è cresciuto a Brooklyn, anche se si sono incontrati sul finire degli anni Quaranta a Hollywood, dove Knox fa l’attore e Mailer tenta la strada della scrittura per il cinema. Poi i cacciatori di streghe si mettono sulle tracce di Knox, che se ne va in Francia e da lí in Italia. E Mailer torna a New York. Quando arrivano a Roma, Norris e Norman alloggiano all’Eur, a due passi dagli uffici della società di produzione di Sergio Leone. Mailer ci va ogni giorno, puntuale come un impiegato, a discutere con il regista e a scrivere. Michela Prodan, una giovane amica di Mickey Knox, romana con origini americane, traduce, fa da interprete e scrive a macchina per Mailer. Norris esce poco dall’hotel, spaventata dalla città in cui hanno appena ammazzato Pier Paolo Pasolini, va in centro solo per visitare il Caffè Greco, in via Condotti, dove

spera di incontrare Giorgio de Chirico. La sera cenano sempre con Mickey e la sua nuova compagna Carol, che abitano in via Gregoriana, a due passi da piazza di Spagna. Dopo un paio di settimane, d’accordo con Grimaldi, si trasferiscono all’Hotel de la Ville, in via Sistina, alla sommità della scalinata di Trinità dei Monti. Ora Mailer scrive piú spesso in camera e va all’Eur di rado, solo quando deve vedere Leone. Lei invece gira per la città: Lisette Lenzi, che gestisce un salone di bellezza nei pressi dell’hotel, la convince a farsi fotografare per il catalogo delle nuove acconciature. Tornata a New York, porterà quegli scatti a un’importante agenzia di modelle, che la prenderà con sé. Quando li mostrano a Leone, lui pensa che si candidi per il film, e non dice di no. Anzi, chiude le foto in un cassetto e li ringrazia. Sul retro della lista della biancheria dell’Hotel de Ville, Mailer si appunta i titoli dei libri che gli serviranno per completare il lavoro: «Costano tutti meno di 15 dollari», annota. The Rise of David Levinsky e The Education of Abraham Cahan di Abraham Cahan, il padre della letteratura ebraico-americana; le memorie di M. E. Ravage, An American in the Making, uscite nel 1917; Ebrei senza denaro di Michael Gold; The Big Bankroll, in cui il reporter Leo Katcher racconta la vita del mafioso ebreo Arnold Rothstein; Gangs of New York di Herbert Asbury; l’autobiografia di Eddie Cantor. Infine, due capolavori della letteratura d’immigrazione, Haunch, Paunch and Jowl di Samuel Ornitz e Chiamalo sonno di Henry Roth. Evidentemente il nipote del rabbino non ufficiale della comunità di Long Branch, nel New Jersey, deve ripassare la storia della comunità ebraica in America alla fine dell’Ottocento e i romanzi che la raccontano. «Non sono un tipico ebreo, ho trascorso l’infanzia a rifiutare di esserlo», dirà Mailer a Marie Brenner che lo intervista nel 1983 per il settimanale «New York»: chissà se quei libri vuole averli a disposizione, per consultarli, oppure deve leggerli per la prima volta. Hanno tutti molto a che fare con il Lower East Side, tra l’altro. Leone ama essere preciso, nei riferimenti alla storia e alla geografia, e Mailer non è da meno: cerca negli archivi

della rivista «Billboard» le canzoni piú popolari negli Usa negli anni che lo interessano, i Venti, i Trenta, i Settanta, e richiede il libro American Popular Songs, uscito nel 1966. Per il 1924 annota: Amapola. A Roma Mailer scrive una storia – ispirata a The Hoods e alle indicazioni di Leone – con due protagonisti: Teivl, che tutti chiamano Tiger, e Max. È una storia di immigrati, non di gangster. Inizia cosí: Prima che il film cominci, quando in sala è ancora buio, sentiamo il suono insistente di un telefono.

Smette,

tace

per

trenta

secondi,

un

minuto, e poi riprende. Nessuno risponde, e il suono rimane sullo sfondo delle scene che seguono. Ora sullo schermo c’è una luce, poi foschia. Vediamo un barcone che emerge dalla nebbia e si avvicina lentamente, sulle acque di New York, in una giornata grigia.

Dall’imbarcazione e dai vestiti indossati dalle persone che ne scendono, capiamo di essere alla fine dell’Ottocento. Sono immigrati, poveri, probabilmente dell’Europa dell’Est. Si stringe su un ragazzo, 14, 15 anni, di cui vediamo il volto, lo sguardo malizioso e furbo, e poi perfino i ricordi. Recentissimi, la visita medica sommaria e umiliante subita a Ellis Island, e un po’ meno recenti, il viaggio in terza classe, anzi, nella stiva della nave. Rumori assordanti, odori disgustosi, conati di vomito. Poi, ancora piú indietro nel tempo, l’addio alla madre nello shtetl: «Prega Iddio di non vedermi mai piú», gli dice lei nel momento dell’addio. E il telefono continua a squillare. Il ragazzo scompare nelle strade di New York e noi saltiamo in avanti nel tempo: da un camion, un modello del 1920, scendono due ragazzi, Max e Tiger. Tiger ricorda il ragazzo che abbiamo visto arrivare in America, potrebbe essere suo figlio: ha un coltello, lo pulisce dal sangue, lo mette via. Poi con Max spinge il camion nel mare. La macchina da

presa lo segue e si immerge nelle acque del porto con il camion. Vediamo uscire dal portellone posteriore lenzuola e federe che fluttuano, poi uno scheletro umano con i piedi in un blocco di cemento, slot machine e mitragliatori Thompson, un carrello da supermercato e una pianola, una Packard del 1930, una cassaforte sventrata, una Rolls-Royce con tre cadaveri, uno al volante e due che sembrano gangster sui sedili posteriori. Mentre la macchina da presa si muove nel cimitero subacqueo e dopo, quando vediamo i gabbiani e i titoli di testa scorrere sullo schermo, è in corso una conversazione telefonica. Non vediamo chi parla, ma sentiamo un nome, Teivl, o Tiger. Una voce dice che lí non c’è nessuno con quel nome, che lui si chiama Thomas Di Angelo, l’altra gli intima di andare subito a New York. I titoli di testa finiscono. La visione del cimitero subacqueo va in dissolvenza. Nei panni di Thomas Di Angelo, Teivl visita la tomba di colei che immaginiamo essere sua moglie, Eve Di Angelo. Stacco sulle strade miserabili e affollate del vecchio Lower East Side. Stacco sul nostro eroe che fa il numero di chi l’ha appena chiamato e ammette di essere Teivl. Dice che sarà a New York tra una settimana, va alle pompe funebri di cui è proprietario e avvisa il socio che se ne deve andare. Se non farà ritorno, le pompe funebri saranno tutte sue, gli promette. E si mette in viaggio: quasi si addormenta alla guida, per poco non esce di strada, e le immagini della sua vita passata gli esplodono in testa. Un furgone pieno di biancheria che finisce in acqua, un casinò dato alle fiamme, una ragazza da lui violentata, Big Max… Riprende il volante, ora un’immagine del Lower East Side invade lo schermo. La sera di mercoledí 19 novembre 1975 Mailer manda a Leone le prime 186 pagine dettate a Michela Prodan e una lettera di suo pugno: «Caro Sergio, sono arrivato al punto della sceneggiatura a cui volevo arrivare prima di ripartire per New York». Ha scritto un’altra scena, che non include, quella in cui Teivl, che lui preferisce chiamare Tiger, si confronta con suo fratello, il giornalista, che non approva la scelta di vivere fuori e contro la legge. Spunto interessante: chi è il vero perdente?

Ma prima dovrà ricordarsi di inserire la sottotrama riguardante l’affare del casinò, quella che coinvolge il grande boss Frank, il poliziotto Whitey Crowning e perfino Peggy, che verrà usata come esca per catturare Crowning: «E qui seguirò la tua indicazione, quella di piazzargli una pistola nella schiena e di obbligarlo ad avere un orgasmo in quelle circostanze. È inutile aggiungere che non mi dimenticherò delle bruciature di sigaretta. Whitey rimarrà segnato per sempre dall’esperienza, in molti sensi, e il casinò verrà dato alle fiamme. Ma lui sopravvivrà, e diventerà il genio maligno della mafia nella parte seconda del film». A quel punto arriverà la scena dei due fratelli, dopo la quale sarà Max a conquistarsi il centro della ribalta. L’incontro con Betty, la complice nella rapina che si eccita con la violenza, che ora è la sua donna, cambierà per sempre il vecchio amico di Teivl: «Per la prima volta nella vita, verrà trascinato dalla passione, dal sesso. La banda comincerà ad autodistruggersi». E infine la sezione con Teivl anziano, che prevede una rivelazione (è Crowning che l’ha chiamato, e il suo piano è che Teivl uccida per lui il sindacalista Jimmy) e una deviazione (il piano viene sospeso, il vecchio e la ragazza vanno in Florida a visitare la tomba di Eve): «E qui può finalmente iniziare la Disneyland della parte seconda». Al momento per concludere la storia Mailer ha poco o nulla, ma preferisce cosí: «Le idee migliori per dare una svolta mi vengono mentre scrivo, e non sono assolutamente preoccupato di non trovare soluzioni soddisfacenti. Mi pare di averle quasi tutte in testa. Per la parte seconda, tra l’altro, vedo la possibilità di dare spazio alle vicende piú antiche, che potremmo spostare piú avanti, e ai dialoghi di Max e degli altri sotto l’effetto dell’oppio, alle scene piú fantasiose e alle idee piú folli di Max e Betty. Ma ne possiamo parlare domani. Anzi, sarebbe meglio parlarne domani». Il giorno dopo, si vedono all’Eur. Parlano, anzi, parla quasi solo Leone. Gli dice che non è per nulla felice della direzione che ha preso. Gli chiede di fermare tutto, di non andare avanti con il lavoro almeno fino a gennaio, quando lui ha in

programma un viaggio a New York. Gli parla di altri film, gli spiega come potrebbero ispirarlo, come rubare qualche dettaglio, qua e là, gli confessa di non avere ancora le idee chiare su molti aspetti e personaggi. Probabilmente ne inserirà di nuovi. Mailer rimane interdetto, non replica, sospetta che Leone non abbia letto ciò che gli ha mandato, neppure la lettera che accompagnava il materiale. Sente l’odore acre di una trappola, abbozza. Mailer e Norris tornano in America in tempo per il Giorno del Ringraziamento, che quell’anno cade il 27 novembre. Appena atterrato a New York, lui parla con il suo agente Scott Meredith, che a sua volta chiama Ronald Taft, uno dei soci dello studio legale che rappresenta la Pea e Alberto Grimaldi in America. Che cosa sia davvero successo a Roma, Mailer non riesce a capirlo. Forse c’è qualcosa di personale: la parte iniziale del trattamento, quella che ha scritto prima di andare a Roma, agli italiani è piaciuta, o almeno cosí gli hanno detto. Arriva perfino a pensare che le foto di Norris mostrate a Leone abbiano indisposto l’umorale regista italiano. Chi ha letto la sua storia dice che ci sono troppi salti in avanti e all’indietro nel tempo, che il pubblico potrebbe non capirci nulla, e che alcune scene sono troppo forti, violente, ben oltre i limiti del buongusto. Ma lui sa di aver seguito fino in fondo le indicazioni di Leone, ha la coscienza a posto. Dopo aver chiamato Roma, Taft dice a Meredith che non solo Leone non è soddisfatto, la situazione è molto piú grave: il materiale consegnato da Mailer fa schifo, è completamente inutilizzabile. Lo scrittore, d’altra parte, in Italia ha pensato soprattutto a «scopare» e a fare il turista. Le parole sono queste, piú o meno, l’avvocato e l’agente sono uomini di mondo, sanno bene che quando non si vuole rispettare un contratto non si va troppo per il sottile. Chiedono di avere tutto ciò che ha scritto Mailer e Mailer pretende che abbiano anche lo schema delle scene abbozzate dallo sceneggiatore italiano Enrico Medioli, il canovaccio su cui lui ha lavorato, per dimostrare che le idee piú forti e discutibili non sono sue. Michela Prodan lo traduce e il 20 dicembre lo consegna a Eli

Wallach, in partenza per New York dall’aeroporto di Roma. Wallach, Tuco, il brutto del Buono, il brutto, il cattivo, fa avere i testi a Mailer e ai suoi agenti. Quando l’avvocato di Grimaldi riceve anche questo materiale, il muro si alza di qualche metro: Taft salva le prime 14 pagine, quelle scritte ancora in America, ma il resto gli pare senza gusto e poco professionale. «Avrebbe potuto scriverlo il mio figlio minore», aggiunge. È il punto di non ritorno, è chiaro che il film, se mai si farà, non sarà firmato da Mailer. Ora si parla esclusivamente di soldi: l’agente cerca di estorcere a Taft, e attraverso di lui a Grimaldi, la promessa che gli altri 37 500 dollari saranno versati alla consegna della sceneggiatura. Ok, a una condizione: che il lavoro sia «all’altezza dei piú alti standard della professione», qualunque cosa ciò possa significare. Il 17 gennaio 1976, come da contratto, la sceneggiatura firmata da Norman Mailer arriva nell’ufficio newyorkese della Pea di Grimaldi. Le due sezioni, battute a macchina, rilegate, hanno titoli che sono anche nomi, si chiamano «Big Max» e «Tiger Ace», la durata stimata di entrambe è intorno alle due ore e venti. La prima si concentra soprattutto sull’infanzia di Teivl e Max, sulla scoperta del sesso e di un’amicizia rinsaldata dalla violenza, sullo sfondo dei palazzoni del Lower East Side. L’altra racconta il ritorno di Teivl, convocato a New York da una misteriosa telefonata. Anche in questa parte i flashback sono numerosi, tenuti insieme dal viaggio dallo Iowa alla città da cui manca da quarant’anni. E poi il colpo di scena finale, con Teivl che prima tenta di violentare Dolores, l’amore della sua vita, poi accetta i soldi del sindacalista Jimmy, che di Dolores è il fratello, per far fuori il poliziotto Crowning. Esegue la commissione, poi fugge nascosto da una maschera che lui stesso ha costruito e che ritrae la sua vittima. È in salvo? Non proprio, Teivl uccide anche Jimmy, fugge (di nuovo) dall’ufficio di questi camminando su un cornicione, sale in auto e finisce per morire nello stesso mare che avevamo visto all’inizio di questa seconda parte, in quel punto della

Baia di New York che funge da cimitero non ufficiale della criminalità piú o meno organizzata. Un gran pasticcio, un’improbabile carnevalata, forse neppure scritta da Mailer, almeno non la seconda parte. Da almeno un paio di mesi, del resto, sa che Leone non ha alcuna intenzione di utilizzare la sua sceneggiatura, se mai l’ha avuta. Solo Medioli – che intanto sta lavorando per Leone a Roma – e il produttore Grimaldi leggono i testi di Mailer, che giudicano pessimi. Il 18 gennaio, il giorno dopo la scadenza contrattuale – e la coincidenza è talmente singolare da non sembrare casuale –, sul «New York Times» della domenica appare un articolo in cui Josh Greenfeld, che ha appena scritto Harry & Tonto con Paul Mazursky, si esercita sulle differenze tra la scrittura letteraria e quella per il cinema. «Qualche giorno fa, – racconta Greenfeld, – è venuto a trovarmi qui a Los Angeles il rappresentante di un produttore italiano. “Come lei avrà letto sulla stampa specializzata”, mi ha detto, “stiamo lavorando al progetto Vita di un Gangster Americano. Avevamo chiesto a Norman Mailer di scrivere la sceneggiatura, ma non ha funzionato”». Greenfeld racconta di aver consigliato al rappresentante del produttore un paio di scrittori, solo per ottenere la risposta: «Oh no, questa volta vogliamo uno sceneggiatore. Con i romanzieri abbiamo chiuso». Mailer si infuria, strappa la pagina del «New York Times» e la fa avere al suo avvocato. Servirà quando se ne discuterà in tribunale («Sarà un processo che farà rumore», scrive a Michela Prodan). Alcuni giorni ancora e, il 22 gennaio, il quotidiano francese «France Soir» pubblica un’intervista al regista e sceneggiatore Michel Audiard, brillante dialoghista: «Presto mi occuperò del nuovo film di Sergio Leone, – racconta. – La sceneggiatura è pronta, io scriverò solo i dialoghi di questo grande affresco sull’America dal 1914 ai nostri giorni». Mailer fa mettere anche questo articolo nel dossier Leone. La denuncia farà il suo corso, ma non avrà il rilievo che lo scrittore immagina. Non uscirà piú di qualche notiziola su

«Variety». La vincerà, infine. Ci vorranno anni, e le spese degli avvocati si divoreranno i 37 500 dollari (piú gli interessi) che Grimaldi gli verserà. Ma il suo film, almeno in parte, molti anni dopo si farà. Se qualche punto della trama ricorda Gangs of New York, che Martin Scorsese dirigerà nel 2002, non è una coincidenza. Chiuso il caso Mailer, Grimaldi acquisisce i diritti del libro sulle bande newyorkesi e ne parla con Scorsese. Tanto che ventisei anni dopo, quando Harvey Weinstein tenta di escluderlo dal film, lui può resistere e riesce a ottenere l’unica nomination all’Oscar della sua vita. Per un film ambientato a New York e girato interamente a Cinecittà, vedi gli scherzi del destino (e del cinema).

Un gran fijo de ’na mignotta, praticamente un genio La storia di Claudio Mancini

«No, da ragazzi non ci conoscevamo, Sergio abitava nella parte borghese del quartiere, alle pendici del Gianicolo, viale Glorioso che finisce a Trastevere, lambiva il mio mondo quasi da cowboy. Io a Monteverde, ma nella valle, alle case popolari: tra i due Monteverde c’è una vallata con quelli che chiamavamo i grattacieli, i palazzoni che davano alle famiglie con piú di cinque figli. Ci siamo incontrati dopo, quando lui faceva il terzo aiuto regista su Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, era sveglio, bravo… Aspetta, prima, sul Lupo della Sila. No, sul Brigante Musolino, quando Amedeo Nazzari è sotto processo. Sentivo il segretario di edizione che dava le battute fuori campo. Un tipo secco, con gli occhiali, un diavolo. Noi tutti muscolosi, lui secco. Era Sergio». Claudio Mancini e Sergio Leone diventano amici, si frequentano anche fuori Cinecittà. «Allora lui abitava ai confini con il ghetto, in via Arenula. Dopo poco, però, non ci siamo visti piú, io lavoravo con De Laurentiis, facevo Ulisse, Mambo, La grande guerra, lui cose piú piccole. Poi è passato alla seconda unità in film come Sodoma e Gomorra, era una delle sedici macchine da presa. Sergio era molto legato, quasi come un figlio, a Mario Bonnard. Era il suo aiuto, e siccome Bonnard era avanti con gli anni gli girava pure delle scene. Abitava in un palazzetto in Prati. Ci siamo rivisti in un film che si chiamava Gastone, con Alberto Sordi. Il regista era Bonnard, che nella prima settimana di riprese si è ammalato e Sergio ha continuato, secondo me fino alla fine, anche se lui me l’ha sempre negato. Si vedeva che era spigliato, ha fatto la seconda unità degli Ultimi giorni di Pompei, con uno come Bonnard le seconde unità erano belle grosse, a un certo punto sono diventate tre: Leone, Corbucci e Tessari, c’era tanto lavoro.

«Poi l’ho perso di vista, quando ha fatto Un pugno di dollari aveva pochi soldi, io da capo elettricista ero passato in produzione e stavo con Ponti, facevo Matrimonio all’italiana, C’era una volta di Rosi, film importanti. Ci siamo incontrati di nuovo quando ormai m’ero messo in proprio e lui aveva fatto successo. Con un socio preparavo un film che si chiamava Messico, doveva farlo Tomas Milian nella parte del messicano e il fratello della Vanessa Redgrave, Corin, che doveva essere l’irlandese. Con un produttore e il regista Tonino Cervi, io e il mio socio siamo andati da Sergio che abitava all’Axa, ad Acilia: non c’era niente, solo la sua casa e poche altre, parcheggiava la Maserati in piazza. Abbiamo parlato, aveva letto il copione, mi dice: come state messi? Stiamo messi che abbiamo avuto un anticipo dalla Pac… E lui: facciamolo insieme. «In quel periodo avevo un ufficio in piazza Ungheria dove preparavo Realtà romanzesca, un filmetto, lui stava nel palazzone della Euro International, lí vicino. Lo incontro al bar, gli chiedo: che fai? Sale in ufficio con me, si mette seduto e mi racconta tutto C’era una volta il West. Mi fa pure i rumori delle traversine della ferrovia. Tutto me lo racconta. Finisce, mi guarda negli occhi – mi aveva preso, lo ammetto –, si alza, si allontana e quando arriva alla porta si volta e mi dice: lasciali perdere ’sti stronzi, vieni a lavorare con me. «Ovviamente gli ho detto sí e sono subito partito per Almeria in Spagna, dieci giorni a fare sopralluoghi. I posti di C’era una volta il West non li ha scelti lo scenografo, li ho scelti io. Sergio aveva una massima: il regista prima di tutto si deve fare una bella troupe. Solo dopo cominciava a pensare dove mettere la macchina da presa. Ci teneva alla troupe, anche all’ultimo dei macchinisti, perché lui alla tribú degli indiani faceva anche 38 segni, il macchinista con lui doveva essere un genio musicale, a volte gli metteva la musica sotto mentre giravano. Per C’era una volta il West ho scelto io tutti i posti, pure nella Monument Valley». Mancini ha lavorato a centoventi film, piú o meno. Nel mondo del cinema conosce tutti e tutti lo conoscono. «Ho fatto

l’elettricista, il capo elettricista, il segretario di produzione, il produttore esecutivo, il rappresentante del produttore, l’organizzatore generale e finalmente il produttore. Con Sergio ho fatto pure l’attore, in C’era una volta il West: non dico battute, sono il fratello grande di Armonica, muoio impiccato, mi ammazza Henry Fonda. «Camerini, Coletti, Mattoli quello svelto svelto dei film con Totò, Mastrocinque, Matarazzo, Eduardo… Ho lavorato con tutti. Ho fatto due volte Filumena Marturano, con Eduardo e Titina e poi con De Sica quando è diventato Matrimonio all’italiana, tanti registi ho visto: King Vidor! Poi Ridley Scott, ho fatto tanta pubblicità, sono stato molto amico di Tony Scott. Ma Leone era un’altra cosa. De Sica quando spiegava agli attori come recitare ti faceva impazzire. La scena la faceva meglio di Sophia, meglio di Mastroianni. Come direzione degli attori nessuno era meglio di lui. Poi Elio Petri per le sue cose, Zeffirelli, Rosi, ognuno aveva una dote. Sergio le aveva tutte. Faceva vedere le mosse pure a Henry Fonda. Fonda era una gazzella, non lo poteva imitare nessuno, ma lui lo faceva. Ci riusciva. E tu lo stavi a guardare. «Di tutti i registi che ho conosciuto, nessuno era stacanovista come Sergio. Non arrivava mai in ritardo, andava via per ultimo. Non rompeva mai i coglioni, neanche quando stava male, non faceva mai capricci, era sempre per il lavoro. Perché me ne sono innamorato come di nessun altro? C’era un’intesa speciale. Quando andavo a cercare i posti dove girare era come averlo alle spalle, sapevo perfettamente quello che voleva. Dopo che ho lavorato con lui non è piú stata la stessa cosa. Mai piú. Sergio era un gran lavoratore, un visionario, un grande bugiardo, il che non guasta mai. Sono tutti bugiardi, i registi, piú di tutti Fellini. Ma Sergio era cosí portato a dirigere che pure quando raccontava le barzellette faceva le pause, le facce, i rumori. Non finivano mai. Sergio dava i tempi a tutto. «Per Messico, Sergio ha chiamato Bogdanovich, poi Damiani, abbiamo chiamato tutti quanti fino a che è riuscito ad avere Rod Steiger e James Coburn e gli americani gli hanno

detto: lo fai te il regista. Era diventato un film da un sacco di soldi. Allora Messico, il soggetto, è stato dato a Sergio Donati, che ha fatto un po’ di cambiamenti, ma neppure troppi. Sergio gli parlava e parlava, lui stava zitto. Quando è andato via, gli ho chiesto: ma t’ha capito? Non ha detto una parola! Poi dopo venti giorni è tornato con un copione diverso, ma sempre con l’idea iniziale, sulla prima pagina c’era scritto Giú la testa, coglione. Abbiamo tolto coglione e siamo diventati soci. «Ma quante litigate… E le scommesse! Stavamo a Guadix, in Spagna, un postaccio, non c’era niente, solo un vecchio zuccherificio. Sergio dice: domani manco alle 10 battiamo il ciak. Avevamo una scena di massa, centinaia di comparse. Domani batti il ciak alle otto e mezza, gli dico io. Scommettiamo il Rolex piccolino che hai, quello d’oro? Ho svegliato mezza troupe alle quattro di notte, i primi pullman con la gente dei dintorni sono arrivati alle cinque. Abbiamo fatto il casting simultaneo: arrivavano, passavano da me, guardavo e decidevo, questo può fare il soldato, questo il peone, questo il borghese. Dietro avevo tre tavolini con i miei collaboratori. Soldati, peones, borghesi, gli davano un biglietto e questi andavano in un capannone dove si cambiavano. Alle 7.45 era tutto a posto. Lui arriva alle otto in punto. Prima di iniziare, gli dico solo: dammi l’orologio. È stato un film bellissimo. «L’ho detto, ho lavorato con tutti. Ma da anni tutti mi chiedono solo e sempre di Leone. Leone, Leone, Leone… E fanno bene, se lo merita, perché era un visionario. Però nessuno capisce quanto era bravo davvero. Per esempio, nessuno parla mai della sua genialità in postproduzione. Al montaggio era in grado di rivoltare un film, cambiarlo completamente. Aveva un orecchio speciale per i rumori, per i missaggi. Oggi con dodici turni fanno un film, con Sergio andavi avanti mesi e facevi spesso le due di notte. Però dei suoi film capisci tutto, gli spari, i cavalli, tutto. Era micidiale. I colpi di pistola! Gliel’ha chiesto pure Spielberg, dove li prendeva. Io lo so: i suoi colpi di pistola erano un colpo di pistola sparato dentro l’altro. E la goccia d’acqua sulla testa

del killer all’inizio di C’era una volta il West? Sergio in postproduzione era il massimo, il piú assiduo, geniale, preparato. Poi si ricordava tutto. Mi domando con il monitor, gli effetti speciali e con un computer, con l’Avid, che cosa avrebbe fatto… Chissà, magari si sarebbe sentito castrato. Diceva: senti, c’è una cosa che ho girato, di riserva, che lui aveva la bocca cosí e cosí. E gli altri: ma no, ti sbagli, non l’abbiamo mai fatto… Però poi si trovava, aveva sempre ragione lui. Quando venivano i ragazzi per imparare, io glielo dicevo che era tempo sprecato. Leone è irripetibile. Come è irripetibile Fellini. Poi comunque non ti faceva entrare nella stanza dei bottoni, che era il missaggio. Io ero tra i pochi ammessi e oggi quando parlo di missaggio i registi mi stanno a sentire perché ho imparato da lui. Con Sergio si ricorda la musica, no? Se in un film ci sono 50 M, cioè pezzi musicali, con Sergio ce ne sono 300. E tutti i dialoghi sono scanditi dalla musica. Quando portavo un copione a Sergio, lui diceva sempre: troppi dialoghi. Con Sergio parlano poco gli attori. È tutto nell’altra colonna. Lo vestiva il film, capito? «Aveva una bella voce baritonale, che convinceva gli attori e le attrici a fare quello che voleva lui. Mostrava e spiegava, si faceva capire, anche se il suo inglese era allucinante. A Henry Fonda, che tutti chiamavano Hank, diceva: Hank, when you bev, you spar. You put the pistol in the grembo. In the beginning, diceva sempre: in the beginning… Ma riusciva a farsi capire. Detto alla romana, in senso buono, era un gran fijo de ’na mignotta, praticamente un genio. Poi c’erano volte che lo volevi ammazzare. Te voleva sempre dà ’na sòla, forse perché all’inizio l’avevano fregato alla grande, avrà fatto duemila cause. Magari uno andava a fargli i lavori a casa e lui non lo voleva paga’. Però aveva botte di generosità incredibili. «Una domenica m’ha telefonato: andiamo a vedere un film? Eravamo a Roma, stavamo finendo C’era una volta in America. Andiamo a vedere quello lí, Rambo. Lo danno al Majestic. Tutte canaglie, tutte canottiere, ho detto io. Ma ci siamo andati lo stesso, i bulli romani già si menavano prima ancora di entrare. L’abbiamo visto, siamo usciti. Lui non era

un espansivo, un bacione, un abbraccione, quella volta però mi ha preso sottobraccio e m’ha detto: a Cla’, che pensi, piacerà il nostro?»

QUARTO TEMPO 1975-1977

«Sergio Leone, l’inventore del western all’italiana, è in partenza per New York avendo deciso di tornare a fare il regista con un film di gangster dal titolo C’era una volta l’America». Lo scrive da Roma «e.b.» (probabilmente Ernesto Baldo) sulla «Stampa» del 29 aprile 1977. «Lo ha annunciato durante un ricevimento, organizzato nella sua villa con piscina all’Eur, dove un po’ per l’ambiente e un po’ per la notorietà internazionale degli intervenuti sembrava di essere a un cocktail di Beverly Hills: Frank Capra, Kirk Douglas, Vittorio Gassman, Piero Piccioni, Monica Vitti, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni». Al giornalista, Leone spiega che è il mito che lo interessa, quello dell’America, dei gangster, forse soprattutto del cinema: il suo film vuole essere «polemico, ma pieno di romanticismo». Sarà «la storia del tempo perduto di un vecchio gangster, probabilmente Paul Newman, vista a ritroso dal 1923 a oggi». Il copione è pronto – per questo si festeggia –, ora lo si porterà in America per farlo tradurre «nello slang ebraiconewyorkese» da William Goldman, fresco del suo secondo Oscar. «È un’operazione – dice nell’occasione Enrico Medioli – simile a quella che Leone aveva già fatto con i western. Vedere il mondo dei gangster e della mafia ebraica attraverso l’occhio europeo. Nonostante l’indispensabile collaborazione di Goldman C’era una volta l’America rimarrà un film italiano». Ad aprile 1977 la scrittura del film è dunque completata. Ci sono voluti due anni per arrivare fin qui. Medioli Enrico, Orvieto. Il numero di casa è sull’elenco del telefono. Lo chiamo, mi propone di vederci nella villa in cui vive da piú di vent’anni, al Tamburino. Ci incontriamo in uno

dei primi giorni del 2011, quando lui ha 85 anni (morirà nel 2017). Trascorriamo un pomeriggio nel soggiorno, sul tavolo una sessantina di dvd. «Vede qui? Sono i candidati all’Oscar, voto grazie alla nomination ottenuta con la sceneggiatura della Caduta degli dei. Sa, il denaro per Leone era fatto per essere accumulato, mentre per Visconti si doveva buttare dalla finestra. A New York c’è una strada famosa per i gioiellieri, Leone mi ci portava, insieme salivamo ai primi piani e lui comprava manciate di pietre. Aveva gusto per queste cose, un gusto un po’ alla Shylock. A Visconti, invece, qualcuno prima o poi diceva: signor Conte, in banca non c’è piú un centesimo. Sapeva che qualcuno avrebbe provveduto. O la Erba, o il teatro, o il cinema. Cosí, quando sono finiti i soldi per La caduta degli dei, i produttori hanno messo in moto la grande consorteria ebraica del cinema, sono arrivati ai fratelli Warner, gli hanno fatto vedere La notte dei lunghi coltelli e loro hanno risposto: ok, paghiamo noi. Il film dunque è americano, per quello io voto agli Oscar. È un film della Warner. Abbiamo avuto la nomination per soggetto e sceneggiatura». Medioli è il primo chiamato a scrivere C’era una volta in America, proprio lui che per tutti è lo sceneggiatore di Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, Vaghe stelle dell’Orsa…, La caduta degli dei, Ludwig, Gruppo di famiglia in un interno): Leone gli dice di essere stato molto colpito dalla traduzione e dall’adattamento del Leone d’inverno, con Peter O’Toole e Katharine Hepburn, e di aver pensato a lui per questo. Forse ha pensato di coinvolgere Medioli quando ha saputo del suo lavoro di qualche anno prima (tra il 1969 e il 1970) sulla Recherche – tutto fondato sui flashback, fu abbandonato da Visconti senza spiegazioni –, ma Leone non l’ha ammesso mai. Lo sceneggiatore un po’ si stupisce («Mi sono detto: non sono americano, non sono ebreo, non sono un gangster… Ma soprattutto avevo sempre fatto film con Visconti, con Bolognini, come posso essere d’aiuto?»), ma finge di credergli. E accetta un lavoro che lo occuperà, spesso con un ruolo cruciale, per quasi dieci anni. «Dopo un po’ ho capito che Sergio cercava uno che lo contraddicesse, che gli dicesse no, almeno ogni tanto».

Se c’è una persona, ovviamente dopo Leone, che può essere considerata l’artefice di C’era una volta in America è certamente Enrico Medioli. L’ha costruito e ci ha messo dentro la letteratura. Proust, certo, ma non solo. In omaggio alla sua arte, lascio che sia lui a scrivere il copione del nostro incontro. «Sí, ho letto la sceneggiatura di Norman Mailer. Era pessima, con delle trovate da film horror. Leone penso non l’abbia letta, però l’ha dovuta pagare. Me lo ricordo, Mailer. È apparso per un po’, per pochissimo tempo, è stato uno dei tanti americani, scrittori e sceneggiatori, che sono apparsi e poi non se n’è fatto nulla. Ma, vede, scrivere una sceneggiatura è un altro mestiere, è un’altra grammatica, un’altra sintassi. Mailer era un bravissimo scrittore, i suoi libri sono bellissimi, ma non era fatto per scrivere la sceneggiatura di un film. Poi chissà se l’ha fatta lui? Secondo me l’ha fatta scrivere a qualche ghostwriter. Le ripeto, sono apparsi tanti sceneggiatori americani, bravi, simpatici, ma la verità è che Leone non li voleva. Solo uno è rimasto, si chiamava Stuart Kaminsky, un autore di libri gialli. Leone piú che uno sceneggiatore voleva un traduttore. Kaminsky era bravo, era un ebreo molto puritano, che si scandalizzava quando noi… C’è un punto nella sceneggiatura, quando si parla della Bibbia, del Cantico dei cantici, ora non ricordo neppure se è rimasto nel film: Noodles diceva che aveva delle pulsioni erotiche pensando al Cantico dei cantici, e Kaminsky era scandalizzato. «Io Harry Grey l’ho conosciuto, è venuto da noi. Quando Leone mi ha detto: arriva Grey, ho pensato a Edward G. Robinson, a Humphrey Bogart… Invece era un tipo molto acchittato, con i capelli di quel blu celeste delle signore che giocano a canasta. Le dirò che nel libro c’è anche un personaggio molto ambiguo, di questi gangster, che fa un numero travestito da Shirley Temple. E c’era un’altra scena, molto bella, che piaceva molto a Franco Cristaldi – perché il film ha avuto tanti possibili produttori, e tra questi Cristaldi, Lombardo… –, una scena in un bagno turco, con la nebbia, col vapore, molto misteriosa. È un film pieno di tagli. Comunque, Grey lo incontrai a New York. Avevamo affittato una casa per lavorare. È venuto lui da noi, ero lí con Benvenuti e De

Bernardi e naturalmente Leone, non c’era Franco Ferrini e non c’era Arcalli. Era un grande truffatore, questo signor Grey. Non sa quanto era diverso dall’idea che abbiamo noi dei gangster. Aveva un giacchettino con i riporti ricamati, era silenzioso, parlava pochissimo, non aveva niente di truculento. C’è un film, Il pericolo pubblico n. 1, che è praticamente il libro, ha preso da lí. «Facevamo le sedute di sceneggiatura al mattino, poi a mezzogiorno Leone preparava pentolate di spaghetti. Era piú giovane di me, ma era molto paterno, molto patriarcale. Siamo andati avanti cosí, dal 1975 fino a quando è uscito il film. Naturalmente non ci abbiamo lavorato sempre, perché a un certo punto non c’era piú il produttore. Però Leone partecipava a tutte le sedute di sceneggiatura, il che fa la differenza. Mentre noi si pensava, si scriveva, lui si girava il film in testa. Era l’ultimo regista che pensavo potesse chiamarmi, invece tra noi c’è stata una grande grande grande intesa, è un amico sempre rimpianto, oltre che un regista sempre rimpianto. Poteva essere duro, poteva essere uno schiacciasassi, Leone. Ma uno sceneggiatore diventa un po’ sempre psicanalista del regista, si viene a sapere tutto, anche quello che uno non dice, e se non c’è intesa non si può andare avanti. «Fui convocato nel 1975: aveva tutta la documentazione fotografica, cosí come l’aveva già anche per Leningrado, che avrebbe voluto fare dopo. C’era una volta in America è un film sull’amicizia tradita, dove tutto è inganno. È un film molto pessimista, anche se poi lui… Lui, Sergio, non scriveva, ma è come se lo facesse: alla fine del film, dopo tre ore e 40 minuti di stupri, qualcuno auspicato, qualcuno subito, violenze di ogni genere, morti, lui – è stata un’idea sua, e questo dimostra che grande artista fosse – mette quel sorriso, rimette tutto in questione. È un sorriso vero, oppure è tutto una pipata d’oppio?» Ma la battuta che tutti citano e tutti ricordano… «È mia, ed è un furto, che nessuno riconosce. Da Proust! Longtemps je me suis couché de bonne heure. Sí, quella è mia. Ricordo che quando si parlava della storia, io dicevo: deve essere la ricerca

del tempo perduto di un gangster. Alla fine si scopre che è tutto un inganno, tutto è bugiardo, niente è vero. Il nostro personaggio, quello che è andato a letto presto, passa una vita con il senso di colpa per una cosa che non ha fatto. La struttura cronologica, avanti e indietro nel tempo, c’è sempre stata, la sceneggiatura è nata cosí, la fumeria d’oppio e poi Amapola, il ritorno. Mi diede il libro, lo lessi, ci fu una prima versione fatta con Arcalli, che era il montatore-sceneggiatore di Bernardo Bertolucci, poi subentrarono Benvenuti e De Bernardi. Ci si divideva i blocchi e poi li si rivedeva tutti insieme. Leone era molto cortese, molto gentile. Diceva: fai questo pezzo. Poi lo leggeva e diceva: molto bene, benissimo, e lo buttava nel cestino. Ora ti spiego come lo voglio… Siamo andati avanti per molti anni, sono arrivato che i figli di Leone erano bambini, quando ci siamo lasciati si sposavano. «Una volta da Leone vidi Gérard Depardieu. Ma secondo me lui aveva già in mente De Niro. Leone volle la ragazza nella parte di Deborah, Elizabeth McGovern, che invece De Niro non voleva. Su questo hanno fatto delle grandi liti, lui e Leone. È carina, ma non è quella bellezza folgorante che ci aspettavamo, noi pensavamo a una specie di Elizabeth Taylor giovane. Però è brava, la scena finale nel camerino è bellissima. Leone era molto ostinato su di lei, non so dove l’avesse vista prima, forse in Ragtime. Ha fatto un gran lavoro Gabriella Pescucci per i costumi. E poi la colonna sonora di Ennio Morricone è meravigliosa. Ho visto un primo montaggio del film, ce n’era molta di musica, troppa. È come se tu non credessi nelle immagini, dissi a Leone. Mi dispiace che nel film non si veda abbastanza quello strumento, il flauto di Pan, che invece si sente. Non si vedono mai i ragazzi che lo suonano, se non in campo lungo, quando arriva la carrozza e Max e Noodles si incontrano. È importantissimo. Anche nella tomba, il motivo che si sente è quello. È la petite phrase. «Io C’era una volta in America l’ho molto approvato, già vedendo i giornalieri. Che potesse diventare una pietra miliare del cinema noi sceneggiatori non ce ne rendevamo conto, forse neanche Leone. Ma quello che gli dicevamo sempre, mentre lo

scrivevamo, è che era la piú bella sceneggiatura di tutti i suoi film. E lui rispondeva: è vero. È stato appassionante scriverlo. Siamo andati a New York piú d’una volta, anche in Canada, abbiamo fatto sopralluoghi. Il posto in cui muore Dominic – “Sono inciampato!” – l’avevamo visto. Anche quella è una grande battuta, memorabile, l’ha scritta Benvenuti. Un’altra cosa sua e di De Bernardi, che a me piace tanto, è la storia della charlotte russa, il ragazzino che la mangia invece di darla alla ragazzina per un po’ di sesso. Mi ricordo che quando l’abbiamo vista a casa sua, nella sala sotterranea, ho esclamato: questa scena, per come è scritta e girata, è degna di Charlie Chaplin. A Cannes ha avuto l’applauso a scena aperta. Con Benvenuti e De Bernardi l’intesa è venuta col tempo. Loro avevano lavorato a un altro tipo di cinema, la commedia all’italiana, e qui si sono occupati delle scene dell’infanzia. La stesura del film l’ho fatta molto io, tutta la parte sulla fumeria d’oppio, anche cose che non ci sono piú, come il bagno turco, il cimitero, Deborah che fa Cleopatra a teatro. Ci tenevo tanto che lei apparisse dal buio. È il passato che torna, lei è l’unica che non è invecchiata e nell’affiche alle sue spalle c’è la citazione di Shakespeare: Age cannot wither her nor custom stale her infinite variety, “L’età non può appassirla, né l’abitudine guastare la sua infinita varietà”. Si è molto dibattuto se prendere due attori per fare Noodles giovane e poi vecchio. Grazie al cielo invece no, è rimasto De Niro. Il trucco è perfetto, credibilissimo. La frase di Shakespeare è lí per giustificare il non cambiamento di Deborah. Lui la cita, infatti. Dice: “Non sei cambiata”. È tutta un’invenzione, un sogno dell’oppio? È bello quando lui la vede ballare, bambina, Amapola. È proprio bello. Lí mi ero molto documentato perché non volevo che ci fosse un anacronismo. Amapola l’ho scelta io. Poi c’erano delle scene con il padre di Noodles, scritte da Benvenuti e De Bernardi, che erano marcatamente ebraiche. E la sinagoga del cimitero smantellato che nel film non c’è piú. Come quella scena, che mi piaceva tanto, nel bagno turco. Era molto metaforica, si sentiva una voce ma non si vedeva chi parlava, era Max che l’aveva guidato lí in modo subdolo. C’era fumo, vapore. Una bella scena. Sa cosa posso

dire? Che è stato un lavoro massacrante. Ci sono film assassini, secondo me Sergio è morto di C’era una volta in America. Sei mesi a Cinecittà a 40 gradi, in Canada ce n’erano 30 sotto zero. Ci sono film che costano la vita al regista. Anche Visconti si è ammalato fatalmente di Ludwig. Visconti è morto di Ludwig, Leone di C’era una volta in America». È chiaro che questa volta Leone ha in mente un film diverso da tutti i suoi precedenti. Per anni ha coltivato ipotesi alternative, dai grandi sceneggiatori americani agli scrittori di nome come Sciascia, Mailer. Qualcosa gli dice che quella imboccata con Medioli è la strada giusta. Dello storico collaboratore di Luchino Visconti gli interessano la cultura letteraria solida, soprattutto per quanto riguarda i classici di lingua inglese e francese, studiati intensamente da ragazzo a Cortina e in sanatorio a Davos, per curare la tubercolosi («Non so il tedesco, purtroppo, è una delle mie tante manchevolezze. Non ho problemi a leggere il francese, lo parlo con disinvoltura, non mi azzardo a scriverlo, con tutti quegli accenti mentre l’inglese sí», mi racconterà Medioli), e la capacità ampiamente riconosciuta di scrivere film grandiosi e introspettivi al tempo stesso. Medioli porta con sé Proust e la Recherche, William Shakespeare e Antonio e Cleopatra, la tragedia dell’ambiguità, dell’amore e del potere, con un po’ di Grande Gatsby sempre in testa. Gli anni sono quelli, in fondo. Leone incarica Angelo Novi, il fotografo di scena, della ricerca iconografica. Centinaia di immagini raccolte in faldoni, con le foto inserite una per una in un cartoncino nero, che ritraggono i gangster e la vita dell’epoca a New York, i costumi e il quartiere ebraico. «Leone, – ricorda Medioli, – se le guardava come le figurine. Lí c’era già il film. A differenza di tanti altri registi, Sergio pensava per immagini». Poi chiama Franco Arcalli, per tutti Kim, grazie al suggerimento di Grimaldi, che era stato il produttore di Ultimo tango a Parigi, scritto (con Bertolucci) e montato da Arcalli. Anzi, circola la voce che una vicenda simile a quella del film l’abbia avuto come protagonista reale e che il personaggio di Marlon Brando sia ricalcato su di lui. «Grimaldi ha detto a Leone: “Cosa

diresti se Kim…” E Leone: “Non chiedo di meglio”» è il ricordo di Medioli. Persona notevolissima, Kim Arcalli, partigiano a Venezia, cineasta autodidatta, partito come attore, poi affermatosi con i primi film di Tinto Brass per cui cura montaggio e sceneggiatura. È un talento unico. Il suo genio sta tutto nel montaggio, il Sacro Graal dello specifico cinematografico, nel suo caso tanto sofisticato da diventare a tutti gli effetti sceneggiatura. Arcalli ha subito un’idea decisiva: «Direi che il perno centrale del film è di Kim, ed è un’idea ammirevole, e che assomiglia molto a Kim, perché Kim era anche questo», dice Medioli nel 1980, quando Arcalli è morto da due anni e si organizza un convegno per ricordarlo (e che il film si faccia non è per nulla certo). Arcalli ha quell’idea, semplice e fondamentale: è Max stesso che richiama Noodles perché lo uccida, un suicidio per mano dell’ex migliore amico che dà tutto un altro senso (e spessore) all’intreccio e ai personaggi, un twist narrativo che sposta la storia su un livello mitologico, psicologico, tragico del tutto diverso. Il ritorno a New York, sulla scena del crimine, non è un viaggio piú o meno nostalgico nel passato, ma un regolamento di conti con se stessi. Ancora Medioli: «Il lavoro di Kim andava avanti per ore. Veniva qui, a casa mia, si facevano delle bevutine. Si parlava del film, dava delle idee di sceneggiatura. Kim non scriveva, parlava». E poi: «Ci sono piani differenti di racconto, far comunicare tutti questi piani in un lavoro di montaggio narrativo era ciò che cercavamo di fare e ciò che Leone pensava di ottenere da noi. Una costruzione a flashback, ma non il solito flashback. Erano i tre tempi che si sovrapponevano, non era un solo ritornare a un certo momento. E questa struttura era nelle linee generali il perno ideato da Kim». Flashback e flashforward, in questo caso, sono termini riduttivi. Qui c’è qualcosa di piú e di diverso. Qualcosa di nuovo.

Il film si immerge completamente nella tradizione del cinema americano e nella sua struttura in tre atti (introduzione, cioè l’infanzia; confronto e scontro, ovvero la giovinezza; risoluzione della crisi, vecchiaia) ma la stravolge, in una certa misura la nega, la supera. Il passato è nel presente e forse lí c’è già anche il futuro. Ed è cento per cento Arcalli, con Leone che si diverte a inventare transizioni temporali mai viste prima, il treno carico di automobili anni Trenta che via via diventano contemporanee, la mano che tiene stretta una valigetta allora e ora, le case basse che si trasformano in grattacieli. La squadra si amplia, Leone capisce che la parte sull’infanzia dei protagonisti ha bisogno dei toni della commedia ed è questo il momento in cui chiama Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi, che fanno coppia dal 1954, quando riscrivono per il cinema il romanzo Le ragazze di San Frediano di Vasco Pratolini. Prolifici e inseparabili, entrambi toscani, i due lavorano per Zurlini, De Sica, Blasetti, Comencini, Germi, Manfredi e Sordi: in quello stesso 1975 in cui arriva la chiamata di Leone, firmano il primo film della saga di Fantozzi e Amici miei, scritto per Pietro Germi, morto l’anno prima, e poi diretto da Mario Monicelli. Sono i re della commedia italiana anni Settanta, i piú abili a camminare sul filo della risata, in genere piuttosto amara, a volte crudele, senza cadere di sotto, nel vuoto della volgarità. Kim Arcalli presto si ammala (morirà di cancro nel febbraio 1978 e per questo non potrà rispondere alla chiamata di Francis Ford Coppola per Apocalypse Now), vanno avanti in tre, Medioli con Benvenuti e De Bernardi. Si incontrano a casa Leone, all’Eur, o nella residenza centralissima e bellissima di Medioli. Leone parla, racconta, approva e talvolta boccia le idee degli sceneggiatori, Benvenuti e De Bernardi scrivono, soprattutto scrive Medioli. A volte il regista li chiude piú o meno metaforicamente nella stanza: «Non si esce di qui finché qualcuno non tira fuori la battuta giusta». Se la cavano quasi sempre. «Nel film ce n’è una che non siamo riusciti a scrivere, – racconterà poi Piero De Bernardi a Giulio Reale, autore di

un documentario su Leone, – è la risposta alla domanda provocatoria di Max: “È il tuo modo di vendicarti?” Noodles dice: “No, è solo il mio modo di vedere le cose”. Non è male ma non è all’altezza del miglior Leone. Per settimane ne abbiamo cercata una migliore, non è venuta». Medioli scrive in inglese un trattamento, il film in forma di racconto, la linea della storia con i dialoghi piú importanti. C’era una volta l’America diventa C’era una volta in America per differenziarsi da un documentario uscito nel frattempo. Il termine tecnico e un po’ gergale di trattamento per questo lavoro risulta clamorosamente inadeguato. Il racconto, o forse romanzo, rilegato in pelle marrone, si apre con una citazione di Nietzsche («Il criminale è un tipo di uomo forte in ambienti sfavorevoli, l’uomo forte alato») e si chiude con la parola «Time», «Tempo», in maiuscolo proprio come è maiuscola l’ultima parola dell’ultima pagina della Recherche («… dans le Temps»), circostanza di cui Medioli andrà sempre fiero. La storia va avanti per 227 pagine, quando per consuetudine un trattamento hollywoodiano sta tra le quaranta e le ottanta pagine. Ottanta erano le pagine del trattamento di C’era una volta il West al quale avevano lavorato Bernardo Bertolucci e Dario Argento. E già era considerato lungo. Prima ancora di nascere, C’era una volta in America è fuori misura. C’è chi pensa a un film in due episodi. Nell’estate 1974 esce negli Stati Uniti, e qualche mese dopo anche in Italia, il film d’azione con accenti di commedia 99 and 44/100% Dead!, che da noi diventa Attento sicario: Crown è in caccia. Con C’era una volta in America c’entra poco, se non per la scena iniziale, che ricorda molto quella subacquea che Leone va raccontando da tempo. Anzi, è praticamente quella, le somiglia cosí tanto che ora per lui non è piú possibile utilizzarla. Potrebbe essere una coincidenza, ma lo sceneggiatore che firma il film è Robert Dillon, che aveva lavorato alla fine degli anni Cinquanta agli Ultimi giorni di Pompei, di cui Leone era stato il regista non accreditato: Mario Bonnard era malato ed era atteso sul set di Gastone, che sarà il suo penultimo film.

Leone, Medioli, Benvenuti e De Bernardi, con i contributi di Arcalli e Ferrini, si inventano dunque un nuovo incipit e scrivono una storia piena di riferimenti al vecchio cinema, a Proust, a Shakespeare e a Fitzgerald, eppure mai sentita prima. La base di partenza, Mano armata, è solo un ricordo. Tutte le scene del libro che vengono riprese nel trattamento subiscono variazioni non banali, senza eccezioni. Una viene proprio inventata, ed è fondamentale, essendo l’incontro tra Max e Noodles, in strada, da ragazzi: Max si nasconde dietro un carretto, come farà (forse) quando scomparirà dalla vita dell’amico/rivale, nascosto alla vista dal camion della spazzatura. Nel libro, Peggy ragazzina fa sesso con il poliziotto nel sottoscala; i ragazzi li scoprono, minacciano lui e la storia finisce lí. Nel trattamento, tutto accade su un terrazzo, il poliziotto verrà ricattato e con la sua complicità la banda dei ragazzini farà balzi in avanti sulla scala del potere criminale del quartiere, entrerà in conflitto con il piccolo boss Bugsy, e questo porterà alla morte di Dominic e agli otto anni di carcere di Noodles. Gli episodi narrati da Harry Grey ci sono piú o meno tutti, ma ora hanno un prima e un dopo, come vuole la natura profonda del film (Che hai fatto in tutti questi anni?) La charlotte russa, presenza ricorrente nel libro come ingenua metafora di ogni tipo di corruzione, dal pagamento per un po’ di sesso con Peggy alle mazzette per i politici, da Benvenuti e De Bernardi viene trasformata in cheesecake alla fragola e consumata sulle scale dall’impaziente Patsy, evidentemente piú affamato che eccitato da un possibile incontro intimo con la ragazzina. Dolores – nel libro per Noodles un sogno lontano, anche di emancipazione sociale, che lui trasforma in incubo – nel trattamento è molto piú caratterizzata e concreta. È ambiziosa e intelligente, per sua natura superiore a chi le sta intorno, anche a Noodles, che pure legge (tiene nel bagno comune Il conte di Montecristo) e che non le è del tutto indifferente: «Non verrei con te al falò neanche se nel fuoco bruciassi tu», gli dice quando lui la invita alla festa per l’elezione di Calvin Coolidge alla presidenza (è

dunque il 1924). «Mi raccomando, curate le donne, curate le donne», ripeteva Leone nelle sedute di scrittura. «Non devono essere le pupe del gangster». Gli sceneggiatori riportano a casa Noodles nell’esatto momento in cui finiscono di scrivere il trattamento, nel 1977. Dalla morte dei suoi amici e dalla sua fuga sono passati quarantaquattro anni, la storia che il trattamento racconta inizia e finisce la notte del 3 dicembre 1933, l’ultima dell’era del proibizionismo. Noodles

sale

le

strette

scale

sul

retro

che

portano alla fumeria d’oppio, dove lo accoglie la vecchia cinese. Dopo un attimo, già disteso sul materasso, fa un tiro dalla lunga pipa che gli porgono. Tiene a lungo il fumo dentro ai polmoni e poi lo butta fuori

in

spirali

avvolgenti

che

si

allargano

toccando il soffitto. Fumo amaro, che spazza via i ricordi, lo stress, gli errori – e il Tempo.

I blocchi narrativi sono undici, cinque si svolgono negli anni Trenta, pari a 124 pagine; cinque negli anni Settanta, la sezione relativa all’infanzia dei protagonisti è contenuta in un unico blocco. I salti nel tempo sono dieci, le scene 151. La struttura tradizionale in tre atti in un certo senso è rispettata perfettamente: il primo (infanzia) e il terzo atto (vecchiaia) sono lunghi piú o meno la metà del secondo (giovinezza), e tutti sono lunghi il doppio del normale (69-124-61 pagine invece delle canoniche 30-60-30). Sempre tenendo per buono il numero delle pagine, la storia si svolge per il 27 per cento negli anni Venti, per il 49 per cento negli anni Trenta, per il 24 per cento negli anni Settanta. Grimaldi continua, comunque, a non essere soddisfatto. Quando legge il trattamento per intero prende carta e penna e manda una lunga lettera al regista. Il film – scrive il produttore – non potrà mai incontrare il gradimento del pubblico perché il protagonista è «uno stupratore, un violento che uccide senza

motivo, gratuitamente». Inoltre, sarà certamente troppo lungo. Grimaldi, insomma, si tira indietro: non produrrà il film se questa sarà la sceneggiatura. Passa qualche mese, e Leone gli propone di cedere i diritti a un nuovo produttore. Grimaldi accetta, a patto di essere risarcito di tutte le spese fino ad allora sostenute. Intervistato alla radio della Rai, Leone la racconta cosí: «Muoio dalla voglia di fare il film, ma c’è Grimaldi, un mio ex amico, dico ex amico per come si è comportato ultimamente, che mi blocca. Lui non può fare il film per sue ragioni, perché il film è caro e lui ha avuto tante vicissitudini, però non vuole che lo faccia per conto mio. Dopo aver lavorato per due anni al film e aver rifiutato tante proposte. Il rapporto con i produttori è questo, da regista ti trasformi in avvocato. E non essendo bravo come avvocato e avendo contro un avvocato, finisci per soccombere». [Chiara Nano, che da anni lavora a un documentario su Alberto Grimaldi – ne ha presentati dodici minuti a Venezia 2019 – mi ha raccontato che il produttore non sopportava la scena dello stupro a Deborah da parte di Noodles. Le ha detto di averlo fatto presente a Leone piú d’una volta: su quella scena, presente nel libro di Harry Grey, non sono riusciti a trovare un compromesso. Forse era semplicemente impossibile: la scena che Grimaldi voleva tagliare, per Leone era fondamentale. Non è vero – mi ha detto Chiara – che Grimaldi non avesse la disponibilità economica né la voglia di gettarsi nell’impresa produttiva. Era successo che, mentre lui si trovava in America, la sua famiglia era stata sequestrata nella villa all’Eur, rapinata e tenuta in ostaggio per diverse ore. Dopo quel fatto si era trasferito a Miami (venderà poi la villa di via Birmania progettata da Carlo Simi proprio a Leone, che peraltro già abitava lí vicino, in via Nepal) e sviluppò un rifiuto categorico per la violenza nei film, almeno in quelli da lui prodotti. Chiara gli ha chiesto se si fosse mai pentito di non aver lavorato a C’era una volta in America e lui le ha risposto di no, perché Leone ha fatto esattamente il film che lui temeva facesse, con quella scena girata come temeva. Poi però i due

erano tornati a collaborare per Leningrado. Erano diventati ricchi e potenti insieme grazie a Per qualche dollaro in piú e Il buono, il brutto, il cattivo, poi si erano lasciati. Avevano tentato di mettere in piedi C’era una volta in America e si erano lasciati di nuovo. A trent’anni dal primo incontro, sarà la morte di Leone a interrompere il loro ultimo progetto. Spiegazione di Chiara Nano: Grimaldi, come Leone, poteva essere un duro, ma non metteva mai il rapporto sul personale. Non c’era mai astio. Per lui contava la bontà dell’idea e del film che si andava a realizzare].

Sarò per te Don Sergioleone La storia di Sergio Leone

«Non proprio alla Chandler…» «Ah, Chandler». «… ma, insomma, è cosí che vedo i personaggi, piú o meno. Ecco: ironici, cinici. I personaggi vengono fuori per quello che dicono e come lo dicono, soprattutto quello che dicono. Il dialogo deve divertire lo spettatore e chiarirgli la storia, deve seguire le immagini». «Qualcosa di ironico?» «Sí, sí. I personaggi li vedo cosí, ironici, sarcastici». «Ah, curioso che tu prima parlassi dello Iowa. Io vengo di là, ci sono nato, e da bambino giocavo tutto il giorno a Baby Face Nelson e John Dillinger». A 53 anni, Don Petersen ha scritto due film e due testi teatrali che sono finiti a Broadway. Ma per tutti rimarrà sempre colui che scoprí Al Pacino. Al Belasco Theatre, nel 1969, per una quarantina di sere Pacino era stato Bickham, il tossico senza famiglia e senza speranza della commedia di Petersen Does a Tiger Wear a Necktie? Pacino entrava nella storia spalancando la porta a calci, in una scena che gli era valsa il Tony Award quell’anno e subito dopo una chiamata da Francis Ford Coppola, con cui farà Il Padrino e grazie al quale diventerà ciò che è all’inizio degli anni Ottanta: con Robert De Niro, il piú grande attore della sua generazione. Oggi, 24 novembre 1980, all’Essex House, lo storico hotel newyorkese che dà su Central Park, Petersen siede di fronte a Leone, che sta battendo il mondo americano della letteratura, del teatro e della scrittura cinematografica in cerca della persona giusta per scrivere i dialoghi del suo film in inglese e immettere vita e credibilità dentro una storia complicata e paradossale. Con Petersen c’è Anis Nohra, produttore libanese

che ha lavorato molto in Italia e che è artefice dell’incontro. Con Leone c’è Brian Freilino, che traduce. Qualcuno registra l’intero incontro e qualcun altro lo trascriverà, in modo da avere sempre a disposizione le parole di Leone, la storia del film a cui lavora da piú di dieci anni. «Nei dialoghi dovremo mettere anche un po’ di yiddish. Mi chiedevo se tu conoscessi pure un po’…» «Del gergo della mala, di come parlano i gangster?» «No, no. Di yiddish». «Ah, ok. Nessun problema, mia moglie è ebrea». «Solo un tocco, per dargli un po’ di aroma. Alla base di tutto c’è un libro, The Hoods, l’ha scritto un tale Harry Grey, ma non è il suo nome vero. A un certo punto il libro è stato tradotto in italiano, e l’ho letto. È un libro mediocre, scritto male». «Arnon mi ha detto la stessa cosa». «Sí, sí, è scritto male anche in inglese. Il suo vero nome è Harry Goldberg, forse è ancora vivo, perché aveva un po’ piú di settant’anni qualche anno fa. E forse lavora ancora…» «È un gangster?» «Sí, talvolta lo fanno lavorare ancora. Era un uomo di Frank Costello, ha scritto le sue memorie a Sing Sing, anzi, credo che gliel’abbia scritte la moglie. Non credo che sappia scrivere. Ha scritto anche un altro libro, interessante: Call Me Duke, una specie di sequel di The Hoods. Comunque, a me The Hoods interessava per avere una base sulla quale costruire un’altra storia, completamente nuova e del tutto inventata. Ho tenuto solo pezzettini del libro: qualche fatto, i personaggi». «Quanti sono i personaggi? Quattro?» «Anche di piú, ma quelli che contano sono solo due». «Max e Noodles?» «Max e Noodles, e a proposito di nomi strani, abbiamo anche un Fat Moe… È importante che tu legga il libro, dopo il

nostro incontro di oggi. La storia del libro copre una decina d’anni, tra gli anni Venti e i Trenta. Il film, invece, arriva fino al 1968». «Ma Noodles è ancora un gangster nel 1968? So che me lo racconterai dopo. Mi hai già detto che vive isolato nel Midwest». «Te lo dirò solo in presenza del mio avvocato». «Ti appelli al quinto emendamento?» «Certo! Mi appello in continuazione al quinto emendamento. Oppure te ne vai al cinema e ti compri il biglietto… Va bene, dài, non sarò un sonofabitch, te lo racconto tutto, dall’inizio alla fine, tutto intero, tagli compresi. Sarò per te Don Sergioleone. Ma per capire davvero che cosa ti sto per raccontare, e che cosa voglio da te, devi pensare che questo film potrebbe avere anche un sottotitolo. E il sottotitolo sarebbe: C’era una volta un certo tipo di cinema. È un omaggio a un certo modo di fare cinema, alla tradizione del cinema popolare. Al cinema del passato». «Allora, cominciamo…» «La scena si apre in un teatro delle ombre cinesi. Partono i titoli di testa e compaiono due figure, che rappresentano il bene e il male. Ed è il tema del nostro film. L’atmosfera è raccolta, c’è un silenzio assoluto, il pubblico è in religioso silenzio. C’è solo il suono di quegli strumenti metallici…» «Sí, sí, li conosco molto bene». «I titoli vanno avanti per un quarto d’ora almeno, perché sulla scena seguente si devono interrompere. Si fermano e poi ripartono. Siamo nei primi anni Trenta, il pubblico delle ombre cinesi è di poche persone, mezze addormentate. Poveracci. Sullo sfondo si intravedono un paio di uomini, e una donna elegante che forse bazzica i bassifondi per aiutare i poveri, accompagnata da un uomo di bell’aspetto. Intuiamo che è stato un incontro casuale, fortuito. Sentiamo solo il suono della musica quando, improvvisamente, una porta si apre. Ci assale il rumore della strada, un caos che cresce e invade il teatro.

Poco alla volta, mentre da fuori arrivano rumori di ogni genere, ci rendiamo conto che si sta festeggiando la fine del proibizionismo. Tutti quanti sono scesi in strada a celebrare, a ballare, a cantare. A bere. Quattro persone, chiaramente quattro malviventi, quattro gangster – uno di loro sembra alto tre metri – irrompono nel teatro. Non gli importa nulla dello spettacolo, non guardano verso il palcoscenico. Guardano in faccia, uno per uno, gli spettatori delle ombre cinesi. «Aspetta… Spiegati meglio». «Esaminano il pubblico, li guardano in faccia, uno per uno. Si avvicinano a quell’uomo di bell’aspetto che abbiamo visto con la signora elegante. Gli illuminano il volto con un accendino solo per vedere chi è, ma il tipo se la prende e ferma la mano del gangster. Allora il gangster tira via l’accendino e con la stessa mano estrae una pistola, che gli punta proprio sotto il naso… [tutti ridono] … e poi punta la donna, che era stata un po’ spogliata dal ragazzo, e le rimette in ordine il vestito, sempre con la pistola. Non dice una parola, si muove solo cosí… Ma loro rimangono in silenzio, senza parole, come paralizzati. E quando finisce con la donna, se ne va, e si dedica agli altri. «Tutto questo lo vediamo dal punto di vista di una vecchia cinese, una donna che sembra avere cent’anni e che osserva l’intera scena. Poi si volta e si dirige verso una porta che conduce al piano di sopra, a una scaletta. Ci muoviamo con lei, mantenendo sempre il suo punto di vista. Quando lei apre la porta ci accorgiamo che stiamo per entrare in una fumeria d’oppio, che è poi la ragione d’esistenza del teatrino delle ombre cinesi. Dentro, scorgiamo un vasto campionario di umanità, e tutti fumano. Qualcuno indossa uno smoking, c’è pure una bella ragazza che avrà a malapena diciott’anni, borghesi che sembrano appena usciti dall’ufficio. E tutti sono sorvegliati dagli occhi attenti di un cinese alto, magro, secco che si occupa delle pipe dell’oppio, le tiene pulite e fa in modo che siano sempre piene. «La macchina da presa si avvicina sempre piú a un uomo di circa 28 anni, completamente fatto. Al punto che la pipa

dell’oppio è caduta dal suo… E noi seguiamo la pipa che cade su un giornale, sulla prima pagina che lui chiaramente stava leggendo. Sulla prima pagina c’è la foto di tre ragazzi, tre giovani uomini. E in grande, molto in grande, c’è scritto che i tre sono morti in uno scontro con la polizia – che sono i tre ultimi morti dell’era del proibizionismo – e che lo scontro è avvenuto perché sono stati sorpresi a trasportare liquori in città. Ci sono anche i nomi. Il cinese si avvicina all’uomo e gli rimette la pipa in bocca, e in quel momento esatto lui sembra risvegliarsi, come se avesse appena sentito un telefono suonare, un telefono che ovviamente suona solo per lui, nella sua mente, perché il cinese e gli altri non sembrano accorgersene. Il suono è tutto nella sua testa. Lo squillo del telefono sale d’intensità, fino a diventare stridulo, fino a coprire tutti gli altri suoni. Il cinese accende il lume, che è una specie di fiammella in una ciotola di vetro. E noi passiamo da qui, da questa fiammella, a una luce a gas. No, una luce elettrica. È come una mezza sfera, in mezzo alla strada. Una luce stradale». «Un luogo imprecisato alla periferia di New York. Parte il primo flashback, mentre il telefono continua a suonare. Senza smettere mai. I flashback sono a colori, ma in pratica tutti i colori si avvicinano al bianco e al nero. È tutto grigio, nero… C’è la neve, tutto è coperto dalla neve, tutto è bianco. Le persone sono vestite di nero o di grigio. La macchina da presa va su e giú dietro una sorta di sipario fatto di persone, ci gira intorno, non sappiamo di che cosa si tratti. Quando la macchina da presa si ferma dietro le schiene di queste persone, una specie di getto d’acqua sale dal basso, proprio davanti al nostro sguardo. Sembra arrivare da uno di quei camion che puliscono le strade dalla neve. Ci avviciniamo alle persone che stanno intorno a questa cosa che non sappiamo cos’è. L’inquadratura si apre e scopriamo un autocarro, su un passaggio pedonale che attraversa la strada. Due uomini giacciono morti sulla neve, un terzo – completamente carbonizzato – è ancora alla guida dell’autocarro. La polizia prende i corpi e comincia a spostarli sul marciapiede. Li copre con i teli. Quando anche l’ultimo cadavere è coperto, tutto è in

bianco e nero, tranne il sangue, che viene sciacquato dalla strada con un idrante: il sangue che sembrava nero ridiventa rosso man mano che si diluisce nell’acqua. Torniamo indietro all’ultimo dei tre cadaveri coperti dal telo – cut! – taglio su un altro telo, che viene scostato, e sotto il telo appare il cadavere di un vecchio, un sessantenne. È il retro di un negozio di pompe funebri. Questo è il taglio. Solo quando la macchina arretra scopriamo di essere nel fondo di un negozio di onoranze funebri». «Aspetta… Hai detto sullo sfondo?» «Il fondo, il retro di un negozio». «Ah, ok». «Arretrando, scopriamo anche che tre delle quattro persone che sono dentro il negozio delle pompe funebri sono le stesse che abbiamo visto nella fumeria d’oppio e poi morte sulla strada. Sulla prima pagina del giornale i loro volti si riconoscevano chiaramente. Hanno 25, 26 anni. E ora sono pieni di vita. Si avvicinano al corpo che un uomo piú anziano – il becchino – sta preparando per il funerale. Glielo sottraggono, mentre lui lo trucca, per cosí dire, e lo fanno rotolare via su, su…» «Su un carrello da obitorio». «Ecco. Sul carrello, hanno rubato il corpo e il carrello su cui era appoggiato. Ora cominciano a truccare il corpo, in effetti a rovinare il lavoro del becchino. E lui, quello delle pompe funebri, cerca di riprendere possesso del suo cadavere, e anche in questa scena tutto è in bianco e nero, l’unica macchia di colore è il garofano rosso che appuntano al risvolto della giacca del morto. Il tipo piú anziano cerca di strappare il garofano, ma uno dei ragazzi tira fuori gli occhiali da un taschino e li fa indossare al morto. Ora ci rendiamo conto che hanno completato una specie di ritratto di Groucho Marx, che finiscono mettendo un sigaro in bocca al cadavere. Uno dei ragazzi abbraccia il becchino. Lo abbraccia! Il telefono continua a squillare, lui lo abbraccia e comincia a ballare, mentre da lontano si sente arrivare una musica che sale e sale.

Una musica turca. E mentre danzano, il vecchio becchino si trasforma in una bella ragazza…» «E non abbiamo ancora finito i titoli di testa?» «No, sorpreso eh? No, siamo solo al quarto minuto di film». «Sembra di piú». «Ora siamo in uno speakeasy». «Il vecchio si è trasformato?» «È un taglio, è un taglio. Mentre i due ballano nel negozio delle pompe funebri». «Ah, ok». «Uno dei ragazzi balla con una ragazza bellissima, e anche gli altri, con altre belle ragazze, e il tipo che abbiamo visto nella fumeria d’oppio ora attraversa lo speakeasy per andare al bar con una ragazza molto giovane e carina. Non sentiamo che cosa si dicono, ma parlano con grande animazione. Sembrano entrambi molto preoccupati. Ora lui attraversa di nuovo lo speakeasy, che è un’unica grande stanza, apre una porta ed entra in una sorta di ufficio. Si chiude dentro, si dirige verso un tavolo su cui c’è un telefono che suona, e il suono sale e sale ancora. Fa un numero al telefono e con un taglio andiamo su un altro telefono che suona e sentiamo pronunciare il nome di un capitano della polizia e dell’ufficio di cui fa parte, quello che si occupa del contrabbando di alcolici. Vediamo solo la manica dell’uniforme da poliziotto che alza la cornetta. In quel momento il suono del telefono cessa improvvisamente. Taglio, torniamo al ragazzo che fuma, perché quando il telefono smette di suonare torniamo immediatamente…» «Alla fumeria d’oppio». «Al ragazzo. Dovrebbe essere ovvio, a questo punto, che il ragazzo ha denunciato i suoi amici». «Se l’è cantata».

«Se l’è cantata. E quando torniamo nella fumeria d’oppio vediamo i gangster che lo trovano, lo sollevano di peso e lo portano via. È l’alba. Per le strade di New York ci sono le tracce di una festa collettiva, bottiglie, pezzi di carta, è tutto deserto, qua e là c’è un ubriaco che dorme. La macchina da presa gira per la città finché arriva al porto, ed entra in un magazzino che ha le porte spalancate ed è chiaramente un deposito di liquori illegali, con tante casse di whisky e un grande contenitore di benzina. Saliamo lungo il bordo di un grande serbatoio vuoto di carburante vicino al quale vediamo uno dei quattro gangster. Ha in mano un tubo. Davanti a lui – con i piedi nel serbatoio – c’è il ragazzo che abbiamo visto nella fumeria d’oppio, che sentiamo chiamare Noodles. Il gangster accende in continuazione fiammiferi che lascia bruciare un po’ e poi getta via, lontano dal getto di benzina che esce dal tubo. Qua e là cominciamo a sentire brandelli di conversazione. “Noodles, non riusciamo a capire perché hai fatto questo. Perché te la sei cantata ai poliziotti? Pensare che ci sembravi un tipo intelligente… Come hai potuto fare un errore del genere?” E poi: “Guarda, adesso vorrei poter entrare nella tua testa per capire che cosa stai pensando. Immagino di sentire il ticchettio di un orologio, tic tac tic tac. Stai cercando la via d’uscita da questa situazione. Ma è difficile. Molto difficile. Perché l’hai fatto?” «E Noodles finalmente dice qualcosa. “L’ho fatto per una ragione molto semplice. Un milione di dollari. 333 333 dollari a testa, per voi”». «Ah, bellissimo…» «E il gangster dice: “E dove sarebbe questo denaro?” “Nascosto dietro una chiave”, risponde Noodles». «Dietro…?» «Una chiave. E l’altro chiede: “Una chiave? Dov’è?” E intanto accende l’ultimo fiammifero – uno per uno, li ha consumati tutti – mentre alle sue spalle uno dei gangster si avvicina, soffia e lo spegne. “Dagli qualcosa per asciugarsi”, gli dice. Gli danno un paio di vecchi pantaloni, scarpe, lo

rivestono completamente. Gli danno anche un trench. E la scena finisce con uno dei gangster che getta via i vestiti che aveva addosso Noodles. «Taglio allo speakeasy che abbiamo visto nel flashback, che questa volta è completamente vuoto, con le sedie capovolte sui tavoli. Vediamo il proprietario, Fat Moe, eccolo! È un tipo che ha piú o meno l’età del ragazzo della scena precedente. L’avevamo visto nello speakeasy, durante il flashback, ma era poco piú di un’ombra. Ora è fermo nel punto in cui la sera si trova l’orchestra ed è il ritratto della disperazione e del dolore. Tutti i suoi amici sono morti. Quando li vede arrivare nel suo locale – i tre gangster e Noodles, che lui credeva morto – capisce che Noodles sta fingendo che la situazione sia normale e lui ne è completamente sconvolto, non sa piú che cosa pensare. Noodles gli dice solo: “Dacci qualcosa da bere, della riserva speciale”. Fat Moe gli dà del whisky. I quattro bevono, poi Noodles si avvicina al vecchissimo orologio a muro. Ne tira fuori una chiave e cerca di aprire un cassetto in una credenza vicina, chiaramente per guadagnare tempo. «Intuiamo che lui sta aspettando che alle sue spalle accada qualcosa. Sta sudando freddo e prendendo tempo, e finalmente qualcosa accade, perché sentiamo il rumore di un corpo che cade a terra. Lui si volta, e vede che un gangster ha perso i sensi. L’altro sembra preoccupatissimo. Si tiene, si tiene… E corre verso il bagno. Il terzo, quello grande e grosso, sta barcollando. E finalmente cade anche lui. Il primo, quello che era caduto per primo, si rialza. Era quello che gli parlava nel deposito, quello che accendeva i fiammiferi, quello che giocava con il fuoco. Non capisce che diavolo stia succedendo, e intanto Noodles gli si avvicina e gli sputa in faccia il whisky che aveva finto di bere. «E gli dice: “Stai ancora sentendo il mio cervello fare tic tac tic tac?” Il gangster cerca di estrarre la pistola, ma Noodles lo disarma e gli spara. Uccide il gangster. Nel medesimo istante, il gigante alle sue spalle si rialza e lo blocca da dietro. Segue una violentissima colluttazione, mentre Fat Moe, che ha

raccolto a terra la pistola, è andato in bagno ad ammazzare quello che sta vomitando. «Noodles sta per cedere alla forza del gigante, che lo strozza, quando Fat Moe se ne accorge e gli lancia un cavatappi. Noodles lo raccoglie e con il cavatappi apre la faccia del gangster che stava per ucciderlo. Quello urla, e Fat Moe fa fuori anche lui. Sono morti tutti. Allora Fat Moe dice a Noodles: “Ora ti cercheranno ovunque. Hai bisogno di soldi per scappare?” Noodles va all’orologio e ne estrae un’altra chiave. “Ora non ho bisogno di soldi. Ho la mia parte e anche quella degli altri”. E gli mostra la chiave». «Un taglio, e vediamo la chiave che entra in una serratura. Allarghiamo, e vediamo la serratura di un deposito alla stazione dei treni o della metropolitana. Dalla cassetta viene fuori una valigetta da due lire. Lui la apre, e dentro ci sono solo fogli di carta, tutta carta, niente denaro. È molto sorpreso, stupefatto. Prende la valigia, la getta in un cestino dell’immondizia; esce dalla stazione e si avvia a piedi per la città, finché arriva in periferia. Si ferma solo quando incontra un passaggio a livello con le sbarre abbassate. Lí c’è la casetta del guardiano del passaggio a livello, e in lontananza si sente la canzone di un musical degli anni Trenta. Vediamo gente che si prepara al Natale, è la vigilia di Natale. Arriva un camion che ostruisce la visuale, il camion ha decorazioni natalizie e sul fianco porta la scritta: FELICE ANNO NUOVO 1934» . «Un camion di quelli che trasportano carbone?» «Sí, carbone. Noodles si avvicina al guidatore, che è un uomo piú o meno della sua età, con un berretto di lana. Apre il finestrino, e Noodles gli chiede: “Mi darebbe un passaggio? Dove va?” Il camionista lo guarda, sospettoso, esita, ma poi dice ok. Poi non vediamo piú nulla, perché Noodles sale e il finestrino si chiude. Lui è ferito piuttosto gravemente. Sanguina, uno dei gangster l’ha chiaramente colpito. Il camionista tira fuori una bottiglia di whisky e uno straccio e lo disinfetta. Adesso li vediamo attraverso il vetro, ma non sentiamo che cosa si dicono. Mentre parlano, arriva da molto lontano, da Detroit, un treno merci carico di Ford del 1934.

«A proposito, ho appena aggiunto 200 000 dollari al budget». Scoppia una risata collettiva. E Leone riprende. «Noodles guarda intensamente quel treno. Anche noi guardiamo il treno. Vediamo macchine degli anni Trenta. Poi lo sguardo scende alle rotaie e alle ruote del treno, e quando risale scopriamo che il treno trasporta auto americane del 1968. Il treno passa e alle sue spalle non c’è piú la piatta campagna di prima. Ora c’è una città». «Ora cosa?» «Una città. Palazzi. E c’è una lunga fila di auto che attende l’apertura del passaggio a livello. Zoom sulla prima macchina della fila. Alla guida c’è un uomo di cinquant’anni circa, con una cicatrice». A questo punto, Leone comincia a ridere. Poi Petersen capisce e ride pure lui: «Farò finta di non sentire ciò che mi stai per dire». «Ti devo confessare una cosa. Adesso, e solo adesso, appare il titolo del film. Qui se ne vergognano tutti, tranne me». Leone va avanti per ore, non trascura neppure un dettaglio. Noodles torna a New York, trentacinque anni dopo, perché convocato dalla locale sinagoga: il cimitero in cui riposano i suoi vecchi amici verrà smantellato. Ma il rabbino si stupisce, le lettere sono partite molti mesi prima e lui non ha neppure un nome ebreo. I suoi amici sono ormai in un altro cimitero. Noodles va da Fat Moe, che continua a gestire il locale di un tempo. Gli chiede ospitalità, e quando si ritrova nel retro del locale gli sembra di riascoltare Amapola e di rivedere Dolores che danza, un’apparizione che riporta la storia alla sua adolescenza, all’incontro con Max, alla gang dei cinque ragazzini, Max, Noodles, Cockeye, Dominic, Patsy, ai piccoli furti e alle estorsioni, alla lotta con la banda di Bugsy e al patto d’onore: sempre insieme fino a quando avranno un

milione di dollari nella valigetta, il simbolo concreto, il tempio della loro unione. La parte ambientata negli anni Venti è una sezione intera del film, praticamente priva di salti temporali, che si chiude con la morte di Dominic, la vendetta di Noodles che accoltella Bugsy, il suo ingresso in carcere. Quando esce («Dopo un numero imprecisato di anni»), Noodles ritrova la banda molto cambiata, guidata saldamente da Max dietro il paravento di una società di pompe funebri, Krovansky & Co. La storia salta ancora dagli anni Trenta ai Sessanta, segue Noodles al cimitero di lusso in cui sono sepolti gli amici, poi in un deposito bagagli in cui scopre una valigetta quasi uguale a quella di un tempo con 250 000 dollari («Un quarto di milione, la sua parte del bottino») e un biglietto con su scritto: IL TUO COMPENSO PER IL PROSSIMO LAVORO . Ancora un salto all’indietro, negli anni Trenta, fra imprese di crimine, sesso e violenza: la rapina dei diamanti che fa entrare la gang nel giro grosso della mafia, l’incontro di Max con la ninfomane Carol e di Noodles con Eve, la prostituta gentile che cerca di fargli dimenticare Dolores e lo stupro. Max è sempre piú autoritario e strano, forse impazzisce per la sifilide, Noodles – imbeccato da Carol – si convince che l’unico modo per salvarlo e salvarsi è denunciarlo e denunciarsi. Lo fa, chiama la polizia in una scena che si collega direttamente agli squilli che abbiamo ascoltato in apertura, Max lo scopre e lo colpisce alla testa. Noodles sviene. Max se ne va, con gli altri, per l’ultima missione di contrabbando prima della fine del proibizionismo. «C’è un’ambiguità nel rapporto tra i due che non capisco. Che cosa causa quella lotta?» «Ci sono molte cose che non si sono detti, quei due. Potrà sembrarti una storia banale, ma ciò che conta è lo stile del racconto. È… Sono… Come posso dirti? Ricordi del passato che riemergono. Qui c’è un uomo che cerca di recuperare il suo passato. C’è uno scontro che cresce gradualmente tra i due, che però continuano a volersi bene. Poi, piú avanti,

capiremo perché Max agisce cosí. Ma nei fatti hanno semplicemente litigato, è tutto molto plausibile, molto credibile. Hanno uno scontro, e Max colpisce Noodles». «Senza accusarlo di niente?» «No, no, nessuna accusa». «E sarà chiaro che Max è al terzo stadio della sifilide?» «Sí. Sono emotivamente… Tutti e due sono sottoposti a tensioni violente, sono sotto pressione. E c’è anche un sindacalista che è entrato nelle loro vite. Non dimentichiamo che Max sta cercando di convincere Noodles a entrare nell’organizzazione, e Noodles è contrario. Dice sempre di no. Max finge di acconsentire: “Ok, se sei contrario non importa”. Max in realtà ha le idee molto chiare. E poi Noodles tradisce, immaginando però che su quel camion ci sarebbe stato anche lui. Invece, quando Max lo colpisce, lo lascia a terra e se ne va con gli altri, senza di lui. Quando si risveglia, è troppo tardi, gli altri se ne sono andati. Il giorno dopo, scoprirà che c’è stato uno scontro a fuoco tra la polizia e i suoi amici. E cosí si sente doppiamente colpevole, perché si convince che se lui fosse stato là non sarebbe successo niente, avrebbe impedito una reazione violenta da parte di Max. Li avrebbero arrestati, tutto lí. In piú, è evidente a tutti che è lui il traditore. È per questo che arrivano quei gangster, perché tutti pensano che lui abbia parlato. Lo cercano per farlo fuori. E lui non ha scuse». «Con un taglio, torniamo a Noodles sessantenne. Dopo questo flashback, tutto gli diventa chiaro. Va a trovare Carol, la donna di Max, che ora vive in una specie di clinica psichiatrica. Anche lei è mezza pazza». «La donna di Max?» «Sí, ora è vecchia, avrà circa…» «Una cinquantina?» «Cinquantotto anni. Va e scopre che… Sai, Noodles conduce ora una specie di indagine, ricostruisce un pezzo alla volta che cosa è successo veramente. E lo spettatore scopre gradualmente, insieme con Noodles, che cosa è accaduto. La

scena prima dell’ultima, prima del momento in cui lui scopre la vera verità, chi l’ha chiamato, chi ha costruito la tomba, che cosa è successo in tutti questi anni… La scena prima di questa è la scena con Carol, all’ospedale psichiatrico. E ciò che scopre da Carol è che Max gli ha impedito volontariamente di partecipare a quell’ultima missione. Max voleva uccidersi». «Oh oh». «E cosí ha organizzato tutto e ha fatto in modo che Noodles non partecipasse a quel trasporto. Noodles le chiede direttamente: “Quando sei venuta da me per convincermi a tradire Max e a mandarlo in galera, è stata una tua idea?” E lei risponde: “No, era un’idea di Max. Lui voleva aiutarti, voleva che almeno tu ti salvassi. Perché fra tutti, fra tutti gli amici, i cosiddetti amici, l’unico a cui abbia mai voluto bene sei tu. Ha sacrificato gli altri per te, voleva salvarti. Per questo ti ha colpito e fatto svenire, per non farti andare con loro”. Lui guarda fuori dalla finestra dell’ospedale, e vede tutti gli anziani che sono fuori in giardino, poi si volta e dice: “Sei sicura che volesse salvarmi?” Taglio, e siamo su un primo piano di un volto completamente bianco, un trucco teatrale che rende il volto bianchissimo, lo trasforma nella faccia della morte. È Shakespeare, il suicidio di Cleopatra. E chi fa la parte di Cleopatra? Dolores. Che è diventata un’attrice importante. E la scena della morte di Cleopatra nel testo di Shakespeare rispecchia perfettamente lo stato d’animo di Noodles, che è a teatro a vedere Dolores che interpreta Cleopatra. La scena finisce con la sua morte, e mentre il sipario si chiude, lui si avvia verso il camerino». «Max?» «No, Noodles. Si dirige verso il camerino di Dolores. “Ti ho aspettato cosí a lungo”. C’è un bel dialogo tra i due, e lei sostanzialmente gli dice: “Vattene, non ti voltare. È una cosa piú grande di te. Vattene. Se ti volti ancora, diventerai una statua di sale”. Come la moglie di Lot nella Bibbia». «Ah, certo, ok, giusto».

«E ora finalmente… Be’, forse ci vorrà ancora qualche minuto perché lo spettatore capisca davvero tutto. Ora vediamo Noodles nel retro dello speakeasy di Fat Moe. Sta facendo a pezzi le foto sul muro. Moe lo guarda terrorizzato. Cerca di fermarlo, ma lui lo manda via. Quando ha stracciato anche l’ultima foto, raccoglie da terra un giornale e sulla prima pagina c’è la fotografia di una casa, una casa splendida, in stile georgiano, a Long Island. «Noi l’abbiamo già vista quella casa, durante l’investigazione di Noodles, quando lui sta guardando un film in televisione, nel 1968. Gradualmente, nel televisore, passiamo a vedere un giovane sindacalista, 35, 36 anni, che arringa la folla. Dice che i sindacati difendono i lavoratori, hanno le mani pulite, è un giovane Jimmy Hoffa. È una scena molto bella, una scena potente. Lui sta mentendo, chiaramente non è pulito, e noi nella folla vediamo Noodles e gli altri, sono giovani, hanno 25, 26 anni. Sono lí perché stanno aiutando quest’uomo, sono dalla sua parte. Ma si capisce anche che Noodles è affascinato da lui, dal suo richiamo all’onestà, alla pulizia. E mentre assistiamo a questa sorta di comizio, la scena si allarga e noi vediamo entrare nel bar un gruppo di hippy. La voce dalla tv invecchia, cambia, lo zoom finisce e torniamo sullo schermo, dove vediamo lo stesso sindacalista, ora vecchio, ripetere i concetti di sempre: che i sindacati stanno dalla parte dei lavoratori, che sono puliti ecc. Lui poi aggiunge che lo scandalo che sta travolgendo il senatore Bailey non sfiora neppure i sindacati, perché la commissione d’inchiesta del Senato… Mentre parla di questo entrano appunto gli hippy e Noodles, voltandosi, dice a nessuno in particolare, a se stesso, che quello stronzo ripete da quarant’anni le stesse cose e lo insulta. Che dice stupidaggini. Come si può dire in inglese stupidaggini, ma peggio?» «In che senso?» «Qualcosa di stupido, ma con un’espressione molto forte». «Volgare?» «Sí».

«Shithead, testa di cazzo?» «No, non su di lui, su quello che dice…» «Bollocks, balle…» «No, bullshit! Smettila con queste cazzate. Con questa bullshit! Tagliamo allora su Noodles nel 1968, davanti alla tv e con un giornale tra le mani. Sul quale c’è una grande foto della casa del senatore Bailey, quello che deve testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta del Senato. Noodles capisce che c’è un ultimo piccolo dettaglio che lo tiene lontano dalla verità, che deve strappare l’ultimo velo. E cosí arriviamo alla scena con Dolores. Lui è stato da lei, lei gli ha detto di andarsene, di lasciar perdere, e lui è tornato nello speakeasy e ha fatto a pezzi le foto. Poi trova il giornale. Lui fissa la foto in prima pagina, noi stiamo stretti sulla foto che improvvisamente si anima. Siamo davanti alla casa del senatore Bailey, la casa vera. È notte. Carrello all’indietro, Noodles è in piedi di fronte alla casa, in piena notte. Vicino alla casa, su una strada deserta, c’è un camion dell’immondizia fermo, spento, senza guidatore, nessuno. È un oggetto scuro e gigantesco, minaccioso, che non dà alcun segno di vita. Noodles sta fissando la casa attraverso il cancello d’ingresso quando sentiamo il rumore di una motocicletta che si avvicina. La moto si ferma di fronte a lui, scende un ragazzo con il casco che gli copre il volto e gli chiede: “Sei un giornalista, vero? Se vuoi dar fastidio a mio padre e rompere le balle, non venire a farlo qui. Vai a Washington e potrai fare tutto ciò che vuoi. Ma qui no”. E mentre parla, si toglie il casco. È Max, com’era da giovane. Solo che non è biondo, ha i capelli neri. Si tratta infatti dello stesso attore. «Arriva allora una specie di guardiano, che si avvicina ai due e chiede: “Signore, ha bisogno d’aiuto?” E Noodles si paralizza per la sorpresa. Il ragazzo risponde: “No, tutto a posto, il signore se ne sta per andare”. Poi sale in moto e se ne va a casa. Taglio». «Scusa, scusa… Che cosa ha detto il guardiano?»

«Ha detto: quest’uomo la sta disturbando? Ha bisogno d’aiuto?» «Ah, scusa, ha parlato al ragazzo». «Sí, al ragazzo. Il taglio, dicevo, ci porta nel cortile di uno stabilimento, di una fabbrica, pieno di camion. Sono centinaia, e tutti suonano il clacson. Noi li vediamo dall’alto, da uno dei piani alti degli edifici che stanno intorno al cortile. Vediamo quel leader sindacale che abbiamo visto prima e sentiamo il suono di centinaia di clacson. Il sindacalista sta parlando con qualcuno che non vediamo, non riconosciamo. Ne vediamo solo la schiena. E questa è una scena molto importante. È per questo che vogliamo incontrare quella gente, i giornalisti, quelli che sanno tutto della mafia, del rapporto tra mafia e sindacati in America, è un campo molto complicato, molto difficile per noi». «Ora arriva la scena piú importante di tutto il film, quella in cui scopriamo la verità. Ora naturalmente scopriamo che…» «Scopriamo che…» «Che il senatore Bailey è Max. Ancora vivo!» «Oh!» «Non è mai morto. Scopriamo in questa scena che trentacinque anni prima, Max – nella sua astuzia, perché lui è estremamente astuto – aveva compreso che con la fine del proibizionismo non avrebbe piú potuto andare avanti con quella forma semplice di banditismo violento. Il futuro apparteneva al crimine organizzato. Crimine organizzato e pulito. Con l’aiuto dei sindacati e di molte altre istituzioni. Per mezzo di attività di business legittime, dirette dalle attività illegittime. Con l’aiuto anche di quel giovane sindacalista. Cosí ha deciso di uscire dal vecchio business simulando la sua stessa morte. Ecco chi ha preso il milione di dollari. Con quei soldi, si è comprato tutti i camion con cui venivano trasportati illegalmente gli alcolici, diventati improvvisamente del tutto inutili. E con la complicità del sindacato se n’è andato a Ovest, si è cambiato nome e cognome, ha cambiato vita e ha fondato

un impero. A San Francisco ha lavorato per trent’anni come Charlie Bluhdorn per la Gulf & Western ed è diventato ricco, molto, molto ricco. «Se ne va a Ovest con tutto il denaro che ha e con l’aiuto del sindacalista costruisce un impero. Guadagna, prospera, e dopo un po’ di anni, quando pensa che il passato sia ormai definitivamente sepolto – ha cambiato tutto, distrutto ogni possibile prova dei suoi trascorsi da gangster –, si mette al lavoro per fare carriera in politica. Che altro gli rimane da conquistare? Cosí comincia a darsi da fare, sempre con l’aiuto dei sindacalisti che gli finanziano le campagne elettorali, e ha successo anche in questo campo, fino a quando non viene coinvolto in un giro piú grande di lui, un affare che si rivela una fregatura, e che tocca un grande paese del Terzo mondo. E in questa storia lui non solo perde il proprio denaro, tutto quello che ha, ma anche quello dei sindacati. È il crimine definitivo, senza vie di fuga». «Rubare ai propri compari?» «Rubare ai propri compari. Succede che quando in questo paese – non so, potrebbe essere l’Uganda – c’è un cambio di regime, l’affare crolla miseramente, lui perde tutto, lo scandalo viene alla luce e si forma una Commissione davanti alla quale dovrà andare a testimoniare. Lui allora si rende conto che l’organizzazione non gli permetterà mai di testimoniare. Cosí decide, in quel momento, mentre il sipario sta per scendere, come gesto di grande amicizia e di riparazione per il senso di colpa che ha avuto per tutti questi anni, di richiamare il suo vecchio amico e offrirgli la possibilità di vendicarsi. Se proprio deve morire, che sia almeno per mano del suo amico. Gli restituisce la sua parte del malloppo e…» «L’ultimo contratto…» «L’ultima persona da far fuori, che è lui stesso. Per questo decide di finire con i fuochi d’artificio. Organizza una festa a cui invita tutti quelli che contano a New York, e qui vediamo tutti i personaggi come sono nel 1968, a 58, 60 anni. Dolores, Carol, il capo della polizia, il sindaco, ci sono tutti, il

cardinale, il rabbino, il prete, tutti, tutti quelli che contano. Si presentano tutti nella sua splendida casa, che è poi una specie di reggia, e l’ultimo nome sulla lista, aggiunto da lui stesso, è quello di Nathaniel Aaronson. Siamo all’ultimo atto della tragedia. Noodles arriva e nella folla del party incontra subito il figlio del senatore. Lo saluta, il ragazzo gli presenta un po’ di persone e poi gli dice: “Io mi devo scusare con lei, avrei dovuto riconoscerla, mio padre mi ha parlato moltissimo di lei eccetera eccetera. Se vuole parlare con lui, è là, nel suo studio”. Cosí Noodles sale nello studio e qui c’è una grande, grandissima scena tra loro due. E mentre loro si parlano e si dicono le cose che ora ti racconterò, attraverso un sistema di televisione a circuito chiuso vediamo tutti gli invitati al party su un televisore che si trova a metà strada tra l’uno e l’altro. Il passato, è il passato che ritorna, che li cattura entrambi. Si guardano negli occhi a vicenda e Max spiega perché non si è mai fatto vivo in tutti questi anni. Lui lo chiama Noodles, mentre per tutta la scena Noodles non ammetterà mai che l’altro è Max. Noodles piú che altro si assume tutte le colpe, ma alla fine Max gli dice: “Voglio che tu faccia quello che devi fare, verrai pagato per questo, e voglio che tu lo faccia qui e ora. Perché”, e qui c’è la botta finale, “ho preparato tutti i documenti, è tutto pronto. Tu mi devi uccidere. Vai alla finestra, vedi quella porta nel giardino? È la tua via d’uscita, nessuno ti vedrà, te ne andrai indisturbato. Nessuno lo saprà mai. Lo devi fare. Perché hai preso i soldi e anche per la nostra amicizia. Lo devi fare per il tuo amico”. «E Noodles risponde: “Avevo un amico, anni e anni fa. Ma è morto, purtroppo”. Si volta e se ne va. Attraversa il giardino, esce, e quando esce vede la massa gigantesca di un camion dell’immondizia che sembra attendere proprio lui. Passa di fronte alla cabina, ma dentro non c’è nessuno. Si allontana, arriva al fondo della strada, si volta, guarda indietro e lontano lontano, dalla stessa porticina da cui è uscito lui, vede passare Max. Gli sembra che sia Max, ma non è sicuro. Si mette gli occhiali e sí, è Max. E in quel preciso momento, come di sua iniziativa, il camion dell’immondizia si accende e comincia a muoversi, a muoversi, a muoversi. Gli copre cosí la vista di

Max e quando finalmente raggiunge Noodles e lascia libera la visuale, Max non c’è piú. Il camion passa, e ora Noodles lo vede da dietro e vede che il tritarifiuti è in azione. Poi il camion scompare in lontananza, e le luci posteriori si trasformano nei fari di due o tre automobili. E all’improvviso nella notte cominciamo a sentire la musica di una festa. È la festa per la fine del proibizionismo. In queste tre automobili che stanno venendo incontro a Noodles ci sono persone che cantano e che si baciano e fanno festa. Una di loro getta verso Noodles una bottiglia di champagne che va in pezzi proprio davanti a lui. Lui li guarda allontanarsi, loro scompaiono in lontananza, e quando lui gira l’angolo…» «Taglio. Noodles a 28 anni cammina, un po’ brillo, per le strade di Chinatown. Parla con la gente che incontra per strada, ed è gente che festeggia, balla, marinai e anche qualche ragazza che tenta di danzare con lui. Ci rendiamo conto che lui è infastidito, vuole solo andarsene. Quando all’improvviso si trova davanti una porta, si butta dentro. È entrato solo per fuggire dalla folla. Di colpo, ci troviamo nella scala che abbiamo visto all’inizio, quella del teatro cinese, di colpo sentiamo la musica delle ombre cinesi. Va su, su, su, arriva alla fumeria e si distende. E quando è a terra, un uomo, un cinese, gli porta la pipa. E nel momento in cui inizia a buttar giú la prima boccata il fotogramma si congela ed è la fine». «È un’epopea. Davvero». «È un sogno». «Mi è piaciuta molto l’idea di usare il camion dell’immondizia nello stesso modo in cui noi vediamo Max per la prima volta. È molto bello, sai quando lui entra in scena su un carro carico di mobili… e nasconde dietro di sé l’ubriaco. È proprio ciò che accade alla fine, molto bello». «C’era una volta in America…» «Sí, è come un’elegia, cioè, piú che un’elegia una specie di risarcimento per i gangster movie e gli anni Trenta, con tutti quei correlativi oggettivi… Usi tutti gli elementi classici, la ragazza sulla strada di Broadway, la gelosia non omosessuale

tra i due amici e i dettagli classici dei due gangster, tutto viene fuori molto bene». «In ogni momento della storia c’è un accenno al cinema. E quello che tu dici a proposito del finale, a proposito del camion, è l’ultima bugia, la giustificazione di cui ha bisogno per continuare a delirare, a fantasticare. E permette a noi di mantenere il tono fiabesco dell’intero film. È il sogno vuoto di un fumatore d’oppio o è la realtà? È impossibile rispondere, è un film sulla nostalgia e sul rifiuto di guardare in faccia la realtà. Si parte da un cliché, da una situazione classica, ma l’ampiezza e la lunghezza del racconto ci permettono di trasformare i personaggi in miti. Ed è il segreto del successo e della popolarità dei grandi film». «Devo ammettere che mi gira ancora un po’ la testa». «Il piú è fatto, abbiamo trasformato questo trattamento in una sceneggiatura, ma c’è un problema: non sappiamo granché dei complessi rapporti tra la politica e il sindacato qui in America, e questa scena è tutta tua. Per questo sarebbe importante che tu assistessi all’incontro con i giornalisti. Conosci Tom Wicker, vero?» «Sí, vi ho fatto io il suo nome, ma dovrete rinfrescargli la memoria». «Lui e Pete Hamill sarebbero lieti di incontrarci. Stanno entrambi leggendo il trattamento». «Ah, bene, Wicker l’ho incontrato un paio di volte». «Chi andrebbe incontrato per primo?» Il nastro finisce cosí, senza risposta. La trascrizione completa dell’incontro viene inviata a Robert De Niro, che la conserverà per trent’anni nel suo archivio personale.

QUINTO TEMPO 1979-1982

In un universo parallelo, Sergio Leone ha tratto il suo settimo film da Memorie di una maîtresse americana di Nell Kimball, il racconto autobiografico di una tenutaria di bordello morta negli anni Trenta, uscito quasi quarant’anni dopo. In un altro ancora, ha accettato l’offerta della Paramount e ha diretto Il Padrino. Ha detto sí a chi gli proponeva di portare al cinema I quaranta giorni del Mussa Dagh e il genocidio armeno. Oppure ha messo in piedi un film ispirato al Re della mafia di Richard Condon, quello che ha scritto The Manchurian Candidate (Franco Ferrini: «C’era un personaggio che aveva un garage con cinquanta macchine di lusso. Solo su quella immagine Leone avrebbe potuto costruire una grande storia»). Ha seguito il consiglio di Oreste Del Buono e ha sceneggiato Quel diavolo di Beretti («Sangue e alcool a New York» strilla la copertina del libro). O magari Out di Pierre Rey, una storia ambientata tra la mafia americana e le banche svizzere. Aveva già in mente la scena iniziale, immaginata dal punto di vista di un macchinista che entra con il suo treno in stazione. Ha girato finalmente Leningrado, di cui parla dalla fine degli anni Sessanta: è riuscito a far lavorare insieme i grandi nemici, Usa e Urss, per un racconto epico ispirato ai 900 giorni di Harrison Salisbury e quel reporter comunista e americano nella città assediata che è un’invenzione sua e che ricorda John Reed. In un universo parallelo, Sergio Leone ha fatto quel film intimista di cui parla spesso («Tutto ambientato in una stanza»), è dimagrito e ha un cuore nuovo. E a chi lo va a trovare dispensa massime sul cinema e la vita: «Ciò che conta è costruire un mondo diverso, che non è qui e ora. Un mondo vero, che permetta al mito di vivere. Il mito è tutto». Nel nostro universo, invece, Sergio Leone non molla mai la presa su C’era una volta in America. Neanche quando non ci sono i soldi e i produttori se ne vanno. Dopo Génovès e

Grimaldi, che ha ancora i diritti di The Hoods e vuole recuperare quanto ha speso per far scrivere il trattamento, ci prova la Gaumont, diretta in Italia da Renzo Rossellini. L’ho sentito al telefono da Parigi durante il lockdown del 2020. Via mail mi aveva avvisato: «Ho avuto due ictus, non ricordo piú niente, a 78 anni sono un vecchietto smemorato». Ma accetta di parlarne, e i ricordi riaffiorano: «Alberto Grimaldi aveva finanziato la sceneggiatura, era padrone del progetto. Si era accorto che il film sarebbe costato una somma gigantesca, voleva uscirne, ma non voleva rimetterci un centesimo. Proposi a Franco Cristaldi di entrare in società e aiutare Leone insieme. Purtroppo non funzionò, l’impresa era troppo grande per noi, anche perché la coproduzione con la Francia non sarebbe mai avvenuta, la Gaumont non voleva inserirsi in un film cosí. E io avevo la fragilità di rappresentare investitori francesi. Non erano soldi miei, insomma». Rossellini sarebbe andato avanti volentieri, anche per ragioni personali: «Per quanto fosse considerato un regista di western, Leone era l’unico degli italiani che aveva un buon rapporto con mio padre. Lo veniva a trovare spesso, li ho visti insieme tante volte. Veniva a prendere il caffè e a parlare con mio padre della situazione del cinema italiano, del rapporto con la politica. Entrambi pensavano che il governo avrebbe dovuto aiutare il cinema, che era necessario un accordo serio con le televisioni per sostenerlo. Vedevano tutti i problemi della nostra industria, la struttura era debolissima. La storia gli ha dato ragione». Rimane Franco Cristaldi. A Cannes ’79, Leone dice ai giornalisti italiani: «È un film maledetto quello che cerco di realizzare da otto anni senza riuscirci, ma ora lo sento molto vicino nonostante gli accordi non siano ancora conclusi». Il produttore, appunto, dovrebbe essere Cristaldi, che però non può disporre di piú di 12 milioni di dollari, mentre – «nonostante un certo ridimensionamento del progetto» – Leone non riesce a scendere sotto i 15, 16 milioni. «Ma la cosa piú curiosa riguarda i motivi per i quali non si riesce a realizzare questo film. Le grandi case americane non lo

accettano perché dicono che cosí come è scritto è troppo poco americano. Io, d’altro canto, lo vedo con i miei occhi di europeo. E le difficoltà sono conseguenti: il film è troppo caro per essere europeo e troppo poco costoso per essere americano». Troppo europeo. Ecco il punto. Il film non si fa perché mancano i soldi degli americani. Probabilmente, comincia a convincersi Leone, non arriveranno mai. Ora i milioni mancanti li cerca in Svizzera. Qualche mese dopo Cannes, in autunno, a Ginevra incontra Georges-Alain Vuille, che ha appena prodotto Ashanti – con Michael Caine, Peter Ustinov, Kabir Bedi, William Holden, Omar Sharif, soprattutto Beverly Johnson, la prima modella afroamericana mai apparsa sulla copertina di Vogue – e Chiaro di donna di Costa-Gavras, con Yves Montand, Romy Schneider, Romolo Valli. Nato e cresciuto dentro il cinema dei genitori, giovanissimo proprietario di una trentina di sale a Losanna e dintorni, Vuille è un trentenne che pensa in grande, punta alle produzioni internazionali, alle saghe ambientate in paesi esotici e ai cast con i grandi nomi. Il problema è che i soldi non sono suoi, ma della banca francese Paribas, che non è per nulla contenta del mezzo flop di Ashanti e ora pretende 52 milioni di dollari. Vuille ovviamente non li ha: finisce in tribunale per una causa che alcuni anni dopo vincerà, ma intanto deve rinunciare al progetto di Tai-Pan, per cui ha preso i diritti del libro di James Clavell, costruito il set in Iugoslavia e garantito un milione a Steve McQueen, che nel frattempo si è pure ammalato (il film lo farà De Laurentiis nel 1986, e andrà male). Prima di mollare il progetto Tai-Pan le prova tutte: per salvare il film propone a Leone di esserne lui il regista, ma riceve un no. Deve rinunciare anche all’America. Al primo incontro con Vuille è presente anche il francese Yves Gasser, produttore di Jonas che avrà 20 anni nel 2000 di Alain Tanner e Ciao maschio di Marco Ferreri. «All’inizio del 1980, dopo il ritiro di Vuille, – mi ha raccontato Gasser a Nizza quasi quarant’anni dopo, nell’estate 2019, – vado a Roma per affari e incontro di nuovo Leone. Che film avesse in

mente lo sapevo già, l’avevo sentito raccontare quel giorno a Ginevra e naturalmente mi aveva conquistato. Mi propongo, gli dico che posso provare a risolvere i tanti problemi che bloccano il progetto, a partire dalla questione dei diritti, che sono ancora in mano a Grimaldi. Sergio mi dice che sta pensando di usare un altro romanzo, magari Out di Pierre Rey, di cui poi ho preso i diritti io, e ce li ho ancora. Io gli suggerisco di non mollare, torno a Parigi e trovo 10 milioni di franchi, quasi 2 milioni e mezzo di dollari. Me li dà la Amlf, quella che poi diventerà Pathé Cinéma, che si impegna a pagarci un minimo garantito per distribuire il film in Francia. Con questo contratto in tasca, rimettiamo sui binari Il était une fois l’Amérique. A gennaio 1980 siamo già a Montréal a fare sopralluoghi e a incontrare il sindaco. Il budget con cui siamo partiti, cioè 12 milioni di dollari, aumenta sempre perché oltre che in Canada Sergio vuole girare a Parigi, Roma, New York, in Florida… Ora siamo a 18 milioni di dollari, è evidente che è necessario trovare un finanziatore americano. Chiamo Arnon Milchan, che qualche anno prima aveva prodotto con me The Accuser di Jean-Louis Bertuccelli. Gli mando il trattamento, lo legge, è emballé, entusiasta. Organizzo un incontro con Sergio negli uffici di Milchan, a Parigi. Arnon dice che si può puntare a un budget di 30 milioni di dollari e promette che tirerà dentro il suo amico Robert De Niro». Yves Gasser abbandona la scena. È stato un comprimario, ma fondamentale: «Ho lavorato quasi un anno al fianco di Leone, mi sono battuto perché il film si facesse. La mia ricompensa è poter dire di aver aiutato Sergio a realizzare il suo film piú grande». Con 500 000 dollari, che Grimaldi considera un rimborso per le spese fino ad allora sostenute, Arnon Milchan acquista i diritti sul libro di Harry Grey e il copione di C’era una volta in America. C’è un accordo di massima già nella primavera 1980, con un budget complessivo di 22 milioni di dollari. Ne manca piú o meno la metà, che Milchan intende raccogliere sul mercato americano. Leone si dà da fare, in estate viaggia da Roma a Los Angeles per sottoporre i capi degli studios al racconto dettagliato del film che ha girato nella sua mente. Prima sembra che ci stia la 20th Century Fox, ma poi si tira

indietro, e l’accordo infine si trova con la neonata The Ladd Company, società di produzione fondata da alcuni transfughi della 20th Century Fox tra i quali Alan Ladd Jr, figlio del famoso attore di western. I soldi sono della Warner Bros., che finanzia Ladd e i suoi amici con 75 milioni di dollari l’anno: su C’era una volta in America puntano dieci di quei milioni, ottenendo in cambio la distribuzione americana. Nella cifra va compreso anche il compenso per De Niro, che tra ingaggio e diritti su alcuni territori dovrebbe toccare i tre milioni di dollari. Curiosità: in quegli stessi momenti – secondo Charles Champlin che lo riporta sul «Los Angeles Times» a giugno – The Ladd Company sta pensando a un progetto con Bernardo Bertolucci, da girare in Italia, con Ugo Tognazzi come protagonista. Robert De Niro è seduto, quasi disteso sul divano della casa di campagna, Upstate New York. Quando parla con me, l’11 dicembre 2020, ha 77 anni, capelli lunghi e bianchi, barba lunga. Sospetto che abbia finalmente accettato di incontrarmi su Zoom per vincere la noia del lockdown. Dietro le spalle, ha una grande finestra con vista – immagino – sui prati e sulle colline di Woodstock, o giú di lí. «Quando guido verso New York e arrivo sulla strada che gira intorno a Paramus, New Jersey, vedo lo skyline della città e penso sempre a lui, Sergio Leone. Ecco dove avrebbe potuto girare quella scena che aveva in mente, con Noodles che torna nel Lower East Side dopo trentacinque anni. Sarebbe stata perfetta da lí, anche se la vista è cambiata da allora. Invece l’abbiamo fatta in studio, nella stazione coperta di graffiti e pubblicità. Fu un ripiego. Sergio sarebbe andato ancora avanti a girare, forse odiava l’idea di dover a un certo punto finire il film». Alla prima proposta di Leone, lui aveva detto no: «Ci siamo visti in una stanza d’hotel, a New York. Non ricordo quando, e non ricordo neppure se quel giorno ci fosse anche Gérard Depardieu, ma ricordo bene che Sergio disse che avrebbe voluto noi due, che avevamo già fatto insieme Novecento. Non conoscevo Sergio e neppure i suoi film, sapevo che venivano chiamati spaghetti western. Quei film sono ciò che sono, non

c’è niente di sbagliato in loro, semplicemente non li avevo visti». A questo punto, gli ho detto: c’è stato un momento in cui l’Italia faceva il miglior cinema al mondo. E lui: «È vero». Io: Fellini, Antonioni… Lui: «Sí, Fellini, Antonioni, ma anche altri. Il cinema italiano era grande, lo è ancora, ma allora io ero un giovane attore, uno che voleva fare l’attore, mi importava piú degli attori che dei registi. Per me sono stati importantissimi tutti i film con Mastroianni, I soliti ignoti, chi era il regista? [Monicelli, non sono stato pronto a rispondere perché ha citato il titolo in inglese, Big Deal on Madonna Street]. Pietro Germi o Lattuada, chi ha fatto Mafioso? [Lattuada, questo proprio non me lo ricordavo, con un favoloso Alberto Sordi bifronte, milanese e siciliano, moderno e antico]. E poi Pasolini, naturalmente. Chi ha fatto Rocco e i suoi fratelli? Visconti, certo». Ho cercato di tornare con la memoria a quel 1981. Chi è in quel momento Robert De Niro? Uno che ha vinto due Oscar, il primo dei quali per Il Padrino - Parte II, il secondo come protagonista per Toro scatenato, e che ha fatto anche Mean Streets, New York, New York e Taxi Driver con Scorsese, Novecento con Bertolucci, Il cacciatore con l’allora sconosciuto Cimino, totalizzando altre due nomination all’Oscar e soprattutto affermandosi come unico erede del suo modello e mentore, Marlon Brando. Come lui, è un estremista del Metodo che nel suo caso diventa vita, esperienza. La sua identificazione con i personaggi non è psicologica, ma oggettiva: per Taxi Driver diventa tassista a New York, per New York, New York impara a suonare il sax, per Toro scatenato sale sul ring e quando le riprese si interrompono per quattro mesi per consentirgli di ingrassare trova il modo di litigare con l’amico Joe Pesci proprio come faranno i loro personaggi. Dopo Toro scatenato, Scorsese vorrebbe fare L’ultima tentazione di Cristo, ma De Niro ha acquistato i diritti di un copione scritto dal critico Paul D. Zimmerman, la storia di un celebre conduttore tv e di un suo stalker, e grazie all’intervento proprio di Arnon Milchan riesce a convincerlo a fare The King

of Comedy, Re per una notte, a New York, dove può piú comodamente riprendersi dalla polmonite. «Fu allora che Arnon tornò alla carica proponendomi C’era una volta in America, tre, quattro anni dopo il primo incontro con Leone, – mi ha raccontato De Niro. – A quel tempo volevo comprare un’isola ai Caraibi e lui è addirittura venuto con me a vederla per parlarmi di questo film. Alla fine cedetti e gli dissi: se è tratto da un libro, fammelo leggere, cosí mi faccio un’idea. Mi diede The Hoods di Harry Grey, ma non un vero libro, erano fogli ciclostilati. Cosí cominciai a leggerlo e dopo poco mi resi conto che l’avevo già fatto, da ragazzo. Era un libro che non solo avevo letto, mi era pure piaciuto. Per questo accettai, si capiva che questo Harry Grey conosceva bene ciò che raccontava, c’era un certo realismo. Poi Sergio ha dato la sua interpretazione, in un certo senso l’ha romanzato, giusto cosí: ho capito subito che il film non sarebbe stato uguale al libro, ma rimaneva interessante». Arnon Milchan è il punto di svolta, il tassello decisivo, la tessera mancante del puzzle. A 36 anni, è un giovane produttore israeliano con piú ambizioni che film realizzati. Nel mondo del cinema l’ha introdotto Elliott Kastner, americano con uffici a Londra, produttore di film di non eccelsa qualità ma spesso di ottimi incassi. Kastner lo invita sul set di Gigi, dove Milchan incontra Elizabeth Taylor. Scatta la magia, il giovane israeliano proprietario di un’azienda di fertilizzanti accetta il ruolo dell’«ultimo arrivato, lo sfigato di turno», come dirà molti anni dopo, pur di mettere un piede nel mondo del cinema. Produce due film in Europa (uno è quello che gli fa incontrare Gasser), uno in Israele, il primo e ultimo che farà in patria. È la storia di un gruppo di ragazzi di Tel Aviv che vogliono sfondare, finisce con il protagonista che se ne va in America per inseguire il suo sogno. È piú o meno ciò che Milchan cerca di fare alla fine degli anni Settanta. Con Roman Polański progetta di girare Pirati a Tel Aviv: il budget supera ampiamente i 20 milioni di dollari, poi Polański riscrive il copione, il costo sale ancora e Milchan si ritira. Con gli americani della tv Abc riesce invece a mettere

in piedi un progetto che era stato di Joseph Losey, Orson Welles e Luchino Visconti: raccontare l’assedio di Masada, rocca nel deserto della Giudea che fu l’ultima fortezza ad arrendersi all’avanzata delle truppe romane nel I secolo. La miniserie con Peter O’Toole e Peter Strauss viene girata nei luoghi reali della storia, la rocca ricostruita a pochi chilometri dai resti di quella originale, con il fondamentale appoggio del governo israeliano, del ministro della Difesa Moshe Dayan e dell’esercito, che appare in alcune sequenze. Il parallelismo tra i resistenti di allora e le attuali forze armate di Israele non passa inosservato, in America desta un piccolo scandalo politico. Masada in ogni caso è un successo mondiale, esce anche in sala in una versione ridotta, questa volta Milchan può dire di essere finalmente sbarcato a Hollywood, anche se lavora soprattutto a New York. Studia (e annuncia sui giornali) il progetto di portare sullo schermo un copione scritto dall’attore premio Oscar Richard Dreyfuss (Queens Story, non si farà) e finalmente fa partire a New York le riprese di The King of Comedy, Re per una notte, regia di Martin Scorsese, protagonisti Robert De Niro, Jerry Lewis, Diahnne Abbott, Sandra Bernhard, costo 18 milioni di dollari. Non sarà un gran successo per Scorsese, almeno nell’immediato, ma lo è per Milchan, che con questo film apre la sua società americana, Regency. Nel giro di pochi mesi, riscuote il credito di Masada, gira Re per una notte, che uscirà solo nel 1983, e annuncia con una pagina intera sul numero di «Variety» del 24 marzo 1981, sfondo nero e stampa in oro molto grande: AN ARNON MILCHAN PRODUCTION A FILM BY SERGIO LEONE ONCE UPON A TIME IN AMERICA

È una pagina fenomenale, a guardarla bene, con il senno del poi. Contiene quasi tutta la storia del film. I nomi di Arnon Milchan e Sergio Leone sono grandi quanto il titolo del film, anch’essi dorati, ripetuti due volte. In alto, a mo’ di epigrafe, la frase: C’era una volta il proibizionismo. Poi arrivarono i

gangster. E scoppiò l’inferno. Piú in basso, sotto il titolo e sotto i nomi dei due artefici, produttore e regista, in elegante corsivo: Le riprese principali cominceranno l’11 gennaio 1982. Ancora piú sotto, in piccolo: «Il film uscirà negli Usa e nel Canada di lingua inglese con The Ladd Company attraverso la Warner Bros.». In fondo, senza spiegazioni (per gli addetti ai lavori in effetti non ce n’è bisogno): «Producers Sales Organization»: si tratta della società fondata dall’ex attore Mark Damon che si occupa di vendere il film fuori dagli Stati Uniti. Il film di cui Sergio Leone parla da quasi quindici anni, dunque, molto probabilmente si farà, e questa è la notizia. Ma la pagina di «Variety» dice soprattutto questo: Arnon Milchan fa sul serio, ha davvero quei soldi di cui tanto si parla. E li vuole spendere nel cinema. La morte prematura e improvvisa del padre Dov nel 1965 ha strappato Arnon agli studi di chimica in Svizzera e l’ha costretto a prendere prima del previsto la guida dell’azienda di famiglia. Arnon impara presto, fa crescere il business familiare, fertilizzanti e armi: molti anni dopo si scoprirà che c’è anche il suo zampino nel meccanismo segreto che consente di far arrivare in Israele i materiali e le tecnologie necessari alla costruzione della bomba atomica. Quando Leone incontra Milchan, del suo ruolo nel programma atomico israeliano ovviamente non si sa nulla, certamente non se ne sa nulla nel mondo del cinema. Qualcosa si può immaginare (anni dopo, Milchan la metterà cosí: «Armi? Non sono mai stato il compratore, solo un agente. E solo per Israele. Non sono un trafficante, sono un patriota»). Ma i soldi freschi, nel cinema e non solo, sono la materia prima piú rara che c’è, e Milchan è un tipo che gira con una valigetta nera piena di denaro in diverse valute. È giovane, pieno di energia, sempre abbronzato, sportivo, entusiasta cultore di film e opere d’arte: «Siccome non so dipingere né scrivere, ho deciso di fare il produttore». E non ha paura di puntare forte su progetti complicati. Per seguire meglio gli affari di un gruppo ormai globale – e forse anche per accontentare la moglie francese – va a vivere a

Montfort-l’Amaury, a un’ora da Parigi, a mezz’ora da Versailles, vicino alla foresta demaniale di Rambouillet e alla casa di campagna di Jacques Chirac, peraltro molto piú piccola della sua. È a Parigi che incontra Leone, come mi ha detto Gasser, anche se poi Milchan preferirà ambientare a Cannes, addirittura ai tavolini del Carlton, il racconto dell’evento fatale. «Sono lí per vendere un film che presentavo come se fosse Via col vento e che naturalmente non lo era, quando vedo uno che somiglia un po’ a Buddha, un po’ a Orson Welles. Mi avvicino, e noto che non è né Buddha né Orson Welles. Non può che essere Sergio Leone. Mi presento in francese e gli dico che sono un grande fan dei suoi film. Gli dico che è un onore per me incontrarlo e gli chiedo a che cosa sta lavorando. Mi risponde che da undici anni progetta un film che nessuno vuole produrre. “È una grande saga americana, la vuole ascoltare?” Sono le tre, forse le quattro del pomeriggio quando Leone comincia a raccontare, scena dopo scena, movimento di macchina dopo movimento di macchina. Finisce che il sole sta tramontando sul Mediterraneo. A questo punto, gli chiedo quanto costerà questo film. Mi fa: 22 milioni di dollari. Gli rispondo: lo produco io». Ora va scritta una sceneggiatura vera, in italiano e in inglese, la lingua in cui si girerà. Ora si sceglierà il cast, che nascerà intorno a De Niro, e i luoghi delle riprese. Un lavoro che non sarà semplice, né breve, gli annuncia Leone. Manterrà la parola. Milchan mette a disposizione la sua residenza newyorkese, al 242 della 48 a Strada, tra la Seconda e la Terza Avenue: diventerà la base operativa americana del film. Leone scopre di avere come vicina Katharine Hepburn, che un giorno attraverso la siepe del giardino gli fa avere una torta appena sfornata, «un regalo per Sergio». Riparte la ricerca di uno sceneggiatore americano, anzi, un dialoghista, con i consueti incontri in cui Leone racconta il film come solo lui sa fare. La scelta cade su Stuart Kaminsky, uno studioso di cinema da poco trasformatosi in autore di polizieschi. Il suo detective si chiama Toby Peters, agisce nella Hollywood dei tempi d’oro. Il primo caso che gli assegna

Kaminsky riguarda Errol Flynn vittima di un ricatto. Strano, e molto rivelatore, che la ricerca quasi ossessiva di un americano che possa dare le battute al film sia finita con Kaminsky, dopo tutti i grandi nomi che Leone contatta, da Mailer in giú. Un giallista non cosí noto, un cultore del cinema classico hollywoodiano, l’autore di una monografia su Clint Eastwood, ebreo. La storia non si tocca, è chiaro, ora serve qualcuno che trovi le parole giuste, possibilmente poche, per girare il film in inglese. Fu Andrea Carlo Cappi, scrittore di tanti generi, per breve tempo editore italiano di Kaminsky, a trovarmi la sua mail. Il 3 luglio 2006, alle 5.33 del pomeriggio, mi arrivarono le prime risposte. Lo scrivo perché piú indietro di cosí non so andare, è la data d’inizio della mia ricerca. E perché dopo quella volta non sono piú riuscito a dialogare con Stuart Kaminsky. Gli ho scritto ancora, senza ottenere risposta. Poi ho capito perché: si era trasferito dalla Florida a Saint Louis in attesa di un trapianto di fegato, ma appena giunto là un ictus aveva reso impossibile ogni comunicazione, cosí come l’operazione che gli avrebbe salvato la vita. Da quasi cinquant’anni Kaminsky aveva problemi al fegato a causa di un’epatite contratta nel periodo in cui aveva lavorato come medico militare. È morto nell’ottobre 2009 a 75 anni, lasciando dietro di sé piú di sessanta romanzi polizieschi. La mail del 3 luglio 2006 era questa: Come è arrivato a scrivere «C’era una volta in America»? Sono stato chiamato perché Sergio o qualcuno a lui vicino conosceva i miei libri e pensava che fossi la persona giusta per scrivere i dialoghi del film. Fu Sergio a chiamarmi. A quei tempi insegnavo alla University of North Carolina. Mi chiese di andare a New York il giorno dopo, mi fece alcune domande, poi disse che mi voleva nel film. Ho detto subito sí e il mio agente ha risolto tutti i problemi pratici. Mi hanno detto che ero il diciannovesimo scrittore americano che avevano incontrato e preso in considerazione. Mi hanno dato un copione. Nella colonna

dei dialoghi c’era scritto qualcosa, ma mi hanno consigliato di ignorarlo e di ricavare i dialoghi dal lungo trattamento che Sergio aveva preparato. Mi hanno detto di scrivere tutto quello che mi veniva in mente. L’ho fatto. Ho preparato diverse bozze, che di volta in volta sottoponevo a Sergio. Lui mi diceva cosa gli piaceva e cosa no e io facevo gli opportuni cambiamenti, finché siamo arrivati alla sceneggiatura che voleva. Qual è stata la sua prima impressione quando l’ha incontrato? I suoi occhi. Erano piantati nella testa di quest’uomo basso, grasso, barbuto che assomigliava un po’ allo zio che tutti abbiamo avuto. Ma nessuno ha avuto uno zio con gli occhi penetranti di Sergio Leone. Mi ha guardato per meno di un minuto e ha capito tutto di me. Ha stabilito i termini della nostra relazione in un istante. Teneva tutto sotto controllo. Ascoltava, decideva e la sua visione prevaleva sempre. Crede che sia stato scelto anche per la sua conoscenza dell’ambiente urbano ebraico e del linguaggio quotidiano che persone come Max e Noodles avrebbero potuto usare? Certo. Mi fu detto di imitare il linguaggio degli ebrei del ghetto di New York. A un certo punto provammo una versione con molto yiddish, che avrebbe avuto bisogno dei sottotitoli. Sergio la bocciò perché il paragone con Il Padrino sarebbe stato inevitabile. Ci ho messo dentro molti termini yiddish ma lui me li ha fatti togliere. Quasi tutti, alcuni sono rimasti. A Sergio piaceva molto il fatto che io venissi da una famiglia di ebrei poveri, che avessi vissuto nel ghetto e che parlassi yiddish. E poi era entusiasta che venissi da Chicago, per lui ancora sinonimo di Capone e di gangster. Come scrittore, che cosa pensava della storia, quando gliela raccontarono la prima volta? Pensai che era una favola meravigliosamente ambiziosa, affascinante. E pensai anche che, come mi disse

Sergio, sarebbe stato il finale perfetto della trilogia che aveva immaginato, C’era una volta il West, C’era una volta la Rivoluzione (che in America era uscito in due versioni mutilate ma comunque riuscite, Duck You Sucker e A Fistful of Dynamite) e C’era una volta in America. Certo, c’erano dei problemi. Sergio me l’ha detto subito. Per esempio, mi disse che Max e Noodles non erano abbastanza differenziati. Erano personaggi quasi intercambiabili. Mi disse di dargli personalità diverse. Credo di averlo fatto. Sapeva a quel tempo dell’esistenza sceneggiatura firmata da Norman Mailer?

di

una

Sí. Chiesi di vederla. Mi fu detto che non potevo e non dovevo farlo. Sergio temeva che mi avrebbe corrotto. Mi dissero che la versione di Mailer era ridicolmente lunga e che era stata chiusa in cassaforte. Mi dissero che non potevo trovarci niente di utile. Non chiesi piú niente, ma non smisi di farmi domande. Nell’estate del 1981 Kaminsky riceve la sceneggiatura in inglese di Once Upon a Time in America. L’accompagna una lettera. «Il Tempo e gli anni sono uno degli elementi fondamentali del film. Nel corso degli anni, i personaggi sono cambiati, alcuni hanno anche rifiutato la loro vecchia identità e perfino il nome, eppure, malgrado tutto, sono rimasti legati al passato, alle persone che furono e a quelle che frequentarono. Hanno fatto strade diverse; alcuni hanno realizzato il proprio sogno, nel bene e nel male; altri hanno fallito. Ma essendo cresciuti dallo stesso embrione, si ritrovano di nuovo uniti dalla forza che li ha resi nemici e li ha allontanati, il Tempo». E questo è senz’altro Enrico Medioli: l’insistenza sul Tempo, scritto maiuscolo per citare obliquamente Proust, è tutta sua. L’altra parte del messaggio, invece, è puro Leone: «Ed è questa vena non realistica che mi interessa di piú, la vena favolistica, ma di una favola del nostro tempo, raccontata secondo i nostri termini. E sopra ogni altra cosa, gli aspetti dell’allucinazione, del viaggio onirico indotto dall’oppio con cui il film inizia e finisce, un porto sicuro, un rifugio».

Tra l’estate del 1981 e il maggio del 1982, Kaminsky riscrive cinque volte la sceneggiatura. Le parole in yiddish nei dialoghi prima aumentano, poi diminuiscono fino a quasi scomparire. Cosí le battute e i riferimenti alla religione di Noodles e Max. Kaminsky fa tagliare una scena in cui il vecchio gangster guida zigzagando, perso nel Lower East Side del 1968. Un poliziotto lo ferma e gli chiede per scherzo se quel giorno è Purim, la festa ebraica che si conclude con un grande banchetto. Nessun poliziotto americano ironizzerebbe mai sulla religione, sostiene Kaminsky. In questo momento, cambia un nome importante: Dolores diventa Deborah, che suona molto piú ebreo, o almeno biblico (Dolores invece è decisamente cattolico). Kaminsky modifica la battuta di Noodles a Deborah nella quale lui racconta che in carcere si masturbava leggendo passi del Cantico dei cantici: «Impossibile che un ebreo dica una cosa del genere». Infine, spiega che uno come Max non potrebbe mai diventare senatore, con tutte le indagini sul passato dei candidati che si fanno in questi casi. Nella versione americana del film Bailey è Secretary, praticamente ministro, un ruolo che non richiede elezione popolare. Nell’archivio De Niro, all’Hrc di Austin, ho trovato alcuni fogli di appunti che appartengono a questo periodo. Sotto il titolo List of things to do si trovano in effetti elencati 23 cambiamenti da apportare alla sceneggiatura. De Niro nega di esserne l’autore: «Potrei aver detto a Sergio: non penso che ci sia bisogno di questa scena, ma mai di cambiarla, o tagliarla. Il regista era lui, non gli ho mai detto cosa fare, non l’avrei mai fatto. Avrei potuto dire: non penso che ce ne sia bisogno, poi lui avrebbe deciso se girarla o no. E io non avrei mai insistito, questo è ciò che posso dire, ciò che ricordo». È piú probabile, allora, che siano note per Kaminsky concordate con Leone, con Medioli e certamente anche con Benvenuti, perché molte scene riguardano l’infanzia dei personaggi. Si decide di tagliare la scena iniziale nelle pompe funebri, con il cadavere truccato per farlo assomigliare a Groucho Marx, si sente l’esigenza di sottolineare il legame

viscerale tra Noodles e Max adolescenti: «Il carro della polizia entra nella prigione e Max appare all’improvviso, salta sul retro del carro, batte i pugni sulla porta posteriore e urla. Noodles lo vede attraverso il finestrino. Max chiama disperatamente l’amico, mentre viene condotto in prigione». Si aggiunge la scena della sauna, che è un flashback: Max salva Noodles da un agguato che gli era stato teso con la complicità di una bella ragazza e gli dice: «Cosa faresti senza di me?» Noodles esce dal bagno turco e scompare dietro un camion dell’immondizia parcheggiato casualmente lí fuori. Scompare la scena in cui i lavoratori in sciopero vengono intrattenuti da cantanti e musicisti, anche perché ce n’è una molto simile in Bound for Glory, Questa terra è la mia terra, il film biografico su Woody Guthrie (di Hal Ashby, con David Carradine) uscito in Italia nell’estate del 1977. Per la stessa ragione sono meno espliciti i riferimenti alla storia di Jimmy Hoffa, il leader dei camionisti scomparso misteriosamente nel 1975 e mai piú ritrovato. Nel 1978 è uscito F.I.S.T., che ne racconta la storia cambiando i nomi dei protagonisti e alcune circostanze, regia di Norman Jewison, protagonista Sylvester Stallone, e Leone non vuole riferimenti diretti a film contemporanei, o recenti. Un accenno alla storia vera (o presunta tale) di Hoffa naturalmente c’è, c’era già nel trattamento e rimane ben presente anche nella sceneggiatura, anche se quella pagina in tutte le cinque versioni del copione è stata occultata, forse non è mai neppure stata scritta. È la scena 159, Noodles è appena uscito dal passaggio segreto che porta fuori dalla villa del senatore Bailey. Il trattamento la racconta cosí: «Il suono di musica mista alle voci della festa si affievolisce mentre lui si allontana velocemente. Ma all’improvviso Noodles si volta e guarda all’indietro, come se un dubbio lo assalisse. Vede un uomo in piedi in fondo alla strada, in abiti da sera. Potrebbe essere – anche se è difficile dire –, potrebbe essere Max. Noodles inforca gli occhiali. L’uomo si muove in avanti e nello stesso momento il camion dei rifiuti (che Noodles aveva già notato all’arrivo nella villa) accende il motore. Il rumore

del motore copre quello della festa. La macchina trema e sussulta e poi si muove. Noodles si ferma per poter vedere meglio l’uomo dietro il camion, ma quando questo passa non vede nessuno. Come se l’uomo fosse stato ingoiato dall’oscurità. Il camion se ne va con le fauci spalancate, la macina in azione. Scompare. Noodles ricomincia a camminare, lentamente, pensieroso». Jimmy Hoffa, il potente sindacalista sospettato di legami con la mafia, fu visto per l’ultima volta il 30 luglio 1975 nel parcheggio di un ristorante nei pressi di Detroit. Sulla sua morte esistono molte teorie, quasi tutte includono lo smembramento del cadavere e la sua completa distruzione. Una contempla la presenza, nel parcheggio del ristorante, di un camion dell’immondizia, o una betoniera (in questo caso, il corpo di Hoffa sarebbe stato parte delle fondamenta del Giants Stadium nel New Jersey, allora in costruzione, demolito nel 2010). È la storia che Martin Scorsese e Robert De Niro hanno raccontato in The Irishman, il film uscito nel 2019, tratto dalle memorie del sedicente assassino di Jimmy Hoffa, ovvero Frank Sheeran, l’Irlandese, appunto. Nella sua versione, non c’è alcun camion dell’immondizia, il corpo di Hoffa viene semplicemente bruciato in un forno crematorio. Ho chiesto a Robert De Niro se lui ha visto un rapporto tra i due film. La risposta è enigmatica: «Forse sí, c’è la parte in cui il gangster invecchia, una somiglianza c’è, il rapporto tra la giovinezza e la vecchiaia, c’è un parallelo, una connessione. Sta piú a te dirlo, lo puoi dire tu meglio di me». La scena 162, quella finale, è invece scritta, verrà stampata nella sceneggiatura e diffusa, ma come l’altra è tutta nella testa del regista. Il copione è talmente vago che è difficile capire che cosa realmente si vedrà a quel punto. Ed è ciò che vuole Leone. Noodles è di nuovo nella fumeria d’oppio. Tira dalla lunga pipa, «tiene a lungo il fumo dentro ai polmoni e poi lo butta fuori in spirali avvolgenti che si allargano toccando il soffitto. Fumo amaro, che spazza via i ricordi, lo stress, gli errori – e il Tempo».

Franco Ferrini mi ha raccontato che Chris Vogler, story analist per Disney e Fox, autore del noto manuale di scrittura creativa Il viaggio dell’eroe, docente di cinema alla University of California a Los Angeles, quando l’ha incontrato gli si è inginocchiato di fronte, in segno di rispetto – forse sarebbe meglio dire di venerazione – per uno di quelli che avevano scritto C’era una volta in America. Con Ferrini ho parlato a lungo, molte volte, di questa sceneggiatura, di come è stata scritta, di come ha accompagnato la vita di chi ci ha lavorato (lui ha poi scritto per Argento, Lattuada, Oldoini, Vanzina, Ponzi, horror, commedie, gialli), di come sia entrata nella leggenda. Ferrini mi ha aperto gli occhi sulla natura dell’America di Leone, un’avventura dello spirito, vastissima, che contiene moltitudini (il 6 novembre 2019, il giorno dopo aver scritto queste parole, ho ritrovato una vecchia chiavetta usb con un testo di Martin Scorsese che inizia cosí: «Sergio Leone è morto decisamente troppo presto, nel 1989 a 60 anni. Però i sette film che ci ha lasciato hanno l’ampiezza e la portata di un’opera vastissima. Ognuno di essi contiene moltitudini»). Un’avventura dello spirito che può essere certamente definita proustiana, ma è anche detection, indagine poliziesca, quest cavalleresca. Epica. C’è in ballo il destino di un intero paese in questa storia, anzi, qualcosa di piú, una comunità dello spirito, l’America, che è ben piú vasta di una nazione con i suoi confini, la bandiera e il passaporto. È l’America che tutti abbiamo immaginato e alcuni sognato, della quale l’eroe (o antieroe), la sua massima espressione, è il gangster, che ci piaccia o no. Il gangster è, letteralmente, tutti noi. Da lui dipende il nostro destino. È un’epica moderna. Però è impossibile dimenticare che tutto si muove seguendo la meccanica potente del desiderio, in tutte le sue sfumature, anche quella (taciuta, è pur sempre un gangster movie) di natura omoerotica presente nel legame tra Max e Noodles. I due eroi/antieroi, compagni/antagonisti fanno sesso con le stesse donne. Con Deborah e Carol, Noodles è violento, con Peggy impacciato, sbrigativo. Max apparentemente no, però

arriva sempre dopo. È solo il modo in cui due maschi alfa si giocano la supremazia nel branco oppure una sublimazione del rapporto che c’è (o potrebbe esserci) tra loro? Medioli – dice Ferrini – era convinto che Moe fosse gay e che, di nascosto, amasse Noodles da sempre, non corrisposto. È stato lui, lo sceneggiatore prediletto di Visconti, a inserire nel racconto il sottotesto omoerotico, che certamente c’è, anche se Leone l’ha sempre negato? Ferrini mi ha spiegato come trovare nella sceneggiatura di C’era una volta in America Whitman, Proust, Faulkner, Hammett, Shakespeare, Fitzgerald, Freud, Jung senza neppure cercarli, abbandonandosi all’arte di chi sa costruire storie, «sceneggiatori tutto istinto che non avevano una sapienza acquisita nelle scuole, perché il mestiere se lo sono inventato». Di fronte ai quali non c’è altro da fare se non inchinarsi, come ha fatto lo story analist di Disney e Fox. Ho chiesto a Robert De Niro che idea si fosse fatto di Noodles. Se l’ha pensato come un vincente o un perdente. Mi ha risposto cosí: «Non ho mai pensato a Noodles come vincente o come perdente. Oggi usiamo spesso, troppo spesso, questi termini, e la colpa è di persone come Donald Trump, che parlano sempre di vincenti e perdenti perché di base sono perdenti, e per questo sono cosí suscettibili quando si parla di sconfitta. Il libro aveva dentro storie molto concrete, reali. Il film è tutta un’altra cosa, è un sogno. Oppure no? È questo il punto. E io mi sono buttato, ho seguito il disegno di Sergio. Tutto qui». Prima del primo ciak, che dopo diversi rinvii ora è fissato per il 7 giugno 1982, i dialoghi in inglese vengono riletti e discussi per quattro settimane da Medioli, Benvenuti, De Bernardi e Kaminsky, con Leone a presiedere gli incontri e a pronunciare l’ultima parola, quella definitiva. La sceneggiatura è pronta e si estende per circa 320 pagine, in italiano e in inglese. Il film sarà lungo, molto lungo. Nessuno, neppure Leone, sa quanto. Sale il budget, che ora è intorno ai 28 milioni di dollari. Milchan propone modifiche, per esempio – dice al regista – il

treno che porta Deborah via da Noodles potrebbe anche non essere l’Orient Express, no? Potremmo fingere. No – è la risposta –, il pubblico lo annuserebbe. Nella mente di Leone il film è in tre dimensioni. Va costruito, non semplicemente ripreso. Perfino le cartoline nell’ufficio del mercante di diamanti devono essere quelle vere degli anni Trenta, acquistate dall’architetto Carlo Simi nei mercatini dell’usato. Simi ha schizzato gli spazi principali in cui è ambientata la storia – Fat Moe’s, lo speakeasy, il bagno turco, Chinatown, le povere case e i negozi del Lower East Side degli anni Venti, la villa di Bailey – e a settembre 1981 si trasferisce a New York per i sopralluoghi. Scatta migliaia di foto a case, facciate, cortili, tetti, serbatoi dell’acqua, e poi a dettagli minimi, i soffitti di locali che potrebbero essere quelli del bar dei Gelly o del club nascosto ai tempi del proibizionismo, maniglie, porte, porticine, portoni, comignoli, tombe di antichi cimiteri ebraici (e non solo ebraici), cancellate di case di lusso, marciapiedi, idranti, scale antincendio di ogni foggia e lunghezza, pareti, facciate, selciati, cortili, negozi e tante insegne, specialmente se scritte in ebraico. Leone è già stato in Canada piú volte, c’è in ballo anche una possibile coproduzione. Man mano, gli edifici di Montréal che ricordano quelli di New York negli anni Venti e Trenta si sono rarefatti e diventa chiaro che gli esterni del Lower East Side andranno girati a New York. Non nel Lower East Side, però, che è cambiato e ha troppi grattacieli sullo sfondo. Interviene anche Tuco, cioè Eli Wallach, orgogliosamente nato a Brooklyn, che guida Leone, Simi e gli altri in un tour della sua città. Si sceglie la zona di Williamsburg, che in questi primi anni Ottanta non ha ancora nulla di hipster. La abitano ebrei chassidici sfuggiti alla Shoah, portoricani e dominicani. È una zona povera, devastata dallo spaccio di droga e dalla malavita spicciola. Il Lower East Side è esattamente di fronte, sulla sponda opposta dell’East River. Al primo sopralluogo, Claudio Mancini viene derubato della valigetta che ha sempre con sé. «Ho mandato l’aiuto regista in un bar e gli ho fatto dire che nella valigetta non c’era

niente. Se la riportate coi fogli che ho dentro vi do 100 dollari, con il passaporto 150. La mattina dopo c’era tutto». È un primo approccio, che si rivela utile. Gli abitanti della via dovranno accettare di avere le facciate coperte dalle scene per un paio di mesi. Saranno contattati a uno a uno, non ci saranno problemi. Due isolati, uno per parte, diverse centinaia di metri, al piano terra avranno l’aspetto di botteghe del primo Novecento. Su un lato, al posto di un deposito d’auto che serve una sgangherata officina, si costruiranno l’esterno di Fat Moe’s e il cimitero smantellato che serve a richiamare Noodles dall’esilio. Di ritorno dal sopralluogo, Simi annota che quattro metri di marciapiede andranno demoliti per farne uno sterrato. E poi: «Tra gli interventi piú consistenti, sono da realizzarsi a uno o piú livelli, le botteghe ebraiche, sopraelevazioni, aggiunta di timpani e cornicioni, ampliamento e aggiunta di scale di sicurezza, cornici, infissi e vetri (ove manchino) e l’avanzamento di un corpo di fabbrica posticcio a filo del bowwindow esistente. Oltre all’ambientazione d’epoca dell’arredo stradale». L’impresa è notevole e viene compiuta in Italia. Gli elementi principali, costruiti a Roma, si imbarcano su una nave e viaggiano fino a New York, come i falegnami e gli altri artigiani, che però arrivano in aereo. E a Roma, a Pietralata, in via delle Messi d’Oro, su un terreno della De Paolis, vengono costruiti il Fat Moe’s, esterno e interno, il bagno da cui il giovane Noodles spia la piccola Deborah, il magazzino illuminato da un lucernario dove la ragazzina danza, l’ascensore da cui Noodles adulto appare all’improvviso per uccidere i killer inviati dalla Combinazione, la porta segreta che dà sul retro del bar. È – come la chiama Simi – una scena «gemella» di quella newyorkese, con in piú gli interni e il vicolo, che a Williamsburg non si può costruire. Ma è gemella anche perché tutti i tombini vengono ricostruiti uguali, e cosí pure le irregolarità della strada, ogni dettaglio. La costruzione è orientata rispetto al sole come la via di Brooklyn e si studia

l’orario di ogni scena girata a New York per avere la stessa inclinazione delle ombre. Per la scena della morte di Dominic, Leone vuole un ponte e il ponte che si trova è il Manhattan Bridge, visto dalla parte di Brooklyn. La zona si chiama Dumbo, il nome è un acronimo, Down Under the Manhattan Bridge Overpass, che vuol semplicemente dire «sotto il cavalcavia del Manhattan Bridge», ma lo scorcio che offre è pronto per diventare un’immagine iconica, specialmente se sotto la colossale torre passano cinque ragazzini che hanno appena iniziato a vivere il Sogno americano. Nei decenni che verranno la vista del Manhattan Bridge da Washington Street apparirà negli album dei ricordi di ogni turista. È una visione che ha avuto per primo, forse in sogno, un regista italiano, anzi romano, cresciuto a Trastevere sui 126 scalini di viale Glorioso.

Un casting perfetto, devo ammettere La storia di Scott Schutzman

C’era una volta in America, anzi a New York, anzi a Bayside, Queens, un ragazzino cresciuto troppo in fretta che voleva fare l’attore. Uno che a nove anni scappava a Manhattan per comprare le riviste di cinema, quelle con gli annunci e i numeri di telefono. Che poi chiamava, fingendosi un adulto. «Dicevo: salve, sono un attore. Non sapevo che cosa stavo facendo, ovviamente, ma avevo capito che in quel modo avrei potuto evitare la scuola e scappare di casa, avere l’attenzione della gente, sentirmi importante, sentirmi amato. Ho avuto un’infanzia molto strana, mi capitava spesso di ritrovarmi a essere l’unico bambino nei luoghi che frequentavo: i bar, le pizzerie, i locali dove facevo i miei show, le imitazioni, spettacolini da cabarettista improvvisato. Il mio motto era I don’t wanna go home, l’importante era fuggire dalla mia famiglia». Oltre che strano, Scott Schutzman doveva essere un bambino abbastanza convincente: dopo qualche mese di telefonate ha già un agente, come un attore vero, e appare in uno spot e nel pilota di una serie tv. E l’agente è quello che lo manda alle audizioni per C’era una volta in America. Scott passa la primissima selezione: «Cosí ho incontrato Sergio Leone e il suo assistente-traduttore Brian Freilino in un hotel a New York, un posto di gran lusso. Sergio non ha detto una parola, mi ha solo guardato, credo che ci fosse anche Fabrizio [Sergenti Castellani, l’aiuto di Leone]. Mi hanno fatto dire qualche parola, tutto qui. Diversi mesi dopo, la responsabile del casting Cis Corman mi ha chiamato a un’audizione vera, in cui si leggeva il copione. Credo che sia questo il momento in cui ho saputo che il protagonista era De Niro, che avevo visto in Toro scatenato e che era già un mito. Ovviamente ero eccitatissimo. Non sapevo ancora se fossi in corsa per fare Max oppure Noodles. Sono andato alle audizioni di Cis una

volta la settimana per tre o quattro mesi. Non finivano mai. Poi un nastro che era stato spedito in Italia andò perso… Ricordo che Cis mi diceva: “Non preoccuparti se ci sono tanti altri in corsa per fare il film, tu concentrati sulla paht”, aveva un fortissimo accento della Costa Est, “tu devi essere un ragazzo molto cattivo, orribile”. Mi guidava, mi spingeva, mi sfidava. Poi la svolta: la chiamata finale! L’appuntamento era in un appartamento di Manhattan, in una brownstone, forse era la casa di Ruth Gordon. Erano lí tutti i finalisti per i ruoli dei ragazzi, ma non le femmine. Jennifer Connelly non c’era. Ci avevano chiesto di vestirci un po’ in stile anni Venti. Siamo rimasti diverse ore, eravamo quindici o venti. C’erano Cis, Sergio, Brian, Fabrizio, non so chi altri. No, De Niro non c’era. Quella sera stessa mi chiedono se mi va di andare a Montréal per una selezione finale. Che domanda, dopo tutta la fatica che avevo fatto… Certo che vengo. Cosí l’ostacolo seguente è Montréal. Eravamo io, Rusty, Adrian, Noah, Mike, Brian Bloom, quelli che poi hanno fatto il film. E per un giorno intero ci hanno fatto lavorare con costumisti e truccatori. Abbiamo provato diversi costumi. “Mettiti questo, togliti quello, prova quel cappello, ora un altro”. Mi hanno fatto un test del neo che è durato diverse ore, con nei leggermente diversi che dovevano assomigliare il piú possibile a quello di De Niro, finché Sergio ha scelto: è questo il neo giusto. L’uomo dei nei si chiamava Enzo [Vincenzo Cardella, il parrucchiere]. È arrivata la sera, e ancora non una parola, nessuna conferma. E i ragazzi erano ancora tutti lí, e pure un agente che forse rappresentava Rusty. Non ce la facevo piú. Sono tornato nella stanza da solo, credo che lí dentro ci fossero solo Fabrizio e Sergio, nessun altro. Chiedo a Fabrizio: “La parte è mia?” Fabrizio traduce la mia domanda a Sergio. Sergio non dice nulla, rimane immobile, mi guarda con le mani in tasca e fa un piccolissimo cenno di assenso con la testa, forse due, che per me hanno avuto esattamente lo stesso suono della parola magica: successo. Cosí è finita una maratona e ne è iniziata un’altra, che da Bayside, Queens, mi avrebbe trasportato a Montréal e poi a Brooklyn, Roma e Venezia… A questo punto, lo dicono all’agente, che lo dice

agli altri ragazzi e – indovina un po’ – scopriamo cosí che l’indomani saremmo stati tutti sul set a girare! Sorpresa! Cosí il giorno dopo giriamo la famosa scena “Ecco i vostri soldi signore”, quella in cui diamo fuoco all’edicola dei giornali. La scena perfetta per dare il via alla storia. Il fuoco è celebrazione, e la scena fu una specie di cerimonia di iniziazione per tutti quei ragazzi di New York che avevano appena ottenuto la loro prima parte in un film vero, un film con Robert De Niro». Trent’anni dopo averlo girato, Scott Schutzman una sera ha rivisto tutto C’era una volta in America dall’inizio alla fine. «E quando accoltello Bugsy, dopo che lui ha ammazzato Dominic, ho riconosciuto sulla mia faccia tutta la rabbia che avevo dentro in quella fase della mia vita. Per certi versi, io ero molto piú simile a Max che a Noodles, ero piú estroverso e chiacchierone che represso e taciturno come il mio personaggio, ma in quella scena mi rivedo perfettamente. Al cento per cento. Quello sono io, altro che cinema, altro che recitazione. «Ero un bambino molto solo, con una madre bipolare che è morta quando avevo dodici anni, nel momento esatto in cui la mia carriera d’attore muoveva i primi passi. Per questo, quando Leone mi scelse, decisi di lasciarmi tutte le infelicità alle spalle adottando un nuovo nome: da Schutzman avevo provato solo vergogna e umiliazione. Volevo una nuova identità, che mi riconoscesse come attore, non come ragazzo incasinato cresciuto in una famiglia allo sbando. All’agenzia qualcuno suggerí Tiler: mi sembrava suonasse bene, e poi uno Scott Hunter – Hunter è il mio secondo nome – era già iscritto al sindacato degli attori. Sulla lista c’era anche uno Scott Tyler, per cui divenni Tiler. Ero cresciuto da ebreo, ma la mia educazione non era stata per nulla religiosa: la cosa piú religiosa che ho fatto è stata partecipare, con i miei due fratelli maggiori, a un campo estivo sionista, ma sono sicuro che mio padre ci ha mandati lí solo perché era quello che costava meno. Ci siamo divertiti moltissimo, era uno di quei posti spartani e scomodi che non avevano nulla a che vedere con i

campi estivi dei ragazzi di oggi. Ho fatto il bar-mitzvah ma probabilmente quello è stato l’unico giorno nella mia vita in cui sono andato in sinagoga. Lo dimostra anche il cast voluto da Leone – De Niro, Woods, Forsythe, Weld, Monetti, Connelly –, essere ebreo non era decisamente necessario per fare C’era una volta in America. Molto piú importante, almeno nel mio caso, è stato avere alle spalle un’infanzia sbandata. Ero un ragazzo di strada senza direzione, uno che non andava a scuola e rubacchiava nei negozi, un clown. Credo che questo mi abbia aiutato molto a entrare in relazione con il problematico, solitario, guardingo e violento Noodles. E poi naturalmente Cis Corman, una delle grandi signore del cinema di ogni tempo. Cosí old-school… Sempre, sempre, sempre lí a incitarti a essere vero, autentico, e a non crederti chissà chi. Se solo l’avessi avuta al mio fianco nella vita anche dopo il film… Forse avrei avuto una carriera diversa. Dopo il film mi sono sentito perduto e alla deriva esattamente com’ero prima. Tempi difficili. O, sempre per citare Dickens, era il migliore dei nostri momenti, ma anche il peggiore». Era il cinema, era la vita: «Il cinema, quel film, mi ha salvato la vita, ma me l’ha anche rovinata. Chi lo sa, avrei potuto finire molto male, avrei potuto sbandare molto piú di quanto abbia fatto: essere Noodles, essere il giovane De Niro, ha dato un senso e uno scopo alla mia esistenza. Ma mi ha anche dato un falso sentimento di appartenenza. Quando ho avuto la parte, piú o meno consciamente mi sono sentito arrivato. Non ero piú il ragazzo sperso, “the lost kid”, ero speciale! Ero un attore, stavo facendo un film che avrebbe fatto storia. E finalmente avrei avuto la famiglia che non avevo avuto prima, la famiglia dello show-business, in cui sarei entrato trionfalmente come quello che era stato De Niro da piccolo. Era evidentemente un’illusione, ma non è solo questo: è che quando il film è miseramente fallito negli Stati Uniti, smontato, accorciato dai produttori, disconosciuto da Leone, ignorato dal pubblico, ed è diventato una barzelletta, una colossale perdita di tempo, un flop, tutte le mie certezze divennero ridicole tanto quanto il film stesso. Ci penso spesso: se alla proiezione di prova a Boston non ci fosse stato il brutto

tempo, se solo il proiettore non si fosse rotto, forse il destino del film in America sarebbe stato diverso e cosí pure la mia vita. Bizzarro, per un film che parla proprio del fato… Io avevo investito tutto il mio ego in quel lavoro, ne uscii distrutto, per riprendermi ci vollero anni, anni di depressione, droghe, smarrimento». Scott Schutzman ha poi riconquistato il suo vero nome e si è reinventato come psicologo in un centro di recupero di tossicodipendenti lungo il fiume Hudson, a un’ottantina di miglia da New York. Per anni ha insegnato recitazione, poi s’è rimesso a studiare, da Los Angeles è tornato sulla Costa Est e ha dato l’ennesima svolta alla sua vita. Anno dopo anno, in C’era una volta in America coglie ogni volta nuove verità: «È un film impossibile da definire. Parla di gangster, ma nessuno sarebbe cosí pazzo da considerarlo un gangster movie. È un film esoterico, ambiguo e inafferrabile come la vita: Max e Noodles sono due aspetti estremi dell’animo umano. È un film cosí italiano, cosí europeo che – solo ora me ne rendo conto – comunque gli americani non avrebbero potuto mai capirlo fino in fondo. Non parla di New York, parla dell’idea di New York, del mito di New York visto da un italiano. Ed è un sogno, un film completamente avvolto nelle nebbie e nel fumo. L’urlo “fumo, fumo” è uno dei ricordi piú chiari e forti che ho, dei giorni di ripresa. C’era sempre fumo in scena, con quell’odore sgradevole che è impossibile dimenticare: tutta la storia si svolge dentro la nebbia dell’allucinazione, è come se il fumo della pipa dell’oppio di Noodles avesse avvolto ogni cosa. È un film che appartiene al cento per cento al suo regista, è lui che l’ha visto, immaginato, realizzato. È un sogno, ed è il sogno di Sergio Leone». Si torna sempre lí, al grande e complicato Sergio Leone, un uomo difficile da amare e impossibile da dimenticare: «Ancora oggi, senza sforzo, sono in grado di imitare perfettamente certi suoi gesti, un movimento particolare delle mani, il modo in cui si mordeva il labbro inferiore. Parlava pochissimo, ma si faceva capire molto bene. Era un uomo in sovrappeso, molto teso, che scaricava le sue ansie nel cibo. James Woods dice

che l’hanno ucciso i problemi che il suo film ha incontrato in America, gli hanno letteralmente spezzato il cuore. Non so, forse è vero, ma è anche vero che lui, come il suo film, arrivava da un altro mondo, dagli anni Settanta, l’epoca dei grandi registi, di Scorsese, Altman, Coppola, Rafelson, e che C’era una volta in America, almeno da noi, in America, è uscito fuori tempo massimo, nel 1984, quando già regnava Ronald Reagan e Michael Cimino con I cancelli del cielo aveva ucciso il cinema dei grandi autori. Vuoi sapere un’ultima storia, divertente e triste al tempo stesso? Sai che cosa mi ha fatto veramente soffrire? Non essere invitato alla première di Cannes, quando la mia partner, Jennifer Connelly, invece c’era. Leone la adorava, io lo facevo incazzare. Non che avesse torto, sul set me ne andavo appena potevo, mi facevo aspettare da tutti gli altri, ero indisciplinato e ribelle. Non facevo quello che mi chiedeva di fare, lo innervosivo, e lo sapevo. Jennifer, invece, aveva sempre i genitori con sé, era molto seguita e diligente. Come il giovane Noodles, rispetto alla mia Deborah ero anch’io uno scarafaggio. Un casting perfetto, davvero».

SESTO TEMPO 1981-1983

Nel dicembre 2019, quando Danny Aiello morí a 86 anni, Robert De Niro diffuse un saluto, sobrio e conciso come sempre: «La notizia della morte di Danny mi rende molto triste. Lo conoscevo da quasi cinquant’anni. Sono triste. Ci vediamo in paradiso, Danny». Aiello fu segnalato a Leone da De Niro per la parte del poliziotto italoamericano ostile ai sindacati, poi neutralizzato dalla gang di Noodles con il rimescolamento dei neonati nella nursery. Il nome del personaggio, Chief Aiello, fu un’idea sua. Leone lo invitò alla prima, a Cannes, e lui ne fu sorpreso: «Era una piccola parte, ma valse la pena solo per lavorare con Sergio», diceva. A Cannes Leone gli disse che nel suo prossimo film ci sarebbe stata una parte anche per lui. «È in quell’occasione che Bobby [De Niro] mi disse per la prima volta: nessuno dice fuck come lo dici tu. Quando esce dalle tue labbra, quella parola sembra una canzone», scriverà Aiello nella sua autobiografia. «Sí, sono stato coinvolto nel casting, ma non troppo, – mi ha detto De Niro. – Avevo le mie idee, naturalmente, e se mi chiedevano cosa ne pensavo, lo dicevo. Danny, Joe, Jimmy Woods, il ragazzo con i capelli rossi… Un po’ tutti. Mi chiedevano un’opinione, e io dicevo: ok». E John Belushi? Si dice che l’avrebbe voluto come Fat Moe. La sua risposta è davvero strana: «Non l’ho mai sentito dire, ma avrebbe potuto essere. Non ricordo di averlo sentito, no. Però avrebbe potuto…» Si dice anche che non condividesse la scelta di Elizabeth McGovern, come Deborah. «È vero, di lei non ero convinto al cento per cento, ma alla fine si è rivelata bravissima, aveva ragione Sergio. Le mie ragioni erano quello che erano e nel grande schema delle cose, era giusto cosí. Avevo delle riserve, ma non importa, era il film di Sergio, doveva fare ciò che lo faceva sentire bene, a posto, le mie

riserve non erano cosí forti. Se proprio non mi fosse piaciuta, avrei fatto piú casino, e poi è stata brava, Elizabeth». Il casting è gigantesco, proporzionato alle ambizioni di Leone: a New York, anche nella casa sulla 48 a, e un po’ anche a Los Angeles vede centinaia di attori. Ci lavorano Cis Corman, che era stata responsabile del casting di Toro scatenato e Re per una notte, Mary Goldberg e Joy Todd, veterane del mestiere. Il 21 luglio 1981 Goldberg manda una nota a Leone e a De Niro sulla quale segnala alcuni attori e attrici con un pallino rosso. Sono Kristian Alfonso, Janice Dailey, Laura Harrington, Craig Wasson, David Morse, Val Kilmer, Anne Kerry, John Dossett, Caris Corfman, Tony Spinelli, Frank Dzurenko. Il giorno dopo tocca a Mandy Patinkin, Tom Berenger, Caitlin Clarke, James Russo, Rachel Ticotin, Cheryl Paris, Brad Davis. Il 31 luglio un altro biglietto, Suggestions to Sergio, con i nomi di Amy Wright, Alan Rosenberg, Timothy Hutton, Roy Brocksmith, Burt Young, Robert Mitchum, Robert Duvall, Walter Matthau, James Coco, Joseph Bottoms, Deborah Raffin, Ray Sharkey, Jane Seymour, Anne Archer, Blanche Baker, Kathleen Quinlan, Ned Beatty, Barry Greenberg, Donna Pescow, Debra Winger, Mickey Rourke, Peter Riegert, Steve DeFrance, Daryl Hannah, James Caan, Tim Matheson, Martin Hewitt, Cathy Moriarty, Peter Weller, Treat Williams. Resiste ancora l’idea che Noodles, Max e Carol anziani possano essere interpretati da attori diversi da quelli della giovinezza. E si pensa naturalmente ai grandi, a gente tipo Mitchum e Matthau. Sei o sette mesi dopo, intorno alla metà di febbraio, Joy Todd fissa gli appuntamenti per Leone a Los Angeles. Il 16 il regista vede Helen Hunt e Peter Coyote. Il giorno dopo Michael Paré, Patrick Swayze, Colette Bertrand («French accent», annota Todd) e Rachel Ward. Il 18 Sean Penn e Steve Guttenberg. Ancora qualche settimana e i giochi sono fatti. Cis Corman manda una busta con le informazioni sul cast a Robert De Niro e un libretto che tiene insieme le foto di tutti gli attori prescelti. Sono quelli che vedremo sullo schermo, con poche

eccezioni. Una di queste riguarda Al Waxman, che dovrebbe interpretare il poliziotto Whitey, ma ha problemi di date, le riprese rischiano di sovrapporsi con quelle della serie tv Cagney & Lacey, in Italia New York, New York, di cui è protagonista maschile. Verrà sostituito da Richard Foronjy, attore fino a quel momento molto attivo in televisione. Soprattutto, non si è ancora deciso chi sarà Eve e chi Carol. Per Eve, la donna di Noodles, sono in lizza l’ex modella Darlanne Fluegel; Theresa Russell, anche lei ex modella; Susi Gilder e Sean Young, che ha appena girato il film che le darà un posto nella storia del cinema, ovvero Blade Runner (ma lei nega di essere mai stata in corsa per il film di Leone, e quando la contatto io, nel 2020, non ha ricordi a riguardo). In Italia, per quella parte si era pensato anche a Romina Power, la bella figlia di Tyrone Power e Linda Christian. Il provino era stato buono, ma poi lei si era presentata al successivo incontro accompagnata dal marito, il cantante pop Al Bano, e si era bruciata ogni chance. Per il ruolo di Carol, si sceglierà tra Theresa Russell e Tuesday Weld, l’ex divetta degli anni Sessanta che ha recitato con Hitchcock, ha avuto una storia con Elvis Presley e una nomination all’Oscar come non protagonista per In cerca di Mr Goodbar. Darlanne Fluegel va all’audizione vestita in stile anni Trenta, con i seni finti come la Eve di Mano armata, e convince tutti. È bella, bionda, determinata e ha letto il libro di Harry Grey. Ha deciso da poco di lasciare moda e servizi fotografici e ha preso lezioni da Stella Adler perché, dice, «a 25 anni una modella è finita». Farà diversi film importanti, lavorerà in tv, poi insegnerà recitazione alla University of Central Florida, dove la contatterò io, ottenendo una risposta piena di entusiasmo: «Sono felice di parlare con te di Once Upon a Time in America. Scrivimi quando sei pronto». Poi sparisce e solo molti anni dopo capirò perché: nel 2009, a 56 anni, le viene diagnosticata una forma precoce di morbo di Alzheimer. Morirà nel 2017. Per la torbida e seducente Carol (che in tarda età diventerà quasi saggia, o almeno indicherà a Noodles la retta via) viene

scelta Theresa Russell, già al fianco di De Niro negli Ultimi fuochi, l’ultimo film di Elia Kazan, tratto da Fitzgerald. Chi ha visto il suo provino ne ricorda la bellezza travolgente. Lei e Darlanne partecipano alla preproduzione, ma poi Russell se ne va perché non ottiene il «top billing», il nome in cima ai manifesti e nei titoli di testa. Al posto suo viene dunque chiamata Tuesday Weld, che a Leone è stata presentata da De Niro, di cui è grande amica. Il suo arrivo viene annunciato insieme a quello di Louise Fletcher quando le riprese a Roma sono già iniziate. Fletcher sarà la misteriosa donna del cimitero, quella che fa uscire Noodles dalla tomba di lusso dei suoi tre amici, un’altra donna che spinge Noodles sulla strada giusta. Ha vinto un Oscar con Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma non le dispiacciono le parti piccole: «Questa, piú che una parte, è un cameo, – dice nelle interviste. – Ma a me non importa, se mi piace il progetto. E poi ci tengo troppo a lavorare con De Niro». Quando arriva la chiamata di Leone, Claudio Mancini non ci pensa due volte. Dice subito sí e parte per l’avventura di C’era una volta in America. «L’ho detto alla persona che frequentavo in quel periodo: per un anno e mezzo non ci vedremo, devo lasciare tutto e andare a fare l’ultimo grande film italiano». Mancini lavora sul campo e sui set come organizzatore o produttore esecutivo da piú di trent’anni, nel cinema italiano è una specie di leggenda, è rispettato e anche un po’ temuto. Ha contribuito al successo di molte imprese difficili, alcune disperate, altre folli, due con Leone: dice che nel cuore ha soprattutto C’era una volta il West e Giú la testa, «film che sentivo, con quelle storie entravamo non solo nei sogni di Leone, ma anche nei miei, di ragazzo. Noi abbiamo sognato il West, mica i banditi, i mafiosi ebrei. I gangster ebrei chi li conosceva, nessuno li ha mai raccontati. Eravamo abituati a vedere gli italiani con il pancione e i capelli impomatati e gli irlandesi con il collo grosso e la testa rasata». Ci rimane un po’ male, perché questa volta evidentemente Leone non ha pensato subito a lui, l’ha chiamato quasi

all’ultimo momento. Però parte, senza esitazioni: «Quando ho accettato, ho detto che nove settimane dopo avremmo dovuto stare sul set a girare. Semplicemente perché avremmo dovuto sfruttare l’indian summer a New York e poi andarcene via. Infatti il giorno dopo che siamo partiti da là ha nevicato. Non m’ero sbagliato. Abbiamo corso tanto, continuamente, ma ero tranquillo perché sapevo che Leone si sentiva tranquillo con me». Ad aprile 1981 Mancini vola a New York e in aereo legge il copione. Dall’aeroporto va direttamente nella casa sulla 48 a. «La prima cosa che ho fatto è dire a Sergio che doveva tagliare tutta la sequenza dell’aereo, Noodles, Max e gli altri che volano da New York a Chicago e fanno baldoria con le hostess. Non era credibile, i mafiosi non si comportano in quel modo, e poi cosí abbiamo risparmiato diverse centinaia di migliaia di dollari. Poi gli ho spiegato che la scena al passaggio a livello non si poteva fare, con le auto degli anni Trenta trasportate dal treno che diventano poco alla volta degli anni Sessanta, mentre cresce la città sullo sfondo. Non avevamo mica i computer, allora. Infine, ho dovuto fare da paciere tra Leone e De Niro, che non era soddisfatto del casting, Sergio aveva scelto di testa sua senza ascoltare troppo i consigli di Bobby. Forse a James Woods preferiva William Hurt, che era stato in corsa fino all’ultimo. O non voleva Elizabeth McGovern, chissà. Gli ho detto: il regista è il regista, decide lui. E lui: va bene, ma allora io non vado al segno e non mi doppio. Sul segno aveva ragione, in America la macchina da presa segue l’attore, non viceversa, sul doppiaggio ha cambiato idea. “One with music” diceva poi, perché recitare sulla musica di Ennio Morricone piaceva pure a lui». Claudio Mancini segna la svolta. Mette in moto la macchina. «Ero a New York con Raffaella, la figlia di Sergio che era la mia assistente, – mi ha raccontato nel 2011 la costumista Gabriella Pescucci, al primo film con Leone, – c’erano gli sceneggiatori, si pensava al lavoro, ma in un’atmosfera sospesa, quasi di vacanza. Poi arriva Mancini. Lo vedo e dico a Raffaella: si parte. Infatti lui fa firmare i

contratti a tutti e noi iniziamo a lavorare come dei matti». Mancini è produttore esecutivo per Leone, line-producer per Milchan, gli garantisce che tempi e soprattutto budget non verranno sforati. Un doppio ruolo insolito, ancora di piú perché affidato a un italiano e non a un americano: «Ma lui è un italiano speciale», dirà poi Leone quando gliene chiederanno conto. A Roma circola una battuta sul rapporto fra i due: Leone fa un film su Garibaldi e per girare lo sbarco dei Mille chiede a Mancini duemila comparse. Mancini gliene dà cinquecento, ma grasse, che sembrano di piú. Mancini capisce subito che la sceneggiatura è troppo lunga per stare dentro a tempi e costi. Le settimane di riprese previste sono ventisette, lui propone a Milchan di aggiungerne alcune (saranno trentatre) e di tenere sotto controllo le spese lavorando il piú possibile in Italia. Ma sarà necessario tagliare ancora il copione, se ci si vorrà avvicinare alle due ore e mezzo di durata promesse da Leone ai distributori americani della Ladd Company. E allora si taglia. Scompare la scena della sauna, anzi, le scene, quella nel 1968 in cui Noodles riceve ulteriori indizi per la sua ricerca e il flashback della giovinezza, quando nello stesso bagno turco Max gli aveva salvato la vita. Scompare anche la famiglia di Noodles, padre, madre e fratello non si vedranno mai. Quando torna a casa, il futuro gangster va nel bagno comune, dove tiene nascosta una copia di Martin Eden (prima era Il Conte di Montecristo, l’accento non è piú sulla vendetta ma sui sogni di grandezza di un ragazzo povero). Si taglia anche la scena della retata con cui la polizia arresta la banda di Bugsy, che Noodles, Max e gli altri si godono da un tetto vicino. La parte riguardante il sindacato, lo sciopero e l’ascesa del sindacalista O’Donnell viene ridotta notevolmente, e cosí pure quella che riguarda lo scambio dei bambini in culla, che è il modo con cui si ricatta il poliziotto Aiello. Si accorcia un film che anche i piú ottimisti considerano fuori misura e si risparmia notevolmente su scene e riprese: niente piú aereo da noleggiare, niente piú poveri appartamenti di Max e Noodles giovani da costruire a

Brooklyn sopraelevando di un piano un edificio esistente, niente piú bagno turco, niente piú ricostruzione della Chinatown anni Trenta nella Chinatown contemporanea. Di questa ambientazione rimarranno solo i disegni bellissimi ai quali Carlo Simi ha lavorato sul tecnigrafo del suo studio. Soprattutto, si smonta la parte iniziale del film, quella che riprendeva il finale del libro. Non vedremo piú Noodles alle prese con i tre sicari della Combinazione, immobilizzato e cosparso di benzina, minacciato da un fiammifero nelle mani di un mafioso italoamericano. Non vedremo il trucco con cui si salva, per farsi accompagnare da Fat Moe e consegnare il milione di dollari che gli ha fatto credere di avere lí. Non vedremo Fat Moe servire ai tre il whisky drogato che li indebolisce e permette a Noodles di ucciderli. Li vedremo direttamente nel locale, ammazzati da Noodles in un agguato, e soprattutto vedremo morire Eve, la donna di Noodles, per mano dei tre killer. È questo il cambiamento piú significativo, il piú importante anche perché avviene all’ultimo momento e addirittura oltre, quando De Niro ha già ricevuto un calendario delle riprese. Dei due incontri di Noodles con Eve, quelli che ricalcano il libro, ne rimane soltanto uno. Non solo: Eve non si suicida piú con i sonniferi, come lascia intendere Carol anziana quando Noodles la visita nella casa di riposo («Carol sa che lei era incinta?» annota De Niro sulla sua copia della sceneggiatura). Eve ora muore nei primi minuti del film, quando i tre killer cercano Noodles. Non è piú la sua donna, colei che gli fa assaporare i primi momenti di normalità quasi borghese, è la sua anima junghiana, l’energia femminile presente nel suo inconscio, una personificazione della sua interiorità, in opposizione alla maschera, alla persona. L’anima di Noodles muore al posto suo quando lui se ne va. Gli salva la vita e lo condanna ad andare a letto presto per il resto della sua esistenza. Il 14 giugno 1982, alle 9.30 del mattino, al Teatro della Cometa di Roma, Sergio Leone torna a dirigere un set a dodici anni dalle riprese di Giú la testa. Si gira la scena che apre il

film, il duello delle ombre che rappresentano Rāma e Rāvana, ̣ il Bene e il Male. Tra gli attori Olga Karlatos e Mario Brega. Qualcuno è preoccupato, molti sono curiosi: siamo a due passi dal Campidoglio, in una piccola sala teatrale chiusa dal 1969 dopo che un incendio l’ha devastata. In questi dodici anni è successo di tutto e il primo ciak è stato rinviato talmente tante volte che sembra impossibile vederlo accadere. Arriva Leone, dice solo: «’Namo dentro, va’». Poi si siede, guarda in macchina e via. «Come se avesse smesso il giorno prima, – ricorda Mancini. – Erano 16 movimenti di macchina, è partito come una spada». Alle 9 della sera Mancini fa arrivare pizzette e supplí per tutti, ma soprattutto per Leone, che chiude la prima giornata del film della sua vita alle 22.30, nel teatro delle ombre cinesi. Stop. Azione, questa volta a Cinecittà. Si gira la scena nella fumeria d’oppio. De Niro/Noodles è disteso a terra, la lunga pipa in bocca. Si solleva leggermente, raccoglie il giornale con la notizia della morte dei suoi tre compagni e squilla per la prima volta (in totale saranno 24) il telefono che solo lui sente suonare. Sobbalza, nello stato di stupore indotto dall’oppio. Leone non è un tipo da buona la prima, De Niro neppure. Finito il primo ciak, i due confabulano – De Niro parla praticamente solo con lui, con e senza interprete – e trovano subito un accordo: l’attore non ha alcun problema a ripetere una scena anche piú di dieci volte, come piace a Leone, ma ogni volta il suono che lo desta dovrà essere diverso, ogni volta lo deve sorprendere. Si ricorre ad attrezzi di ogni tipo, dal ciak ai martelli presenti sul set, la scena è perfetta e un punto fermo è stato fissato. Nessuno vincerà la gara dell’attenzione al dettaglio, anzi, la vinceranno tutti, perché regista e protagonista sono in sintonia perfetta. Quello stesso giorno, Leone si fa portare un trabattello, un piccolo ponteggio che si usa per riprendere dall’alto, lo fa montare sul giaciglio di Noodles, e da lí gira una brevissima sequenza in cui De Niro sorride. E lui, da grande attore qual è, trasforma il sorriso in una smorfia enigmatica, eccessiva e malinconica. «Sí, quel momento me lo ricordo bene, – mi ha

detto De Niro. – È stato all’inizio delle riprese, a Roma. È l’apertura e la chiusura del film. Dice tutto. È un sogno o non è un sogno? È una combinazione di sogno e realtà… could’ve been, would’ve been, should’ve been». [Sulla scena della fumeria d’oppio si potrebbero scrivere pagine e pagine, forse libri interi. Claudio Mancini sostiene che è tutta sbagliata, è un errore, per quanto voluto, perché l’oppio si fumava in antri bui dai soffitti bassi, ma qui è l’organizzatore che parla. Anche lui sa che Leone insegue un suo personalissimo realismo, quello del cinema. Gilles Jacob, che ha diretto Cannes fino al 2014, di recente ha messo su Twitter un’immagine di The Letter, in italiano Ombre malesi, regia di William Wyler, protagonista Bette Davis, con un uomo disteso su un lettino che fuma da una lunga pipa e il commento: «Scena identica in C’era una volta in America». Ombre malesi è ambientato a Singapore ed è stato girato tutto a Burbank, California. È un film pieno di sensi di colpa, di tradimenti, di vendette, ha una struttura circolare, inizia e finisce con un delitto. Uscí in America nel 1940, ebbe sette candidature all’Oscar dell’anno dopo, in Italia arrivò a guerra finita, nel 1947, quando Leone aveva 18 anni. C’era una volta un certo modo di fare cinema. E di andarlo a vedere, e ricordarselo. In una nota a piè di pagina di un suo saggio, A Hair of the Dog that Bit You, il filosofo marxista lacaniano hitchcockiano Slavoj Žižek dà un’interpretazione psicanalitica degli squilli di telefono con i quali comincia C’era una volta in America, quelli che accompagnano Noodles nella fumeria d’oppio: «Ciò che abbiamo qui è ovviamente una sorta di raddoppio riflessivo dello stimolo esterno (un suono, un bisogno organico ecc.) che innesca l’attività onirica. Si integra l’elemento nel sogno per prolungare il sonno, ma il contenuto è talmente traumatico che infine si fugge nella realtà e ci si sveglia. È ciò che Lacan chiama l’insistenza del reale». Si può fumare l’oppio del cinema finché si vuole, ma l’unica fuga possibile è quella nella realtà. Perfetto].

Leone lavora in questo modo: riprende tutto molte volte, da tanti punti di vista. I dettagli, i primissimi piani cosí tipici del suo cinema li mette in coda alla sera, quando le scene sono state girate, e cosí fa arrabbiare Tonino Delli Colli, il direttore della fotografia, che magari non ha piú luce e in compenso ha una troupe che lavora dalle 7 di mattina e non ne può piú. Ma De Niro sí che se ne accorge e coglie al volo l’offerta del regista. «Con Sergio, – mi ha raccontato De Niro, – trovai un metodo di lavoro nuovo, che non avevo mai sperimentato. A volte succedeva che prima del ciak io gli dicessi: fammi vedere come tu vedi il mio personaggio in questa scena. Mi sembrava interessante vedere cosa aveva in mente, per poi rifare a modo mio ciò che lui mi aveva mostrato. Perché Sergio sapeva cosa voleva, era in grado di interpretarlo per me e io potevo seguirlo. Per me come attore era una buona cosa. Ricordo che glielo dissi: mostrami che cosa hai in mente. Avevamo un interprete, Brian Freilino, un americano. Era fantastico ed era sempre a disposizione di Sergio. È stato essenziale per la nostra relazione, interveniva spesso, ogni volta che ce n’era la necessità». Questo giorno a Cinecittà stabilisce il tono del rapporto tra l’attore e il regista e l’atmosfera del film, che ha già trovato il suo misterioso e memorabile finale. A Cinecittà, e poi in via delle Messi d’Oro, a Pietralata, tra giugno e settembre 1982 si gira la parte del film ambientata negli anni Trenta. Il 5 luglio alle 17.15 si chiude tutto per seguire Italia-Brasile al Mondiale di Spagna, alla fine di agosto ci si trasferisce per qualche giorno al Lido di Venezia, dove sta per cominciare la Mostra del cinema, per le riprese della romantica cena a due di Deborah e Noodles (che ha riservato l’intero ristorante) e della scena in spiaggia che segue. Si è scelto l’Excelsior perché costruito nello stesso stile moresco degli hotel di Long Island nei primi decenni del Novecento. A Roma, al mattatoio di Testaccio, si gira la scena delle minacce al sindacalista irlandese. Gli sgherri della mafia lo

inzuppano di benzina e gli agitano un fiammifero davanti al volto (curiosità: la stessa intimidazione era prevista per Noodles nelle stesure iniziali della sceneggiatura, prima che si liberi con astuzia dei tre sicari e scappi; cancellata di là, rispunta qui, evidentemente non se ne voleva fare a meno). Quella mattina, Leone cade nella doccia e si frattura un piede. Ma la macchina non si ferma. Mancini gli dà un passaggio, fa arrivare sul set una sedia a rotelle, chiama un ortopedico che lo visita e lo fa ingessare. La sera, per premiarlo, lo accompagna a mangiare rigatoni con la pajata e coda alla vaccinara. Il giorno dopo, sono a Parigi, alla Gare du Nord: la scena è quella di Deborah che lascia New York e va a Hollywood, la stazione è stata scelta perché è il modello che ispirò il Grand Central Terminal di New York, da dove partono i treni per Buffalo. Leone è ancora immobilizzato dal gesso, Mancini corre qua e là per lui («Che notte! Mi batteva il cuore forte forte»). Finiscono poco prima di mezzanotte, quando sarebbe scattato lo straordinario (e infatti sul treno a fianco si vede la scritta delle ferrovie francesi, SNCF , su un binario l’insegna in francese: VOIE 13 ). Mancini: «Leone mi chiede solo: ce la facciamo? Capisco subito tutto al volo, a Les Halles, il vecchio mercato generale, facevano certe tazze di soupe à l’oignon, lui ne andava matto. Ne faccio arrivare una trentina di queste cosette. Gliene passo due, lui mi guarda e dice: che ci faccio con queste? E con la mano ne ramazza altre sei o sette». Gabriella Pescucci, che come assistente di Piero Tosi e poi da titolare aveva lavorato con Pasolini, Fellini, Visconti, Patroni Griffi, Bolognini, era stata convocata da Leone qualche mese prima dell’inizio delle riprese. «Leone mi chiamò, – mi ha raccontato lei, – io andai nella villa all’Eur, sua figlia Raffaella mi portò nello studio del padre. Sergio aveva sempre un’aria molto brusca e io timidamente misi subito le mani avanti: guardi, signor Leone, si dice che lei sul set tratti male la gente. Io l’avviso: sono molto permalosa, se lei mi tratta male non mi vede piú. Lui si mise a ridere». È una prima volta per lei, ma anche per Leone, che si era affidato quasi sempre a Simi per i costumi. Il lavoro parte

dalla consultazione delle fotografie raccolte da Leone: «Nella villa all’Eur Sergio mi raccontò la storia, sempre un po’ brusco, poi disse: ti faccio leggere la sceneggiatura. Piano piano partimmo. Io cominciai a disegnare, il confronto con Leone fu continuo, andai su tutti i set e prima ancora a visitare i luoghi dove avremmo girato, la scenografia è fondamentale per i costumi. Che trattasse male la gente sul set poi non era vero, poco alla volta scoprii il suo senso della bellezza, ne ho incontrati pochi di registi come lui. Non l’avresti mai detto, a vederlo cosí, un corpaccione di uomo che voleva fare il duro e che forse per tanti aspetti lo era, perché era anche un grande businessman, non dimentichiamolo. Ma era soprattutto un esteta». Delle immagini che le passò Leone, Pescucci ricorda soprattutto le foto segnaletiche dei gangster: «Erano bellissime, e Leone aveva una specie di ossessione per i cappelli, spaventosa, io e Raffaella andammo alla sede storica della Borsalino, ad Alessandria, che accettò di fornirci tutti i cappelli di cui avevamo bisogno. Mi documentai a fondo e come sempre poi inventai. È la bellezza del cinema. La moda giusta per il momento storico in cui è ambientato il film – e a me è sempre piaciuto questo aspetto archeologico del lavoro – va portata sul personaggio e dal personaggio sull’attore. Io dico sempre che il mio lavoro è prima di tutto questo: aiutare l’attore a entrare nel personaggio. De Niro diceva la sua, era pignolo, voleva sapere ogni dettaglio, anche il perché di un bottone, però essendo un uomo intelligente non ha mai detto: questo mi sta meglio di quello. Si lasciava guidare da Sergio, da un’impressione che aveva. Non dimentichiamolo, i film li fanno tante persone che lavorano per una sola persona, il regista. È lui che ha la responsabilità della parte visiva e i film sono scritti con le immagini. Leone, poi, vedeva il film anche prima di girarlo, un po’ come io riesco a vedere un vestito prima che sia finito, è un transfert dell’immaginazione, un angolo della mente che non tutti hanno. Leone era maniacale sui dettagli e aveva ragione, non si sa mai dove arriva la macchina da presa. Io poi non lo so mai, se sarà un primo piano e il collo si vedrà benissimo o se sarà ripreso da lontano.

Oggi va di moda lo storyboard, il cinema è sempre piú un’industria, i produttori pretendono di sapere tutto prima. Ma poi non è possibile, ci sono registi che mi danno lo storyboard e poi girano un’altra cosa. Leone non usava storyboard, vedeva i giornalieri e guardava nell’obiettivo, stava spesso alla macchina, controllava tutto prima di girare. Quando il monitor non c’era, si faceva cosí. Ci confrontavamo spesso sui colori, lui voleva lavorare molto su tutti i toni del marrone. Poi, diciamolo, in questo film la fotografia è meravigliosa, Tonino Delli Colli ha avuto il coraggio di fare dei bui, degli scuri, è un film molto coraggioso, e questa è una cosa che non si sottolinea mai abbastanza. Tonino è stato un grande a riprendere un film cosí in quegli anni lí, senza digitale, senza effetti speciali, senza monitor». «Dovevamo differenziare le tre epoche. Per questo, gli anni Venti sono marroncini, un po’ come le foto d’allora; il 1930 vive di tonalità bianche e nere metalliche, sull’esempio dei film gangsteristici, mentre il 1968 non presenta effetti particolari sebbene rimanga abbastanza freddo e neutro. In realtà, la vera differenziazione è stata realizzata in sede di stampa in laboratorio, intervenendo sui colori anche piú di quanto fosse stato fatto in sede di riprese. Il difficile fu raccordare in maniera uniforme le tre epoche e che ci fosse sempre la medesima tonalità per ciascuna di esse nonostante i tempi di realizzazione fossero differenti». Cosí Tonino Delli Colli racconterà al figlio Stefano il suo contribuito all’edificazione di C’era una volta in America molti anni dopo, quando, dopo l’Oscar alla Vita è bella (1998), considererà conclusa la sua storia di maestro della luce (artigiano, avrebbe detto lui). Delli Colli era entrato a Cinecittà nel 1938, giovanissimo: una colonna del cinema italiano che ha sempre desiderato rimanere dietro le quinte. In realtà, l’invenzione dell’immagine di C’era una volta in America è in sé una grande avventura intellettuale, di cui il modesto, eclettico Delli Colli è protagonista assoluto: ciascuna delle tre epoche in cui si sviluppa la storia trova un riferimento preciso nel cinema di quegli anni. Il film comincia con il

protocinema, le ombre cinesi, l’infanzia ha il color seppia del primo Charlie Chaplin, gli anni Trenta sono quasi in bianco e nero come i film di Howard Hawks, Raoul Walsh, Mervyn LeRoy, il 1968 è moderno come John Milius e Arthur Penn. Il formato della pellicola è classico, l’immagine ha un rapporto tra larghezza e altezza di 1,85, un classico del cinema hollywoodiano. Per la prima volta Leone abbandona il rapporto 2,35, che è quello del Cinemascope. Finezze tecniche? Mica tanto, se il suo cinema veniva da tutti identificato con quel formato, i suoi tipici primissimi piani e i vasti panorami: «Facciamo un Sergio Leone», dice Quentin Tarantino ai suoi operatori quando cerca quel genere di taglio sul volto degli attori e quella stessa emozione. La svolta è totale, è come se Leone avesse finalmente accettato la sfida sul terreno altrui, dopo aver trascinato il western americano sul suo e averlo ripetutamente stracciato. Il duello ora si combatte in un territorio lontano, quello del cinema mitico, quello della vecchia e nuova Hollywood. A Montréal, Canada, le riprese di C’era una volta in America iniziano di lunedí, il 13 settembre 1982. Andranno avanti all’incirca per un mese, il Canada offre vie e palazzi in stile anni Trenta perfettamente conservati a costi nettamente inferiori a quelli americani. A Montréal si comincia con i ragazzini: Noodles, Max compiono la prima cattiva azione su commissione, danno fuoco all’edicola di un giornalaio che non paga il racket. Gli attori sono giovanissimi e vengono tutti dall’area di New York. Hanno avuto la conferma di essere stati presi da un giorno appena. Sono tutti sconosciuti tranne la piccola Deborah, Jennifer Connelly, che non ha ancora 12 anni ma è quasi una veterana degli spot tv. Sua madre è ebrea e fa l’antiquaria, suo padre ha un’azienda che produce abbigliamento per bambini. Vive a Brooklyn Heights, l’ha scoperta un paio d’anni prima un amico di famiglia che lavora nella pubblicità. Un’agenzia l’ha proposta a Cis Corman, che ne ha parlato a Leone: un giorno i genitori l’hanno accompagnata a incontrare lui e De Niro a Manhattan. «Mia nonna mi ha rivelato il

segreto per non avere paura: “Se De Niro ti mette in soggezione, immaginalo in bagno, seduto sul wc”. Non ha funzionato, ero nervosissima». L’hanno presa, anche se non sa ballare. È molto bella, credibile come piccola Elizabeth McGovern. Qualche anno dopo – nel 1991, in un’intervista con David Wild per «Rolling Stone» – definirà C’era una volta in America un’introduzione al mondo del cinema «incredibilmente idilliaca» e il film uno dei pochi che rivede sempre con piacere, «forse perché la mia parte è cosí piccola». Il secondo giorno a Montréal si gira la scena di Deborah (adulta) che recita a teatro Antonio e Cleopatra. È la scena del suicidio. Noodles è tra il pubblico. È un teatro vero, l’Impérial, una sala che è anche un cinema e che in quel momento ha in cartellone il nuovo Star Trek. Claudio Mancini: «Mentre aspettavamo che finisse il film per montare le scene, Leone e De Niro hanno litigato per una stupidaggine, perché se Milchan fa una parte allora Leone gli dice che pure io ne devo fare una. Quando lo scopro, dico a Leone che De Niro avrebbe intenzione di chiedergli scusa, ma non in pubblico, e lo stesso dico a De Niro. Li faccio entrare nell’ufficio del direttore del teatro e lí, uno di fronte all’altro, non possono che stringersi la mano. Leone mi dà sottovoce del fijo de ’na mignotta, De Niro ride sotto i baffi». Le riprese cominciano che è notte e finiscono alle cinque del mattino. A Montréal si girano anche molti esterni e alcuni interni che hanno bisogno di un tocco speciale di autenticità: la stazione di polizia di Aiello, l’ospedale dei bambini scambiati in culla, la scena in cui sparano a Burt Young, l’incontro con il sindacalista O’Donnell, il sopralluogo alla banca. Mancini: «Lí ci sono delle banche favolose. Ce n’è una che sembra un tempio del denaro, con le colonne, una luce quasi sacrale, è la San Pietro delle banche. Abbiamo bloccato la città per un mese, con C’era una volta in America». Simi: «Ho fatto vedere a Sergio una banca monumentale, bellissima. Lui mi ha detto: non va bene, se Noodles rifiuta di fare un colpo qui lo spettatore pensa che sia un codardo, come fai a dire di no a

una banca cosí bella? Allora abbiamo girato in una prigione. Per non far sfigurare il personaggio». Poi si trasferiscono a Trois-Rivières, a due ore di macchina da Montréal, sulla riva nord del San Lorenzo, dove girano le scene dello sparo nell’occhio al mafioso italoamericano e il giorno dopo quella del salto in acqua con la Cadillac del 1925. È una domenica, il 26 settembre 1982, lo stuntman è un francese che ha lavorato moltissimo a Roma, Rémy Julienne. Si tuffa con la macchina e riemerge subito, forse spaventato dall’incidente quasi mortale capitato a suo figlio qualche giorno prima durante le riprese di un film nella Senna. Buona la prima, comunque, anche se va un po’ perduto il parallelismo con una scena che devono ancora girare (i ragazzi si gettano in mare, Max riemerge dopo molto tempo facendo credere di essere annegato) che prefigura il grande inganno finale. A St Petersburg, in Florida, c’è un hotel che i locali chiamano Pink Lady. L’hanno inaugurato nel 1928, lo frequentavano Francis Scott Fitzgerald, Al Capone e Franklin Delano Roosevelt. È il Don Cesar, ha riaperto nel 1973 dopo che per trent’anni è stato ospedale militare, sanatorio, infine un gigante di 220 stanze abbandonato a se stesso. Da sempre, Leone vuole girare lí l’ultima vacanza di Noodles e Max, con Eve e Carol. Ci arrivano di mercoledí, il 13 ottobre 1982, se ne vanno domenica 17, ma lavorano solo due giorni perché gli altri sono di pioggia. Una sera De Niro vede Darlanne Fluegel a cena con Arnon Milchan nel ristorante dell’hotel. Chiama subito Mancini. «Fino a quando non finiamo di girare è la mia donna, mandalo via». Forse tra lei e il produttore c’è qualcosa, forse no, ma non importa. È Noodles che parla, in quel momento. Per la scena sulla spiaggia, il giorno in cui i giornali annunciano la fine del proibizionismo, Leone vuole 250 comparse. Mancini è disperato, non hanno le persone né costumi a sufficienza, poi nel Don Cesar trova una foto degli anni Trenta, una panoramica, e conta quanti sono. Non piú di 150, Leone si convince. «Con la troupe che abbiamo portato fin qui, i 40 che abbiamo ingaggiato sul posto e tutte le

comparse, facciamo guadagnare a St Petersburg almeno 400 000 dollari», dice al quotidiano locale Fred Caruso, produttore esecutivo nonché portavoce della produzione. Caruso è un italoamericano del New Jersey, padre calabrese, madre napoletana. Ha iniziato da assistente di produzione con Un uomo da marciapiede, poi ha lavorato per John Cassavetes (Mariti), ha prodotto Il Padrino e Quinto potere, Vestito per uccidere e Blow Out per Brian De Palma. «Chiunque ti dice di aver sempre saputo che un certo film sarebbe stato un grande successo, mente, – mi ha detto a un certo punto della lunga conversazione via mail che abbiamo avuto lungo tutto il 2019. – Io per esempio, nel caso del Padrino, Quinto potere, Velluto blu non l’avevo previsto. Ma quando lessi il copione di C’era una volta in America e seppi da Leone come l’avrebbe prodotto e diretto, compresi subito che con questo film tutti avrebbero dovuto fare i conti. E non mi sono sbagliato». Caruso aveva ricevuto una telefonata già nel 1974, sapeva fin da allora che Leone stava pensando a una storia di gangster. «Ma poi non ho avuto piú notizie. Fino a quando nel 1982 mi chiama Brian Freilino, che nel frattempo è diventato il collaboratore piú fidato di Sergio. In quel momento sono a Philadelphia sul set di Philadelphia Security, un film di De Laurentiis con Tom Skerritt e Patti LuPone. “Verresti a New York a incontrare Sergio?” Mi spiega che avevano già un produttore ma che l’avrebbero licenziato se avessi accettato di lavorare al film. “Sono impegnato per altri sei mesi”, gli dico. E lui: “Ok”. Mi manda il copione, che in quel momento era ancora diviso in due parti di duecento pagine l’una». Nell’hotel di New York in cui avviene l’incontro, Caruso trova solo Freilino. Parlano per qualche minuto, poi dal bagno della stanza esce Leone. Caruso: «Non lo dimenticherò mai. Forse non puoi scriverlo nel tuo libro, ma insomma, sai che in quel momento Sergio era enorme. È vestito solo di un accappatoio bianco e quando si siede sulla poltrona e si butta all’indietro… Diciamo che per tre ore devo forzarmi a fissarlo negli occhi e non abbassare mai lo sguardo. Un po’ in italiano,

un po’ in inglese, con l’aiuto di Brian ci mettiamo d’accordo, anzi, direi che diventiamo amici. Mi ero informato per bene prima di vederlo, anche se i suoi film li conoscevo. Appena arrivato, gli dico che questo copione mi pare troppo lungo, ma l’incontro spazza via ogni dubbio. Un po’ di italiano lo capisco, poi Brian interpreta i personaggi mentre Sergio racconta: in pratica ho il film davanti ai miei occhi». Brian Freilino, da Leechburg, Pennsylvania, parla italiano per origini familiari, russo perché l’ha studiato, ungherese grazie agli amici d’infanzia che vengono da là. È un raro caso di americano cosmopolita per scelta: dopo la laurea, insegna al liceo per sei mesi e poi se ne va in Europa a lavorare nel mondo del cinema. Finisce a Roma dove fa piú che altro l’attore, fino a che non incontra Leone, che cerca qualcuno per sostituire suo cognato Fulvio Morsella, che non lavora piú con lui. Freilino, come dice Caruso, diventa «gli occhi e le orecchie di Sergio. Parlava, leggeva, scriveva e traduceva per lui, era sempre con lui, ovunque andasse. E quando Sergio parlava agli attori, Brian traduceva e trasmetteva la stessa vitalità, lo stesso entusiasmo. Erano insieme ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Nella casa della 48 a, quando Sergio cuoceva gli spaghetti Brian era incaricato di versare l’acqua fredda nella pentola al momento giusto. 10, 9, 8, 7, 6… Sergio faceva il conto alla rovescia e lui versava. Ci facevamo grandi risate. Brian e Mario Cotone sono state le colonne di C’era una volta in America. Brian è accreditato come dialogue director, Mario come production supervisor, ma sono stati molto di piú». Mario Cotone, l’uomo che riuscirà ad aprire la Città proibita cinese a Bernardo Bertolucci, che porta in Sicilia la troupe del Padrino II (in cui fa anche una parte), comincia con questo film una scalata che arriverà all’Oscar con La vita è bella. «Senza Mario, – è il ricordo di Caruso, – C’era una volta in America non sarebbe esistito. Ha creato la squadra, si è occupato di tutti i budget, dei costi, delle costruzioni, di tutto. Era un mago, risolveva i problemi, sempre. Un giorno giriamo una scena sul Manhattan Bridge, devono attraversarlo

quindici auto d’epoca mentre tre macchine da presa riprendono da punti diversi. Io e Mario con i walkie-talkie siamo ai due lati della fila per bloccare il traffico. Un take, due take, ci hanno concesso il ponte per pochi minuti, ma Leone vuole il terzo take. Il poliziotto dice: “Non se ne parla, fate passare le auto”. Allora Mario mi strizza l’occhio, solleviamo i cofani delle nostre macchine, blocchiamo tutto, decine di automobilisti cominciano a suonare i clacson. Ma Leone ha il suo take. Alla fine, prima che ce ne andiamo, il poliziotto viene da noi e dice: “Ah, l’arte di arrangiarsi degli italiani…” E Sergio ride». Caruso si occupa delle riprese negli Usa e in Canada: «Ma ho lavorato anche a Roma, pure a Cinecittà. La prima volta che mi hanno parlato del film, il budget era di 14 milioni di dollari, poi ha cominciato a salire, ma devo dire che Arnon Milchan ci è sempre venuto incontro. Voleva solo essere sempre informato su tutto. Una volta, durante la preproduzione, mi ha chiesto un rapporto su quanto avevamo speso e quanto stimavo di spendere alla fine. Ci ho lavorato su, stavo per mandargli un fax a Parigi e lui mi ha detto: “No, no, voglio parlarne di persona”. E mi ha pagato un volo andata e ritorno New York - Parigi sul Concorde». È Caruso che mette insieme la troupe americana: «Allora c’erano due sindacati del cinema a New York. Uno, lo Iatse [International Alliance of Theatrical Stage Employees], lavorava sul 99 per cento dei film girati in città, con condizioni di lavoro e stipendi molto piú pesanti dell’altro, il Nabet [National Association of Broadcast Employees and Technicians]. I lavoratori Nabet non erano meno bravi, ma accettavano paghe piú basse perché avevano meno lavoro. Prendo tutti tecnici Nabet. Nella produzione volevo gente della Dga, Directors Guild of America. Manager, assistenti, erano quelli che fanno tutti i film importanti. Chiedo il permesso alla Dga, mi dicono di no perché Sergio non è iscritto. Deve versare 4000 dollari, la produzione dovrà poi pagare alla Dga i contributi e la mutua. Allora gli dico FU! Mi rivolgo a non iscritti, quelli che fanno i film indipendenti, e va tutto alla

grande. Tutto quello che è stato girato a New York City, in New Jersey e a Montréal fu organizzato nel mio ufficio, c’erano italiani e c’erano americani. Produzione, costruzioni, riprese, tutto fu fatto da italiani che lavoravano con americani, fianco a fianco. Come amici, come fratelli». Caruso preferisce non ricordare, ma in realtà lo Iatse non la prese molto bene. Nel novembre 1982, quando le riprese sono in corso a Brooklyn, la sezione 52 del sindacato, competente per gli Stati di New York e New Jersey, si rivolge al segretario al Lavoro Raymond J. Donovan, al presidente Reagan, agli organismi competenti a livello cittadino, statale e nazionale per denunciare la presenza sul set di C’era una volta in America di lavoratori stranieri, «da 30 a 50», che «tolgono a meccanici, tecnici, artigiani e macchinisti americani il diritto a guadagnarsi da vivere nel loro campo di competenza». La reazione è forte, e funziona, anche perché il 1982 è l’annus horribilis del cinema americano, le major hanno dimezzato le produzioni, gli indipendenti sono calati di un terzo. Reagan, che in altri settori aveva già dato sberle memorabili ai sindacati (è appena finita la famosa vertenza dei controllori di volo), questa volta dice che si interesserà alla questione. È una reazione tardiva, almeno per quanto riguarda C’era una volta in America. I sindacati incontrano il capo dell’agenzia federale per l’impiego e l’incaricato del presidente a gennaio, quando Leone e la sua troupe sono già in Italia. Ottengono ciò che chiedono, e cioè che le richieste di visto per realizzare film sul territorio americano debbano essere vagliate una per una e concesse solo se si dimostra che il lavoro non può essere svolto da un tecnico locale. «Vogliamo la certezza che non si ripeta mai piú un caso come quello di Once Upon a Time in America», dice Mike Proscia, il leader della protesta. Il caso, infatti, non si ripeterà. Mai piú. E non si potrà piú ripetere. «Un film come il nostro con le nuove regole sarebbe costato cinque milioni di dollari in piú», commenterà poi Leone. «Ma non è per i soldi che ne ho portati 47, – mi ha

detto poi Mancini, – è per la qualità del lavoro. Solo di truccatori e costumisti ne ho fatti arrivare dieci dall’Italia. Viva l’Italia». Caruso è di Rumson, New Jersey. Anche lui, come Mancini e Cotone, risolve problemi un po’ ovunque, figuriamoci quando gioca in casa. Per la scena della valigetta depositata alla stazione dai gangster ragazzini aveva suggerito il terminal di Hoboken, New Jersey. La città di Frank Sinatra. Da lí partono i traghetti che portano a New York e i treni della linea Erie-Lackawanna. Qui hanno girato Fronte del porto. I sindacati locali gli avevano chiesto di pareggiare quelli della troupe a uno a uno con lavoratori dello Stato. C’erano volute ore di trattative per raggiungere un compromesso. Dalla Florida, il 19 ottobre 1982 il set si trasferisce appena fuori New York, in un lento avvicinamento al cuore di tutto. A Spring Lake, New Jersey, sui viali larghi e lunghi che danno sul mare, con quelle belle e grandi case vittoriane, si gira la scena del mattino dopo: Noodles ha avuto finalmente il suo appuntamento con Deborah, la va a prendere fuori dal teatro con una limousine Pierce-Arrow del 1933 e l’autista interpretato da Arnon Milchan, il produttore, e la porta a Long Island in un ristorante che ha fatto riaprire solo per lei: tutti i tavoli sono apparecchiati per due, non ha che da scegliere. Cenano, si distendono in spiaggia e lei gli dice che lui è stato l’unico di cui le sia mai importato qualcosa. Gli rivela che l’indomani partirà per Hollywood, andrà a Ovest come tutti quelli che inseguono i propri sogni. Tornano in auto, lei lo bacia, lui le si avventa contro, la violenta, piú volte, a lungo, fino a quando l’autista non ferma, lo fa scendere, e se ne va. Noodles è sul lungomare mentre albeggia, solo. È all’incrocio tra Warren Avenue e Ocean Avenue, a Spring Lake, solo cielo e acqua davanti a sé. Cosí si chiude una sequenza di 12 minuti e mezzo che è iniziata a Montréal (l’uscita da teatro), è proseguita al Lido di Venezia (il ristorante, la spiaggia), poi in studio a Roma, a Cinecittà (la violenza) per arrivare appunto sulla costa del New Jersey. Il

giro del mondo in 12 minuti e mezzo (e una vita di cinema alle spalle). Elizabeth McGovern ha 22 anni, poco piú della metà di quelli di Robert De Niro. La scena dello stupro di Deborah, che sullo schermo è terribile, e sembra non finire mai, per lei è stata la piú facile di tutto il film. «C’era qualcosa di molto chiaro a cui reagire. Facile da capire, facile da fare. Feci quella scena, odio ammetterlo ma è cosí, pensando: grazie al cielo non devo recitare e almeno so cosa sono qui a fare. Almeno non sono confusa su ciò che si vuole da me». L’ha raccontato nel 2003 a Fiona Morrow per il giornale inglese «The Independent». È un’intervista che si trova in rete. L’ho archiviata, letta e riletta, ho smesso di cercare Elizabeth McGovern, non avrei potuto fare meglio di Fiona Morrow. Né lei essere piú sincera. In quello stesso 1982 in cui gira C’era una volta in America, McGovern ha avuto una nomination all’Oscar per Ragtime. Tutti la cercano, tutti la vogliono. Anche Leone, che nella casa sulla 48 a Strada le racconta il film, dall’inizio alla fine: «E ciò che mi ha detto quel giorno, scena per scena, è ciò che poi ha davvero girato». Non era un momento facile per lei, malgrado le apparenze: «Sapevo che stavo raccogliendo piú di quanto meritassi. Mi era chiaro che avevo avuto un successo prematuro, che ero stata molto fortunata. Ma non avevo anni di gavetta alle spalle per mettere tutto in prospettiva. Sentivo un peso insopportabile, ero molto sola. Sapevo che mi aveva voluta Leone e che De Niro non era d’accordo. Cioè, lo sentivo, non credo che qualcuno sia stato cosí volgare da venirmelo a dire. Lo screen test fu fresco, spontaneo, c’era qualcosa in me che non è venuto fuori nel film. Se lo vedi oggi, il film, nelle scene dei ragazzini scopri una perfezione, un’assenza totale di forzature che nelle scene degli adulti non c’è mai. È quello il film che Sergio avrebbe voluto fare. Invece, lui e De Niro avevano idee diverse. De Niro era interessato ai dettagli realistici, era preoccupato che non ce ne fossero a sufficienza, a Sergio non poteva importare di meno. Mi sentivo tirata un po’ di qui, un po’ di là, a volte penso di

aver perso di vista chi fossi e che cosa volessi fare. È un film cosí maschile… Deborah non è semplicemente una donna, è la donna vista da un uomo, qualcosa di molto difficile da rappresentare se la visione non è tua, se tu sei l’oggetto. E quando abbiamo girato le scene da anziani, sentivo di non avere le qualità necessarie per farla. Se fossi stata Sergio, avrei pensato seriamente di prendere un’altra attrice al mio posto». A novembre 1982 arriva finalmente il momento di Williamsburg, Brooklyn. Nell’Ottava Strada Sud, che Carlo Simi trasforma in Delancey Street, si girano gli esterni degli anni Venti, le uniche scene di massa del film. Un giorno le comparse sono piú di mille, e, all’ennesimo ciak, quando tutti pensano di aver finito, Leone fa ripetere ancora perché una di loro avrebbe guardato in macchina. Un episodio che mi ha raccontato Luca Morsella, il suo aiuto. Mitologia leoniana, cura maniacale per i dettagli. Tre strade di Brooklyn, l’Ottava Sud, la Broadway e la Sesta Sud, diventano il Lower East Side, che in realtà si trova su Manhattan, all’estremo opposto del Williamsburg Bridge, cioè il ponte in metallo che si vede nelle scene girate sulla Sesta, per esempio il tentativo di rapina dell’ubriaco che fa incontrare Noodles e Max. Quando Noodles vecchio arriva in auto dall’esilio di trentacinque anni, la strada è la Broadway, che malgrado il nome altisonante in questo momento piú che altro è solo sterrato e marciapiedi rotti. Quando la piccola Deborah torna a casa con le scarpette sulle spalle è in Bedford Avenue e sta per entrare sulla Broadway, ma dal capo opposto. Gli isolati interamente coperti dalle scenografie di Simi sono sull’Ottava, dove, in un angolo vuoto, si è costruito il piccolo cimitero ebraico in via di demolizione. Sulla Sesta, a coprire uno spazio senza case, si costruisce una sola facciata, quella dei bagni pubblici dai quali esce il poliziotto Whitey. C’è quasi sempre fumo sul set, un po’ per restituire il gusto della memoria lontana, un po’ perché non si veda il fondo della via, la parte che non è stata coperta dalla scenografia. Il ponte sotto il quale viene ucciso il piccolo Dominic è da tutt’altra parte. Non è il Williamsburg Bridge ma il Manhattan

Bridge, a Dumbo, tra Adams Street, Front Street e Washington Street. La prigione di Noodles è ancora piú in là, sempre a Brooklyn, in Flushing Avenue, ed è la sede della nettezza urbana locale. Ma quando vi entra, i suoi amici che lo salutano sono nella realtà ben lontani, di nuovo vicini al Manhattan Bridge, dove c’è anche la distilleria segreta di Capuano, in realtà uno stabilimento che ricicla la carta. Noodles esce di galera nel Queens, fuori da un vero tribunale, la Long Island City Courthouse, mentre il controcampo con Max e il carro funebre è una via piú in là, vicino ai binari della ferrovia. Quando arriva dicembre, e comincia a far freddo sul serio, si finisce il lavoro a New York. In un giorno solo sui tetti di Chinatown che Simi aveva studiato e fotografato a lungo si gira la scena del sesso tra il poliziotto e la ragazzina, Peggy, con quel che ne consegue. Peggy è Julie Cohen, che all’epoca ha 18 anni, e che ricorda quel momento cosí: «Noi siamo sul tetto, Leone dirige dal tetto vicino. Chiama “Azione”, poi mi dice, sempre urlando con quel suo accento italiano: “Julie, comincia a scopare”. Se ci penso, scoppio a ridere ancora adesso». Non sa chi è Leone quando va al casting, quando la prendono recupera e vede tutti i suoi film in cassetta. «Il mio preferito? Il buono, il brutto, il cattivo. C’era una volta in America è stata un’esperienza fantastica, e non solo perché mi permise di andare a Roma. La troupe era incredibile, meravigliosa, molto protettiva e rispettosa. Quando abbiamo girato la scena della vasca da bagno ero un po’ a disagio all’idea di essere nuda, con tutti quegli italiani in giro. Però poi una signora dei costumi ha stirato per tutto il tempo il mio accappatoio per tenerlo caldo e non farmi prendere freddo tra un take e l’altro. Il mio preferito era Tonino Delli Colli, il direttore della fotografia, dolce, divertente e piccoletto come me. Forse per questo gli piacevo. Mi ha regalato una spilletta con il disegno di due labbra strette e la scritta BACI ». A Chinatown, sulle scale strette di una di quelle vecchie case che nel Lower East Side non esistono piú, si gira la scena della charlotte russa con panna, il prezzo di un rapporto sessuale che Patsy finisce per mangiare, pezzo per pezzo, da

solo, mentre Peggy, appunto, sta facendo il bagno. Il bar piú antico di tutta New York, McSorley’s nell’East Village, aperto nel 1854, fa da sfondo al primo contatto con i grandi della banda di ragazzini. L’ultima scena realizzata a New York è quella in cui il vecchio Noodles schiva un po’ goffamente un frisbee lanciato verso di lui. Un simbolo della modernità che lo spaventa, una delle pochissime scene ambientate nel 1968 girate a New York. Il Noodles vecchio vivrà soprattutto a Roma, soprattutto nel nuovo anno. A dicembre inoltrato è tempo di tornare in Italia. La prima scena con Noodles vecchio girata in Italia è quella in cui lui chiama Fat Moe da una cabina telefonica. La ripetono nove volte senza musica, poi undici volte con la musica sotto. Per la prima volta si vedrà da vicino com’è Noodles nel 1968, è il suo primo primo piano. Per la prima volta si può apprezzare il lavoro di Manlio Rocchetti. Erede di una dinastia di creatori di parrucche per il teatro, l’opera, la tv e il cinema che ha iniziato a operare nel 1874, Rocchetti arriva a C’era una volta in America grazie a Claudio Mancini, con cui aveva lavorato al Mondo nuovo di Ettore Scola. Tramontata l’idea di servirsi di due attori diversi per le scene ambientate nel 1933 e per quelle del 1968, ci si era rivolti a Dick Smith, truccatore che aveva collaborato al Padrino e all’Esorcista. Ma lui aveva rifiutato, era già impegnato con Amadeus, che gli darà l’Oscar. Era stato chiamato allora Christopher Tucker, che non aveva vinto l’Oscar per The Elephant Man per l’unica ragione che l’Oscar al trucco ancora non c’era, anzi, verrà introdotto nel 1981 per il clamore suscitato dal suo lavoro in quel film. Per C’era una volta in America, Tucker fa un buon lavoro ma a modo suo, con le protesi: «Non era piú De Niro, – mi ha detto Rocchetti, che aveva visto i provini, – era un bel vecchio, ma non era lui. Non lo riconoscevi piú». Manlio Rocchetti l’ho incontrato a mezzanotte del 24 marzo 2011, sul set di A.C.A.B. di Stefano Sollima. L’appuntamento era in una via di San Basilio, periferia est di Roma, il tassista non era proprio felice di andarci, e quello che

un’ora dopo mi ha riportato in centro si è fatto attendere a lungo. Rocchetti è uscito e rientrato dal set diverse volte. Tra una ripresa e l’altra, abbiamo parlato. Della sua famiglia: «Il nostro laboratorio di parrucche è passato dal mio bisnonno a mio nonno, a mio padre e adesso ci sono io. Mio zio a un certo punto mi ha chiamato: vienimi ad aiutare, sono rimasto solo. Sono andato da lui una domenica, mi ha fatto truccare una persona quattro o cinque volte, poi ha detto: domani vieni sul set. Non sapevo che fare, non è un mestiere che si impara in un giorno. Mi sono buttato». Di C’era una volta in America: «Eravamo tutti giovani, tranne il direttore della fotografia, Tonino Delli Colli. E quando si è giovani si è anche un po’ incoscienti, non ti rendi pienamente conto di quello che fai. Quando De Niro è venuto a fare i provini al Teatro della Cometa, è entrato, si è seduto in un angolo e nessuno s’è accorto di lui. Tutti ad aspettarlo e nessuno l’ha visto. Aveva la tuta con una righettina, era dimesso. È una persona talmente tranquilla… Non è questo mostro che dicono. Cioè, è un mostro di bravura, ma nella vita è molto normale. Poi tra di noi è nato un rapporto, per sei mesi siamo stati insieme tutti i giorni dalle tre di mattina alle otto di sera, siamo diventati amici, e anche per questo ho fatto con lui altri sette film. È uno che capisce i problemi degli altri». Per il Noodles anziano furono fatte trentacinque prove: «Ho fatto tutto il film, ma come invecchiamento De Niro e basta. Non avevo tempo di fare altro. Quando si giravano i bambini, a New York, sono rimasto chiuso in albergo per trentacinque giorni con Bob. Ogni giorno provavamo un trucco leggermente diverso, giravamo, il giorno dopo si andava in proiezione a vedere come era venuto. Spesso c’era anche Leone. Abbiamo scelto, anzi, piú che altro ha scelto De Niro. Io gli invecchiavo la pelle, cercavo di non stravolgerlo. Lo appesantivo, gli facevo cadere un po’ il viso, non piú di quello. Gli ho chiesto di vedere suo padre per avere un riferimento, abbiamo fatto anche delle foto con loro due insieme, allora non ce n’erano, non ne ho mai viste altre scattate dopo. Devo dire che se vedo il De Niro di C’era una volta in America e poi il De Niro di due, tre anni fa, sono contento. Il viso è

quello. I capelli no, ma questo perché lui li ha voluti come quelli di Sergio Leone». A Mancini, De Niro ruba il modo in cui guarda attraverso gli occhiali. A Leone i capelli. Si fa sformare leggermente le scarpe, cosí da camminare piú lentamente, come un anziano. Al trucco gli fanno una gobbetta sulla schiena, per incurvarlo un po’, e lui impara a muoversi come un sessantacinquenne. Osserva le persone di quell’età, le studia. E non esce mai dal personaggio, neppure nelle pause. C’è la foto strepitosa di Angelo Novi sul set di C’era una volta in America, probabilmente a Castelporziano, davanti alla villa del senatore Bailey. De Niro è da solo, su una sedia da set, incassato e curvo, con cappello e cappotto, la bocca chiusa in una smorfia da dentiera. Non è in posa, la foto è stata chiaramente rubata: è, in una singola perfetta immagine, il Metodo, filosofia di vita e di cinema che ha sposato e non ha mai tradito, l’immedesimazione totale nel personaggio, ventiquattro ore al giorno. «Tutte le mattine De Niro arrivava alle tre, prendeva una Coca-Cola e un caffè, si metteva giú e dormiva. Avevo una di quelle vecchie poltrone da dentista con sopra un materasso, la posizione era giusta, io lavoravo per cinque ore, lui si svegliava alle otto ed era il personaggio fino alle otto di sera. Senza controllarsi mai allo specchio. Si fidava. Non ha mai fatto tardi una volta, non una volta ha detto: sono stanco, non vengo, vengo dopo. In realtà avrei potuto fare piú in fretta, è lui che mi ha chiesto di metterci cinque ore. In meno tempo non viene bene, diceva. Io lavoravo sulla pelle, la invecchiavo, mettevo qualche rughetta, facevo le borse sotto gli occhi, mettevo gocce negli occhi per renderli un po’ piú acquosi, piú da vecchio. Pelavo il cranio e lo coloravo come se non avesse capelli, gli mettevo il parrucchino in testa. Di parrucche ne aveva due, ce n’era una di riserva, esattamente uguale. Un giorno il parrucchiere gliel’ha cambiata, chissà perché, lui dormiva, non se n’è accorto, e quando si è svegliato si sentiva strano. C’è qualcosa che non mi convince, diceva, si guardava allo specchio. Ha voluto l’altra, la solita».

Quella notte a San Basilio, prima di tornare sul set, Manlio Rocchetti è tornato da me per aggiungere una considerazione: «Io di film ne ho fatti tanti, ma questo è il piú bello di tutti. Leone era un padre per tutti noi, non ci ha mai messo fretta. Non corriamo, diceva, non c’è problema. Era un burbero benefico. Metteva soggezione, era un omone, una montagna, borbottava in continuazione ma in fondo aveva un buon cuore. E C’era una volta in America ha portato del bene a tutti quelli che ci hanno lavorato». Manlio Rocchetti ha vinto l’Oscar nel 1990 per A spasso con Daisy. È morto nel gennaio 2017 a Tequesta, in Florida, dove progettava di trasferirsi una volta lasciato il lavoro sui set. Aveva 73 anni, era debilitato da una broncopolmonite: è caduto in piscina ed è annegato. Robert De Niro lo ricorda cosí: «Manlio ha fatto un grande lavoro, è stato bravo e paziente. Non era la mia prima scelta, lui lo sapeva, ha accettato di fare tanti test per decidere se si sarebbe occupato lui dell’invecchiamento di Noodles. Alla fine con Sergio abbiamo deciso: sí, lo farai tu. Ed è stata la scelta migliore possibile». Il set di C’era una volta in America chiude il 22 dicembre 1982, per riaprire il 29. Non sono vacanze natalizie, è una pausa imprevista dovuta alle condizioni di salute di Sergio Leone, che è «esausto» ed è sotto controllo medico. Lo scrive «Variety», che cita fonti anonime «all’interno del vasto cast e della troupe». Lietta Tornabuoni sulla «Stampa» il 23 dicembre comunica che Robert De Niro è tornato, «con sollievo», in America. In Italia, scrive la giornalista, ha paura: «Era sicuro d’essere perseguitato da una misteriosa banda di napoletani intenzionati a rapirlo… Era spaventato dai sequestri e dagli assassinii della cronaca italiana: quindi mai andare a piedi, mai prendere un taxi, e appena possibile scappare a Parigi». Fantasie, ispirate forse dal disappunto per l’assoluta impenetrabilità alla curiosità esterna, soprattutto dei giornalisti, che lo accompagna ancora.

Illuminante è il racconto che mi ha fatto Diego Abatantuono, con cui «Bob» trascorse la settimana di ferragosto di quel 1982. Con lui, e con Ugo Conti, Mauro Di Francesco, il Bistecca, Biofa. «Era l’anno dei mondiali, – mi ha detto Abatantuono, – ma anche quello in cui credevo di essere ricco: tra 1981 e 1982 avevo fatto dodici film. Cosí affitto una casa fantastica a Porto Rotondo per i tre mesi dell’estate e dico a tutti i miei amici: chi vuol venire, può venire. Sono venuti tutti, o quasi, anche perché tutti erano alla canna del gas, come me fino a qualche mese prima. A un certo punto, poco prima di ferragosto, mi telefona Danilo Mattei, grande amico di Bob, che aveva fatto l’attore e che conoscevo, lo vedevo in giro la sera ogni tanto. Mi dice che De Niro ha qualche giorno libero, può venire da me? La casa era molto grande, però noi eravamo almeno in dodici, c’erano sei o sette camere da letto e le avevamo tutte piene. Ma un posto per De Niro si trova di sicuro. Sai, mi fa Mattei, voi siete un po’ diversi, sono sicuro che non gli rompete i coglioni. Glieli abbiamo rotti talmente poco che di quella vacanza non ho neppure una foto con lui, con Bob. Io ero un po’ vip perché avevo avuto il grande successo, ma gli amici miei erano tutti randagi, gente normale. Come Biofa, cioè Fabio, che è morto il giorno dell’inizio della quarantena per il Covid, una persona meravigliosa di professione autotrasportatore, un amico carissimo dall’adolescenza. È lui che si offre, un po’ spinto da noi, diciamo, a lasciare il letto a De Niro, che cosí va a dormire con Ugo Conti in una stanza per due. Io avevo la camera padronale, armatoriale, al piano di sopra, e l’ho difesa con le unghie, d’altra parte pagavo per tutti, Bob ha dormito con Ugo, Biofa su un materasso appoggiato al biliardo. E lui, il grande attore, il premio Oscar, è stato lí con noi, scendeva al mare con noi, con un ombrellino perché non poteva prendere il sole, una volta è anche venuto in barca con noi. La sera andavamo tutti al Country, c’era una ressa pazzesca per entrare che si apriva quando arrivavamo con la Ritmo Cabriolet che mi avevano regalato. Scendevo io e passavamo davanti a tutti, c’era pure Bob ma nessuno se ne accorgeva. Qualcuno mi salutava, molti urlavano “Viulenza!” e ci lasciavano passare.

Sono grande e grosso, a quei tempi avevo un testone di capelli, i baffi, nessuno si lamentava se saltavamo la fila e poi ho capito perché: alla fine dei tre mesi ho pagato un conto astronomico, saranno stati 25 milioni di lire, tutte le consumazioni non pagate finivano sul mio conto. Però De Niro ha trovato quello che cercava: quando uscivamo, la sera, non si cambiava mai, veniva magari in ciabatte, era interessato soprattutto a broccolare, cosa che gli riusciva benissimo, e tornava con noi, all’alba. Io facevo da specchietto per le allodole, e lui portava a casa il risultato. Parlava pochissimo italiano, noi inglese per niente, non è che facessimo grandi conversazioni. Una mattina, mattina si fa per dire, eravamo tutti insieme a tavola, c’era una sveglia comune, e gli abbiamo chiesto: “Bob, come va? Sleep good?” Lui: “Sí, ma Ugo russa”. Ugo russa. Mi sembrava contento di non essere al centro dell’attenzione, ecco. Mi è sembrato una persona estremamente chiusa, ma ha capito il divertimento, si è fatto anche tirar dentro in qualche pernacchia. L’unica cosa che ho percepito, è che se io fossi andato una settimana a New York con lui, avrei trovato una compagnia molto simile alla mia». Superato il momento di stanchezza di Leone, che comunque, scrive «Variety», d’ora in poi lavorerà «a ritmo ridotto», da gennaio del 1983 si lavora molto a Roma, non solo in studio. Dall’America arrivano i ragazzi, che gireranno a Roma e (alcuni) a Porto Marghera. Stanno tutti insieme in hotel, girano in Vespa per la città come da cliché, a Cinecittà sbirciano negli altri set, vedono anche Federico Fellini, che sta girando E la nave va. Non Jennifer Connelly, che è in Italia con i genitori, sta all’Hotel de Russie ed esce solo per andare a cena da Otello alla Concordia, accompagnata da mamma, papà e guardie del corpo. I lavoratori di Cinecittà entrano in sciopero e Claudio Mancini fa montare la scena del camerino di Deborah nel teatro dell’Istituto San Michele, la casa di riposo e di assistenza piú grande di Roma. Il direttore di Cinecittà fa resistenza, ma lui forza e porta via tutto, mentre De Niro sorride per la soluzione all’italiana, improvvisata ma efficace.

La stanza dell’ospizio in cui vive Carol anziana è la camera di un hotel in piazza Fiume, il corridoio in cui incontra Noodles è in un convento di suore sulla Nomentana. Finito lo sciopero, si torna a Cinecittà, anche la scena nella nursery, quella in cui i gangster scambiano i bambini nelle culle sulle note della Gazza ladra di Rossini. Ci sono venticinque bambini e altrettanti bambolotti. L’ambiente è stato bonificato due giorni prima delle riprese, sette dottori sono sul set per assicurarsi che i neonati stiano bene. La ripresa dall’alto delle culle rimarrà nella memoria di molti, i venticinque bambolotti vengono regalati a chi nella troupe ha figli piccoli. Il 30 gennaio il set di C’era una volta in America va in diretta tv su Raidue. Il programma è «Blitz», conduce Gianni Minà, che per quella domenica ha in menu anche Federico Fellini che racconta E la nave va, Franco Zeffirelli, Claudia Cardinale. Il cinema italiano vive un nuovo boom, quasi un Rinascimento, di sicuro è rinata Cinecittà. Rimarrà l’unico momento in cui il set di Leone si apre all’esterno, e la ragione è un incontro avvenuto sei mesi prima, nel giugno 1982. Tutto merito di Muhammad Ali. Il campione è a Roma, attende la convocazione in Vaticano per poter vedere il papa. Gianni Minà, che l’avrà ospite nel suo programma, lo invita a cena. Per caso, come in una commedia un po’ troppo facile, uno dopo l’altro lo chiamano De Niro, poi Leone, infine Gabriel García Márquez, che qualche mese dopo sarà premio Nobel per la letteratura. Hanno scoperto che sta per uscire di casa per incontrare Ali e si vogliono aggregare per parlare con la leggenda della boxe, che sarà protagonista assoluto della serata. Da Checco er Carettiere, a Trastevere, viene scattata una fotografia che li ritrae tutti e cinque insieme e che De Niro conserverà a lungo tra i ricordi personali (come peraltro fece poi papa Wojtyła con i guantoni regalatigli da Ali, che con un gesto molto irrituale tenne per sé e non consegnò all’apposito ufficio della Santa Sede). Minà esce da quella cena con la promessa di un accesso riservato e speciale al set di C’era una volta in America. Promessa mantenuta in quella domenica di fine gennaio.

Minà chiede a Leone: «È una saga di due famiglie, questo film?» E lui: «No, è la storia di un’amicizia». La scena che si gira quel giorno è un momento del confronto finale, diciamo il duello, tra Noodles e Max. Nel suo studio, Bailey, cioè la reincarnazione di Max, chiede al vecchio amico di essere da lui ucciso. Per saldare i conti con il passato e per sparire dalla scena prima di essere incriminato e processato. Noodles rifiuta di sparargli e perfino di riconoscerlo. Non ammette mai di trovarsi davanti a Max. «Quel giorno, – ha raccontato James Woods, che interpreta Max, molti anni dopo, nel 2012, in un’intervista alla televisione francese, – Leone mi ha detto: “Ho un regalo per te, sul set suoneremo la musica che Ennio Morricone ha composto per questa scena. Ma tu devi fare un regalo a me. Quando mostri l’orologio, lo stesso orologio con cui è nata l’amicizia tra Noodles e Max, voglio vedere le lacrime scendere. In quel momento faccio salire la musica”. È stato il momento piú forte di tutta la mia vita d’attore». Nello studio del senatore Bailey, costruito con attenzione maniacale da Carlo Simi, arredato con oggetti preziosi ottenuti in prestito da Bulgari, ci vogliono due intere settimane per girare il confronto tra i due amici di un tempo. «Altri registi, – noterà Woods, – l’avrebbero fatta in due giorni». In sottofondo, sul set, spesso c’è la musica di Morricone, come quella domenica della diretta tv. È inusuale, soprattutto per gli americani, che prediligono la presa diretta, ma non per Leone, che l’aveva già fatto in C’era una volta il West. Questa volta, poi, gran parte della colonna sonora Morricone l’ha scritta prima che iniziassero le riprese. Il tema di Deborah, addirittura, risale al 1980, è stato composto per Endless Love, o Amore senza fine, un film di Franco Zeffirelli con Brooke Shields. Morricone l’ha scritto al pianoforte dell’hotel di Los Angeles in cui attende il regista, in ritardo di diversi giorni al loro appuntamento. La descriverà come una composizione fatta «di silenzi, di pause, elementi che amo molto». Piace a quanto pare anche a Zeffirelli, che poi però all’insaputa di

Morricone decide di inserire nella colonna sonora canzoni non sue. E il compositore se ne torna in Italia con il primo aereo. Tra lui e Leone vige un patto segreto, una promessa mai disattesa fin dai tempi di Per un pugno di dollari. Ogni volta che un regista italiano gli scarta un brano, Morricone glielo fa ascoltare. Finora il gioco è sempre stato tale, senza conseguenze, ma questa volta è diverso, la composizione non è stata scartata, è lui che se ne è andato. Endless Love diventa Deborah’s Theme senza che cambi neppure una nota. Ho incontrato e intervistato molte volte Ennio Morricone. Era un osso duro, e non solo perché dava appuntamenti telefonici alle otto del mattino, quando lui era già stufo di lavorare e tu dovevi esercitare la voce per non sembrare, come eri in realtà, sveglio da poco. Una volta mi dice che le domande che gli ho fatto io non gliele ha mai fatte nessuno, mi appunto sul petto quel ricordo come una medaglia. Un’altra volta gli mando un fax (è cosí che voleva essere contattato) e mi risponde che s’è stufato di parlare delle musiche per i film di Leone. «Prenda il libro Inseguendo quel suono, lí ci sono tutte le risposte alle sue domande». È vero, ci sono tutte: del tema di Deborah, spiega Morricone al suo giovane collega Alessandro De Rosa che ha scritto il libro, «mi piacque subito l’idea di un pedale di quinto grado che si abbassa su una nota melodicamente sbagliata, sul quarto grado della tonalità di Mi maggiore. Fu la prima volta che misi su carta un passaggio simile, non l’avevo mai scritto prima… Si creava una dissonanza tra il Si della melodia e il La al basso che sosteneva proprio un accordo di La maggiore, a scuola la chiamavamo nota “cambiata” o “sbagliata” perché esterna all’accordo sotteso. Una soluzione che secondo me si legava bene all’impossibilità di sviluppare un amore costruttivo, edificante per i due amanti». Certo, a me non l’avrebbe detta cosí, ma il punto è chiaro. Il lavoro per questo film è stato pensato da Morricone sul filo dell’errore, dell’incompiutezza, dello scarto. E della dilatazione: «Dovevamo dilatare lo spazio e il tempo

assecondando la struttura stessa del film, continuamente basata su flashback e flashforward». Forse anche perché è Leone a chiederglielo, per la prima volta accetta di riarrangiare brani popolari molto celebri, fuori e dentro la storia. Amapola, che Morricone orchestra in due modi diversi, è tutta dentro la storia, esce dal grammofono della piccola Deborah che prova i passi di danza nel retro del bar di suo padre e viene suonata dall’orchestra che Noodles ha convocato nel ristorante del loro appuntamento. Amapola nasce nel 1920, è la composizione piú nota di Joseph Lacalle, clarinettista, compositore e direttore d’orchestra nato spagnolo, transitato per Cuba, poi naturalizzato americano. Negli anni Trenta era considerata un classico nel repertorio delle band di rumba. È la madeleine di Proust che riporta Noodles alla giovinezza, e questa è un’idea di Enrico Medioli. Yesterday invece è fuori dalla storia, arriva quando Noodles torna a New York nella stessa stazione da cui è partito trentacinque anni prima. Yesterday è stata scritta al pianoforte da Paul McCartney nel 1964, è uscita l’anno dopo nell’album dei Beatles Help! Morricone dice di non aver avuto alcun ruolo nella scelta dell’una e dell’altra canzone, anche se poi ammette che, con Michelle, Yesterday è l’unico brano del gruppo di Lennon & McCartney che ha amato fin da subito. È una scelta di sceneggiatura, molto chiara e anche azzeccata, per il testo che parla di ricordi, per l’andamento nostalgico e sentimentale, per la sua popolarità. Quando la si sente, arrangiata da Morricone con enfasi sugli archi, è evidente a tutti che l’azione si è spostata negli anni Sessanta. Non a tutti piace. I collaboratori piú giovani di Leone, in particolare Luca Morsella, figlio di suo cognato, aiuto regista, avrebbero preferito qualcosa di meno sentimentale e piú avanguardistico. In fondo siamo nel 1968, non nel 1965, i ragazzi sono scesi per strada, non stanno piú nelle loro camerette a struggersi pensando agli amori passati. Morsella propone For What It’s Worth dei Buffalo Springfield, ma Leone non si convince. L’accento sarebbe caduto sul salto

temporale compiuto dalla storia, dalla fine del proibizionismo all’inizio della Contestazione, non sulla rivisitazione – per quanto forzata, nel caso di Noodles – di un passato piú ingenuo e felice. A Giuseppe Tornatore, Morricone ha raccontato i lunghi anni di preparazione a C’era una volta in America: «Di alcuni temi che gli avevo fatto sentire era molto contento. Aveva scelto quelli che gli piacevano di piú, ma continuava ad avere dei dubbi, dubbi tormentosi. Spesso mi chiamava e piú spesso ancora veniva a casa mia: “Fammi sentire un po’ ’sto tema…”, “Fammi sentire l’altro”, “Fammi sentire quell’altro ancora”. Alla fine i dubbi sparivano, andava via contento. Poi tornava con due sceneggiatori: “Vogliamo far sentire i temi anche a loro?” A loro piacevano, ma poi ne portava altri, poi portava sua moglie Carla, e a lei piacevano i temi. Insomma non si liberava dei dubbi, ne aveva su tutto, anche su se stesso». Va detto che a quei tempi, e fino ai primi anni Ottanta, Morricone abitava in viale Libano, distante pochi minuti a piedi della villa di Leone. Per sentirsi rassicurato bastava uscire di casa e suonare il campanello al vicino. Quando va sul set che suo padre ha costruito su una stradina secondaria della tenuta presidenziale di Castelporziano, al 690 della via Pontina, Giuditta Simi vede Sergio Leone seduto su una cassa da trasporto. Ha le cuffie sulle orecchie, per concentrarsi ascolta la musica della scena che sta per girare, probabilmente God Bless America, che parte quando le luci posteriori del camion dell’immondizia si trasformano nelle luci anteriori delle auto degli anni Trenta e dal 1968 si torna nel 1933. È l’ultima grande scena del film, la piú importante. Quella che, tra l’altro, segna la fine non ufficiale delle riprese. La villa dalla quale esce prima Noodles e poi (forse) il senatore Bailey è solo apparenza, finzione, ha due sole dimensioni. È stata progettata e costruita dal padre di Giuditta, Carlo Simi, su un terreno sgombro della tenuta presidenziale, tra Capocotta e Pratica di Mare, un viale alberato senza case che finisce nel verde. Non c’è nulla e Simi ha disegnato tutto,

anche la cancellata esterna, per cui ha cercato ispirazione all’ambasciata americana a Roma, in via Veneto. Il camion della spazzatura invece è originale americano, è arrivato in nave, è stato trovato con grande fatica. «Sergio voleva ricordare la fine di Jimmy Hoffa, che forse fu portato via da una betoniera, – mi ha raccontato Claudio Mancini, – e mi chiedeva un mezzo con una grossa vite che tirasse su la monnezza. “Non esiste”, gli dico io, ma lui insiste. Incarico l’organizzatore Fred Caruso di procurarci la documentazione, arriva con un libro che elenca tutti i camion della spazzatura di New York. Ce n’è anche uno con su scritto MANCINI e James Woods vuole che usiamo quello. “Mettici il tuo di nome!” gli ho detto. Comunque, quello che dice Sergio non c’è. Allora gli dico: “Mi racconti dove l’hai visto, ’sto camion?” “A Cla’, c’è una stradina stretta, si gira in discesa, con la macchina abbiamo fatto una piccola manovra e abbiamo visto un piazzale enorme, con tutti i camion”. Allora andiamo a cercare questo posto, prendiamo la macchina e a un certo punto mi dice: “È là, gira”. Improvvisamente capisco, si è inventato tutto, se ha dovuto far manovra con una macchina, come possono passare di lí tutti quei camion? Perdo la testa, comincio a dirgli in faccia: “Bugiardo, sei un bugiardo”. Non riesco a smettere: “Bugiardo, bugiardo”. Vado in hotel e mi metto a scrivere la lettera di dimissioni da produttore esecutivo ma non da line-producer, cosí gli spacco il culo in nove. A un certo punto suona il telefono, è Sergio: “Stai a fa’ il film americano, le dimissioni? Vieni qui, dài, ho chiamato Renzo, il parrucchiere, che prepara la pasta e fagioli che ti piace tanto”». Pasta e fagioli o no, il camion alla fine si trova, è quello vero, arriva dall’America. Bailey invece no, non è quello vero. Chi esce dalla porta secondaria della villa non è James Woods, ma una controfigura, un generico di Cinecittà con la stessa corporatura dell’attore, bravo a imitare le camminate. È una scelta, Leone vuole che nessuno possa affermare con certezza di aver visto Max gettarsi nella vite tritarifiuti. «Ancora oggi, – ha raccontato Woods nell’intervista del 2012, – ogni tanto qualcuno mi si avvicina e mi dice: “Avrei una domanda…” Al che, li blocco subito: non lo so neanch’io che fine faccia

Bailey. L’unica certezza che ho è che non sarà a cena con noi, domani sera». Sono stati a Bellagio, sul lago di Como, a girare gli interni della festa finale (Mancini: «Perché? Perché i registi a volte esagerano. Ricordo che in quella villa c’era una copia delle Tre Grazie del Canova. Per quelle immagini, che piú che altro si vedono nel monitor a circuito chiuso del senatore, ho visitato ville in Francia, in Inghilterra, anche quella di Gianni Versace a Cernobbio. Fuori ci sono parcheggiate la Bentley verde bottiglia e la Rolls-Royce rossa di Sergio, di assicurazione ho pagato piú di quanto avrei speso di noleggio»). Sono stati nel Bronx, al Woodlawn Cemetery (ancora Mancini: «Abbiamo trovato una tomba favolosa, e abbiamo dovuto rimborsare 12 000 dollari perché il calore dei riflettori fece esplodere un vetro»). Sono stati a Porto Marghera, Venezia, per la scena in cui i ragazzi inventano il sistema con il sale per far affondare e poi riaffiorare la merce di contrabbando (Mancini: «Si sono gettati nel porto sotto un cartello con scritto DIVIETO DI BALNEAZIONE , sono stato quasi male quel giorno da quanto mi sono arrabbiato. Se c’era un problema, poi in galera ci andavo io. Ma Sergio li voleva lí, dovevo farmi i cazzi miei, i registi sono cosí, sognano, non li puoi svegliare»). La scena fuori dalla villa di Bailey a Castelporziano mette fine a quasi un anno di riprese, in Italia, in America, in Canada, in Francia. Dopo aver cullato fino all’ultimo la speranza di andare a Hong Kong per filmare la Chinatown del 1933, dopo essersi rassegnato a tagliare il passaggio in sinagoga del Noodles del 1968 («I produttori saranno contenti», sibila un giorno a Mancini quando è costretto ad ammettere che quella scena non la girerà mai), Leone si arrende, ammette che è finita. È stata una grande avventura, epica. Bob De Niro è il primo a rendersene conto, e a dirlo. A tutti quelli che hanno lavorato al film regala una piastrina metallica di tipo militare su cui fa incidere la frase: CONGRATULATIONS!

YOU’VE SURVIVED ONCE UPON A TIME IN AMERICA.

E sul retro: JUNE 1982 JUNE 1983 THANKS!

Bob De Niro A Leone, De Niro fa avere un regalo speciale, un orologio da tavolo, con incise queste parole: Sergio, this is to two years of our lives Two years that were really worth living Mazel and Glick Love, Bob È la citazione obliqua di una battuta che tra l’altro non pronuncia Noodles, ma Max, a Patsy e Cockeye, durante la festa per la morte del proibizionismo. È un brindisi, rivolto al passato: «Sul camion di stanotte non c’è solo whisky. Ci sono dieci anni della nostra vita, dieci anni che è valsa la pena di vivere». Quando ne abbiamo parlato, quasi quarant’anni dopo, nel dicembre 2020, Robert De Niro la ricorda cosí: «Abbiamo girato per un anno, non ininterrottamente, in paesi diversi, negli Stati Uniti, a Montréal, ovviamente tanto in Italia, in Francia un po’, nell’Italia del Nord, non solo a Roma. È stata un’esperienza fantastica, perché Sergio era un tipo fantastico, una persona molto riflessiva, molto sensibile e anche molto divertente, con un grande senso dell’umorismo. È stato buono con me e con tutti gli attori, mi piaceva moltissimo. Molto simpatico [in italiano]. Una brava persona». In quel momento ho pensato che avesse accettato di parlarmi soprattutto per dire questo.

Volevo vedere cosa vedeva mio padre La storia di Steve Della Casa

Steve pensa che sia nato tutto da un equivoco. «Un po’ prima del Natale 1983, sarà stato a novembre, chiamo Sergio Leone per invitarlo a tenere un seminario al Movie Club, a Torino. “Vieni domani a cena in via Birmania”, mi dice. Penso: “Che strano”. Mi accoglie in caftano, mangiamo bene. Parliamo a lungo e al momento di andare via: “Salutami tanto tuo padre”. “Lo conosci?” chiedo. “Benissimo, da molto tempo, pensa che l’ho visto stamattina”. Credeva fossi figlio di Gianluigi Della Casa, allora dirigente della Titanus. “No, mio padre fa tutt’altro”, gli dico, “è un glottologo. Si chiama Carlo Della Casa”». Lui si chiama Stefano, ma tutti da sempre lo chiamano Steve. Si rivedono a gennaio, a Cinecittà, e vanno a pranzo nel ristorante lí di fronte, La Cascina. «C’era anche Nino Baragli, il montatore. Stavano finendo C’era una volta in America, avevano problemi con gli americani: non capivano il montaggio, volevano rimettere la storia in ordine cronologico. Baragli era preoccupato, Leone piú sereno: “Aggiusto anche questa, farò come ho sempre fatto, gli americani mi rompono le scatole dai tempi del Colosso di Rodi. Credevano che il Colosso fosse il protagonista, non una statua”. Il senso era: li ho sempre intortati, ce la farò anche questa volta. Era gennaio del 1984, ci accordiamo per fare il seminario a marzo, tre giorni a Torino. Al Movie Club avevamo già avuto Jacques Demy, Nanni Moretti, Enno Patalas direttore della filmoteca di Monaco. È tutto autofinanziato, lo ospitiamo al Sitea, un hotel del centro, per noi è uno sforzo notevole ma anche un bel colpo». Nell’hotel in cui alloggia Leone, in quegli stessi giorni c’è la troupe di Aeroporto internazionale, una serie della Rai che

si gira a Torino, con Dalila Di Lazzaro e Gianni Garko. «Li vediamo diverse volte, a pranzo e cena. È un po’ come avere Cinecittà a casa nostra. Garko avrebbe dovuto fare Per un pugno di dollari e ha detto di no: almeno cosí sostiene Leone, Garko dice invece che è lui, Leone, che l’ha scartato. Dice anche di essere comunista e che per questo non gli è facile lavorare. Leone se la ride: “Che cazzo dici!” Si comporta come un patriarca, siede sempre a capotavola, a volte c’è anche Gianni Rondolino, il professore di quasi tutti noi». Rondolino in quei giorni sulla «Stampa» definisce «di valore a volte modesto» i film di Leone. «Sí, però poi a Cannes si alzerà all’alba per andare a vedere C’era una volta in America. Comunque, al Movie Club, al mattino e nel primo pomeriggio Leone incontra studenti o giovani appassionati. Con Baragli proietta sequenze dei suoi film e le commenta: scene classiche, il triello, il carillon del Dollaro in piú, l’inizio di C’era una volta il West. La sera dice due parole, poi parte il film e si va a cena. Il primo giorno, appena arriva, andiamo con Leone al ristorante Vittoria, in via Carlo Alberto. Lui mangia tanto e di gusto, si fa una patacca sulla camicia con le tagliatelle ai funghi, alla fine del pasto tira fuori dalla tasca dei pantaloni un foglietto tutto stropicciato e dice: “Prima di fare qualsiasi cosa, voglio andare qui”. Sul foglietto ci sono cinque o sei indirizzi sparsi per tutta Torino». Steve non ha la macchina e chiede aiuto a Mimmo Calopresti, uno di quei giovani appassionati che avrebbero frequentato il seminario di Leone, futuro regista. «Mimmo arriva subito, ma quando siamo in macchina mi dice sottovoce: “Ho poca benzina e non ho soldi”. Preoccupatissimi, scegliamo di fingere che sia tutto ok. Ma da un momento all’altro ci aspettiamo che la macchina si fermi e ci faccia fare una figuraccia epocale. Andiamo in una parallela di via Nizza dove oggi c’è un autotrasportatore, poi ai gasometri di corso Regina, in via Luisa del Carretto, a Lucento, vicino alla chiesa, sulla strada che va allo stadio della Juventus, forse in via Pianezza. In tutti i posti Leone ci fa fermare l’auto, dà un’occhiata e poi ci fa ripartire. E noi sempre piú terrorizzati per la benzina che sta per finire. A un

certo punto, quando il giro è quasi alla fine, ritrovo la lucidità per chiedergli che cosa sta cercando, che senso ha il giro che stiamo facendo. Mi risponde che questi sono i posti in cui aveva lavorato suo padre. L’Itala Film, lo stabilimento in cui girarono Cabiria, l’Aquila Film. “L’avessi saputo, te l’avrei detto che a Torino non c’è praticamente piú traccia del cinema di quell’epoca”. “Non importa”, mi risponde lui, “volevo vedere cosa vedeva mio padre”».

SETTIMO TEMPO 1983-2012

C’è una foto scattata a Cannes la sera del 20 maggio 1984, domenica, che ho attaccato al muro del mio studio e che ha accompagnato la scrittura di questo libro. È quel genere di foto che si scatta sempre, alla cima della montée des marches, attori, registi e produttori schierati per il ritratto di gruppo. In questa c’è Claudio Mancini, all’estrema sinistra, che stringe forte a sé Jennifer Connelly. Poi Danny Aiello, con il papillon quasi slacciato e una mano appoggiata alla spalla lontana di Robert De Niro (che guarda altrove); Brian Freilino sorride accanto a Sergio Leone, Arnon Milchan cinge con le sue lunghe braccia il regista alla sua destra, James Woods a sinistra. Ultimo, all’estrema destra, un po’ staccato, Joe Pesci, con una giacca troppo grande dalle maniche troppo lunghe. Gli uomini sono tutti in smoking, tranne Leone che indossa un abito, e hanno tutti il papillon. È un giorno di festa, ma è anche il giorno del giudizio, e si vede. Le riprese sono finite all’incirca da un anno, e da allora il mondo non è piú quello di prima. Nella primavera del 1983 Sergio Leone porta al montaggio, a Nino Baragli e alla sua squadra («Cervelli elettronici» li definisce Claudio Mancini), una decina di ore di girato, o duecentomila metri di pellicola, come preferisce dire Tonino Delli Colli. Duecento chilometri. Si tuffano nel materiale e finalmente si fanno un’idea abbastanza precisa di quanto durerà il film. Piú di quattro e meno di cinque ore. Parte dei dialoghi vengono doppiati. Tutte le scene girate con la musica sotto, altre per accomodarle ai tagli decisi nel frattempo, alcune per togliere i riferimenti all’ebraismo (meglio, al pregiudizio antiebraico) che per la piega che ha preso il film non è piú rilevante. Burt Young, nella parte del mafioso italoamericano Joe, sul set aveva detto: «You gotta be a Hebe to eat this shit», «Devi proprio essere un ebreo per mangiare

’sta merda». Kaminsky riscrive, e si vede lo sforzo di rispettare i movimenti labiali: «Life is funnier than shit», «La vita è piú strana della merda», et voilà, l’offesa scompare. Leone propone a Milchan e attraverso di lui ad Alan Ladd Jr, il distributore americano, di uscire in due momenti, con una Parte 1 e una Parte 2. A Cannes ’83, dove vede Milchan, lí per presentare Re per una notte, dice ai giornalisti che la soluzione accontenterà tutti: «Il mio nuovo film C’era una volta in America mi è già stato richiesto, per l’anno venturo, sia da Cannes sia da Venezia. Ho pensato che posso accettare, ma solo fuori dalla mischia del concorso. E poiché sarà un film in due parti come Novecento di Bertolucci, potrei anche soddisfare questa volta entrambe le manifestazioni. In maggio la prima parte sulla Croisette, in settembre la seconda parte al Lido». L’idea convince anche Alan Ladd Jr, che nel luglio 1983 si spinge ad annunciare alla stampa americana che i film di Leone saranno due. Anticipa però le date d’uscita, uno prima di Natale, l’altro a maggio dell’anno che verrà. «Ci ritroviamo con piú di quattro ore di girato cosí forte che non avrebbe senso cercare di tagliarlo fino a raggiungere la durata di un paio d’ore. Questo non significa che gli attori e il regista verranno pagati due volte. È vero, contiamo di incassare il doppio, ma ci prenderemo anche un rischio doppio e spenderemo il doppio per la stampa e la promozione». Intenzioni coraggiose che resistono piú o meno un mese. Ad agosto una delegazione di Warner Bros. e The Ladd Company va a Roma e vede i primi 165 minuti già montati di C’era una volta in America. Nell’incontro (con Leone c’è anche Milchan) si prendono due decisioni: il film non sarà diviso in due e andrà in sala a marzo 1984, dopo gli Oscar, come fece a suo tempo Il Padrino. Quest’anno, d’altra parte, a dicembre uscirà Scarface, si teme la sovrapposizione, soprattutto in vista della stagione dei premi. Ashley Boone, capo del marketing e della distribuzione di The Ladd Company, dice a «Variety» che «tutti quelli che erano lí, all’unanimità, hanno concordato: ne vogliamo ancora! Non ha

senso dividere in due questa storia, Leone ha fatto un gran lavoro, è riuscito a mettere insieme il materiale in un unico film e non vogliamo tagliarlo. Vogliamo avere il nostro Via col vento». Si prevede una durata totale intorno alle tre ore e mezzo. A Roma ci sono anche quelli della Producers Sales Organization che stanno distribuendo il nuovo Leone fuori dagli Stati Uniti, nel resto del mondo: annunciano nell’occasione di averlo venduto praticamente ovunque, dicono che «c’è grande attesa», e sulla data d’uscita si rimettono alle scelte del regista e degli americani. Tutti i problemi sembrano risolti, il film non sarà esattamente quello progettato e girato da Leone, ma quasi. Il compromesso sembra accettabile: gli americani avranno un film fuori misura, difficile e a tratti violento, dovranno essere bravi a venderlo. L’uomo del marketing che cita Via col vento lascia intendere come pensa di muoversi: lo tratteranno come un classico, prendere o lasciare. Il resto del mondo non si cura della durata, dopo tutti questi anni di attesa, piú Leone c’è, meglio è. Ma se, come sostiene William Goldman, il 1982 è stato «il momento di maggior panico e disperazione nella storia moderna di Hollywood», il 1983 non è tanto meglio. Goldman, a cui era stato proposto il trattamento di C’era una volta in America e aveva detto no, scrive un libro per dire che Hollywood sta rispondendo alla crisi producendo solo «fumetti», ovvero «film che non hanno molto a che fare con la vita com’è davvero, come la conosciamo per esperienza diretta. Raccontano, piuttosto, la vita come vorremmo che fosse. E lo fanno per paura, per non prendere rischi». Panico e disperazione. Paura. Su Ladd e i suoi per di piú sta per arrivare la tempesta imperfetta di The Right Stuff - Uomini veri. Uscirà a ottobre, sarà presentato a Washington con tutti gli onori, ma molti a Hollywood lo danno già per perso. Sarà per le tre ore abbondanti di durata, sarà perché ci si è voluti ispirare a Fellini e a 8½, alla sua struttura libera, senza una trama forte, o forse con troppe trame. Sarà perché il film ha

alle spalle una storia lunga e travagliata, è costato 28 milioni di dollari (ne incasserà 21, malgrado i quattro Oscar). The Right Stuff - Uomini veri finirà per incrinare e poi spezzare il rapporto con la Warner, che qualche mese dopo, nell’aprile 1984, chiuderà il contratto prima del tempo e lascerà The Ladd Company al suo destino. Il progetto The Right Stuff - Uomini veri era stato raccolto dal cestino della United Artists, di fatto fallita dopo l’epico flop (critico e di botteghino) dei Cancelli del cielo di Michael Cimino, uscito nel 1980. La catastrofe sembra diffondersi come un virus che colpisce soprattutto i film d’autore ad alto budget, un’eredità degli anni Settanta che nel nuovo decennio ha vita difficile. Leone comunque si sente a posto, è tranquillo, lo dice a tutti. Anche perché è già sceso a compromessi, ha rinunciato a montare sei sequenze importanti piú qualche raccordo minore, per esempio l’ingorgo provocato da Noodles al volante, quello per cui Caruso e Cotone avevano bloccato il traffico sul ponte, oppure le scene con Noodles e Eve nella camera d’hotel in cui vivono, di cui curiosamente rimarrà traccia nel materiale fotografico promozionale del film. I tagli sono abbastanza sanguinosi: scompare il premio Oscar Louise Fletcher, la guardiana del cimitero, e dunque si perdono alcuni dettagli sulla costruzione della tomba e sul misterioso signor Aaronson che l’ha ordinata e pagata (Noodles nell’occasione dice di chiamarsi Williams) ma si salva il punto essenziale per l’avanzamento della storia, la chiave che apre la valigetta. Si ridimensiona Darlanne Fluegel e il suo personaggio, Eve, la bella prostituta che aiuta Noodles a superare il ricordo di Deborah e della sua violenza. Non c’è piú la sequenza del loro incontro mercenario (lui le dà per sbaglio una banconota da 500 dollari, poi la porta a letto e si addormenta, lei la mattina dopo gli lascia un biglietto: «La prossima volta meno soldi e piú lavoro» e si firma Deborah), importante ma non necessaria per lo sviluppo della trama. Si taglia la scena della morte di Cleopatra dall’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, che Elizabeth McGovern / Deborah recita a teatro nel 1968. Volano via due dialoghi, di diverso

peso: quello tra Noodles e il suo autista, pure lui ebreo, che avrebbe introdotto il tema del rapporto tra i gangster e la loro comunità; quello tra il sindacalista irlandese e il senatore Bailey, in cui il primo chiede all’altro di morire, o sparire, promettendo di lasciare il 12 per cento del suo patrimonio al figlio, che come Noodles si chiama David. Infine, salta la breve scena in cui Noodles assiste all’esplosione dell’auto che l’aveva seguito al cimitero e che lui aveva notato e di cui aveva memorizzato il numero di targa. A bordo c’è un uomo di Bailey, nel film Noodles avrà la notizia dalla televisione. Si riduce notevolmente il contributo di Treat Williams e diventa quasi incomprensibile la presenza nel film del sindacalista O’Donnell, che invece è modellato su Jimmy Hoffa ed è cruciale nella seconda vita di Max/Bailey. Cade vittima dei tagli anche la seconda parte della sequenza del tuffo in acqua con l’automobile, quando alla guida c’è Noodles. Riemergono in tre, Noodles no, c’è un richiamo a un’analoga scena nell’adolescenza, ma piú ancora un preannuncio del tradimento di Noodles, della sua fuga. Ora la durata del film è un po’ superiore alle tre ore e mezzo (saranno poi 229 minuti, tre ore e 49 minuti), ben oltre le 2 ore e 45 del limite massimo pattuito per l’America, ma Leone non è disposto a scendere ancora, e comincia a parlare di una versione televisiva di 4 ore e mezzo che sarà l’unico e vero director’s cut. La pellicola delle scene tagliate, comunque, non viene neppure portata al montaggio, le pizze rimarranno per un po’ di tempo nel garage della villetta di Claudio Mancini all’Axa, poi Leone dirà di averle tenute a lungo sotto il letto, a casa sua. Il materiale non manca, si lavora per mesi – fino all’inizio del 1984 – con i ritmi consueti di Leone in postproduzione, da mattina a notte. Cosí, quando Claudio Mancini – che come line-producer segue l’edizione dall’inizio, giorno per giorno – scopre che il film si chiude con un sorriso enigmatico di Robert De Niro che lui non ha neppure visto girare, ci pensa un po’ su e poi chiede a Leone: «Questo sorriso come nasce? Può sembrare che da paraculo, sotto l’effetto della droga, lui

abbia capito che è tutto un sogno. O no? La storia è oggettiva o soggettiva?» È il primo a fare la domanda delle domande. Sorride anche Leone, e lí per lí non dice nulla. Gli risponde due giorni dopo: «Tu la pensi a un modo, un altro la può pensare a un altro modo. Ognuno pensa quello che cazzo gli pare» (De Niro mi dirà, molti anni dopo: «Avrei dato la stessa risposta»). A ottobre 1983 The Ladd Company annuncia ufficialmente ciò che ormai è ovvio: C’era una volta in America non uscirà per le feste di fine anno e non sarà in due parti. «Abbiamo riconsiderato il materiale, – dichiara Ladd Jr, – e abbiamo deciso che diviso in due non funzionerebbe». Una data d’uscita ancora non viene comunicata. A dicembre filtra la notizia che molti esercenti si sarebbero opposti all’uscita in sala di un film cosí lungo. «Il problema, – dice una fonte anonima a Marilyn Beck, la columnist che ha venticinque milioni di lettori su vari giornali americani, – è che il regista non vuole scendere sotto le tre ore e 45, dice che è impossibile tagliare ancora». A questo punto, C’era una volta in America potrebbe uscire nell’estate del 1984, oppure a Natale, o ancora dopo, aggiunge Beck. A Roma, intanto, il montaggio è stato completato. Nei giorni in cui scadono i turni di missaggio, Mancini viene operato alle corde vocali, non può parlare. Riceve una telefonata da un suo collaboratore: «Guarda che Sergio il film non lo finisce domani». Ogni giorno in piú costa venticinquemila dollari di penale. Mancini paga il conto dell’intervento, esce dalla clinica, va in taxi a Cinecittà. Quando vede Leone gli scrive un messaggio. «Devi finire! Lavori giorno e notte, altrimenti ce li metti tu i venticinquemila dollari». Gli mostrano il lavoro compiuto. «E io sussurravo come potevo: “È bono ’sto rullo, è bono”. Mi parlavano come a uno scemo: “Mo’ fi-nia-mo”. Cosí, scandendo le sillabe. Allora gli ho scritto: “Guarda che io non posso parlare, ma mica sono stronzo, che mi parlate cosí!” Insomma, un finale da commedia. Ma ce l’hanno fatta, anche

se io ho dovuto barare, ho segnato tre giornate extra invece che cinque». Il 17 febbraio 1984 a Boston, The Ladd Company organizza un test screening, cioè una proiezione di Once Upon a Time in America per un pubblico campione, in teoria rappresentativo del mercato, che a film finito lascia un giudizio sintetico rispondendo a un breve questionario. Piove e fa freddo, la proiezione comincia in ritardo e dopo cinque minuti si interrompe per un problema alla pellicola. Solo quando il film sta per partire il pubblico viene avvisato della durata (tre ore e 47 minuti, ne sono stati tagliati due, giudicati troppo violenti). «Con l’intervallo, quattro ore». Qualcuno inizia a protestare prima ancora che si spengano le luci. Sergio Leone non c’è. Ha rifiutato di essere presente a Boston, ha detto a Milchan: «Io ho fatto il film e ho tagliato tutto il possibile, ora tocca a te». Ha fatto una sola richiesta: che la proiezione si interrompa per l’intervallo quando il giovane Noodles finisce in galera. È un disastro, i giudizi sono cosí negativi che la proiezione del giorno dopo, in programma a Washington, viene cancellata. Una larga parte del pubblico se ne va prima della fine, un fatto inaudito. Claudio Mancini c’è, e legge i questionari riconsegnati da chi è rimasto: c’è chi scrive che non può stare quasi quattro ore senza fumare, chi si lamenta perché a fine film i mezzi pubblici non girano piú, chi dice che il film è confuso o eccessivamente violento. Anche Arnon Milchan c’è: ricorda quella notte di Boston come una delle peggiori della sua vita. Torna in hotel e non va a dormire, attende che si facciano le 3 del mattino per poter chiamare Leone in Italia. Gli racconta tutto, gli dice che bisogna fare qualcosa per salvare il film in America. La risposta è: «Tagli non ne faccio, fate in modo che gli americani vadano a cena prima o dopo la proiezione». Non c’è un suo film che non sia stato accorciato dagli americani, pensa, un compromesso si troverà. In questo caso, poi, il rapporto con i distributori è mediato da Milchan, dalla Ladd, lui non sa neppure chi davvero decida alla Warner, non

sa con chi parlare. In ballo non c’è solo qualche minuto di film, c’è molto di piú. C’è una questione vecchia come il cinema, mai cosí attuale: chi è l’autore? All’inizio degli anni Ottanta, la risposta dipende dal continente in cui la si dà. In Europa l’autore è certamente il regista, in America è quasi sempre il produttore, che ha trovato i soldi e la storia, ha messo insieme la squadra e scelto il regista, gestisce il rapporto con i distributori. In Europa i test screening non si fanno, in America decidono la sorte dei film: a volte li affossano prima ancora che escano, a volte li fanno cambiare radicalmente, si aggiungono o tagliano scene, si interviene sulla colonna sonora, a volte moltiplicano il numero di copie con le quali usciranno sul mercato. In questo momento pochi al mondo si sentono piú autori di Sergio Leone: per C’era una volta in America ha trovato la storia, ha avuto le piú importanti idee di sceneggiatura o comunque le ha stimolate e poi approvate, ha scelto gli attori, le location e ha discusso la colonna sonora con Ennio Morricone. Ha naturalmente diretto le riprese e montato ogni istante del film. Ogni ulteriore compromesso è impossibile, qui è in ballo la natura stessa del suo cinema, l’unico punto sul quale non potrà mai transigere. Non ottiene risultati neppure la mediazione di De Niro: «A un certo punto, – mi ha raccontato, – abbiamo la versione tagliata e la versione di Sergio, che addirittura era già una versione di compromesso. Allo studio propongo: perché non mostrate una sera la versione di Sergio, la sera dopo quella tagliata? Con lo stesso pubblico, vedete come reagisce, e se la reazione cambia. Ero sicuro che sarebbe piaciuta di piú la versione di Sergio. Ma non l’hanno fatto, o almeno io non l’ho mai saputo. Cercavo di far capire alla Warner che non puoi intrometterti nella visione di un autore, non ne otterrai mai niente. La devi rispettare. Non hanno capito che quello era un film diverso da tutto ciò a cui era abituato il pubblico americano. Era un film straniero, che raccontava una storia americana ma vista da Sergio, che era italiano, dal suo punto di vista. È ciò che è, non avrà mai un gusto, una sensibilità

americana. Se lo tagli, lo distruggi, non ti rimane niente, né carne né pesce, perché non rispetti la visione originale del regista, specialmente se, come Sergio, il regista ha vissuto cosí a lungo con questa storia, l’ha presa da un libro e l’ha fatta diventare la sua storia, l’ha romanzata in un certo senso. Era un film cosí personale per lui, non puoi cambiarlo e farlo diventare qualcos’altro, se lo tagli lo puoi solo peggiorare. Se vuoi un film americano, devi prendere un regista americano, non uno come Sergio, cosí italiano, cosí europeo, cosí Leone, come era lui. È cosí che dovevano presentarlo, dovevano cercare di farlo funzionare in America, non tagliarlo. Avrebbero dovuto venderlo cosí: Sergio Leone presenta il suo capolavoro al mondo, all’America come all’Europa. Ma doveva essere rispettato, e questo non l’hanno capito. È chiaro che dovevano difendere il loro investimento. Avrei capito se avessero detto: taglia qui o lí, accorcialo, per andare incontro agli esercenti, o perché la gente si annoia. Sono felice che il film sia andato bene in Europa e in altre parti del mondo. Non mi sorprende. Nel film c’è un’altra sensibilità, un altro modo di raccontare le storie, ha senso che sia piú popolare in Europa». Il 14 marzo 1984 esce su «Variety» una notizia secondo la quale The Ladd Company avrebbe organizzato un altro test screening a Burbank, cioè nella località a 20 chilometri da Downtown Los Angeles dove ha sede la Warner Bros. È stata mostrata la versione «americana» di Once Upon a Time in America, montata in fretta e furia. Il film ora dura 180 minuti, la storia si sviluppa in ordine cronologico, dalla scena della danza di Deborah sulle note di Amapola all’uscita di Noodles dalla villa di Bailey. L’eco di un colpo di pistola lascia intendere che alla fine il politico si suicidi. I 24 squilli di telefono si sono ridotti a uno, Elizabeth McGovern è praticamente sparita dal film, la banda dei ragazzini quasi. Come è andata? «Decisamente meglio», dichiara un anonimo dirigente della Ladd a «Variety», e poi aggiunge che è probabile che 10, 15 minuti vengano ulteriormente tagliati. Il lavoro verrà portato a termine da Zach Staenberg, il montatore di Scuola di polizia, uomo di fiducia della Warner.

Leone reagisce subito, sul numero seguente di «Variety» e sulla stampa italiana. Lamenta i tagli, ma piú ancora la risistemazione in ordine cronologico delle sequenze del suo film. C’era una volta in America è tutto lí, cosí il film verrà «seriamente danneggiato». Ed è un eufemismo. Cosí il film non esiste piú. Gli è rimasta solo la possibilità di negare la sua firma alla versione americana: «Purtroppo l’America, il paese che ti dà la possibilità di fare un film come questo, è anche il paese che per timori commerciali preferisce distruggere quel film, rischiare di annientarlo, – dice a Lietta Tornabuoni che lo intervista per «La Stampa». – Io non ho fatto Il Padrino. Le storie, gli aneddoti che io racconto non sono teste di cavallo mozzate e insanguinate messe in un letto tra lenzuola di raso: sono qualcosa di molto piú complesso e profondo e continuo, cosí come il film è totalmente differente da quanto ho fatto sinora. La sua anomalia e diversità non è casuale: è maturata nel tempo, nel decennio di rinvii che lo hanno mutato, nel procedere della mia vita che ho nutrito di considerazioni sempre piú amare e del sentimento di uno che non è piú giovane, nella simbiosi nata fra me e il protagonista Robert De Niro». È a questo punto, probabilmente, che a Leone appare evidente quanto sia poco americano il suo film sul Sogno americano, come sia destinato a sembrare inafferrabile, «confuso», incomprensibile fuori dalla vecchia e nostalgica Europa. Ci vuole Tempo, Tempo per immergersi nella storia e nei suoi tempi dilatati, Tempo per accettarne le infinite ambiguità, Tempo per rassegnarsi all’impossibilità di definire questa storia in poche, semplici parole («Nello spazio di una cartolina», come si usa dire). Ma in America il Tempo è Denaro, come vuole un detto che si fa risalire al padre della patria Benjamin Franklin. Il Tempo si spende per ottenere qualcosa: nel terzo atto il bene deve trionfare, l’eroe deve prevalere, i nodi si devono sciogliere. La posizione di Ladd e soprattutto Warner è piú o meno questa: ti sei impegnato a consegnare un film di 165 minuti. Non l’hai fatto, ora il final cut spetta a noi. Con una mossa che

può sembrare perfino ingenua, o forse disperata, Leone si appella al Codice napoleonico, il codice civile francese, perché il contratto è stato firmato a Parigi. Ingaggia Léo Matarasso, che lui definisce «l’avvocato di Orson Welles» ma che è molto di piú: un ebreo sefardita nato a Salonicco, massone, partigiano con il nome di battaglia di Sorel, comunista, pacifista, anticolonialista, terzomondista, fondatore con Lelio Basso della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, amico della causa palestinese e di quella sandinista. Ingaggia un legale americano «per cercare di impedire la distribuzione della versione mutilata negli Stati Uniti» e minaccia di portare in tribunale perfino Arnon Milchan: «Sono costretto a prendermela con il mio produttore. Con lui ho firmato il contratto, è lui che deve assumere le iniziative necessarie a salvaguardare il film dalle mutilazioni», dice Leone. The Ladd Company risponde non invitando i giornalisti e i critici americani alle anteprime organizzate a Parigi in vista del Festival di Cannes, dove, tra l’altro, l’ingresso alla proiezione alla presenza del regista e del cast, il 20 maggio alle 19.30, sarà a pagamento, in un gala exceptionnel a beneficio dell’Institut Pasteur. Biglietti a 250 e 400 franchi, pagabili con un assegno da inviare alla casella postale 286 di Cannes. È con questi fantasmi nascosti sotto gli smoking e i papillon che il 20 maggio 1984, domenica, Sergio Leone, De Niro, Milchan e gli altri salgono la montée des marches della 37 a edizione del Festival di Cannes. Nei giorni precedenti, Leone ha cercato di smorzare i toni del contrasto con gli americani, ha detto che non porterà avanti alcuna causa in tribunale, che firmerà qualsiasi versione Ladd e Warner decidano di far uscire, che citerà in tribunale solo Milchan, come un atto dovuto. Lui, la famiglia, il cast sono tutti all’Hôtel du Cap-Eden-Roc, a Cap d’Antibes. Sono giorni di attesa, l’accoglienza da parte dei francesi è stata incredibilmente affettuosa, tutti sono convinti che il nuovo film del Maestro italiano sia l’avvenimento piú importante di

questa edizione del Festival, che guarda caso alla fine consacrerà con la Palma d’oro Wim Wenders e il suo Paris, Texas, un’altra America raccontata da un europeo. All’Eden-Roc perfino Robert De Niro accetta di fare un’intervista con la tv pubblica francese. Rimarrà l’unica mai concessa su C’era una volta in America in occasione dell’uscita. Appare chiuso, distaccato, tecnico, guardingo, quasi timoroso. Racconta di aver incontrato Leone con Depardieu dieci anni prima e di aver parlato già allora di C’era una volta in America, dice che ha accettato di lavorarci perché gli è parso «un buon progetto», anche se lui in genere preferisce film piú compatti, che si girano in poco tempo. Parla volentieri del trucco e di Manlio Rocchetti, «un uomo molto bravo, coscienzioso», e dice che l’America del film non è l’America vera e neppure verosimile, è la visione di un europeo, attraverso i film della sua vita, le storie che ha vissuto. «Ma non per questo è meno valida», concede. Il 19 maggio, alla vigilia della prima ufficiale, Sergio Leone scrive sul «Corriere della Sera» un lungo articolo, molto personale, introspettivo, un po’ malinconico: «Dico a tutti che si tratta del mio film migliore, probabilmente è cosí e di sicuro lo penso davvero, ma quel che voglio precisamente dire, con questo, è che C’era una volta in America sono io. «È un film che potevo dirigere soltanto con i capelli grigi e qualche ruga intorno agli occhi. I miei film precedenti erano il mondo giudicato dai bambini, storie che raccontavano la giovinezza dell’America, quindi le prime ombre del suo crepuscolo. Questo è un giudizio sul mondo dei bambini, invece, su Hollywood e su me stesso: un film tessuto sui ricordi, autunnale, girato nella notte del cinema». Per parlare del taglio imposto al film dagli americani usa un’immagine bizzarra: «Mi sento come una bella signora palpata sul tram da qualche vecchio sporcaccione». E scrive ancora che chi lo dovrebbe proteggere, il suo produttore, lascia fare, non interviene. Conclude: «Aggiungo il racconto della causa legale con la produzione all’album delle mie storie

americane, che colleziono tuttora, a cinquantacinque anni suonati, come da bambino collezionavo le figurine Buitoni». La conferenza stampa è in programma alle 15 di domenica 20 maggio. Leone indossa la giacca senza cravatta su una camicia a righe, James Woods giacca, camicia e maglioncino chiaro. Sono loro i protagonisti dell’incontro: Nino Baragli, Jennifer Connelly, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Joe Pesci, Ennio Morricone, anch’essi al tavolo, non apriranno bocca. Claudio Mancini interverrà brevemente. Arnon Milchan non c’è, Robert De Niro non c’è, come fa subito notare Lello Bersani della Rai. «Bob De Niro mi prega enormemente di scusarlo, – dice Leone, – non sta bene, ha problemi a un orecchio, non è una scusa, proprio ora un medico lo sta visitando. Ha interrotto ciò che stava girando ed è volato fin qui per starci vicino, il suo sostegno al film non è in discussione. Ha incaricato Woods e Pesci di rispondere per lui». Qualcuno dice a Leone di averlo visto la sera prima alla proiezione per i critici. Era lí per controllare in diretta le reazioni al suo film? Lui spiega che era molto preoccupato per la copia. Il doppiaggio francese è finito da pochi giorni, non ha avuto il tempo di un controllo generale della pellicola. Voleva assicurarsi che immagine e sonoro fossero perfetti, infatti con lui c’era Tonino Delli Colli che ora sta facendo lo stesso controllo sulla pellicola della serata. Però sí, ammette poi, «non nascondo che la reazione dei critici non mi lascia indifferente, anzi, le sono molto sensibile. Soprattutto perché in passato non sono stato trattato molto bene». Perché i personaggi maschili del suo film si comportano tutti, uno dopo l’altro, in maniera cosí malata e violenta con le donne? «Se parla della scena con Tuesday Weld, – è la risposta, – si tratta di gangster, De Niro / Noodles si comporta da gangster ed è noto che i gangster non sono mai particolarmente carini o teneri con le loro donne o con le donne in generale. Ma quello che a me importa è il personaggio interpretato da Tuesday Weld. È una donna che all’inizio della storia è quasi una prostituta e che poi trova una

sua saggezza nella vecchiaia, a differenza di certi uomini che iniziano puliti e invecchiano sporcandosi. Quella con Elizabeth McGovern, o Deborah, personalmente non credo sia una semplice violenza. È un disperato grido d’amore. Volevo rappresentarla cosí. Se non è cosí, ho sbagliato». Come sempre, c’è quello che cerca la provocazione: «Ho avuto l’impressione di vedere Il Padrino, solo un po’ piú lungo». «Mi spiace per lei, spero che ora abbia capito almeno che il mio film è esattamente l’opposto. Il Padrino fa mirabilmente spettacolo della cronaca. Il mio è una favola che cerca di dire anche qualche piccola verità, che ha dentro certe angosce che mi appartengono». A questo punto, Leone chiede aiuto a Brian Freilino, che definisce il suo «assistente». Il rimbalzo tra italiano, francese, inglese lo sta mettendo in difficoltà, ha bisogno di spiegarsi, vuole un interprete che lo conosca bene. Infatti arrivano le domande sulla versione americana del film, che lui dice di non aver mai visto. Spiega che non può ritirare la firma, poi aggiunge: «È chiaro che io riconosco unicamente la versione che avete visto ieri sera». Lo interrogano sulla lunga storia di C’era una volta in America, sull’ossessione personale di cui si nutre. Leone puntualizza: un’ossessione c’è, ma non è quella per i gangster americani. «È un film sui ricordi, miei e della mia generazione, che si sono formati sui libri di Dos Passos, Chandler, Hemingway, Hammett. E sul cinema: il sottotitolo del film potrebbe essere “C’era una volta un certo tipo di cinema”». Interviene James Woods: «Ieri mi hanno fatto la stessa domanda. Ho risposto che quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, Sergio mi ha mostrato dei quadri di Reginald Marsh. È quello il modo di vedere la realtà di Leone, nel quale può esserci piú verità che in una cronaca giornalistica o nel realismo di tanti film americani sullo stesso tema». Ancora Leone: «Anche perché credo che con le favole si possano dire verità. Nel film non c’è solo Reginald Marsh, ma tanti pittori che raccontano qualcosa sull’America, come

Edward Hopper, che amo particolarmente e che descrive un’America amara». Arrivano una serie di domande sull’ispirazione di partenza, sulla strana scelta di raccontare la mafia ebraica. «Tutto nasce da The Hoods di Harry Grey, un piccolo libro scritto da un autore ebreo, che ho conosciuto. Ciò che piú mi ha incuriosito è che mi ha detto di aver scritto il libro per contrastare l’immagine romanzata dei gangster tanto di moda a Hollywood. Eppure è evidente che Grey ha subito pesantemente l’influenza dei film hollywoodiani. Ho pensato che se la realtà aveva ceduto il passo alla fantasia, forse valeva la pena di farci un film. Ho capito che quella storia mi permetteva di mettere a nudo certi sentimenti, certe contraddizioni, la tenerezza, il tradimento, la passione, l’amore, il sesso, la violenza. L’infanzia. E poi, determinante, una storia di amicizia virile tra due uomini, un tema dominante in quasi tutti i miei film. Infine, in secondo grado, potevo raccontare la mia passione per il cinema. Grazie all’avvento della televisione e al lavaggio del cervello che fa la tv, di questi film se ne faranno sempre meno. Volevo lasciare una testimonianza di simpatia per il cinema che ho sempre amato». Inevitabile, ecco la domanda sul sorriso finale di De Niro: possiamo forse dedurre che il film è pura fantasia, che Noodles ha sognato tutto? «Se non è tutto un sogno, è certo che la fine del film è un flashback. O è il mio sogno, e quindi ho voluto terminare il film con il ricordo della sua disfatta, il tradimento. Oppure c’è la possibilità che tutto sia stato visto attraverso l’oppio, e quindi sia un viaggio onirico verso il futuro. Le due cose si equivalgono. La data importante, quella che conta, è il giorno in cui Noodles ha tradito il suo amico Max». A questo punto, si alza una giornalista. Parla in inglese, le trema la voce, per l’emozione o piú probabilmente per l’indignazione, perché dice di essersi sentita, durante la visione del film, «imbarazzata» come donna e «scoraggiata» come essere umano. «Penso che il suo film sia il piú machista e nihilista del cinema italiano», dice.

C’è un po’ di confusione, al tavolo, le traduzioni si accavallano, dall’inglese al francese all’italiano. L’interprete del Festival gira al regista, a James Woods e agli sceneggiatori di esprimere la loro opinione personale «sulle donne e sul nihilismo, che io non so cosa voglia dire». Leone non si tira indietro, forse capisce che la questione gli verrà ripresentata ancora, piú volte: «Credo che le donne siano sempre state un tantino lontane dai miei film, ma non perché io sia maschilista o macho. Non credo neppure di offrire un’immagine negativa delle donne, il film inizia con una donna americana che si fa uccidere per non rivelare dov’è il suo amante. Il punto è che ho messo le donne nei miei film quando rappresentano qualcosa, quando sono il centro motore di una vicenda. Non le ho mai trattate come appendici, come forse lei preferirebbe». Prende la parola Woods, che evidentemente alla questione ha pensato a lungo: «Le donne, come del resto gli uomini e le vicende che vengono raccontate, devono essere viste nel contesto di una determinata epoca, un’epoca lontana quaranta, cinquanta anni dal femminismo di oggi, in cui, tra parentesi, personalmente credo. Con la sua insinuazione, se la posso interpretare cosí, lei si pone sulla stessa linea di chi definisce razzista un film in cui i neri di cento anni fa vengono raffigurati come schiavi. Non è un giudizio, è un dato di fatto. Ci sono quattro o cinque personaggi femminili nel film, ognuno rappresenta un punto di vista. Il personaggio di Tuesday Weld è, in un certo senso, disturbato: è una prostituta, assume eroina… Quello di Elizabeth McGovern in realtà è un precursore del femminismo americano. È una donna indipendente, vuole arrivare, rinuncia all’uomo che ama perché non riesce ad accettare il suo comportamento immorale. Un’altra donna è una maîtresse, un’altra ancora una fedele amica. Ciascuna ha una scala di valori, come i personaggi maschili. Alcuni cercano di non farsi corrompere, Fat Moe cerca di tenersi fuori dall’ambiente dei gangster. Il personaggio di De Niro non vuole lasciarsi invischiare nei loschi affari di corruzione legati alla mafia. Il mio personaggio fa una scelta diversa. Ogni personaggio ha il proprio punto di vista. Il cinema è il cinema e la politica è la politica. È vero

che ci possono essere delle commistioni tra queste due realtà, e ci sono, ma un film non deve trasmettere necessariamente e in primo luogo un messaggio politico. Il cinema non coincide sempre con la giustizia e questo rappresenta, a mio avviso, uno dei grandi meriti del film di Leone. Naturalmente è un suo diritto riportarlo all’interno della dimensione politica o personale in cui crede, ma non è questo l’intento del film». La sera del 20 maggio la proiezione di gala è un trionfo. I biglietti costano l’equivalente in franchi di 80 000 lire – scrivono i giornali italiani – e sono da tempo ovviamente esauriti. Alla fine, i minuti di applausi sono circa quindici, un’eternità. L’emozione è forte, è una serata memorabile per Leone, per vedere da vicino lui e gli attori di C’era una volta in America intorno al tappeto rosso si raduna una folla, sotto gli ombrelli e una pioggia fine. C’era una volta in America esce negli Stati Uniti il 1° giugno 1984, dieci giorni dopo la prima a Cannes, all’insaputa del suo regista. È, ovviamente, la versione americana, tagliata e rimontata. I giornali riportano una frase di Alan Ladd Jr («Leone non è felice, io neppure, nessuno lo è») che prelude al disastro. Il film è costato 30 milioni, e nel primo weekend, quello decisivo, incassa, in quasi novecento sale in tutti gli Stati Uniti, 2 412 014 dollari. Una miseria. Resiste tre settimane e arriva a superare a malapena i 5 milioni. Il 2 settembre C’era una volta in America arriva a Venezia, primo film di Leone ospite della Mostra, come evento speciale in una serata di gala a favore della Croce Rossa. Il regista ha cosí modo di annunciare che la Warner ha ritirato «quello scempio» della versione mutilata dalle sale, e che in autunno uscirà in America con il director’s cut. Infatti, accompagnato dal cast, il film approda al New York Film Festival, a inizio ottobre, e poi al Gemini Theater a Manhattan, all’Esquire di Chicago, al Clay di San Francisco, a Philadelphia, Atlanta, Detroit, Los Angeles, Minneapolis. Molti pensano che l’idea sia di arrivare in qualche modo agli Oscar, e cosí rilanciare Leone e la sua gangster epic. Ma The Ladd Company e Warner Bros. si sono separate in fretta e

senza annunci da qualche mese, «a nessuno viene in mente» (parola di Arnon Milchan) di candidare il film agli Oscar, neppure Ennio Morricone e la colonna sonora. C’era una volta in America è il 107° incasso dell’anno 1984 negli Stati Uniti. Si può ben dire che l’America abbia fatto di tutto per non vederlo. O rivedersi negli occhi di Leone. Nel suo modo di vedere le cose. Lui comincia a parlare di nuovi progetti, dice di voler portare al cinema La condizione umana di Malraux, oppure I 900 giorni di Harrison Salisbury, storia dell’assedio di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale. Ma ciò che pensa veramente lo dice solo a Noël Simsolo: «Trovo difficile pensare a nuovi progetti. Già dopo C’era una volta il West avevo parecchi dubbi. Mi domandavo se non stessi per dire addio al mio lavoro. In questo caso, è un po’ diverso perché si tratta di un film prima di tutto sul cinema. Non ci sono solamente la nostalgia e il pessimismo. Ho scritto qualcosa a proposito: “Ai miei occhi, Mano armata era una di quelle palle di cristallo per turisti, con dentro una piccola Tour Eiffel, un Colosseo in miniatura o una mini Statua della Libertà. Si rovescia la sfera e, con fiocchi grossi e fitti, si vede cadere la neve. Ecco che cos’era l’America di Noodles. E la mia. Minuscola, favolosa, perduta per sempre”». Otto anni dopo, nell’ottobre 1992, Arnon Milchan annuncia la prima vera uscita del film di Sergio Leone negli Stati Uniti: debutterà a Santa Monica, poi sarà a New York, Chicago e altre città. «La versione tagliata è stata un errore collettivo», dice al «New York Times». «C’era chi pensava che il pubblico americano non fosse pronto per un film cosí lungo. E parte della colpa è mia. Non mi sono battuto abbastanza per salvare la versione completa, ero entrato da poco in questo business. Nel resto del mondo, dove è uscita la versione completa, i critici l’hanno definito un capolavoro. In Europa è stato un enorme successo. Qui no. Sergio la versione tagliata non l’ha mai voluta nemmeno vedere». C’era una volta in America aveva incassato moltissimo in Germania e in Svezia, molto in Francia, in Italia – dove è

uscito a fine settembre 1984, con il biglietto a 10 000 lire e due soli spettacoli al giorno – e nel Regno Unito. In Giappone era stato un successo di pubblico e di critica, premiato anche come miglior film dell’anno agli Oscar locali. Negli Stati Uniti la cassetta vhs aveva fatto guadagnare alla Warner quasi il doppio dei biglietti venduti nei cinema dove era andata la versione mutilata: 10 milioni di dollari. L’uscita in sala negli Stati Uniti, a otto anni e mezzo da quella prima a Cannes, per Arnon Milchan è un gesto di riparazione dettato dal senso di colpa e una mossa astuta per far venire in superficie il culto underground di C’era una volta in America. Per Leone, una rivincita, tardiva, parziale ma vera. E postuma: quando il film esce per davvero in America è morto da piú di tre anni, il suo cuore malato ha ceduto nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1989. «Insieme studiavamo il suono, il rumore, la musica. E ora, invece, è rimasto solo il silenzio. Un silenzio drammatico, incredibile, ingiusto. Un silenzio spaventoso», dice Ennio Morricone al funerale, nella basilica di San Paolo fuori le Mura. Il 18 maggio 2012, ventotto anni dopo la prima, ventitre anni dopo la morte del suo regista, C’era una volta in America è tornato a Cannes, in una versione estesa che comprende le sei sequenze principali che Leone stesso aveva escluso. A festeggiare il film, quella sera, c’erano Robert De Niro, Elizabeth McGovern, James Woods, Jennifer Connelly, ed Ennio Morricone. Quella sera a Cannes c’ero anch’io. Non potevo mancare, anche se non avevo l’invito, non ero riuscito a ottenerlo da Gucci, che aveva pagato il restauro e avrebbe pagato la festa, ventotto anni dopo ancora all’Eden-Roc. Mi sono piazzato all’ingresso della sala in attesa di un miracolo. Che c’è stato, grazie a Carlo Cresto-Dina, produttore di Alice Rohrwacher, per me amico antico di una provincia da cineforum che sognava l’America e un po’ anche Cannes. Tempi antichi, piú o meno quelli in cui Leone girava il suo film. Carlo mi ha visto, è sparito tra la folla ed è tornato qualche minuto dopo con un biglietto giallo trovato chissà come.

E cosí, c’ero anch’io, in fondo alla sala, sulla destra, quando De Niro ha presentato il film con il solito strano imbarazzo: a Cannes quella sera si è potuto assistere allo spettacolo di uno dei piú grandi attori di sempre che biascicava ringraziamenti leggendo appunti da un foglio spiegazzato. Aveva i capelli bianchi e lunghi, qualche anno in piú di Noodles vecchio, gli occhi di uno che stava trattenendo le lacrime (infatti sul tappeto rosso ha pianto, l’ho visto poi su YouTube). Quando gliel’ho detto, che mi era sembrato emozionato, ha commentato: «Potrebbe essere, sí. Quando invecchi diventi piú emotivo». Una sola frase ha detto quella sera senza leggere, anzi due: «Sergio non voleva finirlo il film, sarebbe andato avanti ancora, forse per sempre. E a questo punto della mia vita, capisco perché».

Una crepa nel cuore La storia di Ernesto Gastaldi

Quando seppe che Sergio Leone era morto, Ernesto Gastaldi si precipitò nella villa all’Eur, nella saletta cinematografica sotterranea dove era stata sistemata la bara di legno chiaro, «troppo piccola per contenere quell’uomo che mi è sempre parso grande, gigantesco». Arrivò con l’intenzione assurda ma precisa di discutere per l’ultima volta di quel «capolavoro mostruosamente sbagliato» di C’era una volta in America. «È impossibile che un ex gangster diventi senatore in America: hanno eletto persone che avevano delinquenti in famiglia, ma mai uno senza passato e senza famiglia. E poi perché richiamare Noodles per farsi uccidere e condannarlo cosí alla sedia elettrica? Dove era stato Noodles tutti quegli anni per non sapere che la ragazza di cui era innamorato era diventata Marilyn Monroe? Sul piano della logica, il film è tutto sbagliato. Comincia con la mafia che vuole far fuori De Niro. Ma De Niro non è il pollo, il cretino che hanno messo in mezzo? Se poi Max ha un accordo con il ministro dell’Interno – perché uno che fa ammazzare tutta la gang meno se stesso e fa trovare un corpo per far credere di essere morto ha un gancio ai livelli piú alti – la telefonata anonima non ha senso. E ancora: per la scena piú bella, quella con il bambino che mette da parte un centesimo alla volta per comprare la pasta da dare alla mignottina e poi se la mangia e non va con lei ci voleva un bambino scheletrico, tu hai messo uno normale. Sembra che tu dica che la gola vince sul sesso, ma il punto è un altro: ha fame! Ecco, sono partito da casa per parlare di tutte queste cose, ma poi davanti alla bara sono riuscito solo a dire: “Sergio, adesso sai che avrei voluto fare il tuo film”». Molti film che ha scritto, in quarant’anni di cinema, Gastaldi non li ha mai visti: «Sfornavo cinque, sei copioni l’anno, quello che intitolavo Puzzle magari usciva l’anno dopo

come Lo strano vizio della signora Wardh, se non mi avvertiva qualcuno non andavo certo al cinema a controllare com’era. Per fortuna mi sono perso i piú brutti, almeno credo. Ho 84 anni, ho smesso di fare cinema intorno al 2000, l’ultimo l’ho fatto nel 1998 con Aldo Florio. Da allora, film importanti completamente italiani ce ne sono stati pochissimi. In compenso, anche in rete si parla ancora dei film che abbiamo fatto noi. Ho avuto la fortuna di lavorare in un mondo di persone mediamente ignoranti, con alcune eccezioni. Da ragazzo, avevo 22, 23 anni, andavo a casa di Rodolfo Sonego e c’erano Zavattini, Fellini, Sordi… De Sica l’ho visto un paio di volte, Ponti lo usava come esempio per dimostrare che i registi sono cretini. Diceva a Tonino Valerii: i bravi registi devono essere un po’ stupidi. Non aveva tutti i torti, le persone molto intelligenti, Freda, Margheriti, non davano tutto al cinema, come invece faceva Valerii. Forse anche Leone. Per quelli intelligenti, il cinema era un gioco. Sembra strano, ma chi faceva i film che chiamano “di genere” di solito era piú colto, aveva piú interessi, aveva letto piú libri. Comunque, le uniche persone del cinema che valeva la pena frequentare erano gli sceneggiatori: Rodolfo Sonego era un genio, divertentissimo, non si capiva se era lui che faceva Sordi o viceversa. Probabilmente era anche un poeta, si è sprecato con il cinema. Poteva fare di piú. Age e Scarpelli erano bravissimi tecnicamente e nei dialoghi. I due toscani maledetti, Benvenuti e De Bernardi, mi prendevano in giro: “Tu nei dialoghi non sei granché”. E grazie al cazzo, rispondevo, fatemi scrivere in piemontese e vedrete. Era il mestiere piú bello del mondo, anche perché venivamo pagati sempre. Stavamo all’inizio della catena, il montatore poverino era quello che ogni volta rischiava di non prendere i soldi». Quando Sergio Leone è morto, Gastaldi stava scrivendo per lui un film che avrebbe dovuto dirigere suo nipote Luca Morsella: «Un posto che solo Mary conosce, una bella storia. Sergio mi aveva raccontato il finale: siamo ai tempi della Guerra di secessione americana, il protagonista viene impiccato, ma invece di morire va nel posto che solo Mary conosce. Infatti incontra Mary, ma quando si volta, è un

teschio. Torniamo sul luogo dell’impiccagione e lui è lí, morto. Bello, poi ho scoperto che era preso da Maupassant. Da Maupassant hanno rubato tutti». Il rapporto era nato con Il mio nome è Nessuno: «Sergio l’ho frequentato quasi tutti i giorni per otto mesi, prima ad Acilia e poi all’Eur, per scrivere il film. Sulla scrivania teneva un righello con la scritta: IT’S SO HARD TO BE HUMBLE WHEN YOU ARE GREAT AS I AM . Faceva il furbo, ma era chiaro che il successo che aveva avuto non se l’aspettava, e lo spaventava. Fulvio Morsella, suo cognato, che aveva lasciato il lavoro di interprete all’Onu per seguirlo e tradurre per lui, mi ha raccontato che al primo viaggio in America, all’aeroporto, quando sono scesi dalla scaletta e hanno visto una sfilza di telecamere e giornalisti, Sergio gli ha detto: “Dobbiamo aver viaggiato con qualcuno di importante”. Ma quelli importanti erano loro, la stampa era lí per lui. Tonino Valerii, che ai tempi lavorava come aiuto montatore, mi ha raccontato che Sergio ha fatto Per un pugno di dollari copiando in moviola inquadratura per inquadratura La sfida del samurai di Kurosawa. Qualcuno gli ha detto: non stai esagerando? E lui: ma se questo film non va neanche a Frosinone… Il successo gli ha fatto male, perché poi lui aveva paura di sbagliare, come se temesse che scoprissero il bluff. Glielo dicevo sempre: perché ti preoccupi? Hai il migliore sceneggiatore, che sono io, il piú grande musicista che c’è in giro, Morricone, i migliori operatori, il miglior scenografo, che era Simi, i piú grandi attori del mondo, Henry Fonda, De Niro. Ma di che hai paura?» «Leone conosceva bene il cinema western americano, era molto nevrotico, sapeva che sarebbe morto presto. Mi ha detto che aveva una crepa nel cuore, una fessura minuscola, che gli avevano proposto il trapianto, all’epoca parecchio pericoloso, e aveva rifiutato. In compenso gli era passata la paura di volare, tanto sapeva di dover morire. Su di lui si raccontano balle infinite. Ho sentito Terence Hill dire in tv da Fazio che con Sergio aveva perso tre giorni in America per trovare il cappello giusto per Il mio nome è Nessuno. Sergio non è mai andato in America per quel film, ha girato due scene in Spagna perché era in ritardo e scadevano i giorni di Henry Fonda. Era

il produttore e ha chiesto a Tonino Valerii, il regista: “Posso fare due scene?” Che gli diceva no? Prima di iniziare a girare, Tonino era terrorizzato, la notte non dormiva, piangeva: doveva andare in America, dirigere Henry Fonda, che era un mito per noi, e alle sue spalle c’era uno che gli guardava i giornalieri che si chiamava Sergio Leone. L’ha salvato Fonda. L’ha preso da parte e gli ha detto: “Mi devi trattare come l’ultima delle comparse, mi devi dire quello che devo fare. Decidi tu. Faccio quello che vuoi, sei tu il regista”. Comunque, era talmente spaventato che la sceneggiatura l’ha girata proprio come era scritta. In piú di cento film, è l’unica volta che mi è capitato. Quel copione era mio, ma Leone l’ha letto e riletto tante di quelle volte, con pubblico e senza pubblico, che non so piú se l’autore sono io o lui». «Da Sergio mi ha portato Piero Lazzari, un direttore di produzione vecchio stile con cui avevo fatto Arizona Colt, uno dei film piú grossi di Giuliano Gemma. Prima di entrare, Lazzari mi dice: “Guarda che Sergio apre le porte con la pancia. E tu sei il numero 23”. Gli altri ventidue li aveva scartati perché lui voleva fare l’Odissea western e nessuno era riuscito a portare una storia convincente. Quando sono entrato, non si è alzato, non mi ha dato la mano. Era seduto sbracato dietro la scrivania, io mi sono seduto sbracato davanti alla scrivania. Mi ha guardato, teneva il tempo schioccando le dita: “Tre cavalieri al tramonto galoppano piano verso una barberia. Sopra c’è una locanda, dietro un vetro sporco si vede la faccia di un uomo anziano, con la barba da fare… Adesso vai avanti tu, fra otto giorni portami il trattamento”. Sono andato a casa e ho scritto le prime quattro pagine. Da lí siamo andati avanti, è sempre stato un rapporto tranquillo, non ho mai avuto soggezione. Lo ammiravo come regista, ma sapevo di avere una cultura enormemente superiore alla sua. Una sola volta ci siamo scontrati. Gli racconto un’idea e lui mi dice: “È una scena di serie C”. E io: “Un momento, tu sei in serie B e devi ancora vincere il campionato. Non sei De Sica o Fellini”. Me ne sono andato. Per venti giorni, silenzio. Al ventunesimo mi chiama come se fosse passato un minuto: “Ah, senti, poi, per quella cosa…” Scrivevo, poi lui raccontava. Man mano che si

andava avanti nella sceneggiatura, ripartiva ogni volta dall’inizio. Alla fine ci metteva due ore e mezzo. Chiamava un po’ di amici, gente del cinema, e raccontava il film, con tutti gli effetti, i suoni, le inquadrature. Il pubblico cambiava, c’era spesso Gigi Magni, io sempre. Nel fare questo, nella sua testa si creavano le immagini, prendevano corpo. Poi lui diceva che guardando le facce capiva se la storia funzionava e che se qualcuno si annoiava, se ne accorgeva. Per me era una tortura». Piemontese di Graglia (Biella), Gastaldi è arrivato a Roma nell’agosto 1955 a bordo di una Balilla, diretto al Centro sperimentale di cinematografia. Non è piú tornato indietro: «Ho conosciuto il cinema antico, quello che usciva dal muto e risentiva ancora del baraccone, della fiera di paese. Certi produttori erano ex cavallari, gente pesante, con la battuta romanesca a volte divertente ma sempre pesante. A mia moglie [l’attrice Mara Maryl] Misiani diede la chiave della garçonnière, dicendo: “Passi di qui se vuole ritirare la busta paga”. Uno che era diventato ricco producendo tortellini mi ha preso da parte: “Ho speso 600 milioni per questo film con Giuliano Gemma, e se poi è una scoreggia nella tenda?” Quando il film è finito, è scoppiato a piangere. Gli hanno portato sei scatole piene di pellicola e lui non ci voleva credere: “Tutto qui?” Il livello era questo. C’era di tutto, anche perché, a partire dai primi anni Sessanta e fino alla metà degli Ottanta, qualunque cosa si mettesse nel cinema faceva soldi. Sono diventati tutti produttori. Facevamo trecento film all’anno e non mille solo perché non bastavano gli operai, non c’erano troupe a sufficienza. Gli elettricisti, i macchinisti erano miliardari, non stavano fermi mai neanche un’ora, facevano ore e ore di straordinari. Li vedevi al sabato sera giocare alle corse e sembravano tutti milord. I film di genere li vendevano a scatola chiusa, c’erano 128 paesi che compravano qualunque cosa arrivasse dall’Italia. Prima i pepli, i film romani, poi gli 007, che per noi erano 077, i gialli, i poliziotteschi, i western, a seconda dell’ondata del momento. Io per esempio nel 1965 ho fatto Libido, un thriller, per scommessa e perché avevo a casa una moglie che per me aveva rinunciato ad andare in Francia a

lavorare con Vadim. Proviamoci anche noi, le ho detto, mettiamo 5 milioni, il resto lo troviamo in distribuzione, lavoriamo gratis e prendiamo il 50 per cento del film. Ci è costato 26 milioni, le riprese sono durate 18 giorni, in Italia abbiamo incassato 180 milioni, all’estero 400. Era cominciato il boom, che è durato fino alla fine del West, fino a quando è morto Sergio, piú o meno. La morte di Sergio è stata come una pietra tombale, lui era l’unico che poteva fare qualunque cosa, poteva fare grossi film e sono i grossi film che creano genere. Morto lui, è morto il cinema commerciale italiano. È finito un mondo. Da allora il cinema vero, quello grandioso, non c’è piú stato. C’è stato qualche bel film, ma non il cinema italiano. Stavamo per diventare un’industria, eravamo ancora artigiani ma stavamo per diventare un’industria: trecento film l’anno, quasi un film al giorno, c’era richiesta di mezzi tecnici, di studi, si costruivano stabilimenti. Stavamo per diventare un’industria e non ce l’abbiamo fatta».

EPILOGO

«Quella che guarda la campagna o quella che dà sul mare?» Ovviamente Carlo Verdone gli consigliò la tomba sul lato del mare, vicina all’ingresso, anche se dal cimitero di Pratica di Mare il mare si può solo sentire, al limite annusare. «Ma poi quello spazio non è occupato da un altro?» disse anche. «Lo levamo», fu la risposta di Sergio Leone. Levarlo non fu facile, fu coinvolto anche il principe Pierfrancesco Borghese, detto Memè, proprietario del Borgo di Pratica di Mare e forse anche del cimitero, chi lo sa, se ne discute ancora oggi. Qualche anno fa un gruppo di cittadini del borgo si è riunito su Facebook e poi si è rivolto al giudice, che gli ha dato ragione: sí, il cimitero è pubblico. Però poco o nulla è cambiato, il giorno in cui ci sono stato io il cancello d’entrata era chiuso con una catena. Per fortuna la tomba di Leone e ora di alcuni suoi familiari è vicina all’ingresso, si vede bene anche attraverso il cancello. La salma di Sergio Leone arrivò a Pratica di Mare solo nel 1997, otto anni dopo la sua morte, dieci anni dopo quella visita con Carlo Verdone. Fino al 1997 rimase sepolto al Verano. I progetti di Leone, come le sue scene migliori, hanno sempre tempi lunghi. Il suo cuore smise di battere quando aveva 60 anni, accadde all’improvviso ma non fu certo una sorpresa, sapeva da tempo di essere malato, aveva avuto modo di pensare a tutto, di parlarne a Carlo Simi, che ancora una volta aveva progettato la scenografia. L’ultima: una base di marmo bicolore con quattro scalini da salire; una lastra di granito appoggiata su quattro leoni seduti come sfingi; un baldacchino in marmo bianco con una greca sul lato che copre tutto. Sulla lastra, un medaglione con l’effigie del Maestro, visto di profilo, e il suo nome ripetuto due volte, chissà perché. Su un lato, tra l’alfa e

l’omega, 3-1-1929 e 30-4-1989, la scritta: c’era una volta c’è ci sarà sempre. Non c’era un motivo perché Leone finisse lí. Non veniva da Pratica di Mare o da Pomezia, né lui né la sua famiglia. Non ci aveva mai vissuto, né ci era venuto in vacanza. Casa sua all’Eur non è lontana, è vero, per arrivare qui bisogna prendere l’auto, imboccare la Pontina, viaggiare per venti minuti, uscire sulla provinciale per Pratica di Mare, passare l’aeroporto militare, percorrere una strada di campagna tutta curve e saliscendi. L’unico legame con la vita di Leone è il cinema. È una scena di C’era una volta in America, quella del camion dell’immondizia fuori dalla villa del senatore Bailey. La scena piú misteriosa, la pagina strappata dalla sceneggiatura, la morte / non morte della reincarnazione di Max. Fu girata a pochi chilometri da qui. La strada su cui è stata montata la scenografia, con tanto di pagoda, e sulla quale è stato fatto arrivare da New York il camion dei rifiuti, è in questa stessa campagna, sbuca sulla stessa provinciale. Ci si va in cinque minuti. Da queste parti aleggia lo spirito di Bailey, il morto che non è morto, il fantasma che nessuno può dire con certezza di aver visto svanire e rinascere. Se esiste, se si è nascosto dietro il camion dell’immondizia ed è scappato ancora, è qui, tra gli alberi che fanno ombra alle tombe, il tempietto in marmo bianco con la greca e un sepolcro troppo grande per un cimitero cosí piccolo, assediato dalle erbacce. Forse per vederlo ci vorrebbe una di quelle gru alla Leone, come quando Claudia Cardinale esce dalla stazione alla fine di C’era una volta il West o quando Noodles torna nel Lower East Side e chiama Moe dalla cabina telefonica. Oppure, meglio ancora, un’inquadratura dall’alto come quella su De Niro nella fumeria d’oppio, il punto di vista di Dio, con la camera che sfonda il marmo bianco, poi la pietra appoggiata sui leoni e stringe fino al primo piano, anzi al primissimo. A quel punto, probabilmente, lo vedremmo, quel fantasma, come dietro un velo, sorridente come un enigma.

Chi sei, Noodles o Max?, gli chiederemmo. E poi, Noodles è uno spettro del passato che cerca redenzione o l’ombra di un senso di colpa? Esiste per davvero o ce lo siamo immaginato? Il passato non passa mai, è questo il punto? Ma lui certamente non risponderebbe. O direbbe soltanto: «Pensatela un po’ come cazzo vi pare».

La Gioconda nella fumeria d’oppio (da dove viene questo libro)

Ho chiuso la prima stesura di questo libro il 29 febbraio 2020. Una settimana prima che iniziasse il lockdown, un mese prima che Jacopo Mastrangelo, 18 anni, salisse sul terrazzo di casa sua che dà su piazza Navona e suonasse una versione per chitarra distorta del tema di C’era una volta in America. Era il 28 marzo 2020, da quel giorno abbiamo avuto l’inno non ufficiale del lockdown italiano: Deborah’s Theme. Il 2 settembre 2020 la Mostra del cinema di Venezia si è aperta sullo stesso tema, suonato da un’orchestra d’archi di nove elementi, mentre sullo schermo alle loro spalle si vedevano un primo piano di Noodles anziano, il Manhattan Bridge visto da Dumbo, Noodles giovane, Deborah con le scarpette da ballerina sulle spalle, il bacio tra Deborah e Noodles, la sala dell’Excelsior romanticamente vuota che li attende. Si ricordava in quel momento Ennio Morricone ma si celebrava anche la rinascita del cinema, che ricominciava a respirare dopo sei mesi di apnea. E lo si faceva, guarda caso, con C’era una volta in America. Prima ancora, un giorno in cui cercavo un’idea da cui partire per scrivere queste note, grazie a Twitter ho scoperto la lista I cinquanta finali piú belli della storia del blog Film School Rejects. Al 43° posto c’è il sorriso di Robert De Niro: «Questa immagine è spesso considerata il momento finale di una interminabile allucinazione. O una specie di spasmo di morte. In ogni caso, un gesto inquietante ed enigmatico, il sorriso della Gioconda in una fumeria d’oppio». Della vitalità e rilevanza di questo film dovrei essere l’ultimo a sorprendermi. Ci ho puntato forte anch’io, ho messo sul piatto anni di lavoro. Ma il fenomeno oggi mi appare piú vasto e duraturo di quanto io stesso immaginassi: C’era una volta in America non è mai stato cosí vivo, è un film di oggi.

Lo era in quel 2006 in cui in Einaudi furono cosí gentili da chiedermi se avessi un’idea da proporre, dopo aver pubblicato con loro Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio. Ci ho pensato su e senza esitare ho proposto di scrivere, questa volta, la biografia di un film. Come se un film avesse una sua esistenza autonoma, ed esistesse perfino al di là di chi l’ha pensato, realizzato, fatto uscire. Ho ragionato sulle esperienze estetiche che mi hanno reso ciò che sono. I racconti di Fenoglio, i film dell’adolescenza, dovrei aggiungere certi dischi che ho trovato in casa o che ho ascoltato ai tempi del liceo. E tra i film, la mia personale Trinità: Il cacciatore, Apocalypse Now, C’era una volta in America, con una non lieve predilezione per l’ultimo dei tre. Non sono capace di scrivere un libro se non investendoci molto di me, molto a lungo. Questo l’avevo già capito allora, su Questioni private ho lavorato otto anni. Per passarci tanto tempo insieme, devi tenere al tuo compagno di viaggio, è necessario che te ne importi. Di C’era una volta in America mi è sempre importato molto. Da quando lo vidi la prima volta, avrei voluto saperne di piú. Come e dove era venuto al mondo, chi l’aveva fatto diventare cosí, chi ci aveva messo dentro tutta quella sapienza di vita. Chi aveva scelto di raccontare i sentimenti primari, il desiderio, l’avidità, l’amicizia, il sesso, la vendetta, l’aplomb attraverso il mito dei miti, l’America che abbiamo sognato. Sapevo di non essere il solo, a chiedermelo. Per la mia generazione, quella che ha avuto vent’anni negli anni Ottanta, il film fu decisivo. Ci diede un’educazione sentimentale ed epica, ci insegnò ad abbandonarci al flusso del racconto e a sospendere volontariamente l’incredulità. C’era una volta in America si discute, ma soprattutto si ama. Serve una prova? Nel 2015, per celebrare i propri vent’anni e i cento da che il cinema divenne qualcosa di serio (nel 1915 uscí The Birth of a Nation, Nascita di una nazione, di David W. Griffith), la benemerita trasmissione radio della Rai Hollywood Party promosse un referendum tra gli ascoltatori: qual è il film italiano piú bello di sempre? Vinse C’era una volta in America

per distacco, anche se – come fecero sapere poi gli autori del programma – nella loro selezione interna iniziale non era stato neppure tra i piú votati. L’Eros sconfigge la (cine)Philia. Sempre. Anche di questo – dell’Eros che circonda C’era una volta in America, del suo persistere nella memoria e nell’immaginario di tanti – ho parlato con Raffaella Leone, la figlia del Maestro. La incontrai all’inizio di tutto. Doveva essere il 2010, perché discutemmo di Bastardi senza gloria e di come Quentin Tarantino avesse come al solito riempito quel film di omaggi a suo padre. Le chiesi se, dopo averci tanto lavorato, chi aveva partecipato al film sentiva uno speciale legame (sapevo già della piastrina regalata a tutti da Robert De Niro), se il legame era ancora vivo. Lei rispose che gli attori sono strani, e De Niro piú di altri, quando finiscono un film pensano a quello dopo. Le parlai del mio progetto, che allora era un’idea e basta, pensavo a un’inchiesta sul film e sulla sua storia, nulla di preciso. Le dissi che ci saremmo risentiti e invece non l’ho piú chiamata. Andando avanti nella ricerca mi diventava sempre piú chiaro che Leone avrei dovuto guardarlo da lontano. Da punti di vista nuovi. Tutti comunque mi ci avrebbero ricondotto. Ma il mio libro non sarebbe stato una sua biografia. Un viaggio piuttosto, una serie di incontri meglio ancora. Mentre raccoglievo una montagna di materiale sul regista e sulla sua opera, su carta, in video o anche in audio, ho cominciato a cercare le persone che al film avevano lavorato. L’incontro con Claudio Mancini è stato fondamentale: ci siamo visti diverse volte, tre o quattro credo, giornate intere in quella parte di Roma che va verso il mare. La sua posizione di organizzatore generale e di line-producer, in pratica di uomo di fiducia del regista e del produttore al tempo stesso (una stranezza, probabilmente decisiva affinché il film finalmente si facesse), gli ha dato un punto di vista unico. La sua esperienza e una certa, presumo innata, capacità di capire le persone e le relazioni tra di esse hanno fatto il resto.

Mancini mi ha dato molti suggerimenti e qualche numero di telefono. Cosí tra 2010 e 2011 ho incontrato i premi Oscar Manlio Rocchetti e Gabriella Pescucci, poi Sergio Donati, Luca Morsella, aiuto nonché nipote di Leone. In quel periodo ho dialogato brevemente in rete con la giovane Peggy, Julie Cohen, che ora fa la cantante in un gruppo country rock in California, e lungamente, su Facebook e al telefono, con Scott Schutzman, insegnante di recitazione e poi psicologo. Il giovane Noodles, la cui vita è stata salvata e rovinata da C’era una volta in America. A quel punto ho cercato gli sceneggiatori, protagonisti di un’avventura intellettuale tra le piú affascinanti nella storia del cinema italiano. Ho incontrato Isabella De Bernardi, figlia di Piero, che era morto da poco. Sono stato a casa di Enrico Medioli, a Orvieto, e ho visto svariate volte, anche a distanza di anni, Franco Ferrini, al quale devo un po’ di storie e alcuni squarci intelligenti su un film a cui ha lavorato da giovane e al quale non ha mai smesso di pensare. Nel 2010 sono stato una settimana a Austin, in Texas, per immergermi nel meraviglioso archivio dell’Harry Ransom Center, specializzato in letteratura e cinema. Ci ho trovato molto materiale su Norman Mailer, anche la sua sceneggiatura in due volumi, e pure la documentazione sul tempestoso rapporto con Leone. Robert De Niro aveva da poco donato all’Hrc una grande quantità di documenti diversi, in parte neppure ancora indicizzati, appunti, foglietti, pure la foto da leggenda che lo ritrae con Muhammad Ali, Gabriel García Márquez, Sergio Leone e Gianni Minà da Checco er Carettiere. Ho capito lí quanto fosse coinvolto nella messa a punto della sceneggiatura, nella scelta dei comprimari e anche come alla fine Leone – giustamente – si sia imposto su tutto. Ho trovato la trascrizione pressoché completa di una delle incredibili presentazioni del film da parte del suo inventore e regista: molti me ne avevano parlato, ma ora avevo tutte le parole, in inglese, tradotte evidentemente da Brian Freilino. Sembrava di essere a New York, quel giorno, in quella stanza dell’Essex House. L’ho ritradotta in italiano, quella

trascrizione, l’ho leggermente adattata, ho fatto ricerche intorno ai dettagli che andavano chiariti. È stata la prima sezione del libro che ho messo nero su bianco. Insieme al dialogo televisivo con Corrado, che ho trovato su YouTube e che mi è sembrato, fin da subito, il prologo perfetto. Ho cercato anche Brian Freilino, naturalmente. Ho trovato solo l’articolo del giornale di Leechburg, Pennsylvania, che dava la notizia della sua morte, avvenuta il 31 maggio 2009. Di tutte le persone che non ho potuto sentire, è lui che piú mi è mancato. Ho cercato e trovato su Facebook alcuni suoi familiari, ma purtroppo del film e di Leone sapevano poco, anzi, nulla. A questo punto ho deciso di scrivere le storie che mi pareva di maneggiare con piú sicurezza, anche se non ero ancora riuscito a immaginare una struttura che le potesse contenere. Ho scritto il racconto di Scott Schutzman, che grazie a Michele Lupi è uscito molto bene su «Rolling Stone», a quei tempi diretto da lui. A dirla tutta, a Michele devo due storie che non sono entrate nel libro ma nella mia testa sí. Una si svolge ad Aspen, alla celebre conferenza sul design che nel 1989 fu dedicata all’Italia. Michele era lí con suo padre Italo Lupi e c’era anche Steve Jobs, era venuto ad ascoltare Achille Castiglioni: ha detto che amava il design italiano e che Sergio Leone era il suo «regista preferito». Il bello è che in quel momento Jobs era fuori dalla Apple da quattro anni, stava andando a letto presto. L’altra storia riguarda una delle canzoni che piú ho amato, Fairytale of New York della band The Pogues. Michele mi ha segnalato un video su YouTube in cui Shane MacGowan racconta la genesi di quel pezzo. Dice che l’atmosfera generale del racconto – un uomo e una donna si rinfacciano i rispettivi fallimenti alla vigilia del Natale – gli era stata ispirata da C’era una volta in America, che vedevano in rotazione sul bus con cui giravano l’America nel tour precedente. Infatti anche quel magnifico pezzo musicale è una favola, proprio come il film, e come il film ha al centro il sentimento del Tempo.

Nel 2011 ho scritto la parte su Leone visto da Mancini e l’epopea fallita di Norman Mailer, un americano a Roma. Poi ho incontrato Mario Calabresi e sono andato a lavorare alla «Stampa», a Torino. Ho ripreso a scrivere nel 2019, quando, dopo otto anni, mi sono dimesso dal giornale e ho messo fine, immagino per sempre, al trentennio di vita trascorso all’interno delle redazioni. Avevo una buonuscita per pagarmi le ricerche e non avevo piú scuse, proprio come speravo. Avevo, a dire il vero, anche un’idea abbastanza precisa su come scrivere la storia che mi ritrovavo tra le mani e in testa. Avevo avuto tempo per pensarci. Scartate tutte le ipotesi di flashback e flashforward, fascinose ma scontate, avrei seguito l’evoluzione del progetto capitolo per capitolo, dall’inizio alla fine, dalla concezione all’uscita del film, alternando i segmenti della storia principale a punti di vista esterni che ne illuminavano i dettagli, esagerandone alcuni e dimenticandone altri. Senza farci troppo caso, mi sono ritrovato cosí con sette capitoli e sette storie laterali, quando sette furono i film diretti da Leone e sette quelli da lui prodotti. Perfetto, almeno in teoria. Non rimaneva che scriverli, questi capitoli. A quel punto, Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti, mi ha dato un consiglio. Mi ha detto: mettici dentro un po’ di te, scalda il racconto con il tuo punto di vista. Scrivi in prima persona. Ci ho pensato, ho capito che aveva ragione. Ne abbiamo parlato un’ultima volta al Jova Beach Party di Lignano Sabbiadoro, in una tenda, pochi secondi prima che lui salisse sul palco davanti a 50 000 persone. Il solo gesto di riflettere sulla mia personale posizione dentro questa storia è stato liberatorio. Mi ha sbloccato, mi ha permesso di gettarmi nella mischia senza fingere distacco e perdere altro tempo. Da lí in poi, la scrittura è diventata piú veloce e fluida. Ho trascorso un pomeriggio a casa di Ernesto Gastaldi, a Roma, a parlare di vita (la sua) e del grande cinema popolare italiano. Sono stato a Palermo nello studio di Leonardo Sciascia a immaginare con suo nipote Vito Catalano un incontro che avrebbe potuto essere esplosivo. Sciascia e Leone, una bomba

narrativa mai esplosa. Ora il testo di Sciascia si può leggere in Questo non è un racconto (Adelphi, 2021). Sono stato a Roma a casa di Giuditta Simi, con sua madre Elisabetta, a vedere i disegni di suo padre Carlo, le foto scattate a New York per scegliere dove girare, i grandi progetti e i dettagli minimi da lui curati. Un viaggio emozionante compiuto intorno a un tavolo, senza muoverci di un centimetro. Sono loro che mi hanno raccontato delle riprese a Castelporziano e del cimitero vicino al castello in cui riposa per sempre Sergio Leone. Stefano Delli Colli, figlio di Tonino, mi ha spiegato com’era suo padre, e perché non è mai riuscito a convincerlo a scrivere con lui un libro sulla sua vita (ma nel 2017 ha pubblicato Tonino Delli Colli, mio padre, Artdigiland). Emanuele Della Valle, regista di Wetlands, mi ha messo in contatto con Fred Caruso, uno che ha costruito da capomastro edifici cinematografici maestosi, Il Padrino, Velluto blu, Quinto potere, il meglio di Brian De Palma. Di Simeon Grey dico nel capitolo che lo riguarda. Vorrei solo aggiungere che provo per lui affetto e ammirazione, anche se non ci siamo mai visti di persona. E che spero di poter accettare presto il suo invito e soggiornare nella casita di Thousand Oaks, California. Oltre, naturalmente, a The Hoods di Harry Grey, nella traduzione di Adriana Pellegrini, Mano armata (Longanesi & C., 1966, 1 a ed. 1958), ho letto molti libri in questi anni, e fra i tanti mi piace citare A Ticket to the Circus, l’autobiografia dell’ultima moglie di Norman Mailer, Norris Church (Random House, 2010); C’era una volta il cinema di Franco Ferrini (Gremese, 2013); Come entrare nel cinema e restarci fino alla fine di Ernesto Gastaldi (Edizioni Il Foglio, 2017); C’era una volta il West (ma c’ero anch’io) di Sergio Donati (Omero, 2007); Pane e cinema di Luciano Vincenzoni (Gremese, 2005); Il cervello di Alberto Sordi. Rodolfo Sonego e il suo cinema di Tatti Sanguineti (Adelphi, 2015); Da «La dolce vita» a «C’era una volta il West», terzo volume dell’Avventurosa storia del cinema italiano di Franca Faldini e Goffredo Fofi (Edizioni Cineteca di Bologna, 2021);

Adventures in the Screen Trade di William Goldman (Warner Books, 1983); C’era una volta in America di Diego Gabutti (Rizzoli, 1984; Milieu, 2015); e Miccia corta. Una storia di Prima linea di Sergio Segio (DeriveApprodi, 2005). A Hair of the Dog that Bit You è in The Žižek Reader (Blackwell, 1999), ma è uscito in origine nel volume collettivo Lacan’s Theory of Discourse (Suny Press, 1994). Dei libri dedicati a Leone, i due che mi sono stati piú utili sono TuttoLeone di Oreste De Fornari (Gremese, 2018) e Conversations avec Sergio Leone di Noël Simsolo (Cahiers du cinéma, 1999), che ho letto in francese anche se ne esiste una versione italiana, accolta con un certo disappunto dall’autore. Piú di recente sono usciti diversi libri che mi hanno ispirato qualcosa, anche se non so cosa: Zona di Geoff Dyer (il Saggiatore, 2012), su Stalker di Tarkovskij; Una visita al Bates Motel di Guido Vitiello (Adelphi, 2019), su Psycho di Hitchcock; One Shot: The Making of The Deer Hunter di Jay Glennie (Coattail, 2020) sul Cacciatore di Michael Cimino; Space Odyssey di Michael Benson (Simon & Schuster, 2018) su 2001: Odissea nello Spazio. Il libro che racconta la genesi di un film sta diventando un genere. Fantastico, me li dia tutti, grazie. Arnon Milchan non ha mai risposto alle mie mail: come è piuttosto noto parla poco. Quanto c’è da sapere su di lui si trova in Confidential (Gefen Books, 2011), un libro di Meir Doron e Joseph Gelman che secondo alcuni giornalisti israeliani che ho sentito off the records racconta la storia secondo il suo punto di vista, e in una lunghissima intervista curiosamente rilasciata alla rivista «Cigar Aficionado», in cui tende a romanzare e a rendere tutto piú interessante proprio come faceva Leone. A proposito, le due interviste imprescindibili di Sergio Leone su C’era una volta in America sono di Michel Chion, Serge Le Péron e Serge Toubiana su «Cahiers du cinéma» di maggio 1984 e di Pete Hamill su «American Film» di giugno 1984 (completata dal lungo racconto di Hamill sulla realizzazione del film). Il lavoro piú organico e informato su Leone l’ha fatto, come è noto, Christopher Frayling, che ho incontrato due volte, a

Torino (lungamente) e a Roma, per le inaugurazioni delle mostre da lui curate. Tutti i suoi lavori sono eccellenti, dalla biografia di Leone (Sergio Leone. Danzando con la morte, Il Castoro, 2001) non si può prescindere. Il testo di Martin Scorsese che ho ritrovato sulla chiavetta usb fa parte della presentazione del restauro di C’era una volta in America, realizzato dal laboratorio L’Immagine ritrovata della Cineteca di Bologna, a cui ha lavorato anche la Film Foundation di Scorsese stesso. Il suo rapporto con il cinema di Leone è profondo, perlopiú inconfessato. Di C’era una volta in America ha parlato a lungo solo una volta, a «Le Monde», nel 2012: ha detto che è «un sogno costruito dentro un altro sogno». E che lui non lo capí subito, ma suo padre sí: «Da come è stato invecchiato De Niro si capisce che la sua tappa successiva è la morte. Il film è una lunga elegia». Giulio Reale, autore del documentario Il mio modo di vedere le cose, mi ha passato i nastri originali e completi delle sue interviste, e di questo lo ringrazio di cuore. Claver Salizzato, David Grieco e Giuliano Montaldo mi hanno concesso lunghe conversazioni che non sono entrate in modo esplicito nel mio racconto, ma hanno contribuito a formarlo. Montaldo, in particolare, mi ha detto che dopo aver visto C’era una volta in America sentí l’impulso, credo molto raro tra colleghi, di chiamare Leone e fargli i complimenti. Leone, mi ha raccontato, si stupí, o finse di stupirsi per sentirseli ripetere. Ho pensato molto, cambiando idea piú volte, se fosse utile cercare James Woods, che da quando non lavora piú passa le giornate a twittare contro i Democratici. Lorenzo Soria, presidente della Hollywood Foreign Press Association, con cui ho lavorato a lungo, mi ha girato gli indirizzi mail dell’ex publicist e della manager. «Auguri!» mi ha scritto Lorenzo, convincendomi cosí a lasciar definitivamente perdere. Era il 13 luglio 2020, è stata l’ultima mail che ho ricevuto da lui. È morto il 7 agosto, mancherà moltissimo. Con Ennio Morricone ho parlato diverse volte in trent’anni di giornalismo, ma le osservazioni e i racconti piú belli e interessanti sulla colonna sonora di C’era una volta in

America li ha fatti nei libri-intervista di Alessandro De Rosa (Inseguendo quel suono, Mondadori, 2016) e di Giuseppe Tornatore (Ennio, un maestro, HarperCollins, 2018). Sul produttore Alberto Grimaldi attendo il documentario di Chiara Nano, che mentre scrivo non è ancora uscito. Però è ben fatto e completo il libro illustrato Alberto Grimaldi. L’arte di produrre di Paola Savino (Centro Sperimentale di Cinematografia, 2009), che mi ha anche messo a parte di alcune sue interessanti considerazioni. Paolo Speranza, curatore di una mostra sui due Leone, padre e figlio, mi ha parlato delle radici irpine della famiglia. Grazie a Vinicio Capossela – Dove siamo rimasti a terra Nutless è nel suo album Ovunque proteggi (Warner Music Italia 2006) –, che mi ha invitato al suo fantastico Sponz, il festival che organizza a fine agosto in Alta Irpinia, sono stato a Torella dei Lombardi, il paese di cui sono originari i Leone e i De Laurentiis. Famiglie benestanti, proprietari terrieri, che abitavano due belle case sulla via principale distrutta dal terremoto del 1980. Di Sergio Leone i ragazzini di allora ricordano la presenza estiva quando suo padre abitava qui, ma piú ancora le lunghe gambe della ragazza somala che lo accompagnava, la leggendaria «Miss Mogadiscio». Nei sotterranei del Castello Ruspoli c’è un delizioso, artigianale omaggio a Leone con tante immagini familiari che è impossibile vedere altrove. Ce n’è anche una del 1951, un ritratto del giovane non ancora regista, con dedica: «A Vincenzo Leone, mio unico e caro amico, compagno e padre». A Torella dei Lombardi, quella sera Vinicio ha ribaltato il nostro usuale rapporto, ha fatto lui quasi tutte le domande. Una soltanto sono riuscito a rivolgergli, e cioè che cosa lo attraesse tanto di C’era una volta in America. E lui ha risposto qualcosa tipo: non so, ho solo e sempre sognato di avere anch’io un posto in cui scappare dal mondo per lenire con l’oppio il dolore della vita. Gli archivi storici che ho esplorato a fondo sono quelli della «Stampa», che è gratuito, del «Corriere della sera», di «Variety», del «New York Times» che sono a pagamento.

Utilissimo è stato newspapers.com, un sito che mette insieme gli archivi di migliaia di quotidiani di Usa e Canada. Una meraviglia, per gli amanti del genere. A Sergio Pace, un nome che avevo scritto con molti punti interrogativi sul moleskine con cui è iniziata questa ricerca, sono arrivato grazie a Simona Siri, che si è rivolta a suo marito Dan Gerstein, che ne ha parlato a Raphael Bemporad, che ha chiesto consiglio a suo padre, il rabbino Jack Bemporad, che mi ha suggerito di contattare la professoressa Irene Kajon, che mi ha indirizzato a Micaela Vitale del Pitigliani Centro Ebraico Italiano. È lei che ha trovato Emanuele Pace, nipote di Sergio, il «pellicciaio ebreo» grande amico di Sergio Leone. Ho conversato via mail anche con Ghila Pace, sorella di un altro Sergio Pace, morto ad Auschwitz, oggi ricordato a Roma da una pietra d’inciampo in viale della Piramide Cestia. Della deportazione e della morte di tanti romani della comunità ebraica C’era una volta in America naturalmente non parla in maniera esplicita, ma per me è come se lo facesse. Impossibile che Sergio Leone non ne sia stato toccato, impossibile vedere un cimitero ebraico come quello che c’è nel film senza pensarci. Con Diego Abatantuono mi ha messo in contatto Giorgio Terruzzi, che ringrazio. Con Renzo Rossellini suo fratello Roberto. Con Robert De Niro, il suo storico publicist Stan Rosenfield, «persona di poche parole» ma sempre vere, ed efficaci. Ci siamo scritti molte volte e visti una, a Pasadena, per un junket a cui partecipava un altro suo celebre cliente, George Clooney. Mi ha preso da parte e mi ha fatto vedere che sull’iPhone aveva scaricato la colonna sonora di C’era una volta in America. Mi ha ricordato come Sheila Benson, critica del «Los Angeles Times», avesse scritto che la versione tagliata dai produttori era il piú brutto film dell’anno, quella del regista il piú bello del decennio. Il 22 settembre 2020 mi ha mandato una mail: «Bob ha accettato di parlare con te». E ha aggiunto: «P.S. Once Upon a Time è uno dei miei film preferiti (la versione lunga)». Grazie anche a Sabrina WeeksBrittan, che ha organizzato l’intervista via Zoom.

Devo molto a Marco Vigevani, il mio agente, che ha accettato con pazienza e simpatia i miei tempi un po’ dilatati, alla Leone, e ad Alberto Saibene: la sua attenzione e il suo sguardo critico sono stati preziosi, mi hanno guidato in tutti questi anni. Andrea Canobbio, Francesco Guglieri e Claudia Canale hanno seguito con partecipazione e intelligenza il lavoro in Einaudi e hanno tutta la mia gratitudine, Irene Babboni l’ha visto (e fatto) nascere e ora non è piú tra noi per poterne discutere. Sappia, ovunque sia ora, che l’ho pensata molto in questi anni. In memoria di Ada Negri Scaglione (1931-2020) Per B., C. e L., la mia gang Mazel and Glick

Un attimo prima dell’azione (da dove vengono le fotografie di questo libro)

Tutte le fotografie di questo libro, comprese quelle della copertina e della quarta di copertina, sono state scattate da Angelo Novi, il fotografo di scena dei film di Sergio Leone dal Buono, il brutto, il cattivo in poi, e fanno parte delle 14 500 realizzate sul set di C’era una volta in America. Nel 2010 trascorsi un’intera giornata alla Cineteca di Bologna, che custodisce il Fondo Angelo Novi, scorrendo questo fantastico patrimonio: chiesi di avere le copie in bassa risoluzione di un centinaio di immagini, piú che altro per disegnare un itinerario visivo all’interno di ciò che mi sembrava un enigma irrisolvibile. I criteri che adottai furono la bellezza della composizione (e le foto di Novi ti danno solo l’imbarazzo della scelta) e la possibilità di gettare uno sguardo sul dietro le quinte, il making del film. Le otto che aprono i sette tempi del racconto e l’Epilogo, e che volutamente non hanno didascalia, sono punti di vista sul film e dietro il film: il Primo tempo si apre con l’immagine del giovane Noodles che sbircia attraverso la fessura del bagno dello speakeasy [© Angelo Novi / Regency. Conservata presso la fondazione Cineteca di Bologna]; il Secondo tempo con i quattro della banda di Noodles a volto coperto [© Reporters Associati & Archivi], un’immagine che entra bizzarramente in risonanza con la nostra epoca delle mascherine; l’immagine del Terzo tempo come quella del Quarto [entrambe © Reporters Associati & Archivi] mostrano Leone sul set impegnato a guidare gli attori, e l’uomo che lo abbraccia nella foto del Terzo tempo è Brian Freilino, il suo traduttore / braccio destro. Il Quinto tempo si apre con un momento delle riprese a Porto Marghera [© Angelo Novi / Regency. Conservata presso la fondazione Cineteca di Bologna]; il Sesto con un De Niro / Noodles anziano, esempio plastico di un grande attore che non esce della sua parte neppure quando riposa, o che forse non riposa mai [© Reporters Associati & Archivi]; il Settimo con la morte di Dominic sotto il Manhattan Bridge [© Reporters Associati & Archivi]; l’Epilogo con un’immagine angelica della prova costume di Jennifer Connelly [© Angelo Novi / Regency. Conservata presso la fondazione Cineteca di Bologna]. Angelo Novi (1930-1997) era un fotografo fantastico, che prediligeva il bianco e nero e diceva che le sue foto piú belle erano quelle «scattate un attimo prima

dell’azione». Ha lavorato tanto con Pasolini, Leone e soprattutto Bertolucci. Su di lui sono stati realizzati un breve documentario (Angelo Novi fotografo di scena di Antonietta De Lillo e Giorgio Magliulo, nel 1992) e alcune mostre: una di queste, Il mio nome è Angelo Novi, ha generato un bellissimo catalogo curato e edito da Carlo Pozzoni. Il Fondo Angelo Novi della Cineteca di Bologna comprende circa 139 000 fotografie, delle quali circa 30 000 riguardano i cinque film di Sergio Leone (e dunque quasi la metà di queste sono presenti nei provini a contatto di C’era una volta in America seguiteci su https://www.facebook.com/eurekaddl/).

Il libro

C’

È UN’AVVENTURA DENTRO L’AVVENTURA, UNA STORIA DENTRO

la storia in C’era una volta in America: dal momento in cui è stato pensato per la prima volta a quello in cui è stato

presentato a Cannes, evento speciale al Festival, passano diciotto anni. Diciotto anni durante i quali avviene di tutto. Ma dopo mezz’ora di film, la magia è svelata: altro che gangster movie, C’era una volta in America è un’opera-mondo, un’epica moderna, o postmoderna, l’unica possibile. «Nasco con il neorealismo, – diceva Sergio Leone, – ma ho sempre pensato che il cinema è avventura, mito, e che l’avventura e il mito possono raccontare i piccoli fantasmi che ognuno di noi ha dentro». Sono i fantasmi dell’amore non corrisposto che diventa volontà di potenza, della violenza, dell’amicizia, del tradimento, della vendetta, del desiderio e del suo lato oscuro, la delusione o – peggio ancora – la sua completa soddisfazione. I fantasmi di chi ha sognato il Sogno americano. Di piccoli fantasmi in C’era una volta in America ce ne sono tanti, e lo sa bene Piero Negri Scaglione che quando lo vide per la prima volta, nel 1984, non aveva nemmeno vent’anni e gli sembrò che quel film ambientato in un tempo e uno spazio lontani raccontasse meglio di mille altri una generazione, un’epoca, forse un’ossessione. Ossessione-passione che divenne la sua: per anni Negri Scaglione ha indagato le vicende che portarono alla realizzazione del film, è andato a cercare e intervistare i protagonisti di quella storia o anche chi l’ha soltanto sfiorata in un piccolo ruolo, i produttori, gli sceneggiatori, gli attori. Ne viene fuori il ritratto epico di un personaggio larger than life, e di un film che, dettaglio dopo dettaglio, aneddoto dopo aneddoto, diventa spaccato di un’epoca e di un Paese, il nostro. «Dico a tutti che si tratta del mio film migliore, probabilmente è cosí e di sicuro lo penso davvero, ma quel che voglio precisamente dire è che C’era una volta in America sono io».

Sergio Leone «Non ho mai pensato a Noodles come vincente o come perdente. Oggi usiamo spesso, troppo spesso, questi termini. Il film è tutta un’altra cosa, è un sogno. Oppure no? È questo il punto. E io mi sono buttato, ho seguito il disegno di Sergio». Robert De Niro C’è un’avventura dentro l’avventura, una storia dentro la storia di C’era una volta in America. Raccontare i diciotto anni che impiegò Sergio Leone a realizzare il suo capolavoro – diciotto anni di incontri, sconfitte, colpi di scena, di attori e truffatori – significa scrivere il grande romanzo di un artista, di un’ossessione, di un Paese intero.

L’autore PIERO NEGRI SCAGLIONE

(Alba, 1966) ha studiato Letteratura

anglo-americana e in particolare i romanzi di Dashiell Hammett. Giornalista, è stato caporedattore dell’edizione italiana di «Rolling Stone», vicedirettore del mensile «GQ» e giornalista de «La Stampa». Con Einaudi ha pubblicato Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio e Rock! Come comporre una discoteca di base.

Dello stesso autore Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio Rock! Come comporre una discoteca di base

© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: © 2021. Ladd Company / Warner Bros / Foto Album / Scala, Firenze. Per l’immagine che segue il Frontespizio: © Reporters Associati & Archivi. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858437261

Indice

Copertina Frontespizio Che hai fatto in tutti questi anni PRIMO TEMPO. 1966-1971 Noodles era mio padre. La storia di Simeon F. Grey raccontata da lui stesso SECONDO TEMPO. 1971-1975 Poi per fortuna mi viene la tonsillite. La storia di Franco Ferrini TERZO TEMPO. 1975-1976 Un gran fijo de ’na mignotta, praticamente un genio. La storia di Claudio Mancini QUARTO TEMPO. 1975-1977 Sarò per te Don Sergioleone. La storia di Sergio Leone QUINTO TEMPO. 1979-1982 Un casting perfetto, devo ammettere. La storia di Scott Schutzman SESTO TEMPO. 1981-1983 Volevo vedere cosa vedeva mio padre. La storia di Steve Della Casa SETTIMO TEMPO. 1983-2012 Una crepa nel cuore. La storia di Ernesto Gastaldi EPILOGO La Gioconda nella fumeria d’oppio. (da dove viene questo libro) Un attimo prima dell’azione. (da dove vengono le fotografie di questo libro) Il libro L’autore Dello stesso autore Copyright