130 111 1MB
Italian Pages 277 [174] Year 2014
Chi era, o meglio chi è Sergio Leone? Sono passati esattamente cinquant’anni da Per un pugno di dollari che il regista realizzò nel 1964. Nessuno poteva prevedere il suo straordinario successo e che sarebbe diventato il western italiano più conosciuto nel mondo. Se il film – seguito un anno dopo da Per qualche dollaro in più, un altro successo – segnò a sorpresa una data fondamentale nella storia del cinema non solo italiano, Il buono, il brutto, il cattivo (l’ultimo della cosiddetta «trilogia del dollaro») sancì definitivamente l’affermazione di un nuovo grande regista, anzi di un nuovo grande autore, inventore di uno stile che entusiasmò la critica e appassionò il pubblico. Ma, contrariamente a quanto si pensa, Leone dovette superare molte difficoltà prima di affermarsi. E proprio da questa fatica, anzi da queste fatiche, nasce il racconto di Italo Moscati che intreccia cinema e vita, vittorie e battute d’arresto, amori e famiglia, per entrare in un laboratorio esistenziale e creativo con pochi termini di paragone, culminato in C’era una volta in America, il suo addio al cinema. Sergio Leone morì infatti nel 1989, a soli 60 anni, mentre stava preparando un kolossal sulla battaglia di Leningrado. Italo Moscati, regista e scrittore, sceneggiatore. Ha insegnato Storia dei Media all’Università di Teramo, tiene lezioni e corsi in vari atenei italiani e stranieri. Tra i suoi ultimi volumi, ricordiamo Gioco perverso. La vera storia di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, tra Cinecittà e guerra civile, I Piccoli Mozart, Sophia Loren. La storia dell’ultima diva editi da Lindau; Anna Magnani, Vittorio De Sica, Pasolini passione, L’albero delle eresie editi da Ediesse; Greta Garbo, edito da Sabinae; e Così amavano (così ameremo?), edito da RaiEri.
I Quarzi / Grandi biografie
In copertina: C’era una volta in America © 2007 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Nuova edizione: febbraio 2014 ISBN 978-88-6708-290-2
SERGIO LEONE
Capitolo 1 Amapola
In «Second Life» c’è anche un micro-mondo uno stile western… ispirato all’Arizona dell’Ottocento, basato su alcune scene di Sergio Leone, come «Il buono, il brutto e il cattivo» e «C’era una volta il West». Mario Gerosa, Second Life Chiudete gli occhi, o teneteli aperti. Siete disposti a viaggiare indietro e avanti nel tempo? Immaginate una notte stellata, mentre il mare si muove lambendo pigramente la sabbia della battigia. Due corpi sono distesi dove la sabbia è più asciutta. Un uomo e una donna. Giovani. Belli. Eleganti. Alle loro spalle una grande costruzione dalle curiose cupole arabeggianti. Tutte le finestre sono illuminate. Tutte. E fanno a gara con le stelle. Dove siamo? Siamo giunti fin lì, nella suggestione di un film. Dovremmo essere in un ristorante sul mare a pochi chilometri fuori da New York. Ma non lo siamo, siamo più vicini all’Italia di quanto possa sembrare. La spiaggia è quella del Lido di Venezia, in una notte d’estate. L’illusione è che dovremmo essere tra l’acqua e la sabbia poco lontano dalla città dei grattacieli. Per gioco, per finta. Così vuole il cinema. Anni ’30, esattamente 1933. Una melodia molto romantica si è appena dissolta: è Amapola, una canzone che fece il giro del mondo e che in Italia era cantata da Alberto Rabagliati. Un giovane interprete emigrato prima a Hollywood senza fortuna come sosia di Rodolfo Valentino, detto Rudy, e poi a Cuba. Ritornò in patria con ritmi colorati e morbidi, pungenti e fascinosi. La sua filosofia si sprigionava nel titolo di un’altra canzone allora diventata subito famosa: Lascia cantare il cuore. Ma la sua Amapola al Lido è travolgente, visitata dal peccato. I due corpi distesi sulla spiaggia sono stati trascinati nel ballo dalla sua invisibile potenza
in un salone fitto di lampadari. Una grotta di stalattiti. L’orchestra suona solo per loro, in smoking, nella sala scintillante e paurosamente vuota. Poi sono usciti all’aperto nella notte. I lampadari sono le stelle, la luna. Hanno fatto qualche passo e poi si sono fermati, parlano ma soprattutto si guardano. A poco a poco, mentre il mare continua a sgualcire la battigia, la canzone muore sotto gli occhi di lei, Deborah, assediata dalla corte di lui, Noodles, l’impresario della serata. La serata che è stata messa in scena come uno spettacolo. Costoso. A platea vuota. È uno spettacolo, è la lunga sequenza di un film. Il Lido con la sabbia, le stelle, il vecchio Hotel Excelsior si trova nei pressi di New York perché lo ha voluto Sergio Leone. Il film è C’era una volta in America che il regista girò agli inizio degli anni ’80, e che uscì nelle sale di tutto il mondo esattamente nel 1984, cinque anni prima della sua morte. In questa serie di scene spostate da una parte all’altra del mondo, c’è tutto su Leone, sul suo cinema, sulla sua volontà di ridurre la vita in una sorta di favola esaltante e nello stesso tempo dolorosa, spietata, violenta. La favola dura del cinema. Le avvolgenti note di Amapola introducono e accompagnano per qualche passo personaggi e trama. Presentano un cinema che incanta e, all’improvviso, scatena rozzezza, aggressività dove sembrava esserci il dubbio, la fragilità, la dolcezza; e riesce ancora a incantare. Leone, omone barbuto, crea questi spazi rubati alla vita, mette in scena i desideri e li rivolta. L’ascolto di una canzone prepara, seduce, illude; e poi un urlo rompe l’incanto. Così è nel finale della notte veneziana: Deborah e Noodles sono in auto sulla via del ritorno. Tornano in America. L’auto sfreccia su una strada lontana chilometri dal Lido veneziano e dalla festa a due. La melodia si è perduta nel buio. Amapola si dissolve. Nel dramma di uno stupro. Nell’urlo di Deborah. Un sipario di ferro La musica svanisce nella violenza che Noodles scatena nei sedili posteriori della sua lussuosa automobile guidata da uno chauffeur. Deborah paga il suo no a Noodles che la voleva solo per sé. La voleva togliere dal palcoscenico e dalla carriera di artista. Per farne la passiva e ubbidiente donna del gangster. America anni ’30. America del crimine che fecondava il sogno sotto la Statua della Libertà. Non c’è cinema, qui sotto, senza il delitto e il delitto senza il cinema. Martin Scorsese, immigrato di seconda generazione, prende il posto degli storici e in Gangs of New York racconta l’epica del crimine fuori e dentro lo schermo. Al Capone e tutta la premiata ditta vivono di questa luce fatta ombra in bianco e nero. Bulli sanguinari e pupe delicate ma ribelli. Belve e corpi da amare. Leone in C’era una volta in America già sa tutto questo. Ecco che, nel suo film, torna il giorno. Un treno sta partendo. Gli sguardi lo anticipano. Noodles cerca Deborah alla stazione. La trova. Gli occhi dicono. Noodles
non è pentito. Un boss non si pente, si fa vivo. Semplicemente. Farsi vivo significa per Noodles, che la conosce e l’ama da sempre, dire: io ci sono; se sono qui, è solo per «notificarti» che senza la notte e senza l’atto d’amore prepotente non sarei venuto. Non sono pentito, vengo a riscuotere non il tuo perdono ma la notte e il ricordo. Torniamo al Lido… Deborah gli risponde tirando la tenda del finestrino. Più pesante di un sipario di ferro. Nel gesto e nelle tumultuose emozioni che picchiano davanti e dietro il sipario pesante c’è sempre Sergio Leone. Tutto. C’era una volta in America è un film e un testamento. La dimensione in cui si svolge è l’America ma non c’è solo l’America. Lo si può considerare la tappa finale di un giro del mondo dopo i film storico-mitologici come il suo Colosso di Rodi e dopo Per un pugno di dollari e gli altri suoi western all’italiana o «spaghetti western» (ma la parola e la ironia sono cadute definitivamente). Una manciata di film. In tutto sette, in una filmografia ampia, frastagliata, contaminata dai rapporti con il padre regista dal nome d’arte Roberto Roberti; con i registi di cui è stato aiuto a cominciare da Mario Bonnard; con i produttori con cui ha lavorato e con gli autori di cui lui stesso è stato produttore. Una filmografia in cui Leone ha recitato ogni tipo di ruolo, in un gioco trasformistico senza fuochi d’artificio che gli insegnava il mestiere e a conoscersi meglio. Più di altri, con i sette film, tutti in costume, dall’antichità ai giorni nostri, il regista ha raccontato i secoli e soprattutto il ’900, crogiolo di tragedie, commedie, avventure e disavventure. In C’era una volta in America, tappa conclusiva di una ricerca stroncata dalla morte, il racconto è ancora aperto e se sappiamo del progetto a cui dovette rinunciare, L’assedio di Leningrado, durante la seconda guerra mondiale, è certo impensabile prevedere su quali altri percorsi Leone si sarebbe incamminato e ci avrebbe condotto. C’era una volta in America piacque molto quando comparve sugli schermi nel 1984 e resiste alla prova del tempo, per le sue spropositate dimensioni di kolossal sulla contemporaneità e la storia nascosta del crimine, una storia più vera di tante altre storie. Amapola è la canzone che potrebbe essere il titolo di un capitolo, che mi pare rappresentare meglio un film denso di tante parti che formano le palafitte di una aperta rivisitazione del passato. L’America è nello stesso tempo incanto e disincanto. Tenerezza e furore. Slanci e paura di non farcela. Sogno di esistere e avere. Frustrazione, mania di grandezza. Una mano sul cuore e l’altra sulla pistola. Leone la vede con gli occhi sgranati di un romantico, nel corpo robusto che con gli anni gli andava imponendo l’aspetto di un Orco. Un Orco isolato nel cinema italiano tra gli anni ’60 e ’80. Che vuole uscire dal fortino di Cinecittà, creato durante il fascismo, e bussa alla porta di un cinema che non è più lo stesso e soprattutto non si sa cosa sarà. Gli effetti speciali e le tecniche nuove premono sull’acceleratore, e le televisioni e internet aprono nuovi schermi sempre più piccoli. La vecchia sala buia si disintegra in celle sempre più piccole dove le pellicole arrivano accompagnate
da un potente odore di pop corn. L’Orco romantico fa in tempo a vedere quel che si sta preparando e, quel che non riesce a vedere, lo intuisce. Come accade ai grandi registi. Leone muore nel 1989. Ha solo sessant’anni. Vive in un’Italia confusa e incerta, dentro e soprattutto fuori dal cinema. Se ne sono andati la contestazione studentesca, gli anni di piombo, il progetto di un compromesso storico tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, il sequestro e l’assassinio di Moro, il Patto di unità nazionale affidato ad Andreotti, l’uomo di molte stagioni. Stanno per concludersi gli anni di Craxi e del craxismo, ovvero quel discusso tentativo di innovare, senza troppi scrupoli nei comportamenti, un paese ammalato di illusioni e di crisi di governo; si è affacciata sicura e prepotente la cosiddetta Milano da bere con i grandi stilisti, da Armani a Versace, a Ferrè. Si sta profilando, navigando in profondità e nel torbido, Tangentopoli. La RAI si trasformerà in tribunale. Gli uomini politici, i più potenti, alla sbarra, incalzati da agguerriti pubblici ministeri. Un film vero, crudo e appassionante. Leone non fa in tempo a vedere questa seconda parte di un itinerario costituito da sorprese senza fine che continua ancora nel lungo passaggio dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica. Il regista di Per un pugno di dollari avverte quel che sta accadendo e si sta preparando, film dopo film. Raccontando nei suoi western l’unico destino di eroi-non eroi e di mondi dominati dagli interessi e dalla proprietà, in un carosello di duelli che producono altri duelli senza speranza. E raccontando il fascino e l’inganno delle rivoluzioni, una dentro l’altra in bilico tra l’abbattimento dei tiranni e il riscatto di chi non ha nulla. Le rivoluzioni che scrivono copioni e lasciano i punti sospensivi. Leone ha conosciuto l’Italia contadina che si estinse gradualmente dopo la seconda guerra mondiale e il miracolo economico; e l’Italia che si era industrializzata in fretta e, successivamente, si stava trasformando a causa di una vertiginosa costruzione di altiforni poi spenti e di capannoni vuoti. Infine, per la scomparsa della grande industria nazionale, da quella automobilistica alla Olivetti. L’ha rapprentata in modo indiretto, costruendo un gran gioco di metafore in cui spettatori diversi possono ritrovarsi, a seconda degli occhi che sappiano guardare. L’Orco romantico di poche parole ci ha reso meno miopi. La nave dei progetti L’ultimo mio incontro con Leone avviene nel 1988. Siamo sulla terrazza dell’Hotel Excelsior, al Lido di Venezia, la costruzione tutta illuminata che sta alle spalle dell’incontro sulla sabbia, prima della violenza carnale, tra Deborah e Noodles. È estate piena e al Lido le zanzare ronzano, come i camerieri, come i turisti. Il regista si trova al Lido perché presiede la giuria della Mostra del Cinema. Sono incarichi, in genere, che gli artisti più famosi accettano per passione e convenienza. Passione per il cinema che ha i suoi riti, spesso sepolcrali e
celebrativi; convenienza, perché anche il cinema ha bisogno di luoghi d’incontro dove intrecciare rapporti e sognare in molti casi di imbastire nuovi progetti. Sono passati quattro anni dall’uscita di C’era una volta in America. Leone è in attesa di tornare al lavoro. Le idee non mancano, ma intorno al lui e ai suoi propositi si sta diffondendo una cortina fumogena. Il desiderio di realizzare un vero e proprio kolossal sull’assedio di Leningrado è sottoposto a una serie di accelerazioni e frenate. Il kolossal è complicato. Bisogna mettere d’accordo vari produttori, trovare i capitali necessari e soprattutto quella disponibilità ideologica che a volte corrode i migliori progetti dall’interno perché nessuno ha il coraggio di esplicitare dubbi e riserve, e così la nave dei progetti va, va per modo di dire, in balia di bonacce e di marosi. Sergio, seduto a un tavolino dell’Excelsior, in una terrazza solcata una folla di fatui amici del cinema, è visibilmente di umore non proprio sereno. L’abbronzatura dell’estate si indovina sotto la barba grigia. La figura è grossa. Gli occhiali ingombrano in volto. I capelli sono lisci, pochi e in fuga verso la nuca. Più che parlare, borbotta. Un flash, subitaneo. Mi viene in mente una immagine di Leone che avevo visto in un ripescaggio di uno spettacolo della vecchia RAI, «Il musichiere» sul finire degli anni ’50. Leone è strizzato in uno stiratissimo abito scuro e accanto a lui c’è Mario Riva, uno di quei divi della televisione che prepareranno, sia pure con gradevole stile rispetto ai tempi che arriveranno anni dopo, il successo definitivo della TV sul cinema italiano, almeno come spettacolo popolare. Riva non c’è più, da tempo, colui che cantava un motivo rimasto nella memoria degli italiani, era il Riva di «Domenica è sempre domenica» giorno della messa e poi del weekend per milioni di italiani. Il regista è stato invitato come era accaduto ad attori di Hollywood come Gary Cooper o a glorie degli schermi nazionali come il principe Antonio De Curtis in arte Totò. Sicuramente, era stato preparato un copione, lo straccio di una semplice scaletta, ma Leone in onda si mostra intimidito, quasi impacciato, sfuggente. Con un bel sorriso sulle labbra. Il volto non è coperto dalla barba come sarà in seguito, le guance sono rasate alla perfezione e la brillantina rendeva splendente una chioma ordinata e folta. È un Leone poco più che trentenne, lindo come un ragazzo di buona famiglia. Una persona molto diversa da quella che sta soffrendo in silenzio dietro il progetto su Leningrado che stenta a partire. Sulla terrazza, l’Orco, vero animale da cinema, è accompagnato dalla moglie Carla, gentile, carina, con una forte personalità. L’Orco a lei non ha mai fatto paura e forse è accaduto il contrario. Voragine Un altro incontro. 1999. Sono passati dieci anni dalla morte, precoce, di Sergio Leone. Sessant’anni spesi bene ma brevi. A differenza di altri suoi colleghi, Leone come autore completo ha fatto – l’ho ricordato – appena sette
film, in ventinove anni di lavoro: due film per ogni decennio più uno. Una corsa interrotta. L’incontro, questa volta è con Carla, la moglie di Sergio, in uno studio televisivo per una intervista, dopo l’inaugurazione di una mostra dedicata proprio a lui, al marito, all’artista al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Siamo in mezzo a drappi che, per volontà dello scenografo allestitore, scendono dal soffitto e arrivano fino al pavimento raffigurando i grandi del cinema: da Hitchcock a dive come Marilyn Monroe e Silvana Mangano, una cascata di stelle. Mi pare curiosa quest’orgia di volti e corpi femminili. Leone non era un misogino ma nelle sue avventure i protagonisti sono gli uomini, i maschi, gli ultimi scampoli di virilità, alla vigilia dei transiti di genere tra un sesso e l’altro in un Occidente in cui si profila la vittoria femminista. Con Carla ci raccontiamo a vicenda la vita e la carriera di Sergio. Naturalmente, il compito che mi sono dato è soprattutto quello di ricavare con emozionata curiosità il massimo possibile dai ricordi di Carla. A poco a poco prende forma la figura che sta a cuore a entrambi, che esce dal ritratto di un cinema inquieto che continua a inoltrarsi in un infinito viale del tramonto. Carla racconta una doppia vicenda di fedeltà. Tra lei e Sergio. La fedeltà al cinema, collaborando insieme fin dal Colosso di Rodi, e la fedeltà reciproca di due innamorati. Mi era capitato altre volte di trovarmi di fronte alle mogli di grandi artisti. Tutte amavano descrivere i loro matrimoni come indimenticabili poemi troncati, spesso, dal destino. Donne, mai attrici, che hanno vissuto la lunga stagione dei sentimenti passati dai grandi romanzi dell’800 ai film e alle canzoni del ’900. Struggimenti, lettere, pudichi corteggiamenti, ansiose dichiarazioni d’amore, fiori d’arancio, veli nuziali. E il dopo. Il paradigma che Orson Welles ha descritto nel suo Quarto potere. Attrazione, passione, e poi il freddo della incomprensione e degli addii. Carla parla del suo rapporto come di un tenace legame senza incrinature. Anzi. Condivisione totale dei problemi e delle gioie, uno scambio continuo su tutto. Dagli abbracci ai contratti con i produttori. Dalla lettura dei copioni alla scelta degli attori, alla scelta delle musiche per le colonne sonore del film. Le musiche magiche di Ennio Morricone a fare da colonna sonora tra vita privata e vita di celluloide. Alla fine del colloquio, la parola che le viene però alle labbra è semplice e terribile: voragine. La voragine in cui si è sentita precipitare mentre Sergio si spegneva portandosi via bontà, generosità, ironia. Qualcosa che veniva brutalmente sottratto a lei e ai suoi spettatori, qualcosa che si affacciava nei film e che lasciava tracce per la vita di tutti i giorni.
Capitolo 2 Gli occhi del mulo
Senza Sergio Leone non avrei mai potuto fare «Arancia meccanica»… Senza di lui non avrei mai potuto girare «Il mucchio selvaggio»… Stanley Kubrick e Sam Peckinpah, dalle interviste a Noël Simsolo Ecco una scena, l’inizio di un film. Gli zoccoli di un cavallo (o è mulo o è un asino?) s’infilano uno dopo l’altro tra le pietre in una terra riarsa. Adesso la bestia è a figura intera. In sella c’è un uomo. È un cowboy. O almeno così porterebbe a credere la familiarità con il western creata dal cinema o dalla TV, genere pregiato di altri tempi. Ma che importanza ha la sua identità? Forse con le vacche e le mandrie quel tizio non ha nulla in comune. L’uomo mastica un sottile sigaro di qualità misteriosa (i nostri toscani non arrivavano in quelle lande lontane), porta un cappello a larghe falde, indossa un largo poncho che lo protegge dalla calura (come avviene con i burnus dei beduini arabi nel deserto), i suoi occhi sono taglienti. Un bambino gli passa davanti correndo, spensierato, tra un pozzo e due case bianche di calce. Avete capito. È la scena iniziale di Per un pugno di dollari che Sergio Leone diresse nel 1964 e con il quale cominciò una carriera imprevista e strepitosa, fatta di grandi incassi e di sperticati elogi della critica, spesso in ritardo. Per un pugno di dollari è un film storico. Lo è diventato. Nel senso che tutti lo conoscono perché viene trasmesso di continuo dai canali televisivi e continua a essere venduto sia in cassetta VHS che in DVD. Ma soprattutto perché lo si studia nelle facoltà universitarie, è oggetto di tesi di laurea, gli accademici ne parlano come se fosse l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Per un pugno di dollari è storico anche per un altro motivo. Lo è in quanto viene realizzato in un’epoca, l’inizio degli anni ’60, quando il cinema e la
società italiana si preparano a cambiare in profondità e anche quell’Uomo senza nome aiuta a fissare date, circostanze, luoghi, emozioni, svolte. Sono vicende che incontreremo cavalcando con Leone tra i sassi delle vicende del passato e del presente che si specchia in quel passato per cercare il futuro. C’è un aneddoto che fa luce sulla vita privata di Leone e sui suoi intenti e risultati artistici. L’aneddoto è curioso. Confermato dalla moglie del regista, Carla, che mi fu grata quando glielo riproposi. La riportava alla soluzione di un problema. Per un pugno di dollari rischiò a lungo di non essere prodotto, a causa della prima scena che abbiamo descritto. Nella sceneggiatura originale Joe, l’uomo senza nome, doveva comparire in apertura del film come lo vediamo (cappello, sigaro, poncho) in sella a un asino. Un piccolo asino. Ovvero, la negazione del classico destriero meraviglioso protagonista di centinaia di western, sempre al galoppo tra cowboy, pellerossa e messicani. Il cinema delle migliori razze e scuderie. Splendidi animali dal manto scuro come la notte o immacolato come il latte, sauri o pezzati di bianco. Criniere spavalde e aggressive. Speroni violenti che li eccitano. Un trovatello Nel film così come lo conosciamo, l’asino non c’è. Evidentemente Leone lo sacrificò ai voleri dei finanziatori per non perdere l’occasione di girare. Per forza di cose. Una lezione dal cinema di allora, anni ’50 e ’60, l’aveva imparata. Guai a sbagliare un’uscita. Guai a non ascoltare i verdetti ai botteghini dei cinema. Un incasso mancato era il funerale per un film successivo. Se i produttori non vogliono un asino – avrà pensato il regista – troviamo una diversa soluzione. Niente asino come loro desiderano. E niente cavallo che non voglio. Scelgo una via di mezzo. A sostituire l’asino, come rimpiazzo ecco un ibrido che lo ricorda molto da vicino, una bestia operaia: un mulo, smunto, dal passo malinconico, dalla criniera avvilita dal sudore e scesa come le orecchione pelose di un cane della razza setter. L’idea del regista era salva. Il suo Joe arriva nel film, cavalcatura compresa, in una prima immagine che lo fa apparire subito come una sorta di eroe sperduto in una terra arida irta di cactus. Un eroe solitario. Questa immagine, inserita in Per pugno di dollari, ritorna nei successivi Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo – la celebre «trilogia del dollaro» di Leone. Joe, l’uomo senza nome, si ispira, modificandoli in modo originale, ai classici eroi del western. Sono tutte figure positive. Vincono sui pellerossa e sui banditi. Se non hanno la stella da sceriffo la conquistano nei saloon o nelle strade polverose dei villaggi tutti di legno. In un’orchestra di sparatorie. Ma il più classico tra i classici è il protagonista di Shane - Il cavaliere della valle solitaria, film di George Stevens, interpretato da Alan Ladd, piccolo di statura e di grande e dolente intensità recitativa.
Ladd è Shane, il misterioso cavaliere che si fermerà per lavorare presso una famiglia di contadini in una valle desolata e difenderà questa famiglia dalle prepotenze di un ricco allevatore e predone. Il Joe di Leone, che veste la figura sottile e robusta, alta e dinoccolata di Clint Eastwood – in futuro un bravissimo regista –, non ricalca Shane o altri cavalieri delle valli solitarie in tutto e per tutto. Di poche parole se non addirittura taciturno, chiuso in un orgoglio senza presunzione che lo fa ancora più misterioso di Shane, Joe arriva dal grande schermo con una incisività che colpisce. La sua storia è senza storia. Il passato è inesistente. Il presente si consuma nelle sfide. Il domani non ha troppa importanza. Sono i connotati di un identikit specifico. Joe è un trovatello. Un figlio di nessuno. Il figlio di genitori anonimi che si sono perduti nel vuoto di un’America a caccia di frontiere, oro, territori a spese dei nativi dalle piume multicolori e dalle tinture sul volto. Nel frastuono delle pistole, nel fruscio delle frecce che sibilano dentro e fuori la carrozza di Ombre rosse, il film di John Ford, la bibbia del western e delle sue avventure inventate, enfatizzate, deformate, plasmate a misura di un’epopea messa a fuoco e dinamite da libri e pellicole. Joe il trovatello si presenta nella cittadina al confine tra il Messico e gli Stati Uniti d’America quando, secondo la storia dei manuali, gli USA stanno conquistando o comprando altri stati, altre stelle per la bandiera a stelle e strisce. Un’America che con la ragione o con la forza, nella seconda metà dell’800, sogna di realizzare il sogno americano per poi trasferirlo nel cinema, quello che da Hollywood ha conquistato il mondo. Edwige e Roberto Il trovatello senza età – il Joe senza nome interpretato da Clint Eastwood – è un tipo di uomo che Leone conosce molto bene. Non soltanto perché ha ripreso la lezione del western come una cornice in cui lottano cuori armati di revolver a tamburo, eroici cuori che vanno incontro alle nuove frontiere in un territorio sterminato, dall’oceano Atlantico all’oceano Pacifico. Adattando la cornice alle sue esigenze e fantasia, Leone inserisce in essa una sorprendente rivisitazione elegiaca delle sue esperienze personali e di personaggi senza destino. I trovatelli del Far West. Leone li conosce molto bene. Anche lui è stato a lungo un trovatello in senso figurato. Aveva un padre e una madre. Ma nel cinema, in famiglie che vivono con e per il cinema, i figli possono scoprirsi trovatelli. Crescono e spesso non riescono a vedere quel che si prepara per loro nelle vuote case dove attendono. Sono le famiglie dei senza famiglia. Il padre di Sergio, nato nel 1879 a Torella dei Lombardi, si chiamava Vincenzo Leone, e faceva di professione il regista con il nome di Roberto Roberti. Praticò tanti mestieri nel cinema delle origini e anche dopo. La madre, molto più giovane di Vincenzo, nata nel 1886 a Roma, si chiamava Edwige Valcarenghi, nota con il nome di Bice Walerian, un’attrice del muto,
abbastanza conosciuta; si ritirò dall’attività quando prese marito. Quando racconteremo più dettagliatamente le vite intrecciate dei Leone presenteremo meglio i passaggi completi e gli intrecci nei rapporti di questa famiglia di artisti che si formò dopo la guerra mondiale 1915-1918, nella Roma del fascismo, anzi in pieno fascismo. Sergio nacque infatti nel 1929, la marcia sulla capitale era avvenuta nel 1922 e nel 1924 Mussolini vinse le elezioni e si affrettò a farsi proclamare Duce. I fascisti chiamavano la marcia «rivoluzione» fra inni e gagliardetti, e olio di ricino per gli avversari. Era un’Italia di masse popolari. E di famiglie in divisa militare, pronte per le grandi adunate come documenta il film di Ettore Scola Una giornata particolare, raccolte intorno al tabernacolo della radio e sedotte dai divi di Cinecittà, l’alto e bello Amedeo Nazzari, le sottili ed eleganti Clara Calamai e Doris Duranti. Lo spunto per imbastire un’analogia paradossale tra il trovatello Joe del film e il trovatello Sergio me lo ha suggerito Carla, la moglie di Sergio, parlandomi della solitudine in cui il futuro regista si era trovato a vivere. Parole che mi hanno spinto ad approfondire la situazione familiare dei Leone e a leggere e rileggere tutto quanto poteva far luce. Il padre era impegnato in un lavoro che non lascia respiro e che si appesantiva nel suo caso a causa di difficili rapporti con il regime. La madre trascorreva i giorni languidamente occupata a rievocare. Non era una Gloria Swanson e non sognava come lei clamorosi recuperi sul viale del tramonto, ma il cinema aveva lasciato un vuoto profondo. I ricordi dominavano e sedimentavano la malinconia. Sergio era cresciuto da figlio unico con il desiderio di avere un fratello. Può sembrare un dettaglio. Ma non è così. Fare figli per la patria era, nell’epoca di Mussolini, un vero comandamento che si allacciava alla tradizionale fecondità delle coppie nelle campagne e nel Sud. L’impulso demografico, l’invito pressante alla gente di dare braccia al lavoro e alle armi, la retorica della maternità e delle famiglie numerose, avevano effetti laterali. Poteva accadere che tra i bambini e poi tra i ragazzi diventasse forte, spesso fortissimo, il confronto tra chi nasceva solo in una casa e chi invece si trovava fra culle e letti a castello colmi di fratelli e fratellini. Un figlio unico era una eccezione, e alimentava sussurri di disapprovazione di parenti e vicini. Lo stesso trattamento che toccava alle coppie se, dopo i nove mesi fatidici dal matrimonio, ancora non aveva dato alla luce un figlio. Cose di un’altra epoca che s’infilavano nella psicologia di un ragazzo alla ricerca di una mano a cui affidarsi. L’Italia di massa contemporaneamente animata da energiche individualità – come Giuseppe Prezzolini, Curzio Malaparte, Leo Longanesi, il giovane Indro Montanelli – da un lato indicava i suoi modelli collettivi e dall’altro cercava di attrarre i Grandi Talenti Individuali finché stavano alle regole. Nudi d’Africa Il cielo italiano negli anni in cui Sergio cresceva era affollato di eroi. C’erano gli eroi del Risorgimento – una statua di Giuseppe Garibaldi in ogni piazza – e
c’erano gli eroi della prima guerra mondiale – statue per Enrico Toti e Cesare Battisti –, e i molti militi ignoti rappresentati, uno per tutti, al Vittoriano di Roma. Le parole alate erano quelle del poeta Gabriele D’Annunzio, aviatore e Vate che interpretava con impetuosità il ruolo del campione nazionale a tutto campo, dalla letteratura alla politica. C’erano poi gli eroi della quotidianità nel Cuore di Edmondo De Amicis e gli eroi dei mari e degli oceani, quelli nati e vissuti nella pagine romanzesche e invitanti di Emilio Salgari: i corsari dai cento colori, rosso, verde, nero; e poi Sandokan e altri fratelli epici dell’avventura; gli eroi dello sport come Primo Carnera, campione del mondo di boxe. C’era anche un eroe alla rovescia, molto amato, venuto su in una rispettabile famiglia, ribelle per la gloria di innocenti insubordinazioni: Gian Burrasca, il protagonista del «Giornalino», manuale degli scherzi per agitare le noiose atmosfere delle case troppo perbene. Infine, pullulavano, nel più assoluto anonimato in divisa, i ragazzi che da balilla o da avanguardisti imparavano l’ardimento e sognavano eroismi nelle guerre coloniali in Africa o nella grande nuova guerra già strategicamente pronta nella testa di Adolf Hitler. In mezzo a simili eccitanti correnti d’aria, Sergio Leone, era un trovatello un po’ speciale. Un orizzonte davanti a lui si profilava. Era il cinema che aveva in casa, che vi si respirava, e il cinema che cominciava a conoscere, appassionandosi ai film di avventura che venivano dall’America. Western e cappa e spada. Avventura, era la parola d’ordine. Autorevoli giovani intellettuali d’assalto si arruolavano per andare a combattere in Etiopia in nome di un brivido più vero di quello della pagine di un libro o delle immagini di un film. Brividi di emozioni contaminate dal miraggio africano di palme frondose, fiumi immensi, foreste, pianure sterminate in cui si aggiravano liberi feroci animali; e, come suggerivano cartoline postali e canzonette, ragazze bellissime dai seni rigogliosi e nudi. Suggestionato da tutte queste avventure, Montanelli sposò, comprandola dal padre capo villaggio, una moglie diciassettenne. Era lo spettacolo che si svolgeva intorno a Sergio, ancora bambino. Un assalto e un assedio costante. Una grande aiuola di «campioni», veri o immaginari. Trent’anni dopo Sergio mette in sella Clint Eastwood.
Capitolo 3 I grattacieli di King Kong
Il cinema di Sergio Leone è ancora moderno perché Sergio è uno dei pochi registi che hanno sempre avuto «the pace», il passo – il «ritmo», l’«andatura» – dell’epos; e l’epicità è un qualcosa che non si consuma negli anni. Bernardo Bertolucci, «Segnocinema», n. 67, maggio-giugno 1994 Quando Sergio Leone cominciò a frequentare le sale negli anni ’30, il cinema aveva ormai raggiunto una grande maturità e fascinazione. Una corsa verso il futuro. Tra gli anni ’30 e nei successivi anni ’40 il grattacielo-cinema continuava a crescere, a ritmi impressionanti nella metropoli cosmopolita del pubblico. Migliaia di film, milioni e milioni di spettatori. Il grattacielo di King Kong, e di altri mostri, era giunto a un terzo del suo cammino. Il secolo di vita sarà compiuto nel 1995, vicino ai nostri giorni. Che quei vent’anni fossero e continuino a essere di un’importanza fondamentale da molti punti di vista, compresi i successi commerciali, la spettacolarità delle produzioni, le qualità artistiche, lo sostiene con convinzione lo scrittore americano Gore Vidal. Nelle sue memorie di spettatore intitolate Remotamente su questi schermi, lo scrittore confessa la sua soddisfazione per avere avuto la fortuna di farsi sovrastare, educare da ampie lenzuola bianche cariche di ogni forma di seduzione: una scuola di cinema e prima ancora una scuola dei desideri e dei sogni. Duraturi.
Anche Sergio Leone, come Vidal, e come tutti, s’imbatté in pellicole che lasceranno una traccia indimenticabile. Una di questa, lo ricordava lui stesso, è L’ora che uccide del 1936, titolo originale Charlie Chan’s Secret, regista Gordon Wiles, protagonista Warner Oland. Oland, svedese, studioso di August Strindberg, interpretò per dieci anni fino alla morte il ruolo di Charlie Chan, investigatore acuto, elegante, dall’impenetrabile espressione orientale. Leone fornisce un’indicazione preziosa sulle radici di una passione che diventa mestiere. Attraverso una storia di intrighi e di investigazione, con un sapore internazionale. Le avventure di Charlie Chan, spesso oscure e truculente, lo avevano toccato in profondità a tal punto da lasciargli nella memoria le ispirazioni per i suoi viaggi in zone lontane, in terre che si possono trasformare nella metafora di sogni da realizzare. Nel 1936, Sergio aveva sette anni e il cinema s’insinuava prepotente nella moltitudine di spettatori che correvano a nutrirsi di film d’ogni genere e di ogni provenienza. In casa Leone, il cinema riempiva ogni giornata e l’influenza di Roberto Roberti era trascinante, con piccoli effetti curiosi. La moglie Bice Walerian, madre di Sergio, decise di farsi chiamare Bice Roberti per restare più legata al suo uomo dei ciak. L’educazione sentimentale e cinematografica del piccolo Sergio si compiva senza fare fatica, in perfetta solitudine, dovendo rubare parole e giudizi ai genitori, soprattutto al padre che era sbrigativo e poco propenso a dialogare. Vincenzo detto Roberto era molto concentrato su se stesso. Aveva giocato e vinto alla roulette dello spettacolo, rompendo con la famiglia, di origine irpina, rigidi possidenti poco aperti all’arte della scena. Aveva voluto cambiare e trasgredire; aprire un fossato fra lui e i genitori che consideravano i teatranti dei volgari Pulcinella. La scelta di Vicenzo era stata un vero colpo di scena, inaspettato. I parenti, non solo quelli stretti, non riuscivano a rendersene conto. Sfuggivano a loro i motivi, la provenienza degli stimoli. Erano state prese tutte le precauzioni possibili, avevano mandato Sergio a studiare in un collegio di salesiani nella sperduta Cava dei Tirreni e poi all’università di Napoli; lo volevano laureato in giurisprudenza; lo vedevano con la toga dell’avvocato nelle aule del processi. Al Sud ma anche nel Nord. L’agognato, inespugnabile Nord d’Italia. Bruttissima Avviciniamoci a Vincenzo Leone. La Napoli in cui viveva, dopo avere lasciato Torella dei Lombardi, era quella di Eduardo Scarfoglio, fondatore e direttore del «Mattino», il giornale più importante della città. Qui, alla fine dell’800, tirava forte il vento di un’allegria popolaresca e burlona. La fonte da cui si sprigionava era dovuta al talento prodigioso di attori come Antonio Petito. Le sue caricature degli azzimati giovanotti della nobiltà cialtrona e della borghesia arrampicatrice ma pigra, entravano in una tradizione teatrale e canzonettistica molto diffusa, attraverso comici spontanei spesso rimasti sconosciuti. Questa tradizione si innestava nel teatro di un altro Eduardo
diventato famoso come e più di Scarfoglio: Eduardo Scarpetta, padre naturale di Eduardo De Filippo, di Peppino e di Titina. Figli che Scarpetta ebbe da una giovane a lui imparentata. Era un mondo frequentato dai giovani universitari come Vincenzo che arrivavano dalla provincia e avevano molta curiosità verso lo spettacolo. La ragione era molto semplice. Le donne si trovavano a portata di mano nei bordelli, sempre pieni, e nei teatri del varietà. Le altre donne stavano a casa. Tra le mura domestiche, imparavano a cucinare e a cucire, e mettevano insieme, per riporla in ampie cassapanche, la biancheria per la dote, sotto l’occhio vigile delle mamme. Mentre i padri, che vivevano di rendita, cercavano i futuri generi e vegliavano sull’illibatezza delle fanciulle in fiore. Un affresco napoletano che il cinema ci ha fatto conoscere con i primi film a colori realizzati negli anni ’50, protagonista il grande principe Antonio De Curtis altrimenti detto Totò: ad esempio Miseria e nobiltà (1954) e Un turco napoletano (1953). Ambienti di signori arricchiti e di zerbinotti dalla erre moscia, in cui la vivacità è garantita da donne formose e bellissime sposate a uomini brutti e gelosissimi. Totò si improvvisa «turco napoletano», ovvero eunuco, in una divertentissima commedia degli equivoci. Può ammirare da vicino corpi giovani e sfolgoranti con il beneplacito del padrone che ha assunto il falso eunuco per fare la guardia ai suoi preziosi beni femminili. Beni preziosi e inconsapevoli. Bisogna aggiungere una pennellata all’affresco napoletano. Scarfoglio aveva una moglie, Matilde Serao, che condivideva con lui la responsabilità del «Mattino». Matilde era una di quelle donne che possiedono una volontà e una tale energia da sfidare senza timidezza la presunta superiorità maschile. Sgomitando in famiglia e al giornale, e lavorando con un’astuzia non disgiunta da una ferma determinazione, la Serao seppe guadagnarsi tanto spazio da diventare un punto di riferimento non inferiore a quello del coniuge. Lei non era solo aggressiva e prepotente, come suggeriva il passaparola, ma la vera risorsa stava nella sua qualità di scrittrice. Pubblicava romanzi, come Il ventre di Napoli o Il paese di Cuccagna, libri di denuncia, molto coloriti, molto efficaci. La Serao, a forza di articoli e di vigorose spallate al maschilismo che dominava ai piedi del Vesuvio, si fece presto la fama di tenace paladina delle donne, e i suoi nemici l’assalirono subito con giudizi poco eleganti sulla sua presenza fisica. La definivano senza mezzi termini «bruttissima». A parte le battute polemiche, a parte le liti rimaste proverbiali con il marito, le querele e i processi in cui la protofemminista fu coinvolta, bisogna convenire che bella Matilde proprio non era, con quel volto solcato da un sottile paio di baffetti, come mostrano spietatamente le foto dell’epoca. In quanto alla grassezza, altra caratteristica che scatenava pesanti apprezzamenti, bisogna pur dire che venivano quasi sempre da personaggi borghesi benestanti che avevano fatto religione della propria obesità. Tra denunce sociali e maschi irritati per donne che non si lasciavano certo intimidire come la Serao, Napoli era attraente per il fervore che circolava in
città e che si scatenava quando il sole se n’era andato con «’o calore» evocato dai personaggi di Eduardo De Filippo, sublime e torturatore. Vincenzo stava bene in mezzo alla festa mobile napoletana. Gli sorridevano le ragazze meno baffute (la peluria allora poteva diventare persino un motivo di richiamo) e lui le andava a cercare nei teatri e nei bal tabarin animati da fini dicitori e comici. Qui trovò il modo di entrare in contatto con compagnie che parlavano napoletano, lingua che capiva benissimo, compagnie che stavano cercando nuovi modi di recitare per assecondare una tendenza in atto in tutta Italia. Si stava formando una lingua – l’«italiano» – destinata ad arricchirsi e a cambiare con il contributo delle lingue e dei dialetti locali. La unità nazionale, ormai sufficientemente consolidata, creava possibilità di cercare un pubblico in altre regioni. La Napoli già nota per la capacità di conquistare con i suoi attori gli spettatori nel paese e in Europa, specie in Francia fin dai tempi di Molière, si preparava a una esportazione ancora più massiccia della sua arte, della sua «verve». Teatro, radio, cinema avrebbero reso clamorosa questa impresa compiuta sul filo del sorriso e dei sentimenti. Vincenzo si divertiva al varietà ma nutriva un grande interesse per le cosiddette compagnie di grido come quella guidata da un attore famoso, Ermete Novelli, un toscano specialista in roboanti interpretazioni che passava dal genere comico a quello tragico (a volte i due piani pare che si confondessero agli occhi del pubblico più esigente). Si avvicinò poi a un’altra compagnia famosa: la Virgilio Talli-Emma Gramatica, in cui imparò da attore e da tuttofare che i capocomici dovevano essere sempre favoriti e messi in condizione di essere sempre acclamati dal pubblico. Gli attor giovani come lui dovevano arretrare sempre e fare giudiziosamente largo, in modo discreto, umile. Gli istrioni come Novelli o Talli non tolleravano altri atteggiamenti. Il loro carisma sublime non lo avrebbe accettato. Cartapesta e birignao L’attor giovane Vincenzo si faceva strada mentre i suoi genitori minacciavano di tagliarli i viveri e pretendevano la laurea in legge. Finalmente la laurea arrivò, alleggerendo Vincenzo da questo debito con la famiglia. Fu la conquista della libertà. E arrivò nello stesso periodo una novità bella e inattesa. Lo voleva Eleonora Duse, la diva per eccellenza della scena nazionale, celebre nel mondo. La Duse, l’amante di Gabriele D’Annunzio che per lei scriveva freneticamente copioni col suo gusto melodrammatico e creava eroine invase da un prepotente eros. Lavorare con la fatale Eleonora significava per Vincenzo entrare ancora giovanissimo in una élite culturale in punta di piedi, con l’orgoglio di avere messo alle spalle generiche provenienze e mondi mediocri. Però. Il teatro sapeva troppo di cartapesta, di fondali dipinti, di corpi d’attore che comunque fossero – magri o grassi, alti o bassi, curvi o dritti, in una sarabanda di barbe finte e di parrucche cariche di boccoli – lo facevano sentire a disagio. Troppa finzione, troppo birignao. Il birignao, ossia, secondo il vocabolario, «eccesso di enfasi o di pause artificiose», un’insopportabile lagna pronunciata magari con partecipato e astratto sussiego.
Vincenzo girò i tacchi, senza furia, senza rompere gli specchi di legno e polvere del palcoscenico, e sentì irresistibile il richiamo delle sirene del cinema. Il ’900 è il secolo nuovo, il secolo del cinema e delle immagini. Bisognava tuffarvisi senza paure. L’ex attor giovane, desideroso di attaccare barbe e vecchi costumi al chiodo, incontrò il fondatore dell’Aquila Film e si fece incantare dall’arte che stava nel futuro delle immagini. Il futuro che Vincenzo sentiva con sensibilità e desiderio di parteciparvi. Non appena l’ingresso del cinema gli si aprì davanti, Vincenzo aveva già deciso di cambiare nome. Si era trasformato in Roberto Roberti forse perché suggestionato dalle assonanze che accarezzavano il suo orecchio. Uno dei personaggi più celebrati dello spettacolo era Ruggero Ruggeri, il campione, il non plus ultra del birignao aristocratico e snob. Con lo pseudonimo scelto, ripetitivo, musicale, Roberto Roberti era pronto a cambiare maschera. Nel 1912, accettò di recitare nel suo primo film, intitolato La bufera, un feuilleton secondo la moda dell’epoca che meritò critiche positive e fu esportato persino in Inghilterra. Gli italiani anche allora non sapevano o sapevano poco l’inglese e il mutismo della pellicola li favoriva, agevolando le esportazioni. Ma il debutto si guastò, per ragioni imprecisate, l’esperienza non dovette essere esaltante. Roberto sentì il bisogno di fare marcia indietro e di accettare un imprevisto ritorno sulle scene affidandosi a una vecchia, simpatica (pare) volpe come il capocomico Ferruccio Garavaglia. C’era l’ambizione di prendere una rivincita sul palcoscenico. Garavaglia però lo tradì. Nel senso che pensò bene di esalare l’ultimo respiro, lasciandolo senza prospettive. Per fortuna il cinema, che cercava voracemente legittimità, gloria e incassi, fece sentire di nuovo il suo richiamo, e lo tirò a sé definitivamente. La rottura con il passato ebbe un effetto preciso. Vincenzo non avrebbe mai più subito la tentazione del mestiere d’attore. La svolta fu definitiva. Da giovane, all’ombra delle dive e degli istrioni, Roberto Roberti diventava direttore artistico, ovvero regista, denominazione non ancora entrata nell’uso. Direttore artistico, una etichetta prestigiosa che probabilmente fece piacere persino ai familiari di Vincenzo ormai rassegnati alla carriera che il figlio aveva scelto. La vampira indiana L’esordio come direttore artistico fu per il film La contessa Lara, firmato Roberto Roberti. È curioso sottolineare questa firma. Creava un precedente che ci porta a Sergio Leone, unico figlio di Vincenzo e di Edwige o Bice. Sergio lo fece per rendere omaggio a un padre che aveva visto poco ma che aveva comunque amato. Scrisse nei titoli di testa della prima edizione di Per un pugno di dollari, il suo primo western, il suo film d’autore, uno pseudonimo: ovvero, Bob Robertson, «il figlio di Roberti». Una dedica dal signor Robertson junior al signor Roberti senior. Ci torneremo. Per ora è interessante seguire Roberto Roberti che dal 1913 cominciò a costruire la sua personale carriera e il successo dei produttori dell’Aquila
Film. Roberti si gettò nella realizzazione di un gran numero di drammi e melodrammi. Le manovelle delle cineprese del muto giravano un film in un solo giorno, con rapidità e frenesia, velocemente. Il ritmo era così spasmodico che, per guadagnare tempo o per evitare di sbagliare le scelte degli attori, Roberto lasciava la sedia di regista, con megafono e visiera, e si metteva a recitare. Erano copioni sentimentali che nascevano e morivano in stagioni sempre più intense per il cinema, nuova arte e soprattutto nuovo spettacolo. Andranno a scontrarsi con le fortificazioni o si inabisseranno nel fango della prima guerra mondiale, in un conflitto sanguinoso che tutto doveva cambiare. La Bella Époque era defunta dopo un lungo coma e sarà seppellita dalle battaglie di trincea, dagli assalti all’arma bianca, dai gas letali. Il cinema si agitava per interpretare e soddisfare i gusti di un pubblico ancora più grande di quello della Grande Guerra, in vista del lugubre corteo di bare che si stava preparando. Prima del massacro Roberti diresse diversi film, tra cui quello che gli storici definiscono un «protowestern». Si chiamava La vampira indiana. Era in carattere con un tempo in cui vampiri, rettili, veleni si portavano con gran naturalezza tra le signore, come sarà sanzionato dalla famosa canzone Vipera. Nascevano negli studi cinematografici le donne fatali che nei richiami sessuali introducevano anche un messaggio di morte. Il veleno dopo la passione e orgasmi soprattutto mentali. Ma la cosa più importante, ai fini del nostro racconto, riguarda la presenza in questo film dell’attrice Bice Walerian, che come sappiamo s’innamorerà di Vincenzo detto Roberto, ricambiata, e lo sposerà. Bice la vampira, in una pellicola perduta nelle galassie degli archivi, interpreta una squaw indiana pellerossa con relativo copricapo di piume. Un ruolo poco probabile ma allora si osava di tutto. Storia e personaggi arrivano a noi come un presagio del tutto misterioso delle storie western che farà il figlio Sergio. Una squaw indiana che danza sullo schermo del muto mentre, nello stesso periodo, sui fronti d’Europa si tiravano le ultime cannonate. Il cinema immaginava le sue assurdità spesso piacevoli e si preparava a vivere una nuova stagione. Come la letteratura. La guerra si stava trasformando nel racconto della guerra stessa, senza soluzione di continuità, in romanzo. Tra i molti che scriveranno della esperienza vissuta in prima persona, ci fu lo scrittore americano Ernest Hemingway, che aveva preso parte in divisa al conflitto, raccogliendo da ferito sul fronte italiano le idee per scrivere Addio alle armi. L’America. Hollywood. L’Italia del muto e degli studi di Torino, di Napoli, di Roma. Esplodeva dovunque una bomba che avrà vita lunga, lasciando una interminabile scia di vittime: spettatori soggiogati e tramortiti. Era arrivata con la pace la bomba del divismo. Arrivarono anche i fallimenti. Fallì l’Aquila Film che aveva dato fiducia a Vincenzo. Per trovare una strada diversa, il neo direttore artistico tornò a Napoli. Il nuovo destino napoletano s’incarnò nella persona del produttore Giuseppe
Barattolo che teneva il timone di una casa di produzione denominata Caesar Film, la cui risorsa principale era costituita dall’avere sotto contratto la leggendaria Francesca Bertini. La Bertini era in miniatura, più come simbolo che come mito, l’equivalente italiano del superdivo Rodolfo Valentino, l’emigrato italiano che mandò l’America in delirio fino ai suoi leggendari funerali del 1926 raccontati da John Dos Passos. La bella Francesca aveva una posizione molto prestigiosa, avvolta dalla leggenda, nel piccolo mondo del nostro cinema. Era la stella di questo piccolo grande mondo che aveva molte ambizioni e ispirò i kolossal di Hollywood dopo il successo di Cabiria di Giovanni Pastrone, su soggetto di D’Annunzio. La divina Francesca, aggrappata alle tende e ai sipari, era adorata dalle folle, massacrata dagli impegni sul set (contratti per otto film in un anno), pagata la cifra record di quattro milioni di lire a film. Questo monumento in bianco e nero fu affidato a Roberto Roberti dopo che altri registi avevano miseramente fallito per i capricci e le pretese della diva, pignola e aggressiva. Da dietro le quinte del set, in silenzio come nel miglior film muto, Edwige Valcarenghi, in arte Bice Walerian, osservava tutto dagli angoli bui. Più rassegnata che invidiosa della Bertini, genio dagli occhi bistrati e sregolatezza nel trattare gli umani. Che voleva tutti ai suoi piedi.
Capitolo 4 Leggende
Rimango convinto che Omero sia stato di gran lunga il più grande autore di western, perché scrisse storie favolose sulle imprese di eroi individuali – Achille, Aiace e Agamennone – che sono tutti prototipi dei personaggi interpretati da Gary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e John Wayne. Sergio Leone a Christopher Frayling, febbraio 1981 Nelle storie di Sergio Leone, il regista dei cavalieri solitari e degli eroi che non sono né vogliono essere eroi, un posto particolare lo occupa la madre Edwige Valcarenghi, alias Bice Walerian o Bice Roberti. Quando nacque Sergio il padre Vincenzo non era giovanissimo, aveva cinquant’anni e la madre Edwige o Bice ne aveva quarantatré. Non era proprio una famiglia museo. Ma il cinema muto, nonostante le innovazioni che proponeva lavorando a rendere espressiva al massimo la fotografia in movimento, era già polveroso. Avvertiva che stava inesorabilmente morendo. Una morte che si aggrappava alla mitologia. Per avere un’idea di cos’era il cinema dell’epoca, in tempi di guerra e di voglia di vivere, di monarchie cadute e di rivoluzioni nascenti, bisogna ricordare il magico Viale del tramonto che Billy Wilder, regista viennese emigrato lussuosamente a Hollywood, diresse nel 1950 con protagonista
William Holden e soprattutto Gloria Swanson. La Swanson era stata attrice del muto come Edwige. Forse, vivendo in una mitologia che era già malata e si stava corrompendo, avevano vissuto sentimenti analoghi. Non si poteva salire sul set senza ammalarsi. Gli attori lo sapevano. I loro volti erano lì a testimoniare un percorso verso la fine. A dispetto dei trucchi e delle inquadrature. La scena iniziale di Viale del tramonto è indimenticabile. William Holden, sceneggiatore squattrinato e ambizioso, comincia il racconto indicando con la voce da narratore il suo stesso corpo che galleggia nella piscina della villa di Gloria Swanson ovvero Norma Desmond. Norma è la diva rifiutata dal cinema diventato sonoro, non lo sa, non vuole saperlo. Vive in solitudine di ricordi e di sogni. La protegge il suo maggiordomo, Eric von Stroheim, che fu il regista dei suoi film di successo e non ha mai smesso di amarla, e l’aveva sposata. Edwige Walerian non può essere paragonata a Norma Desmond e nemmeno alla vera Gloria Swanson. Aveva lavorato nell’alone di una preziosa esistenza nel riparato ambiente del muto che equivaleva a una gabbia d’oro. Aveva vissuto in un cinema che reclamava un amore assoluto, fino al fanatismo più cieco. Questo era lo specchio in cui si guardava Norma e forse dove cercava qualche risposta su di sé anche Edwige. Neanche i grandi, osannati cantanti della lirica o i mattatori della scena teatrale erano giunti a essere schiavi di un’illusione così tanto potente. Il cinema enfatizzava tutto. E tutti coloro che appartenevano al cinema si sentivano osannare dai milioni di persone che li applaudivano e li attendevano alla porta degli studi o degli alberghi di lusso. Edwige era un’attrice di buon livello ma incapace di smuovere le folle e di farsi amare perdutamente come una Francesca Bertini e come un Rudy Valentino. Era una Norma Desmond in miniatura, figlia di un dio minore. Né Vincenzo, il suo direttore artistico Roberto, era Eric von Stroheim, un artefice truccato da maggiordomo. Ma le atmosfere nel cinema contano e le persone che le respirano possono diventare diverse; spesso non sono più quelle che erano prima di entrare in un Olimpo che si smonta dopo l’ultimo ciak e continua sulle pagine dei giornali e nei sogni del pubblico. La vita di Edwige porta, dopo aver visitato quella di Vincenzo, ancora più vicino a Sergio e alla sua storia. Le notizie che si sanno su di lei dicono che fosse nata per caso a Roma nel 1886, sette anni dopo Vincenzo. Veniva da una famiglia di origine friulana, quindi del Nord, mentre come sappiamo Vincenzo era originario del Sud, provenendo di una famiglia di origine irpina, in provincia di Avellino. Anche Edwige, pur non avendo i genitori ricchi come Vincenzo, era abituata a un regime di vita piuttosto benestante: il padre era proprietario di un grande albergo nei pressi di piazza del Popolo, nella capitale, un albergo che dopo la seconda guera mondiale fu chiuso e diventò una delle sedi principali della RAI. Vi si preparavano e realizzavano i programmi radiofonici. Per la storia, bisogna dire che il vecchio hotel è stato riaperto di recente e
ha ripristinato il vecchio nome: Hotel de Russie, inseguendo l’antico splendore di ritrovo di turisti d’eccezione. Sacrificata al dio Moloch Edwige era entrata nel cinema con facilità e aveva fatto una carriera discreta che lei stessa sognò di migliorare quando conobbe all’Aquila Film il suo futuro marito, nel 1912. Fu un amore tranquillo che trovò il suo sbocco senza fretta. Le nozze avvennero due anni dopo. Il fragore delle riprese, intorno agli studi dove si vedevano e lavoravano, era possente per via di masse sterminate. Si giravano film come Quo Vadis? (1912) di Enrico Guazzoni tratto dal romanzo di Henryk Sienkiewicz, il primo kolossal del cinema italiano: lungo due ore, un primato per allora; costò 45 mila lire e sfoggiava una tale spettacolarità che gli americani se ne innamorarono subito e sulla stessa scia cominciarono a produrre, visto il successo impetuoso del film di Guazzoni, una dopo l’altra pellicole dello stesso impianto e ambizioni. Già, negli anni precedenti, il romanzo di Sienkiewicz – che tornerà ancora, nel 1951, per la regia di Mervyn LeRoy, con Robert Taylor e Deborah Kerr – aveva avuto altre versioni per il grande schermo, in Francia, nel 1901, nel 1902, nel 1908, ma mai nessuna era stata altrettanto imponente. La partita giocata dal cinema si faceva sempre più importante e i produttori italiani cercarono di tenere il passo sia sul piano dei progetti artistici che degli investimenti necessari per competere su un mercato internazionale. Il muto, lo ripetiamo, facilitava la circolazione dei film, non c’era bisogno di doppiaggio e di adattamenti linguistici. Nel 1914 venne realizzato Cabiria diretto da Pastrone, che ne era il produttore oltre che il regista. La storia è ambientata durante la seconda guerra punica, 219 avanti Cristo, in cui la piccola Cabiria viene rapita e venduta a Cartagine per essere sacrificata al dio Moloch. È, alla fine, salvata da un patrizio romano e dal suo schiavo Maciste. Maciste era un personaggio nuovo per il cinema, il suo interprete Bartolomeo Pagano diventò subito il beniamino delle folle. Il nome era stato inventato da D’Annunzio. Gli studiosi del cinema muto precisano che il poeta-soldato, accreditato come sceneggiatore, avrebbe fornito solo qualche spunto e lavorato soprattutto nell’attribuire i nomi ai personaggi e a formarne sommariamente i caratteri. Il vero e segreto ispiratore del film viene considerato alla fine Emilio Salgari con il suo romanzo Cartagine in fiamme. È comunque certo che D’Annunzio percepisse per i suoi contributi 50 mila lire in oro. L’importanza di Cabiria con il suo Maciste, massiccio corpo maschile, muscoli e braccia armoniosamente nodosi, fu fondamentale per il padre di Sergio Leone e inciderà a lungo nel suo lavoro. Vincenzo riceverà, in seguito al successo del film, il compito di dirigere altri film con protagonista Maciste. Uno di questi, forse il più curioso, è Maciste poliziotto (1917), in cui lo schiavo – oggi diremmo culturista – è il dipendente di un industriale minacciato da malvagi agitatori. Costoro vogliono spingere gli operai allo
sciopero e rapiscono la figlia del padrone per ricattarlo e spingerlo a cedere. Maciste interviene, libera la ragazza, prende a botte i malvagi agitatori; ma «tradisce» il padrone, obbligandolo a firmare un accordo con i lavoratori che arrecherà gran danno ai suoi interessi. Gli storici del muto fanno notare che Maciste poliziotto fu distribuito nelle sale durante i giorni in cui, sui giornali italiani, apparivano grandi titoli sulla rivoluzione russa e i tumulti in Germania. Erano i giorni della fine della prima guerra mondiale, con conseguenze che segneranno l’Europa con l’avvio di un processo che porterà all’affermazione di totalitarismi e autoritarismi: comunismo, nazismo e fascismo. E i muscoli di Maciste finiranno in divisa. Edwige e Bice Edwige era una persona schiva, sentimentale, romantica. Sembra provarlo la scelta del nome d’arte: Bice Walerian. Il cognome veniva da quello di un fidanzato, un principe. Un grande amore che si smarrì nelle nebbie dell’Europa del ’900 sempre meno tenera con i nobili e gli aristocratici, fra rivolte e rivoluzioni. Come in un film. Delusa e sempre innamorata, la Walerian uscì dal film della vita e si dedicò interamente al cinema e alle sue storie. Tra il 1912 e il 1914, oltre a La vampira indiana, prese parte a La contessa Lara, L’ultima vittima, La torre dell’espiazione, L’assassina del Ponte di San Martin. Lavorava con grande volontà. Era bella, piaceva. Ma la passione che metteva sul set non era pienamente corrisposta come era accaduto con il principe. I tentativi durarono fino al 1917. Con Vincenzo, il marito che la guarì dalle vecchie ferite del cuore, fece altri film: Il barcaiolo del Danubio, L’istrione, La principessa di Bedford, Il bandito di Port-Aven, La piccola detective e La cavalcata dei sogni. Erano film che, secondo i critici, puntavano sulla «favola e il sentimento più che sul sangue e il frastuono». Un cambiamento profondo. L’intenzione era quella di rompere con le precedenti pellicole intrise di grand-guignol, vernici color sangue, ghigni e sghignazzi; e di mostrare una svolta, un rilancio. Non servì a molto. La stampa aveva ormai decretato la conclusione della avventura cinematografica della Vampira indiana, pubblicando commenti severi, inequivocabili. Un giornale scrisse che si trattava di un soggetto improbabile, di una messa in scena decorativa, con una storia poco credibile, con una protagonista – la squaw – che fa tutto da sola, una cosa dopo l’altra: commette delitti e misfatti senza pagarne il prezzo; si salva assurdamente in situazioni pericolose; entra ed esce ingioiellata da dove vuole. Una catastrofe artistica completa, per nulla riscattata da un certo successo commerciale. Era un primo segnale di allarme. Qualcosa non andava più per il verso giusto. Il fallimento dell’Aquila Film venne subito dopo l’uscita del film successivo, La cavalcata dei sogni, in cui i nomi di Roberto Roberti e Bice Roberti compaiono insieme nel cast degli interpreti per l’ultima volta, un
congedo per lei, un revival d’attore per lui. Vincenzo detto Roberto era riuscito a evitare la guerra in quanto, quando venne chiamato dall’esercito per andare a combattere contro gli austriaci e riportare Trento e Trieste all’Italia, un esame gli aveva diagnosticato un’insufficienza cardiaca. Edwige era rassegnata. Non chiedeva più nulla al cinema, se ne stava appartata, parlava poco, badava alla casa. Per Vincenzo, professionista, affezionato alla sedia di regista e alle emozioni del ciak, era più difficile fingere e pensare che si poteva vivere in un altro modo. Ed ecco che, a rompere malinconia e rabbia nella vita dei coniugi Leone, arrivò un ciclone: Francesca Bertini, nome d’arte di Elena Seracini Vitiello, fiorentina di nascita, napoletana di adozione. Aveva debuttato giovanissima in teatro e nel 1904, a dodici anni, era stata scritturata per una particina in un breve film di Salvatore Di Giacomo, La dea del mare. Un titolo, un destino. L’impossibile rivale entrava in casa Leone.
Capitolo 5 Fascinosa diva
La scuola neorealista di Vittorio De Sica e quella di mio padre proveniente dal cinema muto dove l’immagine doveva possedere forza e autonomia mi hanno fatto capire che era giusto esprimersi con una nuova forma di linguaggio, capace di coniugare sia l’eloquenza e l’astrazione del muto e sia la verità e i dettagli del neorealismo. Il tutto, se è possibile, non perdendo di vista che il cinema è prima di tutto spettacolo e che, in quanto tale, richiede anche un’adeguata componente ironica. Sergio Leone a «Segnocinema», n. 43, maggio 1990
Quando Vincenzo Leone incontrò, attraverso il produttore Barattolo, la grande diva del muto Francsca Bertini, questa donna era già famosa, aveva 29 anni, e aveva girato Lacrime e sorrisi, Idillio tragico, Tramonto, Fedora, Malia, La Tosca tra il 1912 e il 1918; e soprattutto era stata nel 1915 la protagonista di Assunta Spina, l’intenso, passionale dramma scritto da Salvatore di Giacomo, lo stesso autore che aveva voluto la bambina Francesca nel suo breve film La dea del mare. Assunta Spina racconta la storia di una donna che diventa l’amante di un cancelliere di tribunale mentre il suo uomo è in carcere. Quando l’uomo esce, apprende della relazione e uccide il rivale pazzo di gelosia. Al processo, Assunta si lascia condannare al suo posto. Una storia forte, della vecchia Napoli dalle emozioni senza limite. La interpreterà anni dopo, nel 1948, Anna Magnani, che ne darà una straordinaria interpretazione in un film con Eduardo De Filippo, diretto da Mario Mattoli. Francesca e Anna, donne e attrici di epoche diverse. Di carattere. Capaci di spargere il terrore sul set. Ma la Bertini era forse ben più volitiva, tenace e prepotente di Anna, cedevole negli entusiasmi e negli affetti. La Bertini era attenta a ogni aspetto del suo lavoro in cui investiva tutto il suo temperamento. Firmava soltanto i contratti che le garantissero «un totale controllo esclusivo» sui copioni e sull’intero film. La sua parola su soggetto e sceneggiatura poteva, anzi doveva essere definitiva, l’ultima parola prima del ciak. Barattolo conosceva bene l’indomabile «prima donna» e, volendo farla entrare in nuovi progetti, cercò di metterle accanto qualcuno dotato di molta pazienza, ovvero lo sperimentato regista Vincenzo sempre ribattezzato Roberto per il cinema e le sue avventure. Vincenzo affrontò la fascinosa belva in La piccola fonte, basato su un dramma scritto nel 1905 da Roberto Bracco, lo stesso autore teatrale che Vincenzo conosceva bene perché doveva anche a lui la sua scelta di lanciarsi nel mestiere dell’attore. Il contatto fra la Bertini e il regista cominciò con un attento studio reciproco. Un duello di sguardi. L’attrice aveva raccolto pareri positivi sul suo nuovo regista, e il regista, informato delle qualità della persona che gli era stata affidata, si manteneva prudente. Molto prudente. Gli era stato raccontato un episodio che lo aveva messo in guardia anche se lo aveva divertito. Un episodio che Vincenzo racconterà al figlio Sergio. Si doveva girare la scena di un film con l’attore Febo Mari, ben noto a quei tempi, e la Bertini. Era una scena drammatica. I due attori avrebbero dovuto versare catinelle di lacrime, nel pieno dell’azione. Mari era capace di piangere a comando con lacrime vere e chiese alla collega, la diva Francesca, di piangere insieme a lui, ma la diva per farlo pretese cipolle o mentolo. La richiesta suscitò le proteste di Mari che, oltretutto, odiava le cipolle e il mentolo. Per dare una dimostrazione di quanto fosse bravo nel commuoversi a comando, e fornire una lezione plateale alla illustre collega, l’attore si concentrò e cominciò a versare senza aiuti un torrente di lacrime. La Bertini lo lasciò finire e, dopo averlo guardato con commiserazione,
davanti a tutta la troupe, disse: «Sapete perché questo uomo piange? Perché si è reso conto che non riuscirà “mai” a guadagnare due milioni a film». Così era Francesca Bertini e solo l’abilità e la calma di Vincenzo – e di pochissimi altri registi dotati del suo stesso tatto – potevano riuscire a risolvere i problemi del produttore Barattolo e delle riprese di un film. La Bertini fu conquistata dalla grazia e dalla pazienza di Vincenzo, e gli mandò per ricompensarlo alcune sue fotografie – veri capolavori di seduzione – con frasi del tipo: «Al caro Roberti, un milione di grazie». Alla grande diva veniva facile, essendo l’attrice più pagata del cinema italiano del muto, parlare di milioni. La sfinge e l’ombra Lavorare con la Bertini per Vincenzo era importante. Con lei arrivavano puntuali successo e guadagni. Era molto ambiziosa e non si stancava mai. Le sue collere erano terremoti violenti. Ma il regista aveva trovato la soluzione giusta e, senza assecondarla troppo, aveva imparato a prenderla e a condurla, con il minor numero di danni possibili, attraverso le vie della pellicola contrassegnate da titoli che erano tutto un programma: La principessa Giorgio, La sfinge, La donna nuda, La contessa Sara. Vicende ampollose ed enfatiche come accadeva in quel periodo del cinema, ricavate da libri di scrittori di grande comunicativa come Alexandre Dumas figlio o da autori considerati scandalosi. Vicende in cui la divina Francesca – una sfinge e le sue tante ombre – si calava con tutto il suo strepitoso istrionismo. Era lo «stile Francesca Bertini», che cominciò a stancare i critici che inventarono un verbo per indicare appunto l’esagerazione di cui Francesca si rendeva colpevole ai loro occhi. Il verbo era «bertineggiare» e neanche Vincenzo, che veniva considerato qualcosa di più che un abile tecnico, riusciva contenere la diva, nonostante gli sforzi e la delicatezza profusi. Tanto si sforzava e tanto faticava che lo stesso garbatissimo regista cominciò ad averne abbastanza. La stella della Bertini cominciò ad appannarsi. Le richieste e i contratti diminuivano. Il tramonto era prossimo. La diva afferrò la situazione e trovò la soluzione. La più semplice e rapida: sposare un ricco signore. In un colpo solo, abbandonare il cinema, il disperato produttore Barattolo e il regista. La crisi dell’inarrivabile rivale, fece ritrovare energia e volontà combattiva alla moglie di Vincenzo che riprendeva i panni di Bice Walerian e avanzava pretese. Non che avesse l’intenzione di candidarsi per i film progettati da Barattolo per la Bertini, sfruttando la crisi della rivale, ma il pensiero di un possibile ritorno le si era affacciato all’improvviso. Il marito si era dimenticato di lei come attrice per confinarla nel ruolo gradito ma non pienamente soddisfacente di moglie. Era ora di cambiare. Edwige-Bice mosse subito all’attacco e riuscì a convincere il regista di famiglia a non andare a Berlino, dove nell’autunno del 1922 lo volevano per una serie di film con un’altra diva, Pola Negri, che, in un primo tempo, avrebbe dovuto realizzare Ernst Lubitsch, il grande autore di commedia brillanti che
anni più tardi, nel ’39, girerà il film Ninotchka con Greta Garbo. Lubitsch era appena partito per Hollywood, come altri grandi regista europei, uno dei quali era Billy Wilder. Vincenzo doveva sostituire lo stimatissimo Lubitsch. Poteva essere una occasione d’oro. Ma Vincenzo, come ricorderà il figlio Sergio, fu ostacolato in ogni modo da Edwige-Bice che non voleva muoversi dall’Italia e voleva trattenere a sé il regista di famiglia. Vincenzo non partì. L’effetto fu duro: non sarebbe mai diventato un regista internazionale. Le cose stavano prendendo tuttavia una piega imprevista. Tra viaggi cancellati e aspirazioni rivendicative in famiglia, le proposte concrete per altri film affiorarono e segnarono una frattura fra il passato e il futuro. I due film erano Fra Diavolo, una sorta di Robin Hood nel regno di Napoli che portava via denaro e donne ai ricchi, per distribuire i soldi ai poveri; e il già citato Napoli che canta in cui, curiosamente per un film muto, si celebrava la canzone nella città del Vesuvio. Bocche vuote di parole e melodie da indovinare, con parole e musica suggerite dal pianista che, seduto sotto lo schermo, accompagnava le immagini. Claudia Particella Se Napoli che canta scomparirà per sempre con le sue canzoni mute, il Fra Diavolo di Roberto Roberti non durerà nei ricordi del cinema per merito del regista italiano bensì per la coppia Stan Laurel e Oliver Hardy che interpreterà la stessa avventura messa in parodia nel 1933; e sarà un successo mondiale. Hollywood al servizio dei Borboni e del ribelle diabolico. Se il problema di Roberti e del cinema italiano era quello di vivere soprattutto in patria e di suggerire spunti a Hollywood che si avviava a essere il cinema più forte del mondo, un altro problema bussava alle porte. Non tanto a Cinecittà che verrà costruita nel 1937 quanto nella vita dello stesso Roberti alias Vincenzo Leone. Il cinema italiano era in vistosa crisi rispetto alla trionfale alba d’inizio secolo. Il fascismo aveva a cuore questa situazione e si preoccuperà di rilanciare la produzione con interventi dello Stato e con la fondazione dell’Istituto Luce, del Centro Sperimentale e infine di Cinecittà. Il problema, secondo quanto ha raccontato il figlio Sergio, era cominciato quando Vincenzo rifiutò di prendere per una seconda volta la tessera del partito (che peraltro non fu obbligatoria all’interno della industria del cinema fino al 1932). Il regista, secondo i ricordi di Sergio, credeva in Mussolini e nelle sue promesse, romanticamente. Ma non se la sentì di tesserarsi di nuovo quando seppe che il tesoriere della sezione del partito che lui stesso frequentava era scappato con la cassa. L’effetto ottenuto con questa reazione fu l’automatica accusa di essere passato ai comunisti. Un’accusa che si rafforzò quando venne fuori che Vincenzo aveva consigliato al ministro delle arti di allora, Giuseppe Bottai, di affrontare la crisi del cinema con la formazione di cooperative di lavoro.
Da quel momento il regista di Francesca Bertini venne etichettato di rosso e si salvò da provvedimenti severi, racconta ancora il figlio Sergio, grazie all’intervento di un amico, un altro ministro di quei giorni, Roberto Forges Davanzati. Il ministro garantì per lui e forse fu il tramite per un contatto che avrebbe potuto avere contemporaneamente il valore di una riparazione e di un recupero in seno al potere fascista. Vincenzo avrebbe incontrato il Duce, Benito Mussolini, e avrebbe collaborato con lui al progetto di un film. Mussolini era un ex socialista, un interventista ai tempi della prima guerra mondiale, il fondatore del movimento fascista e del partito, l’artefice della Marcia su Roma, era anche l’autore di libri e scritti con aspirazioni narrative. E ci teneva molto. Fra questi, datato 1910 – anno in cui il mangiapreti romagnolo Mussolini aspirava a fare il giornalista e lo scrittore –, s’inseriva un romanzo d’amore intitolato Claudia Particella - L’amante del cardinale, pubblicato a puntate sul quotidiano di Trento «Il popolo», un giornale che usciva quando la città era ancora compresa nell’Impero austro-ungarico. Va precisato che la storia scandalosa e anticlericale uscirà in Italia solo dopo la fine del fascismo e l’esecuzione di Mussolini avvenuta nel 1945. Precedentemente al romanzo, in un notiziario che si chiamava «La lotta di classe», il giovane Mussolini aveva insinuato l’ipotesi di una storia d’amore fra Gesù Cristo e Maria Maddalena. Un’ipotesi non nuova che si era affacciata altre volte, basata su una lettura disinvolta dei Vangeli. I temi arditi fino alla blasfemia piacevano a Mussolini che di essi faceva una questione politica oltre che culturale. Quando diventò potente e la sua voce si trasformò in ordini prontamente eseguiti, il Duce mandò copia di Claudia Particella a Vincenzo perché la leggesse e ne valutasse una trasposizione per il grande schermo. Il regista lesse, espresse al mittente molto dubbi, anzi giudicò pessimo il romanzo e si disse non interessato alla proposta. Questa è una versione dei fatti. Ma ce n’è un’altra che gli storici hanno messo a fuoco, smentendo Vincenzo e i racconti del figlio Sergio. La sceneggiatura fu effettivamente scritta e su di essa lo stesso Mussolini annotò a penna la dicitura: «a cura di Leone Roberto Roberti». Fiocco azzurro a Fontana di Trevi Naturalmente, i retroscena della questione risultano assai complicati trattandosi di un film ispirato dal Capo. Gli storici hanno avanzato varie ipotesi. C’è chi afferma che fu lo stesso Mussolini, ormai saldamente al potere, pronto a firmare accordi con il Vaticano, come avvenne nel 1929 con i Patti Lateranensi, a non avere alcun interesse a presentarsi come un anticlericale per un peccato di gioventù. E che quindi, fu lui stesso il responsabile dell’insabbiamento del progetto. C’è chi sostiene che Roberti avesse accettato di scrivere la sceneggiatura ma, quando fu completata, non soddisfatto, decise di cambiare idea, bloccando
la realizzazione. Non manca una terza versione. Vincenzo voleva andare avanti nella realizzazione del film, ne era convinto, ma Mussolini intanto aveva cambiato idea per generiche ragioni politiche e non solo per non guastare i rapporti con il Vaticano; e aveva fatto marcia indietro. La conclusione della intricata vicenda fu tutta a danno di Vincenzo che finì in una lista nera del partito e, di conseguenza, la sua situazione di lavoro peggiorò. Le voci malevoli si moltiplicarono. Circolava l’informazione che il regista avesse intrapreso rapporti con circoli dissenzienti che avvenivano a Roma, al Caffè Aragno, dove gli intellettuali di sinistra si incontravano in una sala dalla tappezzeria scarlatta. Una sala rossa che il figlio Sergio ricordava di aver visto perché il padre di tanto in tanto ce lo portava quando era bambino. Quanti anni poteva avere Sergio mentre entrava in quella sala? Forse sette, otto, non oltre. Un certo tempo doveva essere trascorso dall’archivizione del progetto Claudia Particella, con la decisione presa per non creare interferenze con il Vaticano mentre si preparava la firma dei Patti Lateranensi nel 1929. Il 1929 era un anno importante per i Patti e i rapporti tra Mussolini e Pio XI. Ma era importante in modo particolare per la famiglia Leone. Il 3 gennaio nasceva Sergio. I biografi hanno disquisito a lungo per precisare la città e la casa dove avvenne il lieto evento. Si è scritto di Napoli e poi definitivamente di Roma. Alcuni citavano Trastevere a Roma, ma il nastro azzurro venne appeso al portone di Palazzo Lazzaroni, vicino alla Fontana di Trevi, esattamente in via dei Lucchesi. Poco dopo ci fu il trasloco della famiglia a Trastevere, in via Filippo Casini, in uno stabile dove Sergio trascorrerà gran parte della sua infanzia e giovinezza (precisamente dai due ai vent’anni). Sergio venne alla luce in piena retorica militaresca e trionfalistica che avrebbe condotto l’Italia alla guerra dell’Etiopia e alla proclamazione dell’Impero, e quindi all’entrata nel secondo conflitto mondiale con la Germania di Hitler. Dei tanti italiani che correvano sotto il balcone del Duce a Piazza Venezia, facendosi immortalare dai cinegiornali dell’Istituto Luce, molti sarebbero partiti per i fronti di battaglia e non sarebbero più tornati. Il padre di Sergio si era intanto avvicinato agli antifascisti e si occupava del sindacato registi. Rimase senza lavoro per una decina d’anni, dall’anno della nascita di Sergio, il 1929, fino all’estate del 1939, alla vigilia dello scoppio della guerra voluta da Hitler. Dieci anni in cui il cinema italiano aveva vissuto una fase scanzonata e patriottica con i film brillanti dei «telefoni bianchi» e le avventure epiche. Film brillanti come Gli uomini che mascalzoni! e I grandi magazzini di Mario Camerini con un irresistibile Vittorio De Sica; ma anche commedie ingenue e poco consistenti, anche se non prive di garbo, destinate a farsi dimenticare. Si diceva che se Camerini fosse andato a Hollywood sarebbe diventato un nuovo Frank Capra. E poi le grandi avventure epiche ambientate nel passato come La corona di ferro, con taglio favolistico, o Ettore Fieramosca, che lambivano l’orgoglio italico, dirette entrambe da Alessandro Blasetti, il regista «con gli stivali» com’era chiamato. Ma anche film di propaganda tra cui Lo squadrone bianco (conquiste
coloniali italiane) e L’assedio dell’Alcazar (sulla guerra civile spagnola, dalla parte dei franchisti) firmati da Augusto Genina; o indirettamente di propaganda come Scipione l’Africano di Carmine Gallone. Al primo colpo di manovella di questo film, nella piana di Sabaudia, aveva partecipato Mussolini stretto nella divisa. Fu invitato a mettersi al posto dell’operatore e a fissare le immagini delle masse in azione. Accettò con felicità. Diecimila tra comparse e curiosi urlavano il suo nome a perdifiato. Nella produzione del fascismo la mediocrità era certamente presente ma in genere l’offerta era valida sul piano della qualità. Non mancavano i mestieranti, mercanti venduti e senza pensiero, come saranno definiti con eccessivo disprezzo dalla critica estremista di sinistra.
Capitolo 6 Magazzini
Dicevano che papà fosse comunista, ma non ho mai capito se lo sia stato davvero. Era un tipo chiuso, molto duro, un napoletano rigido e severo, che con me parlava sempre poco. E anche la mamma era una donna severa. Sergio Leone a Diego Gabutti in C’era una volta in America Negli anni ’30, Sergio Leone, il futuro regista di Per un pugno di dollari e di C’era una volta in America, era un bambino di pochi anni. Troppo piccolo per valutare il mondo fuori. In casa cresceva in un’atmosfera difficile, tra sospensione e incertezza. Il padre era amareggiato dalla disoccupazione forzata. Nessuno gli proponeva un film. La madre Edwige osservava il suo uomo in silenzio. Affranta. Impotente. Vincenzo aveva un rovello profondo, scaturito dal rapporto con il Duce a proposito del film che avrebbe dovuto essere tratto dal romanzo Claudia Particella - L’amante del cardinale. Continuava a negare di averci messo mano ma chi diceva il falso? Lui o l’autore del romanzo? La firma era stata autorizzata da Vincenzo o era un’iniziativa del Capo che così pensava di dissolvere le resistenze del regista? Di situazioni ambigue era pieno il paese e soprattutto la sua classe dirigente che a ogni momento doveva interrogarsi su come trattare con il regime. Il sistema di controllo e di distribuzione di nulla osta era capillare. Il Duce, secondo l’opinione comune, tutto sapeva e tutto decideva. Tutti gli scrivevano, a cominciare dal Nobel Luigi Pirandello, per segnalarsi, trarre profitto, entrare nelle grazie di Mussolini e del regime. Intellettuali,
docenti universitari, medici illustri, giornalisti mandavano lettere. Un fiume di carta e di inchiostro, sempre in piena, gonfio di elogi e di paroloni, ma anche di frasi contrite di umiliazione. L’umiliazione, più o meno elegante, era l’atteggiamento più praticato. Era ritenuto il più adatto per farsi considerare. Quasi sempre chi si umilia in realtà si presenta in questo modo con l’orgoglio di chi vuole esistere a ogni costo e spera che l’orgoglio piaccia ai potenti, rassicurati nel loro ruolo di padroni dei destini. Il fiume di lettere era un fiume carsico, scorreva sottoterra, impetuoso ma nascosto. Gli italiani dovevano ignorarlo e lo ignoravano. Ogni lettera del resto finiva debitamente archiviata e costituiva un inizio di fascicolo con documenti che, al minimo segno di necessità, si trasformavano in armi micidiali. L’Italia era un grande archivio di implorazioni e atti giurati di fedeltà e nello stesso tempo un grande magazzino di opportunità e di desideri, una accogliente casa di balocchi e di profumi. Proprio il film di Camerini, dal titolo I grandi magazzini, era la metafora perfetta del sistema che si era organizzato rapidamente nelle città e faceva da modello al paese. Il galante Vittorio De Sica impegnato a fare la corte alla bionda, delicata commessa interpretata da Assia Noris, dallo sguardo persino troppo dolce, era l’inconsapevole eroe sentimentale di un consumismo che faceva le prime prove di funzionamento. Soprattutto dai reparti di cosmetici e di moda si diffondeva la modernità di un lusso alla portata di tutte le borse. Andare ai Grandi Magazzini era meglio che andare al Luna Park. I Magazzini trasudavano sesso. Lo rovesciavano a valanga tra gli innamorati che si guardavano nei grandi specchi e si toccavano appena, rubando un bacio, mentre il maschio era pronto ad allungare le mani; tra i coniugi che scoprivano l’intimo e i giochi con le giarrettiere e le calze velate; tra gli amanti che si stordivano di essenze inebrianti; tra i clienti delle case chiuse in cui le signorine si sforzavano di somigliare alle dive del momento. Ma non troppo. Le signorine dovevano saper conservare almeno un pizzico di sapore selvaggio. Il sesso usciva dalle porte e dalle finestre dei Magazzini, si mescolava ai negozi più prestigiosi di abiti e di cappellini a veletta, si fermava nelle gioiellerie costose, andava volando da un fioraio all’altro fra rose rosse e bigliettini trepidanti di passioni in attesa. Attese che potevano essere brevi. Le amanti dei gerarchi, ad esempio, sapevano bene che costoro come il loro Capo non avevano molto tempo a disposizione. Bisognava essere disponibili, correre appena arrivava la telefonata di convocazione, andare, fare e tornare, con poche parole, lo stretto necessario, poi i sospiri, l’apoteosi, e infine il bacio dell’arrivederci. Tra le amanti dei gerarchi, e le donne che essi ambivano, le dive del cinema avevano un posto di rilievo. Specie se erano forti di seno. Una gara si sviluppò in pubblico, agguerritissima. Le riviste di cinema ne raccontavano le fasi. Mostravano le foto ma con pudore. Interrogavano i lettori con domande di questo tipo: «Chi ha il seno più bello?». Tra il ’41 e il ’42 le contendenti principali erano Clara Calamai per il film La cena delle beffe di Blasetti, dal lavoro teatrale di Sem Benelli; e Doris Duranti, protagonista di Carmela di Flavio Calzavara. Amedeo Nazzari, uno degli attori più famosi, presente nel film di Blasetti,
strappa la camicetta alla Calamai sotto gli occhi del suo amante Osvaldo Valenti. Ne esce un seno piccolo e tornito, bellissimo. Il primo nudo sullo schermo? Doris Duranti rivendicò il primato di bellezza e ribadì più volte che il seno di Clara faceva più effetto perché l’attrice era in movimento mentre il suo, che non si giovava dell’effetto sorpresa, era presentato tranquillamente in piedi, dritto e sodo. La Calamai era riservata e non propose rivendicazioni. La Duranti era più loquace. Si sapeva, fuori e dentro l’ambiente del cinema, che la diva era protetta, molto protetta. Il suo amante era uno dei collaboratori più stretti del Duce, il ministro Alessandro Pavolini che comandava a bacchetta, ma con modi suadenti, il mondo del cinema. Quando Mussolini lo richiamò, preoccupato dai pettegolezzi, il ministro rispose mostrando un film di Doris. Pare che ci fu solo un commento: «Vi capisco». Un amore segreto Cinema e comportamenti che Vincenzo Leone guardava da lontano, con sospetto e che capiva sempre meno. Nel 1940 aveva compiuto sessant’anni. I suoi successi erano ricordi, fotografie appese in salotto. Le dive che avevano lavorato con lui sprigionavano un eros di sapore antico, di spalline cadute, di occhiatacce fiammeggianti. Il Maciste che aveva diretto, divertendosi, era anche lui un personaggio del passato. I muscoli gonfi di Bartolomeo Pagano, la sua virilità, generosità e furberia non incantavano più nessuno. Il pubblico preferiva figure alte e robuste che partecipavano a film di maggiore verosimiglianza, nonostante le scelte di Cinecittà che si uniformavano alle direttive di Pavolini. Era un’Italia fragorosa e nuova, che a Maciste sostituiva Amedeo Nazzari, l’eroe sempre in divisa, dritto come un fuso, dalla voce tonante. L’eroe di Luciano Serra pilota, di Goffredo Alessandrini, in cui è l’ufficiale che salva il figlio anch’egli soldato, in una battaglia in Africa, tra i colpi del nemico. Il vero problema era che Vincenzo non si decideva a congedarsi da Roberto Roberti; e quasi si compiaceva dell’ostracismo che subiva a causa del fascismo, pare che esagerasse un poco. Lo annota Luciano Vincenzoni, grande sceneggiatore dei futuri film di Leone junior. Vincenzoni fa riferimento alle indubbie difficoltà di Leone e quelle della sua famiglia. Ma aggiunge che si trattava di difficoltà meno gravi di quelle che erano toccate a lui, con il padre perseguitato e ucciso dai fascisti, e ad altri antifascisti. Vincenzo detto Roberto Roberti cercava disperatamente una mano per uscire dalla crisi in cui viveva come artista e come capofamiglia. Gliela diede ancora una volta un vecchio amico, il produttore Barattolo che rispuntò e gli offrì di girare una pellicola, Il socio invisibile, svaporata negli anni. Poteva essere l’occasione per un possibile rilancio, un primo passo per riprendere a sperare. Così sembrava. Roberti fece subito dopo La bocca sulla strada che, oltre allo strano titolo per una commedia irrilevante come dicono gli storici, aveva la particolarità di un soggetto dovuto alla penna di un personaggio destinato a comparire e scomparire come un lampo accecante nelle vicende dell’Italia subito dopo la seconda guerra mondiale.
La bocca sulla strada è del 1941, le truppe italiane sono partite o partiranno per Africa, Albania, Grecia, Russia. L’autore del soggetto è un personaggio che diventerà famoso in politica cinque anni dopo, nel 1946, quando si contavano ancora i morti del conflitto appena concluso e si facevano bilanci del disastro tra distruzioni e fame. Si chiamava Guglielmo Giannini, portava il monocolo, scriveva per il teatro e nei comici postbellici si distingueva per la verve e la focosità, e anche la volgarità, delle sue invettive. Giannini fu l’inventore di un movimento, l’Uomo Qualunque, che si presentò alle elezioni nel ’46, riscosse un certo successo e poi fu inghiottito dalla Democrazia Cristiana e dai partiti di destra. Proprio il film scritto dal pittoresco Giannini, La bocca sulla strada, segnò l’ingresso di Sergio Leone nell’ambiente del cinema. Da figlio di un addetto ai lavori. Leone senior lo portò con sé a Napoli per le riprese in esterni e il risultato in un certo senso sorprendente fu che il dodicenne Sergio scoprisse – sono sue parole – che cosa realmente facesse il padre. Scoprì anche che il padre sembrava felice di parlare, anziché una correttissima lingua italiana usata tra le pareti domestiche, il dialetto napoletano. Insomma, in una volta sola, per Sergio si apriva il sipario sulla figura di un genitore che della napoletanità non aveva nulla come regista ed educatore. Il piccolo Sergio cominciava a guardarlo avidamente per conoscerlo meglio, oltre che per cominciare a rubargli il mestiere. Glielo rubò anche a Cinecittà dove Sergio fu condotto per concludere le riprese e innamorarsi – infantilmente, come il Sergio adulto poi ricorderà – di Carla Del Poggio, la bellissima donna che diventerà l’attrice preferita e la moglie di Alberto Lattuada, uno dei migliori registi italiani. Sempre Sergio rivelerà che il padre si accorgerà di avere lavorato al film di Giannini, uomo di destra, con il produttore Barattolo che apparteneva all’OVRA, ossia alla polizia segreta fascista. La ragazza terremoto Curiose realtà e atmosfere quelle di Cinecittà negli anni ’40: fra i tanti racconti che gli stessi protagonisti ricordavano di quel cinema tutto sorrisi, rumor di spade e di eliche o di cingoli, spiccavano quelli indiscreti e addirittura osceni. Non c’era solo politica tra i viali di pini stentati della città del cinema. Il sesso dominava rigoglioso, sotto i paraventi di perbenismo. Una delle testimonianze più rivelatrici in questo senso è quella che ha fatto Maria Mercader in un suo libro di memorie. In questo libro, un’autobiografia, lei e un’altra attrice furono costrette a un’esibizione scanzonata ma un po’ truce. Il campione degli eroismi di celluloide, il maschio italico Nazzari, era in un’auto con Maria e la sua amante Vivi Gioi, e al momento di scendere chiese alle signore di prestare attenzione e in un baleno estrasse il suo membro italico (e sardo) e lo offrì agli occhi splancati di Maria e di Vivi. Entrambe non furono molto impressionate, specie Vivi che sull’argomento qualche competenza se l’era fatta. Neanche la Mercader si impressionò molto.
È una scena, riferita da una testimone attendibile, che è in contrasto con un’altra raccontata dal giovane attore Roberto Villa, dal volto liscio come le piume di una colomba, specialista in parti di bravo ragazzo (in Luciano Serra pilota è il figlio di Nazzari) candidato a medaglie al valore o a matrimoni sentimentali e rassicuranti in quanto a dote della sposa. Villa si soffermava su una abitudine quotidiana di Lilia Silvi, la cosiddetta ragazza terremoto, protagonista di Scampolo, un film ispirato alla Bisbetica domata di Shakespeare, interprete maschile Nazzari nel ruolo di Petruccio il domatore. La Silvi era giovanissima e timorata di tutto. Se avesse visto il membro di Nazzari mostrato alla Mercader e a Vivi Gioi forse sarebbe svenuta per la sorpresa o per la meraviglia o per lo scandalo. La ragazza terremoto, in nome del pudore e delle sue devozioni, obbligava regolarmente ogni mattina l’auto della produzione, che passava a prendere gli attori per condurli a Cinecittà, a fermarsi per una sosta in chiesa. Il cinema poteva essere anche il regno del diavolo, come predicavano i parroci di fronte allo spettacolo sul grande schermo di pochi centimetri di epidermide femminile, ma c’era una ragazza terremoto che faceva esorcismi davanti all’altare giorno dopo giorno. In questi gironi d’inferno di cartone e legno, il piccolo Sergio continuava a stupirsi come se si trovasse in un luna park. Guardava con meraviglia le scenografie all’aperto che ricostruivano città, strade, villaggi; la piscina per le battaglie navali, i laboratori degli effetti speciali, le salette di montaggio. Puntava occhi e orecchie. Conobbe Alessandro Blasetti con i suoi stivaloni e la voce diventata roca per la foga nel dare gli ordini. L’uomo era simpatico. La politica lo interessava poco. Gli piaceva il cinema, lo viveva con totalità. Impressionò molto Sergio. Il ragazzo gli sentì dire, dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943: «Che cosa orribile, il fascismo ha trascinato l’Italia nell’oscurità e nella tragedia, mi sbagliavo completamente». Incontri indimenticabili. A Cinecittà, Sergio ritrovò la sua innamorata, Carla Del Poggio. Gli sembrava più che mai una dea questa napoletana di sedici anni, uscita fra i primi allievi del Centro Sperimentale e subito scritturata da Vittorio De Sica per Maddalena… zero in condotta. Un film in cui recita la parte di una studentessa definita «mascalzona», ficcanaso per motivi romantici nella posta di una insegnante ancora più romantica. L’infatuazione di Sergio per Carla e per altre attrici e dive come la Calamai, la Duranti, Assia Noris, Luisa Ferida e poche altre era un patrimonio comune di milioni di italiani come o più adulti di Sergio. Le sale cinematografiche erano l’anticamera delle passioni immaginarie. Spesso erano propedeutiche al successivo passaggio dei giovanotti, al compimento della maggiore età, che trovavano naturale frequentare le case chiuse per sperimentare le lezioni teoriche apprese nelle sale. Un’educazione sessuale lodata da habitué illustri come Indro Montanelli o Giancarlo Fusco. Bendati o morti Il traffico fra sale, case chiuse, fronti di guerra, ospedali e cimiteri si andava
intensificando con riduzione progressiva delle commedie e della produzione leggera. La voglia di ridere o sorridere c’era, ma qualcosa si spegneva sempre più rapidamente negli occhi e nel cuore degli italiani. La guerra bussava alla porta della storia con la S maiuscola e la sfondava. La sconfitta era certa, il domani era nelle mani di eserciti venuti da fuori per battere il nazifascismo. Le brigate partigiane si formarono anche per cercare con loro la libertà di cui il paese aveva perso il sapore. La famiglia Leone attendeva come l’intero paese la liberazione portata dagli Alleati, americani al comando, dopo bombardamenti a tappeto che stavano riducendo la penisola a uno scheletro schiantato. Intanto, dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l’8 settembre, il giorno del «tutti a casa» (esclamazione ripresa poi anni dopo nel titolo di un film di Luigi Comencini con Alberto Sordi), i reduci tornavano a casa bendati o morti nell’anima. Quel che rimaneva dell’esercito fedele al re Vittorio Emanuele che aveva deposto Mussolini, si aggregava agli Alleati. Sulle montagne del Centro Italia e del Nord si formavano sempre più numerose le brigate partigiane. Combattevano contro la Germania di Hitler che aveva occupato il paese e contro i ragazzi di Salò, i ragazzi poco più che adolescenti che avevano deciso di seguire Mussolini nella Repubblica Sociale Italiana creata d’accordo con i nazisti. La svolta e la resa dei conti s’intrecciarono in due anni, dal settembre ’43 a fin dopo l’aprile del ’45. Due anni di guerra civile e di violenze che lasceranno il segno, tagliando di netto col passato. Mussolini venne appeso per i piedi con l’amante Claretta Petacci e i suoi fidati gerarchi, a Piazzale Loreto. Anche per Pavolini, che era stato al comando del cinema e aveva amato l’attrice Doris Duranti, il film era giunto alla parola fine. Il sangue fluiva e la pellicola dei cineoperatori girava il terribile spettacolo. Nelle vie di Milano, il mitra dei partigiani sparò su Luisa Ferida e su Osvaldo Valenti, colpevoli soprattutto di avere deluso quel pubblico che li aveva amati sul palcoscenico. Quel mitra e quei partigiani furono l’arma e il braccio che li punì per aver fatto amicizia con Pietro Koch, capo di uno dei corpi più duri della polizia di Salò, che sarà processato per avere torturato dei partigiani che rifiutavano di parlare. Sarà fucilato sotto gli obiettivi delle macchine da presa in un documento filmato da Luchino Visconti, il regista di Ossessione, che era stato minacciato di morte da Koch, quando era poco più che ragazzo, per essersi unito alla resistenza romana. Il cinema, gran parte del cinema, si era dileguato cercando ovunque potesse esserci un nascondiglio, un riparo in attesa di giorni migliori. Blasetti si rifugiò in un convento e cominciò a riflettere sul da farsi. Qualcuno però già sapeva come muoversi e quali film servivano. Era Roberto Rossellini che stava preparando Roma città aperta. Al centro del film, la Roma occupata dai nazisti, affamata, smarrita, che si muoveva a stento tra le macerie, mentre gli Alleati avanzavano per liberarla nel giugno del 1944. Due anni dopo da questa data, negli stessi giorni della prepazione di Roma
città aperta, il padre di Sergio, Vincenzo Leone tornato a essere Roberto Roberti, organizzava il suo ultimo film, Il folle di Marechiaro. Lo sfondo era Napoli, la Napoli descritta da Curzio Malaparte in La pelle: una città vivace e variopinta che ballava con la morte e le privazioni. La storia era quella di un uomo che con un amico, il mimo Polidor rilanciato poi da Federico Fellini nella Dolce vita, cammina tra le rovine in cerca dell’amore. Assistente volontario, non pagato, era il figlio di Vincenzo, il sedicenne Sergio.
Capitolo 7 Schiantato
Roma crollava sotto il peso della carestia. Non lo potrò mai dimenticare: a tredici anni ho cambiato un paio di vecchie scarpe di mio padre con venticinque chili di farina. Sergio Leone a Diego Gabutti in C’era una volta l’America L’ultimo film del padre di Sergio Il folle di Marechiaro ebbe una lunga lavorazione, dal 1946 al 1951, cinque anni di interruzioni, riprese, di nuove soste, altre lavorazioni. La situazione di Vincenzo Leone non era dissimile, almeno per quanto riguarda la situazione generale e le risorse tecniche, da quella vissuta da un altro Roberto, Roberto Rossellini, che con Roma città aperta aveva penato per trovare la pellicola e poteva contare su finanziatori di fortuna: una gentile signora, un paio di avventurieri che si erano improvvisati produttori e tentavano l’azzardo sul tavolo verde del set sconvolto dalla guerra e dalla sua fine. Cinecittà era ancora chiusa, era un tetto per coloro che avevano perduto casa e masserizie. Il cinema, inteso come industria – ma era un artigianato, al massimo un alto artigianato – era schiantato nei mezzi e nelle coscienze. I nazisti avevano sequestrato ed esportato, con treni speciali a Venezia, molte apparecchiature, nella speranza, condivisa con Luigi Freddi e gli altri uomini del cinema vicini alla Repubblica Sociale di Mussolini, di rifondare una nuova, diversa Cinecittà. Diversa lo fu nel senso che gli studi tra i Giardini della Biennale e la Giudecca, adibiti al velleitario rilancio, erano poco più che nude pareti, e mancavano tecnici e addetti alla produzione. Qualcuno tra i migliori tecnici, ad esempio il giovanissimo Tonino Delli Colli (che lavorerà per Pasolini e Sergio
Leone), aveva accettato la proposta di recarsi a Venezia. Ma trovò soltanto uno sparuto gruppo di attori asserragliati nell’hotel Danieli. Quel Cinevillaggio, come fu chiamato, doveva produrre dieci film, ne fece la metà e la loro circolazione fu pressoché inesistente. Altrove, sempre in città del Nord, vennero girati anche pochi numeri dei nuovi cinegiornali della Repubblica: immagini ieratiche, solenni, inni patriottici, petti in fuori e il Duce stanco ma sempre con la mascella dura che baciava la bandiera tricolore. In simili circostanze, poteva capitare che un vecchio, abile ex direttore artistico come Vincenzo, rotto alle più varie esperienze, trovasse difficoltà a procedere in quello che doveva essere il suo atto di congedo dalla sedia di regista. Aveva settantadue anni quando diede il ciak finale del Folle di Marechiaro. E soffriva. Non volle neanche interessarsi della prima, e unica, uscita del film in un cinema della Galleria Umberto a Napoli. Due giorni soli, due giorni e basta. Roberto Roberti appese il nome d’arte al chiodo e tornò a farsi chiamare Vincenzo Leone, cineasta in pensione volontaria. Lasciò Roma nel 1949, vi tornò per terminare l’ultimo film, e si stabilì nella terra dei suoi genitori, Torella dei Lombardi, in Irpinia. Passava il tempo disponibile frequentando la sezione locale del Partito Comunista, ignorato da tutto il cinema, dai critici e soprattutto dalla parte sempre più numerosa e potente dei neorealisti, critici e autori. Sergio rimase a Roma, in una casa di Trastevere, a viale Glorioso, in alto, verso il Gianicolo, nella Trastevere delle villette e dei viali alberati, zona di borghesi, sopra il Ministero della Pubblica Istruzione, edificio ampio e compatto come un macigno. Trastevere fu il luogo dove Sergio fece amicizie profonde. Gli venne lo spunto per fare un film intitolato Viale Glorioso. Protagonisti lui e gli altri ragazzi borghesi che guardavano dall’alto il mondo della vera, tradizionale Trastevere, fatta di viuzze e di bassi. Dove l’odore penetrante delle stalle per i cavalli delle carrozze riservate ai turisti si mescolava con quello dei bucatini o dei saltimbocca. Gomma da masticare Una ragione per cui Sergio Leone, diventato adulto e stimato regista, rinunciò a fare un film che avrebbe portato il titolo di Viale Glorioso fu il timore di entrare in concorrenza con I vitelloni di Federico Fellini, 1953. Il film descrive la storia bella, triste, drammatica, commovente di un gruppo di giovani in attesa di chissà quale Godot nella piccola Rimini. Nei giovani, in quei giovani, dopo la guerra, gli stenti del dopoguerra e le fatiche della ricostruzione, serpeggiava un senso di profondo malessere. I giovani potevano essere poveri ma belli, secondo Dino Risi e il suo film con Maurizio Arena, Renato Salvatori e Marisa Allasio, appunto Poveri ma belli, senza una lira e presi dall’amore. L’incertezza in loro non sembrava avere fondo. Che bilancio potevano fare dopo il disastro visto con gli occhi di bambini, nonostante la gioia di riabbracciare i padri di ritorno dalla guerra e le
dolorose visite al cimitero? Sergio era ancora un adolescente quando, nell’epilogo del conflitto, spinto dal desiderio di entrare nella storia e nelle storie che si stavano vivendo, entrò in contrasto con la madre Edwige più che con i nazisti. Edwige lo implorava di non andare a fare il partigiano nei giorni terribili fra l’inverno del ’43 e la liberazione del 1945. Aveva paura per lui. Sergio fu felice del divieto. Allora, la madre gli voleva bene davvero. Se ne accorgeva, stupito. Sergio non andò e coltivò l’idea fastidiosa di avere ceduto ai sentimenti e di non essersi comportato come altri che, giovanissimi, neanche a quindici anni, avevano deciso di partecipare alla lotta contro i nazisti. Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Luigi Magni erano poco più che ragazzi quando nella «Roma città aperta» si unirono ai partigiani come aveva fatto Luchino Visconti. Poi la gente era scesa in strada, vestita di stracci e con lo stomaco vuoto, per accogliere gli americani e gli altri liberatori che regalavano caramelle, cioccolata, scatolette e una curiosa gomma da masticare. Ma nella festa collettiva già cominciavano ad affiorare non tanto i dubbi su un periodo da cancellare il più in fretta possibile quanto le perplessità e l’angoscia per il domani carico di speranze e di paura: che cosa sarebbe davvero accaduto? Tremavano, mentre la festa della liberà restava nelle strade, sia gli adulti che i giovani. Gli uni incapaci di vedere fino in fondo la realtà in cui si trovavano. Gli altri presi da una terribile voglia di vivere. Sì, ma vivere come, per cosa? In casa Leone, l’esempio del capofamiglia era chiaro. Bisognava andarsene da Roma. Vincenzo fece le valigie e partì, come sappiamo. Per dieci anni centellinò i giorni fino alla morte avvenuta nel 1959. La sua ombra Edwige visse a Torella dei Lombardi, case e campi ben lontani dalla sua Roma e dalle origini friulane, in silenzio. La coppia cementata dall’affetto e dall’abitudine si chiuse lentamente come una porta che cigola. Lei non andò neanche più al cinema. Lo disertò perché non era più quello che con Vincenzo avevano amato. Sopravvisse ancora dieci anni dopo la morte del marito. Poco prima, un infarto le aveva tolto la parola. Sergio sentì solo un sussurro quando se ne andò. Aveva trent’anni Sergio quando accompagnò suo padre all’ultima dimora. Fino a quell’età, dopo essere stato spinto alla solitudine all’interno della famiglia, aveva vissuto piccole esperienze epiche adolescenziali nella banda dei ragazzi di viale Glorioso e poi si divise tra gli studi di giurisprudenza e il cinema. Laureato, decise di fare gli esami da procuratore legale. Imitando così il padre, come in un’ideale staffetta. Ma senza troppe tenerezze. La commissione Gli spettacoli che si offrivano a Sergio dalla adolescenza alla maggiore età – allora si raggiungeva a ventun anni – erano i primi film americani riammessi dopo i divieti del fascismo che voleva sconfiggere insieme a Hitler gli americani sia in guerra sia nel cinema. Da Hollywood, caduti i divieti, arrivava
di tutto, sempre più rapidamente, sempre più prepotentemente. Il pubblico ardeva dal desiderio di recuperare le immagini perdute, i musical, le commedie sofisticate, i drammi, i western, i gialli. Più impetuosi, per fortuna meno mostruosi e mortali dei carri armati, erano i divi, quelli che già si conoscevano come Gary Cooper o James Stewart e quelli che arrivavano sull’onda dei colori e delle musiche di Via col vento. Soprattutto Vivien Leigh in vistoso abito rosso che faceva impazzire Clark Gable e poi veniva a sua volta abbandonata, e terminava mormorando alla fine del film la frase che ogni donna, senza per questo essere femminista, sognava di poter dire, confidando in se stessa: «Domani è un altro giorno». Se questi erano gli spettacoli ormai a portata di mano, facili e seduttivi, altri spettacoli si tenevano al chiuso non di una sala ma delle sedi dei tribunali e dei partiti. Il futuro regista dei western all’italiana cominciava a capire i giochi sotterranei nei rapporti tra gli uomini e nella politica. Giochi spesso ignorati da chi parla di cinema pensando solo alla pellicola e agli attori, trascurando retroscena significativi. La politica, dopo la fine della guerra, pretendeva la sua parte e la metteva sul tavolo con decisione. L’ammiraglio Stone, comandante delle truppe americane e capo del governo provvisorio militare fino a dopo la liberazione, aveva dichiarato che il cinema italiano era stato tutto fascista; e per giunta, essendo l’Italia un paese prevalentemente contadino, non aveva alcun bisogno di una industria cinematografica. Questo duro e chiaro discorso Stone lo pronunciò di fronte alle rappresentanze di nostri produttori, attori, registi che rimasero in rispettoso silenzio. Nessuno replicò al vincitore. Poco tempo dopo ci pensò un giovanissimo, ma già curvo Giulio Andreotti, collaboratore di Alcide De Gasperi, primo presidente del Consiglio nell’Italia democratica. Mediando secondo il suo ben noto talento, riuscì a ottenere condizioni meno vessatorie per un cinema ancora agonizzante nonostante le speranze suscitate da Rossellini (Paisà dopo Roma città aperta), Visconti (La terra trema), Giuseppe De Santis (Caccia tragica, Riso amaro), Aldo Vergano (Il sole sorge ancora). Intanto, andava in scena un altro tipo di spettacolo. Appartato e senza clamori, si svolse velocemente e si concluse senza applausi. Era lo spettacolo tanto atteso dell’epurazione dedicato a chi, tra registi, aiuto registi e sceneggiatori aveva aderito o era stato coinvolto, troppo coinvolto, dal fascismo. Si formò una commissione in cui figuravano Mario Camerini, Visconti e Mario Soldati. L’esito che uscì dalle indagini compiute, riguardò tre registi che vennero sospesi per tre mesi: Carmine Gallone, che aveva girato Scipione l’Africano; Augusto Genina, accusato di avere diretto film di propaganda come Bengasi, oltre a quelli già ricordati, peraltro assai tiepidi in fatto di esaltazione; e Goffredo Alessandrini, autore di Luciano Serra pilota, con cosceneggiatori Roberto Rossellini e Vittorio Mussolini, anche come supervisore alla regia, oltre che Abuna Messias e Noi vivi - Addio, Kira. Considerati tutti film compromettenti e schierati con il regime.
Purgatorio L’epurazione sfiorò Roberto Rossellini. La colpa dell’autore di Roma città aperta e di Paisà era quella di aver diretto tre film di guerra tra il 1941 e il 1942 – La nave bianca, Un pilota ritorna e L’uomo dalla croce – in cui aveva usato immagini fornite dal Ministero della guerra. Altra colpa ritenuta grave era soprattutto quella di aver realizzato L’uomo dalla croce, in cui si descrive la sofferenza e la fine di un sacerdote vittima del comunismo in Unione Sovietica. L’Unione Sovietica che con gli americani, e gli altri alleati, aveva contributo a sconfiggere il nazismo. La commissione citò nel suo rapporto il nome del grande regista ma i contenuti del rapporto, anzi dei rapporti, non sono mai stati pubblicati. Del contenuto dei lavori si sapeva solo qualche dettaglio insignificante. A Sergio Leone capitò, insieme al padre, di cenare allo stesso tavolo con l’indagato Genina e uno degli indagatori, Camerini. Ma non colse e dimenticò ogni riferimento degno d’interesse. In fretta, si cercava di chiudere nel cinema il fascicolo delle purghe. Bisognava sbrigarsi. Sorvolare sulle complicità verso il fascismo e guardare oltre questo film di vita e di dittatura vissute. Era la lezione che veniva da un presente inquieto, stretto tra gli anni trascorsi e gli anni che andavano incontro alla democrazia. Un processo lento, drammatico, tra manifestazioni di piazza, organizzazioni segrete che si formavano e stavano in agguato l’una contro l’altra, nostalgie e vendette. Dominava la paura del comunismo, nonostante si fosse stretto il patto di Yalta tra i capi vincitori della guerra (Stalin, Churchill e Roosevelt) che avevano concordato una spartizione del mondo. L’Italia sarebbe rimasta nell’area di influenza americana. Faceva paura il comunismo che era in espansione in tutta l’Europa dell’Est. E tra i partigiani rossi italiani c’era chi avrebbe voluto che la Resistenza innestasse un processo di rivoluzione comunista. A fronteggiarli, come si scoprirà anni dopo, si formarono gruppi come Gladio intenzionati a rispondere con le armi. L’intesa dei partiti che avevano accompagnato il paese alla Liberazione arginò gli estremismi. L’Unione Sovietica rispettò Yalta, come gli Stati Uniti d’America. L’Italia diventò democristiana. Sugli schermi continuava irrefrenabile lo sbarco dei film di Hollywood. Sergio, pur giovane, respirava i venti della politica. Rivolta e rivoluzione arrivavano alle sue orecchie per rimanerci per sempre, come dimostrano i suoi western dove queste idee compaiono con frequenza. Ma non come utopie. Bensì come rivolgimenti di realtà in cui affiorano con brutale violenza destini contrapposti. Da una parte, il destino dei senza nome che vengono armati e mandati a combattere, scoprendo che l’obiettivo sono solo interessi di guadagno e di potere; e dall’altra, il destino dei potenti che hanno imparato a sedurre e a manovrare le masse, e che si fanno battaglia tra loro perché qualcuno vuole imporre una nuova legge. Uno sfondo fisso. Davanti, colpi di cannone e pistole. Duelli e massacri sotto il sole. Suoni, voci e immagini che fermenteranno. Il western è ancora lontano.
Sergio sta cercando di apprendere il mestiere del cinema senza affidarsi alla esperienza del padre. Tre furono i registi che sostituirono Vincenzo nell’apprendistato del giovane aspirante regista. Gli fu vicino Mario Camerini, lo specialista delle commedie con De Sica, il talento leggero e spiritoso che nel 1946 sceglieva altri temi, altre storie. In Due lettere anonime, protagonista Clara Calamai, diresse una vicenda resistenziale in cui la donna di un fascista colpisce a morte l’amante per difendere un partigiano. Era un tentativo compiuto dal bravo regista per rientrare nel gioco, ma non ebbe effetti consistenti. Nel cinema aveva vinto il neorealismo e neanche Camerini, come Vincenzo, fu pienamente accettato dai cineasti e dai critici che sostenevano il nuovo movimento. Il neorealismo durò poco e produsse un numero ridotto di film. A Sergio una mano la diede anche Genina, uno dei reprobi, che tornò a lavorare con qualche difficoltà dopo il periodo di sospensione comminato dalla commissione di epurazione. Genina fu il primo che gli fece avere un compenso come assistente alla regia. Chi fece di più, chi lo aiutò veramente e lo mise su una strada che doveva condurlo al successo, fu Mario Bonnard. Curioso cineasta Bonnard, bello come Rodolfo Valentino. Veniva dal muto e quando capì che non avrebbe potuto competere con Rudy passò definitivamente alla regia.
Capitolo 8 L’irruzione
Finita la guerra avrò visto cinquanta film al mese per due o tre anni filati, interrompendomi solo per andare al parco giochi di Cinecittà. Commedie, western, gangster film, farse, pellicole sociali, comiche, film di guerra. Tutto quel che c’era. Sergio Leone a Diego Gabutti in C’era una volta in America Da padre putativo Bonnard – talento indiscusso e molta brillantina nei capelli –, aiutò Sergio a togliersi i grilli dalla testa e a comprendere che doveva tenere i piedi per terra. Gli disse che se il cinema vuole interessare deve raccontare storie forti e concrete, in chiave o di commedia o di dramma, senza compromessi o ibridazioni. La sua carriera lo dimostrava. Bonnard si era specializzato in adattamenti letterari portando sullo schermo Il rosso e il nero di Stendhal e una delle tante versioni dei Promessi sposi di Manzoni. Poi la sua attenzione si allargò, tenendo conto delle evoluzioni dei gusti del pubblico sempre a caccia di sensazioni memorabili, di altri soggetti. Gli riusciva facile perché era duttile, pragmatico, dotato di grande ironia. Era un regista buono per ogni genere e stagione. Negli anni ’50 si trascinava appresso il giovane Sergio magro, allampanato, timido, per film come Il voto, Frine, cortigiana d’Oriente, Tradita, La ladra, Mi permette, babbo?, quasi tutte coproduzioni italo-francesi. I rapporti fra i due diventarono così stretti che Sergio si trasferì in un appartamento della casa dove abitava Bonnard, lontano da Trastevere, al
quartiere Prati, in via Paolo Emilio. Vi restò dal 1949 al 1960 quando sposò Carla, la moglie che gli starà al fianco tutta la vita. Tra i primi film che fecero insieme figura Frine, cortigiana d’Oriente, 1953. La storia, ambientata a Tebe e ad Atene intorno al 400 avanti Cristo, presenta una schiava di nome Afra che diventa un’agiata cortigiana e fa la modella dello scultore Prassitele per la statua di Afrodite, la dea della bellezza. Afra ha contro gli anziani di Atene e decide di affrontarli, mostrandosi «in tutta la sua nuda bellezza». Uno spogliarello storico che liquidò le diffidenze dei senatori, solo lei poteva essere la modella di Afrodite. Il film merita la citazione anche per un altro moltivo. Un anno prima, il 1952, Blasetti aveva realizzato Altri tempi, a episodi. In uno di questi, che si chiama Il processo di Frine, compare Vittorio De Sica nel ruolo di un avvocato che difende la sua cliente, Gina Lollobrigida, dall’accusa di avere avvelenato marito e suocera. De Sica si scatena in una veemente arringa che termina con l’invito alla bella Gina di scoprirsi il seno che sboccia dalla camicetta assai succinta. Meraviglia dei giudici. Applausi del pubblico. Assoluzione. Nell’arringa De Sica lanciò l’espressione «maggiorata fisica» che non verrà più cancellata. Sarà anzi la definizione mai più superata per le attrici dotate di splendidi corpi. Da Silvana Mangano a Sophia Loren, da Gianna Maria Canale a Silvana Pampanini, a Yvonne Sanson e a tante altre che magari la meritavano meno. L’arringa di De Sica e la definizione «maggiorata fisica» segnarono un confine netto. La scollatura di Frine, o meglio della Lollobrigida, diventò una bandiera di trasgressione. L’attrice divenne popolarissima e consolidò la sua scalata al successo col personaggio della Bersagliera in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini La commedia soffiava impetuosa sollevando le foglie del cinema italiano. Il neorealismo, al confronto, tutto inserito nelle vicende di pochi e importanti autori, stava esaurendo il suo sguardo in un’Italia che stava mutando aspetto e passioni. Il primo ad accorgersene fu Visconti che in Bellissima nel 1951 raccontò la esasperata volontà di una madre (Anna Magnani) che sperava di vincere un provino a Cinecittà con la figlia, bellissima solo per lei. Visconti metteva in scena l’irruzione del cinema nella vita di tutti i giorni. La gente semplice sognava per i figli un destino diverso. Un provino, un film potevano essere la grande occasione. Frutti non solo di mare A parte Bonnard, la sua simpatia, le sue sfuriate, la sua passione per i frutti di mare (di cui parlava Sergio), un altro regista decisivo per Sergio fu Carmine Gallone. Gallone, pur sospeso per tre mesi dalla commissione di epurazione, era un bravo regista e in un cinema che stava per rispuntare da sotto le macerie – Cinecittà ricominciava a produrre – ci volevano persone come lui, acrobatici inventori di pellicole spettacolari, capaci di sedurre il pubblico a colpo sicuro. Il regista proteggeva Sergio e pensava tempestivamente, per reinserirsi, a
film con sapore di attualità. Come Avanti a lui tremava tutta Roma, una rivisitazione ben architettata in chiave moderna dell’opera Tosca di Giacomo Puccini. Protagonista la Magnani. Nella nuova sceneggiatura una cantante lirica famosa (la voce nel doppiaggio è di Renata Tebaldi) diventa oggetto dei desideri di uno sorta di Scarpia che è un funzionario della spietata polizia fascista manovrata dai nazisti nella Roma prima della liberazione del giugno ’44, a caccia di partigiani e di soldati alleati protetti da costoro. Il regista di Scipione l’Africano cercava di far dimenticare il suo passato e lo faceva avvicinandosi a un genere che nel dopoguerra rispuntava rigoglioso, il genere dei film tratti dai melodrammi che si affidava alle «maggiorate fisiche» per fare incassi maggiorati. Gina e Sophia recitavano, cantanti famose davano loro la voce, il pubblico più ingenuo cadeva in trappola, una trappola fin troppo scoperta, i produttori e i distributori erano felici. Com’era in uso allora, Sergio faceva il ragazzo di bottega: andava a comprare le sigarette, portava il caffè, sbrigava le piccole faccende che sul set si moltiplicano all’infinito, e intanto osservava Gallone in azione, mentre riproponeva il repertorio lirico nazionale: Rigoletto, Addio Mimì! (dalla Bohème di Puccini), La leggenda di Faust, Il trovatore, La forza del destino. In tre-quattro anni, dal ’47 al ’51, Sergio conobbe o ripassò partiture leggendarie, si trovò di fronte personaggi della lirica che suscitavano i più focosi fanatismi tra gli spettatori. Sergio imparava e ragionava. Si era convinto che, a parte i melomani, gli italiani non avessero una grande sensibilità musicale e che assaporassero più l’enfasi dei libretti o i toni da feuilleton che le storie e i personaggi proposti, la qualità della musica. Lui incamerava tutto. Il gioco del carosello di scene e costumi che, riadattati, giravano di studio in studio per essere riusati. Le colonne sonore che subivano necessari adattamenti e spogliavano le opere liriche cercando soprattutto la polpa delle romanze più orecchiabili. I segreti delle riprese per allestire messe in scena veloci, concrete, di pronta efficacia. Può darsi che il successo di questi film, fatti a getto continuo, abbia maturato in Sergio una sensibilità musicale che troverà in Ennio Morricone, profondo conoscitore dei maestri italiani e in particolare di Verdi e Puccini, la persona giusta per reinterpretarla come si può verificare del resto nelle indimenticabili associazioni tra sequenze e colonna sonora di tanti film del regista. Tutto si tiene nel cinema, o meglio nel cinema quand’era uno straordinario artigianato, una bottega colma di stimoli. A Sergio piaceva molto stare a bottega, e fare tutto quel che gli veniva richiesto gli sembrava utile. Non si tirò indietro quando gli dissero che doveva fare «il tampone». Filiforme avventizio L’attore-tampone è il tutto fare, la risorsa umana improvvisata, l’uomo che spunta nel momento del bisogno urgente.
Sergio, forzato della sua passione per il cinema, cresciuto in una famiglia dove la polvere del palcoscenico o del set entrava nei polmoni, talvolta veniva gettato davanti alla macchina da presa e ai riflettori per sostituire comprimari o comparse, senza un’aggiunta di paga. Filiforme avventizio con gli occhiali doveva essere sempre pronto a saltare nel perimetro della finzione a un cenno del regista. Era accaduto col padre nel corso delle riprese di Il folle di Marechiaro. Sergio dovette indossare una divisa – non farà mai il servizio militare – e trasformarsi in un soldato semplice americano nella Napoli delle rovine e dei sognatori dell’immediato dopoguerra. Accadde con De Sica che lo scritturò per Ladri di biciclette ben felice di averlo perché conosceva e stimava il padre di Sergio, quel Roberti che lo stesso De Sica aveva incontrato nei gloriosi anni del muto. Sempre disponibile e preoccupato soprattutto di riuscire a farsi pagare, per De Sica, di cui era il quinto assistente volontario, fu il tampone nella scena in cui compare un gruppo di studenti in teologia, seminaristi. Sergio indossò su un nuovissimo golf giallo un lungo abito rosso sacerdotale. Il regista diede il ciak, sotto una pioggia battente. L’acqua veniva giù a catinelle e bagnò l’abito. Con il risultato che la tintura rossa macchiò la lana del golf. Ne venne fuori una strana tinta giallorossa, il colore della città e della squadra di calcio. La cosa divertì i finti seminaristi e il regista, ma non Sergio che pretese di farsi rimborsare il golf discutendo a lungo con il renitente De Sica. Attore per comodità della produzione e degli autori, sempre durante le riprese di Ladri di biciclette, Sergio ebbe presto anche una esperienza come sceneggiatore, curiosa e nuova nell’ambito di questa importante professione. Gli sceneggiatori erano un folto gruppo in cui c’era Suso Cecchi d’Amico ma la responsabilità maggiore spettava a De Sica, Cesare Zavattini e Sergio Amidei (che però per vari dissensi decise di uscire dal film). Il giovane Leone partecipò a una riunione del gruppo. Se ne stava in un angolo della stanza, osservò e ascoltò una vivace discussione tra De Sica, Zavattini e Amidei. Oggetto: una importante situazione da raccontare all’inizio del film. Il primo a parlare fu Zavattini che pensava di fare uscire di casa l’attacchino, a cui verrà rubata la bicicletta, con in mano un panino di mortadella. Il panino doveva essere avvolto in un giornale in modo che potesse leggersi la parola «Unità». Mentre De Sica sembrava distratto, guardando dalla finestra verso il cielo, scoppiò la reazione di Amidei che, sentendo citare l’«Unità» cominciò a imprecare e a protestare. Sosteneva infuriato che quel giornale non c’entrava proprio nulla e che, al massimo, si sarebbero potute leggere soltanto le lettere finali del titolo, e cioè «tà». De Sica continuava a guardare verso il cielo e a stare in silenzio. Nella stanza si era creata intanto una tesa suspense. «Tà»
La suspense era dovuta a una questione di fondo, una di quelle questioni che si pongono durante una seduta di sceneggiatura quando si deve scegliere quale strada intraprendere per definire le caratteristiche di un personaggio. Zavattini, citando per intero il titolo dell’«Unità», intendeva sottolineare attenzione e fede dell’attacchino per l’organo del Partito Comunista. Amidei si sarebbe accontentato delle lettere finali, «tà», perché il suggerimento non fosse esplicito e spingesse lo spettatore a fare un piccolo sforzo di identificazione. Insomma, si trattava non di capricci ma di intenzioni ideologiche da svelare. La suspense si tagliava con il coltello. Ed ecco che, finalmente, il grande Vittorio interruppe il suo ostinato silenzio, distolse lo sguardo dal cielo, e cominciò a parlare. Sergio Leone così riferì il resoconto della vivace seduta: «Secondo De Sica l’attacchino doveva uscire di casa mangiandosi una bella mela. Una mela “rossa”, spiegò, tornando a rivolgere gli occhi verso i tetti di Roma. No, non una mela rossa, ma una multicolore. Mezza rossa e mezza “sfumata”. L’operaio morderà la mela e si avvierà per il suo viaggio verso il disastro». Sergio aggiunse anche un suo commento personale: «Onestamente, mentre ascoltavo tutto questo, avevo la sensazione di poterla “mangiare”, quella mela. De Sica era in grado di evocarla lì, sotto i nostri occhi, come un miracolo da ex voto o come se avesse ricevuto la visita di un angelo. Il cinema, per lui, stava tutto nell’attenzione a dettagli del genere». Il futuro regista, in quella stanza, da scolaretto, aveva assistito a una vera e propria lezione su come si scrive e soprattutto come si pensa e si risolvono i problemi di una sceneggiatura. A colpi di paradosso. In un film in bianco e nero, come può svelarsi una mela «rossa» o «sfumata»? Ma la cosa non finì. Amidei dichiarò guerra a De Sica e al film; e scrisse proprio sull’«Unità» un suo giudizio pungente, criticando il comportamento dell’attacchino che, dopo il furto della bicicletta pagata mettendo a pegno le lenzuola di casa, aveva deciso di rubare a sua volta invece di andare alla sezione del partito o al sindacato per raccontare le sue disgrazie. Episodi che conservano qualcosa di comico e di irreale. Erano i segnali di convinzioni politiche che avvelenavano le discussioni e i rapporti. C’era sempre qualcuno che rivendicava il diritto di insegnare il bene, il meglio a tutti. A Sergio, per avere un’idea meno contaminata da queste tentazioni, sarà d’aiuto il padre padrino, quel Mario Bonnard che se l’era tenuto vicino più degli altri. Bonnard, vecchia volpe del cinema, rispolverò una vecchia pagina del cinema italiano, un genere del muto rimasto legato a un gusto esibizionistico e monumentale (anche se spesso di cartone). Un genere senza vergogna e senza complessi, un po’ ridicolo talvolta ma di rado volgare.
Capitolo 9 Tortuoso
Ringrazio gli dei della celluloide per essere stato aiuto di Mervyn LeRoy, Zinnemann, William Wyler, Walsh, Wise. Erano tutti registi con grandi Attributi virili ma va anche detto che, qui in Italia, gli americani lavorano tutti con la mano sinistra, presenti più all’osteria che sul set… Sergio Leone a «Panorama», luglio 1986 Anni ’50. Pieni di impegni per Sergio Leone, come attore, come assistente alla regia, come debuttante nella sceneggiatura, anni che si concluderanno con il debutto di Sergio nella regia vera e propria. Il debutto avvenne nel 1959 con il film Gli ultimi giorni di Pompei, grazie all’amico Bonnard che si fece da parte e gli aprì la strada. Fu un anno di svolta. Nasceva un regista, ne moriva un altro: Vincenzo in arte Roberto Roberti. Arrivare all’esordio non fu semplice. Anzi, fu un itinerario tortuoso, seminato di impegni e di ostacoli. Sergio lavorava moltissimo e passava da un film all’altro, nelle diverse mansioni, augurandosi prima o poi di ordinare lui stesso: «motore e azione». Sospirava quel giorno che non si avvicinava mai abbastanza. Le corse da un set all’altro diventavano sempre più faticose. Il ragazzo era un ex ragazzo, aveva trent’anni tondi e conosceva il rischio che correva, e continua a correre ancora oggi un aiuto regista. Il rischio di essere associato a questo ruolo e di
non riuscire a scrollarselo di dosso. Per restarvi a vita e farsi aggredire dalla depressione. La tortuosità del cammino di Sergio era in parte una sua colpa. Si stava rassegnando a fare scuola di esperienza e a sognare soltanto il gran salto. Era stato a fianco di una lunga serie di registi che lo stimavano ma lo lasciavano al suo posto. Camerini lo volle per Il brigante Musolino con Nazzari e la Silvana Mangano; Comencini per La tratta delle bianche con Eleonora Rossi Drago, elegante e bellissima che non entrò mai nel gruppo di testa delle cosiddette «maggiorate fisiche»; Mario Soldati, scrittore efficace, lo volle per Jolanda, la figlia del corsaro nero e I tre corsari. Tutti soddisfatti. Ma tutti poco disposti a incoraggiare i produttori affinché premiassero l’intelligenza e le capacità di Sergio. Grandi incontri. E il più grande di tutti fu con Soldati che era noto per essere un uomo duttile e spiritoso, ma assai esigente. Le pellicole tratte dai romanzi di Emilio Salgari, ingenue e spettacolari senza eccessi, costituivano un puro divertimento per lo scrittore-regista che si era messo in luce negli anni ’40 con Piccolo mondo antico tratto da Antonio Fogazzaro e il funereo ma affascinante Malombra tratto sempre da Fogazzaro con Isa Miranda, un altro nome del firmamento divistico italiano. La carriera di Soldati durerà a lungo. Farà nel 1953 La provinciale, ispirato al romanzo di Moravia, con Gina Lollobrigida e, nel 1954, La donna del fiume, sceneggiato da un trio di prestigiose penne – Moravia, Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini –, protagonista Sophia Loren. La Loren cominciava a raccogliere i frutti del suo amore per e con Ponti, il produttore. Lei poteva chiedere qualunque cosa ma Ponti aveva già pronta un’altra proposta. Dollari Ponti era con De Laurentiis uno dei produttori più svegli e intrapredenti, e aveva capito al volo la situazione del cinema. I confini della penisola erano troppo stretti. Cinecittà era tornata a funzionare ma il cinema italiano aveva tirato su i ponti levatoi. Il futuro del film cambiava. Nei temi, nelle storie, nei registi, negli sceneggiatori, negli attori. Era uno sviluppo tumultuoso che aveva nell’America la forza trainante. Ma l’Inghilterra e la Francia si stavano muovendo. Si muoveva l’Italia con una produzione in costante aumento però sempre diffusa all’interno del paese. Una prima fase di internazionalizzazione si era imposta e altre fasi sarebbero sopraggiunte sempre nelle stessa direzione. I festival di Venezia e di Cannes, e altri che nascevano o che sarebbero nati di lì a poco, erano vetrine per opere di tutto il mondo. Si aprivano mercati. Commessi viaggiatori bussavano alla porta delle grandi distribuzioni per fare circolare film e affari. Gli affari si chiamavano business. Scivolavano incalzanti sulla diffusione della lingua inglese. Qualcosa, in anticipo sui tempi, era successo nell’immediato dopoguerra anche in Italia. Il regista che divenne la leva per una prima riscossa del nostro
cinema sul piano internazionale, al di là dei premi e dei successi critici dei film neorealistici, fu Blasetti, l’uomo che portava gli stivali nel fascismo e che non se li toglierà sul set neanche dopo la sua fine. A Blasetti fu affidato il compito di realizzare il primo kolossal negli anni della pace ritrovata, una co-produzione con i francesi, imponente e costosa. Il titolo era Fabiola e la trama era ispirata a quella di un romanzo scritto nel 1854 dal cardinale Nicholas Wiseman. Un salto nel passato che voleva essere un salto nel futuro, secondo le intenzioni di chi ci aveva investito, trovando il modo di mettere insieme nel cast il meglio del divismo francese e italiano, da Michèle Morgan a Gino Cervi, da Henri Vidal a Massimo Girotti. Soggetto del film: l’amore di un gladiatore proveniente dalla Gallia, convertito al cristianesimo, per Fabiola, figlia di un senatore che viene assassinato per ordine dell’imperatore. I cristiani vengono accusati del delitto e contro di loro si scatena la persecuzione, e la bella e generosa Fabiola passa dalla parte dei cristiani. In un periodo in cui il cinema italiano riusciva a coprire solo l’11% del mercato contro l’esorbitante 73% degli americani, il kolossal di Blasetti, che porta la data del 1949, ebbe un così strepitoso successo d’incassi che finì in testa alle classifiche. Il regista si era rituffato nei suoi trascorsi di celluloide, storie a metà strada tra popolari rappresentazioni e favole epiche. La vecchia formula aveva dimostrato di funzionare ancora. Ma non mancarono critiche severe. La colpa di Blasetti era intonata con le aspettative che circolavano, non era abbastanza vero, insomma neorealista. Alcuni critici cercavano il neorealismo laddove non l’avrebbero mai trovato. Sergio Leone non prendeva parte alle dispute, ma non nascondeva che pur piacendogli i film neorealisti non era proprio questo il tipo di pellicole che preferiva. Tra i film neorealisti e lo spettacolo, preferiva lo spettacolo. Per ragioni di età, di sensibilità ai linguaggi che soppiantavano quelli del vecchio cinema, pur evitando di fare il manicheo, Sergio avrà come obiettivo quello di trovare una sintesi nuova tra i lavori di De Sica, Rossellini, Visconti e proposte aggiornate, di grande valore artistico e spettacolare. Per costruire questa novità, l’autore di C’era una volta il West e di C’era una volta in America prendeva, rubava, afferrava da ogni parte senza problemi e senza prevenzioni, e cominciava a sentirsi più sicuro. Era persuaso di avere qualcosa da dire e diventò più intransigente nell’ottenere quel che gli spettava. In Frine, cortigiana d’Oriente dell’amico Bonnard non aveva firmato la sceneggiatura, ma pretese la firma nel 1958 per Afrodite, dea dell’amore, sempre di Bonnard. La concorrenza professionale fermentava, agitava gli animi. La bonarietà tradizionale di Cinecittà cedeva a una concorrenza a volte spietata, a tutti livelli. Tra produttori e autori. C’era una posta in gioco che non era mai esistita prima. Dopo Fabiola era accaduto l’imprevedibile. Sciami di americani, con il portafoglio gonfio di dollari, scendevano da Hollywood a Roma per fare profitto nel bacino di incassi e di manodopera a buon mercato. Denaro e
gigantismi. Roma aveva tutto per garantire kolossal grandiosi. Archeologia vera o finta, studi e tecnici capaci di improvvisare salti indietro nel tempo, maestranze e comparse che indossavano benissimo le tuniche romane. Uno di questi film fu Sansone e Dalila del leggendario Cecil B. De Mille, che divenne campione di incassi. Un altro, di Henry Koster, gonfiato nelle prime uscite del cinemascope, s’intitola La tunica, e venne girato proprio a Roma, interpreti Richard Burton (che tornerà nella città del Colosseo per Cleopatra e troverà l’amore con Liz Taylor) e Jean Simmons, sempre con le prime persecuzioni dei cristiani e i miracoli della fede. Fede & dollari. Cosmopoliti de Roma Cecil B. De Mille, il regista di Il segno della croce (’32), di Cleopatra (’34), di Sansone e Dalila (’49) e di I dieci comandamenti (’56), era il più grande autore di kolossal. A lui si ispiravano tutti coloro che, sull’onda di incassi davvero colossali, si spostarono da Hollywood per approdare a Cinecittà: da William Wyler per Ben-Hur (’59) a Robert Aldrich per Sodoma e Gomorra (’61) a Joseph L. Mankiewicz per Cleopatra (’63), insieme a un nugolo di divi e di attori. Il nome di De Mille evoca Viale del tramonto con Gloria Swanson che è del 1950. Norma Desmond attrice del muto in attesa di un ritorno, che non ci sarà, ai trionfi della gioventù, ricorderete, va a trovare il vero De Mille nella speranza di avere la sospirata parte del ritorno. E il regista, nel film di Billy Wilder, diventa il simbolo nello stesso tempo di morte e di vitalità del cinema. De Mille come Wyler, vent’anni più giovane, come Aldrich, anche lui più giovane di trent’anni, erano i riferimenti di un cinema spettacolare sapiente e stagionato. Quando Wyler e Aldrich arrivarono in Italia, nella Roma del secondo dopoguerra, dopo i Mervyn LeRoy di Quo Vadis? e altri nomi meno noti, il prestigio della fascinazione hollywoodiana era giunto al massimo livello. Tutto ciò sotto gli occhi sgranati di Sergio Leone e di quanti come lui erano attratti da qual cosmopolitismo della celluloide che si andava creando. C’è una scena che rende con immediatezza quel che stava avvenendo, mentre Sergio era ormai pronto per la regia. È una scena sul finale della Dolce vita di Fellini. Marcello Mastroianni, giornalista d’assalto nel mare di pettegolezzi fotografati dai paparazzi, accompagna Anita Ekberg, la diva dalle grandi forme, la «maggiorata» d’importazione, in uno di quei locali, ristoranti con musica, che vivevano una stagione di fama e guadagni lungo la via Appia, fra selciati pietrosi e allampanati pini a chioma. Qui, su un palco, un giovanissimo Adriano Celentano si scatena in una canzone rock che trascina tutti nella danza, prima di sedersi a tavola per godere i piaceri dell’italian food. Marcello e Anita ballano, e intorno a loro compaiono i volti barbuti, le teste fitte di boccoli, gli sguardi brillanti degli attori noti e meno noti che sono venuti a stancarsi di cibo e di rugosa mondanità per dimenticare le fatiche e i divertimenti dei kolossal in lavorazione a Cinecittà. Sergio viveva in questo ambiente, vario, travolgente, efficientista ed
esigente. I cineasti americani arrivavano, cercavano un ottimo albergo, ottime trattorie dove lasciare strascichi di foto ricordo. Cercavano collaboratori efficienti e disciplinati. Sergio fu tra i prescelti. Lavorerà con i registi più famosi tranne che con Mankiewicz, il regista di Cleopatra. Era ormai il 1963 e il figlio di Vincenzo, direttore artistico del cinema del muto, era già salito al piano dei registi. Nove minuti da cardiopalma Ma quali furono le ragioni per le quali Sergio era così ben visto dalla rumorosa, godereccia, semovente università di Hollywood? Il suo nome e il curriculum, la gavetta che aveva fatto, la capacità comprovata di far muovere le masse dei figuranti e delle comparse, deponevano a suo favore. Sergio era uomo di polso. Sapeva usare il bastone e la carota, colpire i riottosi con voce potente e blandire orde di popolo sfinite e accaldate sulle gradinate del Colosseo. In mezzo ai leoni e ai martiri cristiani. I registi si fidavano di lui nonostante il suo inglese non fosse perfetto. Anche quando lavorerà con Clint Eastwood, Henry Fonda, Eli Wallach, Rod Steiger l’inglese non migliorerà. Sergio seduceva i registi perché cercava con garbo le loro confidenze e ne estraeva, sempre rubando con lo sguardo, preziose indicazioni. Li andava a trovare nei camerini, portava contributi concreti, cercava alleanze, ispirazioni e strumenti tecnici di lavoro. Si era specializzato in scene di azione e s’intendeva alla perfezione con gli stuntman e gli addestratori di cavalli. Leone, grazie alla sua competenza, partecipò alle riprese di Ben-Hur, al fianco di William Wyler, per una delle sequenze diventate un pilastro nella storia del cinema: la corsa delle bighe e la lotta a colpi di frusta tra Charlton Heston e il suo rivale Messala, l’attore Stephen Boyd. Il film e la stessa sequenza dei cavalli erano un remake di un precedente Ben Hur del 1925. Il compito di Sergio, al servizio di Wyler – il regista di Vacanze romane –, era quello di contribuire alla riuscita dei nove minuti della corsa. Nove minuti girati con un ritmo da cardiopalma, con uno sfoggio di folgoranti soluzioni visive. Il giovane Leone doveva muoversi fra operatori legati alle bighe, tra gli zoccoli dei cavalli, le ruote delle bighe lanciate alla massima velocità. Doveva curare i primi piani, i raccordi tra un’inquadratura e l’altra. Doveva trasmettere gli ordini urlati del regista, sotto il fuoco dei riflettori che potevano scaldare il sole. Un inferno di cinema e di velocità, due mesi di prove e tre per le riprese. Nessun problema di budget: erano stati stanziati quindici milioni di dollari, una cifra altissima, impensabile per i film prodotti da Cinecittà. Per i nostri registi – da Riccardo Freda a Vittorio Cottafavi che si dedicavano allo stesso genere storico e mitologico – cifre assolutamente irraggiungibili. Ed ecco che, finite le riprese, partiti gli americani con i loro cassieri, Cinecittà recuperava le strutture costruite senza risparmio e le concedeva ai registi italiani per realizzarvi le loro opere. Riciclaggi che diventarono sistematici.
Capitolo 10 Rivolta
Nella mia infanzia, l’America era come una religione. Lo straordinario «melting pot», la prima nazione fatta di gente venuta da tutto il mondo… Poi gli americani in carne e ossa entrarono nella mia vita, con le jeep, e sconvolsero tutti i miei sogni. Erano venuti a liberarmi! Li trovai pieni di energia, ma anche molto ingannevoli… non trovavo niente che avevo visto… in Mandrake il mago dal cuore smisurato, o in Flash Gordon. Nulla – o quasi nulla – delle grandi praterie o dei semidei della mia infanzia. Sergio Leone in Sergio Leone Danzando con la morte di
Christopher Frayling Fra la lunga Guerra Fredda tra URSS e USA, la guerra di Corea (conclusasi nel 1953), la guerra nel Vietnam e in Indocina (perduta dai francesi ed ereditata dai marines nel 1964) il mondo continuava a cercare un suo nuovo assetto. Negli stessi anni un’altra guerra molto più blanda era in corso. Era la guerra al cinema degli studi di Hollywood, di Cinecittà e della sovietica Mosfilm, di Parigi, Londra e Berlino. Un cinema che non piaceva a una élite di giovani che volevano film meno falsi e spettacolari. Film a basso costo, aperti a storie più profonde, meno conosciute, più vicine a una sensibilità nuova, contrarie alle convenzioni e alla platealità spettacolare. Si agitavano le avanguardie di un movimento che in America sarà chiamato New American Cinema e in Europa, a Parigi, Nouvelle Vague, a Londra, Free Cinema. Il cinema bruciava di contraddizioni sempre più fiammeggianti. Andava dove produrre costava poco e le suggestioni erano molte. In nome della formula pagare meno e proporre viaggi turistici nella città museo per eccellenza, Roma, le task force di Hollywood avevano espugnato Cinecittà irrorando la città eterna di dollari e di whisky, riempiendo studi e alberghi di grandi divi e di registi esperti in kolossal. Che gli stessi giornali statunitensi definivano veri e propri polpettoni. Come risposta, Cinecittà inventava i suoi cavalli di Troia con produzioni più modeste che piacevano al pubblico d’oltreoceano e attiravano i dollari di un sogno americano affascinato dall’antiquariato romano. Roma tornava, riverniciandoli, ai fasti del muto. Ricomparivano, accompagnati da fragorose colonne sonore e con monumentali ricostruzioni di legno e cartone, eroi come Maciste e come Ercole. Muscoli lubrificati dal sudore e dal gusto della lotta contro la potenza hollywoodiana, in un’altalena sbalorditiva di titoli per la ripetitività e la fantasia: Maciste contro i mostri, Maciste nella valle dei re, Maciste contro i mongoli; e, per quanto riguarda Ercole, una catena di film body building: Ercole alla conquista di Atlantide, Ercole contro i tiranni di Babilonia, Ercole e la regina di Lidia, e così via a bicipiti gonfiati. Questa guerra di celluloide era in verità una facciata destinata a crollare presto come mura di cartone. Lo spettacolo di celluloide e di cartapesta consumava un declino momentaneo nella apparente apoteosi di un revival dell’ultrapassato, per preparasi a ripartire soprattutto in America con altre formule e altre proposte gradite dal pubblico di massa. Scomparirà, o quasi, il western americano, verrà la fase dell’Invasione degli ultracorpi, il film di Don Siegel, che avrà mille imitazioni, dovunque. Si aprirà un nuovo cammino di spettacolo fino a quando arriveranno più tardi, negli anni ’80 e ’90, i film di George Lucas e Steven Spielberg, e con loro arriverà la nuova fantascienza delle guerre stellari e di ET; e poi, la fantasy, gli effetti speciali, i film apocalittici. A Hollywood, lo spettacolo doveva a ogni costo continuare, e continua fino ai giorni nostri sempre con nuove trovate e risorse. Una sola parola è indispensabile: stupire. In Europa, mentre Cinecittà giocava con Maciste ed Ercole, si stava
scatenando intanto un’altra guerra che avrebbe contribuito a cambiare il volto del cinema una volta e per sempre. A Parigi, negli studi di Billancourt, e soprattutto in esterni per strade e piazze, scendevano metaforicamente in piazza i critici, che si trasformarono in breve tempo in registi aggressivi, colti, abili, persino presuntuosi. Erano le firme dei «Cahiers du cinéma», una rivista dai giudizi perentori e definitivi. Erano i rivoluzionari della Nouvelle Vague, che prendevano la macchina da presa, la più leggera in commercio, arruolavano volti nuovi e tecnici disposti all’avventura, organizzando bande di cineasti indipendenti che si mettevano in guerra, anzi in guerriglia contro il cinema ritenuto troppo falso, troppo vecchio, troppo gonfiato, insomma il polpettone dei polpettoni. Premesse nel cinema della contestazione del Sessantotto che si avvicinava. I nomi principali di questo movimento erano François Truffaut, Jean-Luc Godard, Alain Resnais, Eric Rohmer e Jacques Rivette. A loro si uniranno progressivamente i brasiliani con Glauber Rocha, i paesi dell’Est con Miloš Forman e István Szabó, gli inglesi con Tony Richardson e Carel Reisz, gli spagnoli, gli argentini, i cubani, una lunga teoria di contestatori del ciak. In Italia, partecipavano alla guerriglia, ognuno per proprio conto, Marco Ferreri, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Paolo e Vittorio Taviani, Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani. Sergio Leone non partecipava, e non per ragioni d’età e di generazione. Aveva poco più di trent’anni – Pasolini nel ’60 ne aveva 38, Ferreri 32 – ma per formazione e mentalità era diverso, meno disponibile alle proteste e alle parole d’ordine estetiche o ideologiche. Lo si considerava irrecuperabile: nei suoi film troppi pepli, pettorali possenti, corazze, spade, scollature matronali, baci al veleno, sangue e congiure di palazzo. Il ballerino Dovrà passare del tempo perché Leone, a differenza di tanti altri registi impegnati a mangiar pane, companatico e professionalità grazie al cinema storico-mitologico, possa essere compreso e accettato. Accadrà quando a tutti sarà chiara la forza che Leone aveva tratto dal suo lavoro silenzioso e umile, unito a un grande amore per i classici del cinema che valorizzavano lo spettacolo, non importa se italiani o americani. Sergio che aveva convinto De Sica e Soldati, convinse allo steso modo Raoul Walsh, venuto in Italia per realizzare insieme a Robert Wise Elena di Troia, e altri maestri di Hollywood. Walsh, che veniva dal muto come Vincenzo, il padre di Sergio, adorava il giovane Leone che era diventato suo complice sul set e fuori, tra ristoranti, donne e risse. Meno entusiasta, ma sempre conquistato dalla simpatia del giovane, era Fred Zinnemann, che lo portò con sé in Africa nel 1958 per La storia di una monaca. Il rigoroso regista di origine austriaca come Billy Wilder ricordava che Sergio si distingueva soprattutto per una incontenibile passione per il ballo, oltre che per il cibo, e talvolta si addormentava durante le riprese. «Avrebbe potuto trovare un buon ristorante nel Congo, anche senza avere
indicazioni», disse l’autore di Mezzogiorno di fuoco, western con Gary Cooper e una giovanissima Grace Kelly, uno dei più memorabili e meglio confezionati, caro a Leone. Tra i molti film western americani Mezzogiorno di fuoco fu infatti uno dei principali punti di riferimento quando Sergio, mandati in soffitta pepli e storie antiche, scelse i cavalli, i cappelloni dei cowboy, i saloon. Anni dopo, Zinnemann, che non volle, o non riuscì, a vedere il western di Leone C’era una volta il West, rifiutò di fare commenti. Non gli piacevano i western italiani, anche se C’era una volta il West conteneva un omaggio a lui e al suo Mezzogiorno di fuoco. Un altro rapporto importante con un protagonista del cinema, Sergio lo ebbe con Orson Welles che si era trasferito in Italia, stanco degli ostracismi dei produttori di Hollywood per l’insuccesso dell’Orgoglio degli Amberson, film successivo a Quarto potere; e dopo la rottura con la moglie Rita Hayworth, dovuta alla esperienza fallimentare del film che avevano fatto insieme, La signora di Shanghai. Welles recitava in film come Il principe delle volpi, nel ruolo di Cesare Borgia, a scopo puramente venale, come riconosceva lui stesso. Girava velocemente le scene a lui destinate, si faceva pagare e correva dalla moglie italiana Paola Mori, da cui avrà una figlia. Contemporaneamente, su set improvvisati qua e là nella penisola, cercava di portare a termine Otello, il suo nuovo film, investendoci i soldi guadagnati come Cesare Borgia. La limousine Sergio Leone avvertì il fascino di Orson Welles, che amava godere l’arte, la cultura e i piaceri della vecchia Europa, come accadeva per l’americano più giramondo di tutti, Ernest Hemingway. Di entrambi sono rimaste tracce italiane dovunque, in particolare all’Harry’s Bar di Venezia o all’Hotel de la Ville di Roma, foto con dedica, in compagnia di intellettuali e di belle signore. A sua volta Welles era conquistato dal fascino di Sergio e cercò di farselo amico. Aveva assoluto bisogno di amici e di favori, per mantenere la sua esistenza dispendiosa e per l’Otello. Gli chiese di procurargli degli attori. Uno di questi doveva avere la testa robusta e lo sguardo autoritario. Sergio si diede da fare, cercò, e alla fine si presentò con un uomo che assomigliava in tutto e per tutto a Benito Mussolini. Welles ne fu felice. Lo scritturò subito. Fu il sosia di Benito. E fu felice anche il giovane italiano che si sentiva onorato dell’amichevole fiducia di un genio irresistibile come Welles. Stavano spesso insieme, Welles gli telefonava e lo invitava a cena, e qui lo incantava con racconti, piccoli e grandi. Sergio apprese da lui che il regista di Quarto potere prima di avere successo si era adattato a fare l’astrologo e il prestigiatore in locali di infimo ordine. In cambio Welles voleva ascoltare dall’amico qualche pungente retroscena dei kolossal che si stavano girando a Cinecittà e che giudicava malissimo. Si sentiva superiore a Wyler e a Wise. Era un allegro megalomane che, circondato da rispetto e ammirazione, pretendeva attenzioni speciali. Durante le riprese dell’episodio La ricotta di Pasolini (1963) inserito nel film
Ro.Go.Pa.G. – Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti – pretese di essere trattato dalla produzione come una star. Nell’episodio interpreta con sapiente astuzia il personaggio di un regista che sta girando a Cinecittà uno di quei film che odiava, i kolossal, realizzati dai colleghi americani, spesso parodie della Storia. Ogni mattina il grande regista si rifiutava di presentarsi sul set se non c’era davanti alla porta girevole dell’Hotel de la Ville una limousine che lo portasse a Cinecittà. Una mattina non la trovò, e risalì in camera. Poi, arrivata la macchina, protestò con gli italiani che sono sempre in ritardo. In realtà, Welles si divertiva un mondo lavorando in mezzo alle smagliate troupe romane in cui figuravano personaggi coloriti che parlavano solo in dialetto e si preoccupavano di mangiare il più possibile nelle pause. Gli piaceva la storia inventata da Pasolini, una delle sue cose migliori, che è la raffinata caricatura dei registi dei film storico-religiosi-mitologici che stavano soffocando il cinema italiano. Nella Ricotta, una comparsa di nome Stracci muore in croce dopo essersi ingozzato di ricotta. Era una di quelle comparse che Sergio aveva guidato per anni, una tra le migliaia e migliaia che si mettevano in fila davanti a Cinecittà, come se fosse la Caritas, per entrare nel film. Si trattava di comparse che saranno spazzate via lungo gli anni ’60 a causa dei nuovi film a basso costo che voltavano le spalle alle masse e venivano girati in appartamenti o in ville, senza cornice né contenuto spettacolare. Sodoma e Gomorra Basso costo e guerriglia degli autori più giovani, i figli italiani della Nouvelle Vague o del Free Cinema, una rivolta pervasa da un sentimento punitivo per il grandioso, il maestoso. Si voleva colpire l’esagerazione, ma si sottovalutava che quel cinema tanto odiato viveva di grossi investimenti e incassi, e in mezzo a questo tintinnio capitava che uscissero i soldi, pochi, per film di qualità o di esordienti. Sergio osservava senza partecipare. Lavorava. Non frequentava assemblee bollenti di rivendicazioni. Vedeva circolare prese di posizione giuste contro il conformismo e la rapacità di certi produttori, stimoli positivi, utili indicazioni estetiche, ma non era una forza che gli scaldasse il cuore e gli accendesse la mente. Ne diffidava. Si sentiva più vicino a Elio Petri (che vincerà l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), a Francesco Rosi (ex aiuto regista di Visconti che farà film straordinari come Salvatore Giuliano o Le mani sulla città), e in misura molto minore a Franco Zeffirelli (anche lui ex aiuto di Visconti e destinato alla lirica e al teatro, autore di La bisbetica domata con Liz Taylor e Richard Burton), insomma, a quei registi che non s’irritavano di fronte allo spettacolo e anzi cercavano di farlo. La guerriglia nel cinema italiano si quietò subito. Il bavaglio lo mise lo Stato con i primi governi di centrosinistra nel 1965 con un’apposita legge sul cinema in cui erano presenti articoli per finanziare le opere prime e la prove sperimentali.
Così, nei fatti, per il cattivo impiego delle sovvenzioni, vennero messe le basi per un cinema incapace di resistere alla concorrenza straniera ed esistere sul mercato interno o internazionale. Ci volevano ben altri provvedimenti e ben altro rigore nelle scelte da parte dei partiti che presero a spartire le risorse fra i rispettivi simpatizzanti. I bagliori di via Veneto, dove i politici e i divi si mescolavano, si sforzavano di creare una situazione brillante e vivace. Dominava una Roma da Sodoma e Gomorra all’acqua di rose, con lo scandalo enfatizzato per lo spogliarello di Aïché Nanà in un locale di Trastevere pieno di attori in cerca di eccitazioni. C’era anche Anita Ekberg chiamata da Fellini per La dolce vita. Uno spogliarello sguaiato e rozzo che fu fotografato dai paparazzi e distribuito con lucrosa morbosità sui rotocalchi. Il cinema era il polo delle attrazioni e tutti erano interessati a spargere odore di zolfo, per eccitare le ingenue fantasie degli spettatori. Sergio Leone stava al gioco allo stesso modo di tutti. Ma gli piaceva l’immagine un po’ pittoresca che ne davano la cosiddetta Hollywood sul Tevere, inventata da due agenti americani che si erano precipitati a Roma attratti dagli affari promettenti garantiti dal divismo. Esperti e intelligenti, Hank Kaufman e Gene Lerner avevano capito che col cinema si poteva guadagnare come nella vera Hollywood curando i rapporti, i contratti, le serate degli attori americani famosi ma anche di Anna Magnani. Fu una lezione per i press agent italiani. Enrico Lucherini tolse squallore e polvere a quelli esistenti, e da attore qual era diventò uno dei più attivi e inventivi. Si scatenarono i rotocalchi e i paparazzi, i furbi e i profittatori. Il sesso era la ruota che faceva girare il cinema. Fellini guardava, annotava, riscriveva per il suo grande romanzo per immagini, La dolce vita. Gli occhi rapaci e gli obiettivi dei paparazzi di via Veneto cercavano Sergio Leone e le sue avventure mondane. Al giovane regista piaceva dare spettacolo, ma senza troppa vanità, con belle ragazze. Aveva conosciuto una attraente e selvaggia Miss Somalia con la quale si faceva vedere in giro. Usciva con attrici più o meno famose e con qualche attricetta. I pepli erano scesi nei night, mete notturne di Cinecittà, ed erano più leggeri e trasparenti. Erano giochi senza futuro. Finché non arrivò l’amore. Si chiamava Carla Ranalli, era una ballerina classica. Si erano visti una prima volta quando lui aveva diciannove anni, lei sedici ma ne dimostrava meno. Usciva con un amico di Sergio al quale lo stesso Sergio disse di essere sicuro che qualcosa non doveva andare nel loro rapporto, e infatti apprese con sollievo che lei resisteva a ogni avance con decisione. Carla e Sergio si persero di vista. Per dieci-undici anni. Quando si ritrovarono, la futura signora Leone fu esplicita. Nel primo incontro Sergio non le era piaciuto perché indossava camicie troppo sgargianti e si pavoneggiava. Casuale fu anche il secondo incontro. Carla passava in auto a prendere gli invitati a una festa per portarli da un amico comune. Sergio si fece trovare puntuale all’appuntamento in via Veneto accompagnato da un’attrice molto vistosa, una donna «davvero stupenda, grande due volte me» dirà la stessa Carla; ma, invece di sedersi nel sedile posteriore insieme alla bellissima
accompagnatrice, insistette per accomodarsi accanto a Carla che era al volante. E non la lasciò più. Alla festa, Sergio continuò a parlarle per tutta la sera, facendo sfoggio di simpatia e di autoironia. Forse perché non portava più quelle brutte camicie multicolori, forse perché riuscì a raccontare brillantemente storie umoristiche sul cinema e sul lavoro, o perché si disse disposto ad assistere – lui che non li amava – ai balletti e alle opere in cui Carla si esibiva, il risultato fu che pochi mesi dopo Sergio le chiese di sposarlo. Sergio si recò a Torella dei Lombardi, dal padre Vincenzo per avere la sua approvazione. Gli mostrò una fotografia. Vincenzo assentì: «Ha un’aria intelligente, sono d’accordo con te».
Capitolo 11 Grandi seni e piccoli film
I film nascono in me sempre da un’immagine, poi cerco di documentarla e di essere il più possibile aderente al preciso momento storico che io voglio riproporre. Sergio Leone a «La rivista del , gennaio 1967 Tra la foresta di muscoli dei Maciste e degli Ercole che si davano il cambio a Cinecittà, un’esposizione lussureggiante di corpi femminili arricchiva la vetrina della Hollywood sul Tevere. Accanto alle «maggiorate» di Pozzuoli, come la Loren, o di Subiaco, come la Lollogrida, arrivavano sciami di aspiranti attrici da ogni parte del mondo, sognando i pepli dell’antichità, o meglio di toglierseli, e le feste di una Roma provvisoriamente capitale del cinema in Europa. Arrivò tra le altre dalla Francia Brigitte Bardot, sottile e piena di curve. Una ragazzina. Era accompagnata da Roger Vadim, allora aiuto regista e suo scopritore in tutti i sensi (fu il primo amore completo per Brigitte). Andare a Roma voleve dire fare parte di una élite che si era già formata ed era aperta per i quartieri alti del cinema e delle feste solo a selezionatissime, provocanti bambole da sballo. Brigitte si vide per un attimo in Elena di Troia, sovrastata dalla circonferenza toracica della vistosa Rossana Podestà, e poi qualche minuto in più nel 1958 in Mio figlio Nerone, con Gloria Swanson, la leggendaria protagonista di Viale del tramonto e con Alberto Sordi. Arrivò anche, benché tutti pensino che sia sbarcata a Fiumicino solo per l’invito di Federico Fellini che la voleva per La dolce vita, la bionda svedese Anita Ekberg. La Ekberg, monumentale com’era, con un volto ingenuo, con gli occhi blu, e soprattutto con vestiti che lasciavano vedere il suo grande seno, si faceva
notare in modo particolare. Due definizioni le apparterranno a vita. «Bella bisteccona», come dice il giornalista della RAI che va a filmarla all’arrivo a Fiumicino nella Dolce vita, mentre scende dalla scaletta dell’aereo. «Mammifero di lusso… ma senz’anima», come sussurra un giovanissimo Lando Buzzanca alla fidanzata bruttina nel film di Pietro Germi, Divorzio all’italiana. Il «mammifero di lusso» è proprio Anita, scatenata nel rock con Adriano Celentano sempre nel film di Fellini; e lascia a bocca aperta i maschi accorsi in massa nel cinema di un paesino siciliano. Anita, ribattezzata anche Anitona, fissò nell’immaginario cineturistico di Roma un’impronta indelebile per la scena del suo bagno nella Fontana di Trevi. Marcello Mastroianni si toglie le scarpe e la raggiunge – «Vengo anch’io. Ma sì, hai ragione sto sbagliando tutto, stiamo sbagliando tutti» – mentre la fontana fattasi silenziosa assiste con noi spettatori al bacio tra i due attori. Un’altra scena che trasforma Anita in un’icona al di là del tempo è quella di Boccaccio ’70. L’attrice, seno in primo piano, scende dal manifesto «bevete più latte» dove è mollemente adagiata e va incontro, provocatrice, verso lo scandalizzato Peppino De Filippo, moralista d’assalto. La sfilata dei seni, memorabile in quegli anni, aveva trovato così la sua protagonista senza rivali. Anita era già venuta a Roma un anno prima della Dolce vita per prendere parte al film di Guido Brignone, già autore di alcuni Maciste, intitolato Nel segno di Roma, a cui collaborò Sergio Leone come soggettista e sceneggiatore sempre più deciso a farsi accettare nel gruppo degli autori di una pellicola. Per un aiuto regista che mordeva il freno si trattava di un ulteriore passo avanti e di un’occasione per farsi conoscere in una co-produzione internazionale destinata a essere esportata nel mercato americano. Il film, soprattutto, gli diede una preziosa opportunità: osservare come lavorava Michelangelo Antonioni, che aveva diretto i suoi primi film come Cronaca di un amore, I vinti, La signora delle camelie, Le amiche, Il grido, realizzati in un periodo compreso fra il 1950 e il 1957. Antonioni collaborò al film girando gli interni, e un altro regista che diventerà di culto molti anni dopo, Riccardo Freda, girerà le ultime scene. Fu un caso di emergenza – la malattia di Brignone – a indurre Antonioni, per nulla vicino ai kolossal, a collaborare al film, dirigendo il divo francese Georges Marchal anche lui muscle boy, il biondo e glabro Jacques Sernas, presenza costante nel cinema italiano d’allora, la vecchia gloria Gino Cervi e la Ekberg, oltre a Chelo Alonzo, danzatrice cubana, naturalmente procace. Anita interpreta la regina Zenobia che si è ribellata a Roma e sconfigge il console Marco Valerio costringendolo a lavorare come schiavo. Marco Valerio riesce a fuggire, torna e si presenta alla regina per offrirle i suoi servigi. Tradirà. Aiuterà i romani a vincere, poi a sua volta smaschererà un traditore della regina e s’innamorerà di lei, Zenobia. I critici considerarono il film contorto nella trama ma dignitoso. Anita fu giudicata bella, impacciata, acerba; e continuerà a esserlo. Una curiosità. Quando la pellicola venne proiettata in America il titolo era stato cambiato in Sign of the Gladiator. Ma i gladiatori non potevano dare alcun segno perché non c’era un’immagine che li mostrasse in azione. Il «New
York Times» scrisse: «La cosa più profonda del film è la scollatura di Anita Ekberg». La scollatura di Anita non fu la sola risorsa del film a colpire la stampa americana. Contribuì anche Chelo Alonzo, la cubana proveniente dalle Folies Bergère, che in una scena indimenticabile dello stesso film si esibisce in un flamenco, concludendolo con le carezze a un enorme pilastro di marmo rosa. Gli esperti furono d’accordo sulle carezze e sul pilastro, tuttavia non nascosero qualche dubbio sull’esistenza del flamenco nel 270 dopo Cristo. Coturni da ginnastica Antonioni aveva accettato di sostituire Brignone alla regia perché aveva dei debiti e aveva assoluto bisogno di guadagnare. Con Monica Vitti, sua compagna, si preparava a realizzare i futuri successi: L’avventura, La notte, L’eclisse, che lo faranno conoscere in tutto il mondo. Leone aveva le sue buone ragioni per rubare il mestiere al grande regista, che si era adattato al genere di film in cui Sergio si era creato una certa competenza. Il suo obiettivo era chiaro: togliersi dalla morsa di un mestiere subalterno, quello di aiuto regista, che non gli bastava più. Non voleva correre per tutta la vita dietro le comparse vestite da antichi romani per vedere se avevano l’orologio al polso o se indossavano le scarpe da ginnastica invece dei coturni, tutti errori e gaffe puntualmente denunciate da spietate spie della critica e dai cacciatori di curiosità. Di queste amenità, che provocavano le ire dei registi contro i loro più diretti collaboratori, il giovane Sergio sentiva di poterne fare a meno. C’era poi un altro aspetto da valutare. Gli piaceva architettare un soggetto e dedicarsi alla sceneggiatura, insieme agli altri. Scrivere per il cinema era un lavoro collettivo, Sergio ne era consapevole e il confronto con sceneggiatori di talento gli piaceva molto. A quel tempo le firme degli autori nei titoli di testa erano numerose. Non esisteva l’abitudine, oggi in gran voga, di inserire il cartello «film scritto e diretto da» in testa agli stessi titoli. Cartelli del genere provavano ancora una volta la diversa concezione del cinema e del ruolo dell’autore dopo la guerriglia contro il vecchio cinema dei produttori e dei distributori che comandavano le sorti di un film, dai contenuti ai titoli di testa. Gli autori stavano vincendo una sacrosanta battaglia. Ma i diritti ottenuti in molti casi si trasformeranno in abusi o camuffamenti. Nel segno di Roma, peraltro grande successo d’incassi in Italia, significava per Sergio continuare nel cammino intrapreso con Afrodite, dea dell’amore dell’amico, padre padrino Mario Bonnard. Proprio con Bonnard doveva esserci un altro, fruttuoso incrocio. Il produttore Paolo Moffa incaricò Bonnard di dirigere Gli ultimi giorni di Pompei. Per la settima volta tornava sugli schermi il ponderoso e fortunato romanzo di Bulwer-Lytton edito nel 1834 e pubblicizzato con grandioso tempismo da un’eruzione del Vesuvio subito prima dell’uscita del libro. L’autore racconta che a Pompei nel 79 dopo Cristo l’ateniese Glauco deve superare molte prove – tra cui un’ingiusta condanna a morte – per strappare
l’amata Jone alla cupidigia del malvagio Arbace, potente sacerdote di Iside. Ci riesce con l’aiuto di Nydia, schiava cieca. Il Vesuvio esplode, lanciando lapilli e fiumi di lava e seppellisce Pompei. Sotto la furia della natura muore il perfido Arbace e i tre giovani (Glauco, Jone e Nydia) si salvano su una zattera, ma Nydia, disperatamente innamorata di Glauco, non resiste e annega. Nel film prodotto da Moffa, e sceneggiato da Leone con Ennio De Concini, Duccio Tessari e Sergio Corbucci più Luigi Emmanuele, le varianti sono: Glauco diventa un centurione romano e Jone diventa cristiana, vengono introdotte le catacombe e le persecuzioni dei cristiani, mentre il Vesuvio, dopo aver brontolato un poco, si stira e si sveglia definitivamente lanciando su Pompei la sua maledizione di fuoco e cenere. Glauco e Jone se ne vanno in barca verso il mare aperto, senza Nydia. Nel ruolo di Glauco c’è Steve Reeves, non più Ercole. Stuzzicadenti Steve Reeves era uno di quei ragazzi che avevano capito bene le possibilità che si aprivano ai corpi robusti, specie se guizzavano sotto a volti bellocci e levigati. Di queste importazioni verso l’Italia se ne sono contate parecchie, in anni più recenti. Si pensi ai corpi più sottili e più acerbi dei ragazzi scritturati per le sfilate di moda a Milano negli anni ’80, quando furoreggiavano Versace e Armani. Quando Leone seppe che doveva usare l’ex Mister America, l’ex Mister Mondo, l’ex Mister Universo – Reeves era stato tutto questo – pronunciò una battuta rivelatrice: «Adesso ci tocca cambiare tutto. Pensavo per il ruolo di Glauco a un uomo intelligente e riflessivo che era però anche un uomo d’azione». In effetti, Leone cambiò tutto, anche perché Bonnard, colpito da gravi disturbi di fegato non appena arrivato in Spagna per girare gli esterni, aveva dovuto cedere la produzione al suo allievo. La prima cosa che fece il neoregista fu quella di inserire nel film alcune scene in cui Mister Muscolo lottava con i coccodrilli e sollevava una colonna del tempio come se fosse uno stuzzicadenti. Con Steve Reeves, ci furono molti problemi. Ad esempio, come farlo stare in sella. Saliva e scivolava regolarmente dall’altra parte, cadendo. Dovettero mettere le briglie al suo corpo ingombrante e scivoloso per consentirgli di guidare destrieri che erano stati adeguatamente istruiti e avevano inghiottito zollette di zucchero e tranquillanti. Sul set si lavorava e si giocava, sempre con un pensiero di simpatia verso il povero Bonnard. Sergio se l’intendeva con la sua nuova banda in cui erano entrati l’operatore Enzo Barboni e Franco Giraldi, un giovane regista che sotto nome americanizzato realizzerà alcuni «spaghetti western», e con gli altri del gruppo, da Corbucci a Tessari. In un certo senso, gli amici stavano da un lato a Pompei sotto il Vesuvio e dall’altro, con la testa, già viaggiavano nelle sterminate praterie del West, fra mandrie di bisonti, bounty killer, praterie. Terre, mandrie e pistole che dalle
fantasie americane sarebbero atterrate nelle secche e sperdute località spagnole, e soprattutto nell’andalusa Almería. Giocando con Steve, che faceva del suo meglio per soddisfare il neoregista, Gli ultimi giorni di Pompei risultò più che ben risolto formalmente, era una sorta di kolossal hollywoodiano minore. La pubblicità non lesinò nell’enfasi, specie in America: «Vedrete le mascelle spalancate degli alligatori, pronti a maciullare la carne nel pozzo della morte… i martiri cristiani gettati nelle fauci di leoni famelici… l’orgia sfrenata di una Pompei abbandonata all’ubriachezza e alla dea Iside… il massimo dello spettacolo». Sorrideva Leone nel leggere cose simili e le straordinarie notizie sugli incassi lo rincuoravano. Un film di successo per un regista significava metterne in cantiere subito un altro. Infatti, il produttore Moffa era felice e si compiaceva di avere avuto l’idea, nonché di ricevere i complimenti di una organizzazione cattolica, l’Opus Dei, che aveva partecipato al finanziamento della pellicola. Questa partecipazione, secondo gli storici, avrebbe potuto spiegare lo spettacolo insistito con i massacri dei cristiani nelle catacombe e nelle celle delle prigioni. Sine qua non, siamo qua noi Gli ultimi giorni di Pompei non figura nella filmografia di Leone. Lo stesso regista precisò che non l’aveva progettato e concepito da solo, ma che l’aveva coordinato e condotto a conclusione con i suoi due aiutanti, Sergio Corbucci e Duccio Tessari. È andata senz’altro così ma, per un certo periodo, fino alla riedizioni degli anni ’80, la direzione del film è stata attribuita a Sergio Corbucci, poi di nuovo a Leone e persino a Mario Bonnard. «Avevo trent’anni e non m’importava, il produttore mi aveva detto con chiarezza che il film sarebbe stato presentato come un lavoro interamente di Bonnard», disse Leone. Il neoregista aveva nuovi progetti per la testa. Intanto, si avvicinava la data del matrimonio con Carla, e il desiderio di avere subito un figlio che sarà una figlia, Raffaella, e nascerà nel 1961. Gli ultimi giorni di Pompei era servita alla coppia per scegliere e pagarsi la luna di miele. Bisognava guardare avanti e affrontare il progetto che sempre il produttore Moffa gli offrì, il vero debutto alla regia, Il colosso di Rodi. Moffa era contento di come Sergio si era saggiamente comportato, trovava giusto che gli si offrisse l’opportunità finalmente di veder scritto nei titoli di testa la dicitura: regia di Sergio Leone. Lo spunto da cui partì la scelta del soggetto venne determinato da circostanze che risultarono abbastanza strane. Moffa mostrò al suo regista una rivista illustrata di storia popolare che si chiamava «Le sette meraviglie del mondo». Una di queste meraviglie era la statua di Apollo che si trovava vicino al porto di Rodi fra il 280 e il 224 avanti Cristo, prima di essere distrutta da un terremoto. Poteva essere la base. Leone cominciò a fantasticare sull’idea. Prese delle decisioni. La vita della statua venne abbreviata. La storia comincia con l’inaugurazione nel 280 avanti
Cristo e si chiude con il terremoto appena qualche settimana più tardi. Fu aggiunta una trama su un tirannico re di Rodi, contrastato da ribelli greci. Infine, il «colosso» venne portato da 30 a 110 metri di altezza e fu trasformato in una prigione politica segreta e in camera delle torture. Leone scriveva con gli amici De Concini, Corbucci e Tessari e coinvolse anche altri, tutti quanti disponibili a inventare soluzioni sempre più intricate e complesse. Alla fine, ci fu un primo testo da rivedere, mentre partiva la costruzione dell’imponente scenografia. Uno dei soci del produttore Moffa, che ignorava il precedente della rivista «Le sette meraviglie del mondo», chiese un colloquio con il regista e gli domandò: «Mi dica, Leone, chi farà il colosso?», riferendosi all’attore da scegliere. Leone rispose: «L’architetto, naturalmente». Il suo interlocutore non volle credere alle sue orecchie e sussurrò ansioso: «Che architetto?». Leone, paziente, replicò: «L’architetto che ha costruito la statua». «Ma quale statua?», domandò in preda a convulsione il socio di Moffa: «Il colosso di Rodi. È una statua», rispose Leone. Il socio cominciò a urlare: «Sono rovinato. Tutti quei soldi buttati in un film che parla solo di una statua. Siete pazzi. Potevamo avere Steve Reeves e lei mi parla di statue». Questo era il cinema del miracolo economico. Grandi ambizioni, grandi imprese, grandi gaffe. A un produttore italiano alle prese con seri problemi economici e di tensioni sul set di un film storico di cartone, i giornalisti chiesero che cosa intendesse fare. Il produttore senza pensarci tanto su rispose: «Non preoccupatevi. Sine qua non, siamo qua noi». Anche questo era o è cinema.
Capitolo 12 Un genio
Io le scene cruente le faccio ma non amo farle. E quando le faccio però prendo tutte le debite cautele perché non accada niente a uomini e animali… Io mi sono formato alla scuola neorealista e per me la morte è qualcosa che bisogna andare a vedere, non da prendere alla larga. Solo guardando da vicino la morte e facendo vedere il danno che provoca un’arma o un proiettile si può far capire la violenza per frenarla, arginarla. Sergio Leone in L’avventurosa storia del cinema italiano Sergio Leone affrontò Il colosso di Rodi con il sorriso sulle labbra. Del resto, allora più che mai la parola d’ordine circolante a Cinecittà e dintorni, per esorcizzare tensioni, era sempre e comunque «divertirsi». Sul set era meglio presentarsi dopo aver preparato un repertorio di battute folgoranti, un po’ per difendersi da quelle degli altri e un po’ per attaccare prima di essere attaccati. Tanto un pizzico di cattiveria sarebbe toccato a tutti,
e bisognava essere pronti. A questo obbligo non scritto, ma severissimo, Leone si atteneva con prudenza, preferendo alle battute o battutacce distensivi e mordaci racconti a tavola. Uno di questi racconti riguardava proprio l’impagabile socio di Moffa, anche lui produttore del Colosso di Rodi, sulla cui identità Sergio e amici, continuarono discretamente a non esprimersi. Il signore che sperava di far interpretare il ruolo del colosso al dolcissimo culturista Steve Reeves, era uscito dall’incontro con il regista completamente sconvolto, in uno stato di acuta disperazione. Ci voleva un’idea per tranquillizzarlo e riprendere serenamente la preparazione del film. La grande idea di Leone si condensò in un interrogativo lì per lì improvvisato per il simpatico e ignaro produttore associato: «Le piacerebbe che il colosso camminasse sull’acqua e sopra il porto? Magari schiacciando la gente sotto i piedi?». Il produttore rimase folgorato dalla proposta e cambiò subito umore; sospirò di sollievo e disse: «Lei è un GENIO, siamo salvi». Fu così che il debuttante ottenne carta bianca per realizzare il miracolo della passeggiata sull’acqua e nel porto sull’ondata tumultuosa delle comparse. Il socio di Moffa si diede da fare per utilizzare al meglio i mezzi finanziari, abbastanza considerevoli, e per trovare quelle che vengono chiamate in gergo le location, ovvero i luoghi delle riprese. Leone aveva ottenuto esterni spettacolari come un magnifico porto spagnolo nel golfo di Biscaglia. Teneva molto a realizzare al massimo le sue aspirazioni creative, comprese quella di rendere omaggio all’amato Alfred Hitchcock, riadattando la famosa scena d’inseguimento del film Intrigo internazionale girata con Cary Grant sul Monte Rushmore, dove i Presidenti degli Stati Uniti sono effigiati come giganti o colossi nella roccia. Nell’omaggio la scena doveva essere evocata in una situazione ovviamente diversa. Ossia, per il combattimento a colpi di spada con cui i soldati uscivano dalle orecchie del colosso e correvano in equilibrio sulle sue braccia. Sergio pensava in grande, citando un maestro del cinema, forse per provare a se stesso che finalmente in autonomia, avendo carta bianca, poteva avvicinarsi alla potenza e alla qualità del cinema del padre Roberto Roberti, nei suoi anni migliori. Ma non aveva fatto i conti con l’attore americano John Derek. Derek era noto per aver preso parte, nel ruolo del tagliatore di pietre spadaccino, a uno dei kolossal di Cecil B. De Mille, I dieci comandamenti. Aveva sposato Ursula Andress, l’attrice svizzera, che sarà la protagonista del primo film su James Bond – Agente 007, licenza di uccidere del 1962 –; e sposerà successivamente Bo Derek, altra donna molto bella, meno affascinante e brava di Ursula. I produttori avevano indicato al regista l’attore che si considerava un divo di Hollywood ed era molto ambizioso, per assegnargli il ruolo di Dario, un ateniese in vacanza a Rodi nel III secolo avanti Cristo. Il turista viene coinvolto in una rivolta contro re Serse costruttore del colosso e non si godrà i giorni di ferie. Si verificherà un disastroso terremoto in cui il colosso finirà in briciole. A Leone, fin dal primo incontro, questo Derek, bel giovane damerino dall’aria arrogante, non era piaciuto, soprattutto perché si credeva così
importante da sentirsi autorizzato a dare, fin dai primi contatti, consigli di regia non richiesti. Stanca nonchalance L’antipatia reciproca e le indebite intrusioni del presunto divo si aggravarono quando, ancora in una fase preparatoria del film, Derek venne sorpreso da Leone mentre mimava per proprio conto gesti con le dita come se stesse inquadrando una scena da girare. Lo affrontò sull’istante e l’attore si mise, compiaciuto, a esternargli dubbi e suggerire soluzioni. Scatenò l’inferno. Sergio gli disse che la questione di «chi fosse il regista» non era cosa che lo riguardava e che il suo mestiere era quello di fare solo l’attore, concludendo in modo categorico: «La regia è il mio modo di guadagnarmi da vivere, non il tuo». Il secco scambio di opinioni si trasformò in vera e propria crisi durante le prove di una scena di battaglia. Il presunto divo si scagliò contro il maestro d’armi mulinando la spada, sbeffeggiandolo e umiliandolo di fronte a tutti. Era la goccia che fece traboccare il vaso. Leone chiamò da parte Derek e lo affrontò con durezza: «Se non ti piace il maestro vieni a dirlo a “me” e mi dimostri che è un incompetente. Io sono il regista. Se io dico che ti voglio con la barba, tu te ne metti una. Se cinque minuti dopo cambio idea, e dico che devi essere sbarbato, tu vai e te la togli». Poche storie, o se no, quella è la porta. La discussione finì come doveva finire. Leone telefonò ai produttori e comunicò loro la sua personale decisione, molto precisa: John il divo, velleitario e arrogante regista, doveva andarsene ed essere sostituito. O me o lui, disse. Invano, appesa al telefono, Ursula Andress, la moglie dell’attore che conosceva Sergio, cercò di fare da mediatrice e di ricomporre quello che era ben più di un litigio. Non ci fu nulla da fare. Il neoregista aveva capito che non poteva cedere. Nel cinema non ci possono essere mezze misure, compromessi e cedimenti è meglio evitarli. Un passo falso, un cenno di debolezza del dittatore del set, il regista, possono far franare tutto un castello di gerarchie e di poteri. Era bene che Il colosso di Rodi non venisse turbato da una insubordinazione ingiustificata. Derek prese l’aereo per andare a sfogarsi con Cecil B. De Mille, a cui doveva il lancio della sua carriera; e a sostituirlo venne chiamato Rory Calhoun, un attore californiano. Calhoun aveva fatto mille mestieri dopo essere stato in riformatorio. Notato da Alan Ladd, il protagonista di Shane - Il cavaliere della valle solitaria, era diventato un tipico interprete di western. Leone lo giudicava una sorta di Cary Grant dei poveri e lo fece scritturare, gli sembrava proprio adatto a stare nei panni di un giovane che va in vacanza, «viziato, vagamente stufo di tutto, che si trova trascinato in mezzo a una serie di eventi che non capisce ed è costretto a passare tutto il tempo a cercare di sfuggire a tutti», secondo le precise parole del regista che ebbe modo di lavorare con Calhoun senza avere problemi. L’attore comprese il potenziale comico del personaggio e, insieme al regista,
decise di accentuare la sua interpretazione languida, studiando un sogghigno perenne e un’espressione leggermente da ubriaco. Calhoun piaceva a Leone perché, come il regista osservò dopo aver realizzato Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più, aveva «quella stanca nonchalance che avrei ritrovato in Clint Eastwoood». La marcia verso l’uomo col poncho e il sigaro in bocca, era cominciata, a Rodi. Il chimico Rory Calhoun fu così entusiasta di essere chiamato a sostituire John Derek che, nel tentativo di abbracciare Sergio Leone, cadde nella piscina dell’albergo. Un incidente che confermò al regista di avere trovato chi faceva al caso suo. Da quel preciso momento Leone capì che ci si poteva finalmente divertire. Il colosso di Rodi fu un grande gioco e un grande giocattolo. Sergio si sbizzarrì nell’esagerare con trovate e scherzi visivi. Introdusse nel film, ad esempio, un anziano patrizio che si corica con i tappi nelle orecchie per non sentire il rumore di un temporale. Poi, fa aprire la testa del colosso come fosse la bocca di un vulcano, da cui fuoriesce piombo fuso anziché lava. Il segreto del regista fu quello di mettere a frutto le esperienze fatte spostandole come tono e stile verso la parodia, avvicinandosi a una vena tipica del cinema italiano: la parodia, appunto: l’«effetto speciale» di produzioni autarchiche che cercavano di proporre surrogati di Hollywood. Il simbolo più vistoso di una tendenza durata a lungo, e che dura ancora, potrebbe essere Ultimo tango a Zagarol con Franco Franchi ispirato all’Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, con il re di Hollywood Marlon Brando. Perché una parodia funzioni, bisogna essere molto creativi. Il colosso di Rodi fu un banco di prova per un artista che stava cercando un suo personale modo di raccontare. Era stato troppo immerso nella finzione dei film storici e sentiva il bisogno di liberarsene psicologicamente, e andare avanti. Con un’idea fissa: nel racconto della vita che il cinema propone con i suoi artifizi una cosa deve essere chiara, e cioè che quella che chiamiamo realtà, davanti alla macchina da presa diventa materia da laboratorio. Il regista dev’essere il chimico, anzi l’alchimista che prende dalle provette e dosa le parti da mescolare. Affinché il dottor Jekyll che dorme in lui (come dorme in ogni spettatore) si trasformi in Mr. Hyde. Leone giocava a fare Jekyll ma soprattutto Mr. Hyde, l’uomo nascosto, il pericoloso campione del Male. La formula scaturita dal romanzo di Robert Louis Stevenson nelle sue mani d’achimista sarà applicata costantemente nei suoi film. È il suo sguardo a suggerire agli occhi dello spettatore l’ambiguità delle cose e degli esseri umani, ridicole macchine da guerra capaci persino di commuoversi. Il colosso di Rodi era un banco di prova ma anche la premessa di quel che si stava preparando e che avrebbe stupito un po’ tutti. Nessuno poteva immaginare che Leone avrebbe raggiunto tali risultati, ossia realizzare film che acquistano valore più il tempo passa e si rivelano superiori a tante opere
etichettate d’autore. Leone, riguardando Il colosso di Rodi, dirà: «Non è male. In particolare, tutti gli aspetti kitsch della scenografia e dei costumi arricchivano la parodia del peplum. L’accumulo di cattivo gusto ne intensificava il fascino: un fatto di stucco e di bigiotteria». Ecco come sottolineava il piacere di avere realizzato quel film e di averci scaricato dentro una parte di se stesso, per ricominciare. Pane e burro Il colosso di Rodi sedusse subito il pubblico e forse, per questo esito certo sperato ma mai scontato nel cinema, Leone cominciò a interrogarsi sulla propria identità di artista. Chi era? A cosa aspirava? Quali passi poteva fare, dopo il primo successo, un uomo di trentadue anni? Si guardava allo specchio per darsi una risposta, sempre sorretto dalla fiducia della moglie Carla. Carla condivideva le decisioni di Sergio di rifiutare le proposte che arrivavano: tanti Maciste e Colossi da filmare, troppi. Ma bisognava pur continuare a procurarsi «pane e burro». Il senso di smarrimento e poi di vuoto che responsabilizza chi ha incassato e ha avuto buone recensioni, venne riempito con prestazioni che non gli chiedevano di mettere in primo piano la sua firma. Burro per il pane. Sergio collaborò con altri per la sceneggiatura di Le sette sfide di Primo Zeglio, storia ambientata nell’epoca di Gengis Khan, girata in Jugoslavia. Dettaglio non secondario, questo delle riprese in Jugoslavia. Il paese era ancora guidato dal presidente Tito, e quindi ancora lontano dalle sanguinose guerre civili che verranno. La ragione del trasferimento dimostrava che qualcosa stava cambiando. Cinecittà era diventata troppo cara e, con la Spagna, la Jugoslavia del maresciallo Tito offriva migliori condizioni per finanziamenti e luoghi di ripresa. Si aprivano a Est le porte per un cinema in cerca di risparmi, di bassi costi. Un’altra terra disponibile ad accogliere il cinema era il Marocco. Qui Goffredo Lombardo, erede di una delle più importanti case produttrici italiane, la Titanus, pensò di girare nel 1963 una nuova edizione di Sodoma e Gomorra affidandola all’americano Robert Aldrich, già regista di Vera Cruz con Gary Cooper e Burt Lancaster, film molto amato da Leone, e di altre pellicole di successo. Proprio in relazione della stima verso Aldrich, Sergio accettò di guidare la seconda unità. Anzi, l’autore di Vera Cruz lo voleva come co-regista e primo collaboratore diretto, con tanto di firma nei titoli di testa. Aveva visto Il colosso di Rodi e gli era piaciuto. Lombardo badava più al sodo. Sapeva benissimo che il nome di un cineasta italiano nei titoli del film era necessario per ottenere un finanziamento statale. E così fu. La collaborazione tra Aldrich e Leone, durante riprese molto laboriose e costose, non fu idilliaca come l’uomo di Hollywood sperava ma neanche troppo tempestosa, come dichiarerà Carla, la moglie di Sergio, dopo le rivelazioni di
aspri scontri tra i due. Una cosa comunque era certa. Leone non amò il film e svelò quale fosse a suo parere il difetto maggiore del progetto di Aldrich: «Dichiarava che avrebbe fatto una versione antica della Dolce vita. Ahimè! Il massimo dell’audacia di questa idea fu raggiunto quando il fratello della regina succhiava il dito di sua sorella. A quanto sembra, per Aldrich quel gesto era il massimo della perversione…». Non basta. Leone raccontò anche che il capo della produzione italiana, un uomo di grande cultura, si era precipitato da Aldrich dopo aver letto la stesura definitiva del copione e gli aveva detto che Sodoma e Gomorra erano due città distinte e non una sola come nel copione. Aldrich lo ascoltò, inviperito, e lo invitò a lasciare la stanza, senza riconoscere l’errore. Sodoma e Gomorra, due città o una, fu un disastro. Lo stesso Leone venne accusato di aver consentito alla troupe della seconda unità pause troppo lunghe, di non lavorare abbastanza. I rapporti, ogni giorno più tesi, arrivarono alla rottura. Aldrich affermò di avere licenziato Leone, Leone a sua volta disse di essersi licenziato, stanco di un film i cui costi lievitavano di continuo raggiungendo quote a quei tempi proibitive. Lombardo cominciò a dire che Aldrich era impazzito e non volle più incontrarlo, soprattutto quando il regista fece bagnare la sabbia del deserto per evitare che i mille cavalieri marocchini scritturati sollevassero un polverone tanto fitto da impedire le riprese di quel kolossal. Fu la goccia – una vera massa d’acqua – che fece traboccare il vaso. E il film andò incontro al suo destino fra verità e leggende: un fiasco o, come si dice oggi, un flop indubbiamente kolossal.
Capitolo 13 Mani rapaci
Di neorealismo erano intrisi in una certa misura anche i film non drammatici, perché tutto il cinema in quegli anni aveva bisogno di apparire sociale e umanitaristico… Perciò, pur riconoscendo al neorealismo il suo indiscutibile rilievo, ho creduto che per noi cineasti della «seconda generazione» fosse necessaria una cifra stilistica diversa con meno folklore, meno dialetto e meno tentativi di conquista della «verità». Sergio Leone a Diego Gabutti in C’era una volta in America In cerca di idee forti, dopo Il colosso di Rodi, Sergio Leone avvertiva l’amaro gusto di una crisi che si stava per abbattere sul cinema italiano proprio negli anni appena successivi alla Dolce vita. Il film di Fellini aveva segnato uno spartiacque tra il prima e il dopo. Era uscito in pieno miracolo economico, la gente comprava e andava al cinema, i
più abbienti avevano collocato il televisore nel salone buono e i meno abbienti i televisori li guardavano nelle vetrine. C’era un gran fumo di spensieratezza e di voglia di spendere, ma l’arrosto di celluloide era magro. La Titanus di Goffredo Lombardo tremava dopo Sodoma e Gomorra e lo scarso esito commerciale ottenuto con Il Gattopardo, tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa. Girato con mezzi e lusso da Luchino Visconti, con la bella e selvaggia Claudia Cardinale e il volto fresco, il corpo scattante di Alain Delon, non ripagava le aspettative di Lombardo. La Titanus affondava. Le vendite dei biglietti si riducevano in tutta Italia per il cinema nel suo complesso, nonostante la fortuna della commedia all’italiana dei Mario Monicelli, Luigi Comencini, Dino Risi e di attori come Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi. Commedie all’italiana cariche di humor nero e di convincente grinta drammatica. Basta citare La grande guerra di Monicelli con Gassman e Sordi, e Il sorpasso di Risi, con Gassman e Jean-Louis Trintignant. Ma la situazione diventava sempre più grave per i film storico-religiosimitologici che rischiavano di essere travolti da una frana inarrestabile. Ne fu coinvolto Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz, tre anni circa tra sospensioni e guai durante la lavorazione, spreco di denaro, cambio di registi. A Rouben Mamoulian subentrò il pagatissimo Mankiewicz, mano solida, esperienza robusta, come dimostravano tra i suoi numerosi film Eva contro Eva con Bette Davis e la giovanissima Marilyn Monroe e Giulio Cesare con Marlon Brando. Alla fine del lungo tormento, restava soltanto lo strascico di notizie e di pettegolezzi sull’amore tra Liz Taylor e Richard Burton, amanti in costume, inseguiti a lungo dalle proteste e dai tentati suicidi dei reciproci legittimi coniugi. Il film piacerà molto più avanti nel tempo, come reperto archeologico del cinema dei monumenti e delle catacombe romane. In quei frangenti, Leone faceva i conti in tasca alla Settima Arte come tutti. Per lui, ancora fresco di ambizioni, questi conti erano più complicati. Sognava di spiccare il volo verso il definitivo riconoscimento delle sue capacità. E avvertiva che la stampa più influente lo accettava poco o nulla, si dimostrava diffidente. Bisognava battere la porta dei produttori. Insistentemente. Come un venditore di aspirapolvere. Qualcuno, che non era fuggito dai creditori, in un nugolo di cambiali, talvolta apriva. Una raccolta non esaltante. Leone fece per alcune settimane il sostituto di Giorgio Bianchi nel Cambio della guardia, pallida vicenda ambientata vicino ad Anzio dove era avvenuto lo sbarco alleato che portò alla liberazione di Roma nel giugno del ’44. Chi lo produsse sognava di rifare un film sul modello di Don Camillo, che aveva avuto un successo notevole. Ma la storia dello scontro fra due amici, uno fascista e uno antifascista non aveva né la verve né la profondità satirica dello scontro tra il comunista Peppone-Gino Cervi e il prete Don Camillo-Fernandel; e tale restò, un sogno impossibile. Esperienza inutile e guadagno scarso per Leone che stava per diventare padre, per una seconda volta, di Francesca.
Che fare?, si chiedeva il regista che vedeva crollare intorno a sé i film di genere che aveva frequentato fino alla noia come aiuto regista. Non poteva mettersi a fare la commedia all’italiana o entrare in concorrenza con il debuttante Pier Paolo Pasolini di Accattone o infilarsi nel giovanilismo nel cinema che diventerà di lì a poco imperante con stanziamenti dello Stato a esordienti spesso incapaci. Giorni macilenti, sbadigli tenuti dentro per non allarmare la famiglia, tacite occhiate di avvilimento tra gli amici che come lui avevano campato nel gran barnum di Cinecittà. Si parlava con una certa ansia di un cambiamento possibile, ad esempio sostituire tuniche, pepli e coturni con cinturoni, pistole, cavalli e locomotive fumanti. Ma già, in Germania prima che in Italia, i produttori più pronti a tradire le epoche dei colossi e dei colossei si erano messi in moto ed erano saliti a cavallo. In poco tempo, sullo slancio dei primi successi western «made in Europe», gran parte del cinema cercava deserti e cactus a prezzi modico. Dollari e sabbia del vecchio continente. Folgorazione Strane strade quelle del cinema. Imprevedibili. Un nome giapponese cambia il corso del cammino di Sergio Leone e anzi gli offre un orizzonte tutto nuovo. Il nome è quello del regista Akira Kurosawa che aveva stupito tutti nel 1951, alla Mostra del Cinema di Venezia, vincendo il Leone d’oro con Rashomon e continuava a stupire con le sue storie di samurai, guerrieri abili nell’uso della spada e all’occorrenza audaci, crudeli, beffardi. Da I sette samurai a Il trono di sangue, a La fortezza nascosta. Rashomon conquistò tutti. Un film affascinante e forte. In un bianco e nero abbagliante, con costumi e scenografie di gran qualità, e interpreti come Toshiro Mifune, il samurai per eccellenza, bravo, impavido con qualche momento di luce e di pietà negli occhi. Kurosawa dimostrava, con nitide immagini e minuziosa cura dell’effetto spettacolare, che aveva visto e assimilato il cinema americano. Lo aveva plasmato secondo la sua estetica personale e secondo la tradizione giapponese così attratta dai riti e dalle cerimonie, dai duelli con la spada e dagli sguardi. Preziosità che venivano da lontano nel tempo. Sergio Leone sicuramente aveva visto i suoi film, almeno alcuni di essi, prima che il suo fedele direttore della fotografia, Enzo Barboni, gli segnalasse nel 1961 Yojimbo - La sfida del samurai. Seguì il consiglio e andò con la moglie Carla a verificare di persona. La pellicola racconta di un samurai che si ritrova in una guerra feroce tra due clan in un villaggio nel 1600. Yojimbo significa «guardia del corpo». Il samurai si dedica a un gioco delle parti e diventa l’ago della bilancia della situazione, sempre a suo vantaggio. Per Sergio fu una folgorazione. Scopriva un cinema capace di assorbire modelli e ispirazioni diverse per fonderle mirabilmente insieme. Era stanco di perdere tempo dietro sceneggiature come Le verdi bandiere di Allah o Le
aquile di Roma, ambientato nell’antica città eterna. Quest’ultimo era un trucco, anzi un furto. Si trattava del rifacimento di un grande successo, I magnifici sette di John Sturges con Yul Brynner, Eli Wallach, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn. Molti di questi attori Leone li vorrà con sé per i film che farà in seguito. A sua volta, I magnifici sette era ispirato a I sette samurai di Kurosawa, con i diritti debitamente pagati per il trasferimento e l’adattamento. Il giro del mondo del cinema accelerava, grazie alla circolazione veloce delle pellicole, e le copisterie di celluloide alimentavano il mercato, stimolando idee e soluzioni. In Leone la visione della Sfida del samurai provocò un corto circuito. Gli piacque e capì che poteva essere una strada. Sul western, come si è detto, si erano già tese mani rapaci. L’attore americano Stewart Granger, specialista in film di cappa e spada, leggendario Scaramouche dalle tempie appena imbiancate, aveva rinfoderato la lama e si era munito – al supermarket del set – di speroni e pistole a tamburo. Lo avevano chiamato e pagato con generosità, i produttori tedeschi avevano cominciato a girare film, importando il lontano West in terre vicine. Oltre al divo Granger altri attori erano stati scritturati: Klaus Kinski, Herbert Lom, il popolare cantante Charles Aznavour e Terence Hill, ovvero Mario Girotti, tutti nomi che entreranno rapidamente anche nei cast dei western all’italiana o cosiddetti spaghetti western. Il cinema era una roulette. Adesso si scommetteva con i cactus e i bisonti. Di questi film se ne fecero un gran numero. Spremuti come limoni. Il didietro a pezzi Col senno di poi, possiamo dire che il nuovo western fu seppellito abbastanza in fretta come accade spesso ai filoni e alle mode del cinema. Durò poco più di una decina d’anni. Lo sfruttamento fu intensivo e diffuso non solo in Italia. Venivano proposti titoli avventurosi e curiosi come Il tesoro del lago d’argento, La valle dei lunghi coltelli, Grido di vendetta e La lunga strada della vendetta. Si rispolverava Lex Barker che era stato Tarzan a Hollywood, rivestendolo di pelle di cervo, appesantendolo di speroni. L’Italia guardava anche più indietro, alle vecchie gloriose pellicole in cui negli studi dell’inizio del secolo comparirono i primi cowboy. Comparve il ricordo dei film del muto. Un ritorno indietro. A Vincenzo Leone detto Roberto Roberti, padre di Sergio, che aveva realizzato La vampira indiana, con la presenza di Edwige detta Bice, madre dello stesso Sergio. A una Fanciulla del West rubata all’opera di Puccini. A Il fanciullo del West e a Una signora dell’Ovest. Il revival era vetusto. Le idee erano stanche e povere. In Europa si rilanciava il western che aveva stancato il suo paese d’origine, gli Stati Uniti. Pauline Kael, ascoltata opinionista del «New Yorker», scrisse in una recensione a La sfida del samurai che il pubblico americano aveva ormai «il didietro a pezzi a furia di cavalcare».
Il didietro di Leone era integro. Il regista ascoltava se stesso e le sue convinzioni. Trascorsi, entusiasmi, brontolii, avventure o disavventure che sentiva e lo interessavano. Mandò il suo gruppo – Tessari, Corbucci, Donati, Delli Colli – a vedere La sfida del samurai per poi cominciare a lavorare seriamente a un progetto simile. Riaprì l’album. Ripescò nella memoria di spettatore i western che gli erano piaciuti di più da Sfida infernale di John Ford del 1946 a Winchester ’73 di Anthony Mann del ’50 a Un dollaro d’onore di Howard Hawks del ’59, e cominciò a riscrivere. L’obiettivo era quello di realizzare un film che in un primo momento doveva chiamarsi «Il magnifico straniero» e divenne una volta e per sempre Per un pugno di dollari. Leone era preso da una forte eccitazione, gli sembrava di aver scoperto una pepita d’oro su cui applicarsi con pazienza e scrupolo. Voleva fare qualcosa di nuovo e non un ricalco del film di Kurosawa. Prese appunti in moviola per studiarne le scene e i dialoghi, pensò a modificare e reinventare, sempre però rimanendo vicino all’impianto dell’originale. Ma la grandine si preparava a colpire e colpì duro, sia pure in ritardo, in mezzo a proteste e polemiche. Nessuno aveva previsto nulla. A Leone era stato detto che la produzione si era preoccupata di proteggere film e autori da ogni forma di rivendicazione. Invece, a film finito, puntuali arrivarono le rimostranze di Kurosawa che pretese i suoi diritti e iniziò una battaglia legale senza tentennamenti. Aveva visto il film, lo trovava ottimo, ma lo giudicò troppo simile al suo. Altro che «pugno di dollari». Per frenare la slavina di migliaia di dollari da pagare il gruppo dei legali della produzione si arrampicò sugli specchi. Si arrivò a sostenere che l’idea veniva addirittura da una commedia di Carlo Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni per via del doppio gioco del samurai. Un atto di difesa che non poteva reggere alla prova del tribunale. La sentenza fu un compromesso che riconosceva al regista giapponese e al suo sceneggiatore i proventi in alcuni paesi dell’Asia e una percentuale sugli incassi. L’accordo non impedì a Per un pugno di dollari di sfondare e di consentire al suo regista di proseguire. Aveva in mano un valido biglietto da visita. Milioni di dollari incassati. E altri progetti da offrire ai golosi boss del cinema. Forno estivo Al botteghino l’avventura di Per un pugno di dollari, costato 120 milioni, cominciò male. Il film uscì il 27 agosto 1964 in una sala della accaldata Firenze, un forno estivo. Caldi furono anche i primi giorni di proiezione. Di solito se il primo fine settimana va male come incassi, gli esercenti restituiscono la pellicola al mittente e tanti saluti. In questo caso l’esercente fiorentino decise di resistere e comunicò a Leone, che era andato a sudare da qualche altra parte, che le cose andavano bene. Venne organizzata una prima romana, e l’esito fu positivo. Quel western diverso cominciò a decollare.
Perché? Cosa aveva di speciale, di tanto attraente? La trama, grosso modo simile a quella della Sfida del samurai non era poi così travolgente. Di che si trattava? Funzionavano le scene spettacolari di incendi e di violenza? Piacevano i dettagli, le pennellate ironiche e funebri, il becchino con la sua vocina stridula e le sue bare? Tutti elementi che avevano il loro peso. Come lo aveva la figura dello Straniero, Clint Eastwood, che arrivava nel villaggio messicano in sella a un mulo. Clint fu una delle risorse del film. Era fino a quel momento un attore di telefilm. Fu segnalato a Leone che in un primo momento evitò di incontrarlo. Forse per timidezza o per diffidenza mandò Mario Caiano, un suo aiuto, un amico, a prenderlo all’aereoporto di Fiumicino. Clint si impossessò del film con il suo fare sornione. Lui, il «trovatello senza età», il cavaliere senza identità e senza futuro, alla ricerca di vivere o meglio di sopravvivere. Brillò subito, tra polvere e polvere da sparo, la maschera di Gian Maria Volonté, attore di teatro, un volto impassibile, tagliato da un sorriso sadico. Ma c’era di più nel film. Per un pugno di dollari ha un’autentica forza nel carattere più profondo del racconto, al di là dei duelli e del parodistico gioco dei cadaveri, nel tirassegno di un luna park, di cieli limpidi e di sporchi saloon. Era ed è un testamento visivo, solenne e paludato. Era ed è la celebrazione funebre di una disfatta. Davanti all’incalzare della banalità quotidiana e dei suoi spettacoli. Era ed è il testamento di un cinema che voleva ritrovare rabbia e potenza per non cedere il passo cadenzato della televisione che avrebbe costretto il cinema in una soffitta intasata di facce e di costumi consumati, corrosi dal tempo. Per un pugno di dollari è una sorta di preghiera laica, violenta mentre il becchino apre una tomba dopo l’altra. E, da parte di Sergio, un omaggio al padre Vincenzo: nelle prime edizioni del film il nome del regista era quello di Bob Robertson, ovvero il «figlio di Roberto Roberti», regista del muto. I collaboratori, sempre nei titoli di testa, con nomi americanizzati, attorniavano Sergio come presenze a un funerale. Il direttore della fotografia Massimo Dallamano diventò Jack Dalmas, Ennio Morricone si ribattezzò Dan Savio, Gian Maria Volonté si trasformò in John Welles, l’aiuto regista Franco Giraldi in Frank Prestland. Una luttuosa mascherata consapevole. In realtà, un gioco. E uno specchietto. Era l’uso del western che pensava di abbacinare così, con un falso made in USA, gli spettatori distratti e convinti che il West stava come sempre in America. Al contrario, Leone lo stava spostando in Europa e lo trasformava in un lungo addio che durerà per sei film, tra i più importanti delle sua carriera.
Capitolo 14 La valanga
Prima di Leone il western italiano era cinema di frontiera: contratti fasulli, produttori che entrano o escono da bottega, tempi di lavorazione vaghi… Sergio riuscì a cambiare le cose; se Ejzenštejn convinse Prokof’ev, lui ce la fece con Ennio Morricone che all’inizio si firmava Dan Savio. Alessandro Alessandroni detto «il fischio», musicista al seguito di Morricone, in Il fischio più veloce del West, «La Stampa», 9 luglio 2007 Per un pugno di dollari, il primo western di Sergio Leone, ebbe l’effetto di una trasfusione benefica di sangue e di denaro (non necessariamente di dollari) nelle vene del nostro cinema che si andavano irrigidendo. Ogni film di Leone dava un’ulteriore spinta a una produzione in cerca di futuro. Una valanga che trascinava con sé spettacolo e parodia. Si ripeteva un vecchio schema ben noto a Cinecittà: bisogna incalzare il pubblico, portarlo, costringerlo a passare al botteghino. Al cinema, come nel normale commercio, il cliente ha sempre ragione. Mai far mancare richiami per la spesa.
La valanga era veloce e coinvolgente, e travolgeva con pistolettate e cavalcate registi di nobili origini. Carlo Lizzani, figlio del neorealismo, col nome di Lee Beaver, diresse Un fiume di dollari e poi Requiescant in cui compare curiosamente Pier Paolo Pasolini in una delle sue poche prove d’attore. Florestano Vancini, anche lui figlio del neorealismo, ribattezzato Stan Vance, si dedicò a I lunghi giorni delle vendetta - Faccia d’angelo con l’ex pompiere Giuliano Gemma, un altro attore promosso dal western ormai italianissimo. Riccardo Freda, che anni dopo sarà molto amato dai cinéphiles, si fece chiamare George Lincoln (omaggio al presidente americano Abramo); Maurizio Arena, l’ex povero ma bello, diventò regista col nome Rudy Palmer; e Pasquale Squitieri, ovvero William Redford, firmò Django sfida Sartana. La tendenza divenne frenetica, arruolando registi come Sergio Sollima con La resa dei conti e Corri uomo corri; e altri amici-collaboratori di Leone: Giraldi che fece Sette pistole per i Mac Gregor, Sergio Corbucci con Vamos a matar compañeros, e Tessari con Vivi o preferibilmente morti, di cui lo scrittore Ennio Flaiano scrisse il soggetto. Scattò l’inevitabile indotto della parodia comica. Enzo Barboni, il direttore della fotografia, uno del gruppo di Leone, con lo pseudonimo di E. B. Clucher compose la coppia Terence Hill-Bud Spencer, ovvero Mario Girotti e Carlo Pedersoli, in Lo chiamavano Trinità, un film che generò una infinita serie di imitazioni, repliche e adattamenti anche estranei al western, arrivati fino ai giorni nostri. Si fece vivo Mario Mattoli, il regista di grande esperienza e malizia umoristica, che inserì Lando Buzzanca e Raimondo Vianello in Per qualche dollaro in meno. Il genere, come dire, veniva di continuo rigenerato. Una cascata di titoli: I gemelli del Texas di Steno con Walter Chiari e Vianello; Due mafiosi nel Far West di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, una coppia poi dirottata in Il bello, il brutto, il cretino con un fin troppo chiaro richiamo al terzo western di Leone Il bello, il brutto, il cattivo, e in Due gringos nel Texas. La cantante Rita Pavone fu scritturata per Little Rita nel West; e Ric e Gian, comici da night e poi adottati in TV, diventarono cowboy in Ric e Gian alla conquista del West. Insomma, Leone aveva inventato un filone d’oro e tutti, amici e imitatori, s’infilarono nella miniera, sfruttandola in fretta, correndo verso un nuovo Eldorado. Era la conferma di quel che era accaduto in passato e che si stava esaurendo; cioè, l’accodarsi sistematico di produttori e registi al film in testa agli incassi. Il fenomeno ripetitivo vivrà una nuova fortunata stagione vitale quando negli anni ’70 salirà in cattedra o andrà in corsia d’ospedale il cinema delle insegnanti e delle infermiere. Procaci, in classe o sotto la doccia o spiate dal buco della serratura. Violare le regole Nella forsennata corsa al nuovo Eldorado, qualcosa che stava accadendo sfuggì a molti. Sergio Leone con Per un pugno di dollari e soprattutto l’anno dopo con Per
qualche dollaro in più, realizzato nel 1965, si presentava semplicemente come un regista mosso da un’intuizione felice, un artista capace di mettere d’accordo la violenza senza freni della spettacolarità e un affinamento dello stile, della estetica delle riprese e della accurata confezione in moviola e in sala di registrazione, con Morricone che aveva competenza sulle musiche, i suoni, i rumori, e naturalmente sul «fischio» di Alessandro Alessandroni presente nella colonne sonore. Leone lavorava da grande riformatore del linguaggio non solo del western. Il film si trasformava, grazie ai suoi sensi e alla finezza tecnica, in un inseguimento tra immagine e sonoro per comporre nuove armonie. Basta ricordare uno dei film della piena maturità di Leone, C’era una volta il West. Subito sentiamo entrare il suono dell’armonica di Charles Bronson o il «fischio» di Alessandroni. Tutt’uno con le immagini. Suoni melodiosi e nello stesso tempo aspri, inquietanti, che non si potranno dimenticare. Non era soltanto il talento di Ennio Morricone a dare al suono dell’armonica potenza e fascino, era l’insieme creato dal riformatore Leone, con studiatissima capacità di recuperare esperienze, rinnovandole. La storia del cinema è piena di maestri riformatori consapevoli o spesso inconsapevoli, che saranno scoperti tardi, dopo morti. Alfred Hitchcock piaceva con i suoi film quando era in vita, ma è stata solo la sua scomparsa a farlo entrare nella storia dalla porta principale. Questa è spesso la grandezza del cinema. Leone stava alle regole narrative ma sapeva spingerle più in là, dove lo portava il gusto di inventare e sorprendere. In questo modo, riusciva a proporre soluzioni vietate e a trasgredire. Clint Eastwood raccontava che guardava girare Sergio con libertà, mentre violava, senza rendersi conto, il codice della censura americana, il codice Hays che dettava le normative per Hollywood. In materia di violenza, il codice aveva stabilito che un personaggio colpito dalla pallottola di un’arma da fuoco non potesse trovarsi nello stesso fotogramma dell’arma nel momento in cui questa sparava: l’effetto veniva giudicato troppo cruento. Leone ignorò il signor Hays e le sue normative, mettendo tutto quanto nella stessa scena, senza stacchi. Forzava le regole perché la riuscita di una scena era l’obiettivo da raggiungere, l’unica cosa da fare. Un altro esempio della libertà che Leone si concedeva riguarda ancora Eastwood che in Per un pugno di dollari viene chiamato convenzionalmente Joe. Un nome senza battesimo, un appellativo qualunque. Il regista perseguiva uno scopo in questo: azzerare le suggestioni, evitare di battezzare i personaggi con i nomi tipici del western americano o delle caricature italiane. Se un popolare disegnatore degli anni ’50, Jacovitti, aveva inventato il nome di Cocco Bill, infilandolo nelle sue storie infarcite di salami e torsoli di mele, nello stesso periodo si affacciavano dai fumetti Pecos Bill, Tex Willer e altri eroi di carta. Un lungo catalogo di nomi e luoghi comuni. Oremus e Tedeum
Ecco i nomi scelti tra quelli più curiosi inventati dagli imitatori spesso maldestri di Sergio Leone: Bang Bang, Camposanto, Dinamite Jim, El Macho, Epidemia; una serie infinita di Johnny tra cui Johnny Oro; e poi Lola Colt, Oremus, Mezzogiorno (omesso il «di fuoco» del film ispiratore), Provvidenza, Silenzio, Tedeum e incomprensibilmente Scopone. Mai si era saputo che i cowboy e i pistoleros praticassero un gioco di carte appartenente alla tradizione italiana. Nelle scorribande e nelle razzie degli imitatori tutto era possibile. Conoscendo produttori e autori yesmen si può ben capire come Leone avesse avuto, subito dopo l’avventura andata a ottimo fine con Per un pugno di dollari, il dubbio e anzi la voglia di andare in tutt’altra direzione. Il successo mise le ali alle sue ambizioni. Gli suggeriva l’opportunità di prendere in mano il suo destino e di fare un altro genere di film. Per vincere quel languore di solitudine e di incertezza che prende dopo una battaglia vinta al di là delle aspettative, Leone pensò persino di rifare quel capolavoro che era ed è M - Il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, 1931. Il protagonista sarebbe stato Klaus Kinski, l’attore tedesco dalla faccia sinistra e malata, al posto di Peter Lorre. Un confronto che si profilava difficile. Lorre si era trasferito dopo M da Berlino a Hollywood per recitare in film importanti come Il mistero del falco di John Huston accanto a Humphrey Bogart. Anche Lang aveva scelto l’America. Per fortuna, Sergio ci ripensò e trovò un interlocutore in un avvocato desideroso di passare alla produzione cinematografica, Alberto Grimaldi. Un uomo abile, con rapporti giusti in America e la voglia di fare profitti con autori degni di fiducia, una fiducia di cui, oltre a Leone, si gioveranno in seguito anche Bertolucci e Pasolini. Con Grimaldi arrivò una maggiore serenità di progetti e di preparazione degli stessi. La rottura con i produttori di Per un pugno di dollari che ricattavano il regista sui compensi e sugli impegni da prendere, si era rivelata irreparabile. Cominciò a prendere forma un soggetto scritto da Leone e da suo cognato Fulvio Morsella. Una collaborazione che andrà avanti a lungo. Intanto il gruppo – Corbucci, Giraldi, Tessari, Barboni – si era sciolto perché tutti i componenti erano diventati i concorrenti di Sergio nella corsa verso l’Eldorado del West italo-spagnolo. Dunque, ognun per sé. Dal soggetto Sergio passò alla sceneggiatura di Per qualche dollaro in più. A scriverla fu chiamato Luciano Vincenzoni, molto stimato da Leone che lo aveva conosciuto da aiuto regista sul set di Hanno rubato un tram di Mario Bonnard, 1954, di cui Luciano aveva scritto il soggetto. Vincenzoni andava fiero della sua carriera. Teneva a far sapere che aveva partecipato con Mario Monicelli e Pietro Germi, due registi importanti, a film che erano stati presentati a prestigiosi festival come quello di Cannes; e che, per quanto riguardava i western, li scriveva con la mano sinistra. Ma cambiò opinione abbastanza in fretta quando si rese conto che Leone sapeva quel che diceva e voleva. Si persuase definitivamente sentendo fare al regista un paragone piuttosto originale. Gli eroi del western tradizionale come John Wayne o Richard Widmark, secondo Sergio, avevano comportamenti identici a quelli di un borgataro
romano o trasteverino, da bulletti di strada. Simili a quelli che il giovane Sergio aveva frequentato, abitando a viale Glorioso, sopra Trastevere, e facendo a calci e pugni con le bande composte da ragazzacci forti e arroganti. Perciò, era un regista capace di ritrovare spunti in un personale deposito di esperienze. Carillon In Per qualche dollaro in più, la storia è lineare. Due pistoleri a caccia di taglie, due bounty killer, il Monco (alias Clint Eastwood) e l’ex colonnello Mortimer (alias Lee Van Cleef) sono sulle tracce di un crudele messicano chiamato l’Indio (ovvero Gian Maria Volonté) e della sua banda. L’ex colonnello vuole vendicare la sorella uccisa. L’altro vuole la taglia posta sulla testa del bandito. Il film scorre al ritmo delle pistole che cantano, di un carillon e della musica di Morricone, fino ad arrivare al duello finale tra Indio e Mortimer. Una linearità narrativa schematica che vive della combinazione tra primi piani e colonna sonora, tra dettagli d’ogni genere, spazi improvvisi e soprattutto un ambiente sonoro straordinario. La pellicola, campione d’incassi con 3 miliardi e mezzo di lire, venne giudicata pervasa da un’accanita perversione sadica, chiusa in una neutra e pericolosa retorica della violenza. Sono critiche che sono scivolate vie, travolte da una più meditata considerazione delle qualità estetiche del film. Efficacia delle sequenze, della musica, della recitazione. Per qualche dollaro in più contribuisce alla riforma di Leone anche sul piano della scelta degli attori e della interpretazione. Clint Eastwood è il laconico cavaliere dal volto marmoreo e il sorriso sfottente, gli occhi ammiccanti sotto il cappellaccio, il sigaro incollato alle labbra. Lee Van Cleef è il cinico, spietato cacciatore di denaro e di uomini. I suoi occhi sono eloquenti. Non c’è amore, non ci sono passioni, non c’è un solo momento di tenerezza. Quelli di Leone, di Clint e di Lee sono anni che non hanno bisogno di eroi. Presto nelle strade italiane si comincerà a sparare. Già si è sparato nelle strade di Los Angeles e di Detroit. La contestazione – giovanile, nera, operaia – prepara le sue armi dopo le parole. I duelli non si fanno all’alba. In piena luce. Ogni ora è buona. Nel deserto di Leone, questi non sono eroi, sono uomini. Senza essere né Maciste né Ercole. Leone aveva voluto Van Cleef, il pistolero di Mezzogiorno di fuoco; lo aveva convinto a lasciare momentaneamente i pennelli d’artista che aveva cominciato a usare dopo una lesione al ginocchio subita sul set, e gli aprì di nuovo la strada del cinema. Van Cleef in Per qualche dollaro in più è un corpo-specchio in cui si riflette tutto ciò che incontra. In questo specchio i trucchi e le maschere cadono, le persone sono quelle che sono. Clint e Van Cleef arrivano a Roma per girare con Leone e cancellano i residui della Hollywood sul Tevere. In quel 1965, sfioriva e moriva il passato. Un patetico, invecchiato Alan Ladd, il protagonista di Shane - Il cavaliere della valle solitaria, partiva
dall’Italia dopo aver fatto Orazi e Curiazi, uno degli ultimi film del filone storico-religioso-mitologico. Spirava Mario Bonnard, l’amico carissimo. E Sergio decideva di cambiare casa, adesso aveva i soldi per una bella villa a Ostia, al mare.
Capitolo 15 Vento
Sergio non era un uomo presuntuoso – nel profondo del cuore era ben conscio dei suoi limiti – ed era continuamente tormentato dall’insicurezza… Ma sapeva essere un maledetto figlio di puttana. Un insensibile. Speravo di poter vedere il mio nome nei titoli di «Il buono, il brutto, il cattivo». A causa di questo film ci mancò poco che divorziassi. Diedi mesi di vita al montaggio, al doppiaggio e a tutto il resto. E invece niente nome neanche nei titoli di coda. Forse era un po’ irritato perché io nel frattempo avevo scritto per qualcun altro… Sergio Donati a Christopher Frayling in Sergio
Leone - Danzando con la morte Si alzò un gran vento mentre Sergio Leone girava Il buono, il brutto, il cattivo che uscirà nel 1966. Era un vento simile alla bora, quel turbine a velocità massima che da Trieste corre come in una gola giù fino al Centro Italia. Stavolta la bora andava anche più giù nello stivale. Leone stava realizzando, dopo averne scritto il soggetto con Vincenzoni, la sceneggiatura del suo quarto film e il terzo della «trilogia del dollaro» dopo Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più. Nel gruppo di lavoro apparivano dei nomi nuovi, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli della premiata ditta Age & Scarpelli. Due delle migliori penne del cinema italiano. Avevano imparato molte cose utili nelle redazioni dei giornali umoristici, vera e propria fucina di talenti, fra cui Ettore Scola. Tra i collaboratori c’era anche Sergio Donati, giovane sceneggiatore pronto a tutto pur di partecipare al film. Negli studi dove Leone stava preparando Il buono, il brutto, il cattivo, si lucidavano e provavano le pistole a tamburo prima di farle esplodere a vuoto in scena, scatenando fuochi artificiali di sparatorie. Fuori dagli studi, lontano dalle terre spoglie dove si giravano i western, la bora che soffiava era appena un fresco venticello di contestazione studentesca e giovanile. I primi soffi coinvolgeranno il liceo Parini di Milano. Gli studenti curavano un giornale in cui venne pubblicata una inchiesta sul sesso. Qualcosa di proibito per allora, specie in una scuola della borghesia. Ci furono subito conseguenze. I tre studenti responsabili dell’inchiesta vengono denunciati per pubblicazione oscena, insieme al preside, e gli studenti vengono sottoposti, nell’ufficio del magistrato, a una visita medica per accertare se siano capaci di intendere e di volere. Era il marzo del ’66. Scoppiò una polemica che si estese a tutta la stampa e provocò una catena di proteste. Lo scandalo della «Zanzara», il giornale studentesco, crebbe e divenne nazionale. Su questa scia il paese si accorse che si stava mettendo in moto un’agitazione che coinvolgerà tutte le università più importanti. Le situazioni di disagio dentro gli atenei si mescolavano nelle strade e nelle piazze con le azioni pacifiste di piazza contro la guerra in Vietnam. La puntura di una piccola «zanzara» dilatava i suoi effetti e trasformava il brontolio di un’Italia incerta dopo l’entusiasmo del miracolo economico in una serie di duelli tra giovani e potere. Da una parte i giovani studenti e operai che cercavano di orientarsi in un paese avviato al cambiamento, e dall’altra il potere politico – del governo e di tutti i partiti – spiazzato, confuso, incapace di fornire orientamenti. Cominciò uno scontro che durerà a lungo. I giovani attaccavano il «sistema», includendo in una sola parola tutti i poteri e gli autoritarismi, familiari, religiosi, ideologici. Attacchi e cariche della polizia ne furono la conseguenza. Gli anni ’60 volgevano al termine e qualcosa di diverso si sentiva circolare nell’aria. Prima
i fuochi d’artificio delle bottiglie molotov, dei gas lacrimogeni, dei colpi sparati verso il cielo dalla polizia. Poi, divenne sempre più forte l’odore di polvere da sparo che si univa alle polveri sottili, un cocktail inafferrabile che come una caligine calava nelle grandi città. La polvere da sparo agiva subito. E i corpi morti ammazzati di poliziotti, ragazzi di destra e di sinistra finivano a terra, numerosi. Il film di Leone, Il buono, il brutto, il cattivo, non fu sorpreso e travolto dai colpi di vento. Il mondo che presentava, insieme ai due film precedenti, era una polveriera e i corpi cadevano come birilli. Se le trame in questi film di Leone sono stampelle o scheletri di una partitura d’azione e di emozioni visive, esse stesse contengono spesso documentati riferimenti storici per fare da sfondo a fatti e personaggi. L’avventura trova così una base su cui appoggiarsi. In quel periodo, agitato, carico di bare di giovani portate a braccia tra folle sgomente, i giorni erano scanditi dalla morte sempre al lavoro, una forsennata corsa alla morte tra attentati e agguati, fino oltre gli anni ’80, anni di piombo, dall’assassinio del commissario Luigi Calabresi al sequestro e alla esecuzione di Aldo Moro. Le Brigate Rosse erano tra i pistoleri. In Il buono, il brutto, il cattivo Leone racconta la guerra di Secessione americana, 1861-1865. Ci si dimentica cosa fu questo conflitto che ha alimentato tanti film di Hollywood. Come nacque. Fu la politica schiavistica che gli stati del Sud intendevano introdurre nel West a portare allo scoppio di una guerra civile tra questi stati, uniti nella Confederazione degli Stati d’America, e quelli del Nord. Guidato dal presidente Abramo Lincoln, il Nord era favorevole all’affrancamento degli schiavi neri, e vinse. Se Leone aveva pensato di rileggere quella guerra una ragione ce l’aveva. Lui stesso ha ricordato che, con l’attesa della Liberazione, e subito dopo, tutta l’Italia si era innamorata dell’America, salvo poi ricredersi almeno in parte. L’America non era soltanto l’esercito che con i suoi mezzi e i suoi caduti aveva contribuito con gli Alleati a sconfiggere il nazismo e il fascismo, ma era come la fiamma della Libertà del porto di New York: un simbolo, un faro per il cinema, il jazz, le canzoni, la letteratura. Una terra d’ispirazione da cui arrivavano i racconti di coloro che laggiù avevano fatto fortuna. Il malloppo L’America mitica, leggendaria. Amata dal cinema. Leone sognerà a lungo di realizzare un rifacimento di Via col vento, il film di Victor Fleming con Clark Gable e Vivien Leigh, tratto dal romanzo di Margaret Mitchell, in cui la guerra di Secessione è il motore di tutta la vicenda. Gli piaceva immaginare di poter far muovere i suoi personaggi all’interno di una tragedia collettiva e individuale, tra ricchezza, razzismo, amore, fuoco, fame e sangue. Non se ne fece nulla. Forse il regista ebbe persino paura di impegnarsi fino in fondo nella realizzazione di un progetto che poteva sembrare troppo ambizioso. I desideri mancati a volte sono la spia del bisogno di una sponda forte e significativa. La guerra lo è stata, lo è da sempre sul grande schermo. Vent’anni erano passati dalla fine della seconda guerra mondiale e il grande
schermo continuava a raccontare quel conflitto. Nel 1962 uscì nelle sale Il giorno più lungo di Ken Annakin, Andrew Marton, Bernhard Wicki, che racconta il D-Day del 16 giugno 1944, il giorno dello sbarco in Normandia. Un cast formidabile: John Wayne, Rod Steiger, Robert Ryan, Henry Fonda, Richard Burton. Un kolossal per soldati e mezzi militari impiegati. Le scene dello sbarco risultano ancora oggi intense, nonostante lo stile sia quello del compiacimento e della propaganda celebrativa. Nel 1998, Steven Spielberg ha rifatto queste scene in Salvate il soldato Ryan. Tutta un’altra guerra. A cominciare da una mezz’ora iniziale in cui, fra gli effetti sonori e quelli visivi, ci troviamo sbalzati dalla sala buia a bordo dei mezzi da sbarco sulle spiagge di un D-Day potenziato. Epopee che rimbalzano nel tempo. Pagine di film che inseguono battaglie, bandiere, feretri; e sfogliano la Guerra Fredda tra URSS e USA, interpretando paure, per arrivare alla guerra definitiva. Nel ’64 Stanley Kubrick realizzò Il dottor Stranamore. Una trama da partita mortale e definitiva, in cui i militari americani bruciano dalla voglia di scatenare un attacco nucleare all’URSS, corrisposti da questo paese e dalle sue bombe atomiche. Si trovava sempre un pubblico per i film bellici, talvolta bellicosi. E si trova ancora. In Italia, il cinema si occupava poco di rappresentare la guerra. Quel che c’era da raccontare era finito nei film del neorealismo. Tre registi tentavano di farlo. Si chiamavano Duilio Coletti, Francesco De Robertis, Giorgio Ferroni. Coletti nel ’52, dopo il film comico È arrivato l’accordatore di un anno prima con Alberto Sordi e Nino Taranto, diresse I sette dell’Orsa maggiore, sulla impresa di incursori della marina che affondarono con siluri chiamati «maiali» quattro navi britanniche nel porto di Alessandria; nel 1960, Sotto dieci bandiere, un’altra storia di marina con i tedeschi che danno filo da torcere agli inglesi; e nel 1968, Lo sbarco di Anzio, quello che portò alla liberazione di Roma nel giugno del ’44. Tra i primi film di De Robertis ci sono Uomini sul fondo (’41), Alfa Tau! (’42) e soprattutto La nave bianca, regista Rossellini, di cui curò la supervisione. Tre storie di mare e di eroismo. Finanziate dal Centro cinematografico della Marina militare. Rapide, costruite con intelligenza, asciutte. Un’anticipazione del neorealismo, dicono concordi i classificatori di dizionari. Rossellini, bravo già per suo conto, rubò al supervisore il segreto dell’efficacia, della sintesi. De Robertis, nel dopoguerra, continuò ad amare il mare e le storie di sottomarini in Uomini ombra e Mizar - Sabotaggio in mare, entrambe del ’54, Ragazzi della marina, ’58. Questa volta con finanziamenti privati e aiuti ministeriali della Repubblica democratica. Stile sempre veloce e concreto, ritratti di eroi ignoti che diedero prove di coraggio contro la potente flotta inglese. Fiction e imprese ripescate dal fondo della memoria, tra sommozzatori, agenti segreti, piroscafi nemici colpiti a morte. In questi film, gli eroi sono diversi dalla trilogia realizzata in piena seconda guerra mondiale. I loro volti portano i segni della sconfitta, nonostante i successi ottenuti che si stemperano in orgoglio consolatorio. Il fascismo è
affondato: tra i soldati che avevano combattuto per Mussolini c’erano uomini veri. Dignità e soprattutto coraggio. De Robertis non era l’uomo dei rimpianti ma di un destino ormai compiuto guardato con occhi appena umidi. Le divise, gli inni, le sfilate erano la facciata di un impero durato appena nove anni, dal ’36 al ’45. Un castello di carte. De Robertis lo sentiva addosso. E non era solo. Nel ’52 il regista si allontanò dal mare e si dedicò all’ultima carica di cavalleria. Il film si chiama Carica eroica e racconta di un reggimento che si lancia contro le batterie sovietiche. Muoiono tutti, si salva solo il cavallo dell’eroe protagonista che, ferito agli occhi, non vedrà più. L’attività di Ferroni risulta interessante non tanto per la qualità dei suoi lavori quanto per il suo itinerario di professionista. Nel ’43 diresse Il fanciullo del West, con il comico Erminio Macario, western parodistico, ispirato al titolo dell’opera di Giacomo Puccini, La fanciulla del West. Tre anni dopo, cambiata la situazione, girò Pian delle Stelle, sceneggiato con Indro Montanelli e Rodolfo Sonego, il giornalista-scrittore e un autore che diventerà famoso. Una storia intonata ai tempi nuovi. Militari italiani evasi dalla prigionia tedesca costituiscono nel ’44 una brigata partigiana con giovani volontari veneti. Guerriglia, spionaggio e un pizzico di amore. Produzione a basso costo del Corpo Volontari della Libertà di Padova. Dopo questo film, biglietto da visita in un’Italia cambiata, Ferroni diresse Tombolo, paradiso nero. Cronaca melodrammatica ambientata nella pineta toscana dove c’è la malavita che con truffe e prostituzione cerca di sfruttare la presenza dei militari americani accampati. Successivamente si accodò al filone storico-mitologico con La guerra di Troia (’61), Ercole contro Moloch (’63), Il colosso di Roma e Il leone di Tebe (’64), e a quello western con Un dollaro bucato (’65), Per pochi dollari ancora (’66) e Wanted (’67). Nel suo eclettismo, Ferroni a distanza l’uno dall’altro si dedicò a rivangare – come Coletti e De Robertis – la guerra e gli eroi della sconfitta in La battaglia di El Alamein (’68). Paracadutisti e fanti sprezzanti del pericolo nei punti caldi della seconda guerra mondiale. Pronti a buttarsi all’attacco e a fare da kamikaze, o quasi, contro i carri armati inglesi nel deserto che fu soprattutto di morte. La sconfitta dell’Italia si scioglieva in questo cinema ma lasciava tracce, solo parzialmente cancellate dalla lotta della Resistenza, dalle azioni dei partigiani, dai soldati dell’esercito che era rimasto fedele al re Vittorio Emanuele III, dalle migliaia di giovani che erano andati a combattere in montagna e che erano entrati nelle città affrancate dai nazisti e dai fascisti della Repubblica Sociale di Salò sui camion e altri mezzi di fortuna, forniti dagli Alleati. Una vittoria con gli Alleati non mascherava la sconfitta. I sentimenti erano di felicità in un tripudio di bandiere rosse, tricolori, pugni chiusi, armi sventolate, baci, sigarette e gomma da masticare. Ma un velo di amarezza era ben radicato nei cuori. La delusione per una tragica pagina nera resterà a lungo, anche negli stessi partigiani e negli antifascisti. Nessuna nostalgia per il fascismo, anzi: ma sentimenti a lungo vivi per le ferite anche invisibili di guerra. Il cinema del dopo-neorealismo voleva solo uscire dal clima della sconfitta
sui campi di battaglia e dal filo di malessere che non se ne andava, nonostante la fiducia nella ricostruzione e nella democrazia ritrovata. La guerra vera era un tabù. Meglio lasciarla morire nel corpo dei sopravvissuti con qualche ritorno nella nuvola di sabbia (Africa del Nord) e delle nevi (Russia) soffusa di sogni eroici sfrangiati come una logora bandiera. Meglio saltare la guerra o presentarla come fece Rossellini nel Generale Della Rovere, tratto da un racconto di Montanelli; in cui si scopre un eroe per caso: il falso generale Della Rovere, simpatico imbroglione interpretato da Vittorio De Sica, che viene preso e ricattato dai nazisti ma non tradisce i partigiani con i quali non ha rapporti, e preferisce essere fucilato. Il film è del ’59 e fu premiato alla Mostra di Venezia insieme a La grande guerra di Mario Monicelli. Interpretato da Alberto Sordi e Vittorio Gassman, che diventano eroi per caso o per forza nello scenario della prima guerra mondiale, quella del ’15-’18, Monicelli con Vincenzoni, e la coppia Age & Scarpelli inventa una plausibile storia italiana, simile a quella del generale Della Rovere, ispirandosi a un racconto di Guy de Maupassant. Furono due successi, ma la apparente parodia con Sordi e Gassman costituì un successo clamoroso. Il pubblico s’identificava nei due soldatini, uno di Roma e l’altro lombardo, che erano stati costretti ad andare a combattere, dopo aver cercato di evitarlo, e continuavano a preferire il bordello agli scontri. Finché, catturati dagli austriaci, mostrano di saper morire da coraggiosi. La fessura Sia Il generale Della Rovere che La grande guerra dimostrano che il cinema italiano stava mettendo in soffitta la guerra con le sue violenze e dolori, cercando di rimuovere il lutto del popolo affascinato da Mussolini e di far dimenticare ogni memoria dei trionfalismi, delle fanfare, delle medaglie di gloria. Il genere della tragicommedia, sconfinante nella parodia, sembrava essere la strada più adatta a cancellare un’epica fanatica e militaresca. A Leone temi come questi interessavano da vicino, mentre faceva le sue prove d’autore. Per individuarli, precisarli e raccontarli convocò le sue penne fedeli per trovare un soggetto adatto e fare Il buono, il brutto, il cattivo. Nacque la trama di tre avventurieri che, durante la guerra di Secessione, vanno a caccia di un gran malloppo d’oro scomparso. Per cercarlo, si alleano e subito si dividono; cambiano divise indossando quella dei Sudisti e quella dei Nordisti; trescano fra loro come innamorati sospettosi e si ritrovano in uno scontro finale a tre in un cimitero. Sono tre non-eroi che, nella guerra, schiavismo o no, vedono per loro un solo fine: gli interessi, il denaro, prima ancora della morte. Clint Eastwood, il Buono, venuto dritto da Per un pugno di dollari e da Per qualche dollaro in più; Lee Van Cleef, il Cattivo denominato Sentenza, già in Per qualche dollaro in più; ed Eli Wallach, il Brutto, alla sua prima esperienza con Leone, sono non-eroi. Di astuzia e di malaffare. Nell’America del 1860 non vogliono morire e non vogliono sopravvivere ma vivere. Preferiscono rischiare il tutto per tutto.
Esemplare è la scena in cui Sentenza in divisa nordista sevizia il Brutto per fargli sputar fuori informazioni sull’oro, poi costringe i prigionieri sudisti a cantare una loro struggente canzone. In una sorta di campo di concentramento, violenza e musica. Dolcezza e minacce di morte. «Mi sono ispirato a una scena che era accaduta in un campo di concentramento e di sterminio di ebrei», dirà il regista. Il buono, il brutto, il cattivo attraversa lo spettacolo, va in profondità, rivela una scelta multipla nello stile diretto e allusivo nel medesimo tempo. L’apparenza di una realizzazione diventa sempre più attraente, grazie alle limpide riprese e a un montaggio efficacissimo; e grazie alle interpretazioni degli attori, provoca, seduce, travolge. Il vero obiettivo di Leone viene raggiunto: togliere il sipario, avvicinarsi al cuore della realtà che il cinema, forma principale di narratività nel ’900, riesce a raccontare. I sorrisi, le melodie, la credulità raffigurano la tragedia nella luce del grottesco. Il film venne definito «carnevalata». Così una certa opinione pubblica cercò di esorcizzare le provocazioni del regista, le sue parabole in bilico fra crudeltà e humour, tra avidità e sentimenti. Leone spazzò via con Il buono, il brutto, il cattivo l’Italia che ostinatamente restava legata al passato e non sapeva guardare il mondo con occhi acuti. Passiva e commossa, fin troppo, dal declino della vecchia società contadina. Erano gli anni in cui Pier Paolo Pasolini, dopo aver pedinato e rappresentato «i ragazzi di vita» nei suoi romanzi e nei suoi film – da Una vita violenta ad Accattone – rimpiangeva la scomparsa delle lucciole. Pasolini provava nostalgia per le lucciole? Forse. Ma stabiliva un punto in cui si aprivano divergenze profonde, destinate ad acuirsi. Si spegnevano le piccole luci nei campi e avanzavano le luci sfolgoranti dei supermercati, la fiera dei consumi e delle aspirazioni irresistibili. Pasolini stesso era spaventato dai desideri scatenati che aumentavano e lo coinvolgevano, visto che amava le auto sportive e abiti un po’ pacchiani come i pantaloni a zampa di elefante. Tornava la parola «rivoluzione». La si pronunciava e la si consumava. Il cinema provava a inseguire la parola. Prima della rivoluzione (’64) di Bernardo Bertolucci presenta un giovane borghese che non riesce a liberarsi dalla influenza della famiglia, allontana la ragazza che ama e si perde in un matrimonio di convenienza, rinunciando all’impegno politico nel Partito Comunista. In I pugni in tasca di Marco Bellocchio (’65) un giovane epilettico ed esaltato uccide la madre cieca e un fratello, viene colpito da una crisi e la sorella, unica sopravvissuta, lo lascia morire. La situazione è carica di odio, senza futuro se non di morte. La parola «rivoluzione» fuggiva, entrava e usciva dal grande schermo. I giovani cominceranno di lì a poco a invocarla nelle piazze, così come la avevano invocata quei partigiani che erano stati convinti a consegnare le armi agli americani, mentre altri le nascondevano pensando di farla, la rivoluzione. La parola faceva paura a chi temeva una possibile vittoria dei comunisti e della sinistra. Si formarono organizzazioni segrete che trovarono nascondigli per le armi da usare contro il pericolo rosso. Gli occhi penetranti e sottili di Sentenza, ovvero Lee Van Cleef – una fessura
grande come lo schermo di cinemascope – osservavano le scene di realtà e di cronaca che si stavano preparando. Prove di rivoluzione. Scene che sarebbero affiorate di lì a poco, spargendo molto sangue, fino agli anni ’80. Violenza zelante che nasceva dallo smarrimento e dal sogno sognato ancora una volta, da rivolte e sconvolgimenti scatenati da utopie armate. Le mani di Lee il Cattivo, Clint il Buono, Eli il Brutto pescavano nella fondina e sparavano a salve. Il cimitero Intorno a Leone si decomponeva l’Italia di ieri, mentre gli eroi buffoni e assassini dei suoi film duellavano tra le croci di un cimitero. L’Italia dell’indomani o del futuro viveva un parto doloroso e difficile. Per un regista come lui, i successi della sua trilogia - Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo – lo aiutavano a misurarsi con la voglia di conoscersi meglio. Persino lo spronavano a prepararsi meglio. Mettevano le basi per un mito che gli spettatori e i molti appassionati di cinema, stanchi di formule e raccomandazioni ereditate, contribuivano a creare, augurandosi forse senza saperlo che il grande cinema non dovesse morire. Il cinema imposto, il cinema politico laconico o esaltato, il cinema d’autore modesto e pretenzioso che voleva fare lezione e si esauriva nel carisma dell’autore stesso, faceva paura. Si diffondevano le notizie sui segreti del regista che lezioni non intendeva né subirle né farle. Circolavano curiosità e rivelazioni veniali sul suo laboratorio, sulle fonti e le ispirazioni dei suoi film. Leone leggeva con passione e continuità, si diceva; amava Joseph Conrad e Cuore di tenebra (romanzo che diventerà utile a Francis Ford Coppola per Apocalipse Now), Marcel Proust e Alla ricerca del tempo perduto, lo scrittore maledetto Louis-Ferdinand Céline e il Viaggio al termine della notte. Gli artisti che gli piacevano erano Magritte e Giorgio De Chirico, di cui acquistò alcuni dipinti. Prediligeva Velázquez. Quando era in Spagna, si recava a visitare il museo del Prado. Leone diceva che, nella galleria degli autori preferiti e dei film da considerare indispensabili, figurava Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin, l’assassino che sposa, deruba e uccide ricche vedove. «Verdoux è il modello di tutti i banditi, di tutti i cacciatori di taglie. Fagli indossare cappello e stivali e hai un eroe del West», spiegava il regista. Dovuta a un’idea di Orson Welles, la storia di Monsieur Verdoux e dei suoi delitti da bounty killer si applica a un mondo dove si condannano gli assassini ma soprattutto si fabbricano ordigni sempre più perfetti per gli stermini di massa. A confronto, Clint, Lee ed Eli, banditi da sparo e d’onore, sono inoffensivi e capaci solo di proporre innocue, raffinate efferatezze. Il mito di un Leone colto, informato, votato allo studio e alla meditazione, naturalmente suscitava piccole malignità e informazioni indiscrete, pettegole. Si sussurrava ad esempio che il cognato e collaboratore Morsella, conoscitore delle lingue straniere, gli scrivesse dei riassunti dei libri e in
particolare delle novità apparse in libreria. O che, per collezionare dipinti e gioielli, il regista andasse alle aste del Monte di Pietà, nonostante che un altro amico, e collaboratore, Sergio Donati, gli dicesse che quegli oggetti erano pieni di sangue e di lacrime. «Non importa», gli rispose Leone, che pare trascorresse le domeniche a lucidare gli oggetti acquistati al Monte con sapone e uno spazzolino da denti. A ridimensionare voci e calunnie, intervenne Umberto Eco, lodando il regista e i suoi western, e includendolo il regista nell’«area nostalgica» degli altezzosi scrittori rinascimentali per il Medioevo.
Capitolo 16 Tane
Mi hanno chiesto di fare il protagonista di «Il bello, il brutto, il cretino», un film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Mia moglie, che aveva sempre qualche riserva sul fatto che io facessi l’attore, mi raccomandò di precisare bene quale fosse il mio ruolo tra i tre del titolo. Per fortuna, quella volta non la delusi. L’attore Mimmo Palmara a Stefano Della Casa in Storia e storie del cinema popolare italiano Basta il nome di Sergio Leone, con la «trilogia del dollaro» e tutti i suoi film, per evocare gli studi più prestigiosi di Cinecittà, i paesaggi spaziosi della Spagna simili alle terre dei cowboy e dei banditi, i deserti e le montagne dell’America. Tutto è grande, tutto è spazioso, illimitato nei suoi film. Tutto è kolossal, anche se i costi delle sue pellicole, pur alti o altissimi, non arrivavano al livello delle pellicole che oggi chiamiamo block buster, finanziati con cifre stratosferiche: Il signore degli anelli, Matrix, Batman Begins o Spiderman. Costi giganteschi ed effetti speciali strabilianti. Il cinema italiano non è mai stato un’industria paragonabile a Hollywood,
ma nei suoi momenti migliori un artigianato capace di produzioni di straordinaria duttilità ed efficacia, nelle scenografie e nei costumi, nella fotografia e nella tecniche del set. Le sue risorse sono state, e sono, piccole tane ignote al pubblico, ben conosciute invece dagli addetti ai lavori. Queste tane sono le salette del proiezionista. Non sono cambiate anche se sono andate avanti le innovazioni tecnologiche. Qui dentro, al momento della prima proiezione del film completato ai finanziatori del film, o quando c’è una presentazione ufficiale a un festival, il regista si reca per controllare le bobine e per seguire la regolarità della proiezione. Leone frequentava queste tane e in una di esse avvenne un incontro con due colleghi che diventeranno famosi: Bertolucci e Dario Argento, poco più che ventenni. Era prevista una proiezione di Il buono, il brutto e il cattivo. Bertolucci e Argento vennero a sapere che Leone era in cabina, e decisero di andare a rendergli omaggio. Un motivo aveva creato l’occasione dell’incontro. Una molla riassumibile in una parola sola: sogno. Una parola, più premonizioni. Bertolucci a vent’anni aveva girato due film: La commare secca (’62), tratto da un soggetto di Pasolini amico e primo maestro del giovane regista, e Prima della rivoluzione (’64). Molti anni dopo, nel 2003, girerà un film intitolato The Dreamers - I sognatori, dedicato a tre giovani appassionati di cinema che intrecciano amicizia e amori nella Parigi nel Maggio ’68. Sognatori di cinema e di politica. Argento, destinato a diventare uno dei più apprezzati registi dei film del terrore, introdurrà in molti suoi film, quasi tutti, un «dream» speciale, un sogno che si trasformava e diventava un «nightmare», un incubo. Leone aveva fatto un sogno: mettere insieme tutti e tre per pensare al suo nuovo film, C’era una volta il West, che sarebbe uscito nelle sale in pieno 1968. «Cominciammo a sognare insieme», racconterà il regista. Gli incontri si susseguirono con Bernardo, figlio del poeta Attilio Bertolucci, e con Dario, figlio di un produttore, che aveva frequentato il set da bambino e, come ricordano gli storici con una punta di sarcasmo, si era seduto persino sulle ginocchia di Sophia Loren, senza farle paura. Tre talenti diversi. Un uomo di trentanove anni e due «pischelli», come Pasolini chiamava i ragazzini di borgata. Borgata cinema. A volte surrogato di vita. Leone, sognatore incallito e uomo pratico, aveva giocato con Ercole e Maciste, con il colosso di Rodi, con gli avanzi di galera, con i trenini nelle pianure del West, con i ponti che saltavano in un maestoso, meraviglioso spettacolo di fuochi e vapori d’artificio. Adesso voleva un gioco nuovo. Azzurro omicida Voleva stupire ancora il pubblico, ancora di più. Il cinema italiano stava cambiando e si allontanava dalle storie di denuncia, dai film di Francesco Rosi, Le mani sulla città o Salvatore Giuliano, dalla commedia all’italiana con Risi e
Monicelli, e dai registi che venivano classificati e dimenticati con l’etichetta «mestieranti» come Giorgio Bianchi e altri, il cinema sezionava la società italiana a colpi di satira. Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni erano gli attori che entravano e uscivano da film taglienti a cui prestavano simpatia e disincanto. Il sorpasso (’62) e I mostri (’63) di Risi, Divorzio all’italiana (’61), Sedotta e abbandonata (’63) e Signore & Signori (’66) di Pietro Germi, Il moralista di Bianchi (’59), Dramma della gelosia di Ettore Scola (’70), Pane e cioccolata di Franco Brusati (’73), Romanzo popolare di Monicelli (’74) erano alcuni titoli che attaccavano in apparente ordine sparso mentalità arretrate e aspetti salienti, grotteschi del miracolo economico. Imputati principali: costumi sessuali, delirii di nuovi ricchi, astuzie di parassiti. Era una produzione che si scontrava con i muri di gomma dell’Italia che resisteva e addomesticava i cambiamenti. Il pubblico accorreva e applaudiva, i poteri economici e politici aspettavano che l’energia del cinema si attenuasse per scomparire definitivamente, inghiottita dalla televisione e dal tempo libero. I film imparavano che il loro nemico principale era il weekend. Avanzava contemporaneamente lo schieramento delle mostre e dei festival. La Mostra di Venezia, nata nel ’32, compiva trentasei anni nel ’68, e non era più sola. Intorno crescevano e si moltiplicavano alla velocità della luce rassegne di ogni tipo, tutte all’insegna dell’alternativa e del cinema d’autore, quindi contro il cinema spettacolo e specialmente contro la commedia all’italiana. Nel ’65 era partita in modo promettente a Pesaro la Mostra del Nuovo Cinema, con aperture verso le avanguardie, lo sperimentalismo, gli esordienti, i film indipendenti. Una valida risposta alle manifestazioni turistiche che col tempo si sarebbero ulteriormente sviluppate, mescolandosi alle feste paesane, alla sagra del fungo e della porchetta, in un tripudio di sindaci e assessori fasciati dal tricolore. Imitata male dovunque nella penisola, la Mostra pesarese veniva derubata di idee e di pellicole. A cominciare dai film dell’America Latina, opere che raccontavano le rivolte dei contadini e la repressione dei governi autoritari. Una importazione massiccia da Cuba, dove il cinema di Stato celebrava con commozione Fidel Castro, la rivoluzione, le realizzazioni sociali; dal Brasile, da cui arrivavano i film di un poeta «sovversivo», Glauber Rocha: Il dio nero e il diavolo biondo, Terra in trance, Il leone a sette teste; dal Cile, dal Venezuela, dall’Argentina. Da Buenos Aires, Fernando E. Solanas, che aveva iniziato come regista di pubblicità, portò a Pesaro insieme all’altro autore Octavio Getino L’ora dei forni, 260 minuti di film, un’inchiesta dura, serrata, affascinante sulla storia del suo paese, sul neocolonialismo, e naturalmente sulla rivoluzione. Solanas era un peronista di sinistra, così si definiva, e il suo film cercava di dare sostanza storica e ideologica ai cosiddetti «descamisados», alle masse dei diseredati. Perón era un dittatore che era stato e si era formato a Roma ai tempi di Mussolini. La sua rivoluzione si chiamava populismo. Nel finale dell’Ora dei forni, Solanas aveva inserito l’immagine di Ernesto «Che» Guevara, uno degli uomini di Fidel, argentino, assassinato nel 1967 in
Bolivia dove si era recato per partecipare alla guerriglia. Guevara, giovane, bello, elegante con il suo basco, era immortalato nel film con l’immagine fissa. Molti minuti, una ostensione sacrale. Quando a Pesaro la pellicola venne presentata la sala piena di giovani esplose per l’emozione e l’entusiasmo. Qualcuno pianse. Il grande santino dell’eroe aveva acceso la fiamma del misticismo. Fuori dalla sala, la polizia sorvegliava. Nel pomeriggio della stessa giornata c’erano stati scontri per una manifestazione di pacifisti aggrediti da gruppi di giovani di destra. Si erano verificati tafferugli e alcuni cineasti, presenti alla Mostra, erano stati portati alla stazione di polizia per accertamenti. L’icona del «Che» funzionò come il simbolo di battaglie solo rinviate. Era il giugno del ’68. La contestazione ai festival, cominciata a Cannes nel maggio, subito dopo le manifestazioni e gli scontri parigini, da Pesaro si trasferirà alla Mostra veneziana. Il cinema non sarebbe più stato lo stesso. Cominciava una lunga stagione. I film politici continuavano ad arrivare dall’America Latina ma anche dagli Stati Uniti, documentando la protesta contro la guerra del Vietnam e quella dei neri o dei giovani hippy. Dall’Europa dell’Est, arrivavano pellicole che alludevano alla protesta contro i regimi comunisti e che perciò sollecitavano interpretazioni, decifrazioni. I giovani registi italiani vedevano e s’inserivano. Paolo Breccia girò un film su Camillo Torres, il prete guerrigliero (’69) che predicava dalla Colombia la teologia della rivoluzione e aveva imbracciato il mitra. Ansano Giannarelli, in Sierra maestra (’69), immaginò che la Sardegna potesse diventare una piccola Cuba. Si trattava di film che nascevano per imitazione e osmosi. Se ne fece un certo numero. Dogmatici e impetuosi, antispettacolari, fatti con pochi mezzi e tanta buona volontà, scarso talento, scomparvero presto. Aiutati da una nuova legge, necessaria e utile nelle attese e nelle intenzioni, che nella pratica assorbì e vanificò il denaro, delusero soprattutto gli stessi neoregisti nelle loro aspettative di riconoscibilità se non di successo. Non avevano trovato un pubblico disponibile e gli altri che vennero poi languiranno in festival sempre più autoreferenziali. L’acqua è oro Leone viveva quei giorni ma il suo pensiero abitava altrove. Architettava un progetto che fosse capace di entrare nel magma di quel che stava accadendo, un altro percorso di cinema. Per rappresentare il West italiano. Non era solitario il regista della «trilogia». Nello stesso periodo, Marco Ferreri, un anno più giovane di Sergio, dirigeva uno dopo l’altro Dillinger è morto (’68) e Il seme dell’uomo (’69), due film diversi ma che proponevano un panorama di vuoto e di desolazione. Dillinger è morto racconta di un ingegnere-designer che rientra a casa, mentre la moglie dorme, si prepara una ricca cenetta, poi non sa cosa fare. Trova una vecchia pistola, la rende funzionante, si proietta filmini, scivola nel letto della cameriera, elimina la moglie, s’imbarca su un veliero. Un film sulla
noia quotidiana, sulla violenza che si sveglia nella noia, così come si sveglia la voglia di fuggire e la fuga. Non importa sapere dove porta il veliero. Il seme dell’uomo ci aiuta a capire dove porta il veliero. Superstiti di una misteriosa peste (atomica? chimica? batteriologica?) un lui e una lei si rifugiano in una casa in riva al mare. Lui raccoglie i residui della civiltà distrutta, lei si occupa della sopravvivenza. Lui vorrebbe un figlio, anzi molti figli: l’umanità deve continuare; lei si rifiuta. Due storie che sembrano lontanissime dalle cronache rumorose, dense di suoni, esplosioni e urla, e dai racconti in controluce proposti da Leone. Invece Leone e Ferreri facevano film che presentano molte analogie. In un panorama animato da superstiti. Togliamo dai film di Leone i trenini a vapore, le corse, gli spari, i ponti che saltano; cosa resta? Ci viene incontro tra nuvole di polvere un’umanità che danza e barcolla al suono inquietante di un’armonica a bocca. Avanza un vuoto di valori che prosciuga l’anima e si specchia negli spettatori. L’avventura di C’era una volta il West, sintesi provvisoria di una sconsolata presa di coscienza, andò avanti tra i sussulti. Soggetto e sceneggiatura passarono dalla coppia Bertolucci-Argento allo stesso Leone e a Donati. Serviva una scrittura più robusta, più matura. I western italiani grazie a Leone, e a Damiani o Valerii o Giraldi, erano diventati ormai una cosa seria. Cadde, o quasi, la parola «spaghetti». La tavolozza del nuovo western, colorata e colma di intenzioni, a volta di semplici pretese, congedava un genere e lo trasformava. Il simbolo della trasformazione fu Charles Bronson, uno degli attori dei Magnifici sette (1960) di John Sturges, con Yul Brinner, Steve McQueen, James Coburn, Robert Vaughn. Un volto da indio. Una figura smilza e leggera. Gli occhi taglienti come quelli di Lee Van Cleef. Grazie allo sguardo limpido, da vendicatore-giustiziere di un assassinio atroce, Charles detto Armonica diventa il protagonista nel film di Leone. In un primo tempo, l’attore destinato a fare da corpo conduttore nell’arcipelago dei personaggi di Leone doveva essere Henry Fonda. Aveva sessantatré anni, non era quindi più un giovane. A Leone piaceva, avendolo catalogato nel personale archivio mentale tra i suoi preferiti per aver interpretato Sfida infernale di John Ford. Fonda si sentiva troppo anziano per la parte. Aveva accettato con qualche difficoltà e, dopo aver chiesto un parere a Eli Wallach (il fuorilegge messicano di Il buono, il brutto, il cattivo), prese coraggio. L’indimenticabile protagonista di Sfida infernale e di Furore, dal romanzo di John Steinbeck, pensò di togliersi un po’ di anni mettendo delle lenti a contatto nere, e rendere così più spietato lo sguardo dell’ambizioso criminale che doveva impersonare. Quando se lo vide davanti, Leone gli ordinò di togliersi quelle lenti. Doveva conservare i suoi naturali occhi azzurri, rassicuranti, perfetti per un omicida. Ma il ruolo del personaggio chiave fu assegnato a Bronson e al suono della sua armonica. Il suono, il sibilo dello strumento spezzò la fascinazione degli occhi azzurri di Fonda, Frank, l’assassino.
C’era una volta il West è un film di sibili e di fischi. Da una parte, l’armonica che punge la scena, messaggera di determinazione e di morte. Dall’altra, il fischio del treno, ben distinto e ossessivo tra i rumori di una stazione sperduta. Da una parte, la partita da giocare da uomini in lotta tra crimine e onore. Dall’altra, la partita da giocare da uomini mossi dagli interessi, da dollari senza onore. Il treno è al centro del tema del film: la costruzione di una linea ferroviaria dall’Atlantico al Pacifico, passando attraverso tutta l’America. Un affare colossale che richiama avidi pescecani e avidi delinquenti, faccendieri, profittatori. È lo sfondo. Prima la guerra di Secessione in Il buono, il brutto, il cattivo e, dieci anni dopo, la prospettiva industriale dei collegamenti tra città, campagne, nuovi villaggi e paesi, in pianure aride e assetate d’acqua. Un economia che viaggiava. L’acqua è il bene prezioso che scatena i delitti. C’era una volta il West comincia con una intera famiglia distrutta dalla banda di Frank-Fonda che lavora per Morton, il magnate delle ferrovie, afflitto da un male che gli mina le ossa; vive caparbiamente, impartisce comandi, organizza i suoi piani nella lussuosa carrozza di un treno nello stile dell’europeo Orient-Express. Treni e treni: Il cavallo d’acciaio di Ford (’25) o La via dei giganti di De Mille (’39) o uno degli episodi di La conquista del West, firmato da George Marshall, Ford e Henry Hathaway (’62). In C’era una volta il West l’acqua è oro, liquido prezioso quanto e più del petrolio in un’industria in ascesa. Spesso imprendibile scorre sotto nidi di vipere e tombe. Charles detto Armonica vuole cancellare con il sangue l’uccisione del fratello a cura degli spietati accoliti di Frank. Il suono del suo strumento cancella la leggenda e mostra il West diventato cuore dei conflitti senza legge, senza regole, senza etica. Il West come le manifestazioni sulle strade, gli scontri fra studenti e polizia, le barricate, i primi feriti e poi i morti del Sessantotto e dintorni? Facili costumi? A Leone certe domande potevano dare persino fastidio. Odiava i quesiti sull’attualità politica, a differenza di altri registi. Li sfuggiva. Subiva il contagio della realtà più che dell’attualità, ci ragionava su, e andava per la sua strada. Pensava a lavorare. Aveva fondato una società di produzione, la Rafran, una denominazione composta con le iniziali delle figlie Raffaella e Francesca. Le riprese per C’era una volta il West lo avevano costretto a viaggiare tra Italia, Spagna e America. Una gran fatica fatta volentieri. Ma i tempi per le interviste, che pur concedeva, li considerava sprecati. Non gli interessava farsi inseguire dai giornali e dalle polemiche. Lo infastidivano i paragoni costanti che gli venivano di tanto in tanto proposti con il western classico adorato dai cinefili. Ad esempio con Johnny Guitar di Nicholas Ray con Joan Crawford e Sterling Hayden, realizzato nell’ormai lontano ’54, che i cinefili ritenevano l’ultimo modello valido, l’unico, un assoluto.
Nel film di Ray, la Crawford – diva sul viale del tramonto, che era stata tra gli interpreti di Grand Hotel (’32) di Edmund Goulding e di Che fine ha fatto Baby Jane (’62) di Robert Aldrich –, è la proprietaria di un saloon con sala da gioco, malvista dai notabili della zona perché dà ospitalità ai fuorilegge e ha per amante un chitarrista-pistolero. Il film termina con un duello tra due donne di carattere. Secondo alcuni critici, il film va considerato, nella Hollywood della Guerra Fredda, una graffiante parodia del maccartismo, della «caccia alle streghe», cioè ai comunisti, e del puritanesimo sessuale. Bertolucci condusse Leone a rivedere il film mentre lavoravano insieme al soggetto di C’era una volta il West. Voleva convincerlo a rivedere la sua posizione negativa verso i ruoli femminili. Leone, accusato di proporre storie mascoline, derideva il modo meccanico in cui il western americano introduceva le donne e diceva che senza questi ruoli, i film miglioravano molto. Leone non amava le donne, era un misogino? Non lo era, o lo era sul grande schermo proprio per evitare il problema e ricadere negli errori di quei western che, alleggeriti dai ruoli femminili troppo rigidi, finivano per tradire la figura della donna, proponendola sempre come una bambola da saloon o come moglie imbellettata in borghesissime case di bambola. Non solo nei western accadeva che la donna fosse schiacciata in questi schemi. Tutto il cinema popolare a Hollywood e nelle cittadelle del cinema europeo pullulava di prostitute. Migliaia e migliaia di film. Chi, a Parigi, prese coscienza di questa situazione e parlò a nome di tutte fu Simone Signoret. Dopo aver interpretato il ruolo della prostituta in Dédée d’Anvers (’47), La Ronde (’50), Casco d’oro (’52), Adua e le compagne (’60), Simone si stancò e decide di non accettare più scritture per ruoli di questo genere. Yves Montand, che era suo marito, fu d’accordo con lei. Se la sorte dei personaggi femminili nei western era indubbiamente quella che Leone criticava, lui stesso era stato testimone nel nostro cinema italiano dei Maciste o degli Ercole, o delle «maggiorate fisiche». Culturisti e culturiste. Pettorali sempre in mostra, e bocca chiusa per le bambole bene in carne. In C’era una volta il West, Claudia Cardinale è la protagonista. È, ancora volta, secondo tradizione, una prostituta. Viene dai bordelli di New Orleans e ha scelto di sposare un uomo che conosce poco. Quando arriva in quella che sarà la loro casa, glielo ammazzano. Si chiama Jill, ha due grandi occhi morbidi, i capelli lunghi e bellissimi, il corpo bianco e perfetto. Sono quelli di Claudia, bellissima. Un volto enigmatico e sempre imbronciato. Cinque anni prima l’attrice era stata Angelica nel Gattopardo di Luchino Visconti, selvaggia nel suo bel vestito al gran ballo del principe Salina. Selvaggia e capace di intimidire i ceffi più zozzi e cinici. Cheyenne il feroce bandito evaso, interpretato da Jason Robards, non osa toccarla e si limita a pronunciare una frase che insieme è una dichiarazione d’amore e di rispetto: «Mia madre era un prostituta, io non so neanche chi fosse mio padre, ma per quel poco di tempo che hanno vissuto insieme deve aver conosciuto la felicità».
Anche Frank, il personaggio di Henry Fonda, quando prende con la forza il corpo di Jill, si stende su di lei – sessantatré anni lui, ventinove lei –, e mormora parole di minaccia e di paura, riesce a comunicare solo un senso di rassegnata ammirazione e impotenza. La violenza sul quel corpo, a cui viene lasciata l’opportunità di sopravvivere, è una bizzarra dichiarazione d’amore, ma in questa dichiarazione c’è comunque la consapevolezza di una sconfitta. Chi conosce l’amore non può essere misogino. Leone aveva frequentato miss e attricette, poi si era sposato con Carla. Stava attraversando con passione creativa gli anni della immaginazione al potere, secondo gli slogan del Maggio parigino, mentre i futuri «dreamers» di Bertolucci si amavano senza remore. Aveva quasi quarant’anni. L’arrivo della pillola e della liberazione sessuale lo sfioravano. Erano fili di vita vicini e lontanissimi, forse desiderabili e impossibili. La sera, dopo la riprese, Sergio tornava a casa se non era in trasferta in Spagna o in America. Nel 1967 era arrivato un fratellino per Raffaella e Francesca, Andrea. Carla pensò che bisognava avere una casa più grande, ancora una volta.
Capitolo 17 Infelice?
La cosa che mi ha irritato quando ho visto «C’era una volta il West», leggendo le critiche dei giornali inglesi, è che lo giudicavano troppo lento. E non vedo perché un film non dovrebbe essere lento. Penso che possano esserci film bellissimi veloci nell’azione, veloci nella fotografia, veloci negli stacchi, tutto quel che vi pare. Ma mi sembra altrettando valido che possa esserci un film molto lento e degno di ammirazione. Adoro quella sensazione di un balletto in «C’era una volta il West», specialmente il primo quarto d’ora o giù di lì. Graham Greene, al National Theatre, 1971
1969, Sergio Leone compiva quarant’anni e non era felice. Ancora molto giovane, aveva raccolto le sue soddisfazioni e soprattutto, forse inaspettatamente, era diventato il regista italiano più conosciuto se non addirittura il più apprezzato. Solo Rossellini, De Sica, Fellini erano riusciti a fare altrettanto, scavalcando i confini di un cinema condannato ad aprirsi la strada all’estero con difficoltà. E non soltanto per via dell’ostacolo della lingua nel complessivo dominio angloamericano, quanto per una scelta per molti aspetti obbligata. La produzione italiana si rivelava capace di sedurre in parte gli italiani ma totalmente incapace di conquistare altro pubblico, altri spazi nel globo di celluloide. Leone era infelice. C’era una volta il West non gli aveva dato in pieno le soddisfazioni a cui aspirava. A Parigi le accoglienze erano state buone, lo chiamavano per strada e dovunque andasse si complimentavano con lui. A New York l’accoglienza fu tiepida e il regista non poté evitare alcuni vistosi tagli suggeriti dai distributori americani per ridurre la durata del film e purgarlo di alcune scene. A Londra si resero necessari altri tagli, ancora più ampi. Togliere immagini a un film, e ritoccare il montaggio, per un regista-autore com’era Leone significava mutilarlo nel corpo, oltre che nella pellicola; e sentirsi mutilare a occhi aperti. C’erano anche altri motivi di scontento. Lo sceneggiatore Vincenzoni, che aveva lavorato in Il buono, il brutto, il cattivo, era un tipo difficile, poco remissivo e accomodante. Sapeva creare, secondo il regista, momenti di grande disagio, rivendicando la primogenitura di idee che si erano rivelate felici. Vincenzoni lanciava le sue frecciate. Diceva che Leone amava stupire, far colpo a ogni costo, ovvero épater les bourgeois, sbalordire. Non era una novità. Tra sceneggiatori e registi i rapporti sono spesso altalenanti, in bilico. Vanno dall’amore alla diffidenza e al sospetto. Può capitare che scontri forti finiscano per rafforzare questi rapporti; e che gli amici diventati nemici ritrovino il bisogno di amarsi ancora di più, perdutamente. Memorabile è, in questo senso, lo scambio di lettere fra De Sica e Zavattini, un grande regista, un grande sceneggiatore. Lettere da innamorati in agguato, pronti a graffiarsi. Leone trovava altri motivi per essere amareggiato. Sapeva quel che pensavano di lui altre persone con cui aveva avuto rapporti intensi. Intuizioni, timori, incertezze. Intuiva che Tonino Valerii, regista di western, un professionista, un amico, aveva una opinione spiacevole sulla sua qualità culturale. Valerii poi confermò. Lo considerava un fantastico visualizzatore ma un uomo immaturo, entrato troppo presto nel cinema, privo di una preparazione solida, autonoma. Circolava anche la voce, pericolosissima nel cinema, che il Leone produttore fosse di un’acuta avarizia, lesinando fino all’osso nelle spese, arrivando a meschinità come non lasciare le mance o cose simili. Sul piano dei piaceri della gola, le lingue del cinema invece assicuravano
che l’autore della «trilogia del dollaro» fosse di una eccezionale prodigalità. Quella prodigalità che in pochi anni lo fece gonfiare nei vestiti, invecchiandolo nel fisico e nell’aspetto. Un gonfiore invano contrastato da una folta barba e dai capelli ordinati, ravviati all’indietro, che conferivano alla sua presenza una indiscutibile autorevolezza. Un rovello tenace cominciò a scavare in profondità nella mente del quarantenne, giovane maestro del cinema-spettacolo e del cinema-epico. Si affacciò la ipotesi di un pensionamento in anticipo. Pur conservando la casa di via Lisippo, comprò un enorme appartamento in via Garibaldi, a Trastevere, ricavato da un convento del XV secolo con una terrazza dalla vista senza limiti su Roma. Era l’omaggio al quartiere e alla zona della sua infanzia o, come sospettava la moglie Carla, un appartamento per la vecchiaia? Carla, sempre innamorata e saggia, si rese conto di vivere con un marito inquieto e ansioso. Un uomo che fumava grossi sigari Avana, guardava le partite di calcio, giocava a scacchi e girava per casa infastidendo, sono parole di Carla, l’intera famiglia. Un primitivo Si fece crescere «una barba da profeta e rilasciava tutto il tempo interviste che mascheravano la sua reale ignoranza». Ci pensava Vincenzoni a rincarare la dose nei giudizi problematici o negativi su Leone e sul fatto che si prendeva troppo sul serio, credendo di essere qualcosa fra George Bernard Shaw, il brillante scrittore irlandese, e Karl Marx, l’economista, l’ideologo. Mentre invece era stato e restava semplicemente un primitivo, un primitivo del cinema. Un primitivo, cioè un uomo che sapeva dove mettere la macchina da presa sorprendendo tutti per le invenzioni e per la fantasia con cui sapeva far nascere da una pagina del copione una storia degna di essere vista? Un primitivo perché per Leone la vita non aveva scopo senza il cinema? Come accadeva per Fellini che amando perdutamente il cinema diceva di voler avere, e ottenne, una stanza a Cinecittà per dormirci e sognare quel che avrebbe girato il giorno dopo. Stravaganze, astrazioni, gigionismi lanciati in una intervista o in una conferenza stampa per circondarsi da un alone magico e seducente? Nel 1970, quando Leone stava tentando di scuotersi dall’apatia e dall’idea di andare in pensione in anticipo, tutto il cinema italiano stava vivendo una sua curiosa euforia, convinto di poter fare nuovi sogni di gloria, nonostante i segni contrari fossero molti e piuttosto pesanti. Sul piano delle produzioni si poteva notare un appiattimento su un genere già ampiamente sfruttato, il western: nel 1968 il numero dei film realizzati era salito a settantasette, su un totale di centocinquanta, e la tendenza non si arrestava. Uno dei nuovi registi che contribuì a dar lena al genere fu Giuseppe Colizzi con Dio perdona… io no! e I quattro dell’Ave Maria, La collina degli stivali e altri basati sulla coppia Terence Hill-Bud Spencer. La coppia passò ai set di Enzo Barboni, alias E. B. Clucher, ex direttore della
fotografia di Leone, realizzando Lo chiamavano Trinità e … Continuavano a chiamarlo Trinità. Il disagio del «primitivo» Leone era forse dovuto a un senso di colpa per essere stato tra i primi a lanciare un genere di film che stava andando incontro a un degrado senza ritorno. Fu persino cambiata la definizione classica dei western all’italiana che da «spaghetti» diventarono «fagioli western», grazie alla coppia Terence Hill-Bud Spencer. Forse Leone si sentiva responsabile di un cinema fatto di pellicole false come erano falsi i deserti e i villaggi. Forse aveva paura di un successo che veniva spiegato da critici e giornalisti ricorrendo alle citazioni di Omero e dei suoi poemi. A tali accostamenti aveva aderito, addirittura li aveva fatti suoi. L’Omero del western all’italiana, dopo le fredde accoglienze per C’era una volta il West e il dubbio sulle scelte da fare, forse cercò di espiare. Dal piano della nobiltà cinematografica si degnava di scendere al piano della servitù, e poteva accettare la proposta dell’amico francese Robert Hossein che lo voleva come attore per Cimitero senza croci, scritto da Hossein e Dario Argento, un film con più di un occhio d’attenzione per Johnny Guitar. Leone interpretò il breve ruolo di un impiegato di un sordido albergo del West. Hossein e Argento lo avevano voluto perché il film conteneva rimandi alle sue opere, e gli dedicavano un cammeo, come si chiama nel gergo del cinema. Viaggio al termine Giocare era divertente e aiutava a scacciare i pensieri negativi, ma Leone aveva un orgoglio robusto sotto la barba da profeta e i chili di grasso che lo appesantivano. Aveva in mente progetti confusamente mescolati: un film su Pancho Villa, il rivoluzionario messicano; un secondo su Don Chisciotte; un terzo sul Viaggio al termine della notte, il romanzo di Céline che Sergio teneva nella soffitta delle aspirazioni regolarmente rinviate e che ogni tanto andava a spolverare. Nel mucchio selvaggio delle intenzioni entrò persino un film sugli ultimi giorni di Mussolini. Leone andava a tentoni alla ricerca di qualcosa che gli potesse scaldare i motori creativi. Poi, stanco di attendere il progetto giusto, decise di prendersi una pausa come regista e di riprovare da produttore. Che fare? La parola rivoluzione imperversava. Il cinema ne era contagiato più che mai. Un film come La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, premiato alla Mostra di Venezia nel 1966, due nomination all’Oscar, sceneggiato da Franco Solinas, era il modello perché sosteneva la causa degli indipendentisti algerini, attaccando il militarismo colonialista. Solinas ebbe l’idea di scrivere un soggetto sulla Sardegna in cui un contadino viene accusato di molestie sessuali su una bambina; ma, alla fine, si scoprirà che l’accusato è innocente ed è stato incastrato per via delle sue attività politiche di sinistra. Lo stesso poliziotto che ha fatto la scoperta della sua innocenza, non esita a sparargli. Il soggetto prese un’altra strada. Il film di denuncia si trasformò in un
western intitolato La resa dei conti, per la regia di Sergio Sollima, in cui il protagonista – nei panni del poliziotto che per l’occasione diventa sceriffo – è Lee Van Cleef. La Sardegna diventava una landa sperduta del West, come accadrà per Sierra maestra di Giannarelli, come si è detto. I registi più impegnati promettevano di appendere la cinepresa al chiodo per andare dove c’erano le rivoluzioni vero e non quelle di cartapesta e legno in un appartamento o in uno studio di Cinecittà. Ma nessuno l’appese. Qualcuno scomparve nel nulla. Qualcun altro cambiava mestiere. Qualcun altro ancora entrava in politica e si avvicinava agli estremisti, in Italia ai gruppi cosiddetti extraparlamentari o addirittura alle Brigate Rosse. Jean-Luc Godard, il regista della crisi borghese, dello sperimentalismo, cominciò a girare febbrili documentari in Medio Oriente e nell’Europa sovietizzata. Nel ’69 realizzò anche lui un western proprio a Roma Vento dell’est, con Gian Maria Volonté. Un western particolare. 5316 film Vento dell’est di Godard è un caso veramente particolare. Concepito con uno studente del Maggio ’68, Jean-Pierre Gorin, si proponeva di rovesciare e mettere alla luce le contraddizioni di uno spettacolo, il western, completamente da rifiutare. Non c’è una vera e propria storia da raccontare. Nella prima parte si assiste a un dibattito politico sul set delle riprese in cui s’inseriscono immagini di operai e di manifestazioni. Nella seconda si svolge un attacco al cinema che finge di essere dalla parte della rivoluzione e copia l’America. Un pamphlet satirico. Un’accusa sia allo spettacolo di Hollywood, di Cinecittà e di qualunque altra fortezza del vecchio cinema compresi gli studi della Mosfilm in Unione Sovietica; sia agli autori che non accettano di misurarsi con le troupe con cui lavorano, e inseguono modelli solitari e presuntuosi di maestri di cinema e di pensiero. Ma forse il più candido e più presuntuoso di tutti era Godard, un artista vero che cercava di farsi portare dal vento delle rivoluzioni, e delle contraddizioni paradossali che accettava di vivere. Vento dell’est è dalla parte opposta rispetto ai film di Leone. Se Godard era severo, sintetico, risparmiatore nelle immagini, documentarista, Leone invece era generoso, distillatore sapiente di inquadrature inventate, aveva bisogno di mezzi, divi, occhi espressivi per le sue fiabe mortuarie. Il regista italiano aveva elogiato Godard per il suo Pierrot le fou ovvero Il bandito delle undici (’65), in cui il personaggio interpretato da Jean-Paul Belmondo – uno degli attori prediletti dal regista francese – nel finale si fa saltare in aria con la dinamite. Saltar in aria, o far saltare in aria. Allora il cinema non lasciava altre vie. La dinamite. Leone cercava di liberarsi dai pensieri accidiosi, e nello stesso tempo si preoccupava di non perdersi. Scoprì finalmente la strada che lo condurrà verso la realizzazione di Giù la testa. Un film da una lunga e complicata gestazione. Avrebbe ritrovato la dinamite.
Tutto cominciò con l’acquisto da parte della società di Leone, la Rafran, di un «trattamento» (un soggetto ampliato, non ancora una sceneggiatura) intitolato Mexico, il cui protagonista era un bandito-rivoluzionario disilluso. Donati si mise subito al lavoro per rielaborare la storia. Il copione era ambientato nel momento storico successivo ai primi segnali della rivoluzione messicana, con Pancho Villa ed Emiliano Zapata contrapposti a Victoriano Huerta, il loro nemico, l’uomo del potere, che cercava di frenare gli sviluppi della rivoluzione. Leone consigliò a Donati di scrivere, come era accaduto per i film precedenti, i dialoghi in romanesco. Lo scopo era quello di dare spessore popolare, scorrevolezza, a una vicenda da ritrovare, sperduta com’era nel tempo. Diceva Leone: «Mi interessa non la rivoluzione messicana, ma la “rivoluzione” come simbolo, come mito». Era esattamente la rivoluzione che ammaliava quegli anni e soprattutto chi la sognava, identificandosi con i «dannati della terra». Leone era incerto. Non tanto per la scelta di fare insieme il produttore e il regista, visto che non sarebbe stata una assoluta novità per lui. Altri dilemmi lo pungolavano. Sarebbe stato meglio puntare come produttore su un regista italiano, escludendo naturalmente se stesso, o su un regista americano? Un nome gli era stato sussurrato all’orecchio con insistenza, come la musica dell’armonica in C’era una volta il West. Era quello di Peter Bogdanovich, più giovane di lui di dieci anni – nel 1970 aveva quindi trentun anni –, americano, proveniente dal mestiere di critico, autore di famose interviste a registi come Hitchcock o Welles; amico di Roger Corman, che era a capo di una factory dove si giravano film di ogni genere, dal poliziesco all’horror. Corman aveva aiutato Bogdanovich a debuttare nel ’68 con Bersagli, storia di uno psicopatico assassino che decide di fare una strage in un drive-in, arena cinematografica all’aperto con gli spettatori seduti nelle loro auto; e di un vecchio attore del cinema horror, stanco e deluso. Leone pensava che i finanziatori avrebbero potuto gradire il cocktail che Leone era pronto a servire, qualcosa che non era mai stato tentato prima: un regista americano coinvolto in un progetto capace di sfruttare la sua grande esperienza, e un tema forte che s’incastrava nello spirito del tempo ovvero nella formula vigente, dilagante della rivoluzione. Bogdanovich assicurava di avere visto ben 5316 film e di avere dedicato una scheda a ognuno di essi. Per la verità, quel numero cominciò a suscitare in Leone, il «primitivo», qualche dubbio.
Capitolo 18 L’incipit
Sergio mimava. È un ottimo mimo perché non parla inglese molto bene, ma dice che se lo immagina. Spiega con la mimica, come con le pistole; e anche noi, come se fossimo ragazzini, giocavamo agli americani con le pistole. Mi comprai una pistola, una Colt… una vera. Avevo bisogno di sentirne il peso. Dario Argento in Tutti i film di Oreste De Fornari «La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza.» Queste parole compaiono nei titoli di testa di Giù la testa, il film che Sergio Leone decise di girare fra il 1970 e ’71. Non sono sue. Sono del presidente cinese Mao. Mao Tse-tung, vissuto dal 1893 al 1976, tra i fondatori del Partito Comunista, creò una organizzazione politico-militare a base contadina, l’«Armata rossa», e proclamò nel 1931 la Repubblica sovietica del Kiangsi. Costretto alla fuga, organizzò la «Lunga marcia» dove avvenne la ricomposizione del partito, in nome dell’egualitarismo, del puritanesimo contadino, della frugalità, del comunitarismo. Con la «Lunga marcia» l’azione di Mao diventerà leggendaria, una leggenda che crebbe ancora quando Mao si mise alla testa delle operazioni militari nella
guerra cino-giapponese, 1937-1945, e subito dopo la vittoria entrò in conflitto con il Kuomintang, il Partito democratico di indipendenza nazionale. Lo sconfisse e nel 1949 proclamò, dopo una sanguinosa guerra civile, la Repubblica popolare cinese. Questa la storia politico-militare del grande paese, una storia che cambiò ancora quando Mao ruppe con l’Unione Sovietica e, dopo essere stato presidente della Repubblica, ispirò e organizzò campagne ideologiche e sociali culminate nella «rivoluzione culturale». La rivoluzione, 1966-1969, produsse la dittatura del proletariato che, sul piano dell’arte e della cultura, comportò una violenta protesta verso la cultura occidentale. Tutti i grandi, da Shakespeare a Mozart, per non parlare degli scrittori, i musicisti, gli artisti dell’800 e del ’900, furono dichiarati non interessanti perché non rivoluzionari, anzi chiaramente antirivoluzionari. Fece molto scalpore la sistematica distruzione di opere e spartiti. E fece ugualmente sensazione, per la scuola, l’attacco e il sovvertimento della posizione dei professori, particolarmente nella università. I professori dovevano essere rieducati. Esistono documentari, trasmessi in Italia anche da TV 7 della RAI, in cui gli studenti vengono mostrati con il libretto rosso di Mao in mano mentre rieducano i docenti che ringraziavano a loro volta della rieducazione a cui si accingevano. Il libretto rosso era il simbolo del potere di Mao, veniva sventolato nelle oceaniche manifestazioni giovanili in un tripudio di bandiere rosse e di inni patriottici. Gran parte del mondo occidentale guardava quei gesti, ascoltava quelle parole d’ordine. Con molta attenzione. Persino con un’apertura pressoché totale alle utopie che poi rivelano prassi vessatorie e autoritarie. Giornalisti italiani, come Maria Antonietta Macciocchi e Alberto Jacoviello, comunisti, fecero brevi soggiorni cinesi nel periodo della «rivoluzione culturale» e tornarono carichi di appunti che furono trasformati in grossi volumi in cui si presentava la Cina come la culla delle aspirazioni popolari esaudite e della innovazione ideologica. L’effetto dei reportage e del mito maoista fu forte in Europa, a cominciare dalla Francia del Maggio ’68, e in Italia. Furono fondati partiti e movimenti che vi si ispiravano. A uno di essi, il partito marxista-leninista italiano, aderirono numerosi cineasti e il più famoso era il giovane regista Marco Bellocchio che nel 1965 aveva girato I pugni in tasca, film amato soprattutto dai contestatori, e nel 1967 La Cina è vicina con un personaggio di idee marxiste-leniniste che in un paese della provincia italiana dà lezioni di correttezza politica sia ai vecchi partiti, sia ai gruppi extraparlamentari formati in gran maggioranza da studenti della borghesia. C’era una volta… Occhi e orecchi del cinema erano spalancati, facendosi invadere e cedendo volentieri a ogni movimento, ogni corrente, ogni sospiro da cui spirasse la voglia di schierarsi non più soltanto con la classe operaia, o con gli emarginati o i meno abbienti, ma con tutti i «diversi», poveri, oppressi, omosessuali, matti
da slegare (titolo di un documentario di Bellocchio e Agosti), contadini del terzo, quarto mondo, i «dannati della terra». Un abbraccio globale. Sotto le bandiere rosse o quelle nere dell’anarchia, i pugni chiusi, l’invocazione dei fucili («la rivoluzione passa nella canna del fucile», aveva detto Mao). Il cinema italiano, che sospirava rinascite e rivoluzioni perché sentiva di essere incalzato dalle televisioni e da tempi meno gloriosi, si votò soprattutto alla causa di tutti i «dannati» con fragoroso zelo soprattutto nelle assemblee di contestazione alla Mostra di Pesaro o a Venezia e in un’infinità di riunioni della associazione degli autori ANAC, con uno strascico di riviste e libelli. Ci fu un regista, Valentino Orsini – che aveva collaborato con Paolo e Vittorio Taviani nel 1962 per Un uomo da bruciare (sulla morte del sindacalista Salvatore Carnevale ucciso dalla mafia) e nel 1963 per I fuorilegge del matrimonio (per chiedere la legge sul divorzio) – che intitolò un suo film come il libro del medico-scrittore martinicano di lingua francese Frantz Fanon, I dannati della terra, ovvero tutte le vittime del vecchio e nuovo colonialismo occidentale. Un’opera furiosa, velleitaria, in cui si mescolavano storie private. Molto condizionata dal clima artistico e ideologico di quegli anni. Opere così non potevano piacere a Sergio Leone. Troppo «fuoco nella mente», secondo lo studio di Billington, che porta questo titolo, sugli intellettuali sedotti dal rivoluzionarismo, troppa enfasi, troppe certezze, troppa fiducia nell’immancabile sol dell’avvenire. Per Leone, il «fuoco» era quello delle pistole dei suoi personaggi, dei plotoni di esecuzione degli eserciti che uccidevano i campesinos, dei suoi vagabondi che cercavano avventure gloriose appartate in nome non della legge ma di una giustizia senza aggettivi. Il film a cui lavorava in un primo momento, anziché Giù la testa, doveva chiamarsi, «C’era una volta la rivoluzione». Tornava nuovamente quell’incipit – «C’era una volta» – per introdurre una favola cruda e disperata come C’era una volta il West e anticipare quel che racconterà non più nel West in C’era una volta in America. L’incipit fu cambiato perché sembrò privo di mordente, quasi una sorta di archiviazione della parola «rivoluzione» che era tornata a splendere nel cielo delle illusioni o delle speranze. A essere discusso e modificato non fu però soltanto il titolo. Leone, che si divertiva sempre meno nel ruolo del produttore, si era stancato presto del rapporto con Peter Bogdanovich, nonostante lo avesse accolto con formale gentilezza e fiducia. Gli regalò persino un orologio per simpatia e soprattutto per scusarsi di arrivare frequentemente in ritardo alle riunioni di sceneggiatura con lui e con Vincenzoni. Bogdanovich, ingrato, commentò con ironia sprezzante il dono, affermando che doveva trattarsi di un vecchio orologio di cui Leone desiderava disfarsi. I due non si piacevano e Sergio cominciò a fare osservazioni pesanti sulle pagine che Bogdanovich scriveva. Arrivò a definire il critico, e nuovo collega come regista, con un’invettiva tipicamente romana: «pipparolo cinico». Finché non ne poté più e mandò per posta alcune di queste pagine ai finanziatori americani per dimostrare che l’intesa era impossibile e che bisognava tentare in altre direzioni.
Il nome che emerse, sfumate freddezze e rimostranze, fu quello di Sam Peckinpah, l’autore di La morte cavalca a Rio Bravo (1961), Sfida nell’Alta Sierra (’62) e soprattutto di Il mucchio selvaggio (’69). Tutti western riusciti, l’ultimo dei quali, Il mucchio selvaggio, conteneva violente scene di battaglia mescolate a momenti di malinconia sui tramonti del West. Qualcuno giudicava malignamente questo film come una risposta al cinismo dei western all’italiana. Di ciò non si curava certo Leone che aveva visto il film, gli era piaciuto, e pensava di avere trovato finalmente l’uomo giusto per Giù la testa. Licenziato e messo in fretta su un aereo Bogdanovich, Sergio interpellò Peckinpah. Non immaginava di ricevere una risposta come quella che si sentì dare, assolutamente inaspettata. Ci fu un primo approccio che a Leone sembrò di grande simpatia reciproca in un incontro a Londra. Peckinpah sembrò addirittura felicissimo della proposta. I finanziatori americani non fecero obiezioni. La sorpresa fu il no di Peckinpah, improvviso, deciso, senza possibilità di ripensamenti; un no secco e basta. L’amato-odiato Quel no di Peckinpah irritò Leone che non era abituato a questo tipo di ostacoli. I registi e i divi famosi amano molto sentirsi dire sì. E Sergio, che fremeva per concludere, diventava sempre più sensibile e persino collerico con chi gli metteva davanti difficoltà e obiezioni di cui non gli interessavano i motivi. Per Vincenzoni, sceneggiatore di Giù la testa con Donati, il risentimento del produttore Leone arrivò a un punto tale che il regista fece incidere il nome di Peckinpah su una pietra tombale in Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii, un film che lo stesso Leone produrrà due anni dopo girando, pare (Valerii lo nega), alcune scene. Vicende di bottega tutte queste che erano frequenti a Cinecittà. Ripicche da mucchio selvaggio. Fastidi, perdite di tempo, inutili o spesso involontariamente utilissimi per i chiarimenti fra i suscettibili e ombrosi animali da cinema com’erano coloro che abbiamo nominato. Leone si chiarì le idee. Per sciogliere i nodi di incompatibilità o dissensi, il modo migliore fu quello di assumersi in modo diretto la regia. Il destino lo consegnava di nuovo al western. Aveva sperato, pensato, organizzato, dialogato a destra e a manca, con l’intento di cambiare strada, attraverso una parentesi da produttore, e invece eccolo rientrare sul set a far da regista per forza. Al punto a cui era arrivato, in fondo non gli doveva dispiacere. In giro c’era una situazione in cui il cinema friggeva come tutto il resto della società italiana. La realtà della rivoluzione, come tema e tormentone avvincente e tentatore, era sentito come un test obbligatorio dagli artisti che non si rifugiavano in storie tranquille di evasione. Per Leone, a quarantadue anni, era scoccata l’età della piena maturità. Bisognava dimostrare che il suo modo di fare spettacolo era capace di tenere il
passo dei tempi. Giù la testa partiva da un soggetto che aveva squarci tematici notevoli per il regista desideroso di intraprendere un cammino di fronte al quale altri, Bogdanovich e Peckinpah, si erano fermati. Anche Vincenzoni rimandò con toni misurati una risposta negativa all’amato-odiato committente (un odio con tutta la stima possibile). In casi come questi, meglio far finta di nulla, abbassare la testa, dedicarsi totalmente al lavoro. Leone, preparando la pellicola, scopriva che sarebbe stato opportuno smentire coloro che avevano espresso perplessità sulla «carnevalata», ovvero sul film precedente, Il buono, il brutto, il cattivo. Poteva sfidare Umberto Eco, spettatore esigente di cinema e fine analista, a ricredersi e a rimangiarsi il giudizio di «archetipi congelati» per i personaggi e le situazioni del film stesso. Poteva sfidare quanti lo attendevano al varco sulla scelta del protagonista. Gli era andata bene fino ad allora. L’importante era continuare, di più: sorprendere. Per Giù la testa ebbe addirittura due candidati, due attori di grande livello, con un ottimo curriculum. Uno era Rod Steiger: Fronte del porto (’54) accanto a Marlon Brando, il musical Oklahoma! (’55), Al Capone (’59), Le mani sulla città (’63) di Francesco Rosi, Il dottor Zivago (’65) e tantissimi capolavori o future pellicole interessanti come Mussolini ultimo atto (’74) di Carlo Lizzani. L’altro, James Coburn: I magnifici sette (’60), Il caro estinto (’65) insieme a Steiger, Sierra Charriba (’64). L’esplosivo Cominciare l’avventura delle riprese di un film, vuol dire mettere via le scartoffie, badare alla sceneggiatura, lasciare i conti in mano agli amministratori, vere sanguisughe del set. Non c’è regista che al primo ciak non avverta un’emozione profonda: al di là della fatica, uno spettacolo nello spettacolo. E non di rado è lo spettacolo di un regista che riesce a uscire dalla noia e dalle attese tormentose. Leone si dedicò a Giù la testa con una grande energia, le grane lo avevano tonificato, gli avevano fatto bene. In questa sua nuova pellicola poteva mettere in scena i pensieri e i sentimenti che urgevano dentro. I punti di partenza erano: la rivoluzione e il bilancio di un’epoca. I titoli di testa con i precetti di Mao aggiornavano un grande tema che veniva dal passato e aveva acquistato attualità. Come abbiamo visto, lo scenario reale e simbolico nello stesso tempo era il Messico di Pancho Villa e di Emiliano Zapata, capi della lotta dei braccianti indios contro la dittatura e i latifondisti. Una cornice storica come era avvenuto per Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West. Soggetto e sceneggiatura di Giù la testa mettono in campo i personaggi, ma il protagonista assoluto è l’esplosivo. Proprio nelle prime scene del racconto, Sean (un nome a cui Morricone dedicò un motivo indimenticabile, evocativo, affettuoso) interpretato da Coburn, arrivato dalla sorgente sempre viva fonte dei Magnifici sette, toglie
dalla tasca del suo spolverino una sottile, elegante provetta. Ne fa uscire una goccia e la fa cadere a terra. L’effetto è dirompente, aspro, meraviglioso, un piccolo e grande segno di potenza. Juan Miranda, ovvero Steiger, circondato dai suoi figli che hanno preso parte con lui a un astutissimo assalto alla diligenza, guarda con gli occhi dello stupore e della curiosità. Fin da quel primo momento, il bandito Juan pensa di avere trovato un alleato in quello strano irlandese che va in giro con dinamite in provetta. Qui comincia l’avventura. Juan convince Sean a rapinare una banca. La violenza privata del bandito dai molti figli si organizza mentre tra peones e soldati si sta svolgendo una vera e propria guerra feroce, con fiumi di sangue che scorrono. È in corso una mattanza praticata dai soldati con scientifica crudeltà. La sottile, elegante provetta sembra un giocattolo in mezzo alle fucilate, alle bombe, ai carri di un esercito spietato. Sean decide di stare dalla parte dei peones, senza ragionarci troppo su, per le convinzioni che si è fatto in patria, in Irlanda, nella lotta di indipendenza contro il dominio inglese. Juan, che non ha convinzioni se non quelle che gli vengono suggerite dalla sua carriera di fuorilegge, lo affianca. Faranno strada insieme in un susseguirsi di tradimenti, colpi di scena, treni che si scontrano, fino a quando Sean colpito a morte salterà in aria con tutto l’esplosivo che porta addosso. Una grande fiammata inghiotte l’irlandese, che rivede in flashback attimi di amore e di morte vissuti nel suo paese. «La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo…», così dicono le parole di Mao. Juan, nato nella violenza, ha capito la lezione. La grande vampata in cui è morto e «si è cremato» l’amico è l’atto finale di una rivoluzione che andrà avanti, senza un senso preciso, senza un reale significato. Senza Sean, Juan impara che l’avventura vissuta insieme non è un’avventura qualunque ma solo un pezzo di storia che gli è capitato di vivere. La contro-indagine Giù la testa fu girato mentre in Italia era ancora vivo il ricordo del 12 dicembre 1969, il giorno dell’attentato di piazza Fontana a Milano, con la morte di 17 persone e il ferimento di 88. La strage si portò dietro una lunga catena di indagini che si rivolsero dapprima agli anarchici. Venne arrestato e poi liberato Pietro Valpreda. Morì in questura Giuseppe Pinelli in circostanze talmente dubbie per cui si pensò che non si fosse gettato da una finestra per suicidarsi ma che fosse stato «suicidato» come si disse e si scrisse. Quei fatti mobilitarono il cinema italiano. Venne girato un documentario per proporre una controindagine. Erano anni in cui fioriva la cosiddetta controinformazione a cura dei gruppi extraparlamentari che si stavano formando. Vi aderirono e firmarono il filmato registi come Luchino Visconti, Elio Petri, Mario Monicelli, Cesare Zavattini e Tinto Brass. Lo firmò anche
Sergio Leone. Perché lo aveva fatto? Per non isolarsi rispetto all’ambiente del cinema che aveva fornito nomi così prestigiosi? Per uscire dall’avventura costruita dalla finzione e avvicinarsi alle immagini, ai documenti? A chi gli poneva queste domande Leone non rispondeva. Forse lo aveva fatto da «trovatello senza età», anche nella ideologia, come molti dei suoi personaggi. Forse aveva avvertito l’urgenza di schierarsi, di mostrarsi e di essere meno isolato. Il regista di un film, che avrebbe dovuto intitolarsi «C’era una volta la rivoluzione», non poteva smentire se stesso e le sue convinzioni. Credeva in una rivoluzione della mente, così diceva. Quel che pensava lo metteva nei film. La rivoluzione non è un pranzo di gala, ma può essere, spesso lo è, un banchetto macabro anche per gli occhi che guardano un film. Giù la testa è l’ultimo film di Leone come autore di western. L’esito fu buono ma non troppo esaltante. Lo aggredì la malinconia e forse la noia. O forse la stanchezza dopo una così dura fatica. Tornava la casa, la famiglia con le sue esigenze, e con un ennesimo trasloco che portò i Leone nel quartiere dell’EUR, verso le strade per il mare, Ostia, Fiumicino. La villa era, ed è, circondata da una recinzione di sicurezza e si entrava tramite un cancello elettrico. Lì, in quegli spazi riservati e protetti, con la moglie Carla e i figli Raffaella, Francesca e Andrea, troverà un comodo rifugio. La società di produzione era nei pressi. Tutto sotto mano. Per impedire che l’ovvietà quotidiana si ripresentasse con il suo inevitabile tedio, Leone tornò al proposito di dedicarsi alla produzione sul modello ambizioso di un David O. Selznick, colui che aveva imposto e realizzato Via col vento. Per la nuova esperienza da produttore, scelse Damiani come regista: gli era piaciuto il suo film Quien sabe?, anch’esso sulla rivoluzione messicana con Gian Maria Volonté e Klaus Kinski. Lo spunto del nuovo film veniva dritto da I santissimi (Les Valseuses, 1973) di Bertrand Blier, figlio del grande attore Bernard che aveva lavorato a lungo anche in Italia. Sia il titolo italiano che quell’originale francese erano espressioni gergali per indicare i testicoli. Si trattava di una storia di truffa con molto sesso, imperniata sul giovane Gérard Depardieu e una attraente attrice di nome Miou-Miou. L’ambientazione doveva essere western, con scene di strada, duelli con la pistola, bordelli e la Monument Valley con i volti del presidenti americani scolpiti nella roccia. Il titolo sarebbe diventato Un genio, due compari, un pollo; tra gli altri attori il sempre presente Terence Hill e Klaus Kinski. I dizionari del cinema ne parlano come uno dei migliori dodici spaghetti western fra il 1975 e il 1978, più ironico che violento. Tuttavia ben lontano dai film che Leone, ispirandosi a David O. Selznick, sognava di produrre.
Capitolo 19 Peccato morire
Volevo prendere tutti i personaggi stereotipi del western americano in prestito! La migliore puttana di New Orleans; il bandito romantico; il sicario che è mezzo uomo e mezzo killer e che vuole entrare nel nuovo mondo degli affari; l’uomo d’affari che ama credersi un pistolero; il vendicatore solitario. Sergio Leone a Christopher Frayling, in Sergio Leone - Danzando con la morte Sergio Leone e la caccia a Moby Dick, la balena bianca del romanzo di Herman Melville. Un inseguimento senza soste. Moby Dick come il cinema, Leone come il capitano Achab. Innamorato di un’arte a cui doveva tutto, amante brontolone e iracondo ma dolcemente pronto a subire ogni forma di masochismo, il regista era salito e sceso da navi di celluloide per prendere la balena bianca che gli sfuggiva per portarla dentro il grande lenzuolo bianco. Una lotta senza sosta. Quando morì nel 1989, sempre sognando di fare un Via col vento più bello e diverso dal film originale, Leone aveva sessant’anni giusti, dei quali quarantotto erano stati dedicati al cinema, a cominciare dal primo ingresso in un set con il padre Vincenzo. Se fosse morto sei anni più tardi, il regista nato tra riflettori e poi diventato
adulto tra set e pause pranzo, avrebbe festeggiato il secolo del cinema. Come regista avrebbe compiuto e sorpassato mezzo secolo di vita e di pellicola. Leone ci teneva ad arrivarci. Lo disse esplicitamente quando, nel 1985, l’«Unità» gli chiese una dichiarazione in coincidenza con l’anniversario dei novant’anni di cinema: Nel futuro vedo sale come stadi giganteschi. Ogni città non avrà che tre cinema, ma saranno stadi enormi. Saranno in grado di ospitare dieci o ventimila persone, avranno schermi da cinquanta metri e ci saranno film adatti a esservi proiettati… Ventimila, venticinquemila persone che ti circondano e respirano con lo spettacolo a cui stanno assistendo – tutto questo non potrà mai essere rimpiazzato da uno schermo televisivo per quanto grande possa essere.
Leone non si smentiva. Il cinema doveva essere grande e bastava inseguirlo perché lo sarebbe diventato. Lo voleva vedere in mezzo a migliaia di persone, nei colossei della modernità. La caccia a Moby Dick finì in una notte mentre guardava a letto con la moglie Carla il film Non voglio morire del 1958, diretto da Robert Wise, il regista di cui Sergio era stato l’aiuto in Elena di Troia. Vi si narra di una donna, interpretata da Susan Hayward, una diva dell’epoca, che viene soppressa nella camera a gas per un crimine che forse non ha commesso. Sergio appoggiò la testa sulla spalle di Carla, e disse: «Scusa, non mi sento molto bene». Pochi secondi dopo se n’era già andato. L’arrivo dell’ambulanza, quando erano ormai le 2, non servì a nulla. La descrizione di quella notte la si deve a Carla, una moglie affettuosa, una collaboratrice discreta e spiritosa, e non c’è motivo di dubitarne anche se le coincidenze hanno qualcosa di costruito, di cinematografico. Il film mandato in onda dalla TV era Non voglio morire. Un segno del destino? Ci vediamo dopo la pubblicità Torniamo indietro. Per un flashback su Giù la testa, su un film tormentato e rivelatore. Illuminante. Alle icone della politica, e delle contraddittorie rivoluzioni impastate di utopie, Sergio aveva contrapposto lo spettacolo estremo della violenza chiusa in se stessa. A confrontarsi con il magnetico Ernesto «Che» Guevara, finito a prendere polvere nei poster nelle stanze dei ragazzi, sfocati i miti cubani o maoisti, Leone proponeva i volti simpaticamente efferati di Sean e Juan, rispettivamente James Coburn e Rod Steiger in Giù la testa. Steiger rozzo rivoluzionario per caso, Coburn suo dolente Pigmalione. Archiviato Giù la testa, Sergio si scontrava nuovamente con la realtà incalzante del cinema: i progetti, l’attività della sua casa di produzione, i rapporti con i collaboratori, i riscontri dei film nelle vendite all’estero, le aspettative del suo pubblico rientravano nella resa dei conti, e la sfida doveva essere vinta giorno per giorno. Per la prima volta, il regista dei kolossal ambiziosi e molto amati, in attesa di film in cui credere e sprofondarsi, decise di fare la pubblicità. Se per molti anni la pubblicità veniva vista in modo negativo tra gli autori e i critici preoccupati di una svendita alle ragioni commerciali, in parallelo con le difficoltà del cinema e la crescente importanza della televisione ci fu a poco a
poco una conversione piuttosto netta di molti registi, anche dei più riluttanti. Da Gillo Pontecorvo ai fratelli Taviani, da Fellini a Luigi Magni, molti integravano film e spot respingendo di fatto moralismi e diffidenze prodotte da uno spirito del tempo nemico dei consumi e dei consumatori. Leone esordì nel 1974, aderendo a un invito di un amico francese, Frédéric Rossif, un documentarista di valore che si era fatto una fama meritata con lavori sugli animali e sulla storia. In pochi secondi, l’artefice dei kolossal e delle lunghe durate seppe comunicare emozioni e pubblicizzare un prodotto e una marca; si divertiva ad andare in giro, dal Marocco alla Giordania, da Trieste a Tunisi, talvolta autocitandosi. Per uno degli spot riprese un corpo alla Steve Reeves, il Mister Muscolo di Gli ultimi giorni di Pompei, e lo collocò in catene in un piccolo Colosseo. Sergio lavorava per ditte che fabbricavano gelati o automobili, a intermittenza, e aveva scarsa stima per i cosiddetti creativi delle agenzie pubblicitarie, liquidandoli con una battuta: «Sarebbe ben difficile trovare gente con idee meno creative delle loro». Leone pretendeva e otteneva libertà di pensiero e di azione, e il rapporto sia pure saltuario con gli spot resistette ben quindici anni, fino al fatidico 1989. Nel febbraio di quell’anno, nello Zimbabwe, girò l’ultimo, ancora per conto di una casa automobilistica: una corsa nel deserto tra quattro vetture e una mandria di elefanti ripresi da un biplano su cui volava lo stesso regista che dava ordini spericolati al pilota. Tra un spot e l’altro, intanto, continuava a fare il produttore, attento ai gusti del pubblico. Gli piaceva la gloria ma poi pretendeva di controllare le spese. Diede fiducia a due colleghi: con Luigi Comencini, che aveva debuttato in Pane, amore e fantasia a fianco di De Sica, fece Il gatto (1977), una commedia paradossale su una casa che i proprietari non riescono a vendere; e con Giuliano Montaldo, Il giocattolo (1978), altra commedia paradossale con protagonista un uomo qualunque che spara per caso e ci prende gusto. I due film ruotano rispettivamente sulla bravura di Ugo Tognazzi e di Nino Manfredi, un attore che Leone amava poco. Subito dopo, il produttore che sognava il remake di Via col vento, premiò Carlo Verdone, un ex allievo del Centro Sperimentale, appoggiandolo in ben tre film, uno dopo l’altro: Un sacco bello (1980), Bianco, rosso e Verdone (1981), Troppo forte (1986), tre gallerie di macchiette prese in parte dal teatro e dalla TV dove il nuovo regista aveva fatto le sue prime prove. Accoglienze favorevoli e barometro al bello per gli incassi. In Troppo forte, con Alberto Sordi, c’è una sequenza girata dallo stesso Leone. Ma il capitano Achab voleva il suo film. Passione Leone-capitan Achab il suo film ce lo aveva in testa fin dagli anni ’60. Si trattava di una reinvenzione del romanzo di Harry Grey, Mano armata del 1953 e tradotto in Italia nella seconda metà degli anni ’60. A Leone glielo lesse dall’inglese il fedele Morsella. Era un romanzo sui gangster, sulle bande di
gangster di diversa origine – italiani, ebrei, irlandesi – che scavavano cunicoli nella società americana per creare una sorta di economia criminale e sommersa. Imprese che il cinema di Hollywood aveva descritto alla sua maniera con film come Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy del 1930, con Edward G. Robinson, Nemico pubblico di William Wellman del 1931 con James Cagney, Scarface di Howard Hawks del 1932 con Paul Muni. Se mi è permesso di svelare una mia personale predisposizione, voglio sottolineare subito che come spettatore fin da ragazzo preferivo i gangster ai cowboy, Edward G. Robinson ad Alan Ladd, James Cagney a John Wayne, Paul Muni a James Stewart. La ragione consiste nella istintiva attrazione, e simpatia, per i lestofanti delle metropoli e del ’900, piuttosto che per i cavalieri delle valli solitarie, valli e avventure che mi sono sembrate troppo sognate, troppo struggenti e retoriche, salvo che nella versione di Leone. Leone, dal romanzo di Harry Grey, di cui ottenne i diritti non senza fatica per convincere l’autore e i finanziatori, fu colpito soprattutto dalle immagini che suggeriva: gli uomini efferati, col borsalino e la pistola sotto l’ascella tra i bassi di New York o di Los Angeles. La caccia al cinema e alla sua favola poteva ritrovare nuove attrazioni. Dopo il western rivisitato dal riconosciuto maestro della «trilogia del dollaro», Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo, più i due affreschi C’era una volta il West e Giù la testa, era giunto il momento di rivisitare un altro genere. Il romanzo guarda alle imprese di un gruppo di mediocri delinquenti a New York durante il periodo del proibizionismo, e a Frank Costello, uno dei capi della malavita, che viveva nel lusso. Roba di bassa e alta qualità, eccitante e storicizzabile come le avventure delle praterie. Materia viva che fece innamorare Leone perché ci vide subito la possibilità di intingere la sua passione pudica e sfacciata, sentimentale e sadica, la stessa che aveva messo nei suoi precedenti film. Ma, proprio per questa passione, come per un amore troppo desiderato di cui si ha paura, il regista da un lato spingeva l’acceleratore, dall’altro frenava. Era sedotto e temeva di essere abbandonato, cioè di non ritrovarsi fra gessati e scarpe con le ghette, mentre un’orchestra jazz tenta di coprire il rumore delle bottiglie proibite che vengono stappate. Inseguiva la sua balena-cinema, cercava di afferrarla, e si nascondeva dietro incontri, alibi, per sondare, capire, farsi dire di no e ripartire. Il signor Harry Grey, che in Mano armata racconta vicende con cognizione di causa perché era ben introdotto nell’ambiente e aveva trascorso un periodo dietro le sbarre, occupando il proficuo tempo a scrivere il romanzo, non trasmise a Leone un immediato entusiasmo. I diritti erano già acquistati, bisogna vedere, bisogna riflettere. Insomma, la cosa andava per le lunghe, finché ricomparve il produttore Alberto Grimaldi, trattò lui e alla fine acquisì il tutto e lo mise su un piatto d’argento comprato da Bulgari. Sogno
Non era ancora arrivato il piatto d’argento con la notizia che i diritti erano stati finalmente acquisiti e già Leone aveva compiuto un giro di esplorazione per capire se ci poteva essere qualcuno adatto come sceneggiatore, come regista. Le consultazioni avvennero a New York. Furono convocati John Milius, che aveva scritto L’uomo dai sette capestri per John Huston e Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Sidney Pollack, e in questo caso avrebbe potuto fare anche la regia, avendo diretto nel ’73 Dillinger un film sul rapinatore di banche negli anni ’30 che Leone aveva apprezzato; e il cecoslovacco Miloš Forman, trasferitosi in America, regista nel ’75 di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Molte chiacchiere e nulla di concreto, mentre Leone allargava il giro delle persone utili nella consultazione. Incontrò Fred Caruso, fac totum, conoscitore delle location ovvero dei luoghi più adatti per girare nella città dei grattacieli. Uno di quei tipi o tipetti da cui spesso le produzioni finiscono per dipendere se vogliono permessi e facilitazioni per girare. Le consultazioni si allargarono poi, alle prime difficoltà, ai suoi consiglieri di sempre, fra cui Ernesto Gastaldi, autore di un primo trattamento, una prima ipotesi di raccondo per il film. Pareri opposti. E dubbi e precauzioni da parte di Grimaldi che era convinto della necessità di scegliere uno sceneggiatore americano e si rivolse a Norman Mailer, lo scrittore di Il nudo e il morto e di Un sogno americano. Mailer atterrò a Roma, si rifugiò con whisky e sigari, riempiendo pagine su pagine che non piacquero a Leone. Per cui si dovette ricominciare quasi da capo. Si formò una rosa di nomi, intorno al regista più attento che mai alla scrittura, che comprendeva Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, reduci dai successi di Verdone, Enrico Medioli, che era una delle penne di fiducia di Visconti, Franco Arcalli, che era un montatore ma forniva spunti di cui si erano valsi Bertolucci e Liliana Cavani; e infine Franco Ferrini, un giovane critico, cinefilo, studioso di Leone e dei suoi film. Pile su pile di carta, la descrizione delle scene e i dialoghi. Grano e loglio, talvolta gramigna, che bisognava setacciare. Matita blu e forbici. Procedeva intanto la selezione degli attori. Una catena: Gérard Depardieu fra i primi nomi fatti; e poi i vecchi del gangsterismo classico come James Cagney e George Raft, e Glenn Ford e il sempre amato Henry Fond, e quindi Richard Dreyfuss che era sulla cresta dell’onda per Dillinger, American Graffiti, Lo squalo. Una catena che si doveva rompere per varie ragioni. Una di questa era la novità rappresentata dal progetto di Leone. Per la prima volta un regista italiano sarebbe sbarcato oltreoceano, sotto la Statua della Libertà, non solo per girare una storia americana a tutto tondo, melting pot di razze e di abitudini, ma per esplorare le zone buie del sogno americano, un sogno intriso di sangue, segnato a fondo dai singoli gangster ma soprattutto dalle organizzazioni capillari capaci di infilarsi dovunque, contando su protezioni di potere e facendola franca. Un evento inaudito. Fra i progetti da vagliare, Leone aveva giudicato negativamente il romanzo di Mario Puzo Il padrino e aveva scartato l’ipotesi di portarlo sullo schermo. Ci pensò poi un italiano di terza generazione, Francis Ford Coppola, più giovane
di dieci anni di Sergio, a filmarlo nel 1972 e poi nel 1974 con Il padrino - Parte II. Quando Leone non c’era più da un anno, Coppola girò il terzo capitolo della saga delle belle famiglie italiane, dove melodramma e pasta, nostalgia per il lontano paese d’origine e lotta dura senza paura per sopravvivere in mezzo alla giungla di cemento, non nascondevano Cosa Nostra, al contrario. Leone era persuaso che il racconto delle bande e dei banditi dovesse andare oltre e mostrare una sorta di internazionale del crimine. Il crimine andava oltre l’asse mafioso o camorrista tra il Sud d’Italia e il Nord America. Apparteneva a una nuova geografia del delitto che cresceva all’ombra della Statua della Libertà.
Capitolo 20 Un fantasma
Leone ha fatto una fumeria d’oppio grande come la Stazione Termini… è un’esagerazione perché le vere fumerie d’oppio nel quartiere cinese sono piuttosto squallide, ma l’omino seduto nella platea del cinema, che guarda lo schermo gigantesco dove un primo piano è una testa di sei metri per tre, viene aggredito da queste immagini, e quando esce porta con sé una suggestione. Per Leone bisogna épater, sempre. Da Sergio Leone Danzando con la morte di Christopher Frayling Fumerie d’oppio. All’inizio e alla fine di C’era una volta in America. In mezzo, scorrono molti minuti di pellicola e di racconto denso: la ricostruzione di vite vissute e perdute. Le fumerie d’oppio erano piccoli rifugi di piacere e di stordimento, secondo Vincenzoni, lo sceneggiatore di Leone, che non era stato chiamato a scrivere l’ultimo film del regista romano.
Era una critica e nello stesso tempo un modo per sottolineare ancora una volta la grandezza o, se si preferisce, la smodata tendenza di Leone a dilatare, amplificare, deformare le cose da visionario fino all’eccesso. La fumeria dove entra Robert De Niro detto Noodles, gangster di origine ebraica, è immensa, sembra un palazzetto dello sport con letti a castello. Noodles si accomoda su un divanetto, mentre un cinesino gli prepara una lunga pipa imbottita. In quelle volute di fumo, si intersecano fatti e fantasie. La lunga fase di preparazione; le riprese durate molti mesi dal giugno del 1982 al marzo-aprile dell’anno dopo; gli spostamenti da Roma alla Florida, da Venezia a New York, da Parigi al Montréal; i rapporti con i sindacati americani del cinema per cui fu allestita una troupe di facciata per non avere grane; la paura del produttore Grimaldi e dei finanziatori spaventati dagli insuccessi clamorosi di film come I cancelli del cielo di Michael Cimino e dalle difficoltà di altre grosse produzioni come Novecento di Bertolucci e Casanova di Fellini. Un altro fatto importante, di cui si sussurrava appena, andava più in profondità e creava tremore, preoccupazione. Leone si era sentito male nell’inverno del 1982, a sei mesi dal primo ciak. Gli fu diagnosticata una malattia cardiaca chiamata «cardiomiopatia dilatativa». Il cuore non funzionava bene, si stava ingrossando per i ritmi sostenuti della pressione venosa. Leone – si scoprì – era un iperteso e la fonte di questa malattia era dovuta allo stress di una attività che lo minava dentro da anni, invisibile. I medici appresero che suo padre Vincenzo era affetto da una debolezza cardiaca ma, evitando conseguenze, aveva deciso per tempo di rifugiarsi nella tranquillità di Torella dei Lombardi, in Irpinia, dove erano le radici della famiglia. Sergio doveva dunque fare molta attenzione, rallentare, tenere a bada le tensioni, a cominciare da quella che un artista fatica a controllare quando deve orchestrare troupe di centinaia di persone e deve seguire fotogramma dopo fotogramma i pesanti giochi della finzione. Poteva farlo? O lo stress lo avrebbe braccato fotogramma dopo fotogramma? Quasi volesse esorcizzare il fantasma della morte che si profilava prima e soprattutto durante le volute di oppio del film. Leone ricordò che Visconti aveva realizzato un suo vecchio progetto, L’innocente dal romanzo di Gabriele D’Annunzio, alla fine dei suoi giorni; morì infatti nel 1976, mentre stava ancora doppiando il film. I guai per C’era una volta in America non erano finiti. Alan Ladd junior, figlio di Alan-Shane in Il cavaliere della valle solitaria, pretese vistosi tagli. Non ci fu nulla da fare, nessuna forma di resistenza in grado di sostenere l’urto del giovane produttore. Si uscì dal dramma a furia di compromessi. Il film fu rielaborato e proposto nel mondo in diverse versioni: in Italia 218 minuti, in Gran Bretagna 228; negli USA addirittura si scese a 139 minuti. Colpi d’accetta incancellabili. Ambizione
Le fantasie creative di Leone in C’era una volta in America erano ambiziose, molto ambiziose. La vicenda abbraccia un arco di quasi mezzo secolo, diviso in tre momenti: il periodo 1922-’23 quando i protagonisti sono ragazzini, angeli dalla faccia sporca alla dura scuola della strada a New York; quello tra il 1932 e il ’33, gli anni in cui quei ragazzini sono diventati una banda di giovani gangster; e il 1968, quando uno dei protagonisti, Noodles, ovvero Bob De Niro, ricompare dalle nebbie del tempo trascorso e incontra la donna che ha amato, e violentato, Deborah. Deborah ha chiamato il figlio col vero nome di Noodles, David; ed è la donna di Max, l’amico d’infanzia, diventato senatore, accusato di corruzione, che ha invitato Noodles a una festa per rivederlo e chiedergli di ucciderlo. Noodles non lo farà e, abbandonando la festa, vedrà o crederà di vedere Max che si uccide infilandosi nelle lame rotanti di un camion tritarifiuti. Fantasie creative ambiziose, molto ambiziose, ho detto. Nessuno mai, in precedenza, aveva tentato un affresco così totale dell’America, pacato e aggressivo, sentimentale ed epico, in un andirivieni della storia, pieno di echi, dall’affarismo al sesso, dalla criminalità alla politica. L’America di un sogno americano rovesciato, trasformato in un incubo in cui la tenerezza disperata di un gangster minore, il Noodles di De Niro, risalta meglio perché è l’altra faccia della prepotenza e violenza della New York degli immigrati in cui è cresciuto. Il regista italiano cerca il confronto con i due film di Francis Ford Coppola tratti dal Padrino di Mario Puzo. L’ex autore del Colosso di Rodi, della «trilogia del dollaro», di Giù la testa vuole andare addirittura oltre. Coppola – che nel ’79 aveva diretto quel capolavoro che è Apocalypse Now sul Vietnam – interpretava le pagine di Puzo come un racconto leggendario in cui torna la nostalgia acuta, benché intrisa di sangue, per il patriarcato siciliano, per la potenza affettiva della famiglia, del familismo. La famiglia intesa come schema immutabile con una sua morale sedimentata nel tempo, in cui può essere incluso come inevitabile il ricorso al delitto e al crimine. Coppola, discendente di italiani, presenta nei suoi tre film dedicati al «Padrino» un’America di paesani che hanno fatto carriera e che trasmettono un messaggio: non c’era altro mezzo di vivere nelle metropoli e nella società americane se non quello basato sulle radici che hanno bisogno di rami di violenza, altrimenti è la fine delle radici stesse, del familismo, di un’identità. Leone va per un’altra strada. La sua America si lega all’America che ha ricostruito nei suoi western, c’è la violenza, ci sono scene e retroscena, criminali e politiche, ma il familismo è meno rigido. I protagonisti non sono solo italiani cresciuti nella melma sotto i grattacieli, sono tutti coloro che sono venuti da un altrove in cerca di un futuro. I rapporti sono cementati fra i giovani dall’amicizia e dalle avventure vissute prima da bambini e poi da adolescenti. È una visione da antropologia del crimine, senza leggenda, senza lirismi. Il duello a distanza tra Coppola e Leone è un duello sullo scenario del sogno americano, in cui si manifestano gli artigli di uno scontro fra chi ha e chi non
ha, tra chi vive quel sogno sul cuscino della ricchezza e chi invece è arrivato da un altrove, da altre terre lontane, ne ha sentito parlare, ma non riesce a prendere sonno. È interessante notare che Martin Scorsese, americano di genitori italiani, abbia sentito il bisogno di raccontare la sue esperienza di figlio di emigrati a New York, facendo Mean Streets (’72), Taxi Driver (’76), Toro scatenato (’80) sul pugile italoamericano Jack La Motta; Quei bravi ragazzi (’90), sui mafiosi degli anni più vicini ai nostri; e abbia fatto Gangs of New York (2002), ispirandosi al romanzo omonimo di Herbert Asbury, lanciandolo con lo slogan «l’America è nata sulla strada». Infatti, Gangs of New York racconta gli scontri cruenti fra i nativi americani, ovvero tutti coloro che presero presto il posto dei pellerossa, e gli immigrati di epoche successive. Si può parlare di una sorta di competizione tra Coppola, Leone e Scorsese per dimostrare qual è il vero volto del paese della Statua della Libertà? Un cosa in comune c’è: una terra irrigata dalla rabbia e dal sangue. «Ho bisogno di uno Stato» Con la «cardiomiopatia dilatativa» che gli pendeva sulla testa come una colt, Leone cercò di smaltire gli sforzi, le eccitazioni, gli entusiasmi, i malumori di quel gigante creativo che fu ed è C’era una volta in America. I critici si divisero, facendo un favore al regista che si giovò degli elogi come dei biasimi, e riprese lena, tornando a fare pubblicità, mettendo in cantiere quei colossi o giganti di celluloide senza i quali era incapace di vivere. Con la morte aveva intrapreso una partita a scacchi, come accade nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman, regista più pensoso di lui. Un finale di partita che Leone viveva nella seconda parte degli anni ’80 cercando saggezza. Diceva di voler lavorare poco perché non desiderava andarsene con l’occhio al mirino della cinepresa, e aggiungeva per i giornalisti: «Non voglio essere ricordato come un filosofo a differenza di molti miei fratelli di celluloide ma come uomo di spettacolo, altrimenti è meglio che mi dimentichiate completamente». Lavorava poco? Leone mentiva. Aveva individuato un progetto che era senza dubbio ancora più complicato di C’era una volta in America. Il suo nuovo sogno non era americano ma era un sogno russo. Aveva letto il libro di Harrison E. Salzbury, I 900 giorni - L’assedio di Leningrado, e voleva filmare questa terribile storia della seconda guerra mondiale nella battaglia fra i nazisti e la città di Leningrado in cui persero la vita tre milioni di persone. Una battaglia decisiva che contribuì, con la resistenza dell’esercito sovietico, a cambiare il corso del conflitto. A Leningrado, l’ex San Pietroburgo, bellissima città di palazzi e di musei, fondata dallo zar Pietro il Grande e ribattezzata per onorare il rivoluzionario Vladimir Il’ič Lenin. Leone aveva elaborato le prime scene. Era una descrizione ardita e affascinante, che cominciava con il dettaglio della mano di Dmitrij Šostakovič che suona il piano, cercando le note della sua Settima Sinfonia dedicata a
Leningrado; poi, la cinepresa usciva dalla finestra, mentre le note diventavano quelle di una orchestra, compiva un piano sequenza lunghissimo, e presentava un viaggio nell’inferno: esasperate file davanti ai negozi, brutali accoppiamenti nei sottoscala, pile di cadaveri congelati, funerali abbandonati nei giardini pubblici, flagellazione di soldati tedeschi catturati, e via via atrocità e terrore per raccontare l’assedio e tutte le sue rovine. Leone era talmente convinto e preso dal libro e dalle immagini che ne scaturivano, da sottovalutare forse le difficoltà di tale impresa. Non si trattava di un film comune, costoso e irto di problemi, ma di una pellicola che doveva uscire da una sorta di trattato a livello di stati, Italia e soprattutto Unione Sovietica. Leone aveva avuto un’esperienza in questo senso, per un film su Marco Polo, da fare con la Cina, da cui si ritirò per lasciarlo all’amico Montaldo che lo portò a termine, con interminabili conflitti e strascichi politici e finanziari. «Ho bisogno di uno Stato», diceva il regista che si trovò di fronte perplessità dei partner sovietici, ogni volta pazientemente rimosse, ma i giorni scorrevano e Sergio sentiva l’incalzare delle lancette dell’orologio e della partita a scacchi con la morte. Il libro di Salzbury non era stato tradotto in Unione Sovietica e quindi non era condiviso fino in fondo; ma c’era un altro libro che poteva essere utilizzato come fonte: Le voci dell’assedio. Leningrado 1941-1943 di Daniil Aleksandrovič Granin e Aleksej Adamovič. I sovietici non riducevano i loro dubbi, e suggerivano in sostituzione il vecchio romanzo di John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Reed, giornalista americano conquistato dalla rivoluzione, era amico di Lenin ed è l’unico americano sepolto al Cremino. Esisteva già un film ricavato dal romanzo diretto nel 1981 da Warren Beatty. Ma Leone aveva altre idee, altre intenzioni, e per farsi capire meglio in una conferenza stampa a Mosca tornò a citare Via col vento, ovvero una storia d’amore sullo sfondo di una guerra. L’ultima armonica Leone, come sappiamo, non riuscì a fare né il remake di Via col vento né L’assedio di Leningrado, nonostante partenze, ritirate, ripartenze. Leo Benvenuti, lo sceneggiatore, l’amico di Sergio, riassumeva la situazione in modo spiritoso e grave, paragonando i progressi o i regressi del progetto ai fatti della politica globale, affermando: «Incontro Gorbačëv-Reagan in Svizzera, risultati eccellenti – il progetto va avanti; summit in Islanda, una brutta atmosfera – il progetto torna indietro». I tira e molla continuarono stancanti, con improvvisi barlumi che rapidamente svanivano. Leone non si dava per vinto e tesseva la sua tela. Ma non smetteva di pensare anche ad altro. Conobbe, in alcuni incontri a Roma, Richard Gere e Mickey Rourke, e circolò una larva di soggetto su un western imperniato su «due figli di puttana», così si espresse Donati, un altro sceneggiatore del gruppo di Leone, e completò in questo modo: «… Tanto i tuoi film, Sergio, non cominciano sempre così?».
Non se ne fece nulla. Premevano e svanivano le ipotesi di film, aumentavano le ansie mai sotterranee sulle condizioni di salute. Si parlava di un trapianto del cuore. Leone cercava di arginare l’inquietudine accettando di presiedere giurie ai festival e contribuì a far premiare Ermanno Olmi per La leggenda del santo bevitore nel 1988 a Venezia. Andava e organizzava feste nella casa romana in via Nepal, una villa, allestita dal suo scenografo Carlo Simi, dove disponeva raffinati mobili e dipinti. Comprò un appartamento a Parigi. Continuava ad apprezzare molto, troppo, il cibo, il vino, e per nascondere il suo corpo abbondante indossava un largo caffettano arabo, assomigliando sempre più a Orson Welles, cosa che non gli dispiaceva. Fuori, si consumavano le ore di una svolta inarrestabile. Nella Roma del cinema le realtà cambiavano velocemente, gli studi di Cinecittà venivano occupati dalle TV e dai loro programmi di varietà, attori, produttori e registi litigavano per le poche lire messe a disposizione dallo Stato, all’estero non volevano più i film italiani, e gli stessi spettatori italiani voltavano la testa da un’altra parte. Tutto era diverso, era finito il glorioso cinema delle cambiali, delle vertigini al botteghino e quindi le cadute nella polvere dei fallimenti. I giovani del cinema, che amavano il cinema come un’amante che si negava o che addirittura svaniva come il fumo dell’oppio in C’era una volta in America, guardavano smarriti lo spettacolo che apriva pericolosamente le braccia verso di loro. Qualcuno si sarebbe salvato. Leone non aveva completato i suoi desideri in celluloide, era ammirato e adulato ovunque. Lui, figlio di Vincenzo, regista del muto, e di Edwige detta Bice, attrice del muto, aveva fatto pochi film ma questi film avranno a lungo immagini e voci che non si dissolveranno nel nulla. Il suono di un’armonica a bocca, di un fischio interminabile, di una voce di donna – le colonne sonore di tanti film – resistevano tenacemente. Mi piace pensarlo: quelle note entrarono la notte del 9 aprile del 1989 nella casa dei Leone mentre Sergio e Carla a tarda ora guardavano il film di Robert Wise, Non voglio morire. Sergio disse: «Non mi sento tanto bene». Forse prima di chiudere gli occhi pensò che si sarebbe addormentato e che la mattina dopo sarebbe tornato a lavorare al progetto sull’assedio di Leningrado. Il 9 novembre dello stesso anno, migliaia di persone festeggiarono la fine della divisione di Berlino abbattendo il muro costruito nel 1961 dall’Unione Sovietica. Di lì a poco Leningrado tornerà a chiamarsi San Pietroburgo. Il film sull’assedio attende ancora.
Capitolo 21 Via Nepal
Senza gli spaghetti western… non esisterebbe una buona parte del cinema italiano. E Hollyood non sarebbe la stessa senza Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Charles Bronson, senza Morricone. Tra i registi degli ultimi quarant’anni Sergio Leone è stato colui che ha più influenzato il cinema delle nuove generazioni, più di John Ford o di Howard Hawks… Nei western italiani c’è spesso un sottofondo omosessuale, in primo piano c’è spesso un’amicizia maschile forte, che a volte diventa odio. In fondo, tra Clint Eastwood e Lee Van Cleef c’è una storia d’amore. Quentin Tarantino
a Maria Pia Fusco, «La Repubblica», 17 luglio 2007 Il fungo è posto in cima a una collinetta. È una cisterna dell’acqua che in un pomeriggio d’estate molto caldo fa ombra. Il sole scotta e non se ne va, le ore del tramonto sono vicine ma non arrivano. Arriva all’improvviso, rapido, inatteso un temporale che oscura il cielo e inghiotte la cisterna e la collinetta. Un lampo, due, e la pioggia comincia a scendere impetuosa. Grandina. Poi di nuovo tocca alla pioggia. Mi scopro solo in mezzo a un luogo già di solitudine. Davanti a me le strade sono torrenti. Freno e mi blocco. Guardo avanti, cercando di capire dove sono. Non vedo le scritte con i nomi delle vie. L’EUR, in quel punto, è un semideserto costellato da cactus, cactus che sono case e ville di cemento in mezzo a cespugli di pini. Cerco via Nepal. È l’indirizzo dei Leone. Ma non lo trovo. Decido di telefonare al numero di Carla, la moglie, la vedova di Sergio che mi aspetta. È occupato, riproverò. La pioggia intanto non smette, anzi. È una cascata inarrestabile. Il numero di Carla è occupato. Ho rimesso in moto e guardo le scritte, che sono tutte di paesi lontani, asiatici. Sarà anche per questo motivo che mi sento spostato dal deserto con il fungo a una foresta nella terra dei monsoni. Ne avverto l’odore pesante di umidità, il brivido di gelo sulla pelle. Finalmente il telefono di Carla è libero. Chiedo indicazioni. I numeri sui cancelli delle ville e villette non si leggono o sono cancellate dai graffiti. Credo di avere capito e scendo dalla macchina. Piove ancora, e forte. Vado incontro all’acqua, individuo il cancello, per fortuna Carla ha mandato qualcuno con l’ombrello. Ma la giacca è partita e bisognerà asciugarla. Spunta un phon. Entro nella casa di Carla, e di Sergio. Il salone è tutto colori chiari, dorati. Alle pareti diversi quadri, riconosco un De Chirico. Sui piani e i mobili che s’inseguono tutto intorno, una dopo l’altra tante belle fotografie in cornici eleganti e luminose. Sono lì per parlare naturalmente di Sergio. Ma non ho domande specifiche da fare, né desidero sottoporre Carla a richieste di documenti, lettere, copioni di soggetti e di sceneggiature. Forse non ho curiosità in questo senso perché Leone è stato studiato e vorrei dire indagato a lungo, setacciato a fondo, omaggiato e persino museificato. Alla Mostra del Cinema di Venezia del 2007, padrino Quentin Tarantino, è stata presentata una rassegna «Western all’italiana», figuravano trentadue titoli dei diversi autori che ho citato nel corso di questo libro, e naturalmente Per un pugno di dollari. Carla è seduta con un’amica. Vedo muoversi nella casa una persona che è addetta alla società di distribuzione e produzione di cui si occupano i figli di Leone, Raffaella e Andrea. Arriva e saluta gentilmente. I figli non ci sono, neanche Francesca che fa la pittrice e che ha avuto qualche piccola esperienza come attrice, «essendo molto carina», aggiunge la madre Carla. I figli con affetto dicono di Carla che sembra un personaggio di un film di Frank Capra. Scopro che, adesso, non so bene cosa dire. Non mi sono ancora ripreso dall’incubo del monsone così aggressivo e le chiazze di bagnato mi danno
fastidio. Ma a poco a poco percepisco meglio la situazione. Se la presenza di Sergio si sente ovunque, specie nelle immagini che lo ritraggono con il suo volto e la sua barba imponenti, la distanza di anni dalla sua scomparsa trasforma ogni cosa in reliquia, in segnale che fa lievitare più emozioni che ricordi. Le emozioni si vivono meglio in silenzio. Allora, parliamo d’altro con Carla. Ma si resta in tema. Del resto, che ci faremmo noi due lì se non ci fosse il pretesto di Sergio e soprattutto dei suoi film? Brandelli di Leone. Il suo amore per la musica, i rapporti con Morricone, rumori e suoni che diventano partiture. Il cinema ha avuto sempre una sua musica, anche quando era muto. Con Charlie Chaplin, che fischiava e un maestro ricavava le note; e con Leone, che non fischiava ma brontolava e faceva sentire a parole i sonori banali – il cigolio di una porta, il ronzio di una mosca, gocce d’acqua – che Morricone trasformava in colonna sonora. Si fa tardi, parlando di musica. Fuori, la tempesta è passata. L’appuntamento per un prossimo incontro è vago. Sono soddisfatto. La casa di Leone è un sacrario composto, sorridente, grazie a Carla che possiede leggerezza e ironia. Esco. Ma non da solo. I segreti di Brokeback Mountain Ci sono domande e risposte che stanno bene fuori da un «sacrario». Ci sono temi che stanno sulla pellicola e non si può tirarli giù da lì, dallo schermo, come in La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen dove i personaggi possono scendere dal grande lenzuolo. Ma i segreti dei personaggi restano su, e non si può che cercarli lì. Adesso che il cielo si è aperto sopra di me, e percorro via Nepal finalmente fuori dalla nuvola di caldo e pioggia, qualcosa dell’incontro mi è rimasto nella testa. La colpa è di un colore. Il rosso del tramonto dell’EUR si trasferisce in un fiume, in un Fiume rosso, il film di Howard Hawks, un western del 1948, a tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale. È la storia di due mandriani, uno interpretato da John Wayne, l’altro da Montgomery Clift. Un uomo alto, robusto, lo sguardo sicuro, un John Wayne che non è il solito John in divisa anche quando non la indossa. Un giovane, la fronte alta sotto capelli che già diradano, gli occhi tesi e febbricitanti, un Montgomery Clift, dall’aria sempre sofferente. Le mandrie pascolano e partono. Viaggiano nelle pianure, ondeggiano, corrono spaventate, si placano, ruminano senza pensieri per la macchina da presa. Ma che importa di loro? Le scene raccontano un’avventura di bovari che prendono sul serio il lavoro che fanno e non si lasciano distrarre. O racconta invece un’altra storia, quella di due persone, di due uomini, di due maschi che scoprono di vivere una «amicizia virile»? Cos’è un’amicizia virile, il cinema lo dice fin dalla origini. I film western, di guerra, di legionari romani o di gladiatori, di detenuti la mostrano con pudore, a tratti. Si tratta di rapporti che si evolvono, nelle pellicole di ieri, per accenni e per sguardi. Alludono spesso intensamente ai segreti che possono crearsi in un’evoluzione dalla quale lo spettatore viene escluso. Diceva Luis Buñuel, il
grande regista spagnolo, che il sesso si vede meglio se viene vissuto dietro una porta chiusa. Come succede nel suo film Bella di giorno. Il gioco delle porte chiuse trapela solo a tratti nelle battute di Catherine Deneuve che riceve i suoi clienti-amanti e poi mostra una strana scatoletta in cui ci sono misteriosi insetti, usata nella riservatezza della camera dell’amore. Molte porte chiuse, anche in mezzo alle praterie dei western. Dove saranno andati a rifugiarsi Wayne e Clift, i mandriani di Hawks, se sono andati davvero a nascondersi? La loro amicizia virile, fatta di avvicinamenti, dialoghi, movimenti, galoppate, riconoscersi ed esistere l’uno per l’altro, resta nelle misure imposte dal regista. Per cui un desiderio d’amore può nascere e disperdersi nella polvere di una mandria in cammino, restare amicizia virile. Da Fiume rosso ai western di Leone passano sedici anni esatti. Ma le porte chiuse ci sono ancora. Clint Eastwood e Lee Van Cleef in Per qualche dollaro in più si guardano a lungo, brillano le pupille sotto le ciglia lunghe ben arcuate dal truccatore, i messaggi parlano di amicizia virile. Dai film di Leone a I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, la pluripremiata pellicola del 2005, passano poco più di quarant’anni. La lezione di Buñuel è da tempo dimenticata. I segreti non sono più segreti. L’amicizia virile è diventata amore. Struggente. I cowboy vivono negli anni ’60, non sono più quelli di una volta, l’orologio non torna indietro come nei film di Leone. Li ha descritti una donna, Annie Proulx, nel suo romanzo che ha ispirato Ang Lee, un regista che viene da altre praterie. Sotto i cappelloni battono due cuori che cercano, che non si sono spenti. Vivono la loro avventura con gioia e malinconia, tra paesaggi che sono rimasti gli stessi, il saloon non c’è più, a casa attendono le mogli. Niente duelli. In un western che non ha più nulla di western, se non le mandrie, le amicizie che sono diventate amore affogano nella nostalgia di un gesto, di un bacio. Dopo l’ultima volta, quando si avvicina la parola fine, e non solo del film. Per l’ultima volta Clélia Cohen nel libro Il western - Il vero volto del cinema americano, guardando indietro alle origini di questo genere, osserva che all’inizio c’è stata una deflagrazione silenziosa: la coincidenza quasi perfetta tra la fine della conquista del West e la nascita del cinema. Il western, che per venire alla luce aveva avuto bisogno del cinema (contrariamente alla commedia musicale, che avrebbe potuto concentrarsi a Broadway), era nato su ciò che era appena scomparso. Anche il western di Leone è nato su ciò che era appena scomparso: la fine dell’Italia del dopoguerra con i suoi sogni e desideri. L’Italia della conquistata libertà e della breve, avventurosa storia del neorealismo scopriva con il western e la commedia all’italiana qualcosa di diverso, di nuovo, di incomprensibile e violento. Il western americano cercava di riconquistare con la finzione e con il mito un territorio che, geograficamente, era scomparso. Il western italiano ha fatto la stessa cosa, ma è andato a vivere nel mito e lo ha trasformato con la sua
finzione. C’era bisogno di spazi diversi e nuovi per l’avventura, Leone ha cominciato a crearli e ha trascinato con sé gli autori che, nel corso dei capitoli, abbiamo visto al suo fianco e poi sempre più autonomi. Il western americano tornava ai tempi favolosi degli inizi, cercando di raccogliere gli ultimi fuochi: L’occhio caldo del cielo (titolo originale The Last Sunset, L’ultimo tramonto, 1961, di Aldrich), L’ultima caccia, 1956, di Richard Brooks e molto più avanti nel tempo L’ultimo dei mohicani, 1992, di Michael Mann, e tanti altri titoli contraddistinti sul «mai più», su una realtà che si tende a lasciare per sempre alle spalle, tentando però ancora di recuperarla nei paesaggi, nelle posture perdute, nel cavalcare, nel camminare con il cinturone pesante sui fianchi. La Cohen parla di potenza mitica dei gesti e la tristezza dell’eroe: montare a cavallo, sfoderare l’arma, far tintinnare gli speroni sulla pedana del saloon, coprirsi il volto con il cappello per isolarsi dal mondo il tempo di un sonnellino all’aperto, tutti gesti rilevanti compiuti mille volti nel film, sempre con la segreta consapevolezza che lo siano per l’ultima volta.
L’ultima volta dei western americani, il «C’era una volta» di Leone e di tanti altri western italiani. Entrambi dissolti. Il paesaggio è vuoto e sfoderare l’arma non basta più. Restano le celebrazioni. Era tutto questo passato remoto che vedevo e sentivo comunque vicino. La casa di Carla e Sergio, sorta in una zona di Roma, l’EUR, costruita durante il fascismo per l’Esposizione Universale del 1942 che non si fece; venuta su nelle lottizzazioni violente un decennio dopo la guerra ’40-’45, mi era sembrata in quel pomeriggio-sera di pioggia una sorta di rifugio delle memorie di un cinema che non c’è più. Con i suoi miti, le famiglie che si modellano sui padri, le persone di un «C’era una volta» che continuano a frequentarsi. Ero entrato bagnato in un appartamento elegante che non nascondeva gli anni dei suoi arredi e dei suoi mobili. Ne ero uscito meno bagnato, intimidito, con curiosità sfumate. Le avrei cercate nella pellicola. Desideravo sedermi davanti a uno schermo e vedermi un film. La porta chiusa o semiaperta. E spiare il Leone.
Capitolo 22 La fiaba
Il 1964 è un anno di transizione. John Ford gira il suo ultimo western, «Il grande sentiero», Raoul Walsh il suo ultimo film, «Far West», mentre Sergio Leone realizza «Per un pugno di dollari», primo episodio della «trilogia del dollaro» con Clint Eastwood […] Gli spaghetti western […] affrontano il western come oggetto di studio quasi scientifico […] il cigolio di una porta che si apre, una mosca che si attarda sul volto di un tizio patibolare, gocce d’acqua che cadono a intervalli regolari su un cappello. Tutto è sensibile, sensoriale, presagio dell’azione futura. Clélia Cohen, Il
western - Il vero volto del cinema americano La fiaba del cinema è un affare. Nel 1964, l’anno di transizione da John Ford e Raoul Walsh a Leone, in Italia i numeri del grande schermo sono ancora altissimi. Le sale risultano gremite da milioni e milioni di spettatori. Quattro anni prima erano 750 milioni, un primato; ma la quota raggiunta resta più o meno costante. I film italiani sono più visti di quelli americani, ed è la prima volta che accade dalla fine della seconda guerra mondiale. Il successo riguarda anche le esportazioni che sono pari a venti milioni di dollari contro i dieci del 1957 e il pallido uno del ’49. Aumenta intanto il numero dei produttori che arriverà a metà degli anni ’60 alle 400 sigle. La fiaba si stende nel tempo. La produzione di film cresce considerevolmente in pochi anni, dai 94 realizzati nel 1949 si passa ai 201 del ’54. I numeri a tre cifre dureranno ancora per oltre un decennio. La concorrenza della RAI e dei suoi programmi comincerà a farsi sentire, ma non subito. Le prime trasmissioni – telegiornali, sceneggiati, varietà – sono andate in onda dal 4 gennaio del ’54. La gente guarda la televisione al bar sotto casa, nelle vetrine dei negozi di elettrodomestici, in casa degli amici, in parrocchia. Tre anni dopo, nel ’57, esplode il quiz condotto da Mike Bongiorno, «Lascia o raddoppia?». Riscuote un tale successo che le sale decidono di chiudere il giovedì sera o di installare televisori per tutta la durata del quiz per poi riprendere la normale programmazione di film. Come ho scritto, nel 1965 entra in vigore la Legge Corona, la precedente risaliva al ’49. Il ministro Achille Corona, socialista, fa parte del governo del centrosinistra guidato da Amintore Fanfani, democristiano di sinistra, grande avversario di Aldo Moro. La legge è pronta dopo sei anni dalla nascita del Ministero per il Turismo e lo Spettacolo, affidato al democristiano Umberto Tupini. È la svolta. Un cambiamento di rotta accompagnato da dibattiti, assemblee, documenti di cineasti. Uno di questi documenti, firmato per primo da Rossellini, invita tutti a «una illuminata collaborazione» e chiede «se il cinema debba essere considerato sul piano della cultura e dell’arte, oppure come mezzo di squallida evasione e di rimbambimento del pubblico al pari della televisione». Per evitare le conseguenze negative, lo Stato non solo può ma deve intervenire in modo sostanziale. Si apre così una lunga stagione in cui la fiaba comincia a non essere più un affare e a trasformarsi in un problema. Concorrono a determinare la situazione un fatto decisivo che riguarda la politica e i partiti. Si fanno delle scelte precise. La Democrazia Cristiana, fra cinema e televisione, preferisce la televisione, cioè la RAI, azienda pubblica e privata insieme, compresa tra le imprese dello Stato nell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale. La DC e il mondo cattolico non amano il cinema che considerano un’arte capace di corrompere gusti e costumi. Meglio lasciarla andare alla deriva con i suoi film licenziosi (anche La dolce vita, il capolavoro di Fellini viene
considerato tale), violenti, commerciali. Meglio puntare sulla TV. Meglio infine vedere lentamente deperire il mercato e autorizzare sovvenzioni pubbliche secondo scelte di qualità o di aiuto ai giovani talenti. Scelte che si riveleranno spesso sbagliate a causa di un altro fatto politico importante. A selezionare i meritevoli ci penseranno gli incaricati di partito o loro fiduciari, spesso poco competenti. Sono le prima mosse sullo scacchiere di una novità politica che verrà poi definita «lottizzazione», ossia spartizione di zone di influenza, di cariche e di clientele. Se la DC si riserva la televisione, il cinema e il teatro vengono destinate all’influenza del Partito Socialista, con attribuzioni limitate agli altri partiti del centrosinistra, il socialdemocratico e il repubblicano. Sembra una distribuzione di poteri capace di soddisfare tutti e di riorganizzare lo spettacolo nel nostro paese. Poi, negli anni ’70, si porrà una nuova questione: il peso sempre maggiore del Partito Comunista che troverà interlocutori nel centrosinistra, nella DC e nel PSI, e a poco a poco entrerà nella stanza del potere. La «lottizzazione» resta e anzi si amplia, diventa sistema. Quella che sembrava svilupparsi come un’ulteriore tappa di una distribuzione di poteri, si trasforma in duelli. Destinati a durare. Per un pugno di mosche. Una sfida senza spargimento di sangue La fiaba continua negli anni di Leone. È la fiaba del cinema popolare o a volte popolarissimo che vive all’ombra dei grandi registi come Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni; e che ha una storia semisegreta studiata soltanto all’alba del nuovo secolo, il Duemila. Sergio Leone è uno dei suoi grandi autori, uno dei suoi maestri. La fiaba di questo cinema popolare è intessuta di disattenzioni e di riscoperte tardive, ma anche di silenzi e di fughe. Disattenzioni dovute a uno spostamento lento ma irreversibile, dalla creatività alla lezione pedagogica. Il fascismo aveva trovato i suoi modi, le sue tecniche per salire in cattedra anche sul grande schermo, con parole vellutate o con le formule altisonanti,impegnative per tutti, come piaceva dire a Mussolini: «Il cinema è l’arma più forte». Finito il fascismo, conclusa la guerra, la repubblica antifascista aveva mandato in giro nella penisola giovanissimi assistenti sociali sconosciuti o che diventeranno giustamente famosi – tra cui Mino Argentieri e Goffredo Fofi – per cominciare un lavoro di rimozione dei passati insegnamenti e di diffusione dei principi della democrazia. Era il cinema, con circoli che sorgevano un po’ dovunque, a suscitare interesse per questi temi e a far conoscere non solo gli autori del neorealismo, ma anche gli autori stranieri sconosciuti e fermati ai nostri confine con le loro pellicole. In parallelo, a far da cuscinetto, perdurava una mentalità ereditata dal recente passato, fatta di schemi ideologici rigidi. Emergeva una contrapposizione che nel cinema si esemplificò nei film tratti dai racconti di
Giovanni Guareschi pubblicati dal settimanale dichiaratamente di destra «Candido» e poi raccolti in un libro intitolato Mondo piccolo. Don Camillo, apparso nel 1948. La contrapposizione era, in chiave di commedia e con un realismo paesano efficace, tra il parroco di un piccolo paesino tra il Po e gli Appennini, Don Camillo, e il sindaco comunista Peppone. Nemici per la pelle a parole e poi, spesso, o quasi sempre, capaci di ritrovarsi nel cercare soluzioni di buon senso. Dai racconti furono ispirate numerose pellicole, a cominciare dal 1952: Don Camillo, Il ritorno di Don Camillo (’53), diretti dallo svelto e abile regista francese Julien Duvivier; Don Camillo e l’Onorevole Peppone (’55), Don Camillo monsignore… ma non troppo (’61), entrambi di Carmine Gallone; Il compagno Don Camillo (’65) di Luigi Comencini; e infine, a distanza di anni, Don Camillo e i giovani di oggi (’72) di Mario Camerini e Don Camillo (’83) di Terence Hill. Il Peppone di Gino Cervi e il Don Camillo di Fernandel non erano, non sono né di destra né di sinistra, secondo gli schemi a cui siamo abituati: erano e si presentano come i protagonisti di una sfida infernale sul filo del grottesco, tra la vecchia chiesa cattolica, con campanili sparsi nella penisola, e la nuova chiesa marxista-stalinista, ogni campanile una sezione. I film di questa sfida emiliana entrano nella realtà delle saghe infinite del paese. Peppone e Don Camillo si guardano in cagnesco, sono avversari, preparano trabocchetti e trappole a vicenda, ma sanno di dover andare avanti nel nome di un comune destino: un compromesso storico contadino e piccolo borghese. Se il compromesso storico in prova è una sagra emiliana, in altre zone del paese le saghe sono già quelle della mafia, della ’ndrangheta, della camorra, della Sacra corona unita. La criminalità professionistica e la cosiddetta economia sommersa rafforzano le sue radici. Lupara, sasso in bocca, incaprettamento, autobomba, colpi di pistola dal sellino dello scooter. Western in piena regola. Una pedagogia assassina. Se non ci stai, sei un uomo morto. E lo Stato fa quel che può, e spesso non può. Il cinema di denuncia, impegnato e politico proponeva film interessanti e persino in alcuni casi appassionanti. Ci siamo passati, raccontando le tante storie di Leone ai tempi in cui realizzava la sua «trilogia del dollaro». Ma ancor prima del 1968, e poi in seguito, le cose cambiarono. Il cinema non era ormai più l’arma più forte, secondo la frase di Mussolini; ma, ricordando le parole di Lenin, riaffiorò l’altra definizione: «Il cinema è l’arte più forte». Capitò anche che, nelle mani di qualcuno, nel periodo delle Brigate Rosse e del terrorismo, il cinema cercò di tornare a essere un’arma vera. In nome dell’arte didattica, in nome dell’«immaginazione al potere» nata nelle strade del Maggio parigino, sfumate le illusioni o le speranze troppo cariche di utopie, ci fu un passaggio significativo, se non massiccio, dalle barricate vere a quelle virtuali. I contestatori diventarono in numero sempre maggiore registi o aspiranti registi, sceneggiatori, critici, organizzatori di festival e di rassegne.
Ernesto Che Guevara era la nuova fiaba, come dimostrò Solanas nell’Ora dei forni. Stava accadendo però qualcosa. Sognare, forse… «La gente al cinema vuole sognare», disse Riccardo Freda, che nel 1946 dichiarava di non poter più sopportare il neorealismo, le storie di povera gente, le lacrime facili. Rifece un film Aquila nera che aveva visto da bambino con protagonista Rodolfo Valentino, proponendo Rossano Brazzi, l’unico divo italiano disponibile per quei ruoli di cappa e spada. Poi, dai sogni si spostò agli incubi dirigendo I vampiri (’56), L’orribile segreto del dr. Hitchcock (’62) e Lo spettro (’63), film horror, come La maschera del demonio (’60) di Mario Bava, in cui recita Barbara Steele, una delle attrici più ricercate dal cinema italiano per la sua inquietante bellezza, una specie di strega, che Fellini prese per 8 e ½. Non era solo Freda a pensarla così. Altri registi volevano fare sognare il pubblico. Come Primo Zeglio che realizzò Genoveffa di Brabante (’46), scritturando due attori del rosselliniano Paisà, Gar Moore e Harriet White, e facendo loro indossare costumi medievali. O Raffaello Matarazzo che, con Catene (’49), Tormento (’50), I figli di nessuno (’51), fece sognare e soprattutto piangere milioni di spettatori. O Lucio Fulci che si dedicò a film musicali con I ragazzi del juke-box (’59) o Urlatori alla sbarra (’60) sul rock che entrava prepotentemente in Italia. Sogni proibiti da gioventù bruciata made in Italy. James Dean aveva interpretato quattro anni prima Rebel Without a Cause di Nicholas Ray, ribattezzato Gioventù bruciata. La vecchia fiaba cominciava a dissolversi. Lo spettacolo nuovo imponeva le sue ragioni, la sua forza. Ciò avveniva attraverso i generi – horror, poliziesco, fantascienza – che venivano dall’estero come esempio da imitare, da Hollywood ma anche da Londra, e trasformati in modo radicale da registi e sceneggiatori come Freda o Fulci. Entrambi molto versatili passavano da un film all’altro con grande disinvoltura, per questo motivo a lungo sono stati considerati artigiani del set, salvo poi diventare registi cult ed entrare nella retrospettiva «Storia segreta del cinema italiano» alla Mostra del Cinema di Venezia solo molto tardi, nel 2004, grazie al patrocinio di Quentin Tarantino. Il cinema italiano reagiva allo spettacolo americano e inglese producendo film «di canzoni», con i divi dell’epoca – da Rita Pavone a Gianni Morandi, da Adriano Celentano a Mina. O film comici in cui s’intrecciano amori tra famiglie ostili, spesso di provenienze regionali diverse nel crogiuolo romano: spassose e labili storielle con Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Nino Taranto, e giovanissimi poi rapidamente inghiottiti dall’anomimato. O film sexy. Un genere che venne inaugurato da Blasetti, il regista di film di grande successo nel periodo del fascismo: Ettore Fieramosca (’38), La cena delle beffe (’41), Quattro passi tra le nuvole (’42); e anche dopo: Fabiola (’47), Peccato che sia una canaglia (’54). Blasetti ebbe un’idea semplice e di successo. Con la sua troupe andò in giro
per filmare Europa di notte (’59), tra night e divertimenti delle ore piccole. Fu l’inizio di una corsa al proibito che durò a lungo, provocando la realizzazione di pellicole di taglio documentaristico come Mondo cane (’61) e Africa addio (’66) di Gualtiero Jacopetti, accusate violentemente di razzismo sanguinario; ma anche decine di film dai titoli espliciti, commedie: Le salamandre, Il dio serpente, Bora Bora, che aprono la strada ad altre commedie, ad altri divertimenti in chiave sexy. Circolavano correnti di permissivismo tra i giovani e il cinema che cercava di vivere ancora nel mercato e di resistere alla televisione. Il cinema voleva interpretare le nuove generazioni, le libertà che a loro interessavano, tra cui quella sessuale, e le esigenze più generali di un pubblico che non intendeva cedere alla televisione e al suo intrattenimento spesso banale. Lo spettacolo nudo e crudo spazzava via la fiaba, anzi le fiabe. Pasolini, dopo Medea con Maria Callas, che non ebbe grande successo, s’infilò in quella che lui stesso definì la «trilogia della vita» per poi ripudiarla poco prima di girare nel ’75 il suo ultimo film, il funerario Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pasolini realizzò uno dopo l’altro Il Decameron (’71), I racconti di Canterbury (’72), Il fiore delle mille e una notte (’74) rielaborando testi letterari nel contesto del boom del genere sexy. Lo scrittore-regista non voleva «bonificare» lo spettacolo con la cultura ma rovesciare la situazione. Dopo l’uscita di film come Europa di notte e Bora Bora (’65), il suo scopo era di mettere d’accordo le sue sensibilità colte con lo spettacolo popolare, e ci riuscì. Il terreno era fertile e promettente. La «trilogia» trascinò la parodia, come accadeva per il western all’italiana, per l’horror e il poliziesco o poliziottesco. Ed ecco i titoli più espressivi della tendenza: … E si salvò l’Aretino Pietro con una mano davanti e l’altra dietro, Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti, Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda; fino al titolo di una geniale sintesi onnicomprensiva: Novelle licenziose di vergini vogliose. Erano pellicole senza pretese che creavano un loro divismo. Nel ’67 in Alle dame del castello piace molto fare quello debuttò Edwige Fenech, un’attrice di origine tunisina. Divenne subito famosa per i suoi nudi integrali quasi tutti presentati in una vasca da bagno o sotto la doccia. Qualche titolo: Le calde notti di Don Giovanni (’70), Giovannona coscialunga disonorata con onore (’73), L’insegnanteva in collegio e La soldatessa alle grandi manovre (’78), La patata bollente e Dottor Jekyll e gentile signora (’79). Le docce si prosciugarono, la Fenech si rivestì e cominciò a fare la televisione. I generi popolari entravano e uscivano dalle porte secondarie del cinema, pedinando Pasolini ma anche Bertolucci e Liliana Cavani dopo i rispettivi Ultimo tanto a Parigi (’72) e Il portiere di notte (’74). Franco Franchi divenne il protagonista in Ultimo tango a Zagarol (’73) e il regista Tinto Brass propose Salon Kitty (’75), storia e immagini ispirate al film della Cavani. I generi erano un humus di soggetti e racconti come era sempre accaduto nel cinema. Il contagio era tipico. Quasi naturale. Nessuno parlava di cinema spazzatura, di trash. Il cinema era un grattacielo con cantine e soffitte, dove c’era spazio per tutti. La spazzatura o il trash sono emersi soprattutto quando alla televisione della RAI si affiancarono le televisioni commerciali, nazionali e
locali. Nel grattacielo convivevano bene i film horror di Dario Argento come L’uccello dalle piume di cristallo (’70), Il gatto a nove code (’71), 4 mosche di velluto grigio (’71), successi che s’intersecavano con gli incassi delle pellicole dello stesso genere o dei generi in cui attori famosi come Christopher Lee (il conte Dracula per antonomasia) e Peter Cushing (il miglior barone Frankenstein dello schermo) arrivavano in Italia per prendere parte a film western oppure horror o comunque a tutti quelli che consentivano loro di continuare a lavorare. Arriverà nell’80 un cult fra i cult, Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato,un superhorror ambientato nell’Amazzonia: storia di quattro giovani giornalisti americani giustiziati dagli indigeni per avere commesso atrocità ai danni della popolazione inerme. Roma al cinema era ancora ben viva, e pascolava tra i morti. Nel grattacielo ai piani di riguardo, tenendo conto degli incassi, c’erano anche film che nascevano sulla scia di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo di Don Siegel o di Il braccio violento della legge (’71) di William Friedkin. Come Milano trema: la polizia vuole giustizia (’73) di Sergio Martino, con riferimenti all’attualità – era stato assassinato il commissario di polizia Luigi Calabresi –; La polizia ringrazia (’72) di Steno, Da Corleone a Brooklyn (‘79) di Umberto Lenzi con Van Johnson, vecchio attore americano, e Mario Merola; dagli altri film dello stesso Merola nella Napoli della camorra e delle sceneggiate, fino a Monnezza. Si chiama Squadra antiscippo (’77) la pellicola di Bruno Corbucci in cui Tomas Milian, attore di origine cubana venuto in Italia sul finire degli anni ’50, si trasforma nel poliziotto Nico Giraldi, capellone, dall’aria sporca, abile, soprannominato Monnezza. Milian aveva lavorato con registi come Visconti, Bolognini, Maselli, e partecipato a numerosi western italiani ma nessuno gli aveva dato la notorietà del personaggio di Monnezza interpretato per ben undici volte. Infine, lassù in cima, c’era l’attico con i film storico-mitologici e i western di Sergio Leone, colmo di tutto quanto aveva imparato nell’humus paterno e dai suoi maestri, fra i quali non faceva distinzioni. Lavorava. Assorbiva ed esportava. Esportava. Era l’ultima volta per il cinema di Roma. Il western italiano cambiò varie definizioni: da Macaroni a Hopalong Veneto, a Spaghetti Western. Divenne in Germania Sauerkraut Western, in Francia Camembert Western, in Spagna Chorizo Western o Butifarra o Paella Western, in Brasile Fareste o Bangue Bangue. Il lavoro del cinema era così, senza pregiudizi, confuso, violento e coraggioso fino alla insensatezza. Per battere cassa. Ma anche grande. Sognare forse…
Capitolo 23 Quando il cinema era grande
I residenti di Second Life sono benestanti e istruiti lavoratori della conoscenza che, frustrati da impieghi avvilenti, da metropoli che mortificano le relazioni umane, decidono di abbandonare i loro corpi e di iniziare una seconda vita. La classe creativa è in un paradiso a pagamento e per giunta vuoto, tutto «da costruire». Mario Gerosa, Second Life Sergio Leone è sepolto al piccolo cimitero Borghese di Pratica di Mare, alle porte di Roma, sulla Pontina, dove c’è un aeroporto militare. La tomba è sovrastata da una lastra di marmo retta da quattro piccoli leoni. Scrivo, concludendo il libro, tra fine luglio e i primi di agosto del 2007. In pochi giorni se ne sono andati Ingmar Bergman, a ottantanove anni, Michael Serrault, a settantanove, Michelangelo Antonioni, a novantacinque. Lunghe vite rispetto a quella di Sergio che, come sappiamo, si è interrotta a soli sessant’anni, giovane. Bergman lo ricordo per i film che arrivarono in Italia sul finire degli anni ’50. Vidi forse per primo, ma non so, Il posto delle fragole (’57). L’ho scelto come DVD da proiettare – per me, e solo per me, a casa mia – la sera stessa della morte. Fa ancora impressione per il suo bianco e il nero limpido; per il volto del protagonista Victor Sjöström – grande regista anche lui – bello, dolcissimo e disperato; per l’amore che lotta con la morte sul prato dove c’erano le fragole della vita e non ci sono più.
Serrault lo ricordo per tante belle interpretazioni, ma quella che trovo indimenticabile è legata al personaggio di Albin in Il vizietto (’78). L’attore interpreta con Ugo Tognazzi, Renato, suo compagno e conproprietario di un locale per travestiti a Saint-Tropez, il ruolo di un artista gay che indossa con voluttà abiti da donna, tra piume e brillantini. Il locale si chiama «La Cage aux folles», una gabbia di matti in cui spettacolo e tormenti si mescolano. Lo spettacolo va in scena quando si vuole, i tormenti si presentano invece quando meno te lo aspetti. Affezionato al color rosa, Albin comincia a soffrire quando nel suo rapporto con Renato l’italiano si riaffacciano i problemi tenuti fuori dalla porta. Le nozze del figlio di Renato, che vive con la madre, con la figlia di un leader politico di un partito moralista e intransigente, riaprono la porta. Ne fuoriescono guai ma soprattutto sorrisi. In mezzo a essi, Albin ha la sensibilità e la grazia di un vero artista nella vita. La gabbia dei matti forse è fuori dalla «Cage aux folles». Per stare ancora un poco con Antonioni, che incontrai quando stava bene e poi solo poche volte quando accennava, senza parlare, un saluto, mi sono seduto davanti alla TV e ho rivisto Blow-up (’66). Quel fotografo interpretato da un David Hemmings dallo sguardo magnetico ha riempito la mia testa di clic. Una serie di scatti ripetuti, capaci di fissare un tempo che sembra trascorso e non è. Le emozioni di Antonioni non hanno un posto delle fragole né vivono in una «cage», sono bagliori rapidi che bisognerà vedere come risulteranno al momento dello sviluppo e stampa delle foto. Forse saranno solo emozioni in negativo, non decifrabili. Nel piccolo o grande cimitero del cinema che non sta da nessuna parte, e che rivisitiamo ogni volta che un film entra in casa sul televisore o ce lo portiamo per proiettarlo, il gioco a cui partecipiamo insieme è quello della complicità. I registi e gli attori sono artisti che dimostrano sempre e solo una realtà: il cinema è lo spazio dove il tempo diventa arte. Uno straccio di manifesto Sono a Venezia nello stesso periodo in cui si sono avute le notizie della morte di Bergman, Serrault, Antonioni. So che ci sarà la retrospettiva dedicata al western italiano. Ma, nell’attesa, sto cercando una persona altrove. Alle Corderie dell’Arsenale dove è in corso la grande Biennale d’Arte intitolata «Pensa con i sensi senti con la mente». Non è la prima volta che faccio questo esperimento, lo chiamo così. Vado alle mostre della Biennale nella convinzione – anche – di trovare qualcuno o qualcosa che ho in mente. La strada è lunga. Le antiche Corderie, quando ospitano queste mostre, sono un dritto luna park in cui sono ordinate istallazioni, oggetti, quelli che una volta si chiamavano quadri, sculture o quelli che una volta si chiamavano graffi e graffiti, fotografie, fumetti e fumosità, video e videogiochi… Mi metto in cammino. Guardo con pazienza e cerco senza stancarmi. L’esposizione assomiglia a quella precedente ma tutti i luna park si somigliano. Procedo, scopro conferme e novità anche dentro le salette di proiezione. Invece della donna cannone ci sono bellissime ragazze nude prevalentemente asiatiche che scivolano sullo
schermo come su un lenzuolo o su uno specchio. Poi, quasi mi scoraggio. Non sto trovando quel che cerco. Dovrei tornare indietro e vedere meglio. Ma mi sbaglio, nell’ultima grande sala delle Corderie con i suoi mattoni a vista i miei occhi si posano su una parete alta e stretta coperta di manifesti. Mi avvicino e, come speravo, si tratta di manifesti di cinema. Di tanti paesi. Incollati con cura uno accanto all’altro per consentire la lettura dei titoli dei film che sono nella lingua originale o tradotti. L’opera rimanda ai collage del nostro Mimmo Rotella in cui l’artista spalmava i manifesti lacerati appesi ai muri della città, ottenendo un effetto impetuoso di ferite mai rimarginate. Ma qui tutto sembra preso e portato così com’è o meglio com’era. Gli strappi ci sono e irrompono nei ricordi suscitati dai titoli, dai disegni, le grafiche, le figure della galleria del vento dove è già passata la morte. La scelta deve essere stata casuale e sistematica. I generi del cinema si mescolano l’uno all’altro. Si fa fatica a distinguere in quella Torre di Babele di parole e di segni questo o quel film. Gli autori, sudamericani, hanno saccheggiato i magazzini di collezionisti, rigattieri, piccoli archivi privati, e li hanno acquistati per metterli in mostra. La sensazione a cui si punta non lascia dubbi. Quei manifesti collocati uno vicino all’altro, senza neanche un filo di bianco che li separi, immobili nei volti e nei gesti, coprono i loculi allineati di un cimitero che non ha più posto per le tombe, neanche a pagamento, e che le sostituisce con anonime distese di buchi coperti di immagini e immaginette, un ciuffo di vecchio fiori, la scritta di un nome che sta per il titolo di un film finito, sepolto per sempre. Uno strappo lo vedo e lo sento. Ci sono i manifesti di diversi film italiani e del western italiano, titoli poco noti o dimenticati, esportati in America Latina o in Asia o in Australia, ma non ce n’è uno che riguardi i film di Sergio Leone. La risposta è forse nella scelta. Loculi riservati ai film dall’esistenza rapida. Non c’era posto per quelli di Leone. Manichini? Il poncho di un marrone cupo, il mozzicone di un sigaro, un cappello piatto, il cinturone e manichini. Vengono dai film di Leone. Li hanno esposti in una mostra al Museo del Western a Los Angeles, nel 2005, curata da Christopher Frayling e Estela Chung, due persone che conoscono e apprezzano il lavoro del regista, in particolare Frayling che gli ha dedicato un importante libro. I manichini sono quelli di Clint Eastwood e di Eli Wallach in Il buono, il brutto, il cattivo. È l’effetto tempo che sta rivelando una nuova fase per il cinema, quella delle reliquie. Ce ne sono dovunque, e la ricerca continua ansiosa. È l’ansia di durare che sorpassa gli autori e le loro opere, e diventa bisogno di sostituire i film con gli oggetti che vengono sottratti dai magazzini di trovarobe, dai costumi, dai resti delle scenografie. Al di là dei festival, il cinema è un Walt Disney World disintegrato e i pezzi si ritrovano sparsi nelle località turistiche per richiamare l’attenzione.
La tendenza è quella di allestire una sala di fotografie di scena, mettere un paio di costumi sui manichini e puntare su di loro dall’alto un fascio di luce, fare sentire le voci dei protagonisti o di sequenze, circondare l’ambiente con vecchie cineprese e moviole; per il resto, buio assoluto, mentre in un angolo srotolano spezzoni di film con effetto loop, tecnicamente significa che le immagini vanno avanti ripetendosi automaticamente. Il cinema pare un fantasma. E lo è. Leone ha vissuto e lavorato quando il cinema era davvero grande, e ha una storia esemplare. In questo libro, ho voluto raccontarla. Il grande cinema era un’avventura corale. Colma di tensioni, divertente, capace di scatenare scandali e pettegolezzi, di cui si giovava per non farsi dimenticare; sgangherata e volgare, pronta all’affarismo e alla furberia; seducente fino a devastare e a creare intorno a sé una corte dei miracoli. Il grande cinema era un chiassoso mercato popolare dove si trovava di tutto, roba buona e contraffatta, borsaioli, giocatori delle tre carte, strozzini; e poi si trovava il nobile Visconti, i borghesi Camerini, Soldati, Comencini. I produttori erano i signori come Gualino della Lux o Goffredo Lombardo della Titanus, gli abili scalatori di incassi e di successi internazionali come De Laurentiis o Ponti, ma anche una folla di spostati e di maneggioni. Il cinema era grande perché non aveva una seconda vita, ne aveva una terza, una quarta, una quinta. Cambiava anche quando sembrava restare immobile e ferma su se stessa. Adesso il cinema è grande solo a Hollywood con la sua forte organizzazione industriale e le sue capacità di investire nelle tecnologie, negli effetti speciali, nel divismo sempre aggiornato e prossimo alle esigenze dei teenager; e a Bollywood la produzione è vasta come l’attenzione di un pubblico innamorato e geloso dei suoi divi fino al delirio. Ma si può dire davvero che oggi Hollywood e Bollywood rappresentino un grande cinema? Leone era grande perché il cinema italiano era grande nelle sue miserie e nella sua ambizione di vincerle, per ributtarvisi. Adesso il nostro cinema è piccolo. Lo abbiamo sotto gli occhi. Sopravvive. Le televisioni lo hanno adottato e lo tollerano, non lo incoraggiano, lo tengono su con qualche pastiglia salvavita come si fa con gli anziani dal passato illustre o dignitoso, ma senza futuro. Di Leone si riparla per qualche omaggio o quando la caccia al reperto conduce alla scoperta di una sua vecchia sceneggiatura, com’è avvenuto per «Le aquile di Roma», mai trasformata in film, sulle legioni romane che si scontrano con i germani nel IX anno dopo Cristo. Si va avanti così. La curiosità sulle carte, o eventualmente su tagli e ritagli rimasti in magazzino, non può chiudersi con la parola «fine». È a sua volta un film sempre aperto. Che porta fin dove può. Fellini in un’intervista disse che lui non conservava mai nulla, né carte né documenti. In un’altra aggiunse, a pochi mesi dalla morte, che non avrebbe mai voluto concludere un film per non abbandonare al loro destino dopo l’ultimo ciak gli attori e soprattutto i personaggi. Un fondazione di Rimini a lui dedicata sembra avere raccolto questo desiderio e lo interpreta con scrupolosa
cura nella raccolta di testimonianze e di ricostruzioni storiche. Anche in questo caso, un film sempre aperto. Che porta dove può. Leone e Fellini, così diversi, così profondamente dentro il cinema, continuano a vivere di ciak dei loro film, e noi con loro.
Ringraziamenti
Grazie soprattutto a Sergio Leone e alla sua disponibilità negli incontri che ho avuto con lui. A sua moglie Carla, che è una donna sensibile e intelligente, generosa di ricordi e di confidenze preziose. A Luciano Vincenzoni, sceneggiatore e scrittore di interessanti testimonianze sul cinema. A Tonino Valerii, regista di western, amico di Sergio e dello spettacolo di valore. A tutti coloro che ho potuto leggere e ascoltare sulla vita e i film di Leone, ammirandoli per l’accuratezza dei loro lavori. In particolare ai biografi Christopher Frayling e Michele Garofalo. Non era facile raccontare Leone; loro lo hanno fatto con acutezza e precisione. Voglio anche ricordare Sergio Valzania direttore di RadioRai che ha prodotto le venti puntate di «Alle 8 della sera» che ho scritto e condotto, e da cui ho tratto gran parte del racconto qui proposto; Laura Fortini, responsabile del programma e della fiction radio; e Angela Zamparelli, regista del programma. Mi sono stati molto utili anche i documentari Sergio Leone: il mio modo di vedere le cose di Giulio Reale, Il falso bugiardo di Claudio Costa (dedicato a Luciano Vincenzoni, sceneggiatore di Sergio Leone). Infine, grazie agli amici con cui – quando capita – parliamo di cinema, di ieri e di oggi. Sono tantissimi. Ma alcuni nomi mi fa piacere citarli: da Liliana Cavani a Giuseppe Tornatore, da Carlo Verdone a Giovanni Veronesi, da Ugo Gregoretti a Gianni Amelio, da Carlo Lizzani a Marco Tullio Giordana, Cristina Comencini, Michele Placido, Luigi Lo Cascio, Renato De Maria, da Enrico Lucherini a Valerio e Fulvia Caprara. Ci sono poi gli amici e gli studenti della Università di Teramo. Un grazie in particolare a Guido Crainz, storico, con cui abbiamo realizzato il documentario Il paese mancato, che mi è sempre utile per confrontarci sulla realtà italiana. Infine, un grazie a Gualtiero Rosella, sceneggiatore, con il quale è un piacere lavorare; al montatore Roberto Carradori, compagno di tante avventure non solo di moviola; e ad Amedeo Amodio, coreografo che condivide e mi guida nella mia passione per tutto il cinema e il musical in particolare.
Filmografia
AIUTO REGIA, REGIA SECONDA UNITÀ, ASSISTENTE ALLA REGIA Il folle di Marechiaro (1946, terminato nel 1951), originalmente I fuochi di San Martino. Regia e sceneggiatura: Roberto Roberti. Interpreti: Aldo Silvani (il folle), Polidor (il vecchio pescatore), Tatiana Farnese (la vamp). Canzoni: Beniamino Gigli. Leone è anche comparsa nei panni di un giovane tenente. Rigoletto (1946). Regia: Carmine Gallone. Interpreti: Tito Gobbi (Rigoletto), Marcella Govoni (Gilda - voce di Lina Pagliughi). Ladri di biciclette (1947). Regia: Vittorio De Sica. Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Oreste Biancoli, Suso Cecchi D’Amico, Adolfo Franchi, Gherardo Gherardi, Vittorio De Sica, Sergio Amidei (non accreditato). Interpreti: Lamberto Maggiorani (Antonio Ricci), Enzo Stajola (suo figlio Bruno). Leone entra in scena come comparsa nel ruolo di un giovane prete tedesco. Fabiola (1947). Regia: Alessandro Blasetti, adattato dal romanzo del cardinale Nicholas Wiseman. Sceneggiatura: Blasetti, Antonio Pietrangeli, Cesare Zavattini, Vitaliano Brancati, Emilio Cecchi, Umberto Barbaro, Suso Cecchi d’Amico e altri (per un totale di quattordici persone, non tutte accreditate). Interpreti: Michèle Morgan (Fabiola), Michel Simon (Fabio), Massimo Girotti (Sebastiano), Gabriele Ferzetti (Claudio). Versione americana adattata da Marc Connelly e Fred Pressburger. Leone in «Conversations avec Sergio Leone» di Noël Simsolo, dichiara di essere stato assistente alla regia. La leggenda di Faust (1948). Regia: Carmine Gallone, ispirato al romanzo di Goethe, all’opera di Gounod, e al Mefistofele di Arrigo Boito. Interpreti: Gino Mattera (Faust), Italo Tajo (Mefistofele), Nelly Corradi (Margherita - voce di Onelia Fineschi). La forza del destino (1949). Regia: Carmine Gallone. Interpreti: Tito Gobbi (Don Carlos), Nelly Corradi (Leonora - voce di Caterina Mancini). Il trovatore (1949). Regia: Carmine Gallone. Interpreti: Gianna Pederzini (Azucena), Vittorina Colonnello (Leonora - voce di Franca Sacchi). Taxi di notte (1950). Regia: Carmine Gallone. Interpreti: Beniamino Gigli (il tassista), Danièle Godet (Laura Morani), William Tubbs (industriale americano). Il brigante Musolino (1950). Regia e sceneggiatura: Mario Camerini. Soggetto: Antonio Leonviola, Mario Monicelli, Steno. Interpreti: Amedeo Nazzari (Beppe Musolino), Silvana Mangano (Mara). Il voto (1950). Regia e sceneggiatura: Mario Bonnard. Interpreti: Doris Duranti (Carmela), Giorgio De Lullo (Vito), Maria Grazia Francia (Cristina). Quo Vadis? (1951). Regia: Mervyn LeRoy. Sceneggiatura: John Lee Mahin, S.
N. Behrman, Sonya Levien. Interpreti: Robert Taylor (Marco Vinicio), Deborah Kerr (Licia), Peter Ustinov (Nerone), Leo Genn (Petronio). Leone è stato assistente di Anthony Mann, regista della seconda unità, per le sequenze dell’incendio di Roma. L’uomo, la bestia, la virtù (1952). Regia: Steno, ispirato alla commedia omonima di Luigi Pirandello. Interpreti: Orson Welles (capitano Perella), Totò (professor Paolino), Viviane Romance (Assunta Perella). I tre corsari (1952). Regia: Mario Soldati. Sceneggiatura: Ennio De Concini, Age & Scarpelli, Franco Brusati, dai romanzi di Emilio Salgari. Interpreti: Ettore Manni (il corsaro nero), Renato Salvatori (il corsaro rosso), Cesare Danova (il corsaro verde). Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, (1952). Regia: Mario Soldati. Sceneggiatura: Ennio De Concini, Ivo Perilli, Mario Soldati, Franco Brusati (non accreditato), dal romanzo di Emilio Salgari. Interpreti: Marc Lawrence (Van Gould), May Britt (Jolanda), Renato Salvatori (Rolando, il figlio di Morgan). La tratta delle bianche (1952). Regia e sceneggiatura: Luigi Comencini. Interpreti: Eleonora Rossi Drago (Alda), Silvana Pampanini (Lucia), Ettore Manni (Carlo), Vittorio Gassman (Michele), Marc Lawrence (Marquedi). Frine, cortigiana d’Oriente (1953). Regia e sceneggiatura: Mario Bonnard. Interpreti: Elena Kleus (Frina, alias Afra), Pierre Cressory (Iperide), Giulio Donnini (Lamarco). Questa è la vita (1954). Episodio La marsina stretta. Regia e sceneggiatura: Aldo Fabrizi, tratto da una novella di Pirandello. Interpreti: Aldo Fabrizi (professor Fabio Gori), Walter Chiari (Andrea), Lucia Bosè (Angela Reis). Tradita (1954). Regia: Mario Bonnard. Sceneggiatura: Mario Bonnard, Vittorio Nino Novarese. Interpreti: Lucia Bosè (Elisabetta), Brigitte Bardot (Anna), Pierre Cressoy (Franco Alberti). Hanno rubato un tram (1954). Regia: Aldo Fabrizi (iniziato da Mario Bonnard). Soggetto: Luciano Vincenzoni. Sceneggiatura: Mario Bonnard, Ruggero Maccari, Aldo Fabrizi. Interpreti: Aldo Fabrizi (Cesare Mancini), Carlo Campanini (Bernasconi), Lucia Banti (Marcella, la figlia di Mancini). Elena di Troia (1955). Regia: Robert Wise, ispirato all’Iliade di Omero. Interpreti: Rossana Podestà (Elena), Jacques Sernas (Paride), Cedric Hardwicke (Priamo), Stanley Baker (Achille), Brigitte Bardot (Andraste). Leone ha collaborato con Raoul Walsh, regista della seconda unità (non accreditato). La ladra (1955). Regia e sceneggiatura: Mario Bonnard. Interpreti: Fausto Tozzi (Nino), Carlo D’Angelo (don Pietro), Henri Vilbert (l’avvocato). Mi permette, babbo? (1956). Regia: Mario Bonnard. Interpreti: Alberto Sordi (Rodolfo), Aldo Fabrizi (Alessandro Biagi). Il maestro (1957). Regia e sceneggiatura: Aldo Fabrizi. Interpreti: Aldo Fabrizi (maestro Giovanni Merino), Edoardo Nevola (suo figlio Antonio), Mary
Lamar (la maestra). Afrodite, dea dell’amore (1958). Regia: Mario Bonnard. Sceneggiatura: Mario Bonnard, Ugo Moretti, Sergio Leone, Mario Di Nardo. Interpreti: Isabelle Corey (Lerna), Antonio De Teffè (Demetrio), Irene Tunc (Diala), John Kitzmiller (Tomoro). La storia di una monaca (1958). Regia: Fred Zinnemann. Interpreti: Audrey Hepburn (suor Lucia, Gabriella Van Der Mal), Edith Evans (la madre superiora), Peter Finch (dottor Fortunati). Leone ha diretto le sequenze congolesi. Ben-Hur (1959). Regia: William Wyler. Interpreti: Charlton Heston (Giuda Ben-Hur), Jack Hawkins (Quinto Arrio), Haya Harareet (Esther), Stephen Boyd (Messala), Hugh Griffith (lo sceicco Ilderim). Leone ha collaborato con Andrew Marton, regista della seconda unità, girando anche la famosa scena della corsa delle bighe. Sodoma e Gomorra (1961). Regia: Robert Aldrich. Sceneggiatura: Giorgio Prosperi, Hugo Butler. Interpreti: Stewart Granger (Lot), Anna Maria Pietrangeli (la moglie di Lot), Stanley Baker (Astaroth), Rossana Podestà (Shuah), Scilla Gabel (Tamar), Giacomo Rossi-Stuart (Ismaele), Claudia Mori (Maleb), Anouk Aimée (regina Berah), Alice ed Ellen Kessler (due danzatrici), Daniele Vargas (Segur), Feodor Chaliapin (Alabias). Leone ha diretto la scena di una battaglia. È inoltre accreditato nei cartelloni italiani come co-sceneggiatore. Il cambio della guardia (1962). Regia: Giorgio Bianchi. Sceneggiatura: Albert Valentia, Jean Manse. Interpreti: Fernandel (Attilio Cappellaro), Gino Cervi (Mario Vinicio), Franco Parenti (Virgili), Andrea Aureli (Luciano Crippa), Frank Fernandel (Gianni Cappelaro), Milla Sannoner (Aurora Vinicio). Leone ha portato a termine la lavorazione. SOGGETTI E SCENEGGIATURE Nel segno di Roma (1958). Regia: Guido Brignone. Soggetto e sceneggiatura: Francesco Thellung, Francesco De Feo, Sergio Leone, Giuseppe Mangione, Guido Brignone e, non accreditati, Riccardo Freda e Michelangelo Antonioni. Montaggio: Nino Baragli. Interpreti: Anita Ekberg, Georges Marchal, Folco Lulli, Jacques Sernas, Chelo Alonso. Gli ultimi giorni di Pompei (1959). Regia: Mario Bonnard. Sceneggiatura: Ennio De Concini, Sergio Leone, Duccio Tessari, Luigi Emmanuele, Sergio Corbucci. Leone compare anche come regista della seconda unità, ma in realtà ha diretto il film per intero. Montaggio: Eraldo Da Roma, Julio Peña. Interpreti: Steve Reeves, Christine Kaufmann, Fernando Rey, Barbara Carroll, AnneMarie Baumann, Mimmo Palmara, Carlo Tamberlani. Romolo e Remo (1961). Regia: Sergio Corbucci. Soggetto: Luciano Martino, Sergio Leone, Sergio Corbucci. Sceneggiatura: Ennio De Concini, Franco Rossetti, Duccio Tessari, Luciano Martino, Sergio Leone. Montaggio: Gabriele Varriale. Interpreti: Steve Reeves, Gordon Scott, Virna Lisi, Franco Volpi, Laura Solari, Piero Lulli.
Le sette sfide (1961). Regia: Primo Zeglio. Sceneggiatura: Sabatino Ciuffini, Sergio Leone, Ambrogio Molteni, Roberto Natale, Giuseppe Taffarel, Primo Zeglio. Montaggio: Franco Fraticelli. Interpreti: Ed Fury, Elaine Stewart, Roldano Lupi, Furio Meniconi, Enimmo Salvi (anche produttore). Le verdi bandiere di Allah (1962). Regia: Guido Zurli, con la supervisione di Giacomo Gentilomo. Soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Sergio Leone, Bebo (Arnaldo) Marrosu, Adriano Bolzoni, Guido Zurli. Montaggio: Otello Colangeli. Interpreti: Walter Barnes, Hélène Chanel, Linda Cristal, José Suárez, Mimmo Palmara. REGIA Il colosso di Rodi (1960). Regia: Sergio Leone. Soggetto e sceneggiatura: Ennio De Concini, Sergio Leone, Cesare Seccia, Luciano Martino, Aggeo Ravioli, Luciano Chitarrini, Carlo Gualtieri, Duccio Tessari. Direttore della fotografia: Antonio Ballestreros. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Montaggio: Eraldo Da Roma. Scenografia: Ramiro Gómez. Costumi: Vittorio Rossi. Effetti speciali: Erasmo Baciucchi, Vittorio Galliano, Manuel Vaquero. Produzione: Cineproduzioni Associate (Roma), Comptoir Français du Film, Cinéma Television International (Parigi). Incasso italiano: 659.000.000 lire. Durata: 142’ (versione inglese: 127’; versione americana: 128’). Interpreti: Rory Calhoun (Dario), Lea Massari (Diala), Conrado San Martín (Tireo), Ángel Aranda (Koros), Carlo Tamberlani (Senone). Per un pugno di dollari (1964). Regia: Sergio Leone (nella prima edizione con lo pseudonimo di Bob Robertson). Soggetto: ispirato a Yojimbo - La sfida del samurai) di Akira Kurosawa, 1961. Sceneggiatura: Sergio Leone, Duccio Tessari, Victor A. Catena (non accreditati nei titoli originali). Direttore della fotografia: Jack Dalmas (Massino Dallamano), Federico G. Larraya. Musica: Dan Savio (Ennio Morricone). Montaggio: Bob Quintle (Roberto Cinquini). Scenografia, arredamento, costumi: Charles Simons (Carlo Simi). Aiuto regia: Frank Prestland (Franco Giraldi). Direttori di produzione: Frank Palance (Franco Palaggi), Günter Raguse. Effetti speciali: John Speed (Giovanni Corridori), Manuel Baquero. Produzione: Jolly Film (Roma) e (non accreditati nei titoli originali) Costantin Film (Monaco), Ocean Film (Madrid). Incasso italiano: 3.182.000.000 lire. Durata: 100’ (versione francese: 96’; versione inglese: 95’). Interpreti: Clint Eastwood (l’uomo senza nome/Joe), John Wells/Gian Maria Volonté (Ramón Rojo), Marianne Koch (Marisol), Margherita Lozano (Consuelo Baxter), Bruno Carotenuto/Carol Brown (Antonio Baxter), Umberto Spadaro (Miguel), Antonio Prieto (Don Benito Rojo), Wolfgang Lukschy (John Baxter), Sieghardt Rupp (Esteban Rojo), Joseph Egger (Piripero). Per qualche dollaro in più (1965). Regia: Sergio Leone. Soggetto: Sergio Leone e Fulvio Morsella. Sceneggiatura: Sergio Leone, Luciano Vincenzoni. Dialoghi: Luciano Vincenzoni. Direttore della fotografia: Massimo Dallamano. Musica: Ennio Morricone. Montaggio: Eugenio Alabiso, Giorgio Serralonga. Supervisione al montaggio: Adriana Novelli. Scenografia e costumi: Carlo Simi. Direttore di produzione: Ottavio Oppo. Aiuto regia: Tonino Valerii. Assistenti
alla regia: Fernando Di Leo, Julio Semperez. Effetti speciali: Giovanni Corridori. Produzione: Alberto Grimaldi per la PEA (Roma), Arturo Gonzales (Madrid), Constantin Film (Monaco). Incasso italiano: 3.492.000.000 lire. Durata: 130’ (versione inglese e americana: 128’). Interpreti: Clint Eastwood (il Monco), Lee Van Cleef (colonnello Douglas Mortimer), Gian Maria Volonté (l’Indio), Luigi Pistilli (Groggy), Klaus Kinski (Wild, il gobbo), Mara Krupp (Mary), Joseph Egger (il vecchio indivino), Rosemarie Dexter, Benito Stefanelli, Mario Brega, Peter Lee Lawrence. Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Regia: Sergio Leone. Soggetto: Sergio Leone, Luciano Vincenzoni. Sceneggiatura: Sergio Leone, Luciano Vincenzoni, Age & Scarpelli. Direttore della fotografia: Tonino Delli Colli. Musica: Ennio Morricone, il fischio: Alessandro Alessandroni. Montaggio: Nino Baragli, Eugenio Alabiso. Scenografia e costumi: Carlo Simi. Ispettore di produzione: Aldo Pomilia. Direttore di produzione: Fernando Cinquini. Effetti speciali: Eros Baciucchi. Produzione: Alberto Grimaldi per PEA (Roma). Incasso italiano: 3.210.000.000 lire. Durata: 180’ (versione francese: 166’; versione americana: 161’; versione inglese: 148’). Interpreti: Clint Eastwood (il «Biondo»), Eli Wallach (Tuco), Lee Van Cleef («Sentenza»), Luigi Pistilli (padre Ramirez), Aldo Giuffré (ufficiale nordista), Rada Rassimov (Maria, la prostituta), Mario Brega (caporale Wallace), Chelo Alonso (contadina messicana), Livio Lorenzon (Baker), Enzo Petito (negoziante derubato), John Bartha (sceriffo). C’era una volta il West (1968). Regia: Sergio Leone. Soggetto: Sergio Leone, Bernardo Bertolucci, Dario Argento. Sceneggiatura: Sergio Leone, Sergio Donati. Direttore della fotografia: Tonino Delli Colli. Musica: Ennio Morricone. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia e costumi: Carlo Simi. Effetti speciali: Eros Baciucchi, Giovanni Corridori. Direttore di produzione: Claudio Mancini. Produzione: Bino Cicogna per Rafran Cinematografica, San Marco Film. Incasso italiano: 2.503.000.000 lire. Durata: 168’ (versione americana: 144’; versione francese: 164’; versione inglese: 145’). Interpreti: Claudia Cardinale (Jill McBain), Henry Fonda (Frank), Jason Robards (Cheyenne), Charles Bronson (Armonica), Gabriele Ferzetti (Morton), Paolo Stoppa (Sam), Frank Wolff (Brett McBain), Keenan Wynn (sceriffo), Lionel Stander (barista), Woody Strode (Stony), Jack Elam (Snaky), Dino Mele (Armonica giovane), Fabio Testi. Giù la testa (1971). Regia: Sergio Leone. Soggetto: Sergio Leone, Sergio Donati. Sceneggiatura: Sergio Leone, Luciano Vincenzoni, Sergio Donati. Direttore della fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Musica: Ennio Morricone. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Andrea Crisanti. Costumi: Franco Carretti. Effetti speciali: Antonio Margheriti. Ispettore di produzione: Claudio Mancini. Direttore di produzione: Camillo Teti. Produzione: Fulvio Morsella per Rafran Cinematografica, San Marco Film, Miura (Roma). Incasso italiano: 1.818.000.000. Durata: 154’ (versione americana e inglese: 138’; versione francese: 150’). Interpreti: Rod Steiger (Juan Miranda), James Coburn (Sean Mallory), Romolo Valli (dottor Villega), Franco Graziosi (Don Jaime, il governatore), Domingo Antoine (il colonnello Gutiérrez/Günther Reza), Rick Battaglia (Santerna), Maria Monti (Adelita), Amelio Memè Perlini (un peone). C’era una volta in America (1984). Regia: Sergio Leone. Soggetto: dal
romanzo The Hoods (Mano armata) di Harry Grey. Sceneggiatura: Sergio Leone, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini. Dialoghi aggiunti: Stuart Kaminsky. Direttore della fotografia: Tonino Delli Colli. Scenografia: Carlo Simi. Costumi: Gabriella Pescucci. Musica: Ennio Morricone. Montaggio: Nino Baragli. Ispettore di produzione: Walter Massi. Produttore esecutivo: Claudio Mancini. Organizzatori generali: Fred Caruso, Mario Cotone. Troupe di New York: scenografo: James Singelis. Costumista: Richard Bruno. Assistenti alla regia: Dennis Benatar, Emy Wells. Primo assistente al montaggio: Vivi Tonini. Troupe di Montréal: Effetti speciali: Gabe Vidella, Louis Craig. Direttore di produzione: Ginette Hardy. Casting: Flo Galant, Silvie Bourque. Produttore esecutivo: Claudio Mancini. Produttore: Arnon Milchan. Produzione: The Ladd Company, Warner Bros. Picture, Rafran Cinematografica. Incasso italiano: 3.102.457.000 (dato relativo alle dodici città capozona). Durata: 218’ (versione inglese: 228’; versione amercana: 139’; versione americana restaurata: 227’). Interpreti: Robert De Niro (Noodles), James Wood (Max), Elisabeth McGovern (Deborah), Treat Williams (Jimmy O’Donnell), Tuesday Weld (Carol), Burt Young (Joe), Joe Pesci (Frankie), Danny Aiello (capo della polizia), Darlanne Fleugel (Eve), Larry Rapp (Fat Moe), James Russo (Bugsy), Jennifer Connelly (Deborah da giovane). PRODUZIONI E CO-PRODUZIONI Il mio nome è Nessuno (1973). Regia: Tonino Valerii. Soggetto: da un’idea di Sergio Leone, elaborata da Fulvio Morsella, Ernesto Gastaldi. Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini (per le riprese in Italia e Spagna), Armando Nannuzzi (per le riprese negli USA). Musica: Ennio Morricone. Scenografia: Gianni Polidori. Montaggio: Nino Baragli. Interpreti: Terence Hill (Mario Girotti), Henry Fonda, Jean Martin, Piero Lulli. Produzione: Fulvio Morsella per la Rafran Cinematografica (Roma), Les Films Jacques Leitienne - La Société Alcinter (Parigi), Imp. Ex. Ci. (Nizza), Rialto Film Preben Philipsen (Berlino). Sergio Leone ha anche diretto alcune scene. Un genio, due compari, un pollo (1975). Regia: Damiano Damiani. Soggetto: Ernesto Gastaldi, Fulvio Morsella. Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Damiano Damiani, Fulvio Morsella. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Musica: Ennio Morricone. Scenografia: Carlo Simi, Francesco Bronzi. Montaggio: Nino Baragli. Produzione: Fulvio Morsella e Claudio Mancini per Rafran Cinematografica (Roma), Agence Méditérranéenne de Location de Film (Marsiglia), Rialto Film (Berlino). Interpreti: Terence Hill (Mario Girotti), Miou-Miou, Robert Charlebois, Patrick McGoohan, Raymond Harmstorf, Klaus Kinski, Jean Martin, Mario Brega. Sergio Leone ha diretto una scena (sequenza titoli di testa), altre sono state girate da Giuliano Montaldo. Il gatto (1977). Regia: Luigi Comencini. Soggetto: Rodolfo Sonego. Sceneggiatura: Rodolfo Sonego, Augusto Caminito in collaborazione con Fulvio Marcolin. Fotografia: Ennio Guarnieri. Musica: Ennio Morricone. Scenografia: Dante Ferretti. Montaggio: Nino Baragli. Produzione: Romano Cardarelli per Rafran Cinematografica. Interpreti: Ugo Tognazzi, Mariangela Melato, Michel
Calabru, Dalila Di Lazzaro, Jean Martin, Aldo Reggiani, Philippe Leroy, Mario Brega. Il giocattolo (1978). Regia: Giuliano Montaldo. Soggetto: Sergio Donati. Sceneggiatura: Sergio Donati, Nino Manfredi, Giuliano Montaldo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Musica: Ennio Morricone. Scenografia: Luigi Scaccianoce. Montaggio: Nino Baragli. Produzione: Claudio Mancini e Fulvio Morsella per Rafran Cinematografica. Interpreti: Nino Manfredi, Marlène Jobert, Arnoldo Foà, Olga Karlatos, Vittorio Mezzogiorno, Pamela Villoresi, Carlo Bagno, Mario Brega. Un sacco bello (1980). Regia: Carlo Verdone. Soggetto e sceneggiatura: Carlo Verdone, Leo Benvenuti, Pietro De Bernardi. Fotografia: Ennio Guarnieri. Musica: Ennio Morricone. Scenografia: Carlo Simi. Montaggio: Eugenio Alabiso. Produzione: Romano Cardarelli per Medusa Cinematografica. Interpreti: Carlo Verdone, Veronica Miriel, Mario Brega, Isabella De Bernardi. Bianco, rosso e verdone (1981). Regia: Carlo Verdone. Soggetto e sceneggiatura: Carlo Verdone, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi. Fotografia: Luciano Tovoli. Musica: Ennio Morricone. Scenografia: Carlo Simi. Montaggio: Nino Baragli. Produzione: Romano Cardarelli per Medusa Cinematografica. Interpreti: Carlo Verdone, Irina Sanpiter, Lella Fabrizi, Mario Brega, Angelo Infanti, Milena Vukotic. Troppo forte (1986). Regia: Carlo Verdone. Soggetto: Carlo Verdone, Rodolfo Sonego. Sceneggiatura: Carlo Verdone, Alberto Sordi, Rodolfo Sonego, Sergio Leone (non accreditato). Fotografia: Danilo Desideri. Musiche: originali di Antonello Venditti. Scenografia: Franco Velchi. Montaggio: Nino Baragli. Produzione: Augusto Caminito per Scena Film. Interpreti: Carlo Verdone, Alberto Sordi, Stella Hall, Mario Brega, John Steiner. Una scena iniziale, quella dell’arrivo dei motociclisti a Cinecittà, è diretta da Sergio Leone. SPOT PUBBLICITARI Gervaise (Dany Danone) Talbot (Talbot Solara) Renault (due per Renaul 18 e uno – incompleto – per Renault 19) Whisky J&B Nel primo spot Renault («Petra») l’automobile nasce dall’oscurità, si aggira quindi in un tempio antico e incontra una dea che le dà via libera sull’autostrada; nel secondo, la cui frase di lancio è «Il diesel si scatena», l’automobile appare immobilizzata da grosse catene nell’area di Tunisi, per poi liberarsi grazie alla sua potenza. Questo spot, musicato da Ennio Morricone, ha vinto la Minerva di Platino, equivalente di un Oscar della Pubblicità. Il terzo, girato nel gennaio del 1989 da Leone nello Zimbabwe, in 60 secondi, un’operazione di «salvataggio» operata dall’automobile per reggere un ponte di legno in pericolo di crollo a causa di una fila di elefanti. Leone insieme a Nino Baragli stava lavorando al montaggio di questo spot (per il quale aveva previsto come commento musicale il tema del «triello» di Il buono, il brutto, il
cattivo) quando è sopraggiunta la morte. È la sua ultima regia. Sulla rivista «Studio Magazine», n. 26, maggio 1989, p. 43, è possibile vedere anche una fotografia che ritrae Leone su questo set africano. Per quanto riguarda lo spot «J&B», realizzato da Leone nel 1986… fu girato nel centro di trasmissioni di Telespazio. Lo spot (60 secondi) è ambientato in una stazione di ricerca spaziale ove, al momento del countdown, scatta un allarme rosso: un misterioso cilindro (che si rivelerà essere la bottiglia del whisky reclamizzato) giunge tramite elicottero ad accompagnare in una valigetta il pezzo di ricambio prontamente inviato. Alla partenza del razzo, si brinda. Tra gli attori, il critico cinematografico Jean Mitri, richiesto espressamente da Leone, e anche la figlia del regista, Francesca. Da Tutto il cinema di Sergio Leone di Marcello Garofalo
Bibliografia
CASTAGNA Alberto e GRAZIOSI Maurizio Cesare, Il western all’italiana, Federico Motta, Milano 2005. COHEN Clélia, Il western. Il vero volto del cinema americano, Lindau, Torino 2006. DE FORNARI Oreste, Sergio Leone, Mozzi Editore, Milano 1977. DE FORNARI Oreste, Tutti i film di Sergio Leone’, Ubulibri, Milano 1984 ristampa 1997. DELLA CASA Stefano, Storia e storie del cinema popolare italiano, Editrice La Stampa, Torino 2001. DI CLAUDIO Gianni, Il cinema western, Libreria Universitaria Editrice, Chieti 1986. DONATI Roberto, Sergio Leone - America e nostalgia, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2005. FALDINI Franca e FOFI Goffredo, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti: 1960-1969, Feltrinelli, Milano 1981. FRAYLING Christopher, Sergio Leone - Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano 2002. GABUTTI Diego, C’era una volta in America, Rizzoli, Milano 1984. GAROFALO Marcello, Tutto il cinema di Sergio Leone, Baldini & Castoldi, Milano 1999. GEROSA Mario, Second Life, Meltemi, Roma 2007. GIUSTI Marco, Dizionario del western italiano, Oscar Mondadori, Milano 2007. LUCCI Gabriele, Western, Electa - Accademia dell’Immagine, Milano 2005. MALAN Domenica, Storia illustrata del cinema western, Anthropos, Roma 1984. MENARINI Roy, La parodia nel cinema italiano, Hybris, Bologna 2001. MININNI Francesco, Sergio Leone, L’Unità - Il Castoro, Milano 1995. PUGLIESE Roberto, Sergio Leone, Edizioni Circuito Cinema, Venezia 1989. PRUDENZI Angela, TOFFETTI Sergio, Il buono, il brutto, il cattivo, Quaderni della Cineteca, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2000. SIMSOLO Noël, Conversations avec Sergio Leone, Stock Cinema, Paris 1987. VINCENZONI Luciano, Pane e cinema: il racconto di una vita straordinaria e avventurosa consacrata al mondo del cinema, prefazione di Claudio G. Fava, Gremese Editore, Roma 2005.
Indice dei nomi
A Adamovič, Aleksej Age & Scarpelli (Agenore Incrocci e Furio Scarpelli) Agosti, Silvano Aldrich, Robert Alessandrini, Goffredo Alessandroni, Alessandro Allasio, Marisa Allen, Woody Alonzo, Chelo Amidei, Sergio Andreotti, Giulio Andress, Ursula Annakin, Ken Antonioni, Michelangelo Arcalli, Franco Arena, Maurizio Argentieri, Mino Argento, Dario Ariosto, Ludovico Armani, Giorgio Asbury, Herbert Aznavour, Charles B Barattolo, Giuseppe Barboni, Enzo Bardot, Brigitte Barker, Lex Bassani, Giorgio Battisti, Cesare Bava, Mario Beatty, Warren Beaver, Lee (Carlo Lizzani) Bellocchio, Marco Belmondo, Jean-Paul Benelli, Sem Benvenuti, Leo Bergman, Ingmar Bertini, Francesca Bertolucci, Attilio Bertolucci, Bernardo Bianchi, Giorgio Billington, James H.
Blasetti, Alessandro Blier, Bernard Blier, Bertrand Bogart, Humphrey Bogdanovich, Peter Bolognini, Mauro Bongiorno, Mike Bonnard, Mario Borgia, Cesare Bottai, Giuseppe Boyd, Stephen Bracco, Roberto Brando, Marlon Brass, Tinto Brazzi, Rossano Breccia, Paolo Brignone, Guido Bronson, Charles Brooks, Richard Brusati, Franco Brynner, Yul Bulwer-Lytton, Edward George Buñuel, Luis Burton, Richard Buzzanca, Lando C Cagney, James Caiano, Mario Calabresi, Luigi Calamai, Clara Calhoun, Rory Callas, Maria Calzavara, Flavio Camerini, Mario Canale, Gianna Maria Capra, Frank Cardinale, Claudia Carnera, Primo Carnevale, Salvatore Caruso, Fred Castro, Fidel Cavani, Liliana Cecchi d’Amico, Suso Celentano, Adriano Céline, Louis-Ferdinand Cervi, Gino Chaplin, Charlie
Chiari, Walter Chung, Estela Cimino, Michael Cleef, Lee Van Clift, Montgomery Clucher, E. B. Coburn, James Cohen, Clélia Coletti, Duilio Colizzi, Giuseppe Comencini, Luigi Conrad, Joseph Cooper, Gary Coppola, Francis Ford Corbucci, Bruno Corbucci, Sergio Corman, Roger Corona, Achille Costello, Frank Cottafavi, Vittorio Crawford, Joan Craxi, Bettino Cushing, Peter D D’Annunzio, Gabriele Dallamano, Massimo Dalmas, Jack (Massimo Dallamano) Damiani, Damiano Davis, Bette De Amicis, Edmondo De Bernardi, Piero De Chirico, Giorgio De Concini, Ennio De Filippo, Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Titina De Fornari, Oreste De Gasperi, Alcide De Laurentiis, Dino Della Casa, Stefano De Mille, Cecil B. De Niro, Robert De Robertis, Francesco De Santis, Giuseppe De Sica, Vittorio Dean, James Del Poggio, Carla
Delli Colli, Tonino Delon, Alain Deneuve, Catherine Deodato, Ruggero Depardieu, Gérard Derek, Bo Derek, John Di Giacomo, Salvatore Disney, Walt Donati, Sergio Dos Passos, John Dreyfuss, Richard Dumas figlio, Alexandre Duranti, Doris Duse, Eleonora Duvivier, Julien E Eastwood, Clint Eco, Umberto Ekberg, Anita Emmanuele, Luigi F Fabrizi, Aldo Fanfani, Amintore Fanon, Frantz Fellini, Federico Ferida, Luisa Fernandel Ferrè, Gianfranco Ferreri, Marco Ferrini, Franco Ferroni, Giorgio Flaiano, Ennio Fleming, Victor Fofi, Goffredo Fogazzaro, Antonio Fonda, Henry Ford, Glenn Ford, John Forges Davanzati, Roberto Forman, Milos Franchi, Franco Frayling, Christoper Freda, Riccardo Freddi, Luigi Friedkin, William Fulci, Raffaello
Fusco, Maria Pia Fusco, Giancarlo G Gabin, Jean Gable, Clark Gabutti, Diego Gallone, Carmine Garavaglia, Ferruccio Garbo, Greta Garibaldi, Giuseppe Gassman, Vittorio Gastaldi, Ernesto Gemma, Giuliano Gengis Khan Genina, Augusto Gere, Richard Germi, Pietro Gerosa, Mario Getino, Octavio Giannarelli, Ansano Giannini, Guglielmo Gioi, Vivi Giraldi, Franco Girotti, Massimo Godard, Jean-Luc Gorbačëv, Michail Gorin, Jean-Pierre Goulding, Edmund Gramatica, Emma Granger, Stewart Granin, Daniil Aleksandroviã Grant, Cary Greene, Graham Gregoretti, Ugo Grey, Harry Grimaldi, Alberto Gualino, Riccardo Guareschi, Giovanni Guazzoni, Enrico Guevara, Ernesto «Che» H Hardy, Oliver Hathaway, Henry Hawks, Howard Hayden, Sterling Hayward, Susan Hayworth, Rita
Hemingway, Ernest Hemmings, David Heston, Charlton Hill, Terence (Mario Girotti) Hitchcock, Alfred Hitler, Adolf Holden, William Hood, Robin Hossein, Robert Huerta, Victoriano Huston, John I Ingrassia, Ciccio J Jacopetti, Gualtiero Jacoviello, Alberto Johnson, Van K Kael, Pauline Kaufman, Hank Kelly, Grace Kerr, Deborah Kinski, Klaus Koch, Pietro Koster, Henry Kubrick, Stanley Kurosawa, Akira L La Motta, Jack Ladd junior, Alan Ladd, Alan Lancaster, Burt Lang, Fritz Lattuada, Alberto Laurel, Stan Lee, Ang Lee, Christopher Leigh, Vivien Lenin, Vladimir Il’ič Lenzi, Umberto Leone, Andrea Leone, Francesca Leone, Raffaella Leone, Vincenzo Lerner, Gene LeRoy, Mervyn
Lincoln, Abraham Lincoln, George (Riccardo Freda) Lizzani, Carlo Lollobrigida, Gina Lom, Herbert Lombardo, Goffredo Longanesi, Leo Loren, Sophia Lorre, Peter Lubitsch, Ernst Lucas, George Lucherini, Enrico M Macario, Erminio Macciocchi, Maria Antonietta Magnani, Anna Magni, Luigi Magritte, René Mailer, Norman Malaparte, Curzio Mamoulian, Rouben Manfredi, Nino Mangano, Silvana Mankiewicz, Joseph L. Mann, Anthony Mann, Michael Mao Tse-tung Marchal, Georges Mari, Febo Marshall, George Martino, William Marton, Andrew Marx, Karl Maselli, Francesco Mastroianni, Marcello Matarazzo, Raffaello Mattoli, Mario Maupassant, Guy de McQueen, Steve Medioli, Enrico Melville, Herman Mercader, Maria Merola, Mario Mifune, Toshiro Milius, John Mina Miou-Miou
Miranda, Isa Mitchell, Margaret Moffa, Paolo Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto Monicelli, Mario Monroe, Marilyn Montaldo, Giuliano Montand,Yves Montanelli, Indro Moore, Gar Morandi, Gianni Moravia, Alberto Morgan, Michèle Mori, Paola Moro, Aldo Morricone, Ennio Morsella, Fulvio Mozart, Wolfgang Amadeus Muni, Paul Mussolini, Benito Mussolini,Vittorio N Nanà, Aïché Nazzari, Amedeo Negri, Pola Noris, Assia Novelli, Ermete O Oland, Warner Olmi, Ermanno Omero Orsini, Valentino P Pagano, Bartolomeo Palmara, Mimmo Palmer, Rudy (Maurizio Arena) Pampanini, Silvana Pasolini, Pier Paolo Pastrone, Giovanni Pavolini, Alessandro Pavone, Rita Peckinpah, Sam Perón, Juan Domingo Petito, Antonio Petri, Elio Pietro il Grande
Pinelli, Giuseppe Pio XI Pirandello, Luigi Podestà, Rossana Polidor Pollack, Sydney Polo, Marco Pontecorvo, Gillo Ponti, Carlo Prestland, Frank (Franco Giraldi) Prezzolini, Giuseppe Proulx, Annie Proust, Marcel Puccini, Giacomo Puzo, Mario R Rabagliati, Alberto Raft, George Ranalli, Carla (Carla Leone) Ray, Nicholas Reagan, Ronald Redford, William (Pasquale Squitieri) Reed, John Reeves, Steve Reisz, Karel Resnais, Alain Ric e Gian Richardson, Tony Risi, Dino Riva, Mario Rivette, Jacques Robards, Jason Roberti, Bice (Edwige Valcarenghi) Roberti, Roberto (Vincenzo Leone) Robertson, Bob (Sergio Leone) Robinson, Edward G. Rocha, Glauber Rohmer, Eric Rosi, Francesco Rossellini, Roberto Rossi Drago, Eleonora Rossif, Frédéric Rotella, Mimmo Rourke, Mickey Ruggeri, Ruggero Ryan, Robert S
Salgari, Emilio Salvatori, Renato Salzbury, Harrison E. Sanson, Yvonne Savio, Don (Ennio Morricone) Scarfoglio, Eduardo Scarpetta, Eduardo Scola, Ettore Scorsese, Martin Selznick, David O. Seracini Vitiello, Elena (Francesca Bertini) Serao, Matilde Sernas, Jacques Serrault, Michael Serse, imperatore persiano Shakespeare, William Shaw, George Bernard Siegel, Don Signoret, Simone Silvi, Lilia Simi, Carlo Simmons, Jean Simonelli, Giorgio Simsolo, Nöel Sjöström, Victor Solanas, Fernando E. Soldati, Mario Solinas, Franco Sollima, Sergio Sonego, Rodolfo Sordi, Alberto Šostakovič, Dmitrij Spielberg, Steven Squitieri, Pasquale Steele, Barbara Steiger, Rod Steno Stevens, George Stevenson, Robert Louis Stewart, James Stone, Ellery W. Strindberg, August Stroheim, Eric von Sturges, John Swanson, Gloria Szabó, István T
Talli, Virgilio Tarantino, Quentin Taranto, Nino Taviani, Paolo e Vittorio Taylor, Liz Taylor, Robert Tebaldi, Renata Tessari, Duccio Tito, Josip Broz Tognazzi, Ugo Tomasi di Lampedusa, Giuseppe Toti, Enrico Totò (Antonio De Curtis) Trintignant, Jean-Louis Truffaut, François Tupini, Umberto V Vadim, Roger Valcarenghi, Edwige (Bice Walerian) Valenti, Osvaldo Valentino, Rodolfo Valerii, Tonino Valpreda, Pietro Vance, Stan (Florestano Vancini) Vancini, Florestano Vaughn, Robert Velázquez, Diego Rodriguez de Silva y Verdi, Giuseppe Verdone, Carlo Vergano, Aldo Versace, Gianni Vianello, Raimondo Vidal, Gore Vidal, Henri Villa, Pancho Villa, Roberto Vincenzoni, Luciano Visconti, Luchino Vitti, Monica Vittorio Emanuele III Volonté, Gian Maria W Walerian, Bice (Edwige Valcarenghi) Wallach, Eli Walsh, Raoul Wayne, John Welles, Orson
Wellman, William White, Harriet Wicki, Bernhard Widmark, Richard Wilder, Billy Wiles, Gordon Wise, Robert Wiseman, Nicholas Wyler, William Z Zapata, Emiliano Zavattini, Cesare Zeffirelli, Franco Zeglio, Primo Zenobia, regina di Palmira Zinnemann, Fred
Indice
SERGIO LEONE. QUANDO IL CINEMA ERA GRANDE Capitolo 1. Amapola Un sipario di ferro La nave dei progetti Voragine
Capitolo 2. Gli occhi del mulo Un trovatello Edwige e Roberto Nudi d’Africa
Capitolo 3. I grattacieli di King Kong Bruttissima Cartapesta e birignao La vampira indiana
Capitolo 4. Leggende
Sacrificata al dio Moloch Edwige e Bice
Capitolo 5. Fascinosa diva
La sfinge e l’ombra Claudia Particella Fiocco azzurro a Fontana di Trevi
Capitolo 6. Magazzini Un amore segreto La ragazza terremoto Bendati o morti
Capitolo 7. Schiantato Gomma da masticare La commissione Purgatorio
Capitolo 8. L’irruzione Frutti non solo di mare Filiforme avventizio «Tà»
Capitolo 9. Tortuoso
Dollari Cosmopoliti de Roma Nove minuti da cardiopalma
Capitolo 10. Rivolta Il ballerino La limousine Sodoma e Gomorra
Capitolo 11. Grandi seni e piccoli film
Coturni da ginnastica Stuzzicadenti Sine qua non, siamo qua noi
Capitolo 12. Un genio Stanca nonchalance Il chimico Pane e burro
Capitolo 13. Mani rapaci Folgorazione Il didietro a pezzi Forno estivo
Capitolo 14. La valanga Violare le regole Oremus e Tedeum Carillon
Capitolo 15. Vento Il malloppo La fessura Il cimitero
Capitolo 16. Tane Azzurro omicida L’acqua è oro Facili costumi?
Capitolo 17. Infelice? Un primitivo Viaggio al termine 5316 film
Capitolo 18. L’incipit C’era una volta… L’amato-odiato L’esplosivo La contro-indagine
Capitolo 19. Peccato morire Ci vediamo dopo la pubblicità Passione Sogno
Capitolo 20. Un fantasma Ambizione «Ho bisogno di uno Stato» L’ultima armonica
Capitolo 21. Via Nepal
I segreti di Brokeback Mountain Per l’ultima volta
Capitolo 22. La fiaba
Una sfida senza spargimento di sangue Sognare, forse…
Capitolo 23. Quando il cinema era grande Uno straccio di manifesto Manichini?
Ringraziamenti Filmografia Bibliografia Indice dei nomi