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Italian Pages 160 [104] Year 2016
Introduzione
"Gente ammalata che si crea costantemente dei problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali" (Woody Allen, inManhattan, 1979)
Questo libro è nato in un salotto. Un salotto in bianco e nero. Un uomo minuto con una spessa montatura se ne sta stravaccato con un microfono in mano e registra su nastro quelle che, per lui, sono le cose ...
per cui vale la pena vivere. E abbattuto perché vive un momento complesso dell'esistenza. L'elenco dura qualche minuto, s'interrompe quando l'uomo ha l'intuizione che lo porta a correre verso la fine della storia, accompagnato dalle note di Rapsodia in blu. Inutile dire che quell'uomo è W oody Allen e che quel film si intitola Manhattan (1979). Da quello splendido monologo nasce la nostra raccolta: Cento registi per cui vale la pena vivere. Già, perché si possono snocciolare un sacco di ovvietà su quanto l'esistenza umana sia complicata, piena di ostacoli, timori, momenti terribili, eccetera; il fatto è che il cinema, la letteratura, la musica e lo sport sono probabilmente le più grandi invenzioni create qui sulla Terra per farci svagare, pensare (qualche volta sognare) ma soprattutto per distrarci da tutte le difficoltà di cui sopra. In questo libro si raccolgono i "frammenti di un discorso cinefilo", una centuria di adesioni sentimentali, di esperienze di cinefilia diversa e personale. Protagonisti sono i redattori, i collaboratori e gli amici di Paper Street, la rivista on-line di informazione culturale fondata nell'ottobre 2007 che ha ospitato una prima versione, piuttosto diversa, di questo esperimento. Abbiamo deciso di sottostare a un meccanismo crudele: racchiudere in una pagina l'amore e il giudizio sui registi della nostra vita, siano essi vicini o lontani, dalla sterminata filmografia o dai pochi selezionati titoli, in un così angusto spazio è una sfida non banale, ardua, che richiede, per dirla con Diderot, "bella immaginazione, giudizio critico, tatto fine e gusto sicuro". Probabilmente siamo una banda di nevrotici che ha costruito una gabbia cervellotica e asfissiante e ci si è rinchiusa dentro, come quella di cui parla Woody Allen nella sequenza di M anhattan che tanto amiamo. Lo spirito che ha accompagnato il nostro inventario è stato in fondo simile. Quello che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori, infatti, è stato di guardare dentro al proprio animo di cinefili, alla propria storia di spettatori interessati e partecipi, e raccontarci i loro registi e film del cuore, condividere con noi e i nostri lettori quelle visioni che li hanno cambiati ed emozionati, quegli occhi attraverso cui hanno imparato a vedere il mondo. Il tutto in poche righe. Ci sono tantissimi dei nomi che vi aspettereste di trovare in un elenco enciclopedico di mostri sacri e altri meno famosi, o meno unanimemente riconosciuti nei pantheon accademici, nella lunga lista che abbiamo stilato e che arriva ora nelle vostre mani. Abbiamo dovuto per forza di cose e nostro malgrado tagliare qualche nome che mai avremmo voluto lasciare fuori, ma la tirannia dei limiti che ci siamo imposti ha comportato qualche scelta sanguinaria. La cosa più importante da sapere a proposito di questo testo è che non si tratta di una classifica, di una hit parade, di una storia del cinema in sedicesimo. I nomi citati non sono in ordine di importanza, non ambiscono ad esemplificare tutte le numerose, diseguali, tentacolari ramificazioni di quell'awentura del pensiero e della visione che è il cinema mondiale: sono solo i consigli di alcuni appassionati che vi vorrebbero rendere partecipi dei loro migliori momenti al cinema. Consigli ad uso delle giovani generazioni. Troverete i nostri magnifici cento in ordine cronologico, secondo la data di nascita, da Fritz Lang a Paolo Sorrentino. Alla fine di ogni scheda, troverete le indicazioni videografiche per recuperare in Dvd due film del regista trattato, l'ultimo (importante?) consiglio che vi lasciamo. Non ci resta che augurarvi buona lettura e soprattutto buona visione, consapevoli che ogni stimolo in più, ogni nuova esperienza cinefila che saremo riusciti a suscitare renderà il nostro lavoro un piccolo successo. Lucio Laugelli e Giacomo Lamborizio
Fritz Lang (1890 - 1977) Fritz Lang è muto. E austriaco. Sulla sua biografia convivono più versioni plausibili, cosa che rende qualsiasi personaggio di riconoscibilità pubblica decisamente più affascinante. Espressionista. Owero esponente di quella corrente artistica che, indipendentemente dalla disciplina specifica, ha messo in atto la forzatura del concetto, della parola o dell'immagine per giungere ad una demarcazione più potente di quella puramente ed esclusivamente naturale. Lang iniziò la carriera a Berlino, dove diresse per la prima volta nel 1919, trovò plauso internazionale due anni dopo con la favola romanticofuneraria di Destino. Ma Lang è M, M - Il mostro di Diisseldorf (1931), diretto a quattro anni dall'esordio del sonoro nel cinema e, infatti, primo film non muto del regista. Ambiguità, angoscia, colpa, giustizia e terrore lo resero un capolavoro del cinema mondiale e consacrarono Lang alla maestria registica. Eppure, anche con Lang, il sogno è quello americano: giunse negli Stati Uniti nel '34, firmando con la MGM, il cui solo marchio nella storia della produzione mondiale inibisce per caratura e denota l'altrettanta, evidente, riconosciuta all'austriaco Fritz. L'America per Fritz Lang fu un riuscito esercizio di cinema sociale, \Vestern, anti nazista e noir, finché non sentì il bisogno di tornare in Europa, in Germania, dove concluse la carriera con tre pellicole, intorno agli anni Sessanta. Il cinema di Lang è stato un cinema di sogni neri, di profili tormentati e antitesi. Spesso ribadì personalmente l'importanza degli occhi, dell'osservazione, ed evidentemente i suoi occhi proiettavano sullo schermo l'elaborazione di ciò che aveva visto. Una sua dichiarazione: "in tutti i secoli è esistita una lingua in cui le persone colte riuscivano a comunicare. Il cinema è l'esperanto di tutti e un grande strumento di civiltà. Per capire il suo linguaggio non c'è bisogno di nient'altro che di avere gli occhi aperti". (Nicole Bianchi)
Destino, di Fritz Lang, Germania 1921. Edizione Ermitage Cinema, 2011
M - Il mostro di Diisseldorf, di Fritz Lang, Germania 1931. Edizione Dell'angelo Pictures, 2006
John Ford (1894-1973) Nella Monument Valley c'è un punto da cui si può con lo sguardo abbracciare tutta l'arcaica bellezza di un paesaggio ormai diventato mito. Il posto si chiama John Ford Point ofVie,v. L'occhio del regista diventa l'occhio con cui il cittadino può guardare la nascita di una Nazione. "Mi chiamo John Ford e faccio western". Di origini irlandesi, è stato il narratore dell'epica americana. Un Omero con la benda sull'occhio che ha scritto il grande romanzo americano. Uno Shakespeare con il sigaro che ha saputo trasformare la conquista del West in una grande tragedia classica, muovendosi con ingegno e sfrontatezza sui labili confini tra la morale e la politica, in un dialogo ininterrotto tra la leggenda e quello che c'è dietro. "Quando la leggenda diventa un fatto, stampa la leggenda", è il tema che sta dietro L'uomo che uccise Liberty Valance (1962), film manifesto che si muove sulla costruzione e decostruzione dei motivi e delle gesta che stanno dietro alla nascita della democrazia americana. Come in Alba
di Gloria, dove viene raccontata la storia di Abramo Lincoln. Genere principale, ma non unico, della sua produzione sterminata,
il ,vestern è stato da John Ford declinato in tutte le sue possibili sfaccettature, diventando un vero e proprio discorso alla nazione, dove si trovano temi come il razzismo e la misoginia (Sentieri
Selvaggzì, l'arrivismo e la stoltezza dei comandanti (FortApache), il conflitto tra Est e Ovest, tra la wilderness della frontiera e la civiltà delle città della costa orientale (Sfida Infernale). Nel suo lavoro dialettico tra sperimentazione e consolidamento delle regole del genere, John Ford ha sempre lavorato secondo i dettami dell'industria hollywoodiana sfuggendo sempre ad una qualsiasi definizione di autore. Ad aiutarlo nella sua epica narrazione tre grandi attori, John Wayne, Henry Fonda e James Stewart che hanno saputo, ognuno sfruttando al massimo le sue peculiari caratteristiche, rendere unico ogni eroe di questa inestimabile cavalcata nel mondo americano. (Luca Ferrando)
Sentieri Selvaggi, di John Ford, Stati Uniti 1956. Edizione Cineteca, 2012
L'uomo che uccise Liberty Valance, di John Ford, Stati Uniti 1963. Edizione Cineteca, 2012
Howard Hawks (1896 - 1977) Hawks fu forse uno dei migliori "artigiani" che hanno contribuito a formare il grande cinema americano. Cominciò negli anni Venti realizzando una decina di film quando il cinema era ancora muto ed ha proseguito a scrivere, dirigere e produrre fino al 1970, anno in cui si decise a ritirarsi, dopo aver partecipato a più di cinquanta produzioni. Basta citare alcuni esempi per capire la vastità della sua opera: Gli uomini preferiscono le bionde, Scarface O'originale del 1932), Un dollaro d'onore, Ero uno sposo di guerra per la regia; Via col vento e Capitani coraggiosi per la sceneggiatura. Non si dedicò subito al cinema, il suo primissimo amore fu l'aviazione, in cui prestò servizio durante la Prima guerra mondiale. Una volta giunto ad Hollywood trasportò ciò che aveva imparato nelle pellicole che realizzò. I suoi film sono schietti, diretti, senza quasi mai artifici di sceneggiatura come i flashback. Il suo stile è veloce, con ritmi sostenuti anche nella commedia. Le gag si avvicendano una dietro l'altra in veloci sequenze come in un combattimento aereo, o come nelle comiche del cinema muto. Nella sua carriera affrontò veramente tutti i generi: commedia brillante, commedia musicale, ,vestern, poliziesco, azione, ed in tutti riuscì a realizzare delle pietre miliari. I suoi temi preferiti furono sempre legati ali'eroismo, al sacrificio in nome di ideali più alti, alla lealtà, ali'orgoglio del vivere in America, una terra dove tutto era possibile. Anche nella commedia volle comunque celebrare l'eroismo dell'uomo comune trovando magnifici interpreti come Cary Grant e Gary Cooper. Tra gli attori che lavorarono con lui si possono anche citare Katharine Hepburn, Marilyn Monroe, Humphrey Bogart, John Wayne. Due piccole curiosità: fu affine nei gusti al celebre Howard Hughes, che lo scelse per dirigere appunto Scarface; morì nel 1977, dopo aver ricevuto il Premio Oscar alla carriera nel 1975, alla veneranda età di 81 anni in un incidente con la sua ... moto. (Valerio Orsolini)
Scarface - Lo sfregiato, di Ho,vard Hawks, Stati Uniti 1932. Edizione Cineteca, 2012
Gli uomini preferiscono le bionde, di Ho,vard Hawks, Stati Uniti 1953. Edizione 20th Century Fox, 2009
Alfred Hitchcock (1899 - 1980)
Il maestro del brivido si chiama Alfred Hitchcock ed è un regista inglese molto prolifico: ha diretto tantissimi film (solo i lungometraggi sono più di cinquanta) tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Settanta. Hitchcock si fa le ossa nel cinema muto e con la sua messa in scena potente e rivoluzionaria cambia le regole del giallo e del thriller incollando alle poltrone dei cinema generazioni e generazioni di spettatori. Spesso gioca con il pubblico come il gatto con il topo, piazza piccole trappole, inventa stratagemmi arguti: basti pensare al MacGuffin, termine coniato dal regista con cui si fornisce dinamicità alla trama ... un qualcosa che per i personaggi del film ha un'importanza cruciale, attorno al quale si crea enfasi e si svolge l'azione ma che non possiede un vero significato per lo spettatore. Le tappe fondamentali del suo cinema sono senz'altro: Nodo alla
gola (1948), un unico, immenso piano sequenza, enorme sfida tecnica risolta in un solo mese: all'epoca infatti ogni dieci minuti bisognava cambiare il rullo poiché finivano i trecento metri di pellicola; La
finestra sul cortile (1954), una sola scenografia, un cortile per l'appunto, dove si dilata il tempo all'inverosimile, punto fermo di ogni manuale di storia del cinema; Il delitto perfetto, che non esiste e Hitchcock lo dimostra nel 1954; Gli uccelli (1963) un set estremo e complesso a causa della presenza di uccelli veri che graffiarono e beccarono non soltanto membri della troupe ma la stessa protagonista Tippi Hedren, che fu colpita al volto da un gabbiano.
Psyco, che ha cambiato per sempre le regole del genere, è del 1960. Il personaggio di Norman Bates - ispirato al killer realmente esistito Ed Gain - ha scosso per anni le platee di tutto il mondo. Emblematica per il livello di sperimentazione del linguaggio cinematografico raggiunto è la celeberrima scena della doccia che, pur durando meno di un minuto, ha impiegato la troupe per sette giorni di lavorazione con settantadue posizioni differenti della macchina da presa. (Lucio Laugelli)
Nodo alla gola, di Alfred Hitchcock, Stati Uniti 1948. Edizione Universal Pictures, 2003
Psyco, di Alfred Hitchcock, Stati Uniti 1960. Edizione Universal Pictures, 2004
Luis Buiìuel (1900 - 1983) Maestro indiscusso del surrealismo cinematografico, Luis Buiiuel ha in realtà vissuto numerose stagioni creative. La fase surrealista, incarnata da capolavori come Un chien andalou (1928) e L'age d'or (1930), si chiude con la fuga del regista dalla Spagna, travolta dalla guerra civile, per il Messico. Nel 1950 vede la luce I.figli della violenza, un amaro spaccato del mondo delle bande giovanili girato nelle periferie di Città del Messico. A metà strada tra il documentario e la fiction, il film passa inosservato in patria ma ottiene un grande successo a Cannes. Tra i film di questo periodo ricordiamo El (1952) ed Estasi di un delitto (1955), entrambi con un protagonista maschile in bilico costante tra ragione e follia, storie dove il melodramma si fonde sorprendentemente con la commedia e il giallo; Nazarin (1958), invece, è un'opera profondamente religiosa, nella quale la fede di un giovane prete viene messa a dura prova dal cinismo del mondo reale. Con gli anni Sessanta ha inizio un ciclo fortunato che riavvicina il regista spagnolo all'Europa e lo porta a realizzare i suoi massimi capolavori: Viridiana (1960), L'angelo sterminatore (1962), Tristana
(1970), Il/ascino discreto della borghesia (1973), Ilfantasma della
libertà (1974) e Quell'oscuro oggetto del desiderio (1977), ultima opera del regista, intrisa da una fascinosa ambiguità e da un rassegnato pessimismo. In tutti questi film si ritrovano le tematiche predilette da Buiiuel: la critica alla borghesia e ai suoi quadri di riferimento (esercito e chiesa in primis), l'ossessione per il cibo, per gli insetti e per le mutilazioni fisiche. Capace di muoversi con disinvoltura tra registri stilistici differenti - passando da film legati al materialismo storico come Viridiana a opere barocche e surreali come L'angelo sterminatore - Luis Buiiuel resta uno dei punti di riferimento del cinema mondiale, acuto e raffinato castigatore della borghesia e, più in generale, delle tante ipocrisie della società contemporanea. (Francesco Biselli)
L'angelo sterminatore, di Luis Buiiuel, Messico 1962. Edizione Dynit, 2009
Quell'oscuro oggetto del desiderio, di Luis Buiiuel, FranciaSpagna 1977. Edizione Eagle Pictures, 2010
Michael Powell (1905 - 1990) e Emeric Pressburger (1902 - 1988) Due spiriti illuminati, due menti raffinatissime, due tra le figure più gigantesche di tutta la storia del cinema. Non è semplice raccontarne la smisurata e titanica grandezza: occorre farne esperienza diretta, attraverso la visione delle pellicole partorite dal loro sodalizio artistico. Inglese il primo, ungherese il secondo. Un enorme talento visivo nel primo. Una capacità innata di concepire sceneggiature geniali, brillanti e sorprendenti nella loro sfrenata fantasia, nel secondo. Era forse naturale che due menti così speciali, prima o poi, finissero per incontrarsi. Accadde nel 1943, nel pieno della burrasca della Seconda guerra mondiale, e il connubio, benedetto dalla nascita di una leggendaria compagnia di produzione (The Archers, icasticamente rappresentata da una freccia che trafigge
il bersaglio), fece subito centro con un primo, monumentale, capolavoro: Duello a Berlino, glorioso affresco storico interpretato da Anton Walbrook, Roger Livesey e Deborah Kerr che intreccia epoche, costumi e volti in un sublime caleidoscopio audiovisivo. Da lì in poi la dicitura "Scritto, prodotto e diretto da Michael Po,vell ed Emeric Pressburger" sarebbe diventata sinonimo di eccellenza. La loro collaborazione, unica nella storia del cinema, con ventiquattro film realizzati nell'arco di trentatré anni, non prevedeva rigide distinzioni di ruoli. Il processo creativo alla base della realizzazione dei loro film era frutto di una sinergia collaudata e di una consonanza artistica profonda. Alla loro scuderia si sarebbe aggiunto l'apporto cruciale di Jack Cardiff, uno tra i più grandi direttori della fotografia di tutti i tempi. Scarpette rosse, Narciso
Nero, Scala al Paradiso, I racconti di Hoffman: una serie inarrivabile di capolavori, oggi considerati tra i più grandi film di tutti i tempi. Se
il cinema è l'arte del sogno, Po,vell e Pressburger hanno saputo distillarne la quintessenza più pura. Come nessun altro prima e dopo di loro. (Stefano Lorusso)
Duello a Berlino, di Michael Po,vell ed Emeric Pressburger, Gran Bretagna 1943. Edizione Flamingo Video, 2011
Scarpette rosse, di Michael Powell ed Emeric Pressburger, Gran Bretagna 1948. Edizione Flamingo Video, 2011
John Huston (1906 - 1987) Se il cinema americano ha potuto mai riconoscersi nella figura di un patriarca, questo è successo con John Huston. Basta guardare qualche foto o filmato che lo ritrae: imponente, solenne, maestoso. Eppure beffardo, giocoso, sfuggente. Irrequieto e curioso come nessun altro. Una statua di bronzo lo ritrae nella cittadina messicana di Puerto Vallarta, suo storico buen retiro e set del magnifico Sotto il
vulcano. Collezionista di mogli, mestieri e scommesse, con il suo cinema ha toccato i territori più disparati, dal kolossal biblico alla spystory, dal musical al gangster movie. Come al cinema anche nella vita ha conosciuto le esperienze più disparate, dopo un'infanzia di limitazioni dovute a una grave malattia respiratoria. Sul fronte italiano durante la Seconda guerra mondiale, in Messico con Pancho Villa, in Africa a caccia di elefanti: la sua vita è stata da molti accostata ai romanzi di Ernest Hemingway, suo grande amico. Sue sono alcune tra le più riuscite trasposizioni in celluloide di grandi capolavori della letteratura, da Melville, Kipling, Joyce: Moby
Dick, L'uomo che volle farsi re, The Dead - Gente di Dublino. Suoi sono i film che hanno codificato con maggiore rigore i canoni stilistici del genere noir: Il mistero delfalco e Giungla d'asfalto. Sua è la scoperta e la valorizzazione di Marilyn Monroe, regalata all'immortalità insieme a Clark Gable e Montgomery Clift con Gli
spostati. Suoi sono tantissimi film obliqui e insoliti, anarchicamente audaci:
La notte dell'iguana, L'uomo dei sette capestri, Riflessi in un occhio d'oro, Wise Blood. Suo è un capolavoro che avrebbe ispirato intere generazioni di cineasti: Il tesoro della Sierra Madre, impreziosito dalla presenza in scena del leggendario padre di John, Walter. Sua è la magnifica interpretazione di Noè in La Bibbia di Dino de Laurentis. Patriarca che custodisce dentro la sua arca/cinema il campionario totale di ogni possibile, o soltanto pensabile, idea di esistenza. (Stefano Lorusso)
Il tesoro della Sierra Madre, di John Huston, Stati Uniti 1948. Edizione Warner Home Video, 2004
Giungla d'asfalto, di John Huston, Stati Uniti 1950. Edizione A & R Productions, 2011
Luchino Visconti (1906-1976)
ll conte Visconti, al secolo Luchino. Non è scontata la relazione tra bellezza e appartenenza ad una stirpe aristocratica ma in questo essere umano, forse innata e propria di natali nobili, questa connessione si è rivelata tale nell'eccellere del senso della bellezza come espressione di armonia quasi maniacale, capace di esasperare lo sguardo davanti all'eccesso incantevole della ricerca della perfezione estetica. La bellezza che il Visconti regista ha saputo filmare, architettare nella costruzione delle scene, sublimare con l'uso del dettaglio, in fondo inizia sempre, in lui, dal titolo: nel leggere, uno dopo l'altro, i titoli di ognuna delle sue pellicole sembra proprio egli che conceda di ascoltare, forse toccare, l'apice del bello. Senso, Il
Gattopardo, Vaghe stelle dell'Orsa, La caduta degli Dei, Morte a Venezia. Sono solo titoli? Non pare: forse più armonie di suoni che poi, al guardare, corrispondono a una sinfonia d'immagini. La bellezza di Visconti fa eco non solo nella scelta dei titoli, delle
ambientazioni, ma spesso e inevitabilmente anche nei volti, che però non vivono mai di sola estetica: sono di una raffinatezza che ammutolisce il ricorrente Helmut Berger o il Bjorn Andresen di Morte
a Venezia (1971), film in cui anche l'arte del costume di Piero Tosi concorre al tocco estetico che ascende al sublime, per altro non assente anche in Senso (1954) o ne Il Gattopardo (1963). "La bellezza salverà il mondo", afferma il principe Myskin ne
L'idiota di Dostoevskij: la bellezza che Luchino Visconti, senza naturalmente voler semplificare il suo cinema ad una espressione audiovisiva di sola ricerca estetica, né rendere qualunquista la frase di Dostoevskij, ha indubbiamente reso per il cinema mondiale un'espressione narrativa in cui il bello non è ridotto soltanto ad un concetto di superficie ma riesce a dimostrare di possedere uno spessore di valore profondo, spesso base imprescindibile di un bel racconto in pellicola. (Nicole Bianchi)
Il gattopardo, di Luchino Visconti, Italia-Francia 1963. Edizione Mustang Entertainment, 2013
La caduta degli Dei, di Luchino Visconti, Italia-Germania 1969. Edizione Generai Video Recording, 2008
Billy Wilder (1906 - 2002) "Non mi rimproverano la volgarità della mia arte, ma la mancanza d'arte nella mia volgarità". Questa è solo una delle innumerevoli frasi con cui Billy Wilder amava prendersi in giro, anche se allo stesso tempo era un modo per attirare l'attenzione di chi lo criticava. Regista, sceneggiatore e produttore (fino ad oggi l'unico ad aver vinto tre Premi Oscar personali nello stesso anno, il 1960, con
L'appartamento), uno dei cineasti più eclettici e versatili della storia del cinema: ha cavalcato ogni genere, spesso definendone regole e codici e ha saputo creare personaggi poi rimasti indelebili nella memoria di tutti. Diretto allievo di Lubitsch, contribuì a rendere la commedia un genere brillante: il tempo delle screwball comedy era ormai terminato quando Wilder riportò in auge il genere con la giusta dose di humour e sapiente ironia, anche quando il contesto poteva sembrare inappropriato o del tutto non convenzionale (penso a Baciami,
Stupido o a Uno! Due! Tre!, dove si divertì ad ironizzare sulla Guerra fredda ... in piena Guerra fredda). Ma sarebbe un delitto ricordare Wilder solo come padre putativo di questo genere. Basti pensare che fu lui il primo a inventare il personaggio della dark lady al cinema e, aiutato da una cavigliera e una rampa di scale infinita, a portare Barbara Stan,vyck nell'Olimpo delle dive (La.fiamma del peccato). Come dimenticare poi Ray Milland in Giorni Perduti, per la prima volta in un film mainstream un protagonista alcolizzato (prima di allora, sul grande schermo erano stati rappresentati sempre e solo ubriaconi in senso comico e grottesco), senza trascurare Viale del
tramonto, capolavoro indiscusso di metacinema, dove si affida il flashback del racconto ad un morto, cinquant'anni prima di American Beauty. "Quando realizzo un film non lo classifico mai, non dico è una commedia, aspetto l'anteprima e se il pubblico ride molto dico che è una commedia, altrimenti un film serio o un film noir". Billy Wilder è, e rimarrà, così: inclassificabile, oltre qualsiasi genere. (Giuseppe Polenghi)
Viale del tramonto, di Billy Wilder, Stati Uniti 1950. Edizione Paramount, 2003
L'appartamento, di Billy Wilder, Stati Uniti 1960. Edizione MGM, 2002
Jacques Tati (1906 - 1982) Un personaggio ineffabile ha attraversato in silenzio, e con incedere allampanato, la storia del cinema. Segnandola profondamente, mentre borbottava monosillabi incomprensibili dentro una pipa spenta. A molti di noi è capitato di vedere scampoli di film di Jacques Tati, al secolo Tatischeff, senza saperlo. È esperienza comune inciampare nel suo cinema, tanto singolare da poter apparire a prima vista anonimo, senza riconoscerlo. La comicità di Tati è discreta, rarefatta, sottile, a tratti lunare e percorsa da una vena di palpabile malinconia. Più vicino a Keaton che a Chaplin, è stato il più grande comico muto nell'era del cinema sonoro. I suoi film, sei lungometraggi in tutto, di cui almeno quattro capolavori, oltre ad essere concentrati di elegante umorismo, sono autentici saggi sull'utilizzo del dispositivo audiovisivo. Nella composizione delle gag, sempre incastonate dentro un'accuratissima costruzione dell'inquadratura, l'apporto del sonoro è, per esempio, determinante. Per questo motivo David Lynch, altro cineasta che ha posto al centro del suo cinema il rapporto tra immagini e suoni, lo considera un maestro. Magistrale è anche lo sviluppo comico delle gag: mai immediato, procedendo per accumulazione richiede un'attenzione costante da parte dello spettatore alla quantità di "azioni multiple" in corso dentro lo schermo. Senza la necessaria attenzione persino i più esilaranti elementi comici rischiano di passare inosservati. Si pensi a una sequenza capitale come la lunga inaugurazione del ristorante in Playtime, film-summa della poetica di Tati e sua pietra tombale, punto di non ritorno del mastodontico progetto produttivo di Tativille che lo avrebbe condannato al fallimento economico. In un orgiastico sovrapporsi di situazioni, tutti gli elementi comici confluiscono nella simultanea profondità di campo di un'inquadratura, consegnando allo spettatore l'esigenza, e la libertà, di scegliere un punto di vista. Solo uno degli infiniti possibili. (Stefano Lorusso)
Le vacanze di Monsieur Hulot, di Jacques Tati, Francia-Italia 1953. Edizione San Paolo, 2005
Playtime, di Jacques Tati, Francia-Italia 1967. Edizione San Paolo, 2005
Elia Kazan (1909 - 2003) Il cinema a stelle e strisce è portatore, fin dai suoi primi vagiti, di un corredo genetico multietnico. Molto prima della generazione degli italo-americani, furono i grandi cineasti mitteleuropei ( da Von Stroheim a Murnau, da Wilder a Preminger), in fuga dagli orrori del Terzo Reich, a fare la fortuna di Holl}"vood. Il contributo di Elia Kazan al cinema americano del secondo dopoguerra è peculiare e unico, perché proviene da un diverso territorio geografico e culturale. Dentro le pieghe di un capolavoro immortale come America, America
(in Italia distribuito con il titolo Il ribelle dell'Anatolia) e'è infatti la storia, autobiografica per Kazan, di un giovane uomo che abbandona la sua famiglia in Turchia per inseguire un sogno di libertà ed emancipazione negli Stati Uniti d'America. Nei suoi film Kazan ha raccontato con lucidità il volto dell'America che ha conosciuto: la difficoltà dell'integrazione, il pregiudizio razziale, le tensioni del maccartismo, la speranza del cambiamento. Scavando dentro le pagine di maestri della letteratura del Novecento
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come Tennessee Williams, Harold Pinter e John Steinbeck. E stato il regista che più di ogni altro ha saputo valorizzare il talento esplosivo di Marlon Brando, dirigendolo in pellicole come Fronte del porto,
Viva Zapata! e Un tram che si chiama desiderio .
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E stato definito da qualcuno il più grande director di attori del cinema americano: sapeva riversare nei suoi film, talvolta esasperandole con punte di vero sadismo, le ostilità del set tra attori, trasformandole in memorabili momenti di tensione drammatica tra personaggi. Uno dei suoi film di maggiore successo, e forse la sua opera più compiuta sul piano formale, La valle dell'Eden, è stato fonte di ispirazione per intere generazioni di cineasti. Martin Scorsese, proprio partendo da questo film, gli ha tributato un commosso, vibrante omaggio in A letter to Elia, ringraziandolo per tutto il grande cinema che ci ha lasciato in eredità. (Stefano Lorusso)
Un tram che si chiama desiderio, di Elia Kazan, Stati Uniti 1951. Edizione W arner Home Video, 2006 La valle dell'Eden, di Elia Kazan, Stati Uniti 1955. Edizione W arner Home Video, 2006
Akira Kurosawa (1910 - 1998) Soprannominato l'Imperatore, Akira Kurosawa è stato autore di opere spesso pessimiste e ciniche ma allo stesso tempo connotate da un umanesimo di fondo dai contorni universali, in grado di essere apprezzate tanto in Giappone, suo paese natale, quanto in Occidente. L'attività di Kurosawa attraversa tutta la seconda metà del Novecento e gode di particolare fortuna negli anni Cinquanta, decennio al quale risalgono alcuni dei suoi massimi capolavori. Capolavori come Rashomon (1950), raffinata riflessione sull'ambiguo confine tra verità e menzogna costruita attraverso quattro differenti testimonianze su un misterioso omicidio avvenuto in un bosco; I sette samurai (1954), celeberrimojidai-geki considerato una pietra miliare grazie a una struttura narrativa perfetta, ai grandi interpreti e alla maestria del regista nel mescolare poesia e azione con notevole efficacia; e, infine, Il trono di sangue (1957), adattamento del Macbeth di Shakespeare secondo i canoni della tradizione giapponese. Negli anni Sessanta Kurosa,va realizza altri film importanti come
La sfida del samurai (1961), Anatomia di un rapimento (1963), primo incontro tra il regista e il genere noir, e Barbarossa (1965), che chiude il lungo e felice sodalizio con l'attore Toshiro Mifune. Dopo l'insuccesso di Dodes'ka-dèn (1970), Kurosawa entra in forte depressione, fino a tentare persino il suicidio. Torna con Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure (1975), delicata vicenda con cui indaga il rapporto tra uomo e natura, evitando di cadere nella vuota retorica. Kagemusha - L'ombra del
guerriero (1980), celebre per gli oltre sette minuti iniziali di camera fissa, lo riporta a stretto contatto con il mondo dei samurai mentre
Ran (1985), ultimo grande capolavoro ispirato all'adattamento del Re Lear di Shakespeare, si impone come un magnifico affresco visivo nel quale la poetica esistenziale dell'autore torna a confrontarsi con le ingiustizie, le violenze e le follie del mondo. (Francesco Biselli)
I sette samurai, di Akira Kurosawa, Giappone 1954. Edizione Mondo Home, 2007
Ran, di Akira Kurosa,va, Giappone 1985. Edizione Universal Pictures, 2010
Nicholas Ray (1911-1979) "The Cinema is Nicholas Ray", diceva Jean-Luc Godard. Tra i padri del cinema americano, l'imponente figura di Ray occupa un posto di prima importanza. La sua è una filmografia densa e variegata, che ha spaziato attraverso i generi solcando per oltre trent'anni il Ventesimo secolo di celluloide. Dopo studi di architettura ed esperienze nel teatro, è nel noir essenziale e serrato di titoli come
La donna del bandito e Il diritto di uccidere che Ray compie i suoi primi passi dietro la macchina da presa. Ogni suo film merita di essere riscoperto, ma alcuni titoli in particolare sono degni di essere collocati nel sancta sanctorum della cinefilia. A cominciare da Johnny Guitar, magnifica declinazione del melò dentro i colori espressionisti di un western fiammeggiante e crepuscolare, con due protagonisti di straordinario carisma, assurti al rango di icone, come Sterling Hayden e Joan Crawford. Di solamente un anno successivo è l'altrettanto mitico Gioventù bruciata, che nel
1955 consacrò agli altari del culto cinefilo la ribellione senza causa di James Dean. Del 1956 è Dietro lo specchio, insolita esplorazione degli stati allucinatori con un grande James Mason. Del 1958 uno dei suoi film dalla gestione più travagliata, Il paradiso dei barbari, parabola ecologista e anarchica ambientata nella lussureggiante Florida di inizio Novecento. Ed è attraverso altri vent'anni di cinema, che Ray approdò ad alcuni degli esiti più sorprendenti che la filmografia di un cineasta avesse mai potuto regalarci. Del 1976 è We Can't Go Home Again, opera collettiva diretta insieme a un gruppo di giovani allievi che, seguendo la direzione totalmente libera e anti-autoritaria di Ray, mise in piedi un film svincolato da ogni regola di sintassi filmica. La definitiva uscita di scena Ray la filmò invece nel 1980, insieme a Wim Wenders, con Lampi sull'acqua, testamento estremo di un uomo che al cinema ha donato tutto se stesso. Anima e corpo, fino alla fine. (Stefano Lorusso)
Johnny Guitar, di Nicholas Ray, Stati Uniti 1954. Edizione Enjoy Movies, 2009 Lampi sull'acqua -Nick's Movie, di Nicholas Ray, Wim Wenders, Germania Ovest 1980. Edizione Ripley's Home Video, 2009
Michelangelo Antonioni (1912 - 2007) Maestro dell'incomunicabilità e dell'alienazione, Michelangelo Antoniani ha scardinato i tratti fondamentali del cinema classico aprendo la strada a quel cinema moderno che dagli anni Sessanta in poi lo ha visto protagonista. Dopo l'esordio nel campo dei documentari (Gente del Po, 1943 e N. U. - Nettezza Urbana, 1948), seguono opere che vedono il regista ferrarese smarcarsi progressivamente dal Neorealismo (Cronaca di un amore, 1950; Le
amiche, 1955 e Il grido, 1957) fino al grande successo nel 1960 con L'avventura, autentico capolavoro che spiazza pubblico e critica. Il film inaugura la cosiddetta "Trilogia dell'incomunicabilità", che si completerà nel 1961 con La notte e nel 1962 con L'eclisse. In queste opere, tutte con protagonista Monica Vitti, Antoniani offre un efficace quadro sociale dell'Italia del boom economico svelando ipocrisie e debolezze della classe dirigente; mettendo in scena la crisi della relazione uomo-donna nell'epoca del progresso industriale attraverso un cinema fatto di tempi dilatati e spazi vuoti, che rinuncia anche ai personaggi e alla narrazione. Nel 1966 arriva il successo internazionale di Blow-Up, altra memorabile indagine sulla realtà visibile (e invisibile) ambientata nella Swinging London. Nel 1970 Antoniani gira uno dei suoi film più discussi, Zabriskie Point, che a distanza di anni rimane opera suggestiva e visionaria, arricchita da una colonna sonora rock di gran classe. Memore dei suoi esordi come documentarista, nel 1972 riesce a realizzare un documentario sulla Cina di Mao, Chung Kuo, Cina. Il film, prodotto dalla Rai, finisce al centro di dure contestazioni da parte del governo cinese, nonostante il materiale raccolto dal regista appaia a posteriori edulcorato e innocuo. Del 1975 l'ultimo capolavoro: Professione: reporter, con protagonista uno straordinario Jack Nicholson. Celebre per il magistrale piano sequenza conclusivo, il film riprende molti dei temi cari al regista e li sviluppa nell'ottica della perdita dell'identità. (Francesco Biselli)
La notte, di Michelangelo Antoniani, Italia-Francia 1961. Edizione Medusa Video, 2013
Professione: reporter, di Michelangelo Antoniani, Italia-FranciaStati Uniti 1975. Edizione Sony Pictures, 2006
Samuel Fuller (1912 - 1997) "Un film è come un campo di battaglia. Ci sono amore, odio, azione, violenza, morte. In una sola parola: emozione". La più suggestiva dichiarazione poetica di Samuel Fuller, e una di quelle in assoluto più fulminanti di tutta la storia del cinema, è condensata in un suo celebre carneo in Il bandito delle 11 di Jean-Luc Godard. Elevato al culto cinefilo da registi come Wenders, Jarmusch e Kaurismaki, Fuller è stato uno dei più geniali artisti del cinema di tutti i tempi. Capace di cavalcare brillantemente i generi e le atmosfere di mezzo secolo di storia americana, a tutti gli effetti tra i padri del cinema indipendente a stelle e strisce, aveva imparato le regole base della narrazione sui marciapiedi di Park Ro,v, la storica strada ne,vyorkese dell'editoria, trasfondendo nel cinema il ritmo e la forza della sua macchina da scrivere da giornalista di cronaca. Sapendo che senza un'ottima storia da raccontare non avrebbe mai potuto girare un buon film, scelse di scrivere personalmente buona parte delle sceneggiature dei suoi film. Considerato fascista dai comunisti e comunista dai fascisti, fiero custode di una libertà espressiva difesa con le unghie e con i denti, attraverso i suoi film vigorosi e ribelli, marchiati a fuoco da uno sferzante taglio visivo, ha raccontato i conflitti profondi dell'America uscita con i nervi a pezzi dall'orrore dei conflitti bellici. La guerra, vissuta e filma.ta, è lo scenario di molti dei suoi capolavori: Corea in
fiamme, L'urlo della battaglia e Il grande uno rosso su tutti. La guerra è sullo sfondo anche del suo film più rappresentativo, l'agghiacciante Corridoio della paura, tagliente atto d'accusa contro le distorsioni politiche e ideologiche della società americana dei primi anni Sessanta. Tanti, troppi i suoi film purtroppo ancora irreperibili in Italia: per citarne solo alcuni, gli splendidi n kimono scarlatto, La
vendetta del Gangster, Casa di Bambù e il ferocissimo, terminale, Cane Bianco. (Stefano Lorusso) Il corridoio della paura, di Samuel Fuller, Stati Uniti 1963. Edizione A & R Productions, 2011 Il grande uno rosso, di Samuel Fuller, Stati Uniti 1980. Edizione W arner Home Video, 2005
Mario Bava (1914 - 1980) Se un giorno vi trovaste negli Stati Uniti e vi assalisse la curiosità
di scoprire chi è il regista italiano più conosciuto in America non aspettatevi di sentire soltanto i nomi di Fellini e De Sica. Prima di Lucio Fulci e Dario Argento c'è stato un altro maestro dell'horror italiano che in America ha esportato moltissima paura di celluloide. Mario Bava è a tutti gli effetti un padre nobile del cinema di genere italiano. Oggi, tuttavia, la sua opera, amatissima negli States, è in patria ancora in buona parte sminuita come mediocre prodotto di artigianato. Altrove i suoi film sono venerati come capolavori del brivido, e registi del calibro di Joe Dante e Tim Burton si sono dichiarati più volte ferventi ammiratori del suo cinema. Un cinema fatto con pochissimi mezzi e infinito genio creativo, ispirato dal gusto infantile per lo scherzo e reso possibile, molto prima dell'avvento del digitale, grazie a brillanti espedienti tecnici. Aveva cominciato come direttore della fotografi.a Mario Bava. E direttore della fotografia lo fu in quasi tutti i suoi film, dedicando grande cura all'utilizzo delle luci e del colore. Tra i suoi horror più celebri ci sono il magnifico gotico in bianco e nero di La maschera del demonio con Barbara Steele e I tre volti della
paura con Boris Karloff. Suo il primo giallo in assoluto del cinema italiano, il bellissimo La ragazza che sapeva troppo. Suo Sei donne
per l'assassino, il thriller che per primo ha codificato le regole del genere in Italia. Suo uno dei titoli più affascinanti del primo gore italiano come Reazione a catena. Suo il feroce road movie ad altissima tensione Cani arrabbiati, idolatrato da Quentin Tarantino e diretto ispiratore di Le iene. Ben prima di Tarantino anche Federico Fellini saccheggiò parte dell'immaginario baviano per riciclarlo dentro un suo film: la spettrale bambina del suo Toby Dammit infatti non è che la sorellina di quella di Operazione paura di Mario Bava. Ovviamente non accreditata. (Stefano Lorusso)
La maschera del demonio, di Mario Bava, Italia 1960. Edizione Ripley's Home Video, 2009 Cani arrabbiati, di Mario Bava, Italia 1974. Edizione Raro Video, 2013
Dino Risi (1916 - 2008) Dino Risi fu un cineasta ironico, pungente, cinico. Ateo, anarchico. Un monumento del cinema italiano autore di svariati classici. La commedia all'italiana lna inventata lui con pochi altri registi, sceneggiatori e attori. Il Sorpasso, una delle più celebri interpretazioni di Vittorio Gassman per uno dei ritratti più rappresentativi, feroci e significativi dell'Italia del dopoguerra e del boom economico; I Mostri, geniale galleria di maschere nostrane, luoghi comuni, difetti e vizi dell'italiano medio, a cinquant'anni dall'uscita, per certi versi, ancora molto attuale; La stanza del
vescovo, episodio forse non tra i più noti della filmografia del nostro, tratto da un romanzo di Piero Chiara e con protagonista un monumentale Ugo Tognazzi, ambientato alla fine degli anni Quaranta
è una convincente miscela di erotismo e dramma sullo sfondo del Lago Maggiore; Poveri ma belli, Una vita difficile, Pane, amore e ... : questi i film che rappresentano perfettamente il suo sguardo sul mondo, la sua sfiducia verso il genere umano e anche la precisione, l'onestà e la caparbietà del suo lavoro. I mostri che ci ha raccontato nella sua filmografia non sono defunti né invecchiati: forse hanno cambiato nome, lavoro, modo di vestire ma raccontano ancora, oggi come ieri, alcuni degli aspetti più
spregevoli e volgari di una lunga storia tutta italiana. Risi si spense a Roma nel 2008: viveva in una camera d'albergo ai Parioli e in una delle ultime interviste aveva sostenuto che a 80 anni ci vorrebbe l'eutanasia gratis per tutti; si era pure fatto un elenco dei motivi per cui non valeva la pena più alzarsi ogni mattino e con la sua voce stanca li aveva letti, lentamente, uno dopo l'altro, la vecchiaia non è bella:
"è bello quando non si ricordano più i nomi dei propri figli? è bello guardare una ragazza e non essere visti da lei? è bello fissare un telefono che non suona? è bello parlare e non essere capiti? è bello non ricordare il motivo di una vecchia canzone? è bello diventare antipatici? è bello non sentire una donna che ti dice ti amo?" (Lucio Laugelli) Il sorpasso, di Dino Risi, Italia 1962. Edizione Cecchi Gori, 2007 La stanza del vescovo, di Dino Risi, Francia-Italia 1977. Edizione Medusa Video, 2004
Orson Welles (1917 - 1985) Ben prima di darsi al cinema, Orson Welles, in qualche modo, era già Orson Welles: scritturato come attore dalle migliori compagnie di New York, regista per il MercuryTheatre. Ma è soprattutto nella trasmissione radiofonica The March of Time che dimostra il suo precoce talento: il 30 ottobre del 1938, trasponendo La guerra dei
mondi di H.G. Wells, simula con i suoi attori un'invasione marziana, seminando il panico. La RKO gli offre così un contratto senza precedenti dandogli piena libertà, pensando di farlo diventare una delle tante caselle del vincente mosaico di Hollywood. Ne esce invece Quarto potere (1941), sua opera prima, debordante parabola sulla rapacità e sul successo forse ispirata al magnate della stampa Hearst, girato a soli venticinque anni, che rivoluziona la narrazione e lo stile del cinema ufficiale: inediti piani sequenza, uso furioso del montaggio (interi episodi riassunti in poche inquadrature), profondità di campo, grandangoli deformanti, soffitti che schiacciano i personaggi, perdita della centralità del protagonista Oo stesso Welles), narrato da più punti di vista. Troppo innovativo per avere successo: da lì in poi avrebbe faticato a trovare finanziamenti combattendo con i tagli imposti dalla produzione, come nel caso di
L'orgoglio degli Amberson. La passione per la letteratura lo porta ad adattare Shakespeare
(Macbeth, Otello, Falsta.ff, mostrando il falso ed effimero splendore dei personaggi con vertiginose riprese dal basso verso l'alto e un bianco e nero contrastato), Kafka (Il processo, dall'afflato drasticamente barocco), Blixen (Storia immortale). Si cimenta con il noir (La signora di Shanghai, L'infernale Quinlan), iniettandogli la sua riconoscibile impronta, nonché con il mistero, l'inganno e l'illusione (Rapporto confidenziale, F come Falso). Grande attore (spesso per necessità economiche) anche in pellicole altrui (da ricordare Il terzo uomo, La ricotta), la sua presenza grandiosa e carismatica rimane tale anche fuori dallo schermo, fino alla sua scomparsa nel 1985. (Daniel Montigiani)
Quarto potere, di Orson Welles, Stati Uniti 1941. Edizione Sony Pictures, 2013
L'infernale Quinlan, di Orson Welles, Stati Uniti 1958. Edizione Universal Pictures, 2003
Jean-Pierre Melville (1917- 1973) ...
E stato definito il più americano dei cineasti francesi. Con il suo cinema ha ridefinito in Europa i contorni di un genere, il noir, che i grandi capolavori americani di Huston e Wilder avevano codificato, traducendolo nel polar. Il suo stile sobrio, ricercato, impregnato di un personalissimo senso estetico (esaltato nei suoi film più grandi dalla magnifica fotografia di Henry Decae) ha influenzato l'intera generazione della Nouvelle Vague. In tempi più recenti registi come John Woo, Jim Jarmusch, Quentin Tarantino, Johnnie To e Michael Mann lo hanno omaggiato con le loro opere, dichiarando amore incondizionato per i suoi film. Jean-Pierre Melville, all'anagrafe Grumbach, figlio di genitori ebrei alsaziani, ha scritto un capitolo fondamentale della settima arte muovendosi, da autodidatta, dentro un'aura di ostentato isolamento, se non di totale clandestinità. Lo stesso cognome Melville non è che un nome di battaglia e di copertura, scelto durante la Resistenza, in onore del suo autore letterario preferito. Tra i titoli imprescindibili, nella sua non sterminata filmografia, non si può non partire dall'importante esordio del 1949 Il silenzio del
Mare, lirico apologo antibellico ripreso da Takeshi Kitano nel 1991. Seguiranno celebri capisaldi del cinema francese come Bob il
giocatore, Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide! e I senza nome. Tra tanti picchi la vetta assoluta viene probabilmente raggiunta da Mellville nel 1967 con Frank Costello faccia d'angelo, algido ritratto di un killer tra i più memorabili della storia del cinema interpretato da Alain Delon. Indimenticabile il suo carneo nei panni dello scrittore Parvulesco in Fino all'ultimo respiro dell'amico Jean-Luc Godard: alla domanda di Jean Seberg su quale fosse la sua più grande ambizione risponde: "Diventare immortale. E poi morire". A chi gli chiedeva se approvasse la definizione che alcuni davano di lui di amateur, dilettante, rispondeva: "Nella migliore accezione del termine, sì". (Stefano Lorusso)
Frank Costello faccia d'angelo, di Jean-Pierre Mellville, FranciaItalia 1967. Edizione Perseo Video, 2007
I senza nome, di Jean-Pierre Mellville, Francia-Italia 1970. Edizione A & R Productions, 2012
Ingmar Bergman (1918 - 2007) Ingmar Bergman è stato autore di un cinema esistenziale e simbolico, costruito su tematiche quali l'anticlericalismo, il silenzio di Dio, la condizione dell'uomo di fronte ai suoi simili e alla morte, il contrasto tra dispotismo paterno e dolcezza materna, l'incomunicabilità dei sentimenti. Dopo un'importante stagione nel teatro, Bergman passa al cinema dirigendo nel 1945 Crisi. Esordio tutt'altro che indimenticabile ma negli anni Cinquanta arrivano i primi successi. Dimostrando grande padronanza nell'uso della macchina da presa, Bergman confeziona melodrammi amari come Monica e il desiderio (1953) e commedie sentimentali come Sorrisi di una notte d'estate (1955), quest'ultimo premiato a Cannes per "l'umorismo poetico". La piena maturità giunge con Il settimo sigillo (1956), brillante
allegoria medievale che mescola la tragedia e la commedia interrogandosi su Dio; segue Il posto delle fragole (1957), riflessione sulla vita e la morte dal punto di vista di un anziano professore, con echi nostalgici per la gioventù perduta e sequenze oniriche ricche di fascino. Nei primi anni Sessanta Bergman approfondisce il tema del silenzio di Dio dedicandovi una trilogia dai toni austeri e dallo stile rigoroso: Come in uno specchio (1960), Luci d'inverno (1961) e Il
silenzio (1962). Nel 1966 firma Persona, il suo film più sperimentale e psicoanalitico, nel quale le due donne protagoniste (Liv Ullmann e Bibi Andersson) finiscono per confondersi tra loro, in un'opera dove l'uso espressivo del primo piano diventa un modo efficace per sondare l'animo umano.
Sussurri e grida (1973) prosegue in questa direzione, avvalendosi di un uso emotivo del colore e di quattro memorabili figure femminili, distanti ma complementari tra loro. A chiudere simbolicamente la sua lunga carriera arriva nel 1982 Fanny e Alexander. In questo sontuoso e monumentale film Bergman ripercorre la sua infanzia e con essa tutti i tarli, le fantasie e i temi da lui prediletti. Una vera e propria summa del suo bellissimo, irripetibile e indimenticabile cinema. (Francesco Biselli)
Persona, di lngmar Bergman, Svezia 1966. Edizione Bim, 2013 Fanny eAlexander, di Ingmar Bergman, Svezia-Francia-Germania Ovest 1982. Edizione Bim, 2012
Mario Monicelli (1919 - 2010) C'è un momento di televisione che cattura l'essenza di Mario Monicelli. Come spesso accade un carattere emerge e si definisce meglio nei suoi contorni quando è costretto a misurarsi con il suo doppio in negativo: accadde quando, in un celebre match televisivo del 1977, si misurò con la vis polemica di un giovanissimo e spocchioso Nanni Moretti. Monicelli ribaltò colpo su colpo le obiezioni dello scapigliato Moretti sul sistema produttivo cinematografico italiano e i suoi rapporti con il pubblico, con lucida e disincantata sincerità. Fino alla fine dei suoi giorni Monicelli ha conservato intatta la sua identità: testarda, indomita e battagliera, genuina e un po' all'antica ma sempre contraddistinta da uno sguardo antiretorico, spesso cinico, sul tragicomico destino del popolo italiano. Monicelli ha occupato un posto centrale nella storia del cinema italiano, guadagnandosi il titolo a volte ingombrante di padre nobile della commedia all'italiana. I suoi film hanno segnato mezzo secolo di storia patria, sedimentandosi nell'immaginario nazional-popolare, definendone maschere, bozzetti, deformazioni e archetipi. Le luci della ribalta si accendono su Mario Monicelli mentre l'astro
del Principe Antonio de Curtis conosce il suo massimo fulgore, ma è nel 1958, con I soliti ignoti, che arriva per lui il primo travolgente successo e la legittimazione critica di un talento ormai riconosciuto nella sua dimensione di autore. Di lì in poi il Maestro avrebbe inanellato una serie di pellicole capaci di raccontare (e rappresentare) l'italianità come nessuno avrebbe più saputo fare dopo di lui. La Grande Guerra, L'armata
Brancaleone, La ragazza con la pistola, Romanzo popolare, Amici Miei, Un borghese piccolo piccolo. Senza mai tradirsi, senza mai abdicare alla sua natura di Satiro Castigatore, ultimo epigono di Plauto e della Commedia dell'Arte. Persino la sua uscita di scena è stata figlia di un ultimo, anarchico, estremo gesto di libertà. Il suo epitaffio ideale: "Muoiono solo gli stronzi". (Stefano Lorusso)
I soliti ignoti, di Mario Monicelli, Italia 1958. Edizione Cristaldi Film, 2007
L'armata Brancaleone, di Mario Monicelli, Italia 1966. Edizione Titanus, 2009
Federico Fellini (1920 -1993) Nel 1939 un giovane romagnolo di appena diciotto anni arrivò a Roma sognando di lavorare per la sua rivista umoristica preferita. Ignorava che quello sarebbe stato il prologo del suo sposalizio con il cinema: Federico Fellini, un regista così originale e influente da meritarsi un aggettivo coniato apposta per lui. Visionario, vivace sognatore, consacrato e ammirato all'estero tanto da vincere quattro premi Oscar, cinque con quello alla carriera. Il suo cinema è fatto di contrapposizioni: colorato e cupo, malinconico e allegro, popolato di clo,vn, personaggi buffoneschi ed eterni sconfitti. Ha consacrato e regalato al pubblico un attore versatile e completo come Marcello Mastroianni, ha filmato e proiettato sullo schermo i nostri desideri e le nostre pulsioni, facendoci sognare e rodere dall'invidia per non poter sfiorare il corpo di Anita Ekberg o per non trascorrere una notte a bere e a girovagare senza meta con Alberto Sordi. Durante la sua carriera ha anche subito pesanti critiche dalla benpensante e bigotta opinione pubblica italiana, incapace di comprenderlo e istigata dalla censurante morale cattolica; tristemente note le reazioni dopo la prima proiezione a Milano de La dolce vita, dove Federico e Marcello vengono sommersi da sputi e insulti per come hanno rappresentato ed interpretato la vita dissoluta dell'universo che ruotava intorno a via Veneto. Nella sua filmografia emergono perle immortali e spesso autobiografiche: ha ambientato nella sua Rimini I vitelloni, divertente e malinconico ritratto di cinque giovani nullafacenti e Amarcord, sublime omaggio ai ricordi della sua infanzia. Sul complesso e delicato ruolo del regista, in particolare su una sua profonda crisi d'ispirazione, dedica 8½, assoluto capolavoro. Molti registi contemporanei devono essere grati a Fellini; al suo stile, alla sua dedizione nel tirare fuori il meglio da ogni attore, alla sua capacità di dirigere pellicole dominate da soluzioni kitsch senza essere pacchiane ma meravigliosamente colorate. (Giovanni Pesce) La dolce vita, di Federico Fellini, Italia-Francia 1960. Edizione
Mustang Entertainment, 2013 8½, di Federico Fellini, Italia-Francia 1963. Edizione Mustang
Entertainment, 2014
Eric Rohmer (1920 -
2010)
Un profondo senso della misura ed un'esplorazione del nucleo della vita che evita i movimenti frenetici della macchina. n cinema di Eric Rohmer è nelle parole del fotografo Robert Adams, che nella costruzione dell'immagine si è lasciato ispirare proprio dal regista francese. La storia è ciò che la vita nel suo lento scorrere quotidiano fa accadere, la cinepresa non deve mai staccare, ma deve fluire adagiandosi sulle emozioni dei protagonisti. L'attesa è il colpo di ...
scena più efficace. "E molto più interessante suscitare l'invisibile partendo dal visibile, piuttosto che tentare invano di visualizzare l'invisibile". Nato nel 1920, insieme alla collaborazione come critico ai Cahiers du Cinéma ha pubblicato nel 1946 un romanzo, Elisabeth, con lo pseudonimo di Gilbert Cordier. La sua carriera di regista è proseguita di pari passo con
un'appassionata carriera scolastica come docente di letteratura e autore di numerosi audiovisivi per la scuola. Il suo cinema, seppur ali'apparenza semplice, è perfettamente architettato dentro una struttura seriale che moltiplica, confonde, approfondisce le tematiche di volta in volta coinvolte nella sua analisi dalla forte qualità letteraria. Come la Commedia umana di Balzac il suo cinema si dipana nella variegata struttura chiusa in cui sono raccolti i suoi film. Da "I sei racconti morali", serie iniziata nel 1962, in cui troviamo opere come La collezionista e L'amore e il pomeriggio. Dei primi anni Ottanta la serie "Commedie e proverbi", che annovera Il raggio verde, La moglie dell'aviatore e Pauline alla spiaggia. Risale agli anni
Novanta invece la serie de "I racconti delle quattro stagioni", dove il passaggio del tempo diventa protagonista e misura di un lento scorrere verboso tra le relazioni umane.
n carattere classico di una bellezza che non ha paura di mostrarsi e l'uso preciso e vivo dei luoghi fanno del cinema di Rohmer un affascinante viaggio nei meandri della cultura francese. Musica, letteratura, paesaggi, amore. n cinema di Rohmer è l'incanto di un momento di pausa. (Luca Ferrando) La collezionista, di E. Rohmer, Francia 1967. Edizione Dolmen
Home Video, 2004
Il raggio verde, di E. Rohmer, Francia 1986. Edizione Bim, 2007
Pier Paolo Pasolini (1922 - 1975)
Come si può definire con una sola parola una delle personalità più versatili e complesse del Ventesimo secolo? Pier Paolo Pasolini. Divulgatore, giornalista, poeta, regista, scrittore. L'eclettismo dimostrato in questi campi ha reso alla nostra penisola un patrimonio che, per quanto possa anche essere criticato, è sicuramente una delle eredità culturali più vaste che ci siano giunte. La filmografia di Pasolini meriterebbe un'analisi approfondita. Regista sperimentale, provocatore, cinico ma estremamente delicato, ha usato il cinema come veicolo per diffondere le sue convinzioni, per ribaltare i filtri della morale comune e dimostrare come questo possa essere, oltre alla voce, un mezzo di divulgazione poetica. Dalla narrazione dell'aspra esistenza condotta dai borgatari romani (Accattone e Mamma Roma) alla messa in scena di tragedie greche (Edipo re e Medea) e della crisi dei valori borghesi e cattolici
(Teorema e Porcile) usando un linguaggio unico nel suo genere, fatto di volti scavati, prestati al cinema, di colori accesi e atmosfere che trasmettono un senso di male di vivere allo spettatore e che hanno reso tali pellicole memorabili per la loro assenza di filtri, perle che testimoniano la genialità di un uomo, l'ergersi di una voce fra le masse inebetite da ciò che è convenzionale, comune e vuoto. Colpisce soprattutto la capacità di narrare storie antitetiche l'una dall'altra mantenendo comunque una comune impronta, trattando un tema attraverso visioni diametralmente opposte: la libertà sessuale gioiosa vista nella "Trilogia della vita" (Il Decameron, I racconti di
Canterbury, Il.fiore delle Mille e una notte) opposta al sesso come arma per sottomettere e umiliare del Salò. Ma dove emerge l'anima in assoluto più intima di Pasolini è in un piccolo gioiello cinematografico della durata di soli venti minuti: Che cosa sono le nuvole, un episodio toccante e meraviglioso, una struggente poesia sulla bellezza del creato. (Giovanni Pesce)
Accattone, di Pier Paolo Pasolini, Italia 1961. Edizione Medusa Video, 2013
Il Decameron, di Pier Paolo Pasolini, Italia-Francia-Germania Ovest 1971. Edizione Dell'angelo Pictures, 2011
Robert Altman (1925 - 2006) "Io strimpello nell'angolo dove loro buttano le monetine". Dai margini, libero nel pensiero e nell'azione, Robert Altman ha costruito con i suoi film un insieme di microcosmi, di opere-mondo, capaci con la loro forte carica allegorica e metaforica di insinuarsi nell'America come un'immaginaria Broad,vay che sbilenca attraversa il Paese, mettendosi in mostra per permettere al Paese stesso di esporsi e di riflettere sulle proprie isterie e nevrosi. Dall'accampamento folle di M*A *S*H., dove i chirurghi militari sotto il giaccone nascondono le olive per il Martini, alla città di
Nashville, invasa con tutto il furore ironico e dissacrante di una ridicolizzazione degli eccessi della vacua società dello spettacolo. Dal
Matrimonio che celebra l'imprevedibile unione tra due bizzarre famiglie fino al congresso dei fanatici salutisti di Health arrivando ali' adattamento dei racconti di Carver con America Oggi, film imprescindibile per ogni riflessione sulla questione americana, che segue di poco I protagonisti, tagliente messa in scena dell'universo hollywoodiano. Il suo cinema è una commistione continua di generi interpretati nello svuotamento della loro retorica e dei loro momenti clou, come in
Gang, riproposizione del gangster movie, dove durante le rapine nelle banche la macchina da presa resta fuori inquadrando solo l'immobilità della facciata e della strada, o come l'inizio de Il lungo
addio, dove per i primi dieci minuti non succede straordinariamente niente in uno sfilacciamento progressivo della trama che si esaurisce in pieno nell'erranza dei protagonisti del film successivo, California
Poker. L'improvvisazione costante con gli attori, chiamati a contribuire attivamente alla sceneggiatura, l'uso ossessivo dello zoom e il lavoro di riscrittura sulla colonna audiovisiva con l'impiego costante dell'overlapping sono le pratiche con cui il regista è riuscito nella rappresentazione disturbante non tanto dell'America, quanto degli Americani nel loro gioco d'azzardo con le proprie idiosincrasie. (Luca Ferrando)
M*A *S*H., di Robert Altman, Stati Uniti 1970. Edizione 20th Century Fox, 2008
Il lungo addio, di Robert Altman, Stati Uniti 1973. Edizione MGM, 2005
Sam Peckinpah (1925 - 1984) Amava le donne e la tequila Sam Peckinpah. E amava il Messico. Perché in Messico, diceva, è tutto visibile: i colori, la vita, il calore. E perché in Messico, aggiungeva, non dimenticano di baciarsi e di ...
annaffiare le piante. E stato uno dei più grandi irregolari che abbiano mai attraversato il cinema americano, un dinamitardo in azione dentro il sistema degli Studios, un Hollywood maverick anomalo e non allineato, un cane senza collare fino all'ultimo dei suoi film. All'interno della sua filmografia, che ha accompagnato la parabola di un genere, il ,vestern, fino al suo tramonto, alcuni critici hanno individuato un Sole e una Luna. ll Sole è Il Mucchio Selvaggio, capitale ed estrema declinazione della violenza rappresentata e rappresentabile nel cinema, e snodo decisivo per una serie di importanti cineasti che sarebbero seguiti, da John Woo a Takeshi Kitano, da Quentin Tarantino a Johnnie To. La Luna è il magnifico Pat Garrett e Billy the Kid, memorabile canto del cigno del genere impreziosito da una colonna sonora composta da Bob Dylan entrata nella storia. Storica è anche la polemica con il nostro Sergio Leone, reo secondo Peckinpah di aver fatto ,vestern posticci e costruiti, senza conoscere il vero West. Leone, da sceneggiatore, si prese una piccola ma perfida rivincita mettendo sopra una lapide il nome del nemico giurato bloody Sam in Il mio nome è nessuno. Peckinpah dal canto suo avrebbe continuato a muoversi in direzione ostinata e contraria. Regalandoci esperienze uniche come la febbricitante caccia all'uomo di Voglio la testa di Garcia, la vertigine iperviolenta di Cane di Paglia o la cartolina dall'inferno della Seconda guerra mondiale di Croce di ferro.
n suo cinema, sotto la dura scorza pulp, ha raccontato un universo romantico e crepuscolare, popolato da idealisti della libertà fuori tempo massimo. In ritardo rispetto al cambiare dei tempi, o forse solo coerenti fino in fondo con se stessi. Come Billy the Kid. (Stefano Lorusso) Il mucchio selvaggio, di Sam Peckinpah, Stati Uniti 1969. Edizione
Warner Home Video, 2006 Pat Garrett e Billy the Kid, di Sam Peckinpah, Stati Uniti 1973.
Edizione Warner Home Video, 2006
Lucio Fulci (1927 - 1996) Uno dei registi più prolifici del cinema italiano. Autore di culto per registi del calibro di Quentin Tarantino. Nella sua filmografia emerge la capacità di destreggiarsi in ogni genere, passando dal registro comico alla consacrazione col cinema thriller (Non si sevizia un
paperino) e horror, segnato da cult come Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero. Sebbene fortemente criticato come autore di pellicole a volte al limite del risibile, thriller ridicoli per regia e recitazione assente, horror splatter che trasmettono più noia che terrore, prodotti la cui visione il più delle volte fa sorgere dei dubbi su11a credibilità non solo del regista ma anche dei produttori, rimane un cineasta dall'indubbio fascino e dal talento male espresso. Fulci merita un'analisi a parte, senza forzare paragoni con colleghi più illustri: debitore di pochi, creditore di molti, ha formato attraverso il suo cinema (soprattutto quello horror) una serie di registi che hanno più volte citato nelle loro pellicole le sue sequenze. Caratteristica del suo cinema è sicuramente la continua ricerca di soluzioni che potessero sconvolgere e stupire lo spettatore. Soluzioni originali, che non hanno precedenti per quello che riguarda l'estro ma che spesso hanno danneggiato la narrazione; intuizioni che hanno risollevato alcune sue pellicole in principio deludenti. Altra peculiarità del suo cinema è la presenza di primi piani di occhi, escamotage a volte abusato ma efficace per trasmettere allo spettatore lo stato d'animo dei personaggi. Regista in controtendenza, impavido e coerente con le sue convinzioni, ha dato vita ad un cinema artigianale dominato da sangue, morte ed erotismo che si fregia di un marchio di fabbrica dominato da soluzioni morbose sino al parossismo, in una filmografia che è un tripudio dell'esagerazione. Per quanto possa avere più difetti che pregi, il suo cinema merita di essere approfondito per onorare quello che è stato, senza dubbio, un grande artigiano della settima arte. (Giovanni Pesce)
Non si sevizia un paperino, di Lucio Fulci, Italia 1972. Edizione Mustang Entertainment, 2013
Quella villa accanto al cimitero, di Lucio Fulci, Italia 1981. Edizione No Shame Films, 2004
Marco Ferreri (1928 - 1997) Fra i registi che hanno dato il loro contributo alla storia del cinema, Marco Ferreri resta uno dei più brillanti e controversi, autore di pellicole che stravolsero le modalità cinematografiche di condurre l'analisi psicologica dei personaggi e della società, in un sublime decadimento dei costumi e della morale. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello dello sceneggiatore spagnolo Rafael Azcona, con cui scrisse la maggior parte dei suoi film. Impregnata di echi bufiueliani, la sua filmografia è dominata da un'atmosfera cinica, dissacratoria e grottesca, a tratti surreale, sempre efficace nella sua critica impietosa verso i valori della società. Affiancato sempre da grandi interpreti, fra i tanti Ugo Tognazzi e Michel Piccoli, identificatisi nei suoi personaggi senza risultare maschere ma piuttosto ritratti impietosi della nostra civiltà: tra tutti è doveroso citare il cinico ed insensibile sfruttatore di fenomeni da baraccone interpretato da Tognazzi ne La donna scimmia e l'ingegnere annoiato reso con grande maestria da Piccoli in Dillinger è
morto. La sua opera più celebre e importante, summa di tutto il suo pensiero, è La grande abbuffata: in una villa parigina quattro borghesi si riuniscono per impegnarsi in un'orgia raccapricciante di cibo e sesso sino a giungere ad una morte che è un tripudio dei piaceri. Film dissacrante che sbeffeggia senza filtri i costumi della borghesia riducendo l'uomo ad un mero consumatore senza spina dorsale e sottomesso ai suoi bisogni più elementari. Tema ricorrente del cinema di Ferreri è la sottomissione del maschio nei confronti della donna; il cui predominio emerge lentamente sino ad un totale ribaltamento dei canoni. Sono madri, amanti e spose che riducono l'uomo a un essere senza alcuna personalità, da cacciatore a preda inebetita incapace di reagire. Fortemente criticato e censurato ma capace di fornire una lucida analisi dei cambiamenti, dei vizi e del marcio che si nasconde all'interno della nostra società. (Giovanni Pesce)
Dillinger è morto, di Marco Ferreri, Italia 1969. Edizione Minerva Classic, 2005
La grande abbuffata, di Marco Ferreri, Italia-Francia 1973. Edizione Generai Video,
2006
Stanley Kubrick (1928 - 1999) Genio inossidabile capace di attraversare ogni genere con dirompente talento: dal film storico alla fantascienza, dall'horror al comico. Ha diretto alcuni tra i più grandi attori mai apparsi dinnanzi alla macchina da presa cambiando per sempre le regole del gioco. Metodico, perfezionista, instancabile ricercatore e lettore; le sue lavorazioni erano lunghissime ed estenuanti sessioni alla ricerca del risultato migliore. Stanley Kubrick ci ha mostrato qualcosa che mai i nostri occhi avevano visto. Ci ha sconvolti e stupiti, infine rapiti con una filmografia esile solo sotto il profilo dei numeri: tredici film in quarantasei anni. Una volta Martin Scorsese disse che ogni anno che non esce un film di Kubrick perdiamo tutti qualcosa. Per una volta mi trovo in disaccordo con Scorsese: solo con questa grande ricerca della perfezione e questa scelta disperata, infinita di altissima qualità possiamo godere di un cinema che sarebbe stato, inevitabilmente, un'altra cosa se Kubrick avesse adottato altri ritmi. Nell'ardua impresa di dover scegliere solo due titoli, cito Bany
Lyndon, affascinante e irripetibile parabola sull'ambizione umana: un punto fermo della cinematografia internazionale per l'uso sperimentale della luce naturale (vennero usate lenti rivoluzionarie realizzate per la Nasa); e Shining, horror innovativo che ha scardinato ogni regola del genere inchiodando alla poltrona lo spettatore che, spaesato e inquieto, affronta un viaggio di 146 minuti nei corridoi dell'Overlook Hotel. Shining è anche fondamentale per quel che riguarda la messa in scena: fu infatti uno dei primi film a fare uso (massiccio) della steadicam inventata e usata sul set da Garrett Brown. Kubrick nasce come fotografo, viene scoperto da Kirk Douglas (che gli affida la regia di Orizzonti di Gloria e di Spartacus) quindi assume il controllo totale delle sue opere fino alla morte. La Warner con lui adottava regole e trattamenti speciali, consentendogli grandi ritardi e spese enormi. Perché lui era Stanley Kubrick. Il più grande uomo ad aver mai detto: "azione". (Lucio Laugelli)
Bany Lyndon, di Stanley Kubrick, Regno Unito-Stati Uniti 1975. Edizione W arner Home Video,
2002
Shining, di Stanley Kubrick, Regno Unito-Stati Uniti 1980. Edizione W arner Home Video,
2007
Jacques Rivette (1928) Frequentatore della Cinémathèque Française dove conobbe François Truffaut e Jean-Luc Godard, poi Eric Rohmer, André Bazin e
Suzanne Schiffman. Scrisse come critico cinematografico sulla Gazette du Cinéma e sui Cahiers du Cinéma. A Jacques Rivette, forse
il più grande critico della sua generazione, scrivere non bastava. Nel 1958 iniziò le riprese di Parigi ci appartiene che sarebbe riuscito a terminare solo nel 1960; un film straordinario ed estremamente intimo di riflessione esistenziale e di viaggio nella Parigi labirintica che Rivette ci mostrò deserta, mentre i tempi stavano cambiando complotti ed opere teatrali (entrambi mai finiti). Fondamentale poi L~mour fou del 1967 in cui ritornò a tematiche contemporanee e a riflessioni esistenziali: quasi un cinema verità sulla vita di una coppia in quasi cinque ore. Rivette sarebbe diventato sempre più uno di quegli autori lodati dai critici e visti da poco pubblico; con Godard è il grande intellettuale della Nouvelle Vague. Così nel 1970 realizzò Out: 1 che dura dodici ore. Torna il tema del teatro e dei rapporti con la vita, l'impossibilità della pura rappresentazione; vi si intrecciano le azioni dei componenti di una troupe teatrale. Nel 1974 girò Céline et Julie vont en bateau, ispirato ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Poi Duelle e Noroit del 1976, due film sul rapporto tra il sogno e la fiaba e una riflessione sul linguaggio cinematografico e sulla possibilità comunicativa del cinema che sarebbe continuata con Merry-go-round del 1979. Ritornò ad ambientare in quella Parigi così diegetica uno dei suoi film più belli, lo splendido Le Pont du Nord (1981), un'odissea moderna in una metropoli multiforme. Nel 1994 mise in scena una
Giovanna d~rco personalissima (quasi sei ore, diviso in due parti) che divenne, nonostante l'osticità, una delle sue opere più conosciute. Del 2009 l'originalissimo Questioni di punti di vista. Rivette nascosto attorno al suo cinema assolutamente autoriale rimane un lettore unico delle piccole storie dei nostri tempi. (Erik Negro)
Parigi ci appartiene, di Jacques Rivette, Francia 1961. Edizione P.F.a. Films, 2012
Questione di punti di vista, di J acques Rivette, Francia-Italia 2009. Edizione Cecchi Gori, 2010
Lina Wertmfiller (1928) L'icona è la sintesi più potente del visivo, l'immagine che ingloba in sé la summa di un concetto; e l'iconografia è, per prassi, determinata da dettagli che conferiscono unicità a quell'immagine, dettagli che fanno la differenza e che connotano. E come per Fellini, Zeffirelli, Chaplin e diverse altre figure della regia al maschile sono stati dettagli, come sciarpe, cappelli e bastoni, a farli diventare un'icona, un'immagine-simbolo, al di là e prima ancora del loro mestiere, anche per lei, Lina Wertmuller - per reale ironia, iconoclasta del visivo - è stata ed è l'immancabile protesi oculare in plastica dura e bianca, che costantemente indossa, a farla identificare: "Sono nota, per fortuna o per combinazione, in molte parti del mondo". Di notorietà planetaria è il suo Pasqualino Settebellezze (1976), candidato all'Oscar in quattro categorie, tra cui la regia e la miglior interpretazione protagonista di Giancarlo Giannini, che per Wertmiiller rimane il corpo feticcio, il luogo comune in carne ed ossa del maschio mediterraneo, fatto anch'esso icona di un immaginario che ha contribuito a definire quasi un genere, quello raccontato e impresso sulle pellicole dalla Wertmiiller, di cui anche Monica Vitti e Mariangela Melato sono state talentuose complici. Arcangela Felice Assunta Wertmiiller von Elgg Spano} von
Braueich, ovvero Lina, batte il primo ciak con I basilischi (1963), pellicola dal sapore amaro e grottesco impregnata di meridione, amicizia e povertà: un debutto che le valse La vela d'argento al Festival di Locarno. Nel 1992 per una volta non fu il magnetico Giannini il suo soggetto attoriale ma, con Io speriamo che me la cavo, Paolo Villaggio, capace di lasciar cadere l'immaginario di memoria fantozziana, con lui indissolubilmente identificato. Il mondo del cinema le ha riservato il David di Donatello alla Carriera nel 2010; a fine 2012 firma le pagine di un racconto per la carta, Niente a posto e
tutto in ordine, autobiografia slegata dalle regole e di geniale stravaganza. (Nicole Bianchi)
Pasqualino Settebellezze, di Lina Wertmiiller, Italia 1976. Edizione Mustang Entertainment, 2013 Io speriamo che me la cavo, di Lina Wertmiiller, Italia 1992. Edizione Cecchi Gori, 2005
Sergio Leone (1929 - 1989) C'è un regista romano che ha girato pochi film nella sua vita: sette per la precisione. Ma il primo (Il colosso di Rodi, 1961) non conta: era solo una pellicola di genere peplum servita al giovane Sergio Leone per prendere confidenza con il mezzo. Gli altri sei sono tutti capolavori del cinema mondiale. Il regista italiano ha inventato un genere (lo spaghetti western) e scoperto uno dei più grandi attori viventi (Clint Eashvood). Un solo viaggio, nel suo cinema, lontano dal genere che lo ha reso celebre, chiude la sua carriera: C'era una volta in America, un gangster movie del 1984 ... un capolavoro assoluto di cui è già stato detto/scritto tutto. In mezzo, tra il primo e l'ultimo film si trova: la "Trilogia del dollaro": Per un pugno di dollari (1964), firmato per ragioni commerciali con uno pseudonimo anglofono, Bob Robertson, in memoria di suo padre Vincenzo, noto con il nome d'arte di Roberto Roberti; Per qualche dollaro in più (1965) che, come il precedente, ha per protagonisti Clint Eashvood e Gian Maria Volonté; Il buono, il
brutto, il cattivo (1966), di cui non si può dimenticare l'epica sequenza finale del triello nel cimitero. E poi C'era una volta il West, omaggio indimenticabile a John Ford e infine Giù la testa (1971), una riflessione sulla rivoluzione messicana. I film di Leone non sarebbero gli stessi senza le colonne sonore di Ennio Morricone: ogni soundtrack è potente, geniale e accompagna indissolubilmente il viaggio dello spettatore. Ci si mette dawero poco ad affrontare la filmografia del regista romano ed è una tappa obbligata per ogni cinefilo. Leone, negli ultimi anni della sua vita, si era dimostrato anche abile talent scout avendo scovato, quindi prodotto, un giovanissimo Carlo Verdone che grazie a lui esordisce alla regia con Un sacco bello, nel 1980. Avremmo conosciuto Tarantino senza Leone? Forse sì, ma sarebbe stato certamente un altro regista, con una messa in scena completamente diversa. (Lucio Laugelli)
Il buono, il brutto, il cattivo, di Sergio Leone, Italia 1966. Edizione 01 Distribution, 2013
C'era una volta in America, di Sergio Leone, Italia-Stati Uniti 1984. Edizione Warner Home Video, 2012
Elio Petri (1929 - 1982)
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E uno dei grandi dimenticati del cinema italiano, un precursore, un sognatore di storie vere. Guardate la sua faccia, non ha la faccia da fine intellettuale, no. Ha la faccia di un uomo del popolo, una faccia di quelle che potresti incontrare al mercato, o ad Ariccia a mangiare un panino con la porchetta: di corporatura tozza e con la testa grossa, tanto che Ruggero e Marcello Mastroianni lo avevano amichevolmente soprannominato "Capoccione", Elio Petri è stato un finissimo analista delle nevrosi e delle psicosi della società. Le sue rappresentazioni sono sempre state vivide, graffianti, spietate; mai mediate da ipocrisia, o piaggeria verso alcun potere politico o cinematografico. Spesso ha avuto problemi nel trovare produttori, spesso è stato attaccato da critica e censura e, dopo Todo
Modo, in cui descriveva la decadenza politica e morale della classe dirigente della Democrazia Cristiana, viene rinnegato anche dal PCI, suo ambiente di formazione, da cui si era già allontanato dopo la repressione sovietica in Ungheria. Per lui il cinema era e doveva essere impegno civile. Ha lavorato con i migliori attori del suo tempo: Mastroianni, Sordi, Volonté, Tognazzi solo per dirne alcuni. Altri suoi film sono: Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto, Premio Oscar 1971 per il Miglior film in lingua straniera; Un tranquillo posto di campagna, Orso d'Argento al Miglior film alla Berlinale del 1969; La classe
operaia va in paradiso, Palma d'Oro al Festival di Cannes 1972. Sempre avanti rispetto ai tempi, e forse questo è il suo "difetto", a Petri non piaceva il documentario perché amava inventare le sue storie, articolarne gli svolgimenti a suo gusto, ma sempre al fine di una cruda descrizione della realtà. I suoi sono film "scomodi" come li definì anche lui stesso e posso assicurare che se leggeste uno dei suoi scritti o se ascoltaste uno dei suoi film senza guardarne il video trovereste pezzi della nostra povera Italia, come se fossero stati scritti oggi stesso. (Valerio Orsolini)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, Italia 1970. Edizione Lucky Red, 2013
La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, Italia 1971. Edizione Minerva Classic, 2012
Claude Chabrol (1930 - 2010) Chabrol è stato un prolifico regista francese (tra i padri fondatori della Nouvelle Vague) autore di un cinema raffinato, colto, tagliente. Nell'arco della sua carriera ha raccontato un'umanità apparentemente equilibrata, agiata, intellettuale che, in realtà, cela un lato oscuro inquietante; lato oscuro che talvolta sfocia anche nell'omicidio, oltre che nella lussuria, nel tradirnP,nto, nella malattia mentale. Isabelle Huppert e Michel Serrault sono stati alcuni tra gli attori più celebri che hanno legato il proprio nome a diversi film del maestro parigino ed è proprio con la Huppert, nel 1988, che egli raggiunge la notorietà al di là della Francia: Un affare di donne conquista critica e pubblico quasi• ovunque. Il suo cinema sarebbe stato sicuramente differente senza l'influenza dei romanzi di Simenon che hanno spesso ispirato sceneggiature ambientate in provincie assopite, dove sembra non succedere mai nulla. Per certi versi ha in comune con Woody Allen la raffinata sobrietà (senza rinunciare alla suspense) nell'affrontare il genere thriller: entrambi affrontano la formula del delitto e castigo con protagonisti borghesi annoiati in maniera sopraffina ed elegante, senza mostrare mai dettagli scabrosi e violenti. Tappe fondamentali della carriera di Chabrol sono certamente
Dieci incredibili giorni, incontro con il mostro sacro Orson Welles per un morboso intreccio di relazioni in un'agiata famiglia delle campagne francesi; Grazie per la cioccolata, intenso thriller che si avvale di una delle migliori interpretazioni della sua attrice feticcio, la già citata Huppert; Il.fiore del male, riflessione intrigante sul desiderio del tempo. Fino alla sua morte Chabrol ha continuato a girare film arguti e intelligenti. Ultimo tassello di una sconfinata, premiata e pregiatissima cinematografia è Bellamy, con Gerard Depardieu, del ...
2009.
E simbolico e toccante che una delle ultime inquadrature della
sua storia di regista abbia per protagonista un piccolo cimitero francese, appollaiato sul mare. (Lucio Laugelli)
Dieci incredibili giorni, di Claude Chabrol, Francia-Italia 1971. Edizione Raro Video,
2012
Il.fiore del male, di Claude Chabrol, Francia 2003. Edizione Generai Video, 2007
ClintEastwood(1930) "Beata la terra che non ha bisogno di eroi". Clint Eashvood è stato e continua a essere un grande eroe americano. Silenziosa e implacabile sfinge con sigaro e cappello, si è consacrato icona assoluta del ,vestern. Con una 44 magnum in pugno è stato il duro dei duri,
Dirty Harry Callaghan, prototipo di tutti i poliziotti di strada feroci e spietati, ma giusti. Negli anni Settanta passa dall'altra parte della macchina da presa, dei suoi film è protagonista, produttore, compositore delle musiche. In western crepuscolari e leoniani (Lo straniero senza nome, Il
texano dagli occhi di ghiaccio) mette in gioco il suo stesso mito di cavaliere solitario, di uomo di giustizia in terra selvaggia. Le praterie del West e le strade delle metropoli, ma anche l'Africa,
i campi di battaglia, lo spazio, sono le terre selvagge attraversate dal rigoroso occhio filmico e dal corpo iconografico di Clint, uomo di ferrea legge morale, maverick a disagio con le etichette, quasi sempre un passo avanti o di lato nella consapevolezza dell'irriducibile ambiguità del reale. È lui l'ultimo vero classico, nella sua abbacinante modernità. Firma un numero di capolavori che basterebbero a tre carriere da leggenda. Nel 1993 Gli spietati chiude i conti con il western in maniera magistrale. I ponti di Madison County (1995) è storia d'amore senza tempo. Nell'ultimo decennio una serie epocale: nel 2003
il superbo thriller Mystic River, seguono Million Dollar Baby, e
il dittico su Iwo Jima Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima che raddoppia i punti di vista portando un'analisi preziosa del meccanismo di "eroicizzazione" dell'uomo qualunque americano e una poetica elegia del valore umano del nemico sconfitto.
Gran Torino nel 2008 è il testamentario addio alla recitazione nei panni di Walt Ko,valsky, che è uno e centomila Eashvood, amareggiato e incattivito ma ancora pronto a credere nell'America, nelle "americhe", a cui lasciare un'eredità che è immensa e perfetta e ingestibile come la vecchia Ford del titolo. (Giacomo Lamborizio)
Gli spietati, di Clint Eashvood, Stati Uniti 1992. Edizione Warner Home Video, 2002
Gran Torino, di Clint Eashvood, Stati Uniti 2008. Edizione Warner Home Video, 2009
Jean-Luc Godard (1930) JLG, basterebbe una sigla e nulla più. Sebbene oscuro e quasi sempre lontano dai favori del grande pubblico, il cinema di Godard è considerato arte assoluta. Geniale e dissacrante, il regista francese scardina le regole del cinema classico e rivoluziona completamente i tradizionali meccanismi di narrazione. Insuperabile nell'illustrare le parole con immagini e luci, critico ancor prima che regista, Jean-Luc Godard è uno dei grandi maestri del cinema francese. Uno di quelli (forse davvero l'ultimo) che la storia del cinema l'ha fatta, l'ha interpretata e l'ha vissuta, un uomo che ha sognato di andare in paradiso e di cogliervi un fiore e si è risvegliato con quel fiore in mano. I veri maestri di Godard non furono quelli della scuola ma ben altri: Henri Langlois, fondatore e direttore della Cinémathèque Francaise che gli mostra i "film maledetti", quelli, cioè, bistrattati e censurati dalla legge; André Bazin, critico e teorico definito padre spirituale della Nouvelle Vague francese; Alexandre Astruc, che affermava la possibilità di resurrezione del cinema e la sua capacità di essere mezzo di espressione personale come una penna per scrivere; Isidore Isou, fondatore del movimento lettrista. Dall'esordio nel 1960 con Fino all'ultimo respiro, opera fondamentale nel definire nuovi linguaggi al cinema fino all'ultimo
Adieu au langage di cinquant'anni posteriore Godard mantiene una suprema coerenza di lettura del reale attraverso la sua macchina da presa. Impossibile definirne un percorso (si parla di più di cento opere, molte mai viste da nessuno) ma forse basterebbe un lavoro per sancirne l'importanza. Histoire(s) du cinéma (1988-1998) definisce indelebilmente il rapporto di un autore con la sua arte, la via di fuga estrema e ultima nel guardare la storia attraverso le storie del cinema. In questo sicuramente Jean-Luc Godard è assolutamente unico, per chi scrive, in un certo senso il più grande di tutti. (Erik Negro)
Fino all'ultimo respiro, di Jean-Luc Godard, Francia 1960. Edizione Raro Video, 2007
Histoire(s) du cinéma, di Jean-Luc Godard, Francia-Svizzera 1998. Edizione Cineteca di Bologna, 2010
Ettore Scola (1931- 2016) Eravamo Brutti, sporchi cattivi ma C'eravamo tanto amati in Una
giornata particolare: costruendo questa frase, nell'uso di tre tra i titoli più significativi del cinema di Ettore Scola, potremmo disegnare la mappa di una parte importante della sua regia e dell'intera storia del cinema italiano. Senza nulla togliere ai titoli altisonanti, e con tutto l'onore meritato e connesso agli stessi, uno Scola capace, abile e interessante è quello che ha saputo dirigere la coralità degli esseri umani nella singolarità degli ambienti, sfuggendo dalla staticità a cui l'uso quasi esclusivo di un luogo potrebbe condannare.
La famiglia e La cena sono le messe in scena più esplicite di questa sua capacità di presentare la gamma delle psicologie dell'essere umano, in una dinamica di interconnessione reciproca che ne esalta le peculiarità, il tutto possibile nella non dispersione dei soggetti in luoghi molteplici ma nello stanziare in un luogo principe, quasi assoluto, unico spazio d'azione: la casa, il ristorante. Certamente, poi, sono le psicologie rese prova d'attore delle facce di Gassman, Giannini, Sandrelli, Ardant a coadiuvare la maestria di Scola ma la carica di biografie e storie con cui riesce a riempire un unico spazio è sorprendente, perché mai caotica, perché sempre intrisa di avvenimento eppure ordinata e racchiusa, come se lo spazio scelto fosse una perfetta scatola capace di inglobare geometricamente corpo, psiche e cinema. L'ultimo Scola gira un documentario sul cinema, cui non toglie magia onirica ma anzi la celebra. Che strano chiamarsi Federico, omaggio a Fellini, realizzato all'interno del mitico Teatro 5 di Cinecittà in cui soleva girare, Ettore Scola dirige dichiarando spesso la scena e raccontando, attraverso il dinamismo del cinema - sotto forma di docufiction più che di documentario puro - il cinema stesso, o meglio la sua storia. Ampio e dovuto spaccato umano e creativo che, passando per il Marc'Aurelio e la sua satira fatta anche di vignette, è stato fucina delle personalità più eccellenti del cinema assoluto. (Nicole Bianchi)
C'eravamo tanto amati, di Ettore Scola, Italia 1974. Edizione Mustang Entertainment, 2014 Lafamiglia, di Ettore Scola, Italia-Francia 1987. Edizione Generai Video, 2006
Alexander Kluge (1932) Kluge è stato uno dei registi più coerenti e originali del Nuovo cinema tedesco. Le sue opere vanno valutate al di fuori di una prospettiva strettamente cinematografica, quali epifanie di una testimonianza letteraria, filosofica, estetica, politico-culturale, tra le più lucide e intense della cultura tedesca contemporanea. Nel 1966 esordisce conAbschied von gestern con Edgar Reitz alla macchina da presa. Partendo dall'idea che "il film prende forma nella testa dello spettatore" e da una serie di suggestioni mutuate dalle teorie estetiche della Scuola di Francoforte e di Ejzenstejn, Kluge consegna il primo fulminante esempio di quello stile a collage a cui è rimasto fedele per vent'anni. Agli insegnamenti di Brecht risale l'importanza del momento dell'interruzione della fiction, la pausa di riflessione ottenuta con cartelli o didascalie, il commento fuori campo, iljump-cut, gli inserti documentari, la musica straniante, la pungente ironia "dialettica". Il film si risolve in un complesso lavoro di montaggio e nell'incontroscontro tra visivo e sonoro. Tale progetto teorico, compresa la formula dell'autoproduzione, si trova già pienamente ali'esordio.
Artisti sotto la tenda del circo: pe,plessi fu Leone d'oro a Venezia nel 1968. Negli anni Settanta firma titoli importanti come In Gefahr
und grosster Not bringt der Mittelweg den Tod (1974), Die Patriotin (1979). Esauritasi l'esperienza dei film a episodi e il metodo a collage, nel 1983 torna a Venezia con Die Macht der Gefiihle: in un'ulteriore elaborazione, la forma narrativa si risolve qui in un sistema organico di "storie moltiplicate", aprendosi a un orizzonte cronachistico inteso a fotografare l'umanità alle soglie del terzo millennio. Da quel momento, persa ogni fiducia nella possibilità del medium cinema, Kluge ha proseguito la sua indefessa battaglia politica e poetica realizzando dei battaglieri programmi sperimentali di televisione "d'autore". Autore unico, da (ri)scoprire per chi nel cinema cerca una chiave di lettura altra del nostro tempo. (Erik Negro)
Occupazioni occasionali di una schiava, di Alexander Kluge, Germania Ovest 1973. Edizione Medusa Home, 2008
Germania in autunno, di R. W. Fassbinder; V. Schlondorff; A. Kluge; B. Sinkel; E. Reitz; A.Brustellin; H. P. Cloos; M. Mainka; K. Rupé, Germania Ovest 1978. Edizione Cecchi Gori, 2005
Nagisa Oshima (1932) Nagisa Oshima può essere considerato il padre del nuovo cinema giapponese, colui che condensò le esperienze dei grandi maestri (Ozu, Mizoguchi) in un respiro di libertà e modernità. Il suo primo film è del 1959, Il quartiere dell'amore e della speranza, in cui si affacciano temi come la lotta di classe, l'erotismo, la rivolta, la violenza. Su questa linea, in cifre ancora naturalistiche, sono Racconto crudele
della giovinezza e Il cimitero del sole. Seguono, con un brusco mutamento stilistico, film antinaturalistici, e di un impegno politico che giunge fino al dibattito, come nel capolavoro assoluto Notte e
nebbia in Giappone, uno dei più straordinari film sulla ribellione giovanile.
Le opere successive si allontanano dai moduli realistici tradizionali, fasciate da luci visionarie, in cui l'ideologia rivoluzionaria si sublima in una lingua cinematografica sempre più tesa verso nuove sperimentazioni, in contesti narrativi ora drammatici, in forma di apologo, ora lirici, in forma di saga. Con l'esplosione del maledetto
Ecco l'impero dei sensi (1976) il nuovo cinema giapponese acquisisce una visibilità fino a quel momento inconcepibile. Quella messa in scena così estrema ed esibita con sana e totale spontaneità, appariva di per sé un'inaudita sfida e conquista. L'altro film che diede grande risalto a Oshima fu Furyo: pur appiattendone la potenza visiva, la forza provocatoria del suo linguaggio a diretto contatto con l'istinto rivive pienamente nello scontro tra due culture e civiltà, in cui percorrono sotterranee e violente tensioni (omo)sessuali. Discorso che trova un'ulteriore analisi nella splendida opera di congedo, Tabù - Gohatto (1999). Ed è pensando a questa pellicola che emerge il gusto di Oshima nel poter e (nel dover) parlare di ogni argomento possibile. Dalla politica, alle varie forme di sessualità, dall'amore alla morte. In libertà. Un cinema discrepante, diffidente, sensuale, irato, militante, provocatorio, incazzato, giovane, libero. Lui, dietro la macchina da presa, questa libertà l'ha sempre dimostrata. (Erik Negro)
Notte e nebbia in Giappone, di Nagisa Oshima, Giappone 1960. Edizione Raro Video, 2005
Furyo, Nagisa Oshima, Gran Bretagna, Giappone 1983. Edizione Cde 2011
Andreij Tarkovskij (1932-1986) Il cinema di Tarkovskij muove dal profondo, dall'oscurità delle cose e delle persone, verso la ricerca di un senso nascosto. Intenti morali e tecnica di ripresa si fondono armoniosamente in un linguaggio cinematografico unico, "visione" altra del mondo. In
L'infanzia di Ivan si trovano già i tratti tipici della sua poetica: di fronte ali'orrore della storia l'uomo ritrova la propria individualità nel recupero, a volte solo onirico, di un'infanzia in comunione con l'elemento materno e naturale. Il successivo Andrej Rublev è tra i momenti più alti dell'intera storia del cinema: affresco per rappresentare il tempo nelle sue forme e manifestazioni fattuali con accelerazioni o rarefazioni che si adeguano a quelle della realtà visibile. L'arte è eliminazione del superfluo, a partire da convenzioni stilistiche divenute pregiudizi (il vuoto della parola, musica come amplificazione empatica della scena, ritmo affidato al montaggio). L'atto è visione teurgica dell'arte, comprende una serie di critiche a concezioni estetiche di segno utilitaristico o intellettualistico. In
Solaris avanzò dubbi etici sulle conseguenze del progresso tecnologico. Con Lo specchio ruppe definitivamente con le convenzioni del cinema sovietico; un'interrogazione sulla figura materna in tutti i suoi aspetti, da quello personale e psicologico a quello storico 0a patria) fino a quello ontologico 0a natura, luogo di mediazione tra il divino e l'umano). A partire dal fantascientifico Stalker, il suo cinema diventò sempre più profetico; il viaggio diviene specchio di una contemporaneità in cui solo i più umili riescono a conservare il senso di attesa e di fiducia in miracoli ormai inaccettabili per il razionalismo scientifico e lo scetticismo decadente, negatori della funzione salvifica del desiderio. L'attrazione tra arte e santità torna in Sacrificio: film-testamento dedicato al figlio e girato mentre il regista già sapeva di esser malato. La polarità tra la salvezza affidata a un sacrificio solitario e la
distruzione dell'umanità diventa così assoluta. L'ultima immagine di assoluto. (Erik Negro)
Andrej Rublev, di Andreij Tarkovskij, Unione Sovietica 1966. Edizione Generai Video, 2013
Stalker, di Andreij Tarkovskij, Unione Sovietica-Germania Est 1979. Edizione Generai Video, 2006
François Truffaut (1932 - 1984) Truffaut è cinema. Una seduzione incontenibile avvinta alla pellicola come un soffio vitale. Cresciuto sotto l'ala paterna e protettiva di Andrè Bazin, ha cominciato come critico cinematografico per i Cahiers du Cinéma, concretizzando il suo pensiero nella definizione della politica degli autori, tesa alla ricerca e alla conferma dell'autorialità del regista. "Si devono filmare altre cose, con altro spirito. Si devono abbandonare gli studi troppo costosi. Si deve girare per le strade e in veri appartamenti[ ...]. Lasciare che gli attori trovino le parole che hanno l'abitudine di pronunciare". Con questo manifesto e con I 400 colpi Truffaut inaugura nel 1959 la Nouvelle Vague, fondamentale ripensamento di tutto l'apparato cinematografico. Nel suo cinema l'estetica dell'immagine diventa un mezzo con cui riflettere sulla realtà, dal ciclo di Antoine Doinel (I 400 colpi, Antoine
e Golette, I baci rubati, Non drammatizziamo ... è solo questione di corna, L'amore fugge) al lavoro critico sui generi, dal thriller hitchcockiano di La sposa in nero, alla fantascienza di Fahrenheit 451 al noir di Tirate sul pianista. L'immagine di stampo documentaristico sfuma nella costruzione iconica del gesto, carico di citazioni. Al centro, la donna. Madre, amante, misteriosa, pura, tentatrice, erotica, sentimentale. Ogni sua storia mostra le infinite possibilità d'incontro tra un uomo e una donna che si consumano in un tragico sfiorarsi senza toccarsi. Amante della musica e della letteratura, nei suoi film è riuscito ad adattare le pagine dei romanzi nei modi più originali, senza mai perdere la preziosità della parola e l'unicità dell'immagine, come con i racconti di Henry J ames per La camera
verde. "Tre film al giorno, tre libri alla settimana, dei dischi di grande musica faranno la mia felicità fino alla mia morte". Quasi un film all'anno, dalla splendida riflessione sul cinema di Effetto notte a
L'uomo che amava le donne, da L'ultimo metrò a La signora della porta accanto, fino all'ultimo, nel 1982, Finalmente Domenica. (Luca Ferrando)
I 400 colpi, di François Truffaut, Francia 1959. Edizione Bim, 2013
Effetto notte, di François Truffaut, Francia-Italia 1973. Edizione W arner Home Video, 2011
Stan Brakhage (1933 - 2003) Considerato uno dei massimi autori del cinema sperimentale, Stan Brakhage ha diretto circa duecentocinquanta film, con i quali ha
esplorato momenti "primari" della vita come la nascita, il sesso, la morte, rivendicando la possibilità di imprimere una nuova libertà alla visione in nome di un'"avventura percettiva" nell'ambito della quale sperimentare le valenze insite nel suono, ma soprattutto offerte dalla scelta del silenzio. I suoi film parlano la lingua degli scultori greci, dei mistici medievali, di Li Po, di Dante, dei botanici e degli astrologi, degli impressionisti e dei sognatori. Una lingua dimenticata, antica e silenziosa, primitiva e primordiale. Il suo cinema è un campo di forze potenziali e cangianti per tutti gli schemi di oggettivazione e soggettivazione, nel quale l'atto di "vedere" diventa altro rispetto al solito atto logocentrico. Ogni possibile "metafora" sul senso della visione attraverso i suoi film svela una vera e propria alchimia degli estremi, dove visibilità e invisibilità diventano categorie da ridefinire, sublimate dal mito di una visione come trama inestricabile nello spazio di ogni evento e proiezione infinita di senso in ogni momento. Cineasta della vita quando filma la nascita dei suoi figli (Window
Water Baby Moving) e la loro sessualità (Scenesfrom Under Childhood) e cantore della morte, quando riprende la decomposizione del suo cane (Sirius Remembered) o mette in scena il suicidio, come in Anticipation of the Night. Così la natura viva Dog Star Man, la scalata di una montagna come metafora della sfida disperata tra l'Io e
il Mondo e la natura morta (Mothlight). Dal suo cinema trapela la gioia e al tempo stesso il terrore di sentirsi totalmente immersi nell'esistenza. TheArt ofVision è un'esperienza percettiva assoluta che assorbe progressivamente lo spettatore. D cinema di Brakhage è una sensazione totalizzante. Come l'amore. Il vis(su)to ed il trascendent(al)e, alla ricerca continua della prima e dell'ultima immagine del mondo. (Erik Negro)
By Brakhage: AnAnthology, Volumes One and Two, di Stan Brakhage, Stati Uniti 1952-2003, Edizione Criterion, 2010
Liliana Cavani (1933) Nell'epoca contemporanea delle serie Tv, dove protagonisti sono spesso Santi ed eroi sociali del nostro Paese, l'anima curiosa e intellettuale si spinge a precorrere questo momento e rintraccia il primo film prodotto per la televisione, Francesco d'Assisi (1966). A dirigerlo quella signora del cinema che risponde al nome di Liliana Cavani che poi, con elegante disinvoltura, è passata dalla santità al nudo, quello raffinatissimo e drammatico della Charlotte Rampling di Il portiere di notte (1974), in un ipotetico filosofico prolungamento dell'analisi del corpo e del suo patimento. Estasi ed erotismo, che nell'uno e nell'altro caso sembrano spesso inanellarsi, seppur con trame e dinamiche divergenti ma traccia di uno stesso pensiero artistico e di uno stesso percorso di ricerca, espresso attraverso l'immagine cinematografica. Dopo il corpo, solo cronologicamente parlando, è il momento di
La pelle (1981), da Malaparte, impressa sulla medesima di Mastroianni, Cardinale e Lancaster che con eccellenza rendono epidermica la messa in scena che la regista imprime in pellicola: ritorna la guerra, il corpo carnefice e anche il dato non raro nel cinema della signora Cavani di essere un racconto forte e delicato, tale da dover essere vietato ai minori di quattordici anni. La Cavani ha ribadito nel suo tempo artistico, come d'altronde non
tradì sin dall'esordio, il suo non snobismo verso il mezzo televisivo che ha continuato, da Francesco d'Assisi ad oggi, a rispettare sullo
stesso nobile profilo di quello del cinema, credendo che il mezzo popolare possa essere di altrettanta efficacia e contenuto di quello, talvolta, più elitario del "cinema d'autore": negli ultimi anni Liliana Cavani ha firmato, infatti, i ritratti televisivi di Alcide De Gasperi (De Gasperi, l'uomo della speranza con Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco) nel 2005, e quello di Albert Einstein, nel 2008, con Vincenzo Amato e Maya Sansa. (Nicole Bianchi) Francesco d'Assisi, di Liliana Cavani, Italia 1966. Edizione Rai Trade,
2012
Il portiere di notte, di Liliana Cavani, Italia-Stati Uniti 1974. Edizione Generai Video,
2009
Roman Polanski (1933) La vita di Roman Polanski sembra compendiare in maniera
paradigmatica alcuni dei drammi più oscuri del Novecento: le persecuzioni antisemite della Seconda guerra mondiale, le ombre inquietanti della controcultura americana di fine anni Sessanta 0a moglie assassinata da Charles Manson), un procedimento giudiziario per violenza sessuale dai connotati kafkiani. Non è casuale quindi che buona parte della filmografia di Polanski abbia al centro il problema del Male, inteso come forza storica, metafisica e morale. Un percorso intrapreso spesso rivolgendosi alla letteratura e al teatro, da cui traggono spunto molte delle sue opere. A contrasto con la materia ribollente del.fil rouge della sua opera, Polanski ha privilegiato, come cifra autoriale, uno stile raggelato ed elegante che ha contribuito a rendere ancora più perturbanti le diverse tappe della sua filmografia. Tema e stile si presentano già nettamente delineati nella prima parte della sua carriera, dall'esordio polacco de Il coltello nell'acqua (1962) a Cul-de-sac (1966) e Rosemary's baby (1968): al centro perfide storie di famiglia e "diari" di nevrosi, condotte sul filo di una tensione sottile e mai del tutto destinata a sciogliersi. L'ispirazione letteraria si palesa poi con forza a partire dal cupo e violento Macbeth (1971) e resta riferimento costante nella produzione successiva: da
Tess (1979, dal romanzo di Hardy) fino a Carnage (2011, dalla pièce di Yasmina Reza) passando per le rivisitazioni più libere delle atmosfere noir di Chandler e Hammett in Chinatown (1974) e delle fantasie di Le,vis Carroll in Che? (1973). Ma è con la storia più vicina al suo dolore antico e "privato" 0a morte della madre ad Ausch,vitz) che Polanski conquista nel 2003 l'unico e meritatissimo Oscar per la miglior regia: si tratta de Il
pianista, racconto misurato e struggente delle vicissitudini un musicista ebreo scampato alle persecuzioni naziste, e allegoria potente della forza dell'arte e della passione di fronte all'incedere del male. (Francesco Baucia)
Rosemary's Baby, di Roman Polanski, Stati Uniti 1968. Edizione Paramount, 2002
Il pianista, di Roman Polanski, Regno Unito-Francia-PoloniaGermania 2002. Edizione Universal Pictures, 2006
Sydney Pollack (1934 - 2008) La vita corre sul.filo e i Destini incrociati non sono solo vita reale, perché anche in quella più concreta e quotidiana esiste sempre un Creatore di sogni. Con tre titoli - l'esordio, un ideale prolungamento del tema fatalista e le propaggini della fine come espressione di un sogno reso pragmatico e materico nel documentario su Frank Gehry non si può esaurire una carriera ma si possono lasciare le tracce della direzione di Pollack, della sua trasversalità ai generi in quarant'anni di cinema. Chi è Sydney Pollack? È un americano e il suo cinema è l'America, non negli stereotipi ma secondo l'immaginario multiplo che questo paese offre. È un cinema di cemento, di praterie, di cavalli, d'intrighi politici e architettura onirica quello che Pollack, da sempre, ha messo in scena. È come se avesse desiderato compiere un viaggio sull'atlante degli Stati Uniti, non gratuitamente celebrativo ma con una visione da lente d'ingrandimento che concedesse almeno di "fare cronaca", mostrare senza giudizi, offrendo l'opportunità di elaborarne. A Sydney Pollack dobbiamo poi non solo la predilezione attoriale, ma anche l'abilità di valorizzazione di un altro imprescindibile del cinema americano, Robert Redford, suo interprete-feticcio che, per la direzione ricevuta, gli deve gratitudine perenne. Nota di merito non sconosciuta ma forse meno popolare e degna di essere ribadita va al Pollack produttore di alcune pellicole entrate nella recente storia del cinema: Il talento di Mr. Ripley (1999), Ritorno a Cold Mountain (2003).
Pollack muore nel 2008. Nel 1973 diresse Come eravamo, disegno di non comunicazione esistenziale con il tempo e con l'evoluzione personale e sociale del medesimo. Potendo sognare, come l'America, il cinema e Pollack hanno sempre concesso fare, sarebbe bello sapere come oggi penserebbe alla trama e dirigerebbe un film dal titolo "Come siamo", offrendoci la sua personale ma sempre ampia visione del presente, conseguenza del passato e anticipazione del futuro. (Nicole Bianchi)
La vita corre sul.filo, di Sydney Pollack, Stati Uniti 1966. Edizione Golem Video, 2014 Come eravamo, di Sydney Pollack, Stati Uniti 1973. Edizione Sony Pictures, 2002
Woody Allen (1935) Sesso, filosofia, religione e morte. Sono questi i capisaldi del cinema del regista newyorchese; prima comico e autore, poi attore, sceneggiatore e regista. Mr. Allen, classe 1935, è già da anni diventato un'icona. Il suo cinema è caratterizzato per metà dalla commedia e per metà dal dramma. Allen è versatile: scrive, interpreta, dirige, suona. Si trova a suo agio tanto dietro quanto davanti la macchina da presa. Mai come nella cinematografia alleniana lo spettatore si rende conto di quanto nulla sia reale fuorché il caso: spesso infatti le vicende dei protagonisti dei suoi film hanno sviluppi totalmente fortuiti. La sua sconfinata filmografia è riassumibile in quattro, fondamentali, splendidi, lungometraggi: il duo composto da
Manhattan, un indimenticabile bianco e nero che narra delle vicende sentimentali di Isaac Davis, diviso tra un amore impossibile con una liceale e quello con una donna stravagante di Philadelphia; e Io e
Annie, forse il lungometraggio più celebre di Allen, la storia di un grande amore e di una grande amicizia; l'atipico Crimini e misfatti, ideale punto di contatto tra il genere comico e il drammatico, così come il meno riuscito Melinda e Melinda, girato nel decennio successivo; Match Point, la rinascita del nostro quando tutta la critica lo credeva ormai finito: a sorpresa però, le vicende noir che hanno per protagonista un ambizioso insegnante di tennis, disposto a tutto pur di scalare l'alta società inglese, lo risvegliano dal torpore delle precedenti prove. A settembre 2012 è uscito un bel documentario che si intitola, semplicemente, Woody: racconta la vita del cineasta in modo sincero e diretto, senza fronzoli. Questa testimonianza, insieme al libro monumentale di Eric Lax (intitolato Conversazioni su di me e tutto il
resto) sono gli approfondimenti migliori che può affrontare chi, negli anni, è rimasto affascinato dalla cinematografia del raffinato, cerebrale e cinico regista. (Lucio Laugelli)
Manhattan, di Woody Allen, Stati Uniti 1979. Edizione MGM, 2002
Match Point, di Woody Allen, Gran Bretagna-Stati UnitiLussemburgo 2005. Edizione Medusa Video,
2006
Francis Ford Coppola (1936) Un uomo ripreso nella penombra. Quasi un'entità, qualcosa di soprannaturale. n sudore luccica sulla sua testa glabra, intimidendo ...
chi gli si pone davanti. E un ufficiale preda di una folle megalomania. Si chiama Walter E. Kurtz ed è interpretato dal più grande attore che sia mai esistito, Marlon Brando. Il film s'intitola Apocalypse Now ed è diretto da Francis Ford Coppola. Questa sequenza, una delle più grandi della storia, è solo uno dei tanti momenti che hanno reso epico
il cinema di questo regista figlio di immigrati lucani.
n suo nome non ha bisogno di presentazioni: nomini Ford Coppola e istantaneamente ricorre nella mente il tema di Nino Rota composto per Il padrino, l'ascesa della famiglia Corleone (o Andolini) cominciata a Nevv York nel 1901 e conclusasi tragicamente sulla scalinata del teatro Massimo di Palermo, con il sublime sottofondo musicale della Cavalleria rusticana di Mascagni. Rimane scolpito nella memoria quello che è uno dei più grandi monumenti al mestiere dell'attore, un'ipotetica corsa in cui ognuno degli interpreti taglia nel medesimo istante il traguardo. Regista coraggioso, dedito alla sua arte fino allo sfinimento mentale e fisico, riesce ad essere anche un grande regista sperimentale, capace di esprimere il suo talento in vari generi; abile nel dirigere attori emergenti e sconosciuti in pellicole come I ragazzi della 56esima strada e Rusty il selvaggio, film avvolto in un vivido bianco e nero, ma anche capace di sperimentare nuovi linguaggi e tecniche stilistiche come in Dracula di Bram Stoker. Come la barca che lentamente scivola lungo il fiume Mekong, la sua filmografia ha attraversato varie stagioni, anche non esaltanti ma sempre prove coscienti di un progetto portato a termine anche quando sembrava impossibile, rischioso e non convenzionale, tracciando un'impronta indelebile nella storia del cinema. (Giovanni Pesce)
Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, Stati Uniti 1979. Edizione Universal Pictures, 2013 Rusty il selvaggio, di Francis Ford Coppola, Stati Uniti 1983. Edizione Universal Pictures, 2003
Ridley Scott (1937) "Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi", cose molto umane, come il coraggio, l'onore, il sacrificio. Cose così umane che per poterle guardare l'occhio del regista ha bisogno di lasciare l'immaginazione libera di vagare tra i secoli, nello spazio infinito, ma soprattutto in quella labile distanza che separa un essere umano dall'altro. Il cinema di Ridley Scott è la capacità di osservare negli interstizi dell'anima riuscendo a cogliere quel momento di svolta in cui un gesto diventa nobile. Quel momento in cui due donne in un reciproco sguardo afferrano l'essenza della vita, due rivali diventano complici, quell'attimo in cui un eterno duello diventa l'alba di una nuova visione, per i protagonisti, ma anche per il mondo stesso, come nel maestoso finale di I duellanti, metafora che investe la vita di due uomini eccezionali. Guerriero, fragile, impavido, inaspettatamente generoso, il personaggio in questa saga dell'animo umano, dalla scienziata di
Alien, costretta a combattere contro la forza dell'inconoscibile, al cacciatore di Biade Runner, cui la vera caccia sembra proprio quella verso le proprie paure e dubbi. Da Thelma e Louise, lotta romantica e tragica per far coincidere libertà e fuga; a Massimo Decimo Meridio, Il
Gladiatore che non confonde la vendetta con l'amore, ma la ricerca proprio per poterlo affermare; dal maniscalco francese Baliano che in
Le crociate trova il suo riscatto proprio nel momento in cui decide di fidarsi di se stesso, a quella prova di forza, di unione e di sacrificio a cui sono costrette le truppe di Black Hawk Down. Tutta la carriera del regista inglese è la reiterata messa in scena del conflitto umano declinata nei numerosi generi affrontati, sempre con al centro quel misterioso e affascinante viaggio dell'eroe, dove la paura della morte diventa il coraggio di vivere fino in fondo. Un cinema che respira nella potenza dell'inquadratura capace di collocare il protagonista nel giusto impianto emotivo per affrontare la missione. Non un cinema d'autore, ma un cinema di Uomini. (Luca Ferrando)
I duellanti, di Ridley Scott, Regno Unito 1977. Edizione Paramount, 2003
Biade Runner, di Ridley Scott, Stati Uniti 1982. Edizione Warner Home Video, 2008
Michael Cimino (1939) In alcune, storiche, occasioni passate agli annali la Fabbrica dei Sogni è stata costretta a misurarsi con il fallimento economico più totale. Per un'industria fondata sull'utilizzo controllato dei capitali, lo spauracchio maggiore è stato a lungo rappresentato dal pericolo dell'autore che sfugge al controllo della spesa, e naviga da solo fuori dal budget. Il più clamoroso ed epico esempio di disastro produttivo che la storia del cinema annoveri è legato al nome di Michael Cimino. Italoamericano cresciuto nella pubblicità e valorizzato da Clint Eashvood, che gli affida la sceneggiatura di Una 44 Magnum per
l'ispettore Callaghan e la regia di Una calibro 20 per lo specialista, arriva al successo molto presto con il magnifico Il cacciatore, Miglior film per l'Academy nel 1979. La sua storia, tuttavia, è legata a doppio filo al destino di un altro film. Il suo capolavoro, l'eccelso I cancelli del
cielo, è l'opera che più di tutte negli States ancora oggi evoca lo spettro della catastrofe finanziaria. Decine di milioni di dollari evaporati, più di 400 ore di girato, la leggendaria United Artist di Charlie Chaplin e Mary Pickford implosa sotto la scure dei debiti. Ben tre versioni di montaggio successive. La prima, di quasi 500 minuti, mostrata ai produttori e subito cassata. La seconda, l'ufficiale
director's cut del film, di 3 ore e 40 minuti, uscita nelle sale americane il 19 novembre 1980, bocciata da pubblico e critica e subito ritirata dalla distribuzione per volontà dello stesso Cimino. La terza, ulteriormente tagliata, di 2 ore e 20 minuti, nuovamente distribuita e ancora una volta rifiutata dal pubblico. Durante la Mostra del Cinema di Venezia del 2012, alla presenza di un emozionatissimo Michael Cimino, è presentata una splendida versione restaurata della sua
director's cut, pronta per essere restituita all'ammirazione di un pubblico che la aspetta da anni. Infinite attese e rimodulazioni per il più sublime e titanico dei sogni totali. (Stefano Lorusso)
Il cacciatore, di Michael Cimino, Stati Uniti-Regno Unito 1978. Edizione Universal Pictures, 2002
I cancelli del cielo, di Michael Cimino, Stati Uniti 1980. Edizione MGM, 2003
Wes Craven (1939-2015)
Può un film di Ingmar Bergman esser stato l'ispirazione per l'antesignano dei rape e vengeance movie? Siamo nel 1972 e l'uscita nelle sale di L'ultima casa a sinistra turba e inorridisce la puritana e bigotta middle class americana. Ispirato a La fontana della vergine del regista scandinavo, apre le porte a un nuovo modo di rappresentare la violenza, mostrata impietosa e cruda ali'occhio dello spettatore senza alcun tipo di velo. Wes Craven, autore di culto, uno dei più celebri e apprezzati esponenti del genere horror, ha dato vita sullo schermo a personaggi indimenticabili come Freddy Krueger: è il 1984 e nelle menti sognanti dei giovani della provincia americana si aggira un maniaco con un
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guanto artigliato e il volto sfigurato dalle fiamme. E lo spirito di un assassino ucciso dai genitori delle sue vittime, è in cerca di vendetta e uccide invadendo gli incubi degli adolescenti... Nightmare - Dal
profondo della notte si rivela un enorme successo e lancia Wes Craven nell'Olimpo dei maestri del terrore. Craven ama giocare coi nervi dello spettatore, gode nel trascinarli in un processo di immedesimazione con le vittime, come dimostra
Scream, celebre film del 1996 in cui il terrore e la tensione sono portate allo stremo per sfociare in esplosioni di violenza uniche, che hanno segnato la rinascita del cosiddetto cinema "slasher"; in una cittadina di provincia, un maniaco nascosto da una maschera ispirata a L'urlo di Munch fa strage di adolescenti. Craven ha orchestrato un sottile e teso gioco fra gatto e topo (ma anche un gioco ironico e metacinematografico di riconoscimento e catalogazione degli stereotipi di genere tra personaggi e spettatori) in cui l'adrenalina non scema mai, trascinandosi verso una conclusione sorprendente. Bisogna ammettere che non sempre ha diretto film come quelli già citati, ma rimane senza dubbio uno dei registi del genere horror più talentuosi ed influenti della New Hollywood. (Giovanni Pesce)
Nightmare - Dalprofondo della notte, di Wes Craven, Stati Uniti 1984. Edizione Warner Home Video, 2010
Scream, di Wes Craven, Stati Uniti 1996. Edizione Miramax Films, 2014
Dario Argento (1940)
Un pianista che ha assistito a un brutale omicidio sta componendo nella sua stanza. Improvvisamente sente dei passi provenire dal piano superiore. L'assassino è entrato in casa. Indeciso, preda del terrore, con una mano afferra una statuetta per difendersi e con l'altra continua a suonare. I secondi sono interminabili, il sudore e i palpiti aumentano. Improvvisamente squilla il telefono e con uno scatto il pianista chiude la porta della stanza. Il maestro del brivido per eccellenza. Uno dei registi più amati e imitati. Colui che ha rivoluzionato e stravolto il giallo e l'horror, autore di capolavori irraggiungibili come Profondo rosso e Su.spina. Dario Argento ha orchestrato opere impregnate di terrore e tensione, opere macabre cariche di angoscia che giocano con i nervi degli spettatori sino a conclusioni mai scontate. Ha creato uno stile personalissimo caratterizzato dall'ossessione per primissimi piani e dettagli, l'uso della soggettiva, il legame indivisibile fra la colonna sonora e la pellicola (come dimenticare il tema composto dai Goblin per Profondo rosso). Ribaltando i canoni del genere ha creato intrecci complicati in cui la risoluzione del caso, la rivelazione dell'assassino era basata sui particolari e dove quasi sempre i suoi protagonisti sono vittime del caso, personaggi fragili e suggestionabili (il pianista di Profondo
rosso, la ballerina di Su.spina, lo scrittore di Tenebre). Abile nel tinteggiare le sue opere con tocchi di umorismo macabro, è stato senza dubbio uno dei registi più acuti nel rappresentare le devianze della psiche umana e la follia fine a se stessa (vale la pena citare l'omicidio dell'odioso Kazanian, personaggio cli Inferno, film da vedere e rivedere). Oltre ai titoli già citati, restano imprescindibili anche due capisaldi del giallo all'italiana come L'uccello dalle piume
di cristallo e Il gatto a nove code. Nonostante i suoi ultimi film non siano all'altezza dei precedenti, merita un posto di diritto nella storia del cinema per aver dato forma e sostanza ai nostri incubi peggiori. (Giovanni Pesce)
Profondo rosso, di Dario Argento, Italia 1975. Edizione Medusa Video, 2013
Su.spina, di Dario Argento, Italia 1977. Edizione Cde, 2009
Brian De Palma (1940) Un elemento che accomuna tutti i grandi esponenti della Nevi Hollywood è la convinzione di non porsi limiti, la capacità di saper affrontare linguaggi cinematografici differenti l'uno dall'altro cercando, anche attraverso risultati non sempre all'altezza delle aspettative, di affrontare nuovi generi. De Palma è sicuramente uno dei pilastri di questo momento chiave della modernità cinematografica. Ha cercato di esplorare la psiche umana conducendo lo spettatore in un percorso caratterizzato da perversioni sessuali e voyeurismo, girando thriller hitchcockiani carichi di tensione come
Vestito per uccidere o Delitto a luci rosse, in cui ha svolto un attento studio sullo sguardo, analizzando i punti di vista di più personaggi, girando pellicole a forte impatto erotico per l'epoca. Regista capace di raccontare ascesa e caduta di personaggi negativi o vittima degli eventi, in uno stile personale e aggressivo che non risparmia allo spettatore scene violente e drammatiche; a dieci anni di distanza l'uno dall'altro dirige due film simbolo degli anni Ottanta e Novanta come Scarface e Carlito's Way, entrambi interpretati da un eccezionale Al Pacino, che si differenziano da pellicole analoghe per virtuosismi stilistici e cromatici. Peculiarità che emerge da un'opera di De Palma è sicuramente il ruolo della colonna sonora, questo grazie anche alle collaborazioni con maestri come Pino Donaggio e Giorgio Moroder: la musica nel suo cinema non si limita solamente alla funzione di commento ma assume una valenza quasi fisica, divenendo un elemento insostituibile in un tutt'uno con la narrazione. In una carriera che prosegue ormai da più di quarant'anni, De Palma ha cercato di esplorare più territori cinematografici, dai già citati thriller e gangster movie passando per l'horror con Carne, lo
sguardo di Satana fino a film di guerra (Vittime di guerra e Redaeteci). In tutti imprimendo il marchio inconfondibile del suo stile. (Giovanni Pesce)
Vestito per uccidere, di Brian De Palma, Stati Uniti 1980. Edizione MGM,
2002
Scarface, di Brian De Palma, Stati Uniti 1983. Edizione Universal Pictures, 2006
Terry Gfiliam (1940) In un mondo di celluloide capovolto, lui sarebbe l'unico a restare in piedi. Il suo è un immaginario debordante di invenzioni, trucchi, buffonerie circensi, allucinazioni barocche e maschere felliniane. Terry Gilliam è l'eredità che i Monty Python, storica fucina di comicità anglosassone, hanno lasciato al cinema. Il suo percorso artistico comincia come anima creativa del gruppo, sul finire degli anni Sessanta. Lui, unico americano dei sei Pythons, non solo partecipa alla scrittura degli sketch ma disegna anche tutti i celeberrimi inserti animati che hanno reso il Flying Circus un oggetto di culto. Dopo le pellicole di derivazione televisiva arriva nel 1981 il primo grande successo di pubblico con Time Bandits, spericolata scorribanda attraverso i secoli che scomoda Napoleone, Robin Hood e Agamennone. Del 1983 la definitiva affermazione sul grande schermo con Monty Python - Il senso della vita e di soli due anni successivo quello che unanimemente è considerato il suo capolavoro: Brazil, visionario squarcio profetico su un'umanità incapace di sognare, ingabbiata dai grigi grattacieli della burocrazia. Negli anni successivi sono venute pellicole che hanno consacrato Gilliam come autore capace di momenti creativi altissimi, ispirato costantemente da una fantasia vulcanica e multiforme: Le avventure
del Barone di Munchausen, La leggenda del Re Pescatore, L'esercito delle 12 scimmie, Paura e Delirio a Las Vegas. Fino a The Zero Theorem, suo ultimo film presentato alla Mostra di Venezia del 2013, ipertrofica ricapitolazione, aggiornata ai nuovi tempi e alle nuove tecnologie, di alcuni dei principali motivi del suo cinema. Pezzo fondamentale della sua filmografia è anche il fantomatico The Man
Who Killed Don Quixote: vero e proprio film maledetto, iniziato nel 2000
e mai terminato, della cui tribolatissima lavorazione resta
traccia (per ora) soltanto nel bel documentario Lost in La Mancha. I fan di tutto il mondo lo aspettano ancora. (Stefano Lorusso)
Brazil, di Terry Gilliam, Regno Unito 1985. Edizione 20th Century Fox, 2007
L'esercito delle 12 scimmie, di Terry Gilliam, Stati Uniti 1995. Edizione Universal Pictures, 2003
Denys Arcand (1941) ...
C'è un regista canadese che si chiama Denys Arcand. E noto al grande pubblico per Le invasioni barbariche con cui ha vinto in Francia, Italia e Stati Uniti la tripletta David, César e Oscar. Siccome si è già scritto a fiumi di questo commovente e splendido film sul suicidio assistito passo e vado oltre. La filmografia del nostro è infatti da consumare rapidamente: a ...
partire da Il declino dell'impero americano, uscito nel 1986. E la prima parte di Le invasioni barbariche: la compagnia di professori universitari è però ancora lontana dall'affrontare il tema della morte e affronta vivacemente temi intellettuali miscelati a confessioni sulla sessualità: orge, scambi di coppia, omosessualità, infedeltà. Al momento dell'incontro ( o scontro?) tra uomini e donne esplode un caos silenzioso da cui emergono numerose ferite. Sicuramente un primo capitolo più acerbo e limitante del suo celebre seguito, ma da • scopnre.
Altro tassello è La natura ambigua dell'amore: in una Montreal grigia e uggiosa un serial killer miete le sue vittime con macabri rituali. I protagonisti sono un attore bisessuale in declino e una giovane donna alla ricerca della sua identità sessuale. I personaggi sono disegnati in maniera impeccabile, mai banale. I dialoghi sono arguti, cinici. Un thriller atipico, sensuale, da non perdere. Quindi il capolavoro, Le invasioni barbariche: vent'anni dopo Remy e i suoi amici si ritrovano invecchiati, uno di loro sta per morire. Nel 2007 esce nelle sale l'ultimo capitolo, per ora, del cineasta canadese, L'età barbarica: ancora una volta una sopraffina analisi della società occidentale odierna capace di affrontare temi complessi con un'apparente semplicità che, agli occhi dello spettatore, è quasi disarmante. Arcand non è un regista per tutti: i suoi personaggi potrebbero apparirvi terribilmente indigesti. La sua messa in scena (maniacalmente simmetrica) potrebbe annoiare. Tutti gli altri, invece, si innamoreranno degli sguardi tormentati, assetati di vita, che popolano il suo cinema. (Lucio Laugelli)
Le invasioni barbariche, di Denys Arcand, Canada-Francia 2003. Edizione Bim, 2013
L'età barbarica, di Denys Arcand, Canada-Francia 2007. Edizione Bim, 2004
Bernardo Bertolucci (1941) Perdersi nella malia del deserto (Il tè nel deserto), all'interno della Città Proibita (L'ultimo imperatore), in un appartamento di Parigi
(Ultimo tango a Parigi). Bernardo Bertolucci è sempre riuscito a dare un'identità agli spazi. Nella sua filmografia emerge come i luoghi siano attori, non semplici elementi decorativi da allestire ma elementi capaci di integrarsi all'interno della narrazione fondendosi con essa e con i personaggi. La sua produzione è estremamente ricca e varia, fatta di allestimenti faraonici volti a raccontare una cultura lontana e opposta alla nostra o la storia del nostro paese attraverso gli occhi dei delusi (Novecento), categoria in cui vengono inquadrati sia i vincitori che i vinti. Delusi dalle scelte politiche, dall'impossibilità di conformarsi a quello che viene richiesto dalla società, delusi da una mancata comunicabilità dei sentimenti per cui ogni persona è sola e, qualora essi vengano manifestati, non corrisposta. Provocatore come Pasolini (di cui era stato assistente alla regia) ha descritto una solitudine umana dove il sesso non è altro che consumazione meccanica, misero tentativo per evadere dal male di vivere, anche attraverso le sue manifestazioni scabrose, come l'incesto. Al di là dell'importanza conferita agli spazi, il suo è fondamentalmente un cinema di attori; la caratterizzazione dei personaggi è un pilastro fondamentale del suo cinema a cui non ha mai rinunciato, neanche dirigendo pellicole di risalto internazionale, conferendo loro sempre un'identità ben definita, riuscendo sempre a farne emergere l'interiorità. Apprezzato narratore della storia del nostro Paese, ha cercato di comunicare allo spettatore il disagio di chi è stato vittima di eventi più grandi di lui, ricercando un'analisi psicologica oltre le mere convinzioni politiche. Sicuramente, assieme a Pasolini, è il regista italiano che ha avuto meno remore nell'adempiere ai suoi doveri di divulgatore, capace di esprimere le sue idee senza farsi condizionare da alcun tipo di morale e dal contesto sociale. (Giovanni Pesce)
Ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci, Italia-Francia 1972.
Edizione Dell'angelo Pictures, 2011
Novecento, di Bernardo Bertolucci, Italia-Francia-Germania Ovest 1976. Edizione Dell'angelo Pictures, 2011
Krzystof Kieslowski (1941-1996) Krzystof Kieslowski ha saputo come pochi coniugare ricerca linguistica e attenzione ai più profondi e misteriosi sentimenti umani, firmando film autenticamente filosofici, pieni di fascino e di mistero, avvolti nell'inquietudine prodotta dal caso e dal dubbio, espressioni esemplari della modernità. Il suo cinema, difficile, esplora la condizione umana in tutte le sue forme; è così esigente con se stesso che non sorprende che lo sia anche con gli spettatori; pare sottolineare che i veri problemi sono sempre dentro di noi. È entrato nella storia della cinematografia con Decalogo, un'opera ciclopica. Dieci film sui valori umani fondamentali, ogni episodio su uno dei dieci comandamenti rivisitato in un quartiere anonimo di Varsavia dove sembra succedere tutto e nulla allo stesso tempo. Dimostrazione di come si possa fare grande cinema (anche d'arte) con pochi mezzi, pochi personaggi, pochi ambienti, avendo come produttore la televisione e lavorando molto sulle infinite capacità del montaggio. Arriva a Decalogo dopo documentari e film a soggetto per la televisione, tra cui Senza.fine, il lavoro più importante. La critica mondiale si interessa a lui con Il cineamatore. Di inizio anni Novanta La doppia vita di Veronica, storia di due destini di donna legati indissolubilmente, ancora cinema crudele sulla quotidiana fatica di • vivere.
Successivamente nasce un progetto di tre film legati ai colori della bandiera francese e ispirati ai tre principi cardine della rivoluzione del 1789: la libertà per Film Blu, l'uguaglianza per Film Bianco e la fraternità per Film Rosso. Kieslowski torna ad un film a più episodi
come per dimostrare che quando si accendono più riflettori l'oggetto è più illuminato. Una trilogia straordinariamente emozionale ed intensa ma, nel messaggio, sempre molto dolorosa e crudele. Di tutta la sua filmografia, rimane quella magia in cui non riesci a percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e a materializzarli prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore. Un tuffo nell'oscurità del reale. (Erik Negro) Decalogo, di Krzystof Kieslowski, Polonia 1988. Edizione San Paolo, 2005 Tre colori, di Krzystof Kieslo,vski, Francia-Polonia-Svizzera 1993-1994. Edizione San Paolo, 2008
Peter Greenaway (1942)
Nel guardare un film di Greenaway si ha l'impressione di attraversare le sale di una pinacoteca. Come per le figure dipinte su una tela, l'uso della luce, la dovizia di particolari, i volti dei personaggi fanno sì che si crei un connubio tra il linguaggio cinematografico e quello pittorico. L'arte, filtrata nella realtà, è indubbiamente l'elemento emblematico: i suoi film abbondano di citazioni pittoriche che spaziano dal barocco ai fiamminghi e alla paesaggistica, evidenziando un gusto estetico mai fine a se stesso ma finalizzato alla creazione di un monumento costituito da immagini. Coerentemente con questo stile, la recitazione si può considerare sotto le righe per l'attenzione data più all'espressività del volto che alla gestualità che, sommessa, tende più a evocare che a mostrare. Per lo stile adottato e il frequente ricorso a citazioni, a rebus e sciarade per scandire la narrazione, le opere di Greenaway sono dominate da un indiscutibile fascino che attrae lo spettatore, fascino dovuto anche al ricorso a soluzioni grottesche che sono diventate un topos di questo regista; ne sono esempio l'ossessione morbosa che covano i due medici gemelli verso gli stadi della putrefazione in Lo zoo di Venere, le vaste cucine abbondanti di portate luculliane che fan da sfondo ai sensuali amplessi dei protagonisti di Il cuoco, l'amante, il ladro e sua moglie, l'attrazione maniacale verso i numeri e le macabre statistiche di decessi in Giochi nell'acqua. Il talento visivo di questo cineasta emerge anche nella capacità di allestire gli spazi, interni ed esterni, utilizzandoli come fossero personaggi della vicenda, sradicandoli dal ruolo di mero sfondo alla narrazione, riuscendo soprattutto a renderli, grazie alle luci e alla colonna sonora, specchio dell'interiorità dei personaggi. La filmografia di Greenaway presenta opere che per allestimento e temi hanno ulteriormente accentuato il concetto di cinema come mezzo espressivo, veicolo non solo d'intrattenimento ma forma d'arte. (Giovanni Pesce) Lo zoo di Venere, di Peter Greenaway, Regno Unito-Olanda 1985.
Edizione Dolmen Home Video, 2005
Giochi nell'acqua, di Peter Greenaway, Regno Unito-Olanda 1988. Edizione Raro Video, 2013
Michael Haneke (1942) Nel 1997 due ragazzi dai modi gentili sequestrano, seviziano e uccidono i tre membri di una comune famiglia borghese, incolpevoli vittime di un tragico gioco. Il film in questione, Funny Games, è scioccante; turba il pubblico e consacra il suo regista: l'austriaco Michael Haneke. Permeato di un disturbante realismo e caratterizzato da una crescente claustrofobia, il suo cinema si presenta come un mezzo per accrescere il senso di disagio nello spettatore, in una nuova concezione dell'orrore che deriva dalla normalità, dove c'è una totale assenza di pietà e di compromessi. Nel 2001 trascina Isabelle Huppert in un percorso osceno fatto di voyeurismo e masochismo, facendole interpretare un'insegnante di pianoforte incapace di provare sentimenti, che sfoga nelle perversioni la sua sessualità repressa. La pianista mette a nudo gli impulsi inconfessabili della protagonista, proiettandoli sullo schermo senza alcun velo. Il regista dirige un film efficace, sfruttando il talento dell'interprete senza calcare la mano sugli elementi eccessivi che scaturiscono da argomenti così delicati, senza adoperarsi in una ricerca morbosa.
Il remake inquadratura per inquadratura di Funny Games ambientato negli Stati Uniti, la cui lingua secondo il regista è quella ufficiale della violenza - presenta poche differenze con l'originale migliorandone la confezione, soprattutto l'uso della fotografia: il risultato è sostanzialmente lo stesso. La violenza è più suggerita che mostrata ma il gioco e la pressione psicologica esercitata dai giovani carnefici sulle vittime è agghiacciante. Un vero e proprio pugno nello stomaco. Altrettanto ammirevoli solo le sue due ultime opere, entrambe vincitrici della Palma d'Oro a Cannes: Il nastro bianco, girato in un vivido bianco e nero, in cui si narra di un'improvvisa ondata di violenza che sconvolge un villaggio rurale tedesco alle soglie dello scoppio della Prima guerra mondiale e Amour, struggente storia d'amore fra due anziani, emotivamente devastante con la sua rappresentazione della vecchiaia e della malattia. (Giovanni Pesce)
La pianista, di Michael Haneke, Francia-Austria 2001. Edizione Bim, 2013
Amour, di Michael Haneke, Francia-Austria-Germania 2012. Edizione Cecchi Gori, 2013
Werner Herzog (1942)
Ha depositato l'essenza della sua poetica in uno strano decalogo chiamato "Dichiarazione del Minnesota". È l'autore che più di ogni altro ha scandagliato i cinque continenti, in un'incredibile serie di esplorazioni ai confini del mondo. Ha fondato una scuola di cinema itinerante, in cui insegna a scassinare serrature, falsificare documenti e praticare l'ipnosi. Da quasi quarant'anni il suo cinema visionario e solenne si muove lungo la sottilissima linea di confine che separa il vero dal falso, il documento dalla ricostruzione, la lucidità dalla follia. Werner Herzog è qualcosa di più di un regista, e di certo tra i più influenti in attività. La sua titanica statura di instancabile esploratore lo ha elevato al rango della leggenda. Su YouTube si possono trovare filmati di Herzog colpito da una pistola ad aria compressa durante un'intervista o di Herzog che mangia la sua scarpa di cuoio dopo aver perso una scommessa. La sua impresa più grande resta tuttavia essere riuscito a dirigere, fucile alla mano, Klaus Kinski in due delle produzioni più awenturose di tutta la storia del cinema: Aguirre
furore di Dio e Fitzcarraldo, nel cuore della foresta amazzonica. Sua la scoperta di una delle presenza più enigmatiche del cinema europeo come Bruno S., splendido non professionista e autentico trovatello d'Europa, subito calato nei panni ideali del candido Kaspar Hauser. Tanti i luoghi memorabili attraversati da questo lungo pellegrinaggio: dalla caverna di Chauvet (Cave ofForgotten Dreams) alle estreme propaggini del Polo Sud (Encounters at the End of the
World), dall'outback australiano (Dove sognano le formiche verdiì alla vetta innevata del Cerro Torre (Grido di pietra), dai laghi ghiacciati in Russia (Rintocchi dal profondo) al deserto africano (Fata
Morgana). Tra il suo primo film Segni di vita e il suo ultimo Into the Abyss i tasselli di un imprescindibile viaggio oltre le frontiere dello stupore. (Stefano Lorusso)
Aguirre,fu.rore di Dio, di Werner Herzog, Germania-PerùMessico 1972. Edizione Ripley's Home Video,
2009
Cave ofForgotten Dreams, di Werner Herzog, Francia-CanadaStati Uniti-Regno Unito-Germania
2010.
Edizione Eye Division, 2012
Martin Scorsese (1942) Martin Scorsese è uno dei più autorevoli registi viventi. Probabilmente il più autorevole. Il cineasta americano ha consegnato alla storia del cinema autentici capolavori, rivoluzionari e geniali. Taxi
Driver, Toro Scatenato, Fuori. orari.o, Quei bravi ragazzi, Casinò, The Aviator... solo per citare alcuni titoli. Esponente di spicco della Ne,v Holl}"vood, ha lavorato soprattutto con Robert De Niro, J oe Pesci, Daniel Day-Le,vis e, più recentemente, con Leonardo Di Caprio con cui ha stretto un sodalizio artistico importante che gli ha anche permesso di vincere (finalmente) l'agognata statuetta degli Oscar: questo è accaduto solo nel 2006 con
The Departed, ottimo film ma certamente non il migliore di mister Scorsese. Riconoscimento in ogni caso arrivato in gran ritardo se pensiamo alla ricca e sorprendente filmografia precedente a questo lavoro. Lo stile iperrealista che contraddistingue il cinema del nostro attraversa più generi ma è senz'altro stato il gangster movie a renderlo immortale, influenzando generazioni di videomaker e ispirando celebri serie televisive (su tutte I Soprano della HBO). Idealmente la filmografia del regista, nato a New York negli anni Quaranta, prosegue un discorso cominciato in Italia con il Neorealismo, proseguito in Francia con la Nouvelle Vague e infine approdato oltre oceano: i grandi saloni di posa ( che erano stati protagonisti per decadi, durante il periodo d'oro di Hollywood) vengono abbandonati per la strada; i dogmi classici della messa in scena spariscono; il piano sequenza diventa essenziale; i soggetti cambiano drasticamente diventando più scomodi, difficili e i protagonisti sono poveri in canna, criminali, tossici, immigrati, reduci di guerra e prostitute. Ogni film di Scorsese è un regalo, per chiunque: è una lezione di cinema per chi studia o vuole lavorare nell'ambito cinematografico, un viaggio incredibile per chi invece vi si accosta da spettatore. (Lucio Laugelli)
Taxi Driver, di Martin Scorsese, Stati Uniti 1976. Edizione Sony Pictures, 2002
TheAviator, di Martin Scorsese, Stati Uniti 2004. Edizione 01 Distribution,
2005
David Cronenberg (1943)
Il cinema di David Cronenberg è fisico. Viscerale, al tempo stesso avvolto di un fascino morboso e contemporaneamente stomachevole e visivamente ripugnante. Un cinema di maschere, travestimenti e mutazioni. La filmografia del regista canadese si può dividere in due tempi:
dagli esordi sino al 2002, anno dell'uscita di Spider, le sue opere trasmettono un senso di malessere il più delle volte autocompiaciuto:
il corpo veniva ridotto ad un mero oggetto da mutare e da distruggere fino ad essere ridotto a qualcosa di nauseante. Ha dimostrato, sino all'eccesso, come gli uomini e le donne siano esseri dominati dai propri istinti, incapaci per colpa dei loro impulsi di distinguere la finzione dalla realtà. Queste sue tematiche disturbanti hanno fatto di lui un regista sui generis; amato ed odiato per il suo stile, ha lasciato comunque un'impronta evidente in quel sottogenere definito body
horror grazie a prodotti come Il demone sotto la pelle, La mosca, Videodrome e M. Butterfl.y. Le sue pellicole successive, a partire da quella tratta dal romanzo
di Patrick McGrath, han segnato un'evoluzione nel suo cinema, sancendo una maturità soprattutto nei contenuti: A History of
Violence, La promessa dell'assassino e Cosmopolis sono film pregevoli sotto ogni aspetto, in cui l'autore è rimasto fedele a quelle che sono le sue ossessioni, approfondendo però le dinamiche della narrazione attraverso una maggiore analisi psicologica delle azioni dei personaggi, senza schiacciare il pedale sugli elementi morbosi che hanno caratterizzato i suoi film precedenti. Assieme ad un altro grande cineasta come David Lynch, è senza dubbio il regista che ha dato il maggior contributo nell'indagine della psicologia perversa degli uomini; addentrandosi nei labirinti della mente umana, filma e proietta quello che molti registi considerano sconveniente con l'intenzione di turbare ed affascinare lo spettatore, in uno stile unico ed inimitato. (Giovanni Pesce)
Videodrome, di David Cronenberg, Canada 1983. Edizione Universal Pictures, 2008 A History ofViolence, di David Cronenberg, Stati Uniti-Germania 2005.
Edizione 01 Distribution, 2006
Terrence Malick (1943) Alle radici del senso. Natura, caos, pòlemos. Cinema della grazia, perpetua interrogazione interiore. Non è un oggetto classificabile il cinema di Terrence Malick. Totalmente alieno rispetto al cinema suo contemporaneo, Malick in una carriera che nell'arco di quarant'anni ha prodotto solo sette film ha condotto una personale ed unica opera di fecondazione della settima arte con la riflessione filosofica. Del 1973 l'esordio, già perfettamente compiuto, con La rabbia
giovane, raffinato detour di due nuovi Bonnie e Clyde dentro le badlands dell'America profonda. Di cinque anni successivo l'elegiaco e crepuscolare I giorni del cielo, magnifico racconto di amore e di morte glorificato dalla sublime fotografia di Nestor Almendros e dalle note di Ennio Morricone. Dopo un intervallo di vent'anni il maestoso ritorno con un altro capolavoro assoluto, riflessione tra le più profonde di tutta la storia del cinema sul destino dell'uomo, La sottile
linea rossa, ambientato a Guadalcanal durante la Seconda guerra mondiale. Del 2011 un nuovo inizio, con un'altra opera di enorme portata come The Tree ofLife, Palma d'oro al Festival di Cannes e radicale palingenesi della settima arte in forma di flusso di coscienza. Se il suo cinema, fondato sull'utilizzo di stilemi caratteristici come il monologo interiore, le soggettive dei personaggi, i fluidi movimenti di macchina e le partiture di musica classica, con gli anni ha conquistato il consenso di un pubblico entusiasta di ammiratori, la figura di Malick si è ammantata di un'aura di mistero sempre più densa. Non un'intervista, una dichiarazione, un'apparizione del regista ha accompagnato la lavorazione e l'uscita dei suoi film. Se davvero l'essenziale è invisibile agli occhi, Terrence Malick ha scelto il modo migliore per vivere soltanto attraverso i suoi film. Come un raggio di sole che attraversa le nubi in un'alba colorata di rosa, principio e sintesi di tutto il suo cinema. (Stefano Lorusso)
La sottile linea rossa, di Terrence Malick, Stati Uniti 1998. Edizione 20th Century Fox, 2002
The Tree ofLife, di Terrence Malick, Stati Uniti 2011. Edizione 01 Distribution, 2011
Tony Scott (1944 - 2012) Il 2012 è stato, purtroppo, lo scenario della tragica scomparsa di uno fra i più celebri e acclamati registi di Hollyv,ood. 1119 agosto, inspiegabilmente, Tony Scott si toglie la vita gettandosi dal Vincent Thomas Bridge di Los Angeles. La sua brillante carriera decolla negli anni Ottanta grazie a film cult quali Top Gun e Giorni di Tuono (permettendo l'ascesa al successo di un giovanissimo Tom Cruise) e mostra subito la predilezione del regista per i film d'azione pieni di adrenalina. Tony ha molto talento ma deve fare i conti con l'ingombrante celebrità del fratello maggiore, l'altrettanto talentuoso Ridley (Alien, Blade Runner), il quale, spesso, lo mette in ombra. Da molti
considerato meno creativo del fratello, Tony continua a dirigere film alla sua maniera, con quel suo stile patinato che spesso gli viene criticato ma che gli permette di farsi un nome come regista di action • movie.
Negli anni Novanta Scott si fa notare con pellicole come Una vita al massimo Oa cui sceneggiatura viene portata alla sua attenzione da
Quentin Tarantino, assieme a quella di Le Iene), The Fan - Il mito e
Nemico Pubblico. Il nuovo millennio inizia alla grande con la regia dell'ottimo Spy Game (2001), con Robert Redford e Brad Pitt, e, nel 2004,
di Man on Fire, iniziando la collaborazione con colui che
diventerà il suo attore feticcio, Denzel Washington; con quest'ultimo gira i suoi ultimi tre lavori da regista, Dèjà Vu (2006), Pelham 123 (2009) e
Unstoppable (2010). Tra gli ultimi progetti anche la
produzione di Life in a Day, monumentale raccolta di frammenti video inviati dagli utenti di YouTube, primo tentativo di erigere un monumento artistico alla vita ai tempi del ,veb 2.0 e che trasmette una pregevole, e senza tempo, lezione di umanismo. Nonostante l'improvvisa scomparsa, che ha lasciato sgomento tutto il mondo del cinema, Tony Scott viene ricordato e celebrato come un grande di Holl}"vood, capace di scostarsi e distinguersi dal fratello e ritagliarsi un posto di tutto rispetto nell'universo cinematografico. (Michele Puleio) Una vita al massimo, di Tony Scott, Stati Uniti-Francia 1993.
Edizione Cecchi Gori, 2013 Spy Game, di Tony Scott, Stati Uniti 2001. Edizione Medusa
Video, 2005
RainerWerner Fassbinder (1945- 1982)
Gli eroi di Rainer Werner Fassbinder erano gli emarginati, cui opponeva le schiere minacciose dei borghesi nello squallore della loro vita. Da anarchico attaccava l'ideologia borghese nel momento stesso del suo trionfo, innalzandone le vittime ad eroi. La rappresentazione aweniva seguendo e sowertendo i codici del melodramma più classico fino ad arrivare a una ristrutturazione post neo-oggettiva. Tutto viziato da un particolarissimo sarcasmo compiaciuto, quello della teatralità della messa in scena. In fondo tutta la gigantesca opera di Fassbinder non fa altro che dimostrare come ogni cosa sia solo un'espansione del gran teatro che è il mondo. Nella sua breve e intensa vita, attraversata da passioni laceranti, avrebbe lasciato il segno nel cinema europeo con più di quaranta film e molte regie teatrali. L'incontro più importante della sua vita risale al 1966, con l'attrice Hannah Schygulla con cui avviò un sodalizio che sarebbe durato fino alla morte. L'esordio L'amore è piùfreddo della morte fu presentato alla Berlinale nel 1969. Del 1970 il dramma Il soldato americano. A quel periodo risalgono due tra i suoi film più assoluti e meno considerati: Attenzione alla puttana santa, straordinaria e controversa dichiarazione d'amore per il cinema; n mondo sul.filo, racconto di fantascienza che profetizzò l'awento dell'era mediatica.
Le lacrime amare di Petra von Kant, segnò l'inizio del periodo dei melodrammi, anche a sfondo personale, del resto arte e vita reale si fondono nelle sue opere. Despair (1978) è il primo film internazionale. Nello stesso anno firmò uno degli episodi di
Germania in autunno, sulla cupa stagione del terrorismo, e diresse Un anno con tredici lune. Seguì il suo film più celebrato, Il matrimonio di Maria Braun, primo capitolo di una serie dedicata agli anni Cinquanta. Querelle de Brest è il canto d'amore di chi sta per morire, con un'indimenticabile Jeanne Moreau, che canta "ogni uomo uccide ciò che ama". Lui si è sempre amato e in un certo senso, nonostante tutto, è sempre riuscito a farsi amare. (Erik Negro)
Attenzione alla puttana santa, di Rainer Werner Fassbinder, Germania Ovest 1971. Edizione Storm Video, 2009
Querelle de Brest, di Rainer Werner Fassbinder, Germania OvestFrancia 1982. Edizione Ripley's Home Video, 2009
Wim Wenders (1945) Un regista disilluso si aggira per le strade di Lisbona reggendo una telecamera con l'obiettivo rivolto alle sue spalle. "Queste immagini rappresentano la città com'è e non come vorrei che fosse": queste parole, pronunciate dal protagonista di Lisbon Story, descrivono una delle caratteristiche comuni agli esponenti del Nuovo cinema tedesco: come entomologi che studiano le dinamiche degli insetti, così essi indagano nelle esistenze umane senza interferire nelle azioni dei personaggi, senza che i loro virtuosismi registici possano contaminare la realtà in cui agiscono. Wim Wenders ne è sicuramente tra i massimi esponenti: coerente con questa poetica, ha affrontato diverse tematiche fra cui il viaggio, la ricerca di un'identità e della famiglia lasciando un'impronta originale nella cinematografia contemporanea. Autore eclettico, si distingue per aver diretto lungometraggi e documentari eterogenei fra loro ma accomunati da una grande abilità stilistica nella messinscena, attraverso un eccellente uso della fotografia e della luce, capace di esaltare e oscurare sia gli interni che gli esterni. L'esaltazione dello spazio è una caratteristica ricorrente del suo cinema; senza diventare un personaggio, diviene elemento capace di sopperire alla lentezza della narrazione, lentezza ricercata proprio per permettere allo spettatore di godere dell'ottimo apporto della fotografia (caratteristica che emerge nelle riprese del deserto in Paris,
Texas e in quelle aeree de Il cielo sopra Berlino). Da sottolineare anche la capacità del regista di creare uno stretto legame fra le immagini e la colonna sonora: caratteristica che emerge soprattutto nelle opere con taglio documentaristico, come nel già citato Lisbon Story e in Buena Vista Social Club, dove questi due elementi si fondono in uno spettacolo che appaga i sensi. Molto apprezzato ali'estero, ha il merito di aver divulgato il suo stile anche al di fuori del territorio tedesco, riuscendo a mantenere le caratteristiche che hanno influito sulla sua identità di cineasta. (Giovanni Pesce)
Paris, Texas, di Wim Wenders, Germania Ovest-Francia-Regno Unito 1984. Edizione Ripley's Home Video, 2009 Lisbon story, di Wim Wenders, Germania-Portogallo 1994. Edizione Dell'angelo Pictures, 2011
David Lynch (1946) David Lynch è un po' quel compagno di classe delle superiori; quello strano, col taglio di capelli alternativo che ha idee geniali ma alquanto contorte. Non è un animale da box office ma non è questa la sua prerogativa, poiché uomo tanto intraprendente quanto coerente. Dire che è solo un regista è comunque riduttivo, perché è anche pittore, musicista, compositore nonché attore, montatore, produttore, sceneggiatore e scenografo; ebbene sì, ha anche progettato mobili che sono poi apparsi nei suoi film. Dopo alcuni cortometraggi e una travagliata e tortuosa produzione, si fa notare per Eraserhead, che presto diventa un cult d'avanguardia. Lynch adora avere sotto controllo tutto: dalla produzione al montaggio e quando questo non avviene nascono problemi, come per Dune, quando non accetta come propria creatura un film di cui aveva perso le redini dopo le riprese. Fortunatamente le precedenti otto nomination all'Oscar per The Elephant Man non vengono messe in discussione e le successive ottime critiche per
Velluto Blu lo candidano ad un'altra nomination come Miglior regia. Qui inizia il sodalizio musical-cinematografico con Angelo Badalamenti e si intensifica il tema della donna in pericolo, ripreso poi nel telefilm degli anni Novanta Twin Peaks. Capace di raccontare storie tremendamente semplici come Una Storia Vera e di arrivare a rompicapi surreali che spingono lo spettatore in una selva di interpretazioni contrastanti: da Strade Perdute a Mullholland Drive, ricchi di scene per nulla lineari, capaci di insediarsi nelle menti con un'apparente mancanza di significato, girate in set urbani lontani dalla confusione e immersi in un'illusoria pace che nasconde i risvolti più cupi ed enigmatici.
Inland Empire è il suo ultimo lungometraggio. Non esiste modo più semplice per comprendere Lynch e i suoi film che evitare di scervellarsi: sarà tutto molto lento, abituatevi a superare il limite della realtà oggettiva.
(Nicholas David Altea) The Elephant Man, di David Lynch, Stati Uniti-Regno Unito 1980. Edizione Universal Pictures, 2002 Mulholland Drive, di David Lynch, Stati Uniti-Francia 2001. Edizione Universal Pictures, 2002
Rogério Sganzerla (1946- 2004) Per parlare di Rogério Sganzerla ci tocca per forza raccontare cos'è stato il cinema "marginai" in Brasile. Già il nome esprime la disapprovazione degli autori del Cinema novo. Il peccato di questo cinema più selvaggio e intuitivo era quello di non fare film politici, sperimentare un nuovo linguaggio a partire dal cinema di genere. Parlare del niente fa il tutto, al contrario di quelli che nel cinema hanno tutto e non fanno niente, come per dire che il linguaggio è già tutto, già cinema, già politica. Sganzerla a Sao Paulo inizia ad amare il cinema giapponese, Godard, Fuller, Ha,vks, Welles. Da critico cinematografico loda, primo fra tutti in Brasile, il cinema che ama. Il suo primo cortometraggio (Documentario, 1966) sprizza Godard da tutti i pori, anche se fa dire a uno dei due personaggi "Basta con le Nouvelle Vague importate". Basta un solo fotogramma di questo esordio per capire che il cinema sganzerliano è fortemente politico. Politica che resta fuori campo: è lì che si pone la riflessione su un paese pieno di contraddizioni e differenze. Solo superficialmente, quindi, il cinema di Sganzerla si presenta come una pochade, un diuertissement, in cui adatta i generi a un pubblico popolare. Il suo capolavoro O Bandido da Luz Vermelha (1968) è uno pseudo gangster movie dalla narrazione frammentata: visionario, pazzoide, lucidamente politico, montato con rara maestria, ritmato e musicato con creatività, coraggioso espressivamente e per i contenuti, dove si denuncia l'egemonia culturale e politica dell'Occidente, annunciando la rivoluzione ventura. In pratica tutto Sganzerla. In questo cinema così frammentato non mancano riferimenti colti, omaggi ad autori amati e riflessioni sul Brasile: insomma una vera e propria doppia lettura. Sia che ci si fermi alla superficie o ci si addentri in profondità, il suo cinema è un riuscitissimo esperimento di pratica alta e bassa nella stessa opera. Un cinema d'avanguardia come non se ne fa più, che è allo stesso tempo una lezione per le future generazioni di cineasti. (Erik Negro)
O Bandido da Luz Vermelha, di Rogério Sganzerla, Brasile 1968. Edizione Versati} Filmes, 2012 Sem Essa, Aranha, di Rogério Sganzerla, Brasile 1970. Edizione Lume Filmes, 2005
Steven Spielberg (1946) Esiste una sottile linea capace di attraversare indenne il labirinto in cui svaniscono le sfumature che separano il mondo degli adulti da quello dei bambini, il mondo della finzione da quello della realtà, questa linea è lo strumento del narratore, capace di inglobare nel suo universo di parole e d'immagini tutte le impressioni che la sua visita nel labirinto ha suscitato. Steven Spielberg è sicuramente uno dei più dotati, versatili, narratori del cinema contemporaneo. Capace di
inventare mondi, mostri e sogni che nella pura libertà della visioneevasione permettono allo spettatore di scendere a patti con le sue
. . .' .
emozioni piu inconsce.
La paranoia di qualcuno che ti insegue e di cui non riesci a distinguere l'identità e le intenzioni, come in Duel, esordio folgorante quanto complesso nella sua apparente semplicità. La paura di quello che si nasconde nelle profondità del mare come nel primo grande successo di pubblico, Lo squalo, del 1975. La curiosità per l'immenso che si cela nello spazio infinito sopra di noi, come E.T. e Incontri
ravvicinati del terzo tipo: usare l'altro mondo per scrutare più a fondo nel più intimo dei nostri mondi, la casa. Autore di saghe (Indiana Jones, Jurassic Park); di adattamenti di autori complessi come Ballard per L'impero del sole; di film sull'olocausto, Shinder's List; Spielberg è sempre riuscito, come nell'eccezionale Salvate il soldato Ryan, a spingere sempre più in là i confini del filmabile all'interno di un cinema d'intrattenimento di alto livello. Dopo 1'11 settembre i suoi film si sono fatti cupi e, in un costante ricorso alla metafora - come in Minority Report, The
Terminal, Munich - è riuscito a raccontare al grande pubblico l'incubo americano, quella "fine della vacanza dalla Storia" che l'America e gli americani hanno vissuto e continuano a vivere. Un grande narratore capace di grandi narrazioni. Un'equazione non sempre scontata e che l'ultimo film, Lincoln, in quel drammatico rimando al presente, esemplifica in maniera straordinaria. (Luca Ferrando) Lo squalo, di Steven Spielberg, Stati Uniti 1975. Edizione
U niversal Pictures,
2004
Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, Stati Uniti 1998. Edizione Paramount,
2002
John Carpenter (1948)
Aggressivo, viscerale e sanguigno. In sintesi, il cinema di J ohn Carpenter. Con l'avvento della New Holl)7\vood gli si deve l'evoluzione linguistica di horror e fantascienza: maggiore ricchezza stilistica, soluzioni capaci di evidenziare l'abilità del regista nel dirigere e nel concepire un prodotto che non risultasse solo truculento, grottesco e per un pubblico di poche pretese. Emblema di questa sua nuova impronta è il prologo di Halloween
- La notte delle streghe, dove assistiamo al cruento omicidio della sorella di Mike Myers (personaggio diventato di diritto un'icona) attraverso la soggettiva dell'assassino, avvolgendo lo spettatore in un'atmosfera asfissiante e carica di tensione, in un tutt'uno fra l'occhio e la cinepresa. Tensione che non scema, ma anzi aumenta nel successivo La cosa (primo capitolo di quella che è stata definita la "Trilogia dell'Apocalisse", proseguita con Il signore del Male e Il seme
dellafollia, tutti da non perdere): una base scientifica nell'Antartide è attaccata da un essere alieno, una creatura senza una forma propria che inesorabilmente stermina l'equipaggio della base assumendo le sembianze degli scienziati, celando il suo aspetto e creando una spirale di sospetti e paure fra le vittime. Oltre a Myers, a Carpenter si deve un'altra icona: un detenuto condannato alla pena capitale in grado di cavarsela e di uscire fuori dalle situazioni più pericolose e complicate: Jena Plissken; Carpenter infatti, un anno prima de La cosa, dirige 1997: Fuga da New York, interpretato dal suo attore feticcio Kurt Russell, dove il protagonista è costretto a salvare il presidente degli Stati Uniti precipitato col suo aereo in una New York da incubo, ridotta ad un immenso penitenziario in uno scenario apocalittico. Un vero e proprio oggetto di culto. Pochi registi come lui si son meritati la fama di autori cult. Per quanto con esiti diseguali, ha avuto senza dubbio il merito di nobilitare il cinema horror americano con la raffinatezza delle sue scelte stilistiche. (Giovanni Pesce)
Halloween - La notte delle streghe, di John Carpenter, Stati Uniti 1978. Edizione Dell'angelo Pictures, 2006
1997: Fuga da New York, di John Carpenter, Stati Uniti-Regno
Unito 1981. Edizione Universal Pictures, 2004
John Landis (1950) La storia del cinema è attraversata da registi che più di altri hanno lasciato una traccia indelebile nella cultura di una generazione. John Landis è uno di questi: un regista capace di influire sulle mode con i suoi film rendendoli fenomeni di costume. Landis deve la sua fama in particolare a due film, capostipiti della comicità demenziale, imitati senza successo negli anni a venire, permeati da una vena d'irresistibile anarchia che li rende tutt'ora dei classici intramontabili: Animal
House e The Blues Brothers. Se il primo è un inno all'insurrezione contro il perbenismo del mondo accademico americano, incarnato da personaggi macchiettistici ed eccessivi, il secondo è un grandioso omaggio alla musica blues: The Blues Brothers è il film di culto per eccellenza. Epico, geniale e trasgressivo, un susseguirsi di sequenze entrate di diritto nella storia del cinema, commentate e accompagnate da brani musicali storici, interpretati da titani come Ray Charles e Cab Callo\vay. Due film la cui resa è inscindibile dallo stile imposto dal regista, caratterizzato dall'orchestrare scene di massa avvolte nel caos più totale ma in perfetta armonia con l'evolversi della narrazione; dal già citato uso di una colonna sonora ricercata e mai banale; dal rispetto dei tempi comici andando sopra le righe senza farne un uso smodato o senza cadere nel cattivo gusto. Oltre a queste peculiarità, le opere di Landis si contraddistinguono anche per una dose abbondante di humour nero, pungente e mai scontato. Il regista è stato capace di farne un uso così originale da legarlo indissolubilmente al suo nome, come testimonia Un lupo
mannaro americano a Londra, uno dei capostipiti del genere. È doveroso ricordare infine come l'attività artistica di Landis sia legata a uno dei più grandi attori comici della Ne,v HollY'vood, nonché una delle personalità più carismatiche di quel periodo: John Belushi. Interprete dei suoi film cult, ha contribuito non poco a rendere immortali questi lungometraggi, senza offuscare il tocco del regista. (Giovanni Pesce)
Animal House, di John Landis, Stati Uniti 1978. Edizione Universal Pictures, 2004
The Blues Brothers, di John Landis, Stati Uniti 1980. Edizione Universal Pictures, 2003
Kathryn Bigelow (1951) Avete presente Point Break? Primo e unico caso di genere poliziesco-surfista, con livelli di testosterone da cardiopalma? Un cult per tutti coloro che erano teenager alla fine degli anni Ottanta. Proprio quel film in cui c'è un piano-sequenza in cui, partendo da terra, si viene catapultati su un piccolo aereo, poi fuori da esso, infine ci si tuffa in acqua. Dalle riprese aeree a quelle subacquee in un attimo, compresa coreografia di gruppo in caduta libera. Beh, la regista è una donna. È Kathryn Bigelow, regista, sceneggiatrice e produttrice. Kathryn ha anche firmato Strange Days, racconto tra il noir e il fantascientifico, spesso sottovalutato ma che a tratti riesce a non far rimpiangere Blade Runner. Anche in questa opera la Bigelow ha un gusto tipicamente maschile, le figure femminili sono una prostituta uccisa, una prostituta viva ed un'arma letale che fa da guardia del corpo al protagonista. La lista potrebbe continuare con K-19, ambientato in un sottomarino e l'ultimo Zero Dark Thirty in cui si racconta di un gruppo di Navy SEAL che cattura Osama Bin Laden. Niente di più maschile. Il titolo sicuramente più importante per Kathryn Bigelow è The
Hurt Locker, incentrato su un gruppo di artificieri e sminatori dell'esercito statunitense in missione in Iraq. È il più importante perché le ha permesso di vincere l'Oscar per la regia nel 2010, finora unica donna a riuscire nell'impresa. Insomma la sua era tutta una strategia: per vincere un premio vinto fino ad allora solo da uomini, l'unico modo era pensare come un uomo, e così ha fatto. Come detto, l'ultima fatica della Bigelo,v è Zero Dark Thirty in cui narra l'opera di intelligence che ha portato alla scoperta del nascondiglio di Osama Bin Laden. Anche qua azione e vicende belliche dominano la scena ma il protagonista è... una donna. Il film ha ricevuto numerose nomination agli Oscar 2013. (Valerio Orsolini)
Point Break, di Kathryn Bigelo,v, Stati Uniti 1991. Edizione Warner Home Video, 2011 The Hurt Locker, di Kathryn Bigelow, Stati Uniti 2008. Edizione Cde, 2009
Roberto Benigni (1952) Benigni non recita, non dirige. Benigni è. I suoi film, i suoi personaggi sono lo specchio della sua persona. In determinate circostanze viene naturale porsi l'interrogativo su dove e in cosa stia il confine tra l'identità di un artista e le sue creazioni. Per Benigni non è così, ogni suo film è una parte di sé; buffonesca, ilare, romantica o tragica. Di una cosa si ha la consapevolezza: Benigni è un comico, uno dei migliori viventi. L'arte comica è la più complicata forma d'arte recitativa, in cui l'attore deve fondare la sua performance in un connubio fra tempo e ritmo, avvalendosi di una visione a trecentosessanta gradi in modo da far scaturire l'elemento comico da ogni situazione. Le pellicole di cui è autore si reggono principalmente sulla sua
performance, colonna portante dei suoi successi, in una scelta di stile che predilige soffermarsi sul lavoro degli attori. Il dispositivo comico esplode in due modi diversi: attraverso l'oralità, tra equivoci verbali e giochi linguistici, come emerge in Tu mi turbi o in Johnny Stecchino; o attraverso una comicità fisica, più vicina a Chaplin e a Groucho Marx, frenetica ed esilarante come in Il mostro. Un talento altrettanto efficace in lungometraggi dai toni più sommessi; in La vita è bella e in La tigre e la neve la consueta buffoneria resta in secondo piano a favore di una delicatezza di fondo dovuta ai temi delle due pellicole, che portano alla luce il lato più romantico e sognatore del regista toscano, che assume il ruolo di paladino dell'amore contrastato da avversità esterne e agghiaccianti. La sua rara presenza scenica è centrale ma non si accompagna a
una regia monocorde, grazie al contributo di sceneggiature vivaci e ben orchestrate (una menzione doverosa a Vincenzo Cerami) e alla colonna sonora. L'approccio che ha nei confronti del cinema è una dimostrazione del suo eclettismo: attore e regista, è riuscito a infondere nei film la sua vivace personalità senza eccedere, senza andare sopra le righe, dirigendo opere esilaranti e intelligenti, commoventi ma non stucchevoli. (Giovanni Pesce) Il mostro, di Roberto Benigni, Italia-Francia 1994. Edizione Cecchi
Gori,2006
La vita è bella, di Roberto Benigni, Italia 1997. Edizione Cecchi Gori,2002
Gus Van Sant (1952)
Indipendente. Parola di moda, ma definizione che si riempie di significato quando accostata alla parabola artistica di Gus Van Sant, regista libero, poeta dell'adolescenza, critico implacabile dell'America, rigoroso sperimentatore visivo. Nato pittore e designer, affascinato dalla pellicola, frequentatore dell'underground di Los Angeles, esordiente nel 1985 con Mala Noche, interamente autoprodotto. All'alba degli anni Novanta due film lo rendono il campione dell'indie americano, campione di un cinema lontano dal gusto standardizrato dalle major, fatto di pochi soldi e tante idee, espressione degli ultimi vagiti di una controcultura in regressione:
Drugstore Cowboy, con comparsata del mito beat William S. Burroughs, e Belli e dannati. Ideale dittico di personalissima arte visiva, dipinti raffinati di un'adolescenza marginale e disperata, fotografata nell'iconografico nord-ovest, incarnata da attori come Matt Dillon, River Phoenix, Keanu Reeves. In trent'anni di carriera Van Sant ha mantenuto sempre l'integrità di autore e l'aderenza alla sua personale ricerca visiva, anche nei film in cui si è trovato a confronto con le major: Will Hunting - Genio
ribelle e Scoprendo Forrester hanno al centro, come in tanti titoli precedenti e successivi, giovanissimi uomini in cerca di una maturità e di un mentore, di un posto nel mondo per la loro unicità. In una filmografia densa e ricca emerge l'immensità di Elephant, uno dei film-chiave del nuovo secolo. Geniale pedinamento che scompone una giornata come tante in una scuola come tante, adolescenti che camminano avanti e indietro inseguiti da una camera in perpetuo piano sequenza, dispositivo visivo quasi neutro, suprema affermazione della libertà di sguardo dello spettatore. E da pedinatori entriamo nell'orrore della violenza insensata, impotenti assistiamo al massacro compiuto da due dei nostri adolescenti come tanti. Massacro che sarebbe proprio come quello di Columbine, ma che diventa qui opera d'arte astratta senza perdere, anzi acquistando, forza sconvolgente. (Giacomo Lamborizio)
Drugstore Cowboy, di Gus Van Sant, Stati Uniti 1989. Edizione Filmauro, 2005 Elephant, di Gus Van Sant, Stati Uniti 2003. Edizione Bim, 2013
Nanni Moretti (1953) La carriera di Nanni Moretti si articola su un labile confine, una
permeabile cortina di ferro tesa tra privato e politico, tra il particolare dell'intimità personale e famigliare e l'universale della socialità condivisa come italiano, uomo di sinistra, intellettuale. Carriera che ha segnato profondamente il nostro immaginario, mettendo in scena in maniera libera, personale, idiosincratica le nevrosi e le povertà del nostro Paese, condensati in motti fulminanti e sequenze diventate episodi di una mitologia intellettuale: dal "faccio cose vedo gente" alla Sachertorte, il colossale barattolo di Nutella e le parole che "sono importanti", il ballo e la Vespa. Esordisce in super8 con Io sono un autarchico che dai cineforum romani raggiunge notorietà nazionale, seguito da Ecce Bombo: ritratti generazionali spietati e fulminanti, indipendenti sempre, nella produzione e nel pensiero. Filo conduttore è l'alter ego Michele Apicella, il protagonista di quasi tutti i primi film. Gli anni Ottanta restano segnati a fuoco da Bianca, commedia dai toni noir in cui tutte le nevrosi di Apicella-Moretti esplodono violentemente nella nonintegrazione sociale e sentimentale dell'autarchico. Opera spartiacque e capolavoro forse insuperato, Palombella rossa: la piscina come agone della memoria e della personalità del
Michele politico in crisi d'identità come tutta la sinistra italiana al tramonto del PCI, luogo di ritrovamento di un terreno solido da cui ripartire, scavalcare a palombella il pantano di un mondo che parla male, pensa male e vive male. Caro diario porta in scena e mette a nudo come mai prima il privato personale di Moretti, che abbandona la maschera Apicella diventando carne della sua rappresentazione .. Il nuovo millennio è inaugurato da La stanza del.figlio, opera potente e rigorosa, preziosa riflessione sul dolore e la perdita. Negli ultimi anni Moretti allarga il quadro, universalizza il discorso filmico puntando la lente d'ingrandimento sul potere e la sua rappresentazione con due film di altissimo valore come Il caimano e Habemus Papam.
(Giacomo Lamborizio) Palombella rossa, di Nanni Moretti, Italia 1989. Edizione Warner
Home Video, 2007 Caro diario, di Nanni Moretti, Italia-Francia 1993. Edizione
Warner Home Video, 2008
Joel (1954) e Ethan (1957) Coen Il quotidiano come accumulazione comica e tragica dell'imprevedibilità, della pazzia e della violenza dell'individuo qualunque che sopravvive nelle periferie d'America. La dialettica costante tra ristrutturazione e parodia del genere, lì dove lo svelamento del trucco permette al genere di confrontarsi con la sua finzione provocando nello scarto una qualche ammissione di realtà, lasciando i gesti archetipici dei gangster come dei cowboy proprio a quell'uomo qualunque indaffarato più che mai con le sue nevrosi, e che trova riscatto proprio nella reiterazione di gesti ormai stabili nell'immaginario collettivo. Complesso, contradditorio, inquietante, il cinema dei Coen, nella sua impraticabile recinzione in confini definiti, prosegue in un continuo scambio tra il recupero del genere classico e la messa in scena, all'interno di questo apparato sezionato con maniacalità, dell'uomo semplice, del loser, come dimostrano film come Fargo o Arizona Junior. L'esordio Blood Simple rispolvera il noir così come anche Crocevia
della morte. Nel 1991, con Barton Fink, la doppia Palma d'oro a Cannes. 11 successo arriva con Il grande Lebowski, nel 1998. Il film, partito in sordina è diventato poi un cult, remake di Il grande sonno (da Raymond Chandler) è il compendio perfetto di questo innestare nei tessuti del genere il germe dell'anti-eroismo. Il Drugo, il protagonista, è la perfetta antitesi dell'eroe impersonato da Humphrey Bogart nella versione originale. Come si può notare anche in Fratello dove sei?, nel remake di Il
grinta, oppure nella ripresa della commedia americana classica con Ladykillers gli oggetti della loro messa in scena sono proprio i classici su cui l'America ha costruito la sua storia e il suo mito. Il loro cinema restituisce senza soluzioni di continuità infiniti punti di vista sulla Storia e sulle storie, grazie alla magistrale abilità con la macchina da presa, sempre dai movimenti imprevedibili e sempre capace di inquadrare lo scintillante e denso universo racchiuso nelle loro superbe scenografie. (Luca Ferrando)
Fargo, di J. e E. Coen, Stati Uniti 1996. Edizione MGM, 2008 Il grande Lebowski, di Joel e Ethan Coen, Stati Uniti-Regno Unito 1998. Edizione Universal Pictures, 2012
Emir Kusturica (1954) Se esiste, nel cinema contemporaneo, qualcosa di simile al realismo magico di Gabriel Garcia Marquez esso si trova nelle affollate, anarchiche, folli, immensamente vitali e creative, inquadrature di Emir Kusturica. Se esiste un cineasta con un rapporto simbiotico, viscerale, poetico e tragico, con la propria città, questi è Emir Kusturica. Sarajevo: esperimento impervio di convivenza e tolleranza, simbolo della multietnicità della Jugoslavia di Tito, città martire della guerra in cui tale esperimento si è dissolto. C'era una
volta un paese, c'era una volta una città, c'era una volta un regista? La carriera di Kusturica, fin dal meraviglioso esordio Ti ricordi di
Dolly Bell?, è ricca di premi, riconoscimenti, omaggi fino a Underground (1995): summa di un'irriducibilmente personale estetica, opera-mondo prodotta, con soldi serbi, nel pieno della tempesta della guerra in Bosnia. Un capolavoro dall'ideologia scivolosa (suprema e dolente elegia sulla fine di una nazione, tutt'altro che indulgente verso una qualunque delle parti) che rese Kusturica apolide, persona non grata nella città natale lacerata dai nazionalismi e distrutta dall'assedio serbo. Dopo le polemiche, spesso capziose, e l'ingiusta etichetta di complice di Milosevic, Kusturica ha rallentato. Ha mutato la sua arte in maniera, a cominciare dal pur notevole Gatto
nero, gatto bianco, ha cercato se stesso nella musica, si è rispecchiato nella storia di Maradona (Maradona by Kusturica), ha scritto una meravigliosa, dolente e vitalissima, autobiografia. Ma i film più grandi restano lontani. Le sue storie poetiche e forsennate di crescita, di adolescenti in cerca di un posto nel mondo, romantiche e affilate, umanissimi affreschi dal simbolismo visionario capaci di unire il personale e l'universale, di far passare la Storia nei sotterranei di Belgrado ( Underground), in un appartamento popolare di Sarajevo (Papà è in viaggio d'affari) o in un campo nomadi (Il
tempo dei gitani) restano segni di una straordinaria stagione creativa finita ormai da troppi anni. (Giacomo Lamborizio)
Il tempo dei gitani, di Emir Kusturica, Italia 1991. Edizione Warner Home Video, 2007
Underground, di Emir Kusturica, Francia-Germania-UngheriaJugoslavia-Bulgaria 1995. Edizione Lucky Red, 2012
Danny Boyle (1956) Danny Boyle è uno dei registi più influenti della sua generazione, autore tanto visionario e distopico quanto crudamente reale. Nato in Gran Bretagna da emigrati irlandesi, debutta sul grande schermo con
Piccoli omicidi tra amici, dove esordisce anche l'allora sconosciuto e giovanissimo Ewan McGregor.
n successo planetario arriva con il film cult Trainspotting. "Trainspotting" significa letteralmente "guardare i treni passare", ma soprattutto metaforicamente significa guardare la vita scorrere invece
..
di sceglierla. E il primo grande successo di Boyle, lungometraggio sulla Edimburgo dell'eroina e dei tossici basato sull'omonimo romanzo di Irvine W elsh. Pur essendo solamente il suo secondo film, sarà protagonista di un successo tale da imprimere alla carriera del regista una dimensione se vogliamo problematica, come un peso con cui inevitabilmente confrontarsi nel suo cinema ormai rivolto al grande pubblico.
..
E su questa linea interpretativa che troviamo infatti i due film successivi, Una vita esagerata e soprattutto The Beach con i quali Boyle non convince completamente. Quest'ultimo in particolare segna la fine della collaborazione con Ewan McGregor cui Boyle aveva offerto il ruolo di protagonista prima di assegnarlo invece a Leonardo Di Caprio. L'inversione dell'inerzia coincide con il bellissimo 28 giorni dopo, la storia distopica di un uomo che si risveglia dopo ventotto giorni di coma e scopre che il mondo è stato infettato da un virus molto violento e dall'incubazione rapidissima. Nel 2008, a dodici anni di distanza da Trainspotting, arriva la consacrazione definitiva del cinema di Boyle grazie all'altro caposaldo della sua filmografia, The
Millionaire, che vince otto premi Oscar e lo innalza nel pantheon dei grandissimi. Nella sua carriera ha vinto due premi Oscar, il primo nel 2009 con
il già citato The Millionaire (Miglior regia), il secondo nel 2011 con 127 ore premiato per la Miglior sceneggiatura non originale. Curiosità: ha curato la meravigliosa cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Londra 2012. (Alessandro Gandini)
Trainspotting, di Danny Boyle, Regno Unito 1996. Edizione Universal Pictures, 2007
The Millionaire, di Danny Boyle, Regno Unito 2008. Edizione Lucky Red, 2012
Lars Von Trier (1956)
A Lars Von Trier le mezze misure non piacciono e il fatto che il pubblico si divida in modo così netto nei suoi confronti ne è la prova tangibile: il suo cinema o lo si ama follemente o lo si odia ...
intensamente. E inammissibile l'indifferenza. Personalmente appartengo alla prima categoria. Ha dimostrato di conoscere, possedere e domare il linguaggio cinematografico, passando da uno stile privo di ogni tipo di effetto speciale e caratterizzato da un uso perenne della macchina a mano (vedi Dogma 95, manifesto lanciato nel 1995 con Thomas Vinterberg), a quello più sofisticato, rigoroso e attento alla composizione dell'inquadratura adottato negli ultimi anni. E ha scritto alcuni dei personaggi femminili contemporanei più indimenticabili: a dimostrarlo i premi alle sue attrici vinti nei festival internazionali. Ha cavalcato molti generi, plasmandoli a propria immagine e somiglianza: è passato dall'horror (Epidemie, la serie Tv Il Regno) alla slapstick comedy con il folle Il Grande Capo (realizzato interamente con la tecnica automavision, dove un personal computer stabiliva in maniera del tutto casuale cosa e come riprendere), passando per il musical (Dancer in the Dark) fino allo sci-fi riveduto e corretto di
Melancholia, dove un misterioso pianeta minaccia l'intera umanità. Con la prima trilogia "Europa" ha raccontato il collasso sociale che il Vecchio Continente stava attraversando, mentre, con la trilogia sugli "Inetti", ha spinto l'acceleratore su un'emotività più morbosa e instabile. Tuttavia, è con Dogville che ha spezzato un equilibrio in maniera irrevocabile, spogliando il cinema di tutti i fronzoli di cui era vestito e portando l'Uomo a vergognarsi di se stesso. In Antichrist una volpe parla alla telecamera sghignazzando: "D Caos Regna". Una perfetta definizione/simbologia che descrive non solo la sua filmografia, ma anche lo stesso regista. Sta a noi, quindi, decidere da che parte stare, se accettare il suo universo o respingerlo. Nel primo
caso, prepariamoci a metterci costantemente in discussione. (Giuseppe Polenghi) Dancer in the dark, di Lars Von Trier, Danimarca-Germania-Paesi Bassi-Spagna-Argentina-Stati Uniti-Regno Unito-Svezia-FinlandiaIslanda-Norvegia 2000. Edizione Generai Video, 2013
Dogville, di Lars Von Trier, Danimarca-Germania-Paesi BassiItalia-Stati Uniti-Regno Unito-Svezia-Finlandia-Giappone-Norvegia 2003.
Edizione Medusa Video, 2013
Aki Kaurismaki (1957) Kaurismaki è un anarchico, ma anche un integralista, un cane sciolto tutto d'un pezzo. I suoi attori: Matti Pellonpaa, morto prematuramente, un'icona assoluta del cinema underground, nel senso più suburbano e randagio della parola; Kati Outinen, la musa, "scultrice" delle tormentate ed eteree figure femminili, sempre perfetta nel delinearne i profili. Nelle opere di Kaurismaki i dialoghi sono ermetici e diretti "come frecce scoccate da mano sicura", pochi fronzoli e molta sostanza. I volti sono scavati e disillusi, per comunicare non hanno bisogno della mimica; quello che si dice è molto più importante di come viene detto, il perché sta nei lineamenti dei suoi protagonisti. Persone condannate a rimanere sole, anche quando trovano un compagno, spesso altrettanto infelice, diventano nient'altro che una coppia di malinconici innamorati più pronti e consapevoli. La musica e i testi delle canzoni spesso sostituiscono i dialoghi,
manifesto di quello che i personaggi potrebbero urlare se sapessero come farlo e, pensandoci meglio, se avessero in realtà qualcosa da dire. n tutto accompagnato da un'incrollabile e a volte feroce ironia, necessaria a digerire i continui bocconi amari. La rabbia, il dolore e il tormento, così come la gioia e la speranza, tutte emozioni che sembrano avere la stessa espressione e la stessa compostezza nelle varie "maschere" che animano le sue storie. Eppure i seguaci di Kaurismaki distinguono molto chiaramente le diverse sensazioni che vengono inviate e trasmesse dalla messa in scena. Lui stesso in alcune interviste si è definito una personalità ai margini, fondamentalmente asociale, dichiarando che scrive, dirige e produce film più che altro per stare a contatto con la gente, perché in fondo nel quotidiano è un uomo piuttosto solo. Quando conosci il viso di Kaurismaki e scopri il suo modo di parlare, di rispondere a chi lo intervista con quell'ironia quasi timida e nascosta: se Kaurismaki recitasse lo farebbe esattamente come fanno i suoi attori. (Alessandro Francini)
Vita da bohème, di Ald Kaurismaki, Francia-Italia-SveziaFinlandia 1992. Edizione Dolmen Home Video, 2006
Miracolo a Le Havre, di Ald Kaurismaki, Finlandia-FranciaGermania 2011. Edizione Bim, 2012
Spike Lee (1957) Spike Lee compie la sua educazione sentimentale tra i concerti jazz del padre, il Madison Square Garden e la facoltà di cinema della Ne,v York University. Un regista impegnato in prima linea nella distruzione di tutti i ghetti, fisici ma soprattutto intellettuali, a partire da un osservatorio privilegiato riguardo la cultura nera ma con l'ambizione e la forza espressiva di cercare di cambiare l'America tutta. Una politica d'autore già perfettamente limpida nel 1986
quando fa il suo esordio con Lola Darling: un film che affranca la rappresentazione degli afroamericani dagli stereotipi della
blaxploitation, raccontando con soluzioni creative che si rifanno al cinema d'arte europeo la storia di una giovane donna e della sua irrequietezza sentimentale. Al centro, madre e matrigna, crogiuolo di razze e di razzismi, colorata e tetra, violenta e bellissima, Ne,v York. Perché puoi portare un newyorkese fuori da New York ma mai Ne\v York fuori da un nev1yorkese. Amata e odiata patria protagonista indiscussa di tanti grandi film, come in Fa' la cosa giusta, dove un'elettricità cattiva corre come le note di Fight the Power ripetute da cento radio nelle vie di una torrida Bed Stuy mentre esplode l'odio razziale. Ne,vYork visitata in ogni quartiere: la Benson Hurst degli italiani di Summer of
Sam; la Coney Island dei campetti da basket di He Got Game; l'Harlem che cambia la vita di Malcolm X, da malavitoso di strada a icona della liberazione nera. New York accusata ed esaltata nell'epocale invettiva, topografica e sociale, di Montgomery Brogan, lo spacciatore in attesa di scontare la sua pena di La 2s8' ora, il primo film a fare direttamente i conti con la ferita aperta di Ground Zero. Abrasivo e controverso, partigiano sempre, Spike Lee è una delle più profonde coscienze critiche del cinema americano, capace di mettere in luce con coraggio e spietatezza i pregiudizi, l'impatto devastante della monocultura dei mass media, la violenza sempre pronta a esplodere, le diseguaglianze sociali che corrompono e accasciano il suo Paese. (Giacomo Lamborizio)
Fa' la cosa giusta, di Spike Lee, Stati Uniti 1989. Edizione Universal Pictures, 2004
La 2s8' ora, di Spike Lee, Stati Uniti 2002. Edizione Touchstone, 2004
Daniele Ciprì (1962) e Franco Maresco (1958) 1990: esplode una bomba estetica nella televisione italiana. Nel Blob di Enrico Ghezzi compare una Palermo terremotata nell'anima, scavata, sbilenca, grottesca, popolata da mostri e poveri cristi,
..
petomani e vermi, fotografata come un set di Murnau o Lang. E
Cinico Tv, il buco nero dello spirito e del cinema, la più radicale, anarchica, dirompente aggressione della televisione a se stessa, dell'arte alla chiacchiera, della creatività orrenda all'orrore patinato del luogo comune teletrasmesso. I cortometraggi sono firmati da Ciprì - sua l'incredibile fotografia - e Maresco - la voce inquisitoria che estorce le confessioni ai poveri diavoli-, palermitano sodalizio che ha attraversato il cinema italiano per un ventennio, violentando i moralismi da oratorio, disperatamente esilarando gli occhi, i cuori, le menti di chi ancora credeva nelle possibilità del cinema di sconvolgere davvero, di essere totalmente altro da ogni visione possibile, attesa e prevista, passata e futura. L'impatto destabilizzante del loro sguardo entomologico passa al cinema con Lo zio di Brooklyn, summa e punto terminale dell'esperienza di Cinico Tv, mentre con Totò che visse due volte i due affinano definitivamente il loro linguaggio: ultima pellicola italiana a subire il blocco della censura, è un pugno allo stomaco dello spettatore, costretto ad assistere al mero degrado dell'essere umano, avvolto da un esplicito squallore e da un'ostentata blasfemia. Toni più moderati, ma mai edulcorati, sono quelli che caratterizzano Il ritorno
di Cagliostro, ultimo film della coppia, sincero e originale omaggio al cinema come arte, attraverso il racconto tragicomico della nascita di un'immaginaria casa di produzione cinematografica siciliana. "ll cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri", diceva Bazin, Ciprì e Maresco rispondono: "Fingere di vedere, quando invece sappiamo ormai che la luce è andata via per sempre". Filmare ciò che altri rinunciano a filmare, con un rispetto per l'umano velato da un senso di tragica ironia. (Giacomo Lamborizio e Giovanni Pesce)
Cinico Tv (2 Dvd), di Daniele Ciprì e Franco Maresco, Italia 1989-1996. Edizione Cineteca di Bologna, 2013
Totò che visse due volte, di Daniele Ciprì e Franco Maresco, Italia 1998. Edizione Raro Video, 2006
WongKar-wai (1958) Un romantico a Hong Kong. Il cinema di Wong Kar-wai segna un fondamentale punto d'incontro tra la grande tradizione del cinema orientale e la globalizzata influenza dell'estetica occidentale di musica, pubblicità, videoclip. Nato a Shanghai, cresce a Hong Kong, metropoli simbolo di quella contaminazione culturale tra Oriente e Occidente che tanto influenzerà il suo cinema. Esordisce a trent'anni con As
Tears Go By, un po' dramma famigliare un po' yakuza movie ispirato a Mean Streets di Scorsese. Wong ama giocare con i generi, ibridare le grandi tradizioni del cinema di Hong Kong, come l'action movie e il wuxiapian (il film storico, vedi il suoAshes o/Time), producendo pellicole eleganti e ricercate, al tempo stesso fredde e insostenibilmente romantiche, accarezzando con la macchina da presa i profili dei suoi attori (alcuni tra i miti del cinema cinese, da Gong Li a Tony Leung), ricercando ossessivamente il perfetto connubio tra immagini e musica, regalandoci vere sinfonie. Indimenticabile in tal senso Hong Kong
Express, labile incrocio tra due storie d'amore sfortunato nel turbinare incessante della metropoli, scenografia che diventa protagonista assoluta. Hong Kong, questa volta quella degli anni Sessanta in cui il regista è cresciuto, è anche lo sfondo di una delle più belle storie d'amore cinematografiche del nuovo millennio: In the Moodfor Love è pura atmosfera, è il passo cadenzato di Maggie Cheung, algida elegante e bellissima, che scende le scale sulle note di Shigeru Umeyabashi. Imprescindibili capisaldi sono anche 2046, seguito ideale di In the Moodfor Love, in cui viaggia la malinconia di Tony Leung (attoresimbolo, dal carisma incommensurabile) nel tempo e nello spazio, in un caleidoscopio visivo arditissimo e sperimentale; Angeli perduti, che di Hong Kong Express può essere definito il terzo episodio; Days
ofBeing Wild. Nel 2013 The Grandmaster segna un nuovo, straordinario, vertice: affresco di un'epoca in vorticoso mutamento, leoniana ricerca dell'Attimo perfetto nel Tempo che si frantuma. (Giacomo Lamborizio)
In the Moodfor Love, di Wong Kar-,vai, Hong Kong-Francia 2000.
Edizione Lucky Red,
2008
The Grandmaster, di Wong Kar-,vai, Cina-Hong Kong 2013. Edizione Bim, 2014
Todd Solondz (1959) Todd Solondz, classe 1959, è un regista schivo, di nicchia; lontano anni luce dal cinema mainstream, ha saputo realizzare film controcorrente, dalla messa in scena rigorosa, creandosi un suo pubblico che, negli anni, si è espanso anche al di fuori del suo paese natale, gli Stati Uniti. C'è da dire che in Italia i film del nostro sono spesso praticamente ignorati dalle case di distribuzione. Solondz è regista per cinefili appassionati che possono godere dei suoi lavori soprattutto in festival o in circuiti alternativi: possiamo scordarcelo nei multisala o in cartellone per più di un ,veekend. La sua filmografia, ad oggi, conta meno di dieci lungometraggi.
Fuga dalla scuola media è l'esordio tagliente datato 1996, istantanea di una preadolescenza americana totalmente smarrita in una provincia alienante, bigotta e razzista. Happiness è probabilmente il suo lavoro più noto: un intreccio di esistenze umane per un film corale che si avvale di un cast brillante capitanato dai compianti Philip Seymour Hoffman e Ben Gazzara. Le vicende dei protagonisti di Happiness vengono riprese anni dopo nel seguito presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2009, intitolato Perdona e
dimentica. Il cinema del regista di N e\vark offre uno sguardo privo di speranze, spietato, su un'umanità in pezzi. I temi toccati, negli anni, sono molteplici: pedofilia, alcolismo, depressione, dipendenza dai farmaci e un complicato passaggio dall'adolescenza all'età adulta, forse il collante maggiore del suo complesso e, a volte, indigesto lavoro. Gli spettatori di Solondz scoprono ben presto un'America totalmente differente da quella che normalmente vediamo al cinema: il regista infatti non ha alcun timore di raccontare le incoerenze e le lacerazioni del suo paese. Per chi volesse approfondire ulteriormente questo autore sono anche sicuramente degni di nota Palindromes (2004) e il più recente
Dark Horse (2011): entrambi non distribuiti nelle sale italiane ma reperibili sul mercato home-video on-line. (Lucio Laugelli)
Happiness, di Todd Solondz, Stati Uniti 1998. Edizione Bim, 2007 Palindromes, di Todd Solondz, Stati Uniti 2004. Edizione Tartan, 2005
Francesca Archibugi (1960) Lei aveva ventotto anni (ed esordiva nel lungometraggio), io ne compivo sette e ricordo Mignon è partita (1988) come uno dei primissimi racconti per il cinema che ho visto iniziando a capire, a sensazione più che per consapevolezza, di essere affascinata da quel linguaggio. Ho conosciuto prima la storia, vista e rivista nel tempo più volte - è uno di quei film di cui percepisci i livelli di lettura differenti a seconda dell'età - senza però dimenticare le sensazioni date dall'anagrafe del tempo di visione precedente. Subito dopo la storia si è innestato nella "mia bambina" il desiderio di capire "chi la raccontasse" e lì ho conosciuto Francesca Archibugi (e Stefania Sandrelli, e Massimo Dapporto) per voce della mia compagna di visione, mia madre. La neuropsichiatria infantile mi ingloba in prima adolescenza
dentro Il grande cocomero (1993) in cui resto ancora, e di nuovo, affascinata da questa regista che riesce ad aprirmi finestre complesse ma realistiche sul mondo, raccontando con una semplicità profonda, non disturbante per una poco più che bambina, rinnovando lo stimolo di visione {non solo cinematografica, più di vissuto). Quella con la Archibugi è soprattutto una Questione di cuore (2009): Rossi Stuart e Albanese, due uomini che più diversi sulla scena e nella stessa vita non potrebbero essere, inglobati in una stanza di rianimazione imparano a rendersi reciprocamente indispensabili per difetto di cuore, che da malformazione sanitaria muta in eccellenza affettiva. Sceneggia Archibugi, recita Mastroianni in Verso sera (1990 ): le esperienze si possono anche leggere: non c'è bisogno di farle tutte di persona. Francesca Archibugi ha fatto dire al suo Professor Ludovico quello che lei riesce a praticare con maestria, ovvero far appropriare di esperienze non vissute, attraverso la "sola" lettura (filmica). (Nicole Bianchi)
Il grande cocomero, di Francesca Archibugi, Italia-Francia 1993. Edizione Iif Home Video, 2008
Questione di cuore, di Francesca Archibugi, Italia 2009. Edizione 01 Distribution, 2009
Susanne Bier (1960) Non sono molte le donne che si sono imposte a livello internazionale per la loro regia. Susanne Bier è una di queste. Nasce in Danimarca nel 1960, comincia a fare cinema nel 1991 con Freud
fl.yttar hemifran, una commedia in cui una madre, in occasione del suo sessantesimo compleanno, comunica ai figli di essere malata terminale di tumore. n tema della malattia e della morte è quasi sempre presente nel cinema della Bier. Tra il 1991 e il 1999 gira altre cinque pellicole, tutte mai distribuite fuori dal territorio nazionale. Nel 1999 arriva il grande successo con la commedia romantica The
One and the Only, film che detiene ancora il record di incassi nella storia del cinema danese. Nel 2003 gira Open Hearts che le apre anche la strada al successo internazionale vincendo molti premi, tra i quali il Premio Internazionale delle Critica a Toronto. n film appartiene al movimento Dogma 95 fondato da Lars von Trier nel 1995 e chiuso ufficialmente nel 2005. Ulteriore conferma di aver ormai ricevuto attenzione dal panorama cinematografico internazionale, la Bier la ottiene dal premio del pubblico vinto al Sundance e dal Best Acting Award vinto a San Sebastian per il film Non desiderare la donna
d'altri del 2004. In tutto il cinema della Bier sono presenti temi forti e situazioni difficili che mettono i protagonisti di fronte a scelte drammatiche, lei stessa spiega che le sue opere non vogliono dare risposte ma far nascere domande nello spettatore. Inoltre questi accadimenti mostrano come a tutti, in qualsiasi situazione, vengono date nuove possibilità di rinascita Nel 2011 arriva la consacrazione del suo valore con la vittoria del Premio Oscar per il miglior film straniero. n film è In un mondo
migliore che vince anche il Golden Globe sempre come miglior film straniero ed il premio per la regia all'European Film Awards. Nel 2012 torna sugli schermi conAll You Need Is Love, una commedia, non
senza risvolti drammatici, interpretata da Pierce Brosnan. (Valerio Orsolini)
Non desiderare la donna d'altri, di Susanne Bier, Danimarca 2004.
Edizione Cecchi Gori,
2005
In un mondo migliore, di Susanne Bier, Danimarca-Svezia 2010. Edizione Cecchi Gori, 2010
Kim Ki-duk (1960)
Se riconosciamo il fatto che "la settima arte" sia anche sospensione dal quotidiano e indagine profonda dell'inconsueto e del sublime, non si può non considerare l'opera di Kim Ki-duk summa di questo modo di far cinema. Lontano dalla tradizione coreana, il suo immaginario cinematografico, riconosciuto e acclamato in tutto il mondo, s'incentra sul rapporto ossimorico tra realismo e lirismo. Il senso della realtà scaturisce dall'impatto con la potenza visiva, cifra del suo linguaggio espressivo, che fa dei singoli fotogrammi veri e propri dipinti evocanti la sua prima grande passione: la pittura. La macchina da presa non si sforza mai di costruire il significato, che risale naturalmente dalla profondità delle immagini, dove si cela il segreto dell'empatia emotiva provata dinanzi a ciò che si osserva. Nella sua poetica non esistono categorie di giudizio, ma solo un conflitto dialettico tra forze negative (Yin) e forze positive (Yang). Sofferenza, crudeltà quotidiana, solitudine, incomunicabilità, sono le tematiche ricorrenti dei suoi film, legati da una forte simbologia che estrania le vicende dell'umano agire. Alcuni critici non hanno esitato a definire questo stile "Realismo Astratto". Il dolore passa sempre attraverso una ferita aperta, sanguinante, tangibile, come i pesci mutilati di L'isola, uno dei suoi film più riusciti, che diventano metafora dell'anima debilitata dalla crudeltà della vita. Anche nella fase meditativa della sua produzione, si toccano vette di simbolismo poetico, se pur meno contaminate dalla violenza. In Ferro 3 lo spazio diventa trasposizione di un amore spiritualizzato all'estremo e rappresentabile perciò solo attraverso il silenzio. Pochi sono i registi per la cui produzione filmica si può parlare di un vero e proprio progetto di crescita non solo artistica ma anche esperienziale. È il caso di Kim Ki-duk, in cui sembra intravedersi tra un film e il suo precedente un'autentica aspirazione al miglioramento di sé, e che vede in Pietà, Leone d'oro a Venezia nel 2012, il suo momento più alto. (Laura Spina)
L'isola, di Kim Ki-duk, Corea del Sud 2000. Edizione Raro Video, 2012
Pietà, di Kim Ki-duk, Corea del Sud 2012. Edizione Koch Media, 2013
Daniele Luchetti (1960) Daniele Luchetti è uno dei pochi autori contemporanei per il cui cinema non è fuori luogo spendere l'impegnativa etichetta della "commedia all'italiana", tradizione gloriosa la cui formula molti hanno dimenticato, impoverito e tradito. L'esordio alla regia awiene nel 1988 con Domani accadrà. Con Il Portaborse nel 1991 raccoglie il primo grande successo: affilata e
amara messa in scena dell'arroganza del potere, incarnato dall'infame ministro Cesare Botero (Nanni Moretti) cui si contrappone l'onestà ingenua di un professore diventato per necessità portaborse e ghost writer (Silvio Orlando) prima di scoprire l'abissale corruzione del ministro. Un film potente che ha avuto la tempestività di dire tutto proprio all'alba dell'esplosione di Tangentopoli e che mantiene intatta la sua sconvolgente attualità. L'Italia dipinta nei film di Luchetti è un luogo di continua ridefinizione dei concetti di onestà e responsabilità, in cui si muovono personaggi umanamente imperfetti, tentati dalle possibilità di scorciatoie, afflitti dal desolante contesto di un Paese in cui la rettitudine non paga quasi mai. Storie di ricerca e di riaffermazione, cui dà spesso corpo il talento di un attore come Silvio Orlando, come in La scuola dove è professore-eroe nella sua normale attenzione verso gli alunni; o in Arriva la bufera, visionaria commedia in cui è avvocato imbroglione e innamorato in un paese che finisce sommerso da una biblica pioggia di spazzatura. Negli ultimi anni Luchetti ritrova questa capacità mimetica di incarnare l'italiano ambiguamente sospeso tra eroismo e fallimento, sballottato da ideali che non conoscono la realtà delle cose e un'ambiziosa ricerca della felicità in Elio Germano. In Mio fratello è figlio unico, affresco anni Settanta sugli opposti schieramenti di
estremismo politico, e La nostra vita, storia di un muratore in lotta strenua per assicurare il futuro alla famiglia in un mondo in cui l'unica regola è il denaro e tutto il resto rischia di finire inerme e senza senso come il cadavere di un morto sul lavoro. (Giacomo Lamborizio) Il portaborse, di Daniele Luchetti, Italia 1991. Edizione Warner
Home Video, 2007 La nostra vita, di Daniele Luchetti, Italia-Francia 2010. Edizione 01
Distribution, 2010
David Fincher (1962) L'estetica di pubblicità e videoclip ha partorito negli anni Ottanta e Novanta molte nuove leve registiche, tra questi David Fincher. Dopo aver girato oltre cinquanta videoclip, esordisce sul grande schermo con un compito davvero complicato: proseguire uno deifranchise fantascientifici più importanti di sempre con Alien3, pellicola che divide critica e pubblico.
n successo lo raggiunge con Seven, cult movie che sbanca al botteghino e che ne evidenzia lo stile: montaggio serrato, sequenze adrenaliniche, grande abilità con la cinepresa, un'estetica moderna e al passo coi tempi. Dopo quel fenomenale successo inizia la fase forse meno commercialmente fortunata della sua carriera: fra il 1997 e il 2007 gira
The Game, Fight Club, Panie Room e Zodiac, quattro
pellicole che non riusciranno ad eguagliare i sontuosi incassi di Seven, ma che vengono a loro modo apprezzate nel lungo periodo. In particolar modo Fight Club, è un grido disperato contro il consumismo dell'era moderna che si piazza stabilmente fra i film più amati del decennio.
n 2008 vede Fincher rilanciarsi come nome di punta del panorama americano: Il curioso caso di Benjamin Button, stravagante racconto di un uomo nato vecchio e che muore neonato, stupisce il mondo con una storia romantica e potente, avvalsasi di incredibili effetti speciali per mostrare l'insolita evoluzione del protagonista. Da qui in avanti, è un successo dopo raltro: The Social
Network (2010) è la modernissima rappresentazione dei rapporti sociali al tempo di Facebook, Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne (2012) ripensa il primo capitolo della trilogia di Stieg Larsson vicende entrambe stese sul distorto tappeto musicale di Trent Reznor, leader dei Nine Inch Nails. L'ecletticità di Fincher si esprime anche nei nuovi media, fra la regia dello short movie promozionale del videogame Halo 4
(Scanned,
2012)
e la produzione di House Of Cards, primo
esperimento telefilmico della piattaforma di video on demand N etflix, di cui ha anche diretto i primi due episodi. (Alessandro Giordano)
Seven, di David Fincher, Stati Uniti 1995. Edizione Cecchi Gori, 2002
Il curioso caso di Benjamin Button, di David Fincher, Stati Uniti 2008. Edizione W arner Home Video, 2008
Baz Luhrmann (1962)
Baz Luhrmann: amante del musical e delle opere teatrali, unisce le sue passioni inserendole nella sua poetica cinematografica, realizzando fino ad oggi poche opere, ma che si fanno ricordare per la loro magniloquenza e la loro grandeur, barocche rappresentazioni di un cinema classico, impastato però di postmodernismo e pop culture. Quasi tutta la sua storia di regista è riassumibile nella "Trilogia del sipario rosso", una serie di pellicole legate da una precisa direzione artistica, ma fruibili indipendentemente l'una dall'altra. Lurhmann esordisce nel 1992 con Ballroom - Gara di ballo. L'anno in cui tutto cambia è però il 1996, quando esce Romeo +
Giulietta, adattamento ultramoderno dell'opera del sommo bardo William Shakespeare, con un giovane Di Caprio pre-Titanic ed un'acerba Claire Danes. A chiudere la trilogia, quello che ancora adesso è riconosciuto come il compendio dell'estetica luhrmanniana, l'eclettico Moulin
Rouge! (2001), storia di una stella del locale parigino, Satine (una Nicole Kidman mai più così splendente) e della sua relazione con lo scrittore Christian (Ewan McGregor). La mescolanza tra lo stile vintage della Belle Epoque francese e le canzoni della più moderna musica pop creano un legame unico ed irripetibile che fa segnare la rinascita del musical cinematografico, genere rimasto ad ammuffire per qualche tempo nel magazzino della memoria filmica. Passano sette anni e Luhrmann decide di portare sullo schermo la sua terra natale: Australia (2008) è ancora una volta un'operazione rischiosa, dove si tenta di rispolverare il dramma storico, una missione non del tutto riuscita sotto il profilo degli incassi, ma che consegna al pubblico un kolossal vecchio stampo di notevole impatto • •
VlSlVO.
Del 2013 è l'ultima fatica, Il grande Gatsby, trasposizione di un altro mostro sacro della letteratura mondiale, per giunta in tre dimensioni; nei panni di Jay Gatsby c'è Leonardo Di Caprio, che ritrova Luhrmann a quasi vent'anni dalla loro precedente collaborazione. (Alessandro Giordano)
Romeo + Giulietta di William Shakespeare, di Baz Luhrmann, Stati Uniti 1996. Edizione 20th Century Fox, 2002 Moulin Rouge!, di Baz Luhrmann, Stati Uniti-Australia 2001. Edizione 20th Century Fox, 2005
Michel Gondry (1963)
"We're playing those mind games together / Pushing the barriers, planting seeds". La canzone di John Lennon Mind Games sembra perfetta per descrivere l'incredibile circo onirico che è il lavoro audiovisivo di Miche} Gondry. Giochi mentali che piantano semi vitali e caotici nel cervello dello spettatore, dove immaginazione e allucinazione si mescolano in un cocktail lisergico fatto di colori che giocano in un rimescolamento continuo, pareti che perdono la loro funzione di muri portanti per sbriciolarsi mostrandoci come il dentro e il fuori in verità siano la stessa cosa, le forme perdono la loro consistenza originaria per evolversi in sinuose sfumature tra realtà e mondo dei cartoni, dove anche il soggetto viene sdoppiato in una moltiplicazione continua. La produzione di Michel Gondry è un gioco a incastro tra il suo
lavoro come regista di videoclip e quello più strettamente cinematografico. Due percorsi che si avvicendano continuamente, dove l'uno è il terreno di sperimentazione dell'altro, come possiamo vedere proprio nel suo primo film, Human Nature, scritto con Charlie Kaufmann, prosecuzione di un immaginario già presentato all'interno del videoclip Human Behavior di Bjork. Quello della cantante
islandese è solo uno dei grandi nomi della musica con cui ha lavorato: Rolling Stones, Kylie Minogue, Daft Punk, Radiohead, White Stripes. Ancora sceneggiato da Charlie Kaufmann. Se mi lasci ti cancello è una commedia psicologica dove l'amore tra due persone viene trattato in una maniera approfondita e originale, con una venatura romantica disarmante. Con L'arte del sogno continua la sua sperimentazione a sfondo amoroso tra i labirinti delle emozioni, dove sogno e realtà si confondono e i personaggi sfumano sempre di più ai bordi in una fragilità emotiva che li rende unici. Il cammino stravagante del regista prosegue con Be Kind Rewind, un inno al cinema con Jack Black nei panni di uno smagnetizzatore di Vhs, e The Green Hornet, dove riprende le gesta dell'eroe del serial radiofonico del 1936. (Luca Ferrando)
Se mi lasci ti cancello, di Michel Gondry, Stati Uniti 2004. Edizione Eagle Pictures, 2005
Be Kind Rewind - Gli acchiappa.film, di Miche} Gondry, Stati Uniti 2007.
Edizione Bim, 2008
Quentin Tarantino (1963)
Dici "Pulp" e pensi ovviamente a Pulp Fiction e a Quentin Tarantino, maestro del genere in questione, che fa del sangue, della violenza e degli affari loschi il suo stile espressivo. Regista, attore e sceneggiatore, personalità complessa, cinefilo e melomane di livello, il suo cinema è un incedere aggressivo, cadenzato e incessante d'azione e violenza, in mezzo a trame complesse e cast abitualmente stratosferici che di volta in volta hanno visto protagonisti tra gli altri Harvey Keitel, John Travolta, Samuel L. Jackson, Urna Thurman, Bruce Willis, Brad Pitt, solo per citarne alcuni. E poi c'è la musica, elemento fondamentale dei suoi film che si contraddistinguono per la qualità e la ricercatezza delle scelte di soundtrack. La musica è a tutti gli effetti l'asse portante su cui si distende la storia narrata, la spina dorsale del suo cinema, come capita raramente in altri registi. A questo va aggiunta un'altra caratteristica saliente del cinema di Tarantino, quell'incredibile rete di citazioni che si rincorrono da un film a un altro e che sovrappongono spesso le trame tra loro, in un intreccio che aumenta la complessità dei suoi lavori. Citazioni che rimandano a elementi della cultura popolare ed anche ad altri film dello stesso autore, che contribuiscono a quella ricchezza di rimandi intertestuali tipica del postmoderno di cui Tarantino è maestro, che somiglia un po' a quelle scatole di cianfrusaglie da cui esce sempre, inevitabilmente, qualcosa d'inaspettato e non ancora scoperto. La filmografia di Tarantino è di rara qualità, da Le iene a Jackie
Brown, e poi la serie di Kill Bill fino a Bastardi Senza Gloria (Oscar a
Christoph Waltz per il Miglior attore non protagonista). Con al centro, ovviamente, Pulp Fiction, Palma d'Oro a Cannes 1994 e Oscar per la Miglior sceneggiatura nel 1995. Buon ultimo è arrivato Django Unchained, omaggio al Django di Sergio Corbucci del 1966, che ha anch'esso portato in dote due premi Oscar, ancora per la
sceneggiatura e nuovamente a Waltz come attore non protagonista. (Alessandro Gandini) Pulp Fiction, di Quentin Tarantino, Stati Uniti 1994. Edizione Miramax Films, 2011 Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino, Stati Uniti-Germania 2009. Edizione Universal Pictures, 2010
Davide Manuli (1967) Il cinema di Davide Manuli abita i paradossi terminali della ...
modernità. E un cinema di confine, resiliente, ormai quasi invisibile, che vive in una dimensione di sussistenza. Un cinema che vive della sua sola, purissima, arte. Nato a Milano, formatosi all'Actor's Studio di New York, sodale di Al Pacino e Abel Ferrara, Davide Manuli, che iniziò la sua carriera da regista con cortometraggi girati nel già disperatamente outsider super8, ha all'attivo tre lungometraggi:
Girotondo, giro intorno al mondo (1998), Beket (2008) e La leggenda di Kaspar Hauser (2012). Film, accolti e ammirati nei festival di tutto il mondo, le cui apparizioni in sparuti cinema metropolitani sono quasi eventi ufologici. Non è un caso che Davide Manuli abbia scelto un deserto come set. L'arida, crudele bellezza della Gallura, circonda, avvolge, schiaccia, sovrasta nella disperata apertura dei grandangoli pochi personaggi arresi, obliterati, segni culturali arenatisi in una fallimentare ricerca del loro perduto significato. Segni culturali, grumi di senso alla deriva: tali sono i due vagabondi di Beket, Vladimiro ed Estragone che Godot cercano e non aspettano, con gli stessi fallimentari esiti. Tale è Kaspar Hauser, il fanciullo d'Europa, il ragazzo uscito dalla caverna platonica, cui dà radicale alterità l'iconografica androginia di Silvia Calderoni. I protagonisti, terminali schegge di un'Europa culturale agli ultimi rantoli, e i comprimari (cui hanno prestato corpo Vincent Gallo, Fabrizio Gifuni, Freak Antoni, Luciano Curreli, Claudia Gerini), sono imprigionati, senza speranza, ripetitivi e ossessionati dall'effimero, aggrappati a pochi tic verbali che nulla significano come a un salvagente. n linguaggio sfugge, l'occhio si perde nella libertà dei campi lunghi e dei long-take, l'unico varco, l'unica felicità possibile, è nell'alienazione della musica techno: non narrativa, che non connota, postumana e autosufficiente. Come l'arte di Davide Manuli, unica e irriducibile. Necessaria. (Giacomo Lamborizio)
Beket, di Davide Manuli, Italia 2008. Edizione Raro Video, 2010 La leggenda di Kaspar Hauser, di Davide Manuli, Italia 2012. Edizione Cecchi Gori, 2014
Matteo Garrone (1968)
Non ha firmato molti film Matteo Garrone, ma è anche vero che la qualità è quasi sempre meglio della quantità. Tutte le sue biografie iniziano allo stesso modo: "figlio del critico teatrale Nico Garrone", ma non è chiaro perché. Invece è chiaro che ha cominciato a lavorare nel cinema dopo il diploma come aiuto operatore. Questa esperienza ha evidentemente formato Matteo che comincia con la regia di cortometraggi e nel 1996 vince il Sacher Festival, con Silhouette. Nel 1997, forse per non abbandonare terreni conosciuti, Garrone mette intelligentemente insieme più corti e gira Terra di mezzo, film ad episodi sulla conquista di alcuni migranti di un posto dove sopravvivere. Il film vince il premio speciale della giuria al festival Cinemagiovani di Torino. Garrone è lontano dai cliché del cinema italiano, men che meno tentato dai facili costumi della commedia. Il suo è un cinema intellettuale, spesso impegnato. I suoi sono temi spiazzanti e a tratti scomodi. Nel 2002 gira L'imbalsamatore il cui protagonista Peppino è un imbalsamatore nano omosessuale che lavora anche per la malavita. Con questo film trova consenso di critica e pubblico, vincendo due David di Donatello e due Nastri d'argento. Il 2004 lo vede alle prese ancora con temi delicati: ossessione, anoressia e ricatto sentimentale pervadono infatti Primo amore in cui perfeziona lo stile estetico figlio della sua formazione pittorica e le tecniche di produzione così originali da arrivare a sacrificare la tecnica per la pura resa emotiva delle sue scene. Questo mix è spesso vincente con la critica e i giurati dei festival a cui partecipa. Torna dietro la macchina da presa nel 2008 per mettere su pellicola il bestseller di Roberto Saviano, Gomorra, che diventa uno dei casi cinematografici più importanti degli ultimi dieci anni, premiato con il Gran Prix al Festival di Cannes. Quattro anni dopo vince ancora il Gran Prix a Cannes con Reality, film ispirato ai reality televisivi in cui un pescivendolo, convinto di essere stato selezionato come concorrente, diventa folle. (Valerio Orsolini)
L'imbalsamatore, di Matteo Garrone, Italia 2002. Edizione Fandango,2008 Gomorra, di Matteo Garrone, Italia 2008. Edizione 01 Distribution, 2008
Guy Ritchie (1968) Si parla tanto di cinema postmoderno, una categoria critica molto labile e un contenitore che finisce spesso per accogliere opere diversissime, accomunate sostanzialmente dall'essere state prodotte negli ultimi vent'anni. Se c'è un autore da cui non si può prescindere nel descrivere la contemporaneità cinematografica "post-Tarantino", questi è Guy Ritchie. Inglese classe 1968, cacciato da scuola a quindici anni, natural
born director. Fa il suo esordio nel 1998 con Lock & Stock ed è uno di quegli esordi indie che non passano inosservati. Subito acclamato campione del "tarantinismo", mette in realtà tanto di sé e tanto di una Londra periferica e criminale in questo gangster movie atipico, che corre con un ritmo indiavolato intorno a una banda di outsider fatti fessi da un boss spietato, in una corsa contro il tempo per racimolare una fortuna e salvare la pelle. Ritmo e humour, trame tentacolari e casting straordinari (Jason Statham, oltre a Vinnie Jones dai campi della Premiership ai ruoli da duro al cinema, che intuizione!), tanta ottima musica, una babele di lingue e gerghi dei bassifondi. La formula funziona e nel 2000 arriva la consacrazione con i soldi di Hollywood, con Brad Pitt e Benicio del Toro, in The Snatch, che resta forse il suo titolo più amato. Guy sposa Madonna e in Italia diventa "il marito di", costantemente ignorato o irriso dalla critica, poco considerato dai distributori, oggetto negli anni Zero di culto da iniziati. Dopo l'affascinante e cupo Revolver (ancora con l'attore feticcio Jason Statham protagonista) e il ritorno alla mala londinese con il trascurato gioiello RocknRolla la consacrazione di pubblico arriva nel 2009, grazie a
Sherlock Holmes. Ritchie, anche se per la prima volta
non controlla la sceneggiatura, firma una rivisitazione pop e a tutta azione del mito britannico. A oggi è uno dei migliori tecnici della macchina da presa, un talento visionario e i suoi film assomigliano molto a quello che speriamo sia il cinema d'azione del terzo millennio. (Giacomo Lamborizio)
Lock & Stock - Pazzi scatenati, di Guy Ritchie, Regno Unito 1998. Edizione Cecchi Gori, 2002
RocknRolla, di Guy Ritchie, Regno Unito 2008. Edizione Warner Home Video, 2009
Robert Rodriguez (1968) Dicono che prima di fare il regista facesse la cavia per esperimenti, Robert Rodriguez, figlioccio cinematografico di Quentin Tarantino da cui si distanzia per ambientazioni più ,vestern e più vicine all'horror. Rodriguez, per così dire, è il lato torbido di Tarantino, amplificato e rimescolato in salsa latina. La storia di Rodriguez inizia a partire dal pluripremiato
cortometraggio Bedhead, anno 1991, girato quando era al college utilizzando i suoi fratelli e sorelle come attori e la sua famiglia come troupe. L'anno dopo arriva il debutto nei lungometraggi con El
Mariachi, suonatore di chitarra, un film a basso budget, costato solo 7.000 dollari,
premiato agli Independent A,vards del 1994 e al
Sundance Film Festival.
El Mariachi lo lancia nell'Olimpo del genere pulp dal quale, sebbene con differenti sfumature rispetto al suo maestro Tarantino, non uscirà più. Il primo lavoro mainstream a tutti gli effetti nella sua filmografia è Dal Tramonto all'Alba, del 1996, sceneggiato da Tarantino e interpretato tra gli altri da George Clooney, Harvey Keitel e Juliette Lewis. A questo seguono due episodi di Spy Kids e poi un campione d'incassi come Sin City, sempre con la collaborazione di Tarantino, film contraddistinto da un cast che sembra un Ali Star Game del cinema con Bruce Willis e Mickey Rourke a stagliarsi, e che consacra al successo planetario la bellissima Jessica Alba. Arriva poi
Planet Terror, uno zombie splatter vietato ai minori in diversi paesi e che riscuoterà critiche contraddittorie. Come in Tarantino, anche in Rodriguez troviamo la caratteristica di avviluppare le trame dei vari film e intrecciarle sapientemente. È il caso di Machete, del 2010, seguito nel 2013 da Machete Kills!, che altro non è che lo sviluppo del finto trailer presente nei primi minuti di Planet Terror, protagonista Machete Cortès. Il quale è presente anche nella serie Spy Kids, sempre a firma Rodriguez, con il nome di Zio Machete, interpretato sempre da Danny Trejo. (Alessandro Gandini)
Dal tramonto all'alba, di Robert Rodriguez, Stati Uniti 1996. Edizione Miramax Films, 2011
Machete, di Robert Rodriguez, Stati Uniti 2010. Edizione Keyfilms Video, 2011
Wes Anderson (1969)
Se c'è un regista che è riconoscibile a colpo d'occhio dalla visione di una singola inquadratura, probabilmente è proprio lui. Lo stile di W es Anderson è inimitabile: colori accesi e a tinte pastello, inquadrature spesso statiche (quasi dei tableaux vivants), un uso del titolo in sovrimpressione costante e pittoricamente variegato. Oltre ad un apparato visivo unico nel suo genere, lo spettatore riconosce un film di Wes Anderson dai suoi personaggi: vibranti microcosmi di vitale energia, esseri stralunati e allo stesso tempo straordinariamente normali. Anderson è un regista a cui piace essere contornato da fidati compagni di viaggio, da attori feticcio che lo influenzano e che fanno parte dell'universo creativo che si espande nella sua mente, una
pellicola dopo l'altra: i fratelli Wilson, in particolare Owen, con cui redige anche le sceneggiature dei primi film; Jason Sch,vartzman, Bill Murray, Anjelica Huston. Interpreti di vicende surrealiste, malinconiche, intrise di un infantilismo fulminante, ma consapevolmente adulto nella messa in scena. Il cinema di Wes Anderson non racconta solo attraverso dialoghi brillanti ma utilizza con personalità l'elemento musicale per donare alle vicende un senso di meraviglia e stupefazione che le rende uniche. Dall'esordio con Un colpo da dilettanti (1996), passando per Rushmore (1998), storia di un quindicenne innamorato di una
maestra di scuola elementare, fino a I Tenenbaum (2001), quadretto familiare atipico ed irriverente, contenitore di disillusioni ed • amarezze vane. Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) presenta un Bill
Murray "novello Cousteau", assetato di vendetta; Il treno per il Darjelling (2007) è un mistico road movie su tre fratelli che tentano il
ricongiungimento con la madre in India; Fantastic Mr. Fox (2009) è l'approdo di Anderson nel mondo dell'animazione in stop-motion su di una comunità di volpi in lotta contro degli agricoltori. Tra le opere più recenti spicca Moonrise Kingdom, soave storia d'amore fra due ragazzini all'interno di un campeggio quanto mai singolare. (Alessandro Giordano) I Tenenbaum, di Wes Anderson, Stati Uniti 2001. Edizione
Touchstone, 2002 Moonrise Kingdom - Unafu.ga d'amore, di Wes Anderson, Stati
Uniti 2012. Edizione Lucky Red, 2013
SpikeJonze (1969) Regista ma anche giornalista, sceneggiatore e maestro di accostamento fra arte visiva e musica, Spike Jonze è una personalità artistica poliedrica e per certi versi geniale. Nome d'arte di Adam Spiegel, ha numerosi alter ego, fra cui si ricorda lo pseudonimo Richard Koufey con il quale ha firmato il videoclip della canzone
Praise You di Fatboy Slim, nel quale lui stesso è il protagonista: il video con quel matto che balla fuori tempo. Ecco, quel matto è lui. La musica e Jonze hanno un rapporto simbiotico: girare videoclip
musicali è una delle specialità della casa. Ha diretto video per Bjork, Sonic Youth, W eezer e Beastie Boys, ed è suo anche il bellissimo mediometraggio The Suburbs, ispirato all'omonimo album degli Arcade Fire, proiettato dalla band in occasione del loro tour mondiale nel 2011. Allo stato attuale Spike Jonze ha all'attivo quattro lungometraggi. ll primo è Essere John Malkovich, scritto da Charlie Kaufman, autore anche di Il Ladro di Orchidee, anno 2002, film che consente a Chris Cooper di vincere l'Oscar come Miglior attore non protagonista. ll terzo lungometraggio firmato Jonze è Nel Paese delle Creature
Selvagge (2009), adattamento cinematografico del libro illustrato Nel Paese dei Mostri Selvaggi di Maurice Sendak. Nel 2013 Her, storia d'amore tra un uomo e un sistema operativo, prosegue la ricerca di Jonze sulla frammentazione dell'identità, sul labile confine tra realtà e finzione, tra vita e immaginazione, sul dissolvimento dei rapporti interpersonali.
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E l'ideatore, insieme a Johnny Knoxville che ne era il protagonista, della fortunata serie Jackass, trasmessa su M1V nei primi anni Duemila, dalla quale sono stati tratti tre film cui Jonze ha contribuito come sceneggiatore nel primo, come produttore nel secondo, e con entrambe le mansioni nel terzo. Jonze è anche protagonista di una
vita privata molto chiacchierata: ex marito di Sofia Coppola, ex fidanzato di Michelle Williams e Karen O, cantante degli Yeah Yeah Yeahs nonché autrice delle musiche di Nel Paese delle Creature
Selvagge. (Alessandro Gandini)
Essere John Malkovich, di Spike Jonze, Stati Uniti 1999. Edizione Universal Pictures, 2004
Il ladro di orchidee, di Spike Jonze, Stati Uniti 2002. Edizione Sony Pictures, 2003
Paul Thomas Anderson (1970) L'altra faccia del sogno americano, quel dietro le quinte isterico, folle, dove ogni voce si confonde in un borbottio stereofonico che avvolge, annichilisce e lascia in libera uscita la violenza. Il cinema di Paul Thomas Anderson prosegue il discorso iniziato da Robert Altman. Una critica a trecentosessanta gradi che fa scoppiare quella bolla che avvolge e nasconde il torbido agire degli americani in cerca di realizzazione. La frammentazione della storia che si scompone per ricomporsi alla fine uguale, ma stranamente diversa; articolazione di un discorso narrativo su più voci, cercando una coralità che si tocca, ma che non si mescola; lunghi piani sequenza che lasciano la scena a farla da padrone, dove l'occhio del regista non ha più limiti, dove tutto
è messo in mostra e nulla si può più nascondere. I film di Anderson si muovono lungo tutto il Novecento americano. Si comincia con il primo film, Sidney, dove comincia a delinearsi uno dei temi principali che attraversa tutta la sua opera, quello del rapporto tra padre e figlio. Sia nel senso letterale sia in quello figurativo, tutto il cinema di Anderson è pieno di figure di padri tormentati, assenti, di padri putativi che diventato il centro su cui ruotano figli fragili costretti a pagare per colpe non commesse da loro.
Boogie Nights è una panoramica lucida e impietosa sul mondo del porno degli anni Settanta, con tutti i suoi vizi ed eccessi e con una particolare enfasi sul ruolo della famiglia. Famiglie da cui si proviene o che si costruiscono crescendo: dissestate, con i bordi sfilacciati, tenute insieme solo dalla difficoltà dei personaggi di progredire in autonomia. Famiglie e padri sono al centro del capolavoro di Anderson, Magnolia, un film che è un universo di personaggi che si muovono come schegge impazzite in una Los Angeles dove piovono rane. Le figure paterne ambigue e complesse sono presenti anche in Il
petroliere, che racconta l'incredibile scalata al potere di un mercante di oro nero e The Master, sul revival religioso e fanatico che ha invaso l'America del dopoguerra. (Luca Ferrando)
Magnolia, di Paul Thomas Anderson, Stati Uniti 1999. Edizione Medusa Video, 2014
The Master, di Paul Thomas Anderson, Stati Uniti 2012. Edizione Lucky Red, 2013
Chrlstopher Nolan (1970) Correva l'anno 2000 quando un giovane regista inglese decise di dirigere un film al contrario. Avete capito bene. Partendo dal finale e arrivando all'inizio. Il film era Memento e il regista era Christopher Nolan. Classe 1970, Nolan, nell'ultimo decennio ha inanellato una serie di successi tali da diventare uno dei registi più acclamati e desiderati del mondo. Innovativo e fuori dagli schemi, capace di scomporre (e ricombinare) la linearità del classico intreccio narrativo per dare (anche) allo spettatore la possibilità di interpretare la vicenda in mille modi differenti. Dopo la nomination all'Oscar per Memento, nel 2005 Nolan prende le redini della saga di Batman. Con Batman Begins inizia una fantastica trilogia che va a indagare il lato più oscuro dell'uomo pipistrello, dove le battaglie più emozionanti sono quelle che si svolgono nell'animo del protagonista. Eccezionale la capacità di Nolan nell'utilizzare effetti speciali fantasmagorici senza però tralasciare il lato "umano" dei protagonisti, senza il quale una pellicola risulterebbe solo una scatola vuota con una bellissima confezione. Con i due sequel, Il cavaliere oscuro (2008) e Il cavaliere
oscuro -Il ritorno (2012), firma il sodalizio con l'attore Christian Baie e riporta in auge il cupo supereroe che, a quanto pare, aveva ancora molto da dare. Non pago del successo di Batman Begins, il regista inglese intervalla gli altri due capitoli della saga sfornando due gioielli: The Prestige (di nuovo con Baie), thriller ambientato nel Diciannovesimo secolo con protagonista l'indecifrabile mondo dell'illusionismo e
Inception (2010), visionaria pellicola con cui vince ben quattro premi Oscar. Mentre nel primo sono i colpi di scena a farla da padroni assoluti, nel secondo Nolan dà sfogo a tutta la sua più fervida immaginazione unendo una storia geniale Oa possibilità di viaggiare nel mondo dei sogni) a un uso pressoché perfetto di effetti speciali di ultima generazione (Parigi che si ripiega su se stessa è un'immagine a dir poco incredibile). (Michele Puleio)
Batman Begins, di Christopher Nolan, Stati Uniti 2005. Edizione Warner Home Video, 2005
Inception, di Christopher Nolan, Stati Uniti 2010. Edizione Warner Home Video, 2011
Paolo Sorrentino (1970)
"Solo una cosa sopporto. La sfumatura". È sulle sfumature, sulla capacità di mostrare punti di vista inattesi sulle cose, che vive il cinema di Paolo Sorrentino. Esordio folgorante con L'uomo in più, 2001. Antonio
Pisapia, un nome per due: Antonio, ex calciatore
"essenzialmente triste"; Toni, cantante in disgrazia, campione di una napoletanità anarcoide e allergica al luogo comune, baciato da una saggezza gnomica espressa in fulminanti aforismi. Un esordio che esprime una visione estetica già perfettamente formata, uno stile registico personale e raffinato, fatto di piani sequenza, di movimenti di macchina fluidi e arditi, di luci fredde come freddo è l'occhio che osserva con nero sarcasmo, cinico distacco verso i travagli di un'umanità dolente e imperfetta, portata fatalmente all'errore, a sottovalutare le conseguenze delle proprie azioni. Un occhio che non cerca empatia ma che descrive comunque figure vivissime e indimenticabili, grazie anche a interpretazioni attoriali magistrali. La passione per la sfumatura, la consapevolezza che "è meglio
sparare la più grossa cazzata del millennio piuttosto che tribolare nel luogo comune" ha permesso a Sorrentino di sorprendere ed emozionare, di rovesciare le percezioni standardizzate di concetti "pieni" di significati automatici come l'amore - Le conseguenze
dell'amore, freddissimo, rigoroso, potente: il suo film più perfetto-; il potere - Il Divo, la zona grigia della storia patria virata a forti contrasti, musica pop e montaggio rapido -; l'eredità dei padri e la maturità - This Must Be the Place. Nel 2013 La grande bellezza: ambiziosa, dalla potente forza visiva, imperfetta nell'affollarsi dei simboli, parabola sul vuoto e il nulla dell'esistenza, affiorante nel meraviglioso di una Roma astratta, deserta, popolata di fantasmi, da uomini di oscena inutilità arrogantemente convinta della propria necessità. Sforzo totalizzante ed enciclopedico inconsueto per il nostro cinema che, grazie a uno storico Oscar, è già pronto a installarsi nel nostro immaginario. (Giacomo Lamborizio) Le conseguenze dell'amore, di Paolo Sorrentino, Italia 2004.
Edizione Medusa Video, 2005
Il divo, di Paolo Sorrentino, Italia-Francia 2008. Edizione Lucky Red, 2013
Gli autori
Nicbolas David Altea (1985) frequenta la facoltà di Architettura a Torino. Giornalista musicale, collabora e scrive attualmente per
Rumore, BNow ed è responsabile della sezione musica di Paper Street per la quale è anche social media manager e PR manager. Direttore artistico e organizzatore di eventi, suona la batteria nei Femme Fatale. Collabora con l'associazione Alessandria VentiVenti, dedita alla realizzazione di progetti "smart" per la città di Alessandria. Attualmente è anche event planner, pubbliche relazioni e social media manager presso lo studio di comunicazione Stan Wood
Francesco Baucia (1984). Laureato in filosofia all'Università Cattolica di Milano, lavora presso uno studio editoriale. Nel 2013 è uscito il suo primo romanzo, L'ultima analisi (Sedizioni).
Nicole Bianchi (1981), si occupa di cinema e spettacolo: cura il coordinamento editoriale e scrive articoli specialistici per la rivista 8 ½, è autrice televisiva (Rai Movie, Rai Premium, Rai Due, Rai Gulp,
Rai yoyo) e dottore di ricerca in Comunicazione e nuove tecnologie con indirizzo cinema, assistente universitaria a Storia del cinema italiano e Linguaggi del cinema e della tv.
Francesco Biselli (1984). Nel 2011 si laurea dottore magistrale in Storia e società con una tesi su Dillinger è morto e il Sessantotto. In seguito si trasferisce a Milano dove frequenta un Master in Editoria della Cattolica. Dal 2012 collabora regolarmente con l'Editrice Il Castoro. Ha scritto articoli e recensioni di critica cinematografica per diverse riviste online e gestisce un blog di cinema sul sito Spunti di fuga.
Luca Ferrando (1987), dopo la laurea triennale al Dams di Torino, si è laureato con lode in Televisione, cinema e ne,v media presso l'Università Iulm di Milano. Ha partecipato alla realizzazione di numerosi cortometraggi e documentari. Collabora con la Rivista Paper Street e con la Cooperativa Animagiovane, dove si occupa di progetti artistici con fini educativi.
Alessandro Francini (1982). Laureando in Scienze della Comunicazione presso l'Università degli Studi di Genova. Da alcuni anni è impegnato nella realizzazione di videoclip, documentari e video promozionali. Dal 2009 è ideatore e organizzatore della manifestazione cinematografica "Val Bormida Film Festival". Dal 2012 collabora con la rivista on-line Paper Street per la quale scrive articoli e recensioni cinematografiche e con il quotidiano on-line Alessandria Ne,vs per la sezione sportiva.
Alessandro Gandini (1985) è Dottore di ricerca in Sociologia all'Università Statale di Milano, dove studia le nuove forme del lavoro ai tempi della Rete, il lavoro freelance e la reputazione. Collabora con
il Centro Studi Etnografia Digitale ("w\vw.etnografiadigitale.it) e cura il blog Lavoro Digitale su Wired Italia (blog.wired.it/lavorodigitale). Partecipa da anni al progetto Paper Street, per cui si occupa della parte di sviluppo della testata e, nel tempo libero, scrive recensioni di carattere musicale.
Alessandro Giordano (1988), laureato all'Università Iulm in Scienze e Tecnologie della Comunicazione, con successiva specializzazione in Televisione, Cinema e New Media, è grande appassionato di tutto ciò che concerne l'arte visuale, con un forte interesse per l'animazione in ogni sua forma, come testimonia il premio vinto al Future Film Festival 2011 per la sua tesi di laurea sulla Pixar. Mentre prova a diventare il nuovo John Lasseter, scrive e ragiona su cinema e serial Tv per Paper Street.
Giacomo Lamborizio (1987) giornalista pubblicista, è laureato in Comunicazione e Editoria alla Statale di Milano. Nel 2.007 è tra i fondatori della rivista on-line d'informazione culturale Paper Street, di cui attualmente è Vice direttore esecutivo e responsabile della sezione cinema. Attualmente lavora come coordinatore di produzione per la Blue Film di Roma, collabora con LongTake.it e Fabrique du Cinéma. Ha lavorato per Editrice Il Castoro e come critico cinematografico per AlessandriaNews.
Lucio Laugelli (1987). Videomaker e giornalista si laurea a pieni voti presso il Dams di Bologna quindi si specializza alla Iulm di Milano. Ideatore e fondatore della rivista on-line Paper Street, di cui è Direttore esecutivo. Ha all'attivo la regia di numerosi cortometraggi e videoclip; nel 2012 è uscito il suo primo romanzo, L'isola di Nero, edito da Tindari Edizioni. Nel 2009 fo.nda la casa di produzione cinematografica indipendente Middle Crossing. Nello stesso anno inizia a girare i primi audiovisivi. Dal 2011 è Vice-direttore della webzine toscana 4rum.it. Nel 2013 fonda lo studio di comunicazione Stan Wood Studio.
Stefano Lorusso (1983), medico e cinefilo, considera il cinema un'eccellente terapia. È stato collaboratore per la rivista Noctumo, scrive sulle pagine virtuali del cineblog personale Cinedrome (cinedrome2.,vordpress.com), dei siti Paper Street e 1-filmsonline, e del portale Altamuralive. È coautore del volume Il divo di Paolo
Sorrentino - La grandezza dell'enigma, edito da Falsopiano.
Daniel Montiglani (1983), ha conseguito la laurea triennale al Dams di Firenze con una tesi sul film Martha di Rainer Werner Fassbinder e la magistrale in Scienze dello Spettacolo con un'analisi dell'opera del regista Pappi Corsicato. Ha preso parte a eventi culturali come il Festival dei Popoli e il Korea Film Festival. Scrive recensioni cinematografiche per la rivista d'arte online e Casa Editrice PassParNous/Edizioni Psychodream Theater e collabora con la testata giornalistica di recensito.net
Erik Negro (1990). Laureando in Filosofia, ha studiato cinema sperimentale e semiotica dell'immagine in varie università europee. Collaboratore di Fuori Orario, inviato di vari blog e riviste (Berlino, Cannes, Venezia, Locarno ecc...), ha pubblicato saggi sulle nuove filmografie degli anni '60, con consulenze in vari Festival. Ha inoltre tenuto seminari e corsi di critica applicato e cinema d'avanguardia a Madrid. Programmatore e curatore della Cineteca D.W. Griffith di Genova, sta lavorando al suo primo lungometraggio sperimentale.
Valerio Orsolini (1971), un quasi architetto ''laureato" nella costruzione dell'immagine in movimento: regista innamorato del mare per l'ammiraglia di Stato, Rai Uno, ha a lungo girato intorno ai fondali di Linea Blu, accostando una significativa esperienza nella Tv per ragazzi - Rai Gulp e Rai yoyo - misurandosi con la Storia di Rai Edu, oltre che come autore del racconto televisivo dedicato al cinema sul tematico Rai Movie. Non abbandonando il primo amore per la fotografia pura, ha diretto documentari, spot commerciali e un thriller indie. Scrive di cinema per testate specializzate: 8 ½ sulla carta, Paper Street sulla rete.
Giovanni Pesce (1987), diplomatosi al liceo classico "Giovanni Plana" di Alessandria, è co-fondatore di Paper Street per cui collabora come critico cinematografico. Iscritto alla facoltà di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Milano, vanta esperienze attoriali con la compagnia teatrale "I pochi" e nei cortometraggi della casa di produzione cinematografica Middle Crossing, di cui è anche collaboratore nelle fase di pre-produzione degli audiovisivi.
Giuseppe Polenghi (1982). Laureato presso l'Università Cattolica con la tesi "Il Riso Proibito: la commedia holl}'\voodiana e la censura", spinto dalla propria passione per il cinema decide di iscriversi alla Scuole Civiche di Milano. Ora lavora in una casa di produzione come Producer. Si definisce onnivoro di celluloide. Perché
il cinema di BillyWilder e Lars Von Trier? Asciutto ed elegante il primo, provocatorio e ironico il secondo: due stili che lo rappresentano molto.
Michele Puleio (1988). Grande appassionato di cinema e teatro, divoratore di grandi quantità di pellicole, dai blockbuster ai più sconosciuti film indipendenti. Nel 2010 entra nello staff della rivista e associazione culturale Paper Street, con cui collabora tutt'ora. La passione per il teatro viene coltivata con scuole e corsi di recitazione fin dai primi anni di liceo e con la messa in scena di numerosi spettacoli. Nel 2013 entra a far parte della Compagnia Teatrale professionale "Gli Stregatti". Fa parte da sei anni, in qualità di cantante e bassista/chitarrista, della band alternative-rock Femme Fatale.
Laura Spina (1986), è nata a Cariati (Cosenza). Frequenta gli studi classici e si laurea in Scienze per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Parma. Attualmente vive a Parma e collabora con la rivista Paper Street.